Cultura Commestibile 112

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N° 1 12 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Willemstad, uno degli 8 siti Unesco olandesi (senza contare Van Gogh, Vermeer, Bruegel, Bosch, Rembrandt...) Andrei in Olanda a deturpargli i monumenti, ma non ne hanno Fiorello

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N° 112

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Willemstad, uno degli 8 siti Unesco olandesi(senza contare Van Gogh, Vermeer,Bruegel, Bosch, Rembrandt...)

Andrei in Olanda a deturpargli i monumenti, ma non ne hanno Fiorello

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progetto deve lavorare in termini innovativi sulle esigenze nuove che avranno le persone che utilizzeranno in futuro queste strutture. Ed in questo senso, il progetto della stazio-ne rappresentava in quegli anni un grande significato innovativo; non solo era la porta della città, ma era anche il luogo dello scambio, il vero nodo polifunzionale della città. In questo frangente il tema della metamorfosi si innestava su un altro tema che era desunto dalla speci-ficità del luogo. Il luogo prescelto per la nuova stazione era un rilevato ferroviario realizzato nei primi anni del secolo scorso per consentire alla ferrovia di “arrivare” dentro la città, fino a Santa Maria Novella. Un rilevato artificiale di terreno che ci è subito apparso come una matrice di progetto straordinaria perché ci permetteva di non pensare, di non progettare la stazione come tipologia architettonica bloccata nei termini tradizionali, ma di pensarla come una struttura in grande scala facendola assomigliare più ad un “brano di territorio” che ad una nuova architettura. Il progetto diventava, di fatto, la connessione dell’area degli ex-Macelli con la città, attraverso l’area a verde sulla sua copertura. Una sorta di “tetto abitato”, un parco lineare da cui vedere, godere la città da un punto di vista eccentrico e opposto a quello

del Piazzale Michelangelo. Pensa-re un’architettura come fosse un grande giardino pensile era un tema squisitamente “radical”. E questo grande spazio interrato, al di sotto della copertura, pensato come uno spazio ricco di suggestioni si innesta sulla scia di quanto era stato pensato e progettato, molti anni prima, per il museo della Scienza negli Ex-Macel-li che era anch’esso un grande spazio interrato. Ribaltamento funzionale e metamorfosi del luogo. Questi i due temi del progetto.Stammer Il progetto fu molto apprez-zato dalla città. La presentazione fu fatta in un Salone dei Cinquecento affollatissimo, con il plastico del pro-getto posto al centro del grande salone, che si confrontava, quasi alla pari, con il contesto. Ma il progetto non fu realizzato perché il Ministero dei Beni Culturali non concesse la demolizione di alcuni edifici che erano sottoposti a vincolo di tutela. Un vincolo apposto agli inizi degli anni ‘90 su tutte le aree di proprietà delle Ferrovie dello Stato nel momento in cui passarono ad esse-re un Società per Azioni. Un vincolo apposto a scopo tuzioristico, per evitare che decadessero, con il passaggio ad una società di diritto privato, i vincoli che erano latenti per gli edifici di pro-prietà pubblica, ma che vincolò tutto indiscriminatamente, anche edifici demoliti dalle bombe della guerra e ricostruiti negli anni ‘50, in modo

completamente diverso da quanto era stato realizzato, su progetto di Angiolo Mazzoni, intorno alla metà degli anni ‘30 del novecento. Ma il progetto rimane come un elemento simbolico di quel periodo, un periodo nel quale sono state poste le basi della città degli anni futuri. Il ruolo positivo del progetto, dell’i-dea fattasi disegno e concretamente visibile agli occhi anche dei profani, permane. In fondo ancora oggi che si sta realizzando il progetto di Norman Foster, l’idea dello “squalo” come, con toni giornalistici, fu soprannominato il progetto del gruppo Zevi, rimane nell’immaginario della città.Il progetto può rappresentare quelle tensioni e quelle aspirazioni che la città, non solo in quell’occasione, ma molte altre volte, ha espresso. Questo volare alto di Firenze che si è manifestato anche con il progetto di Rogers e Cantella per il recupero delle sponde del fiume come per-corsi pedonali, o come il progetto di una teleferica per il collegamento dell’oltrarno con il Forte Belvedere e il piazzale Michelangelo. Progetti anche provocatori ma progetti capaci di fare pensare ad una città che sognasse elementi di grande novità, come nel passato era stata capace di fare, basta pensare al viale dei Colli di Giuseppe Poggi o, più recentemente, al Palazzo di Giustizia di Leonardo Ricci.Stammer Progetti che segnano anch’es-si il tema della metamorfosi, cioè di un cambiamento dall’interno, operando principalmente, se non esclusivamente, nell’interno della città. E’ questo il sen-so del percorso che stiamo ricostruendo, per leggere i caratteri di una città in continua trasformazione, ma una trasformazione che non ne cambia i caratteri strutturali ma li trasforma, li adegua. E se saranno completati i pro-getti che sono stati approvati e avviati nel primo decennio di questo secolo, la città avrà una trasformazione ancora più forte, ma sempre partendo dal suo interno, dalla sua storia, dalle sue ori-gini, senza aggiunte o “gesti architetto-nici” eclatanti, come altre città hanno voluto fare. Questo modo di procedere è una esigenza posta dallo straordi-nario patrimonio storico, culturale, architettonico della città ma è anche una scelta consapevole, una filosofia dello sviluppo. E molti dei temi dei tuoi progetti stanno in questo percorso di metamorfosi consapevole.Quasi tutti i miei progetti si pos-sono collocare in questo contesto culturale. Il rapporto con il luogo, il confronto fra il progetto e il conte-

Alberto Breschi, classe ‘43, architetto e professore. Dopo la laurea con relatori Leo-

nardo Ricci e Leonardo Savioli si è dedicato all’insegnamento e alla progettazione, lasciando una traccia importante sulla città di Firenze e non solo. John Stammer e Aldo Frangioni lo hanno intervistato il 23 gennaio.Stammer Vorrei iniziare parlando di un progetto non realizzato. Alberto Breschi è un architetto che ha, da poco, lasciato l’insegnamento che ha svolto, con amore e dedizione, presso il Dipartimento di Architettura dell’U-niversità di Firenze. Ma forse pochi sanno che sono le sue idee, i suoi segni, la sua matrice “radical”, che stanno dietro, ma ben visibili per chi sappia guardare, ad uno dei progetti più innovativi pensati in questa città: la stazione della linea ferroviaria veloce a Firenze del gruppo coordinato da Bruno Zevi. Di questo gruppo Alberto Breschi era l’anima progettuale. E’ per questo che vorrei iniziare da una sua valutazione di questo progetto non realizzato, vorrei che ci raccontasse lo “spirito” di quel progetto.Parlo volentieri di quel progetto perché più volte ho avuto modo di tornarci per spiegare anche la “mia storia”, che parte dagli anni della mia laurea, negli anni ‘70, anni in cui facevo parte dell’architettura radicale (nel gruppo ZZiggurat ndr). Eravamo tutti molto diversi gli uni dagli altri. Il nostro gruppo si caratterizzava per la posizione assunta rispetto al “progetto”, che pensavamo potesse rifondarsi su concetti e tematiche di innovazione e cambiamento, ma comunque sempre nel solco di una concretezza possibile. Questa posizione rispetto al progetto è una sorta di “fil rouge” che ha costantemente segnato il mio impegno, dagli inizi fino ai progetti attuali. Nel progetto della nuova sta-zione della linea ad Alta Velocità di Firenze questo concetto è presente con un tema che considero centrale per qualunque progetto di trasfor-mazione a Firenze: la metamorfosi.Il tema della Metamorfosi, ovvero il tema che ogni funzione e ogni tipologia può modificarsi, attraverso il progetto, non solo per la necessità di rinnovarsi rispetto alle esigenze attuali, ma anche per anticipare possibili futuri cambiamenti. Il

L’amoreper la città

di John Stammer e aldo Frangioni

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sto è uno dei temi più dibattuti della cultura architettonica italiana degli anni del secondo dopoguerra, almeno dagli anni ‘80 in poi, dalla crisi irreversibile della tendenza post-moderna.Ma è stato declinato dai diversi progettisti, e dalle diverse tendenze dell’architettura contemporanea, in modo molto diverso.C’è chi vede nel contesto, nel luogo, un carattere così forte da far sì che l’architettura rimanga in sottordine rispetto al preesistente. Sono i pro-getti cosiddetti “identitari” che in qualche modo assegnano al luogo, in particolare in Toscana e a Firenze, una propria “sacralità”, e che conse-gnano il progetto del nuovo ad un ruolo di comprimario, condizionan-do così ogni progetto alle esigenze della conservazione.C’è però anche un altro approccio. E qui si torna al concetto di meta-morfosi. Perché metamorfosi vuol dire evoluzione e cambiamento. Il tema del cambiamento è, a mio parere, connaturato al concetto di architettura. L’architettura non esiste senza un cambiamento. L’architetto questo deve avere nella sua prospet-tiva, a questo è chiamato. Non è stato educato per confermare le cose che sono in atto, ma per innovarle. Deve avere la capacità di proiettare in avanti le esigenze, le funzioni, le attività, i sogni. Deve comunque cercare il cambiamento. La meta-morfosi dice questo. Si parte, si deve partire dal contesto, dalla lettura attenta dell’esistente, di quello che è “radicato”, per evolverlo, per dare al contesto quell’impronta che il mondo contemporaneo richiede. E quando parlo del mondo contem-poraneo non parlo di un termine generico, ma parlo delle esigenze di coloro che hanno oggi vent’anni e che si aspettano dal progetto della città non certo di ripercorrere le stra-de già battute. I giovani guardano in avanti. Hanno la forza di chi sente che il tempo è infinito, di chi non ha l’ansia del domani e che crede che il domani debba essere migliore e con più opportunità del presen-te. L’architettura deve dare questa prospettiva. La metamorfosi deve dare il senso di un forte radicamen-to, ma contemporaneamente di un forte cambiamento in atto. Questo è stato, ed è, il mio modo di proget-tare. Poi ci sono temi nei quali può prevalere o l’uno o l’altro di questi concetti, senza però ricercare il gesto forte. Nel progetto della stazione dell’Alta Velocità, chiamato “squalo”

Intervista a Alberto Breschi,architetto e professore

che sembra un elemento aggressivo e invece è solo una lettura iconica per renderlo riconoscibile, l’edificio quasi non c’è.Frangioni La stazione è di fatto contenuta nel volume del rilevato, nel luogo preesistente. La metamorfosi sta in questo mi sembra di capire. Esiste una “massa”, un volume esistente e il progetto trasforma tutto questo dandogli una funzione diversa da quella precedente. E la modificazione delle funzioni è l’elemento metamor-fico per eccellenza. Lo stesso luogo può essere chiesa, garage, ufficio ecc. Questo aspetto dei tuoi progetti è centrale per una città come Firenze.Sì esatto, i miei progetti hanno questa caratteristica. E non solo per Firenze. Ho avuto modo di lavorare per un piccolo comune della provincia dell’Aquila dopo il terremoto. Nel comune di San Pio delle Camere c’è una frazione, Ca-stelnuovo, completamente distrutta dal sisma. Si trattava di lavorare per ricostruire. La tendenza in atto in quella circostanza prevedeva due modi di intervenire. Costruendo città nuove (il progetto CASE per intendersi), progetto fallito perché queste abitazioni non piacciono alle persone che quindi non le vogliono. E l’altro era ricostruire, dov’era e com’era. Ma questa seconda ipotesi non era percorribile, anche se richiesta dagli abitanti, perché le norme, i concetti stessi di abitare e di vivere nei borghi, le esigenze della vita contemporanea non sono più quelle del sei-settecento quando Ca-stelnuovo fu costruito. Il progetto di ricostruzione parte, anche in questo caso, dal concetto di metamorfosi, fondandosi sul radicamento nel luogo. Ricostruire sullo stesso luogo era una sorta di imperativo che le persone, e anche l’amministrazione volevano. Ma se il “dove” era chiaro

non altrettanto era il “come” e “cosa” ricostruire. Questi luoghi non avevano un’economia strutturata e di fatto erano dei paesi dormitorio. Quali funzioni allora assegnare al luogo? La soluzione è stata quella di inventare, da parte degli abitanti, l’albergo diffuso. Il borgo come luogo di accoglienza turistico-ricet-tiva. Un’idea straordinaria. Invece di ricostruire il borgo e poi fare un albergo, tutto il paese diventa un al-bergo. Anche dove vi sono elementi fortissimi della storia che sembrano costituire dei vincoli insormontabi-li, anch’essi possono essere letti in evoluzione. Possono diventare delle occasioni di cambiamento.Stammer Questo concetto del vincolo esterno come elemento fondamentale del progetto ritorna costantemente in tutte le conversazioni. Il vincolo come elemento del progettare condizionato che tende a fare emergere le soluzioni migliori è un dato consolidato?Mi pare di poter dire che è un concetto consolidato in architettura. I vincoli sono utili.Frangioni Forse non così consolidato come si può pensare. Vi sono scuole di pensiero che potremmo definire “mo-derniste” che hanno idee diverse. C’è stato almeno un periodo dall’inizio de-gli anni ‘80 in poi dove ogni architetto aveva quasi la necessità di lasciare il proprio segno. Un periodo che ha lasciato in giro per il mondo grandi “soprammobili” nelle città. Operando in assenza o in dispregio dei vincoli.Il vincolo è un elemento positivo del progetto, se è posto nel modo corretto. Direi che i vincoli più importanti sono quelli morfologici, che impongono di riconoscere una specifica caratteristica del conte-sto. Questo tipo di vincoli aiuta il progetto, mi viene da dire che in qualche modo fanno una parte del lavoro, di quello che, come

progettista, si sarebbe comunque dovuto fare. Ma se c’è solo questo, e si risponde solo al vincolo, si perde quella che è la natura del lavoro dell’architetto. Nello stesso mo-mento in cui si affronta il progetto per rispettare il vincolo, per dare la risposta progettuale alle condizioni del vincolo, lo si deve anche “supera-re”. Si deve innescare quel processo che porta al superamento del vincolo. Solo in questo modo si può pensare di costruire una evoluzione urbana. Il concetto di metamorfosi è esattamente questo. Stammer Ritornando agli interventi ci sono suoi progetti dove il segno dell’architetto è minimo e si nota una grande attenzione al contesto, altri dove invece il contesto ha consentito un’espressione più ampia dell’inter-vento innovatore. Vorrei citare due esempi. Il primo è l’intervento con il quale si sono recuperate parti del complesso degli ex Macelli per farne una scuola (la scuola Ottone Rosai) e residenze per studenti universitari (le residenze del SUM ora passate alla Scuola Normale di Pisa). In questo caso si è intervenuti quasi con un recu-pero filologico, e il progetto dei nuovi padiglioni quasi “copia” (nell’acce-zione positiva di questa parola) il contesto, con un risultato di grande eleganza stilistica. L’altro intervento progettato, ma non ancora realizzato, è quello per la realizzazione, in piazza Annigoni a Firenze, degli stand per il “mercato delle pulci” e dell’edificio per il nuovo ingresso del Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, dove invece il segno dell’inno-vazione è rappresentato dalla grande copertura che aggetta sull’ingresso e che costituisce la cifra stilistica e anche lessicale dell’intervento. Copertura che già prefigurava quella che stai realiz-zando per la nuova sistemazione della piazza di Tavarnuzze, in comune di Impruneta.In realtà i due interventi contengo-no entrambi un’idea forte. Anche nella scuola c’è un’idea che domina il progetto. E’ un’idea che si percepi-sce appieno solo vivendo la scuola. Ma è un’idea fortissima, più signifi-cativa di un “gesto” di architettura. E’ la ricucitura del complesso delle quattro stalle con due edifici nuovi (quelli che contengono le aule), a loro volta collegati da un corridoio vetrato, che circondano il grande, e nuovo, spazio interno destinato a giardino. In questo modo tutte le nuove aule affacciano sul grande campus-giardino, che è il fatto più nuovo del progetto. Con un

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intervento apparentemente semplice si crea una nuova percezione dello spazio e anche dei vecchi edifici delle stalle. Ed è una scuola che funziona bene proprio perché si è costruito un diretto rapporto con lo spazio verde all’esterno esterno. Il grande limite di molte scuole è di avere un rapporto mediato con l’esterno.Negli altri interventi la grande copertura a sbalzo è servita per definire il rapporto con il contesto, rimarcando la funzione dell’archi-tettura. Nel caso di piazza Annigoni segna l’ingresso al Dipartimento di Architettura, tuttavia non lo segna semplicemente con la forza della struttura, ma con la sua direzione. Direzione che non è direttamente percepibile dalla piazza. La piazza infatti non si presenta ortogonale al complesso dell’ex-convento di Santa Verdiana, ma è inclinata, poiché la struttura urbana più recente ha prefigurato una diversa tessitura degli isolati. Attraverso la copertura che è posta in asse con l’orientamen-to dell’ex-convento, si restituisce il senso della direzione di ingresso e si ristabiliscono i giusti rappor-ti spaziali fra la piazza ed il suo contesto laterale. La corte centrale di Santa Verdiana si proietta, con la copertura aggettante, sulla piazza facendo capire quale sia il significato del contesto e l’elemento dominante della piazza, ma senza modificare la percezione complessiva dell’ex-con-vento, che peraltro ha subito così tante trasformazioni e stratificazio-ni nel tempo da farne un valore. Convento che diventa carcere, carcere che diventa università. Una confusione di spazi e di ruoli che si percepisce entrando oggi dall’ingres-so di piazza Ghiberti, che è infatti un ingresso laterale al convento. Il nuovo ingresso, segnato dalla grande copertura, condurrà invece al centro del complesso, da dove sarà facile capire lo spazio e orientarsi nel complesso. Frangioni Il gesto progettuale in que-sto caso, ma direi anche nell’intervento per la scuola Rosai, ha il compito di riconnettere lo spazio e restituire una migliore funzionalità al complesso edilizio. Nel caso di piazza Annigoni operando anche un ribaltamento della organizzazione, che era quasi richiesto per un uso ordinato dello spazio storico.Esattamente. E per Tavarnuzze è la stessa cosa. In questo caso il contesto era dato da una piccola stazione, unica memoria della vecchia linea tranviaria da Firenze per Greve in

Chianti. Tavarnuzze è una frazione del comune di Impruneta che è cresciuta molto in fretta negli anni del boom economico e che non ha memorie storiche importanti. La “stazione” costituiva quindi un elemento identitario del luogo. Nel passato si era anche pensato di demolirla ma poi, fortunatamente, l’amministrazione ci ha ripensato, è stato bandito il concorso per la sistemazione della piazza. Il nostro progetto mantiene naturalmente la struttura e vi aggiunge questa grande copertura. Il concetto espresso è sempre lo stesso della metamorfosi. Mantenere quanto è possibile ma anche innovare nelle funzioni e nelle condizioni di uso. Creando uno spazio che ingloba la vecchia stazione, ma non la prevarica, e che serve anche a dare risposta alle esigenze funzionali dei collegamenti verticali (scale ed ascensori), che non potevano essere sistemati all’interno. Uno spazio che, nelle intenzioni del progetto, deve diventare il baricen-tro, non solo fisico ma anche funzio-nale, della grande piazza dove ci si potrà sedere, bere una birra, chiac-chierare. Un intervento che a molti è sembrato un gesto forte ma che io invece ritengo, se si comprende il senso complessivo del progetto, un intervento misurato per “segnare” una nuova identità del luogo. Stammer Tu hai insegnato per molti anni nella facoltà di Architettura di Firenze. Qualche hanno fa hai anche organizzato una manifestazione che aveva un nome premonitore Florence Exit. La tesi di questa manifestazio-ne-mostra era, credo si possa riassume-re così, che la facoltà di Architettura di Firenze ha prodotto buoni architetti ma quasi tutti, almeno negli ultimi anni, per lavorare sono dovuti andare all’estero. Quindi un giudizio com-plessivamente positivo ma con una

difficoltà a garantire una specificità dell’architetto in Italia.Quale è ora il tuo giudizio sulla scuola di Architettura fiorentina? Esiste ancora?Ho dedicato la mia vita all’inse-gnamento di architettura. Forse ci sono stato troppo. La Facoltà è una specie di “gabbia dorata” nella quale si sta bene ed è difficile uscirne. Io ho provato a riformare la Facoltà. Ho lavorato per introdurre il 3+2. Ma ho anche avuto molte resisten-ze. Pochissimi colleghi mi hanno seguito su questa strada. Una scelta non certo dettata da una semplice valutazione di convenienza o di innovazione per l’innovazione. Ho visto nella nuova struttura orga-nizzativa, che era offerta dai corsi triennali e poi di specializzazione biennali, il modo per fare quella ri-forma che la Facoltà, da sola e senza un intervento esterno, non avrebbe mai fatto. Moltissimi colleghi non avevano, e non hanno, nessuna voglia di “cambiare”, di mettersi in discussione, di modificare le linee di insegnamento. Mentre il professionista è costretto a innovarsi perché il mercato lo impone, a pena di vedersi escluso, il professore si fa forte della sua “cultura” e pensa di rimanere immobile. Io ho sempre cercato di cambiare, di innovare, e non mi ritrovavo in questo “status quo”. Anche l’indirizzo complessivo della Facoltà, che seguiva il concetto di “identità” caro a Paolo Zermani, favoriva una certa mia “riservatez-za”. Non volevo creare una scuola. Volevo creare le condizioni perché anche la scuola, come la società, si evolvesse. E volevo fare questo chia-mando molti giovani, anche quelli che erano stati formati proprio da quella Facoltà.Non so dire se ci siamo riusciti. Parlando con l’attuale direttore del

Dipartimento Saverio Mecca, mi sembra di capire che lui è ancora molto favorevole a questa innova-zione. Parlando con colleghi che hanno fatto parte delle commissioni dell’Esame di Stato si ricava che gli studenti che si sono laureati con la 3+2 hanno maggiori sicurezze. Non so bene dire se questo derivi da un caso, dal fatto che sono in numero inferiore rispetto all’altro corso di laurea, o dal fatto che hanno avuto vantaggi dai cambiamenti nella didattica. È un dato. Certamente nell’organizzazione della didattica si sono fatti molti passi in direzione diversa dal passato. È stato di fatto abolito il corso di Composizione Architettonica. Cioè il corso fonda-mentale degli ultimi due anni della vecchia Facoltà. Con i laboratori, la progettazione è diventata la compo-nente costante di ogni esperienza, sia che si trattasse di tecnologia piutto-sto che di restauro o di urbanistica, evitando che queste discipline si chiudessero in esperienze autorefe-renziali. Ma molti docenti vedono il laboratorio come il fumo negli occhi perché un conto è arrivare in aula, sedersi in cattedra e parlare ad un pubblico che al massimo non ti ascolta ma raramente interloquisce, e un conto è stare con gli studenti e con gli altri docenti, discutendo “alla pari” delle cose da fare. Il labora-torio mette insieme soprattutto i docenti, con le loro visioni spesso diverse. Nel laboratorio non ci sono trasferimenti di dati certi, ma c’è appunto il confronto sul progetto. E il progetto non è un dato certo. Anzi è proprio l’opposto della certezza. E’ il docente che deve dire cosa farebbe in quel dato e specifico caso oggetto del laboratorio, mettendosi quindi nelle condizioni di essere esposto alle valutazioni di tutti gli altri docenti e degli studenti. È questo il punto centrale della riforma.Stammer E un metodo molto vicino alla pratica progettuale professionale.Certamente. Io non credo che oggi si sia arrivati a questo metodo ap-plicato in modo esteso, anche nella didattica riformata. Anche perché è venuta meno la carica innovativa dei giovani docenti che, come è noto, sono assenti nelle nostre università. Florence Exit è stato un tentativo anche per portare dentro la Facoltà i migliori architetti di allora, che era-no tutti fuori dalla Facoltà. Alcuni di loro (Barberis MDU architetti più noti all’estero che in Italia) sono stati chiamati ad insegnare a contrat-to. Ma è una esperienza limitata che

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dovrebbe essere ancor più praticata.L’iniziativa culturale “EXIT” intese promuovere la giovane cultura architettonica fiorentina degli ultimi 10 anni in una chiave di lettura che identificasse un percorso coerente-mente “fiorentino” nel quale rendere evidente il “ponte” culturale e la continuità tra le esperienze degli anni ’60 del periodo Radical e delle esperienze didattiche di Ricci e Savioli e quelle contemporanee. “EXIT”, attraverso un convegno, una mostra ed un catalogo bilingue, intese colmare un “vuoto” critico e mostrare che a Firenze, anche dopo il periodo Radical, si era continuato a produrre progetti di architettura improntati alla ricerca, in una chiave di lettura assolutamente originale della società in cui viviamo; progetti di architettura nei quali viene rico-nosciuto alla cultura fiorentina degli ultimi 30 anni un ruolo non secon-dario di elaborazione intellettuale della cultura contemporanea.Nella produzione più recente di molti esponenti delle generazioni emergenti dell’architettura ho creduto che fosse possibile ricono-scere forme di creatività e sperimen-tazione più o meno direttamente influenzate dall’ambiente fertile e generatosi di Firenze sulla scia di esperienze di avanguardia, imposta-to su una convinta attitudine alla ricerca e sull’espressione in forma evolutiva di una progettualità critica e libera dai “dictat” accademici; una progettualità e che ha interpretato la contemporaneità in una chiave di lettura alternativa alle tendenze storicistiche e interdisciplinare nelle matrici di riferimento.Frangioni La Facoltà è sempre stata molto chiusa al suo interno. E anche nei confronti della città, dei suoi am-ministratori, dei soggetti che operano nella e sulla città, il dialogo è stato pressoché inesistente.Il cambiamento che tu hai cercato di introdurre aveva anche lo scopo di aprire la Facoltà alla città, di fare in modo che le discussioni e la didattica fossero più concretamente centrate sui temi urbani concreti della città. Io ho percepito che questo sforzo è stato fatto. Ma il risultato non mi sembra all’altezza dello sforzo. Non mi sembra di percepire una “visione”, una “idea” che la Facoltà esprime sulla città. Per esempio è in corso una trasforma-zione fondamentale della mobilità urbana con la realizzazione delle linee tranviaria e non c’è nessuna espressione da parte della Facoltà, anche laddove, come per il passaggio negato del tram

da piazza san Giovanni, la città ha molto discusso. O come recentemente sulla estesa pedonalizzazione del centro e di una piazza come piazza del Carmine.Il ruolo della Facoltà dovrebbe essere a mio avviso quello di produrre idee. Una grande fucina di idee. Che poi possa anche scendere nel concreto delle scelte operate lo vedo più difficile. Dovrebbe creare un luogo di discussione in modo che le scelte operate dal decisore pubblico non siano il frutto di idee nate in modo estemporaneo ma si collo-chino in un contesto di discussione permanente, dove vi sono idee e opinioni diverse, e in questo campo l’università può fornire un grande contributo, che aiuta a definire la decisione. Perché le scelte vere, solide, soprattutto in campo urba-nistico, sono quelle condivise. E per arrivare ad una scelta condivisa è necessaria la discussione, la tensione, anche lo scontro (di idee natural-mente). Insomma una vera fase di dibattito pubblico. Su questo campo l’università avrebbe molto da fare e forse dovrebbe fare molto.Frangioni La posizione che esprimi è una offerta di disponibilità alla costruzione delle idee. Certamente se la Facoltà è fucina di idee alla fine fa un servizio per tutti. E questa “quan-tità” di pensiero che potrebbe “girare” per la città alla fine potrebbe avere ricadute sulle attività di amministra-tori, imprenditori, e anche cittadini che sarebbero aiutati nel formarsi le idee sui temi in discussione. Purtroppo mi sembra di poter dire che non è così oggi.Anche gli amministratori dovreb-bero avere a cuore la nascita della discussione sulla trasformazione della città. Anzi dovrebbero susci-

tarla anche sollecitando l’università. Dovrebbero creare le occasioni per fare nascere il dibattito.Frangioni In altri tempi questo dibattito c’è stato. Penso ai tempi nei quali fu scelto il progetto della stazione di Santa Maria Novella. Allora ci fu un aspro e molto partecipato dibattito. Stavo rileggendo quello che diceva Ardengo Soffici al proposito. E tutto questo in una fase di regime che non favoriva certo la discussione.Ma in quel periodo ci fu questa grande ambiguità riguardo al fatto se il regime “utilizzò” l’architettura razionalista o l’architettura raziona-lista ebbe la forza di imporsi come una rappresentazione forte del cambiamento, inducendo il regime a considerarla.Frangioni Io penso che fu la forza de-gli architetti e dell’architettura capace di farsi valere. Che Terragni fosse “fa-scistissimo” e che la sua Casa del Fascio a Como rappresentasse la “trasparenza” che doveva avere il partito fascista lo disse Terragni, lo si è detto. Ma io credo che dopo tutto, alla fine, resta l’opera da sola a testimoniare la capacità dell’architettura razionalista di imporsi sulla scena dell’architettura italiana e europea. Fu la forza del pensiero degli architetti del tempo che sopravanzò la capacità di teorizzare del regime.Stammer Volevo chiudere il cerchio di questa intervista ricordando un fatto accaduto di recente. Alberto Breschi redasse quasi venticinque anni fa un progetto per recuperare il complesso di Sant’Orsola per residenze universitarie. Proprio in questi giorni sulla stampa si legge che si pensa di riprendere quest’idea. Sant’Orsola è un complesso edilizio nel cuore del quartiere di San Lorenzo in disuso da almeno quaranta anni. Breschi ha, qualche anno fa, dato

alle stampe un libro “Amata Città” dove racconta come buona parte dei progetti fatti per Firenze siano collocati sull’asse della strada est-ovest che collegava due delle porte della città e che ora è costituita dalle vie Guelfa, Alfani Pilastri, Borgo la Croce. L’asse su cui è collocata Sant’Orsola. Volevo sapere cosa si prova a vedere resuscitare un progetto dopo diversi decenni da quando è stato fatto? In realtà questo asse è il secondo de-cumano della città e rappresenta una linea concreta di organizzazione delle funzioni urbane. Sant’Orsola sta appunto su questo asse. Ho visto che ora torna quest’idea delle residenze. Io spero che venga fatta. Io amo così tanto questa città che davvero spero che qualcuno faccia qualcosa per Sant’Orsola. Spero anche che non si perda, nell’intervento che si farà, quest’idea della metamorfosi. Questi cento e oltre conventi che sono stati dismessi nel tempo, in ultimo da Napoleone e dallo Stato Unitario, rappresentano la vera storia di Firenze. La loro trasformazione ha segnato, e segnerà per altri cinque-cento anni la storia di Firenze. Le metamorfosi di Sant’Orsola segnano il quartiere e quel pezzo di città. L’edificio nasce come conven-to, poi diventa la prima fabbrica di sapore illuminista della città, poi è ricovero per gli sfollati istriani, e successivamente casa per i meno abbienti e gli sfrattati, e al fine si trasforma ( in maniera sconsiderata) per accogliere una destinazione im-propria per la Guardia di Finanza. Fra quelle mura si sono accumu-late le vite, le sofferenze, le gioie di persone per quasi settecento anni. Per questo deve essere restituita alla città, deve essere aperta a tutti. Il suo cortile più grande è più vasto della piazza del mercato, e la sua apertura, insieme all’intero complesso, costi-tuirebbe un ulteriore elemento di novità nel panorama in movimento della zona, con la nuova sistema-zione del mercato di San Lorenzo. Anche se rimane il rimpianto di avere fatto molti progetti mai realizzati, alcuni dei quali giunti fino al progetto esecutivo (come quello fatto con l’amministrazione Morales, poi dimenticato perché il Demanio dello Stato decise che in quel luogo si doveva realizzare una caserma) io spero proprio che Sant’Orsola veda presto una nuova fase della sua costante metamorfosi e questa volta sia finalmente capace di esprimere una nuova urbanità, integrata e feconda.

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riunione

difamiglia

Ovvia, come se non ce ne fossero abbastanza di saccenti sparaballe, in Toscana è disceso anche Klaus Davi a dire cosa bisogna fare con il nostro petrolio. “Diamo vita agli Uffizi dell’oro”, ha tuonato Klaus in quel di Arezzo. Basta immobilismo! Ad Arezzo c’è la crisi? Va beh, però avete il distretto orafo, quindi semplice: fate un bel museo (oh, gli Uffizi, mica quello della civiltà contadina!) e la crisi è belle che risolta. Già, ribattono quelli, ma c’è la crisi, appunto, e dove si trovano i soldi per fare ‘sto mega-museo? E i turisti, dove sono? Come si fa? E l’imperturbabile Klaus: “ il mio ruolo, da esperto della comunicazione, è dare idee. Diamoci una mossa, gli strumenti, a partire dalle idee e dall’ingegno non ci mancano”. Sì, Klaus, dai, facci la mossa!

Chi si aspettava, dopo il tu-multuoso voto delle riforme alla Camera, un’intervista sul tema al ministro preposto, Maria Elena Boschi, sarà rimasto deluso. Io che curo questa rubrica ho esultato di gioia. Perché Maria Elena nostra, nume tutelare di noi scribacchi-ne di costume, gossip e moda, è tornata a parlare dalle pagine di Chi, il settimanale che svolge la funzione che fu di Rinascita per il vecchio PCI. Quindi nessuna tesi, nessuna dotta rilettura delle

riforme costituzionali alla luce del dibattito teoretico e delle nuove frontiere del pensiero europeo ma

l’affermazione dell’essere ancora single, i due chili persi e già ripre-si (un po’ ce n’eravamo accorte) e del fatto che nonostante l’immane sforzo di cambiare il Paese, riesca ancora a fare la vita di ragazza semplice che lava, stira, e pulisce casa. Sperando nella pace nel mondo aggiungerei io. Il tutto sorridendo (un po’ forzata invero) da una terrazza affacciata su Palazzo Chigi, con indosso una camicetta di seta rossa (indubita-bile apertura alla sinistra PD) e dei jeans al solito troppo attillati. Grazie per questo primo anno da ministra Maria Elena, sono certa che le soddisfazioni continueran-no

Niente popodimeno che l’Inter-national New York Times del 26 febbraio dedica una memo-rabile intervista a Donatella Versace. Vanessa Friedmnann si reca nello studio della Signora e da questo imprescindibile incontro veniamo a sapere,

nell’ordine, che:1) nel suo nuovo ufficio (che non si dice dove sia) hanno un grandissimo problema: “Abbia-mo così tante linee di produzio-ne da far paura! Alcune volte è impossibile organizzare una riunione, e allora parliamo nel corridoio. Alcune volte gridia-mo”.2) la signora ha tre postazioni di lavoro nell’ufficio, ciascuna per riunioni di tipo diverso. “Ma io sono una donna molto

impaziente; non posso stare seduta a lungo; devo muovermi. Spesso mi vedete in piedi al centro della stanza a lavorare”.3) Donatella si sveglia presto (6,30-7), fa ginnastica, una leggera colazione e poi... “ho una squadra glamour che mi aiuta a pettinarmi e a truccar-mi ogni mattina. Sa, non sono così in tiro quando mi sveglio - ho bisogno di un piccolo aiuto”.4) La Donatella ha una vita privata molto morigerata. Sì,

dopo il “ lavoro” va ai party, “ma sono la persona più antiso-ciale che possiate immaginare. Anche se non ci credete. Questa è la città dove lavoro ma non ho qui amici, a parte al lavoro. I miei amici sono in giro per il mondo. Li chiamo e ci parlo al telefono”.Come abbiamo potuto fin qui vivere senza queste rivelazioni così sconvolgenti?! Scusate il francesismo, colleghi del New York Times, ma... ‘sti cazzi!

Se Dio vuole è sceso in campo il nostro Andrea Manciulli e ha sistemato le cose in Ucraina. Con la consulenza artistica di Ric-cardo Fogli, il Dipartimento PD per la politica estera e europea, ha organizzato un convegno a Roma dal fighissimo titolo “Come cambia il mondo”. Nella sua newsletter “ Europa Atlantica”, che ha ormai oscurato quella della NATO, Andrea Manciulli ci spie-ga che “sul versante russo-ucraino, l’accordo di Minsk apre uno spiraglio, fosse solo per il sollie-vo che giunge alle popolazioni coinvolte”. Giunte a conoscenza di questa svolta (di cui non si erano accorte), folle festanti si sono riversate nelle piazze di Kiev per erigere una statua bronzea per Manciulli e Fogli. Putin, spaven-tato dall’improvvisa notorietà del deputato piombinese, ha pensato bene di tagliare il gas agli ucrai-ni per rinfrescare loro le idee su chi comanda da quelle parti. Ma quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare e davanti all’affronto arrecato al leader del-la NATO maremmana, minaccia di scendere in campo addirittura la Federica Mogherini, decisa a rompere l’algido silenzio impo-stole da Francia e Germania. Le cancellerie di tutto il mondo sono in allarme. Ma Manciulli sta preparando la contromossa: uno incontro fra Putin e Porosenko a Piombino che passerà alla storia per l’accordo del cacciucco.

le Sorelle marx

la StiliSta di lenin

lo Zio di trotZky

i Cugini engelS

La discesa di Klaus

Un annoinsieme

New YorkTimesof gossip

Il cacciuccosfidala vodka

BoBo

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Poesiaoltrelo paginaArrigo Lora-Totino

Per quasi mezzo secolo Arrigo Lora-Totino ha sondato gli sterminati

e inesplorati spazi della poe-sia, conducendola con vitalità fuori dalla tradizionale pagina tipografica al fine di inseguire qualsiasi possibilità alterna-tiva della comunicazione e dell’espressione. Concretezza, visualità, sonorità, gestualità e virtù performativa sono state e sono tutt’ora le manifestazioni essenziali della sua poetica e del-la sua prassi estetica: un modo di fare Arte che procede oltre le frontiere, varcando i limiti di una realtà linguistica ancora da esplorare e da restituire al mondo in tutta la sua originali-tà. Non a caso l’Arte può essere considerata una modalità opera-tiva e inedita, che dal particolare indaga le vie inaccessibili di una complessità universale, che necessariamente deve essere rap-presentata con una sintesi critica e razionale, tesa a ristabilire gli equilibri persi nel caos con-temporaneo e nel dinamismo proprio della modernità, in cui il divenire è un passaggio dalla potenza all’atto imprescindibile, poiché fra la comunicazione vera e propria c’è un’apertura ignota e misteriosa, nella quale opera l’artista alla ricerca di un’operazione formale in grado di concretizzare l’evento lingui-stico nella sua totalità. Nelle opere di Arrigo Lora-To-tino la sperimentazione non si riflette sulla parola, ma si pone dentro e oltre la parola, alla scoperta primigenia di una rivo-luzione comunicativa umana. Il segno si carica di ogni possibile e immaginabile significato, divenendo elemento universale di comunicazione e decodifi-cazione: la parola viene esibita in tutto il suo potenziale, nel contempo, contenuto semanti-co, segno grafico e tipografico, segno sonoro-musicale; in linea con le ricerche concretiste, essa si contamina con fantasmatici segni non convenzionali, con le forme plastiche che sorgono dal-la combinazione degli elementi presenti sulla pagina, sulla tela o sul supporto. Dalla prassi po-etica, creativa e formante, nasce una composizione che verba-lizza e teatralizza gli elementi linguistici, una composizione

A sinistra Indecifrabile, 1966Dattiloscritto su cartoncino

cm 34,8x24,6A destra Intertesti, 1975

Collage su cartoncinocm. 70x47

Sotto La biblioteca di Babele, 1973Collage su tavola

cm 70,5x101Tutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di laura [email protected]

che diventa di fatto un medium espressivo, dal sapore neoco-struttivista, qualificandosi come un modello di ristrutturazione del linguaggio estetico teso a so-stituire i rapporti spaziali ai rap-porti sintattici per concentrarsi sull’organizzazione tipografica e visuale dei testi linguistici, presi a prestito dal mondo. Poesia e parola divengono, quindi, i veicoli attraverso cui l’artista esplora il mondo circostante, ricomponendolo a livello visivo, in una dimensione fisiologica che, di opera in opera, esal-ta sempre più la potenzialità significativa del grande teatro della parola: una valorizzazione che interagisce e si mette in rela-zione con una materia dotata di un elevato senso d’espressione e comunicazione, poiché l’arte è un arena rappresentativa di in-tuizioni, modulazioni, personali ricostruzioni di un senso perso nel vuoto della complessità labirintica dell’oggi.

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Cole Thompson, americano originario del Kansas, alle-vatore di lama in Colorado,

è quello che viene definito (e si definisce lui stesso) come un foto-grafo “fine art”, ovvero uno di quei fotografi che non solo cercano le immagini “belle”, cioè esteti-camente gradevoli, in rapporto al gusto medio, ma che restitui-scono tali immagini sotto forma di stampe, curate con tecniche raffinate e riprodotte su carte spe-ciali, facendo di ogni stampa un “pezzo” quasi unico, generalmente numerato e firmato, destinato ad essere conservato gelosamen-te come un oggetto artistico, oppure appeso alla parete come un sofisticato oggetto d’arredamento. Questo atteggiamento, del resto assai diffuso, tradisce in parte il concetto di fotografia come “opera d’arte tecnicamente riproducibile” (cioè virtualmente senza limiti nel numero delle riproduzioni), anche se in genere il tariffario delle fotografie “fine art” prevede per la stessa immagine dei prezzi diversificati e crescenti in funzione del formato, da 13x18cm in su, fino ai formati anche molto gran-di, 50x75cm ed oltre, premiando così indirettamente il concetto di “riproducibilità” delle opere. Cole confessa di avere scoperto la sua vocazione all’età di quattordici anni, visitando a Rochester una vecchia casa appartenuta a George Eastman, e di non avere fatto al-tro, per i successivi dieci anni, che fotografare e stampare, studiare e leggere, sempre e solo di fotografia, eleggendo a propri maestri Edward Weston, Ansel Adams, Wynn Bullock, Paul Caponigro ed altri fotografi americani dello stesso genere, specializzandosi nel bianco e nero. Un po’ perché è cresciuto in mezzo alle immagini in bianco e nero del cinema, dei giornali e della TV, in un mondo in cui la separazione fra “bianchi” e “neri” era all’epoca la regola, Ma anche perché, contrariamente al colore, il bianco e nero cattura i sentimenti che ci sono al di sotto della su-perficie. Anche dopo il 2004 ed il passaggio alle immagini digitali, il bianco e nero rimane il suo campo d’azione preferito. Come fotografo “fine art”, e per questo “commer-ciale”, Cole si dedica ai temi più classici ed un poco scontati, dal paesaggio agli animali, dai fiori

e che cosa rivelano le immagini? Per tre giorni mi sono avvicina-to a più di 150 ucraini, e con il linguaggio dei gesti, ha chiesto loro se potevo fotografarli ... con gli occhi chiusi. La loro reazione è stata di grande sorpresa e curiosità. La maggior parte delle persone hanno un “volto per la fotocame-ra.” E ‘ l’aspetto che assumiamo quando veniamo ripresi, il volto che vogliamo far vedere agli altri. Una maschera. Ed allora che cosa riveliamo quando chiudiamo gli occhi e ci togliamo la maschera? Se gli occhi sono la finestra dell’a-nima, allora forse il volto è uno specchio, e ci rivela uno scorcio del nostro essere interiore.”

Ad occhi chiusi

alle nuvole, dall’architettura alle composizioni geometriche, dalle nature morte agli oggetti d’epoca, dai riflessi ai giochi d’acqua, chiu-dendo al massimo il diaframma ed esponendo la pellicola a lungo. In questo modo segue ed asseconda il gusto imperante a seconda del mo-mento, in maniera composta ed elegante, ma anche inevitabilmen-te un poco fredda ed impersonale. Nella sua poetica la visione conta per un terzo, lo scatto per un altro terzo, l’elaborazione dell’immagine per un ultimo terzo.Come fotografo autentico egli sviluppa invece un proprio stile personale e si lancia alla ricerca di temi meno logori ed usurati, rivol-

gendosi al mondo delle persone, piuttosto che a quello della natura e delle cose inanimate. Toccanti le sue immagini di donne operate di tumore al seno e quelle sui fanta-smi di Auschwitz, ma soprattutto è interessante la serie di ritratti, omologati nello standard dell’in-quadratura e velati da un sottile alone concettuale, di persone co-muni fotografate durante una sua visita al figlio, operatore di pace in Ucraina. Tutte sistematicamente e rigorosamente riprese di fronte, ma con gli occhi chiusi. “Si dice che gli occhi di una persona sono le finestre per la loro anima. Allora perché fotografare delle persone con gli occhi chiusi,

di danilo [email protected]

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biò il nome della libreria in quello ormai mitico di Shakeaspeare and Company.Definita da Whitman “un’utopia socialista”, la libreria cominciò ad attirare poeti e scrittori della beat generation come Allen Ginsberg, Jack Kerouc, William Burrough...diventando presto un’istituzione a Parigi e famosa in tutto il mondo. Nelle sue piccole stanze distribui-te su due piani che George amava definire “i capitoli della mia vita”, in un’ atmosfera bohèmien fuori dal tempo e un po’ da vertigi-

ne, in un intricato labirinto di vecchi scaffali in legno poggianti su sconnessi pavimenti e quasi soccombenti sotto la mole im-pressionante dei libri rari, nuove edizioni e usati accatastati insieme

Considerata una delle 20 librerie più affascinanti del mondo, Shakespeare and

Company, a Parigi in rue de la Bucherie 37, tra le mille storie nelle quali è immersa ha anch’essa la sua da raccontare, unica nel suo genere.C’era, quindi, una volta... Sylvia Beach (1887/1962), giovane americana di Baltimora, amante di letteratura, attivista nei movi-menti femministi d’inizio secolo, che arrivata a Parigi nel 1916 per studio vi si stabilì definitivamente dopo l’incontro con Adrienne Monnier, scrittrice, editrice e libraia che sarebbe divenuta la sua compagna per il resto della vita. Nel 1919 Sylvia aprì una piccola libreria sulla Rive Gauche, la Sha-kespeare and Company, che era anche sala di lettura e di prestito e che ben presto diventò il centro della cultura anglo-americana a Parigi. In quel luogo magico di scoperte, conversazioni e intense relazioni, si potevano trovare libri banditi in America e in Inghil-terra e incontrare Henry Miller, Ezra Pound, Francis Scott Fitz-gerald, Geltrude Stein, Samuel Beckett e tanti altri artisti della così detta “generazione perduta”. Il preferito su tutti di Sylvia, il suo idolo letterario, fu James Joyce. Fu lei ad editare per prima nel 1922 l’Ulisse, il monumentale romanzo dello scrittore irlandese che nessuno voleva pubblicare perché ritenuto incomprensibile e osceno. Nel 1941, durante l’occu-pazione tedesca a Parigi, la libreria fu chiusa definitivamente e Sylvia messa in un campo di concentra-mento per due anni perché si era rifiutata di vendere ad un ufficiale nazista l’ultimo testo di Joyce, Finnjegans Wake.A questo punto nel racconto entra il secondo protagonista, George Whitman. George (1913/2011), americano, laureato in giornalismo, idealista, bizzarro, grande viaggiatore e divoratore di libri, arrivò a Parigi nel 1948. Diventò amico di Sylvia Beach, le comprò l’intera collezio-ne di libri che lei aveva nascosto durante la guerra a casa sua e aprì una libreria nel 1951 difronte alla Senna e a Notre Dame che chiamò Mistral dal nome della fidanzata del tempo. Alla morte di Sylvia Beach, in suo onore, cam-

in (forse) apparente disordine, ci si può fermare a leggere seduti su vecchie poltrone e divani che cer-cano di farsi spazio in ogni angolo della libreria. Scritto su un muro del secondo piano in caratteri scuri, una frase di Yates Sii gentile con gli sconosciuti perché potrebbero essere angeli nascosti ci fa meglio comprendere perché la Shakespe-are and Company ha un intero piano, caotico, stracolmo di libri, grandi specchi e materassi, dedi-cato ad ospitare aspiranti scrittori, artisti e giovani viaggiatori di passaggio. In cambio a tutti viene chiesto due ore di lavoro al giorno tra gli scaffali della libreria e di raccontarsi ai clienti che vogliono ascoltare le loro storie.George Whitman è sepolto al cimitero monumentale Pére-Lac-haise circondato dai suoi tanti miti letterari.La Shakespeare and Company, ora gestita dalla figlia Sylvia Beach Whitman (come fu chiamata dal padre in onore della vecchia amica), continua la sua tradizione di ospitalità e di punto d’incon-tro tra scrittori e lettori in un clima spontaneo e informale con reading, eventi come il Sunday tea, un festival letterario e una rivista in lingua inglese The Paris magazin. Apparsa in numerosi film come quello di Woody Allen Mezzanotte a Parigi, rimane uno dei luoghi più magici di una città magica.

L’utopia socialistadi Shakespeare&C

Il miglioredei Lidipossibili

Ripetitore, confessore,televisore senza conflitti

di sacralità

Disegno di Lido CantemoriDidascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

di Simonetta [email protected]

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Il paesaggio di Fiesole

il recente ciclo di incontri “Paesaggio, territorio e ar-chitettura. 1944-2014” pro-

mosso dalla Fondazione Miche-lucci e dal Comune di Fiesole ed in particolare quello “Dal piano regolatore del 1974 alla variante per le zone agricole del 1984” evidenzia l’avvio ed il consolidar-si nel tempo della pianificazione urbanistica comunale in una evoluzione sempre contraddi-stinta da coerenza e continuità sull’indirizzo iniziale, pur in un contesto di nuovi riferimenti intercomunali e regionali.Le relazioni di Maffei Cardellini, Alberti, Agostini illustrano e documentano questo quadro di quasi mezzo secolo: dal bando del concorso per la formazione del primo piano regolatore nel 1960 fino al piano strutturale del 1999.Ad un avvio faticoso e vivace-mente dibattuto in sede naziona-le succede un indirizzo gestionale più tranquillo, in cui i corret-tivi all’impostazione iniziale si accompagnano all’arricchimento del quadro conoscitivo e norma-tivo sul patrimonio storico ed ambientale, sull’assetto dell’edifi-cato, delle zone rurali, dell’edili-zia economica e popolare.A tale indirizzo di lavoro corri-sponde mezzo secolo di gestione del vincolo paesaggistico e di quello idrogeologico ed ambien-tale; in particolare il vincolo pa-esaggistico interessa Fiesole, fino alla quasi totale copertura del suo territorio, con il succedersi di quattro decreti ministeriali: nel 1951, 1956, 1961, 1964; la tutela di beni d’interesse pubbli-co sottoposti al regime autorizza-tivo della Soprintendenza trova così perimetri ben definiti ma motivazioni sempre generiche su presunti valori estetici e tradi-zionali: perimetri e motivazioni invariate nel tempo nonostante le trasformazioni intervenute sui beni stessi e nel contesto. Il riferimento al vincolo pae-saggistico ed al suo rapporto con il piano regolatore è oggi di particolare attualità a fronte dell’intervenuto Codice dei beni culturali e del paesaggio e nella prospettiva di una specifi-ca pianificazione paesaggistica regionale. Un contributo non trascurabile

Mezzo secolo di tutela

Scav

ezza

collo

di maSSimo [email protected]

1975/2009 Paesaggio fiesolano (foto di Roberto Zuri)di antonello [email protected]

gionale sul governo del territorio e soprattutto dal piano pae-saggistico; questo per quel che riguarda gli indirizzi, le direttive, le prescrizioni della Regione sui vincoli ministeriali - e perciò su tutto il territorio fiesolano - a cui la pianificazione comunale dovrà adeguarsi.Indirizzi, direttive, prescrizioni regionali che dovrebbero teorica-mente “vestire” beni paesaggistici finora di fatto privi non solo di verifica sulla congruità dei loro perimetri ma anche di motiva-zioni istitutive esplicite utili alla

loro conservazione.Quanto propostoci dai relatori su mezzo secolo di gestione del territorio fiesolano ci dice che qui i vincoli esistenti non sono “nudi”, ma piuttosto possono già considerarsi “vestiti” dai conte-nuti di una disciplina comunale che, per quanto urbanistica, ha coinvolto, necessariamente ed opportunamente, il campo paesaggistico ed ambientale.Oggi un possibile pericolo da scongiurare è che l’intervenuta legge regionale ed il conseguente piano paesaggistico, nella sua attuazione comunale, determini un azzeramento dell’esperienza in atto e la conseguente can-cellazione di esiti consolidati nell’intenzione - come spesso succede - di ricominciare tutto da capo.Al proposito l’istituzione di uno o più Osservatori sul paesaggio, previsti dal Codice e dalla legge regionale, ma ancora da definire nella loro operatività, potrebbe e dovrebbe assicurare a mezzo secolo di gestione urbanistica comunale riconoscimenti utili anche agli effetti paesaggistici a garanzia di coerenza e continuità nella prospettiva degli adempi-menti futuri.

dalle ricordate relazioni di Maffei Cardellini, Alberti, Agostini riguarda appunto, nell’inter-pretazione della pianificazione urbanistica comunale, il suo

sottinteso rapporto con il vincolo paesaggistico: si eviden-ziano infatti riferimenti utili ad affrontare i nuovi adempimenti derivanti dalla recente legge re-

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L’animale fa sempre il suo ingresso nella scrittura: dalla favolistica ai bestia-

ri medievali (dove la natura, secondo i dettami paolini, era specchio delle verità assolute), per arrivare all’ambito con-temporaneo, al “Manuale di zoologia fantastica” di George Luis Borges o la distesa salma-stra d’insetti, nel “Mar delle blatte” di Tommaso Landolfi. Pochi esempi che non possono esaurire il versante faunistico del letterario, dove tali presenze creano un vero e proprio gioco di specchiamenti: corrisponden-ze semisegrete, pronte a rivelare e dire quel ‘di più’ che la parola umana non è stata in grado di pronunciare. Tutto, nuova-mente, ci porta al rapporto con la natura, a una tensione che decifra la biosfera mediante il filtro del simbolico e dell’oniri-co. Ma non mancano casi in cui il non umano cessa di essere ‘res extensa’ o alterità fine a se stessa e giunge a stagliarsi sulla cadu-cità del mondo proprio par-lando (seppur in un linguaggio diverso da quello codificato). E se l’uomo – come rilevato da Jacques Derrida – è un animale intento a scrivere la propria au-tobiografia, la scrittura accoglie

della vita libera da mediazioni e filtri (“Guarda il creato mon-do alla distesa/ degli spazi con occhi innumerevoli,/ ma gli occhi nostri, come riversati,/ lo ravvolgono quasi entro una rete/ tesa intorno ai suoi liberi cammini./ Quello che esiste oltre di noi, soltanto/ nel volto delle bestie ci si svela […]”).L’animale ha quasi il ruolo di oracolo, libero e esente dal giogo dell’antropomorfismo: nel suo sguardo remissivo ma pieno, totale, ci include a partire da un semplice dato biologico, in quanto punto di partenza di percorso evolutivo che – complice lo specismo – l’essere umano crede interrotto. È, appunto, una questione di credenze a cui, tuttavia, nulla fa da garante se non una tradizio-ne millenaria, che nel passare un testimone incandescente ha appunto ‘tradito’ l’essenza animale, fino all’ultimo stadio di ‘merce’: la mutilazione di un S/oggetto in Oggetto. E se i lamenti delle altre creature sono forse impercettibili all’orecchio umano, la scrittura può esplo-rare e rendere dicibile l’attuale animalità: se nei laboratori i ratti si fanno numeri seriali, proviamo almeno a ricombinare tali sequenze in lettere, parole nuove.

e ‘racconta’ la fauna quasi per fare eco a una risposta che, ai più, non è ancora arrivata. C’è una forte reticenza – per non dire repulsione – nell’am-mettere che l’animale ci riguar-da da vicino, tanto da porci radicalmente in discussione: Martin Heidegger, nei “Concet-

ti fondamentali di metafisica”, lo aveva definito ‘povero di mondo’, impossibilitato cioè a scorgere il manifestarsi dell’ente e quindi abbandonato a una sorta di stordimento; per il Rilke delle “Elegie duinesi”, al contrario, era capace di intra-vedere “l’Aperto”, la pienezza

Zoografie

di diego [email protected]

“La stragrande maggioranza delle persone non pensa, e quelli che pensano non diventeranno mai una stragrandre maggioranza. Decidi da che parte stare.” Così scrive Elif Shafak ne La Bastarda di Istanbul, grandissimo successo mondiale, tradotto in più di 30 lingue, di una delle autrici più rappresentative della letteratu-ra contemporanea.Pupi e Fresedde hanno avuto per la prima volta i diritti per mettere in scena questo romanzo, il cui tema centrale e ancora scottante è quel buco nero nella coscienza della Turchia rappresentato dalla questione armena, di cui proprio quest’anno ricorre il centenario.Ne ha parlato in conferenza stampa alla caffetteria delle Oblate il regista Angelo Savelli con Serra Yilmaz, l’appassionata protago-nista di questa straordinaria saga familiare inter-etnica, popolata di

meravigliosi personaggi femminili e di storie brucianti.La storia lega il destino di Asya (la bastarda), adolescente turca ribelle e nichilista che vive a Istanbul, a quello di Armanoush, sua coeta-nea, una tranquilla statunitense di origine armena che vive a San Francisco e che, per ritrovare le proprie radici, sbarca segretamente a Istanbul nella famiglia matriar-cale e colorata del suo patrigno turco Mustafa. Frequentando Asya, la sua famiglia e i suoi amici, Armanoush si accorge di non odiare affatto i Turchi e, pur non scoprendo il segreto che unisce il passato della famiglia turca dei Kazanci a quella armena dei Tcha-

khmakhchian, riconosce che malgrado tutti i tentativi di negarsi gli uni agli altri, Turchi e Armeni sono legati, mescolati all’immagine stessa di Istanbul, vista come una grande nave, città multietnica e meticcia per eccellenza.Un racconto di donne, di mino-ranze, di subculture e immigrati, di tutto un mondo di etnie che hanno formato il patrimonio culturale turco e di cui talvolta sembra che la Turchia attuale tenda a dimenticare.Questa ricchezza si ritrova anche

nei diciotto ingredienti dell’a-shure, tipico dolce turco compo-sto da fagioli, ceci, riso, grano, mandorle, pistacchi, noci, chicchi di melagrana e altri ancora, che danno appunto il titolo ai diciotto capitoli del libro. E di cui la zia Banu di Serra Yilmaz racconta la leggenda, che risale ai tempi di Noè e dell’Arca.TeatroDante Carlo Monni, sabato 28 febbraio, Teatro di Rifredi, da martedì 3 a domenica 15 marzo.

di BarBara Settitwitter @Barbara_Setti

ecoletteratura

La bastardadi Istanbul

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Sorvolando o cercando su Google Maps, nei dintorni di Santa Croce sull’Arno,

a nord si individua un dise-gno di paesaggio armonioso: un mosaico di olivi, cipressi, boschi e alberi fioriti senza inserimenti estranei alla logica della campagna. Elementi come piscine e campi da tennis si trovano invece negli immediati dintorni e balzano agli occhi come delle insanabili ferite nel paesaggio. Stiamo osservando il podere della villa il Castelluccio, dove Pietro Porcinai dagli anni settanta ha realizzato una delle sue opere meglio inserite nel pa-esaggio toscano: la piscina ed il campo da tennis sono ambien-tati con una tale maestria da non creare alcun impatto visivo ma al contrario rappresentano delle opportunità formali all’in-terno del disegno complessivo. Il rettangolo a prato del tennis genera un invaso digradante con scarpate avvolgenti inserite nel percorso ad anello che come un fil rouge congiunge la piscina poco percepibile, immersa nella vegetazione e con il fondo scuro. Forse Porcinai ha progettato la sua opera pensando anche a come si sarebbe potuta vede-re dall’alto e sicuramente ne sarebbe molto soddisfatto. In una intervista del 1985 ad AD, ha affermato: “il vero giardino non distrugge, ma valorizza il terreno […]. Non basta piantare qualche albero dove capita per avere un bel giardino”.L’intervento disegna infatti uno scenario congruente con il contesto e una dinamica compositiva in cui si concretiz-zano i principi e la metologia progettuale del Maestro, che valorizzando il paesaggio lo de-finisce: “un magnifico immenso giardino”. A volo d’uccello tutto il podere appare un insieme verdeggiante con un grande invaso d’acqua e un colle frastagliato, intorno al quale si distende una tessitura agricola, un reticolo di strade bianche e ampie masse boscate. Cambiando prospettiva scopria-mo come il racconto si dipani in vari episodi in una campagna trasformata e una cornice verde di grande effetto plastico e cromatico, in cui si ripartiscono

varietà di specie autoctone e an-che esotiche che Porcinai usava senza remore. Determinato da una concezione ecologica ante litteram dichiarava: “possono appartenere al giardino tutte le piante, anche esotiche e rare, purchè lo consentano il terreno ed il clima e siano in armonia estetica e biologica con l’ambiente”. Corbezzoli, mirti, rosmarini e ginestre della macchia mediterranea sono inframmazzati ad anse di escal-lonie ed esotiche mahonie scelte per la diversa epoca di fioritura. Lungo la recinzione si alternano pioppi, cipressi e lecci, mentre numerosi alberi da fiore e da frutto enfatizzano il percorso ad anello e intorno ai prati dei cavalli si alterna un campionario di aceri campestri, californiani e saccarini dalle laconiche fiori-ture autunnali. Queste variate piantagioni con gli accostamenti di cromie, forme, texture, sfu-mature e profumi sono pensate per offrire informazioni, stimoli ed emozioni coscienti e sublimi-nali, in una infinita scoperta ed inesauribile interazione spa-zio-temporale.

Il podere-giardinodella villa

il Castelluccio

di ineS romittiwww.naturaprogetto.eu

di davide [email protected]

Contaminature

Cava di puddinga: roccia sedimentaria costituita da frammenti tondeggianti uniti tra di loro da varie sostanze sabbiose cementanti

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un altro musicista catalano, il cantautore Joan Manuel Serrat, che proprio in quel periodo sta cominciando a comporre.Serrat è parte integrante del-la nova cançó, il movimento

musicale che rivendica l’uso della lingua catalana. Sia-mo in piena dittatura franchista, quando impe-ra un centrali-smo soffocan-te che nega le identità regionali (ba-sca, catalana e galiziana). Negli anni successivi i due musicisti si incontrano nuovamente e suonano insieme in

alcuni concerti. Ormai è nata una solida amicizia. Nel 1969 il pianista realizza Tete Montoliu interpreta a Serrat, un 33 giri dove rilegge alcune can-zoni di Serrat. Il disco, ristam-pato recentemente (Discmedi, 2014), contiene 13 pezzi, uno dei quali (“Medley Marta”) è una lunga fantasia. Ha poco sen-so soffermarsi sui singoli brani, mentre è necessario cogliere l’u-nitarietà del disco, dove sembra che il pianista fonda i vari brani in un’unica suite. Tete Montoliu interpreta a Serrat

La Spagna ha dato un con-tributo notevole alla storia della musica.

Possiamo dire lo stesso anche se ci limitiamo alla Catalogna, terra natale di artisti come Montser-rat Caballé, Frederic Mompou, Jordi Savall, Tete Montoliu. Quest’ultimo non è molto cono-sciuto in Italia, ma è comunque ben noto agli amanti del jazz. Cieco dalla nascita, Vicenç Montoliu i Massana cresce in una famiglia dove si respira musica: il padre suona in alcune orchestre cittadine e la madre è un’appassionata di jazz. Tete impara a suonare al piano sotto la guida di Petri Palou. Il padre vorrebbe che il ragazzo si dedicasse alla musica classica, ma prevale l’influenza della madre, che gli fa ascoltare i dischi di Earl Hines, Fats Waller e Art Tatum. Quest’ultimo lo influen-za col suo tocco virtuosismo creativo e pirotecnico. Tete comincia quindi a esibirsi nei locali della città natale, dove viene notato da Lionel Hamp-ton. Questo segna l’inizio di un’attività internazionale che lo porta a collaborare con i mag-giori jazzisti dell’epoca, come Anthony Braxton e Roland Kirk.Nel 1965 Montoliu conosce

Poesiasenzaparole

è un omaggio singolare: un jazzista di fama consolidata si avvicina al repertorio di un cantautore in attività da pochi anni. Le canzoni di Serrat ema-nano un fascino che supererà i confini spagnoli: alcune saranno interpretate da cantanti stranie-ri, inclusi italiani come Mina e Francesco Guccini. Gino Paoli gli dedicherà un intero LP, I se-mafori rossi non sono Dio (1974).Certi cantautori vengono giustamente considerati dei poeti: Serrat è uno di questi. Ma l’omaggio di Montoliu dimostra che la poesia può esistere anche se non si usano le parole. Il disco è stato uno dei primi a mettere in evidenza il filo rosso che lega i jazzisti ai cantautori. Questo fenomeno ha trovato poi numerose conferme, arrivando fino ai nostri giorni. Renato Sel-lani ha inciso Per Umberto Bindi (2003); il trombettista inglese Nick Smart ha realizzato un sentito omaggio a Nick Drake (Black Eyed Dog: Remembering Nick Drake, 2005); in Univers Nino (2014) il clarinettista francese Denis Colin ha riletto alcune canzoni di Nino Ferrer. L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma forse è meglio che ognuno si addentri da solo in questo mare magnum fatto di jazz e poesia.

Non c’è turpiloquio né tanto meno un errore di stampa nel titolo: i “cozzoni” erano mediatori di cavalli che, durante la “fiera dei contratti” che si svolgeva a Porta Romana la quinta domeni-ca di Quaresima, combinavano anche matrimoni fra i contadini. Il cozzone doveva in particolare verificare che la potenziale sposa avesse “Tre cose nere (ciglia, occhi e capelli). Tre cose bianche (un-ghie, pelle e denti). Tre cose grosse (cosce, natiche e seni)”.Ora, probabilmente i Lorena non arrivavano alla verifica di queste sottigliezze anatomiche, ma, quan-to a cozzoni, non erano secondi a nessuno. Leopoldo I, Granduca di Toscana dal 1765 al 1790 e poi Imperatore del Sacro Romano Impero, incap-pò però in un “infortunio” che fece ridere tutta Europa. Leopoldo aveva chiesto ai Borbone la mano di una delle sue figlie per il figlio

Ferdinando, erede al granducato di Toscana, e il re di Napoli aveva concesso la mano della primoge-nita Maria Teresa. Subito dopo Leopoldo, diventato imperatore, si rivolse di nuovo ai Borbone per il primogenito Francesco, erede della corona imperiale. Alla corte di Napoli si scatenò il panico: era infatti rimasta Luisa Amalia “un po’ difettosa nella persona”. D’altra parte, poiché un’impera-trice vale più di una granduchessa e a Firenze nessuno aveva visto le due “napoletane”, la regina madre Carolina mandò a Ferdinando il ritratto di Luisa Amalia e a Francesco quello di Maria Teresa, scambiando di fatto le promesse spose. Il doppio matrimonio si

celebrò a Vienna il 18 no-vembre 1790, con piena soddisfa-zione di tutti.Ferdi-nando,

sulle orme del padre, per prima cosa si preoccupò dell’avvenire di Maria Teresa, nata nel 1801: tanto brigò che riuscì a combinare un matrimonio con i fiocchi. Il 30 settembre 1817 furono celebrate in Santa Maria del Fiore le nozze fra Maria Teresa e Carlo Alberto, principe di Savoia. Si dice che fu proprio in quell’occasione che Carlo Alberto esternò i suoi senti-menti anti-austriaci che, trent’an-ni dopo, sarebbero sfociati nella prima guerra d’indipendenza: il Savoia avrebbe infatti trattato con grande freddezza il conte Metter-

nich, demiurgo del congresso di Vienna, che era fra gli invitati al matrimonio.Sistemata Maria Teresa, Ferdinan-do si dedicò al terzogenito Leo-poldo, che i fiorentini avrebbero soprannominato “Canapone”. Fatta una rapida ricognizione in tutta Europa delle fanciulle di nobile lignaggio libere da vincoli matrimoniali, partirono per Dresda, dove aveva sede la corte di Sassonia, il ciambellano capo Giovan Battista Baldelli e Giuseppe Pistoi, responsabile del dipartimento degli affari esteri del granducato di Toscana, con il delicato compito (coronato da successo) di chiedere al principe Massimiliano di Sassonia la mano della figlia Maria Anna Carolina. Convolata a nozze nel 1817, la granduchessa morì di tubercolosi nel 1832 e Canapone, consolatosi in tempo record, l’anno dopo si risposò con Maria Antonietta di Borbone, famiglia grande fornitri-ce di spose per i Lorena.

di FaBriZio [email protected] Piazza Dresda

LorenaCozzoni

di aleSSandro [email protected]

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pretare i loro sogni, un mondo che non c’è e che si insegue per una vita intera. Poiché l’adole-scenza è l’età in cui c’è la forza e la profonda aspirazione di cam-biare il mondo, I primi interlo-cutori dell’associazione saranno proprio gli alunni delle scuole, in modo che i giovanissimi che non hanno mai conosciuto questo attore e regista, recandosi “A casa di Massimo Troisi”, possano

cogliere l’essenza di Massimo attraverso il coinvolgimento di tutti i sensi. La sede è un luogo che deve diventare un riferimen-to per le generazioni che non lo hanno conosciuto e per quelli che vogliono intraprendere o continuare un percorso artistico. “Saremo pronti ad interfac-ciarci con accogliere chiunque, sia in Italia che all’estero, si sia adoperato con premi, manife-

stazioni, eventi vari in ricordo di Massimo. – spiega Luigi Troisi - Faremo delle fan card per coloro i quali vorranno partecipare alla vita dell’associazione mentre sarà socio ordinario chi prenderà par-te alla formazione dei programmi di attività. Per tutti gli altri che vorranno visitare questo luogo di ricordi ma ancora vivo nello spi-rito l’accesso sarà libero secondo un orario prestabilito.

Luigi Troisi aveva nell’anima il forte desiderio di creare a San Giorgio a Cremano

la stessa atmosfera che Massimo aveva creato nella casa, vicino Roma, dove si riuniva con gli amici. Proprio nel suo salotto, tra tanti strumenti musicali, nascevano quelle idee che poi era riuscito a trasformare in progetti di successo. La Casa di Massimo Troisi, inaugurata recentemen-te nella città dell’artista, San Giorgio a Cremano, è un luogo in cui incontrare tutti quelli che vogliono conoscere meglio la vita artistica di Massimo, parlare dei suoi sogni non realizzati e promuoverne il ricordo attraverso ogni azione che metta in risalto la sua originale capacità di comu-nicatore . E’ come se fosse la sua casa, in cui c’è l’odore dei suoi ricordi, dei suoi successi, della sua umanità. Luigi Troisi è il presidente della nuova associazio-ne “A casa di Massimo Troisi” ed ha voluto fortemente che in uno spazio pubblico fossero ospitati cimeli del grande artista “sapen-do che questo luogo appartiene a Massimo per nascita ma ancor più per il suo amore di essere san-giorgese”. Troisi ricorda con affet-to il fratello: “Ha portato una no-vità nel teatro napoletano: i suoi tempi. Così come in televisione dove arrivava come un tornado facendo sembrare che non era lui l’attore bensì lo spettatore di tutto quello che accadeva intorno a sé. E’ stato quello che non ha modificato il suo modo di parlare in napoletano. La sua artisticità era presente già dallo sguardo. Anche quando cantava stonava a modo suo, aveva uno stile che nessuno potrà mai uguagliare, al limite solo somigliare. Diceva che Il silenzio a volte parla più di una frase impostata.” Così, nella sua nuova casa a San Giorgio a Cremano sarà lui a continuare a parlare. In vita, raccontava che aveva iniziato contro tutto e tutti perché riteneva di vivere in un ambiente sociale, politico, artistico che non gli piaceva e che attraverso il cinema aveva cercato di esprimere il suo modo di vede-re la vita. Era cosciente che tanti ragazzi sono contro tutto e tutti perché vogliono essere diversi, se stessi, senza essere costretti ad imitare. Perché vogliono inter-

di miChele [email protected] A casa di Massimo

L’arroganza e l’ignoranza fecondano la stupidità. L’igno-ranza e la stupidità rafforzano l’arroganza. La stupidità e l’arroganza riposano sulla stupidità. Ad rogare (Arroganza) sta per appro-priarsi di qualcosa di cui non si ha diritto, esprime un senso ingiustifica-to di superiorità verso l’altro. Il bravo prof. Mario Cipolla, emerito di Sto-ria Economica a Berkeley, ricordava

spesso le Leggi della stupidità umana, oggi così di nuovo attuali:Gli stupidi danneggiano l’intera società;Gli stupidi al potere fanno più dan-no degli altri:Gli stupidi democratici usano le elezioni per mantenere alta la per-centuale di stupidi al potere:

Gli stupidi sono più pericolosi dei banditi;I ragionevoli sono vulnerabili dagli stupidi perché non riescono ad organizzare una difesa razio-

nale perché l’attacco non ha alcuna struttura razionale. *Con l’autorizzazione dell’Acca-demia della Crusca si può affer-mare che in sede locale il termine “stupido” può essere sostituito da “bischero”.

di BurChiello 2000

PasquinateArroganza,ignoranza,stupidità

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La Bic è la tesi e l’antitesi della penna: tutti ce l’hanno ma non ce n’è uno che la ‘esibi-sca’; non si usa per firmare un proclama né un trattato né un rogito di compravendita, per-ché fa quasi vergogna, sembra ‘na roba da pezzenti. Eppure dinanzi ad un esercito confor-mista di uomini armati di co-stose stilografiche e prestigiose penna a sfera, la Bic offre l’op-portunità di misurare la perso-nalità, intesa come attitudine alla espressione/imposizione di sé e, conseguentemente, quale capacità di sostenere la respon-sabilità di un comportamento originale, se non stravagante. E così, come nell’affrontare un provetto spadaccino a mani nude, impugnando la tua Bic - cioè esibendo una essenzia-le povertà - finisci per dover sprigionare il meglio di te e puoi rischiare di sovrastare, di schiacciare l’altro o gli altri con la tua differenza, con tutta la ricchezza del tuo essere. Datti un po’ di arie, con la tua Bic! Può apparire sofisticata, persino snobbish, e marcare la distanza dalle mode, perché a differenza di quelle non tra-monta mai. Così un oggetto di uso comune - persino dimes-so - diventa elitario, si carica di significato e di simboli, si proporrebbe all’universo

“Figure del dono. Dispendio, reciprocità e impegno nella pratica artistica contemporanea”, monografia edita dalle Edizioni Pisa Universitypress, con una postfazione di Sergio Givone, è un’indagine controcorrente di Gianni Pozzi, docente presso l’Accademia delle Belle Arti di Firenze, che rilegge la Sto-ria dell’Arte Contemporanea, fiorentina e internazionale, in una chiave di lettura inedita e sorprendente. L’Arte è ora vista e analizzata come un gioco, una condivisione, una comunione di esperienze, un’opposizione alla logica centripeta, in sostanza, un dono degli artisti al mondo dei fruitori e dei lettori dell’universo artistico contemporaneo. Un preciso modo di operare e di fare

arte che evidenza l’esistenza di una gestualità tesa a creare una rete di relazioni reciproche e di scambi, in quanto partecipazione attiva e interdisciplinare in un ambito complesso, che necessita della collaborazione a più riprese per poter esistere ed essere inter-pretato nella propria essenzialità e totalità. L’artista è quindi un filo-sofo del contemporaneo – e con esso si confronta – che procede sfuggendo alla canonicità per operare opponendosi al Sistema ma, allo stesso tempo, donan-do in un perpetuo incontro/confronto, talmente costruttivo da esser divenuto un comune denominatore fra svariate espe- rienze e prassi estetiche. Donare

è la nuova modalità attraverso la quale nascono opere la cui concettualizzazione supera ogni aspettativa e, di fatto, si qualifica come l’unico modo possibile di reagire in relazione alla stra-citata “morte dell’Arte”, per far sì che la creatività continui nella sua perdurante ricerca e concretizzi, attraverso opere d’arte, perfor-mances e dichiarazioni poetiche, le intuizioni personali di artisti e intellettuali, che in reciproci ri-flessi intellegibili contribuiscono ad accrescere la Cultura esistente e ad annientare quella precostitu-ita dal Sistema. “Figure del dono” è una monografia che apre gli oc-chi su un panorama inesplorato e difficile da discernere, ponendo l’accento sulla necessità di trovare nuove chiavi di lettura al divenire molteplice dell’Estetica contem-poranea.

Ode(e lode)alla pennaBic(parte seconda)

L’arte del dono

di Warhol - se questi ancora vivesse – o al dizionario dello Zen. Nell’era dei notebook, degli smartphone, dei tablet, impugnare una Bic e scrivere sulle pagine di un quaderno può assurgere a elemento di distinzione intellettuale e sociale. Eppure quando ho detto tutto questo non ho ancora afferma-to ciò che conta effettivamen-te. Perché la verità è che la Bic concilia con l’atto di scrivere più di ogni altra penna sulla faccia della Terra e aiuta per ciò a sostenere con fiducia quello che Baharier chiama il “rischio” insito nella scrittura. Con un senso di vicinanza domestica, di amicizia con il mondo, la Bic ti incoraggia e ti asseconda nell’atto di espor-re e dare forma al tuo pensie-ro. E’ tua perenne compagna,

se vuoi, il coadiuvante di ogni trattamento di scrittura. Alla fine, dopo l’utilizzo di penne splendide e da far splende-re nell’autocompiacimento

siccome nello showing off, riprendere in mano la Bic è un po’ come tornare a casa dopo un’avventura esotica. Essa consente varie, forse infinite modalità di impugnatura e tante, altrettante consistenze e sembianze alla grafia. Non c’è pagina che non si lasci sverginare, non c’è testo che non si lasci vergare da una Bic. La sua anima lunga serba un fluido che permette di portare sulla carta, assai facilmente, le buone e le cattive idee, la grande come la vile ispirazio-ne.La Bic ha soprattutto la legge-rezza giusta per consentire un esteso tragitto, un’ampia ses-sione, un persistente impegno di scrittura. Come la donna della vita, anche la penna ha da essere più saggia che intraprendente, più comoda che bella. La Bic sta alla scrittura come il cane sta all’amicizia. La Bic e il cane muoiono entrambi, ma prima di questo quanta gioia, quanta fedeltà!Da alcuni anni la Cristal ha ‘partorito’ la Cristal Pocket. Anch’essa è diventata mia inse-parabile compagna e di questa incredibile famiglia – un po’ parafrasando il poeta (Carda-relli) – vado componendo la mia scrittura (intesa come at-tività dello scrivere) ch’è tutta un profondissimo piacere.

di Paolo [email protected]

di laura [email protected]

Sergio Givone e Fabio Cavalluccipresentano il libro di Gianni Pozziedito dalla Pisa University Press

Gianni Pozzi

FIGURE DEL DONODispendio, reciprocità eimpegno nella pratica artisticacontemporanea

Accademia di Belle Arti di FirenzeAula del Cenacolo

Giovedì 19 febbraio | ore 15.00

Interviene Eugenio Cecioni,Direttore dell’Accademia

Modera Franco Speroni

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- Certo che c’è da preoccuparsi. Non c’è più destra e sinistra.

Oriente e Occidente…- Sono convenzioni…storicamente…- I posti di lavoro andrebbero dati agli italiani, punto numero uno.- …che però non vogliono svolgere più certi lav…- Punto numero due, le case! Ma ti pare giusto che questi vengono qua e c’hanno la casa?- …ma non è che vengono qua per prendere le case, scappano da…- E questo è il punto numero due.- …- Mia figlia ha vent’anni e non voglio che viva in un paese così. Ha paura pure a uscire di casa. E questo è il punto numero tre. Un tempo ci conoscevamo tutti qui in pase, adesso non so neanche chi ci sta nell’appartamento di fianco. E’ tutto un entra ed esci di marocchini, neri, gialli, rossi…- …ok, ma guarda che noi abbiamo esportato mafia…- Punto numero quattro, vado a fare la spesa al supermercato dei barboni, io, che c’avevo la Maserati.- …siamo comunque dei privilegiati, nella crisi. Nessuno muore di fame in Italia, andiamo.- Cosa cosa cosa? Che ho visto gente pelle e ossa per le strade?- …ma dai…- Punto numero cinque, si devono vestire come comanda la Costitu-zione Italiana. Il volto scoperto. Voglio vedere, eh caro mio, chi-sei-in-faccia.- …in realtà la costituz…- Punto numero sei, se togli il crocifisso dall’aula di mio figlio, Giaco-mo, quello che fa le elementari, ti vengo a bombardare a casa tua e ti ammazzo pure i cammelli- Veramente, li bombardiamo anche nei loro paesi, se è per questo…- Punto numero sette io ho votato PD!- …anch’io.

Tornano al Teatro Studio di Scandicci Valter Malosti, regista della compagnia torinese Teatro di Dioniso, e l’attrice Federica Fracassi, in uno spettacolo di successo prodotto nel 2010 che li ha visti insieme per la prima volta in un progetto comune. Corsia degli incurabili, pubblicato nel 1996, è un atto unico scritto in versi da Patrizia Valduga, una delle voci più significative della poesia contemporanea italiana. Il regista Valter Malosti, anche direttore della Scuola di formazione per attori del Teatro Stabile di Torino ha immaginato un lavoro intimo e scabro.Al Teatro Studio di Scandicci il 27 e 28 febbraio, versi di Patrizia Valduga, regia di Valter Malosti

Il presente del futuro prossi-mo. Mosca verso una nuova metamorfosi. Presentazione di Area 138Tecniche Nuovemartedì 3 marzo 2015 ore 17.30 allo Spazio ALungarno Cellini 13A - Fi-renze

Aldo frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexLa particolarità di questo Scottex 10 è il cromatismo distribuito con sapienti giustapposizioni di rossi, verdi e di ombre celestine. Ma se vi avvicinate all’opera sco-prirete una ulteriore originalità: l’odorato. La scultura emana l’inebriante profumo di un Brunello di Montalcino del 2006, riconoscerete subito che proviene dalla celebre cantina di Canalicchio di Sopra. Non sappiamo se il della Bella ha imbe-vuto la carta di gocce di vino, oppure se aveva utilizzato lo scottex per asciugare la tavola. La scultura va comunque apprez-zata nel momento stesso che è stata fatta, come abbiamo fatto noi, poiché, già dopo un giorno, olezzerà d’aceto e così verrà meno l’intenzione primigenia dell’artista.

Sculturaleggera

CattivisimoLa bonaccia

Corsiadegli incurabili

Mockba 2.0

10di FranCeSCo [email protected]

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di Aldo frangioni

Caro Charlie,sono al tuo fianco, mentre riprendi la tua uscita regolare, la mia lan-cia-matita ti di-fenderà contro tutti i mostri.Tuo affeziona-tissimo Don Quijote de la Mancha

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L

Questa settimana ho deciso di saltare l’abituale “appuntamento americano” per rendere un doveroso omaggio a Luca Ronconi, il grande regista che si è spento il 21 di questo mese al Policlinico di Milano dove era ricoverato da alcuni giorni. L’ho incontrato per la prima volta nel 1975 a Firenze, in piazza Santa Croce, ed è in quell’occasione che che ho avuto la possibilità di scattare questo ritratto. Era

il giorno delle prove del suo spettacolo “Utopia”, l’evento culturale più importante del Festival Nazionale de l’Unità di quell’anno e avrebbe dovuto svolgersi proprio in quella piazza. Tutto era ormai praticamente allestito per lo spettacolo ma all’ultimo momento l’evento fu sposta-to al “Fabbricone” di Prato a causa delle avverse condizioni del tempo. Nel mio percorso fotografico ho dedicato molto spazio alla fotografia di ritratto e questo è sempre stato uno dei miei ritratti preferiti. Onore al grande maestro.

Luca Ronconi, firenze, 1975

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

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