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CROCE ROSSA ITALIANA Volontari del Soccorso Sistemi di welfare, i fattori di crisi e l’iniziativa sociale Dispensa per le Attività Sociali Corso di specializzazione VV.d.S. C.R.I.

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CROCE ROSSA ITALIANA Volontari del Soccorso

Sistemi di welfare, i fattori di crisi e l’iniziativa sociale

Dispensa per le Attività Sociali

Corso di specializzazione VV.d.S. C.R.I.

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1 – Croce Rossa Italiana - Manuale per le Attività Sociali

WELFARE STATE

Alcune definizioni di Welfare State: Il welfare state è uno stato nel quale il potere organizzato è deliberatamente utilizzato … nel tentativo di modificare le forze di mercato in almeno tre direzioni […]: primo, garantendo a individui e famiglie un reddito minimo indipendentemente dal valore di mercato del loro lavoro o della loro proprietà; secondo, limitando i margini di insicurezza mettendo individui e famiglie in condizione di fronteggiare determinate “contingenze sociali” (per es., malattia, vecchiaia e disoccupazione); e terzo assicurando ad ogni cittadino senza distinzione di classe o di status i migliori standard possibili in relazione a una determinata gamma di servizi sociali. (Asa Briggs)

L’essenza del welfare state è la protezione governativa di standard minimi di reddito, alimentazione, salute e sicurezza fisica, istruzione e abitazione, garantita ad ogni cittadino come diritto politico. (Harold Wilensky)

Il termine welfare state designa un insieme di risposte di policy al processo di modernizzazione consistenti in interventi politici sul funzionamento dell’economia e sulla distribuzione delle chances di vita all’interno della società i quali mirano a promuovere la sicurezza e l’eguaglianza dei cittadini al fine di accrescere l’integrazione sociale di società industriali ad elevata mobilitazione. (Jens Alber)

QUALCHE CENNO STORICO

Le origini nel “paternalismo medioevale” L'attenzione dello Stato nei confronti delle problematiche sociali è legata alla crisi definitiva del sistema feudale e del mondo medievale. La società feudale aveva al proprio interno una rete di solidarietà, di assistenza e di tutela delle singole persone e, in primo luogo, dei poveri, ma si trattava di un sistema di tutele basate sul concetto di carità della nobiltà. Fino all'epoca moderna e contemporanea, i poveri costituivano una delle tre componenti della società signorile: le altre due erano costituite dai signori e dai servi. I poveri, massa fluttuante, ma sempre corposa, avevano contemporaneamente il privilegio e la dannazione del non lavoro. Marginali, ma non esclusi, sopravvivevano, grazie agli avanzi delle mense dei signori. Lo Stato (Res Publica) era soltanto una formazione giuridica alla quale gli individui si sottoponevano nell'interesse generale, sulla base di un contratto sociale in verità ben definito, quasi sempre imposto con la forza. A quel tipo di Stato i politologi hanno dato il nome di Stato protettore. Ad esso l'individuo offriva la propria sottomissione e la propria partecipazione in cambio di garanzie in materia di difesa e giustizia. Naturalmente non sempre questo patto veniva rispettato perché spesso, per non dire sempre, lo Stato era posseduto da oligarchie, che ignoravano il concetto di libertà o ne facevano comunque un uso assai improprio: i cittadini erano sudditi, la cui libertà era affidata alla discrezione del monarca. Le leggi che venivano promulgate erano a carattere assistenziale-repressivo (le poor-laws, Gran Bretagna, 1601).

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L’interno di una “Workhouse” britannica sotto le “poor laws” in una stampa d’epoca

Dalla rivoluzione industriale alla prima guerra mondiale Caduta questa rete di protezione e di solidarietà, è necessario garantire una qualche forma di assistenza tramite specifiche leggi. Il provvedimento più significativo in tal senso fu la Speenhamland Law, del 1795 (Legge britannica che accordava ai poveri un sussidio in rapporto al prezzo del pane e al livello del loro salario, nei momenti di difficoltà; fu abolita nel 1834). In Inghilterra le autorità sono mosse più che da ragioni umanitarie o di giustizia distributiva, dalla preoccupazione e dal timore crescente che i poveri possano diventare ceti pericolosi, subire il contagio della Rivoluzione francese e mettere in discussione l’assetto istituzionale. Nei decenni a cavallo tra Settecento e Ottocento la Rivoluzione industriale trionfa in Inghilterra e comincia anche a affermarsi in alcune aree dell’Europa continentale. Gli Stati rivendicano a sé il compito organizzare forme nuove di protezione sociale, esautorando progressivamente in questo campo, di conseguenza, le istituzioni religiose e corporative. Contemporaneamente attivano strumenti di controllo e di prevenzione-repressione per garantire l’ordine costituito. Si confrontano, sul terreno delle idee e su quello delle pratiche politiche, due posizioni:

1) La prima rivendica un intervento dello Stato per garantire a tutti i cittadini il diritto di esistere.

2) La seconda, diffidando delle interferenze dello Stato nella sfera economica e sociale, ritiene che solo il perseguimento dell’utile personale, accompagnato da costumi austeri e dalla capacità di rischio, possa garantire la fuoruscita dal bisogno e dalla dipendenza.

Le variegate legislazioni sui poveri in Inghilterra, ma anche in Prussia e nell'Impero Asburgico, si propongono di evitare che essi possano, come nei secoli precedenti, continuare a muoversi liberamente nel paese, vivendo di lavori occasionali, di espedienti e di carità. L'Inghilterra sperimenta variegate forme di Poorhauses e di Workhouses. Esperimenti simili vengono tentati in Francia con gli Hospitaux generaux e i Dépôts de mendicitè e, nell’Impero Asburgico, con gli Armeninstitut. I nomi stessi di queste istituzioni rinviano ad una realtà penosa e opprimente (basti ricordare quanto rievocato nel romanzo di Charles Dickens “Tempi difficili”)

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3 – Croce Rossa Italiana - Manuale per le Attività Sociali

L’azione sociale dei governi, in tutta una prima fase dell’industrializzazione, si estrinseca in numerosi, ma episodici, interventi delle amministrazioni che portano a misure migliorative delle condizioni di lavoro, specialmente per i soggetti più deboli, come le donne e i bambini, talvolta con l’introduzione di prime forme di assicurazione sulla morte o sull’invalidità. Si hanno anche trasferimenti di risorse finanziarie, anche pubbliche, a favore dei lavoratori e delle loro famiglie. A spingere in tal senso più che il riconoscimento della cittadinanza sociale, o anche solo l’esigenza di stimolare la domanda con la crescita del potere di acquisto dei

ceti operai, è la preoccupazione assillante di ridurre e porre sotto controllo il dissenso e il conflitto sociale. Negli ultimi decenni dell'Ottocento e nel primo Novecento, la Seconda rivoluzione industriale vede sul terreno politico-istituzionale un mutamento profondo nelle costituzioni materiali di molti paesi: con l’estensione del diritto di voto, sino al raggiungimento del suffragio universale, sia pure di un suffragio universale dimezzato, per la perdurante esclusione delle donne e con l’affermarsi dei grandi partiti di massa, socialisti e socialcristiani, si passa dallo Stato monarchico - costituzionale a quello democratico - parlamentare. Primario diritto sociale, anche perché ritenuta efficace strumento di emancipazione, è l'istruzione, che ai livelli elementari è divenuta obbligatoria e gratuita. Il modello tedesco è forte e fascinoso: era la dimostrazione che l'interesse dello Stato per la formazione e la scuola garantiva non solo dei cittadini disciplinati, ma anche dei cittadini produttori di straordinaria bravura. Questa condizione si fondava sull’efficiente e avanzato sistema scolastico, dalle elementari fino alle università. État providence, in francese, Wohlfahrstaat, in tedesco, è stato definito questo tipo di intervento statale dall’alto, con forti connotazioni autoritarie, anche quando sono benevolmente paternalistiche: è tipico della Germania e del Giappone, ma alcuni suoi tratti sono presenti anche in Italia e, persino, nella Russia zarista. Un modello alternativo fu, invece, praticato in Inghilterra, dove lo Stato, smantella la legislazione sui poveri, ma anche, negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, quella protezionistica, permettendo, con le Corn Laws, l’importazione, senza dazi doganali, di granaglie americane e australiane, rendendo, di conseguenza, possibile per i ceti popolari un'alimentazione, che era ancora quasi esclusivamente farinacea, a costi molto minori. Il modello in questione è quello del Mutual Aid e del Self Help: da una parte le società di mutuo soccorso e di resistenza da cui trarranno origine le “Trade Unions”, dall'altra le cooperative, a partire da quelle di consumo. Oltre che in Inghilterra, anche in diversi altri paesi europei, i diritti sociali, prima ancora di essere tutelati dallo Stato, vengono sperimentati sul campo, in forma diffusa e crescente, dai diretti interessati, e, in particolare, dai ceti operai urbani con la costruzione di fitto tessuto di organizzazioni sindacali e cooperative. Gli Stati sono costretti a cedere alla richiesta delle organizzazioni sindacali di garantire, con interventi legislativi e coperture finanziarie, forme assicurative in caso di malattia e di morte e anche pensioni d'invalidità o di vecchiaia, perché essi, spontaneamente, da tempo, avevano tutelato in tal senso i propri servitori, pubblici dipendenti e, in particolare, militari professionali.

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i “soci” di una società di mutuo soccorso.

All'inizio del Ventesimo secolo, anche in Italia, nel giolittiano decennio riformatore, seguito alla drammatica crisi sociale e istituzionale di fine secolo, si scopre un terreno nuovo in cui i diritti sociali possono essere realizzati, permettendo una più elevata qualità della vita individuale e collettiva. Il soggetto istituzionale coinvolto non è più lo Stato, ma i comuni, nella storia italiana di lunga durata percepiti, quasi sempre, senza ostilità, diffidenza e estraneità. Attraverso lo strumento delle aziende municipalizzate, i comuni provvedono alla mobilità urbana, alla distribuzione dell’acqua, dell’energia elettrica, del gas.

Dal primo dopoguerra a oggi Negli anni Venti e Trenta, dopo gli sconvolgimenti bellici e postbellici, a seguito anche della crisi dell’idea di progresso e di democrazia e, contemporaneamente, del diffondersi di culture e mentalità violente e illiberali, si presenta un'altra variante, per molti aspetti non prevista: lo Stato sociale di connotazione autoritaria o totalitaria. Uno Stato, che fa i conti con la moderna società di massa, utilizzando al contempo efficienti strumenti di dominio e di consenso; che si fa carico dei diritti sociali, ma mortifica i diritti civili e politici. La creazione nell’Italia fascista di un’economia mista, di cui sono espressione l’Istituto mobiliare italiano (IMI) e l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) è finalizzato a sperimentare il corporativismo. Nella Germania nazista successi evidenti nel campo della lotta all’inflazione, dell’occupazione, della ripresa dei consumi, dell’erogazione di articolati servizi sociali sono però sottoposti a un rigido controllo e inquadramento quasi militare. In Unione Sovietica pur in assenza delle libertà individuali e in presenza di perdurante, diffusa dura repressione del dissenso, il diritto al lavoro e alla pensione, all’assistenza sanitaria, all’istruzione, è garantito.

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Nel mondo democratico è diffusa la convinzione che lo Stato democratico-sociale costituisca un'ulteriore evoluzione, non solo in senso cronologico, ma anche per la qualità e la quantità dell’intervento pubblico nel campo del benessere dei cittadini, rispetto allo Stato democratico - parlamentare. Negli Stati Uniti, dopo la Crisi del ’29 il percorso che viene seguito configura già la struttura contemporanea dell’assistenza statale. La National Recovery Administration fornisce un sostegno economico alle industrie in crisi che si impegnassero, in dialogo con i sindacati, a garantire i livelli salariali, assumere personale aggiuntivo e diminuire l’orario di lavoro. Una sorta di modello fordista dello Stato sociale che coniuga sviluppo e inclusione, efficienza economica e equità sociale.

È tuttavia, il notissimo rapporto, Social Insurance and Allied Services, elaborato dall’economista W.H. Beveridge nel dicembre del 1942 per conto del governo inglese a costituire la “magna carta” dell’odierno Welfare State. Dichiarato obbiettivo finale del Rapporto Beveridge è la sconfitta dei “cinque giganti che tengono schiava l’umanità: il bisogno, la malattia, l’ignoranza, la miseria e l’ozio”. Seguono una serie di leggi, l’Education Act (scuola dell’obbligo

fino a 15 anni del tutto gratuita e forte sostegno ai giovani capaci, privi di mezzi per completare gli studi superiori), del 1944, e, successivamente il National Insurance Act e il National Assistence Act, che realizzarono a un sistema assicurativo e pensionistico avanzatissimo e a un efficiente servizio sanitario pubblico, il mitico National Health Service. Se si tiene conto della contemporanea nazionalizzazione dei trasporti, di tutte le fonti energetiche e dell’industria siderurgica, nonché dell’esistenza di un vasto patrimonio abitativo pubblico, si comprende come la Gran Bretagna, più che la periferica Scandinavia e la lontana Nuova Zelanda, nel Secondo dopoguerra, sia diventata il punto di riferimento obbligato, quasi un modello insuperabile di Welfare State.

In Italia

In Italia la commissione parlamentare “D’Aragona”, costituita nel 1947, tracciò le linee significative della riforma del sistema previdenziale italiano dopo il ventennio fascista. Queste linee però, pur essendo recepite dalla nuova carta costituzionale, non trovarono riscontro nell’azione legislativa del Governo. Lo Stato sociale si accentua con il ritorno alla democrazia, sotto la spinta della dottrina sociale cattolica, del riformismo socialista e del ruolo sempre più politico dei sindacati. Gradualmente e piuttosto velocemente lo Stato sociale assume il volto di Stato assistenziale: si passa in maniera piuttosto massiccia ad uno Stato redistributore di redditi, regolamentatore dei rapporti sociali, gestore di servizi collettivi e addirittura, dilatando le funzioni dell'IRI (Istituto di Ricostruzione

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Industriale), imprenditore e finanziere, sì da rendere inevitabile l'istituzione del Ministero delle “partecipazioni statali”. L’azione governativa del dopoguerra ha dato inizio a una gestione liberista dell’economia, lasciando allo Stato il compito di intervenire solo nelle politiche sociali volte a proteggere le categorie più deboli della società rifiutate dal processo di modernizzazione. Comunque le politiche sociali furono usate come uno strumento ti acquisizione del consenso elettorale, nel bisogno di legittimare le nuove elite politiche dell’egemonia del partito della Democrazia Cristiana. Seguendo questa linea di condotta lo Stato Sociale italiano si crea come modello “clientelare – particolarista”; prende forma in incoerenti e frammentari interventi, con la prevalenza di interventi di tipo “caritatevole” e la “diffusione a pioggia” di organizzazioni pubbliche e private di assistenza e sicurezza sociale. (basti ricordare il film “Il Medico della Mutua” per avere un’idea degli effetti disastrosi delle politiche sociali pubbliche del secondo dopoguerra) Negli anni ‘60 e ’70 in Italia, così come negli altri stati europei, i costi delle politiche sociali crebbero in maniera considerevole. Interessante è il documento di programmazione economica per il triennio 1971 – 1973 che per la prima volta affronta organicamente le tematiche dell’assistenza sociale. La legislazione italiana comunque non recepisce ancora la crisi del sistema assistenziale e anzi aumenta gli investimenti destinati a finanziare il Welfare State. Verso la fine degli anni ’70, gli elementi di crisi nel sistema di sicurezza sociale italiano divennero evidenti. Furono provocati da fenomeni simili a quelli degli altri stati dell’Europa occidentale, ma resi più drammatici dalle anomalie storiche tipiche del Welfare State Italiano. Tre sono i suoi caratteri tipici:

1) Il diminuire della popolazione “attiva” (la parte della popolazione che produce reddito, quindi lavora) con le sue conseguenze nella solidarietà inter e infra generazionale;

2) La crescente incapacità dello Stato di regolare le sue politiche seguendo

l’internazionalizzazione dell’economia, accompagnata da dall’irrazionalità dell’azione diretta alle politiche sociali;

3) La crescente deresponsabilizzazione degli utenti dei Servizi sociali con la crescita

dell’intervento pubblico, che ha portato al crescere della domanda sociale.

La Crisi La Gran Bretagna è stata anche il paese dove, anticipatamente, con il passaggio dal Welfare dell’austerità postbellica alle sfide della società opulenta, si sono manifestate le derive dello Stato sociale con i suoi costi crescenti, i suoi effetti perversi sui conti pubblici e la conseguente pressione fiscale. Per questo a partire dalla metà degli anni settanta il Welfare state (stato del benessere) è entrato in una lunga e travagliata crisi, originata dalla crescente inadeguatezza delle "vecchie" soluzioni di fronte a "nuovi" problemi.

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I cosiddetti modelli universalistico e occupazionale davano per scontata una economia capace, con continuità, di produrre dividendi fiscali da redistribuire sotto forma di protezione sociale, finanziando così in maniera quasi indolore gli ambiziosi impegni di spesa contratti con le vaste platee di "assicurati". A partire appunto dalla metà degli anni settanta, le economie occidentali hanno registrato drammatici cali nei propri tassi di crescita: al posto dei dividendi fiscali sono in tal modo comparsi deficit e debiti pubblici, in buona misura proprio a causa delle dinamiche di spesa sociale. La Gran Bretagna è il primo paese in cui, negli anni Ottanta, con i governi della lady di ferro, Margaret Thatcher, si è pensato di ridare efficienza e slancio al sistema produttivo attraverso le privatizzazioni e di uscire dalla crisi fiscale con il ridimensionamento del sistema assistenziale e previdenziale. Su questo terreno, nell’ultimo decennio del nostro secolo declinante, pur nel nuovo contesto di prevalenti governi di centrosinistra in Europa, la politica avviata da Margaret Thatcher continua ad essere nella sostanza perseguita, sia pure con maggiore circospezione. Al di là delle storture dello Stato sociale - assistenziale, occorre tenere presente, per comprendere i suoi costi crescenti, che il peculiare sviluppo demografico di questi ultimi decenni, con l’innalzamento della vita media, con la drastica riduzione della natalità, ma anche, in paesi come l’Italia, con la contrazione degli occupati, è cresciuta enormemente la spesa per le pensioni e per l’assistenza sanitaria. È maturata, inoltre, la consapevolezza della doverosità e della necessità di nuove solidarietà: quella tra le generazioni di oggi e di domani, nonché quelle, strettamente connesse, tra gli uomini e la natura, tra il Nord e il Sud del mondo. In quest’ottica il pensiero politico attuale vede lo Stato sociale, che ha rappresentato una delle grandi conquiste di civiltà dell’età contemporanea, come certamente da ripensare, ma non per essere smantellato, bensì per essere ulteriormente esteso e rilanciato, con l’intervento generoso e previdente delle istituzioni pubbliche e il creativo self help, mutuo soccorso, anche attraverso la valorizzazione delle potenzialità del terzo settore, dei diretti interessati alla sua conservazione. “diritti civili sono venuti prima (…). Poi sono venuti i diritti politici (…). I diritti sociali arretrarono fino

a scomparire nel secolo diciottesimo e all’inizio del diciannovesimo. La loro rinascita iniziò con lo sviluppo dell’istruzione elementare pubblica, ma prima del secolo ventesimo non acquistarono una

dignità pari a quella degli altri due elementi della cittadinanza” (T.H. Marshall, sociologo inglese)

LE TIPOLOGIE DEI REGIMI DI WELFARE E I MODELLI NELL’EUROPA OCCIDENTALE

Dopo questo viaggio nella storia e nell’evoluzione dei sistemi di Welfare torniamo alla definizione fornita all’inizio: Welfare state è uno stato nel quale il potere organizzato è deliberatamente utilizzato nello sforzo di modificare il gioco delle forze del mercato in almeno tre direzioni: primo,garantendo agli individui e alle famiglie un reddito minimo indipendentemente dal valore di mercato del loro lavoro o della loro proprietà; secondo, riducendo il grado di insicurezza mettendo gli individui e le famiglie in grado di affrontare determinate contingenze sociali (malattia, vecchiaia, disoccupazione) che altrimenti condurrebbero a crisi familiari e individuali; terzo assicurando che a tutti i cittadini senza distinzione di status o classe sia offerto il migliore standard possibile in relazione ad un determinato range di servizi sociali.

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Rispetto alla nozione di Welfare state si tende oggi a privilegiare la nozione di “Sistema di Welfare” (o regime di welfare), con la quale si intende il sistema complessivo di promozione e difesa del benessere individuale risultate dall’azione congiunta e interdipendente dei tre principali attori coinvolti:

1) Lo Stato che con le sue politiche si fa redistributore di reddito e di servizi tra le varie classi sociali

2) Il mercato, principale attore di meccanismi di scambio 3) La famiglia, promotrice di reciprocità e di sistemi di solidarietà inter e infra

generazionale Il sistema di welfare è oggi uno dei circuiti più importanti di integrazione sociale. La tipologia di sistemi di welfare più nota è quella di Esping-Andersen, costruita intorno a tre dimensioni fondamentali:

1) Scopo del Welfare state è quello di ottenere un effetto di demercificazione dell’individuo (dell’attore). Per demercificazione si intende la possibilità per gli individui o le famiglie di raggiungere un accettabile livello di vita indipendentemente dalla partecipazione al mercato.

2) Il grado di demercificazione è funzione delle caratteristiche della stratificazione sociale (distribuzione differenziata dei privilegi sociali), di modo che il welfare state è un fattore attivo di stratificazione sociale: a seconda del modello di organizzazione del welfare state si otterranno diversi effetti di demercificazione /stratificazione (Il sistema di Welfare è una forza attiva di riordino delle relazioni sociali)

3) L’equilibrio tra famiglia, mercato e Stato come ambiti di soddisfazione dei bisogni soggettivi è, in definitiva, il fattore fondamentale che definisce uno specifico modello di welfare regime.

A partire da questa definizione, i modelli di welfare regimes secondo Esping-Andersen sono tre:

1) il regime liberale minimizza gli effetti di demercificazione, riduce ampiamente la sfera dei diritti sociali ed alimenta una forma di stratificazione che è una miscela di eguaglianza relativa nella povertà dei fruitori di prestazioni sociali, un diverso welfare orientato al mercato per la maggioranza dei cittadini, e un dualismo di classe tra le due popolazioni; a questo modello appartengono i paesi anglosassoni (USA, Australia, Canada, meno UK). I programmi istituzionali sono di ammontare modesto e caratterizzati dal means-testing (Le prestazioni offerte sono collegate alle risorse disponibili del beneficiario); ha scarsi effetti di demercificazione; favorisce lo stigma inducendo una stratificazione verso il basso;

2) il regime corporativo o conservatore è orientato alla conservazione dei differenziali di status; i diritti, quindi, sono legati alla classe e allo status; la posizione nel mercato del lavoro è fondamentale per l’acquisizione dei diritti sociali; il ruolo importante svolto dalla Chiesa in questi paesi ha contribuito all’affermazione del principio di sussidiarità, per il quale lo stato deve interferire solo quando la capacità della famiglia di sostenere i propri membri è esaurita; l’efficacia redistributiva è scarsa; qui ritroviamo i paesi dell’Europa continentale (Francia, Germania, Italia, etc.);

3) il regime socialdemocratico comprende quei paesi che hanno sviluppato maggiormente i principi di universalismo e demercificazione, riconoscendo i relativi diritti sociali anche

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alle classi medie: invece di riconoscere il dualismo tra stato e mercato, tra classe operaia e classe media, i socialdemocratici hanno perseguito un welfare state che promuovesse un’eguaglianza agli standard più elevati; incide sia sulla famiglia (socializzandone alcuni costi e favorendo l’indipendenza degli individui) che sul mercato; i paesi scandinavi sono i rappresentanti del modello socialdemocratico.

In particolare, i canoni di funzionamento del sistema di welfare italiano evidenziano questi nessi tra welfare, famiglia e povertà:

1) la famiglia è il principale luogo di soddisfacimento dei bisogni degli individui, e ad essa viene attribuita la responsabilità di sostenere i membri in difficoltà – anche se alcune funzioni tradizionali della famiglie sono state delegate ad altri attori;

2) si osserva una spaccatura geografica tra Nord e Sud per quanto riguarda i modelli familiari dominanti: al Nord abbiamo famiglie di minori dimensioni e una loro più elevata instabilità (separazioni, divorzi, convivenze), mentre al Sud le famiglie sono di dimensioni maggiori e sono più stabili;

3) da questo discendono due modelli di povertà diversi: al Nord vengono colpiti prevalentemente individui e nuclei familiari isolati che vengono privati delle risorse che circolano attraverso i canali della reciprocità; al Sud questi canali tengono, ma il fenomeno massiccio della povertà dipende dallo scarto tra numerosità della famiglia e scarsità delle opportunità occupazionali;

4) in tutti i casi, il miglior antidoto contro lo scivolamento in condizioni di povertà è rappresentato dalla tenuta dei nessi di reciprocità – leggi: della famiglia – attraverso i quali circolano risorse materiali, simboliche e di informazione che consentono di accedere alle ricompense sociali;

5) su questo modello è stato costruito il sistema di welfare italiano, esplicitamente organizzato intorno al principio di sussidiarietà rispetto alla famiglia (e al mercato), senza che tuttavia venisse sviluppata una vera politica per le famiglie;

6) la forte delega agli enti locali delle responsabilità assistenziali, al di fuori di un quadro normativo nazionale, ne conferma la scarsa rilevanza tra le politiche pubbliche.

Un sistema, come già detto, fortemente singolare, che con i mutamenti della società attuali ha portato a una crisi analizzabile nei propri fattori fondanti: una tendenza al sovraccarico delle responsabilità familiari a fronte dell’invecchiamento della popolazione e del consolidamento della coabitazione prolungata tra genitori e figli adulti, una delle ragioni della elevata denatalità italiana; un indebolimento della capacità di sostegno da parte di reti parentali e comunitarie rese più rarefatte dalla caduta della natalità e meno solidali dai più accentuati livelli di individualismo; una tendenza a sovradimensionare la protezione economica degli anziani - che sono gli unici soggetti per i quali non viene dato per scontato il supporto finanziario della famiglia - alla quale però corrisponde una debole offerta di servizi a loro favore, soprattutto in alcune regioni del paese, a fronte dell’accentuato invecchiamento della popolazione; una resistenza culturale da parte delle famiglie - che si trasmette alla classe politica e ai sistemi politici-amministrativi a tutti i livelli - alla esternalizzazione delle funzioni di cura, che a sua volta si traduce in minori opportunità occupazionali per donne e giovani e che si combina con lo sviluppo di servizi domestici forniti da immigrate all’interno dell’ambito domestico; e, soprattutto, un accentuato aggravamento della differenziazione tra i contesti sociali al Nord e al, Sud che costituisce una caratteristica dominante del caso italiano.

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IL TERZO SETTORE COME NUOVO ATTORE DELLE POLITICHE SOCIALI

Nell’ultimo ventennio, si è acquisita la consapevolezza dell’esistenza di un terzo settore che si è fatto strada accanto allo Stato e al mercato. In questa categoria vi rientrano tutti quei soggetti (generalmente individuati nelle Organizzazioni di volontariato, nelle Cooperative sociali, nelle Associazioni di promozione sociale e nelle Fondazioni "pro-sociali") che, facendo propri i criteri del "non profit" (assenza di finalità di lucro) ed agendo secondo logiche diverse da quelle delle Istituzioni pubbliche e da quelle delle imprese propriamente dette, svolgono attività di varia natura (nei campi dell'educazione, della sanità, dei servizi sociali, della tutela ambientale, etc.) attraverso forme di "partecipazione sociale". Il termine terzo settore proviene dagli Stati Uniti, e fa riferimento ad una realtà indipendente che si pone fra i due settori fondamentali, lo Stato e mercato, essendo però diverso dall'uno e dall'altro. Il terzo settore rappresenta quindi un'area autonoma, originale, orientata socialmente alla produzione di beni comuni, entro i limiti rappresentati dalle regole pubbliche. In quest'ottica, si parla anche di privato sociale. La differenza tra privato sociale e terzo settore è che il privato sociale è costituito dalle associazioni quando pensano a se stesse, mentre si parla di terzo settore quando si considerano i rapporti di queste con lo stato ed il mercato. Il principio comune è il “no-profit”. Il termine anglosassone si riferisce alle attività economiche vincolate dal "non distribuition constraint", che le obbliga a non ridistribuire il profitto. È vietato distribuire utili, avanzi di gestione, fondi o riserve di capitale, salvo alcune eccezioni tassative; gli utili e gli avanzi devono invece essere impiegati nelle attività istituzionali o connesse. In caso di scioglimento dell'organizzazione, il patrimonio va devoluto ad altre ONLUS o a fini di utilità sociale. Il terzo settore ha caratteristiche precise che lo identificano come una vera e propria entità sociale:

• è un agire collettivo dotato allo stesso tempo di caratteristiche di “comunità” e “società”; • è un complesso di formazioni sociali all’interno delle quali sono attivati meccanismi

stabili di solidarietà allargata che si estendono nell’intero tessuto sociale; è entità che produce beni comuni nell’accezione di bene relazionale da intendersi come agire svolto insieme ad altri in base a finalità solidaristiche. Il Terzo Settore può essere differenziato al suo interno in base a diversi criteri come:

• soggetti implicati-volontariato organizzato formalizzato, semiformalizzato e informale, associazionismo pro sociale, cooperazione sociale;

• finalità delle azioni- educative, culturali, sociali ecc. • funzioni sociali svolte- integrazione, sostituzione dei servizi di Welfare, difesa; • organizzazione interna- solo volontari, solo soci, miste (cfr. P. Donati, Ibidem).

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E’ complesso di organizzazioni caratterizzate da un fine altruistico che induce i soggetti ad individuare bisogni collettivi non sufficientemente soddisfatti dall’operare del mercato e dall’azione pubblica. Inoltre non vi è distribuzione degli utili. A livello macrosociale vi è, per il terzo settore, un agire come cittadinanza attiva nelle politiche sociali quindi, un agire solidaristico. Nel nostro paese, questa situazione si concretizza soprattutto con i servizi alla persona. A livello giuridico, si ha una svolta con le leggi 266/1991 sul volontariato e 381/1991 sulle cooperative sociali. Gli interventi offerti dalle organizzazioni no-profit possono essere ricondotti a 4 grandi aree:

• interventi che hanno luogo in strutture residenziali come case di riposo, istituti, ospedali; • prestazioni svolte al domicilio del soggetto in difficoltà cioè assistenza domiciliare nelle

sue molteplici forme; • interventi di comunità o di rete come quelli in comunità di accoglienza, di recupero, case-

famiglia; • interventi organizzativi e di gestione del bisogno sociale come assistenza sociale,

segretariato sociale, attività di coordinamento. Da ciò si deduce che l’azione del volontariato è costituita dall’incontro diretto con i bisogni sociali di un determinato territorio. L’interazione continua e stabile con i bisogni sociali e con i soggetti in difficoltà ha determinato, negli anni 90, l’emergere della complessa relazione di aiuto fra volontari e soggetti disagiati. L’azione dei volontari risulta alquanto complessa e delicata poiché richiede, da parte degli operatori, abilità e sensibilità contemporaneamente. In tal senso, le associazioni di volontariato si stanno movendo in una duplice direzione; esse, da una parte, tendono a migliorare e specializzare i propri interventi acquisendo sempre più professionalità; dall’altro, puntano al rafforzamento attraverso iniziative formative del contenuto solidaristico che caratterizza il rapporto tra volontario e portatore del bisogno per orientare sempre meglio l’azione sociale (cfr, P. Donati, Fondamenti di politica sociale, 1993, NIS, Roma, p.166). Vi sono altre funzioni svolte dal volontariato che si pongono in rapporto all’intervento pubblico e del privato profit.

1) FUNZIONE SOSTITUTIVA- erogazione di servizi sostitutivi dell’intervento statuale; 2) FUNZIONE INTEGRATIVA- erogazione di prestazioni complementari a quelle

pubbliche già esistenti; 3) FUNZIONE DUPLICAZIONE ALTERNATIVA- erogazione di servizi reperibili anche

nel pubblico ma non equivalenti in quanto a qualità e/o finalità; 4) FUNZIONE INNOVATIVA- erogazione di interventi esistenti solo in ambito non

istituzionale che sono frutto della creatività dell’azione volontaria (cfr, P. Donati, Fondamenti di politica sociale, 1993, NIS, Roma).