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Costruire il passato in Etruria Il senso dell’archeologia nella società contemporanea a cura di Carolina Megale Edizioni ETS anteprima vai alla scheda del libro su www.edizioniets.com

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Costruire il passato in EtruriaIl senso dell’archeologia nella società contemporanea

a cura diCarolina Megale

Edizioni ETS

anteprima

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Promozione PDE PROMOZIONE SRL

via Zago 2/2 - 40128 Bologna

ISBN 978-884675446-2

Il volume è realizzato con il contributo del Comune di Massa Marittima

e del Consiglio Regionale della Toscana nell’ambito delle Giornate Etrusche 2018

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Indice

PresentazioneMarco Paperini 7

IntroduzioneDaniele Manacorda 9

PrefazioneArcheologo faber fortunae suaeCarolina Megale 13

Costruire parchi per la comunità

Il Parco archeologico di Baratti e Populonia:ultimi sviluppi di un progetto ventennale di archeologia pubblicaMarta Coccoluto 17

Una casa dell’Anno Mille. Archeologia sperimentale alla Rocca di San Silvestro(Campiglia Marittima, LI)Giuseppe Alessandro Fichera 27

La riscoperta di una necropoli del territorio vetuloniese:San Germano e l’area archeologica Rocca di FrassinelloGiuditta Pesenti 35

Cittadini attivi in archeologia

Progettare per il territorio:l’esperienza del Progetto Archeologico Alberese e l’iniziativa Memorie dal GolfoMatteo Colombini, Sara De Sanctis 47

I magnifici sette. Past in Progress e l’archeologia condivisa:exploring the archaeological outreachCarolina Megale 59

Il Ponte del tempo. Paesaggi culturali medievali. Un progetto di archeologia pubblica e di comunitàChiara Molducci 73

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L’esperienza di Massaciuccoli Romana. Da Area Archeologica partecipata a… ?Mariela Quartararo 85

Scavi e scoperte per un’archeologia partecipata

Sepolto incatenato tra le dune di Baratti. Dallo scavo alla mostraGiorgio Baratti 95

Costruire l’identità di una comunità dell’Etruria costiera:dieci anni di archeologia globale e partecipata a VignaleSamanta Mariotti 103

Archeologia e condivisione: l’esperienza di Vada VolaterranaFrancesca Bulzomì, Stefano Genovesi, Simonetta Menchelli, Edina Regoli, Paolo Sangriso 115

Lo scavo archeologico di San Giovanni (Isola d’Elba, LI) e la rada di Portoferraio:il racconto di un’isola e di una ricerca condivisa e partecipataLaura Pagliantini 125

Il museo come esperienza

Il Museo fuori e la Società dentro. Esperienze e buone pratiche di un piccolo museoCostanza Quaratesi, Giada Valdambrini, Luisa Zito 135

Dal reale al virtuale: vecchi contesti e nuovi pubbliciCarlo Baione 143

Museum Tailor: riprogettazione non invasiva di un museo archeologicoNicola Amico, Cinzia Luddi, Ginevra Niccolucci, Virginia Niccolucci 153

Gli autori

Profilo del curatore 165

Profilo degli autori 166

Costruire il passato in Etruria. Il senso dell’archeologia nella società contemporanea

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Presentazione

In occasione dell’anniversario della scomparsa del professore Giovannangelo Camporeale, cittadino onora-rio di Massa Marittima, l’amministrazione comunale ha deciso di ricordarlo, con le parole di Giovanni Uggeri, per «l’impegno sul piano sociale e della comunicazione, la convinta ed intensa attività di informazione e di alta divulgazione scientifica», promuovendo un confronto sul senso dell’archeologia nella società contemporanea e invitando gli studiosi a presentare le loro attività nell’ambito dell’archeologia pubblica.

Non è solo nel ricordo del Maestro che l’amministrazione comunale ha voluto questo incontro, ma anche ri-conoscendo l’importanza fondamentale che lo studio del passato può avere principalmente per la comunità, allo scopo di attuare le buone politiche di gestione del territorio, delle sue risorse e delle sue prospettive di sviluppo.

Lo studioso del passato, storico o archeologo, ha «il dovere sociale della divulgazione», come ricorda lo storico Henri-Irénée Marrou ne La conoscenza storica, ovvero offrire alla comunità una «lezione di umanità», permettendole di andare alla scoperta della propria identità e delle proprie radici e stimolando quella curiosità che va oltre lo sguardo ammirato su un reperto archeologico all’interno di un museo.

Calarsi in prima persona in attività di ricerca, come alcuni saggi presenti nel volume illustrano, permette all’uomo contemporaneo di vivere in senso esperienziale la propria storia, diventando quindi cosciente e con-seguentemente libero, e rifuggendo gli spazi, spesso angusti, del proprio vivere quotidiano. All’uso del termine “divulgazione”, è a mio avviso preferibile quello di “disseminazione”, che meglio rende l’idea di come le cono-scenze fornite dalla ricerca scientifica siano un “seme” che favorisce la crescita della società. Tucidide ricorda nelle Storie, per bocca di Pericle, come «aver raggiunto la conoscenza senza la capacità di comunicarla è come non averla affatto raggiunta».

Sul tema della disseminazione si possono leggere pagine interessanti nel volume, in particolare sugli stru-menti necessari a raggiungere, in maniera efficace, un ampio pubblico. L’innovazione tecnologica associata alla ricerca e alla ricostruzione del passato rende quest’ultimo elemento vivibile, carico di emozioni e quindi indele-bilmente fissato nella memoria. Poter rendere fruibile il frutto della ricerca, in questo caso le aree archeologiche, garantendo la piena accessibilità e spesso anche la piena sostenibilità ambientale, è un tema che sta, o almeno dovrebbe stare, molto a cuore a chi si occupa del governo del territorio. Progettare attrattori culturali e turistici che permettano, spesso, una parziale riconversione dell’economia locale è una priorità a cui non dobbiamo sottrarci.

Questa considerazione ci invita a sottolineare due ulteriori evidenze delle ricerche che siamo a presentare: in primo luogo, l’archeologia può diventare essa stessa una risorsa economica per il territorio, sia direttamente me-diante gli investimenti finalizzati a ricerca, restauro e valorizzazione, sia indirettamente per i flussi turistici che può intercettare. Non dimentichiamo, infatti, che il “turista culturale” ha, oltre a una maggiore consapevolezza, anche una maggiore capacità di spesa. In secondo luogo ci invitano a riflettere sul rapporto degli enti pubblici con il mondo “privato”, non solo quello del mecenatismo che l’Art Bonus ha recentemente risvegliato, ma an-che quello dell’imprenditoria (che alcuni definiscono, ahimè, “illuminata”, sottolineandone l’eccezionalità) che sempre più spesso investe (non uso a caso questo termine) in cultura e nella valorizzazione dei beni culturali.

Un tema, invece, anticipato in queste pagine, ma che in futuro sarà al centro sia della ricerca che della po-litica, è quello del rapporto tra cultura e benessere. Partecipare, sia in maniera passiva come semplice fruitore, che con un ruolo attivo, ad esempio in qualità di volontario, ad attività culturali incide positivamente sulla salute

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dell’individuo, permettendo quindi un risparmio sulle spese del welfare pubblico. Quest’amministrazione già da tempo sostiene che la cultura fornisca un servizio sociale perché oltre a dare benessere forma cittadini attivi, consci del proprio ruolo nella società, e favorisca una solidarietà consapevole.

È evidente, ancora una volta, il ruolo dello studioso del passato come individuo impegnato, saldamente lega-to all’ambiente di cui è partecipe e quindi soggetto attivamente dedito allo sviluppo comune, oltre ovviamente i risultati scientifici della propria ricerca.

In ultima battuta, da amministratore desidero sottolineare come molti “giovani” archeologi abbiano saputo crearsi, in un momento di forte crisi economica, un lavoro indipendente spesso lontano dal mondo accademico. Una nota ottimistica regalata da chi sa cogliere nelle temperie di una società in cambiamento – forse radicale – opportunità e idee.

Marco PaperiniAssessore alla Cultura e al Turismo

Comune di Massa Marittima

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Introduzione

Prima che il concetto di archeologia pubblica, progressivamente accolto nel dibattito teorico e nelle pratiche sociali anche in Italia, venga sgretolato da un uso inflazionato che ne snaturi e banalizzi la vitalità, possiamo provare ad ancorarne il più profondo significato nella definizione proposta dal sottotitolo di questo volume: il senso dell’archeologia nella società contemporanea. Costruire il passato, in Etruria come ovunque nel mondo, è un’operazione dal doppio volto, che dà senso alle infinite letture di ciò che è stato, che la storia ci propone, e al tempo stesso alle energie fisiche ed intellettuali che l’archeologo mette in campo ogni volta che si accinga a praticare il proprio mestiere.

Il concetto di senso non è necessariamente declinabile in termini positivi: non mancano episodi o stagioni della storia della ricerca archeologica sull’intero pianeta che abbiano espresso sensi “insensati”. Ma è forse pro-prio questo gioco di parole – del quale chiedo venia al lettore – che ci aiuta a porci la domanda se un “senso” in quanto tale si raggiunga solo quando esso riesca a proporre una rappresentazione armonica, coerente, ancorché complessa e non priva di conflitti, di una pratica sociale – in questo caso quella archeologica – che oggi più che mai scava nel proprio intimo alla ricerca di una più compiuta e soddisfacente giustificazione di sé. Una giustifi-cazione – sia detto per evitare equivoci – che non va rivolta a quanti ritengano che la dimensione culturale, e in particolare storica, possa essere tranquillamente marginalizzata rispetto ad una percezione delle vite individuali e collettive schiacciata sul presente, quanto piuttosto a noi stessi, ormai consapevoli del volto ambiguo del pas-sato: sirena che distoglie mente e cuore dall’impegno verso l’attualità e il futuro, oppure chimera che ci inganna nella presunzione che la profonda conoscenza del passato sia di per sé condizione necessaria e sufficiente perché questo impegno venga onorato con successo.

L’archeologia pubblica, così come la stiamo percependo e praticando nelle sue mille sfaccettature, si nutre dunque di alcuni corposi concetti e di alcuni specifici comportamenti, che già da soli sarebbero sufficienti a svelare il salto epocale che distingue, anche in Italia, l’archeologia del III millennio da quella disarmantemente contenta di sé che ebbi la ventura di incontrare, con i miei coetanei, quando varcai mezzo secolo fa le soglie dell’Università. Salivo allora le scale di una Facoltà, dove il passaporto per la professione di archeologo passava per una laurea in Lettere antiche, basata sul connubio tra una formazione antiquaria ed una ispirata allo storicismo idealista, apparentemente solido, ma fragile nelle fondamenta, nonostante qualche incerto puntello tecnologico.

Non v’era allora grande spazio per i temi centrali dell’oggi: dal tema dell’identità a quello del patrimonio, al ruolo della dimensione ecologica e del rapporto con le scienze a quello della comunicazione nelle sue tante de-clinazioni, per affastellare solo alcuni dei territori nei quali quotidianamente gli archeologi si avventurano oggi. Territori dove ricerca, tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale, a partire da quello material-mente così invasivo e pervasivo di natura archeologica, si presentano concettualmente distinti e operativamente embricati, innanzitutto in quelle antiche e nuove istituzioni che vanno sotto il nome di musei e di siti o parchi archeologici. Luoghi pubblici, dove i temi del restauro e della ricostruzione, della narrazione e del linguaggio si intersecano alla luce del tema dei temi proposto dall’archeologia pubblica, al quale diamo la definizione onnicomprensiva di partecipazione. Partecipazione di pubblico – avremmo detto fino a poco tempo fa – confi-gurando un ruolo sostanzialmente passivo del destinatario delle informazioni archeologiche; partecipazione di cittadini – preferiamo oggi dire – attribuendo a quel termine ormai antico il ruolo di nostro primo interlocutore e quindi di nostro primo alleato.

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Costruire il passato in Etruria. Il senso dell’archeologia nella società contemporanea

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I diversi contributi che costruiscono questo volume ci rammentano ad ogni passo che “il patrimonio culturale non rappresenta un valore in sé, ma un valore relazionale”, che è quello “che la società civile e la comunità di riferimento gli attribuiscono. E questo valore è direttamente proporzionale al coinvolgimento e alla partecipazione di ogni cittadino nel processo di definizione e di gestione della nostra eredità culturale” (Megale).

Di volta in volta ci ricordano anche:

– che l’archeologia dovrebbe essere pubblica per definizione e che concetti quali «sinergia, inclusione, parte-cipazione, condivisione, responsabilizzazione, produzione di cultura» (Coccoluto) sono ad essa sì consustan-ziali, ma non per questo attribuiti da sempre e per sempre;

– che la ricerca mantiene, né può essere diversamente, una sua indiscutibile centralità «come vettore di inno-vazione per il coinvolgimento del pubblico […]; di raccordo tra il momento di acquisizione e interpretazione storica del dato e la sua traduzione in valore culturale per la comunità, configurandosi anch’essa come un momento di ricerca scientifica» (Colombini, De Sanctis);

– che la ricerca può continuare a mettere al centro del proprio interesse l’uomo e «quel rapporto indissolubile tra individuale e collettivo che lo lega, già di primo impatto, alla sua dimensione storica» (Baratti);

– che la partecipazione passa attraverso le pratiche dello «scavo partecipato» e del coinvolgimento attivo dei frequentatori (non solo visitatori) di un museo in una «dimensione esperienziale» (Quartararo) o in «un’e-sperienza indimenticabile» (Fichera); capace quindi di andare al di là del «contenuto storico-culturale [che] non sempre è di per sé sufficiente a risvegliare l’attenzione del pubblico» (Pesenti);

– che la ricerca comunicata e partecipata arreca un valore aggiunto «sia in termini turistici che in una maggio-re consapevolezza della popolazione residente» (Pagliantini), a partire dalla convinzione che «il territorio, qualunque esso sia, contenga un patrimonio diffuso, ricco di dettagli e soprattutto di una fittissima rete di rapporti e interrelazioni tra i tanti elementi che lo contraddistinguono, un insieme di relazioni invisibili fra questi elementi» (Molducci);

– che con l’archeologia pubblica la popolazione acquisisce la percezione del fatto che «il bene archeologico fa parte del patrimonio non solo comune ma, soprattutto, personale dato che la storia del proprio territorio è la propria storia» (Bulzomì et al.); e che essa diventa veramente tale «quando è condivisa, compresa e sostenuta dai cittadini che in essa riconoscono se stessi e un valore aggiunto alle loro vite» (Mariotti);

– che le associazioni culturali possono essere assai vicine alle istituzioni museali collaborando «nell’organiz-zazione di passeggiate e visite guidate con gli archeologi; [facendo] da supporto alle operazioni di pulizia talvolta necessarie all’interno delle aree archeologiche; [organizzando] giornare di divulgazione volte all’im-mediata comunicazione dei risultati ottenuti durante le annuali campagne di scavo» (Quaratesi et al.);

– che «l’uso appropriato di tecnologie informatiche e multimediali promuove la creatività e l’accessibilità del visitatore, instaurando un legame più stretto e coinvolgente con il museo e le opere che questo espone» (Amico et al.); e che la virtualità può essere utilizzata non solo «per rendere più appetibile la collezione mu-seale o per raggiungere più persone, ma […] soprattutto per restituire senso al materiale esposto e comple-tare in questo modo il processo comunicativo con l’utente, riportando l’attenzione del visitatore da oggetto a storia, da vaso a contesto» (Baione).

E ci ricordano in fondo anche come non sia più puramente utopico pensare che il rapporto tra pubblico e privato possa essere immaginato come «una collaborazione che superi il confine finanziario» (Pesenti). Se infatti è vero che il futuro dell’archeologia dipenderà innanzitutto dagli stessi archeologi e dalla consapevolezza del loro ruolo di restitutori di senso, oggi ci appare più chiaro che quel senso potrà essere suscitato da un dialogo più aperto con la società; a partire da domande basilari, quali quelle che si interrogano, appunto, sulla proprietà sociale, non patrimoniale, dei beni culturali.

Questo implica anche che il rinnovamento dell’archeologia, dopo aver investito le forme del recupero del passato, deve oggi misurarsi con la sua proprietà, cioè con la sua laicizzazione, intendendo con questa parola il bisogno di liberarsi della religione del passato, senza perdere l’aura di fascino che lo avvolge.

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Introduzione

Questo rinnovamento ci dice che non basta più riconoscersi nel ruolo (necessario ma non sufficiente) dei conservatori di un patrimonio che dobbiamo trasmettere alle generazioni future, ma che occorre domandarsi come questo patrimonio possa essere condiviso, e quindi socialmente tutelato, aiutando a percepirne la familia-rità. E, facendo ancora un passo in avanti, che questo processo di pubblica partecipazione può concretamente e non contraddittoriamente svilupparsi in forme concertate di dismissione di potere pubblico, ideando un pro-cesso capillare di adozione collettiva di siti, di affidamento di aree e monumenti alla società civile organizzata, e dunque anche ai non specialisti, aiutati però e monitorati in una sfida lanciata per scoprire come una eredità culturale, che appartiene a tutti, possa anche interessare tutti ed essere rinnovata, cioè sostanzialmente conser-vata, magari proprio dai margini1.

«I resti archeologici – osserva Emanuele Papi2 – non sono beni eterni e universali, ma hanno un valore intermittente, che aumenta o diminuisce a seconda dei punti di vista e dei tempi». Palmira, ad esempio, rap-presentava per il mondo della cultura e del turismo internazionale un caso raro di multiculturalità, un luogo fascinoso dove il tempo era trascorso portando con sé le tracce monumentali quasi intatte di un passato remoto; per i miliziani dell’ISIS era un nemico da decapitare, come Khaled al-Asaad, il suo martire angelo custode.

Siamo dunque noi, rappresentanti del flusso delle generazioni umane, che carichiamo di valori nostri le rovine degli edifici sorti per tutt’altri motivi, o di disvalori, a seconda del mutuo prevalere del desiderio di co-noscenza e dialogo o di sopraffazione e violenza. Di questo siamo ormai consapevoli: le rovine archeologiche non sono un bene in sé, sono cariche del senso che noi gli diamo, un senso anche conflittuale, che le pone sul palcoscenico del mondo per far dire loro alcune cose e il loro contrario.

Per questo parliamo dunque di archeologia pubblica, di un uso “pubblico” della storia attraverso i resti ar-cheologici, che di volta in volta si colora delle tinte rosa della condivisione o di quelle grigie della mistificazione. Consideriamo le rovine antiche, indipendentemente dalla loro età, quali materia di studio, campi di esperimen-ti, oggetti di culto. A volte la rovina archeologica diventa addirittura lo specchio di una nazione. Gli esempi sarebbero anche troppo numerosi. Il fatto è – riflette ancora Papi3 – che «le rovine antiche non sono cristalli intangibili, ma organismi viventi», ricchi anche di storie postume, che li accompagnano fino all’attualità: una circostanza che ci ricorda, se ve ne fosse bisogno, che il passato è operante e vivo non tanto in sé, quanto per le occasioni che continuamente ci propone di vivere criticamente il nostro presente.

Daniele ManacordaUniversità di Roma Tre

1 D. Manacorda, A proposito di Archeologia Pubblica in Italia, in Atti del I Congresso di Archeologia Pubblica in Italia (Firenze 2012), in corso di stampa.

2 E. Papi, Pietre dello scandalo. 11 avventure dell’archeologia, Bari-Roma 2018, 118.3 https://www.letture.org/pietre-dello-scandalo-11-avventure-dell-archeologia-emanuele-papi

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PrefazioneArcheologo faber fortunae suae

L’archeologia non si presenta infatti solo come un corpo di conoscenze storiche profonde ed articolate, ma anche come patrimonio materiale e ideale, che oggi si tende ad inserire nella categoria dei “beni comuni”, perché capace di intervenire significativamente nella sfera dei diritti fondamentali delle persone.

D. Manacorda, Archeologia, in M. Montella (a cura di), Economia e gestione dell’eredità culturale. Dizionario metodico essenziale, Vicenza 2016, 27.

L’archeologia è una disciplina in continua evoluzione. Da mezzo secolo, infatti, è in atto un profondo proces-so di rinnovamento che ne ha modificato approcci, metodi e obiettivi: «dall’antico come luogo privilegiato del passato all’intero arco di tempo dell’esperienza umana, dal vecchio continente all’intero pianeta, dagli aspetti culturali a quelli (anche) ambientali, dall’evoluzione storica alla prospettiva (anche) antropologica, dallo studio della forma a quello della materia, dal privilegio per l’arte a quello (onnicomprensivo) per i prodotti del lavoro»1.

Se per molto tempo una buona parte degli archeologi ha totalmente trascurato la relazione tra archeologia e società, oggi un nuovo approccio, consapevole del ruolo centrale che svolge la comunità nei percorsi che defini-scono le dinamiche del rapporto tra archeologia e società, ha portato ad un’integrazione sempre più profonda e diffusa tra cittadini e addetti ai lavori, che riconoscono ora nello sviluppo culturale ed economico della società il fine ultimo del proprio mestiere.

Nella contemporanea società della conoscenza, dunque, l’archeologo svolge un ruolo importante: mediatore tra passato e futuro, interfaccia tra l’eredità culturale e le persone, l’archeologo si incarica di trasmettere il valore del patrimonio culturale alla società civile, affinché questa possa interagire con esso per trarne benefici, anche individuali, non solo sul piano teorico della conoscenza storica, ma anche a livello pratico economico e sociale.

L’archeologo contemporaneo quindi non solo è globale perché si occupa di tutti gli aspetti della ricerca scientifica2, ma è globale perché contribuisce, insieme ad altri umanisti, economisti d’impresa, giuristi e profes-sionisti del settore, alla creazione del valore immateriale e materiale, sociale e individuale, del patrimonio cultu-rale storico3, prendendo attivamente parte a tutto il “ciclo di produzione”, che partendo dal bene archeologico giunge al prodotto culturale finito.

Il mestiere dell’archeologo corrisponde, in un certo senso, a quello di un artigiano addetto alla produzione di un bene utile alla società, un bene con un valore d’uso e destinazione pubblica4.

Il ciclo di produzione del bene culturale archeologico, di cui l’archeologo-faber è artefice, prevede una prima fase di ricerca e conoscenza, cui segue un processo di conservazione e valorizzazione – che corrisponde alla vera e propria fase di produzione – che termina con la fruizione collettiva del bene culturale attraverso un sistema

1 D. Manacorda, Prima lezione di archeologia, Roma-Bari 2004, 12.2 T. Mannoni, Archeologia globale a Genova, «Restauro e Città» I, 2, 33-47; T. Mannoni, Archeologia globale e archeologia postmediev-

ale, «Archeologia Postmedievale» 1 (1997), 21-25; D. Manacorda, Archeologia globale e sistema della tutela, «Archeologia Medievale» XLI, 2014, 141-148.

3 M. Montella (a cura di), Economia e gestione dell’eredità culturale. Dizionario metodico essenziale, Vicenza 2016.4 D. Manacorda, Archeologia, in M. Montella (a cura di), Economia e gestione dell’eredità culturale. Dizionario metodico essenziale,

Vicenza 2016, 27.

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di gestione globale di offerta di beni e servizi, che generino per la società e gli individui i benefici conseguenti all’uso per cui il bene culturale è stato prodotto.

Accade spesso tuttavia che tra una fase e l’altra del processo produttivo si creino fratture, rotture, interru-zioni. Queste discontinuità generano spazi in cui si inseriscono realtà talvolta inconsapevoli del processo in atto o compiuto, ignare dei valori custoditi nel bene culturale e quindi incapaci di trasmetterne il valore intrinseco alla comunità (evitando standardizzazioni, svuotamenti di contenuti, banalizzazioni o mero intrattenimento), impedendo di fatto la trasformazione del bene culturale in prodotto culturale, ovvero la trasformazione del patrimonio archeologico in risorsa sociale, economica e sostenibile.

Il ruolo dell’archeologo del III millennio, faber del bene e co-creatore del prodotto culturale, è dunque tutto rivolto verso l’esterno, verso la comunità dei cittadini che fruiranno dei benefici che l’uso del patrimonio cultu-rale genera sulla società e sugli individui.

Non solo: la cultura genera cultura. La fruizione del patrimonio attraverso la creazione di servizi culturali ge-nera, di fatto, valore immateriale e materiale: il valore immateriale che se ne trae, inteso come crescita culturale, soddisfazione, benessere psico-fisico ecc., comporta un aumento della domanda, mentre il valore materiale che ne deriva porta ad un aumento dell’offerta. Questo processo di creazione «che contraddistingue il “giacimento culturale” da altri tipi di giacimenti», è stato definito «autofertilizzante poiché consiste nella capacità dello stesso di arricchirsi e potenziare la sua funzione informativa in virtù dell’utilizzo che ne fa l’individuo che lo consulta»5.

Le pagine che seguono raccolgono le esperienze di alcuni archeologi e professionisti del settore culturale attivi in Toscana con progetti di ricerca, conservazione, valorizzazione e gestione dei beni archeologici che ne fanno quasi dei pionieri di questo nuovo approccio globale. Gli archeologi-fabri tengono nelle proprie mani il passato per accrescerne il valore immateriale e materiale, trasmetterlo alla comunità e consegnarlo alla società. È il passato che nutre il futuro attraverso l’archeologia. Questo è il senso.

Carolina Megale

5 A. De Michelis, Proposta per un ciclo produttivo dell’industria culturale, online http://www.aib.it/aib/sezioni/veneto/de_miche.htm

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Il Parco archeologico di Baratti e Populonia:ultimi sviluppi di un progetto ventennale di archeologia pubblica

Marta Coccoluto

Una riflessione in tema di archeologia pubblica non può prescindere, a giudizio di chi scrive, dall’interrogar-ci su quale sia il senso dell’archeologia nella contemporaneità. In altre parole dobbiamo chiederci quale sia la rilevanza sociale del lavoro dell’archeologo e quali siano le istanze di carattere pubblico che oggi l’archeologia è chiamata a soddisfare.

La risposta appare scontata – la ricerca archeologica è essenziale ai processi di ricostruzione storica, all’am-pliamento della conoscenza e alla formazione di una identità locale e nazionale, alla sensibilizzazione indivi-duale e collettiva sui temi della tutela dei beni culturali, paesaggistici e ambientali – e rivela quasi un non-sense della definizione stessa di “archeologia pubblica”.

Esiste un’archeologia che possa non definirsi tale? Che possa essere slegata dal suo ruolo sociale? Credo di no, così come sono convinta che tale assunto sia non solo un’opinione diffusa, ma costituisca il fondamento stesso della nostra disciplina. Eppure il dibattito è aperto e vivace e il carattere pubblico e partecipativo delle ricerche archeologiche e delle conseguenti esperienze di valorizzazione, di fruizione e di gestione è oggi esaltato e sottolineato con forza, come a segnare una cesura netta con il passato.

La ragione è forse da rintracciare nelle modalità con cui questa natura intimamente pubblica dell’ar-cheologia si è esplicitata da quando la disciplina ha iniziato ad avere una propria autonomia e in come gli archeologi, dal periodo antiquario a oggi, si sono posti il problema del rapporto tra l’archeologia e la società civile1.

Se l’archeologia ha di per sé un carattere sociale, datole dal suo stretto rapporto con un pubblico che è il vero destinatario della disciplina, è altrettanto vero che in questo rapporto l’archeologia è stata a lungo una partner piuttosto algida, spesso indifferente alle richieste e alle aspettative dell’altro. Se mi è concessa la metafora amorosa, un’unione appagante è ben presto diventata una convivenza forzata. All’alterigia dell’ar-cheologia ha corrisposto un allontanamento progressivo del pubblico, inteso come l’insieme delle istituzioni pubbliche e di governo e dei cittadini, che si è trasformato in un disinteresse sempre più diffuso, in una mancanza di sentimenti e di emozioni, fino a che l’archeologia non è diventata una presenza ingombrante. Impedisce lo sviluppo delle città, pretende di cristallizzare i territori in un eterno passato, riempie i depositi abbandonati di musei vuoti e polverosi e, soprattutto, non produce profitto e anzi “divora” risorse che sareb-be più utile destinare ad altro.

E forse, solo quando l’archeologia ha capito che non solo la sua ragion d’essere ma la sua stessa sopravviven-za passavano dal ripensare radicalmente il proprio rapporto con la contemporaneità, ha riscoperto la propria vocazione pubblica.

Da lì è iniziata – fortunatamente – una paziente opera di rammendo, per ricucire il rapporto dell’archeologia con la società civile, dandogli una vitalità e uno slancio nuovi.

I musei hanno così iniziato la loro lenta trasformazione da luoghi delle regole a luoghi delle opportunità, per categorie di visitatori sempre più ampie2. Gli scavi archeologici sono diventate occasioni per la didattica, il volontariato e la partecipazione della comunità sotto svariate forme. La comunicazione scientifica e da addetti

1 L’analisi è stata sollecitata da Daniele Manacorda nel dibattito del Convegno e meriterebbe una trattazione a parte, impossibile da affrontare in questa sede.

2 Coccoluto 2016.

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Una casa dell’Anno Mille. Archeologia sperimentale alla Rocca di San Silvestro(Campiglia Marittima, LI)

Giuseppe Alessandro Fichera

Ai piedi della Rocca di San Silvestro, nell’omonimo Parco Archeominerario di Campiglia Marittima, tra oli-vi secolari e silenziosi paesaggi di roccia calcarea, è stato avviato nell’ormai lontano 2010 un ambizioso progetto di archeologia sperimentale1 che si poneva come obiettivo la ricostruzione dei cicli produttivi legati all’universo dell’edilizia medievale2.

Il progetto è nato dalla collaborazione tra la Società Parchi Val di Cornia, l’Università degli Studi di Siena, nella persona della prof.ssa Giovanna Bianchi, e lo scrivente, archeologo della società Coopera e studioso delle architetture di epoca medievale, e si inserisce a pieno titolo nella scia della ricerca scientifica e della valorizza-zione del patrimonio storico-archeologico, principi fondanti che hanno guidato il pensiero e l’operato di Riccar-do Francovich che ha inaugurato il Parco nel 1996.

Il percorso di sperimentazione ha offerto, fin dalle prime battute, una serie innumerevole di spunti di estre-mo interesse che coinvolgono temi come la ricerca scientifica, il restauro, la valorizzazione e la divulgazione del patrimonio archeologico, lo sfruttamento delle risorse naturali, l’impatto ambientale, il recupero di antichi saperi legati all’universo del costruire e molti altri. Sulla base di queste premesse il cantiere si è strutturato come una vera e propria “bottega medievale” aperta alle professionalità più eterogenee e nella quale si impara attraverso la pratica, ed ha coinvolto il muratore Dario Falco, detentore di antichi saperi legati all’universo del costruire, il fabbro storico Fabio Gonnella, il costruttore di camini Edo Galli e tanti altri specialisti e amici che hanno offerto il loro contributo, teorico o pratico, senza perdere mai di vista la correttezza scientifica e filologica dell’impostazione di base.

Le prime tappe della sperimentazione hanno portato alla ricostruzione di un manufatto archeologico rinve-nuto durante le indagini archeologiche che il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Siena ha svolto, tra il 2000 e il 2011, nel Castello di Donoratico (Castagneto Carducci, LI)3. Si trattava di un miscelatore per la calce risalente al tardo IX secolo, composto da una vasca scavata nel terreno e foderata di malta nella quale, grazie a una serie di ingranaggi in legno, era possibile miscelare il grassello di calce con gli aggregati. La ricostruzione e la messa in funzione del miscelatore hanno mostrato il forte potenziale del manufatto, paragonabile a una vera e propria rivoluzione tecnologica, grazie al quale un procedimento lento e faticoso come l’impasto della calce era stato praticamente meccanizzato, con un incredibile risparmio di energia e di manodopera necessaria (fig. 1)4. La capienza della vasca è pari a circa 350/400 kg di malta che può essere miscelata e dunque prodotta a ciclo continuo, nel senso che mentre si mescola è possibile allo stesso tempo prelevarne le quantità necessarie, ovvero fermarsi e vuotarla del tutto, per poi ricominciare il ciclo.

1 Medioevo in corso è un progetto corale, unico nel suo genere nell’attuale panorama archeologico italiano, grazie al quale oggi, nel cuore del Parco Archeominerario di San Silvestro (Campiglia Marittima, LI), è possibile compiere un vero e proprio viaggio nel tempo e vivere un’esperienza indimenticabile. Un grazie speciale a chi ha reso possibile trasformare questo sogno in realtà: Silvia Guideri, Debora Brocchini e tutto lo staff della Società Parchi Val di Cornia per aver creduto in questo progetto e aver destinato risorse pubbliche nella sua realizzazione, oltre che per il supporto costante e professionale che hanno sempre offerto. Giovanna Bianchi (Università di Siena), Cosimo Postiglione, Jacopo Bruttini e tutto il team di Coopera soc. coop., Fabio Gonnella (Ditta Coppi), Dario Falco, Piercarlo Balestri, Edo Galli, Andrea Finocchi, Arianna Briano e tanti altri che hanno condiviso con noi un pezzo di strada.

2 Per una definizione di Archeologia sperimentale si veda Vidale 2000, 280-282.3 Per la descrizione delle sequenze stratigrafiche legate al cantiere altomedievale del castello di Donoratico si veda Bianchi et al. 2011.4 Per la pubblicazione dei primi risultati si rimanda a Fichera 2010; id. 2011.

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Progettare per il territorio:l’esperienza del Progetto Archeologico Alberesee l’iniziativa Memorie dal Golfo

Matteo Colombini, Sara De Sanctis

Introduzione

Il presente articolo vuole riassumere il lavoro del Progetto Archeologico Alberese in relazione al suo rap-porto con il territorio dalla sua genesi, nel 2008, sino alle più recenti iniziative del 2016 e 2017, con il progetto Memorie dal Golfo. L’attività del progetto, costituitosi come associazione culturale nel 2010, si svolge principal-mente nella provincia di Grosseto ed ha avuto origine all’interno del Parco Regionale della Maremma. Si è scel-to di porre l’attenzione su due diverse strategie di coinvolgimento del pubblico: la prima, legata all’esperienza originaria del Progetto Archeologico Alberese, può esser definita site-based, ovvero incentrata su iniziative che hanno nello scavo archeologico la propria origine ed il proprio fulcro; la seconda, avviata nel Golfo di Follonica e definibile area-based, si basa sulla volontà di creare sinergie tra attori economici operanti buone pratiche e ricerche archeologiche con potenziale di valorizzazione ancora non completamente espresso.

Il Progetto Archeologico Alberese e l’approccio site-based

Il Progetto Archeologico Alberese

Il Progetto Archeologico Alberese è attivo sul territorio della provincia di Grosseto a partire dal 2008, quan-do tre archeologi libero professionisti hanno deciso di proporre l’investigazione delle dinamiche insediative di età romana alla foce del fiume Ombrone al Parco Regionale della Maremma ed alla allora Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana. Tale idea di ricerca andava a colmare un gap conoscitivo dovuto all’assenza di ricerche stratigrafiche mirate nell’area tutelata dal Parco e si inseriva nel quadro più ampio di ridefinizione dei trend insediativi che hanno caratterizzato l’Ager Rusellanus tra il II secolo a.C. ed il V secolo d.C.

Sfruttando i dati provenienti da interventi di emergenza e ricognizioni territoriali si è proposto un modello di progetto flessibile, con la precisa idea di identificare il network impostato dalla dominazione romana com-parando i dati stratigrafici emersi nel corso delle ricerche sui tre principali siti oggetto di indagine: il santuario di Diana Umbronensis a Scoglietto, il quartiere manifatturiero di Spolverino e la probabile positio di I Golena presso l’antica foce del fiume Ombrone1.

La prima campagna di scavi, svoltasi nell’estate 2009 a Scoglietto, estrema propaggine settentrionale delle colline dell’Uccellina e promontorio affacciato sul mare in età romana, ha restituito dati di estremo interesse ed i resti di un santuario romano di circa 800 mq di estensione. La natura sensazionale della scoperta, unita alla sua posizione geografica, in un punto panoramico lungo la via dall’alto flusso turistico che conduce a Marina di Alberese, hanno spinto sin da subito il gruppo di lavoro a riflettere sulle prospettive di sviluppo del rapporto tra ricerca e valorizzazione comportando la necessità di una strutturazione più solida, in grado di permettere al progetto di crescere e assumere le connotazioni di attività auto-sostenibile economicamente.

La prima problematica emersa era l’assenza di un’entità giuridica in grado di identificare univocamente i professionisti operanti all’interno del progetto: nel Gennaio 2010 si è scelto, dunque, di fondare l’associazione

1 Sebastiani et al. 2015.

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I magnifici sette. Past in Progress e l’archeologia condivisa:exploring the archaeological outreach

Carolina Megale

Esiste forse qualcosa di “bello in sé”? La gioia degli uomini della conoscenza accre-sce la bellezza del mondo e rende più solare tutto quel che esiste: la conoscenza pone la sua bellezza non soltanto intorno alle cose, ma, a lungo andare, nelle cose medesime – possa testimoniare questo principio l’umanità dell’avvenire!

F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, § 550

Il passato, le tracce materiali che ci ha lasciato, la nostra “eredità culturale” hanno un valore inestimabi-le, che tuttavia non rappresenta un valore in sé, ma un valore relazionale, ovvero il valore che la società civile e la comunità di riferimento gli attribuiscono. E questo valore è direttamente proporzionale al coinvolgi-mento e alla partecipazione di ogni cittadino nei processi di definizione e di gestione della nostra eredità culturale1.

È un istinto naturale che tutti abbiamo quello di voler conoscere il passato, volerne difendere i resti materiali (e immateriali) e vederne valorizzate le tracce e il territorio nelle quali sono inserite. Quante volte abbiamo detto o sentito dire la mitica frase: «Ah se ce lo avessero in America...!» riferita, ad esempio, a un lacerto di muro di epoca romana o medievale sommerso dalla vegetazione e privo di una descrizione, ma tuttavia carico di signi-ficato per la nostra storia?

Difendere e valorizzare il paesaggio significa prendersi cura di noi stessi nel nostro rapporto con quello che ci circonda, sia esso animale, vegetale o culturale, relativo al passato, al presente o al futuro. Significa sentirsi ed essere parte di una comunità di persone che si dedica, per passione o per mestiere, alla conoscenza e alla divulgazione delle manifestazioni tangibili e intangibili che gli uomini e le donne hanno prodotto nel corso del tempo, in un determinato luogo. Conoscere quello che il paesaggio conserva per noi, dunque, è l’unica strada possibile per permettere a tutti di lasciarsi andare a questo istinto naturale.

Per questo, nella moderna società della conoscenza, l’archeologia è prima di tutto pubblica, partecipata e rivolta alla comunità2. L’archeologo ha dato nuovo significato al proprio ruolo sociale e oggi pone al centro della propria missione la trasmissione ai cittadini delle conoscenze e dei risultati delle proprie ricerche, nella maniera più comprensibile possibile, fuori dal gergo, dalle aule universitarie e dai magazzini inaccessibili: affinché l’ere-dità culturale di una comunità e di un territorio possa essere accessibile a tutti e affinché tutti siano dotati degli strumenti che permetteranno loro di trarne beneficio, così come sancito dall’art. 4 della nostra Costituzione e dalla più recente Convenzione quadro sul valore dell’eredità culturale per la società (Convenzione di Faro), redatta dal Consiglio d’Europa nel 2005, sottoscritta dall’Italia nel 2013 ma non ancora ratificata.

1 Manacorda 2014; Megale 2017.2 Matsuda 2004; Okamura, Matsuda 2011. Per una sintesi dello sviluppo dell’archeologia pubblica in Italia si vedano Bonacchi 2009;

Vannini et al. 2014. Per alcuni esempi di esperienze realizzate in Italia si vedano Vannini, Nucciotti 2009; Calaon 2014; Forma Urbis 2016; Valenti 2016; Malfitana et al. 2017; Osti et al. 2017; Pallecchi 2017; Ripanti 2017; Ripanti, Mariotti 2018; Megale c.s.; per una visione dell’archeologia pubblica che non mi trova completamente concorde si veda Valenti 2018. E inoltre il Progetto di Ricerca di Interesse Na-zionale (PRIN) Archeologia al futuro. Teoria e prassi dell’archeologia pubblica, the first project of national interest, le nuove riviste scientifiche Archeostorie. Journal of Public Archaeology (www.archeostoriejpa.eu) e Ex Novo Journal of Archaeology (http://archaeologiaexnovo.org), la serie di convegni che si sono tenuti negli ultimi anni tra i quali Bonacchi 2013; Parello, Rizzo 2014; Ingoglia 2018.

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Il Ponte del tempo. Paesaggi culturali medievali.Un progetto di archeologia pubblica e di comunità

Chiara Molducci

Principi del progetto

Nell’ambito della collaborazione in Casentino (AR) tra Cattedra di Archeologia Medievale dell’Universi-tà degli Studi di Firenze e Ecomuseo del Casentino (Unione dei Comuni Montani del Casentino – servizio CRED), è stato sviluppato il progetto Il ponte del tempo. Paesaggi culturali medievali che aveva come sostanza di sperimentazione metodologica il connubio fra archeologia leggera e archeologia pubblica e, come oggetto di studio, lo sviluppo materiale nel territorio della signoria dei Conti Guidi fra XI e XIV secolo1. La lettura del paesaggio storico della valle del Solano, che nel suo sviluppo è stato fortemente caratterizzato dalla relazione stretta fra persone, ambiente e sfruttamento delle risorse naturali nel tempo, si è intrecciata con il ricordo e il recupero della memoria dei riferimenti materiali e immateriali degli abitanti attuali del territorio e il loro diret-to coinvolgimento nelle attività programmate (fig. 1).

Il restauro e la messa in sicurezza dell’antico ponte di Cetica (Comune di Castel San Niccolò, AR), manu-fatto particolarmente caro alla comunità, seriamente compromesso ed a rischio di crollo, è stata l’occasione per elaborare un programma di ricerca e valorizzazione integrato, centrato sul “sistema territoriale” rappresentato dal ponte, dal mulino e dal Castello di Sant’Angelo, significativo dal punto di vista dell’indagine storica medie-vistica, in quanto conserva le testimonianze archeologiche relative a tematiche storiografiche importanti, come il rapporto tra detentori dei castelli, i Guidi, la viabilità storica e tra questi e le strutture produttive del territorio. Il progetto inoltre aveva lo scopo di studiare gli aspetti “materiali” del territorio che dal Medioevo fino ai giorni nostri, segnano il paesaggio della Valle del Solano (fig. 1). Il recupero degli spazi storici è avvenuto attraverso lo studio delle strutture territoriali e dei manufatti di uso quotidiano riconosciuti come “significanti” dalla comunità, indagati con le metodologie dell’archeologia leggera (che integra a sistema archeologia degli elevati e archeologia del paesaggio su apposita base archeomatica con interventi mirati di scavo stratigrafico) integrate a quelle dell’archeologia pubblica. La peculiarità del progetto è stata quindi la modalità di studio delle forme di insediamento feudale in un concreto caso territoriale la vicenda storica della Signoria dei Guidi con valore di caso-studio rappresentativo di realtà diffuse, coniugata a una dimensione coltivata anche in forme sperimentali di modelli fra comunicazione ed indicazioni di governo dei risultati della ricerca (come delle metodologie inno-vative adottate) sperimentate come procedure di “archeologia pubblica” e qui consolidate2.

Una progettazione culturale così intesa deve avere una visione complessiva del territorio e l’archeologia qui è da considerarsi una risorsa per la conoscenza dell’ambiente in cui viviamo, per il suo sviluppo e, allo stesso tempo, è una componente attiva del paesaggio contemporaneo. Per fare questo diventa fondamentale il dialogo con le comunità locali perché vi sia quel riconoscimento di valore senza il quale dopo la ricerca e il recupero, conservare e tutelare diventano operazioni più difficili e complesse. È uno dei compiti dell’archeologia pubbli-ca, ancorare il bene culturale in modo potremmo dire consustanziale alla fruizione pubblica (fig. 1).

1 Il programma di ricerca rientra nel Progetto strategico dell’Ateneo fiorentino condotto dalla Cattedra di Archeologia Medievale dedicato allo studio per aree comparate delle strutture materiali delle Signorie territoriali di matrice feudale in Toscana ed in una selezione di regioni mediterranee. Fra queste signorie vi è quella dei Guidi condotta nelle aree valdarnesi (Poggio Regina e Roccaricciarda), nella Romagna toscana (Modigliana), oltre che casentinesi (Porciano, Poppi, Romena); Vannini, Molducci 2009, 179-180.

2 Molducci et al. 2015 13-18; Vannini 2011, 25-34; Vannini et al. 2014, 183-195; Volpe 2016; Manacorda 2017; Nucciotti 2009.

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L’esperienza di Massaciuccoli Romana.Da Area Archeologica partecipata a... ?

Mariela Quartararo

Mettersi insieme è un inizio,rimanere insieme è un progresso,

lavorare insieme è un successo.

Henry Ford

Premessa

Il Patrimonio Culturale riveste oggi, innegabilmente, un ruolo particolarmente importante nel dare forma a concetti civici quali l’appartenenza e l’identità, nel senso in cui ne parla Salvatore Settis1: «Sempre più chiara-mente emerge da nuove ricerche di sociologi, psicologi, antropologi che lo spazio in cui viviamo (paesaggio-am-biente) costituisce un formidabile capitale sociale, in senso non solo simbolico ma propriamente cognitivo. Ci fornisce coordinate di vita, di comportamento e di memoria, determinate dall’equilibrio (variabile) fra la stratificazione dei segni nel tempo e la relativa stabilità dell’insieme. Costruisce la nostra identità individuale e quella, collettiva, delle comunità di vita a cui apparteniamo».

Condividendo l’idea del ruolo educativo che il Patrimonio Culturale ha nella prassi dell’heritage education2 e la necessità di avere un approccio “globale” alla gestione del patrimonio archeologico come proposto dalla Pu-blic Archaeology3, obiettivo di questo contributo è riflettere sulla questione dei rapporti tra società civile, eredità culturale e le figure intermediarie tra le due, attraverso un’analisi critica e costruttiva del case study dell’Area Archeologica Massaciuccoli Romana, alla luce delle ultime vicende che l’hanno interessata.

Massaciuccoli Romana: un case study d’eccellenza

Massaciuccoli Romana, noto sito nel cuore della Versilia interna, adagiato sulle sponde dell’omonimo lago, è uno dei numerosi poli culturali della provincia di Lucca e della Versilia che spicca, tra gli altri, per unicità della collocazione e per fortuna nei secoli. Il sito, nascosto tra gli olivi, si mostra allo sguardo dei viaggiatori all’im-provviso, dopo un percorso tortuoso tra campi e frazioni lungo l’odierna Via Pietra a Padule, strada moderna erede dell’antica viabilità romana in loco4. La frequentazione del sito risale però a un periodo di molto prece-dente all’occupazione romana e in particolare al VII-IV secolo a.C., a tangibile dimostrazione dell’importanza

1 Settis 2010, 301-302.2 Branchiesi 2006, 182: «Una modalità di insegnamento basata sul patrimonio culturale, che includa metodi di insegnamento attivi,

una proposta curricolare trasversale, un partenariato fra i settori educativo e culturale, e che impieghi la più ampia varietà di modi di comu-nicazione e di espressione». Alcuni esempi di best practices inerenti a musei e siti archeologici nei progetti europei sulla heritage education, Van Lakerveld, Gussel 2011, 44-46.

3 Per una sintesi e alcune riflessioni generali sulla Public Archaeology si rimanda a Bonacchi 2009 e Liverani 2011. Per una visione dell’evoluzione della Public Archaeology in Italia si veda Bonacchi 2013, 211-216.

4 Fabiani 2006.

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Sepolto incatenato tra le dune di Baratti. Dallo scavo alla mostraGiorgio Baratti

La mostra inaugurata il 15 luglio 2017 al Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri è stata l’occasione di presentare, a pochi mesi dallo scavo, il ritrovamento eccezionale avvenuto in prossimità della spiaggia di Baratti, sotto le dune di sabbia, di un uomo di epoca etrusca con i ceppi alle caviglie e il giogo in ferro al collo che, già al momento della scoperta, aveva suscitato grande clamore anche a livello internazionale.

L’esposizione, studiata da chi scrive con Carolina Megale (curatrice del museo populoniese) con supporti espositivi creati dall’architetto Erica Foggi, si inserisce in un tracciato già avviato dall’anno precedente che vede il Museo etrusco di Populonia, racchiuso nel piccolo e affascinante castello della maremma livornese e i suoi spazi seppur limitati, come una dimensione strategica e profondamente evocativa per il contesto dell’antica città di Populonia. Questo percorso ha preso avvio in prima istanza dalla volontà più generale di costruire un dialogo sempre più intenso e costruttivo tra l’indagine scientifica e il territorio in un rapporto più stringente tra i risul-tati delle campagne di scavo a Populonia e il pubblico. Nel corso della pianificazione, il progetto si è in verità enucleato all’interno di una riflessione più profonda, scaturita a seguito delle drammatiche vicende dell’allu-vione dell’autunno 2015 che ha coinvolto e in parte segnato profondamente quei luoghi e l’immaginario di chi da sempre fruisce di questo eccezionale paesaggio. La mostra Populonia. La città dei vivi del 2016, organizzata a soli quattro mesi dalla conclusione degli interventi preliminari di emergenza in una delle aree più colpite da quei drammatici eventi, ha infatti preso spunto dalle potenzialità offerte dalle interessanti novità emerse con la scoperta della cosiddetta Casa dei Semi1 e con i nuovi dati sull’articolazione della “città bassa” di Populonia. L’obiettivo è stato dunque quello di cercare anche di creare una sorta di nuova “solidarietà” e condivisione cul-turale con abitanti e frequentatori dell’area cercando, con una piccola scommessa, di privilegiare la tempestività sulla completezza degli studi; si è voluto così esplicitare, quasi nell’immediato, quale contributo profondo l’atti-vità archeologica scientifica sul campo sia in grado di offrire in un simile contesto, quasi a parziale risarcimento di quanto violato dagli agenti atmosferici.

La mostra Sepolto incatenato tra le dune di Baratti. La scoperta dell’uomo in ceppi di Populonia, anche in que-sto caso ha presentato a pochi mesi dalla scoperta un ritrovamento che, sebbene su un piano profondamente diverso, aveva visto l’area di Populonia al centro dell’interesse internazionale nell’autunno del 2016. Il progetto è in parte proseguito nel solco tracciato dall’esperienza precedente, suscitando al contempo nuovi stimoli offerti dall’eccezionalità e dalle specificità del contesto presentato. La presentazione al pubblico di una sepoltura con queste caratteristiche, per quanto circoscritta negli spazi e nelle disponibilità finanziarie, non può non suscita-re alcune riflessioni che, seppur non esplicitate nell’allestimento, hanno guidato da una parte la realizzazione dell’intero progetto e dall’altra, in una disamina più ampia, offrono oggi alcuni ulteriori spunti di analisi che si cercherà di enucleare più avanti.

Il contesto di rinvenimento

Gli scavi sistematici che l’Università degli Studi di Milano, già attiva sul territorio dal 2003, ha condotto tra il 2008 e il 2016 hanno interessato l’area della Pineta e della spiaggia antistanti al Centro Velico Piombinese

1 Camilli et al. 2017.

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Costruire l’identità di una comunità dell’Etruria costiera:dieci anni di archeologia globale e partecipata a Vignale

Samanta Mariotti

Introduzione

«...the use of cultural heritage and its sustainable use have human development and quality life as their goal»: così recita, tra i suoi obiettivi primari, la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, nota come Convenzione di Faro, siglata nell’omonima città portoghese nell’ottobre del 20051.

Negli ultimi anni, complice anche la crisi economica che ha investito insieme all’Europa e all’intero mondo occidentale anche il nostro Paese, il dibattito sorto attorno al tema del patrimonio culturale come risorsa su cui puntare per rilanciare un nuovo modello di sviluppo e, di conseguenza, un nuovo modello di società, ha coinvol-to molti studiosi e professionisti nel settore archeologico, dando spesso vita a confronti a tratti molto accesi2. Al di là delle singole prese di posizione, ciò che è emerso è senza alcun dubbio come, tra le finalità dell’archeologia, intesa come scienza «che cerca di definire la trasformazione degli ambienti socioculturali, dalle prime testimo-nianze organizzate fino all’età preindustriale, con l’obiettivo di ricostruire l’evoluzione nel lungo periodo dell’i-dentità di un territorio e delle comunità che lo hanno abitato»3, ci sia oggigiorno anche quella di essere recepita come “servizio pubblico” a favore della comunità, con tutte le relative implicazioni etiche, sociali, economiche e politiche che ciò comporta. Da qui l’esigenza e i conseguenti numerosi tentativi di dare una definizione a quella che è divenuta, col tempo, – negli anni Ottanta, in ambito anglosassone e nord-europeo4, e da qualche anno an-che da noi5 – una vera e propria disciplina accademica: l’Archeologia Pubblica. La strada da percorrere in questo senso, nel nostro Paese, è certamente ancora molto lunga, ma è indubbio che diversi e interessanti siano gli spunti di riflessione e i progetti in fermento, come questo convegno ha ben messo in evidenza, visti i numerosi interventi che hanno riguardato un ambito territoriale circoscritto come l’Etruria. Anche in Italia, dunque, si va finalmente affermando con sempre più chiarezza che l’archeologia è pubblica per sua stessa definizione, perché essa ap-partiene in primo luogo alle comunità di riferimento in cui i singoli progetti si sviluppano e poi a una comunità più estesa, differenziata, globale. L’archeologia infatti diventa realmente “pubblica” solo quando è condivisa, compresa e sostenuta dai cittadini che in essa riconoscono se stessi e un valore aggiunto alle loro vite; diventa, allo stesso tempo, “partecipata” nel momento in cui la società capisce di esserne il destinatario naturale e diretto.

Il progetto Uomini e Cose a Vignale che da oltre dieci anni viene portato avanti dall’Università di Siena sul sito di Vignale (LI) sotto la direzione scientifica del professor Enrico Zanini e la direzione operativa della dottoressa Elisabetta Giorgi, possiede già nella sua sotto-denominazione – “archeologia pubblica, condivisa e sostenibile” – i tratti distintivi finora tracciati: linee ispiratrici e insieme fini ultimi, che lo annoverano, ad oggi, tra i progetti più attivi e significativi del panorama italiano per quanto riguarda la sperimentazione di buone pratiche di Public Archaeology.

1 CETS 199, 2005, art. 1c.2 Non è possibile in questa sede dare spazio a tutte le voci in campo e ripercorrere tutte le tappe del confronto, basterà citare alcuni

tra coloro che più recentemente hanno contribuito alla discussione Manacorda 2014a; Montanari 2014; Volpe 2015, 2017; Carandini 2017.3 Brogiolo 2007, 33.4 Merriman 2004; Schadla-Hall 2009; Okamura, Matsuda 2011.5 Bonacchi 2009, 2013, 2014; Ripanti 2017.

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Archeologia e condivisione: l’esperienza di Vada VolaterranaFrancesca Bulzomì, Stefano Genovesi, Simonetta Menchelli,

Edina Regoli, Paolo Sangriso

Vada Volaterrana, citata da numerose fonti antiche, costituiva l’ampio sistema portuale di Volterra in età etrusca e romana, grossomodo compreso fra i fiumi Fine e Cecina, pienamente inserito nel network dei princi-pali porti mediterranei dall’età arcaica al tardo-antico. Dal 1982 è in corso di scavo un quartiere retroportuale di Vada Volaterrana, in loc. S. Gaetano, immediatamente a nord della moderna Vada, ad opera degli insegna-menti di Topografia antica e Laboratorio di Topografia antica dell’Università di Pisa.

Di questo quartiere, in uso dal I al VII secolo d.C., sono stati portati alla luce numerosi edifici; il fulcro dell’insediamento è costituito dagli horrea, dotati di un piccolo impianto termale, e dalla schola, sede del colle-gium dei Dendrophori, che gestivano le attività economiche del quartiere. Qui erano inoltre terme pubbliche, tabernae e altri edifici ad uso sacrale, produttivo-artigianale, commerciale e ludico1.

Il sito di San Gaetano, una delle più importanti aree archeologiche della costa toscana, si trova all’interno del sistema industriale Solvay, in un ambiente tipicamente mediterraneo con ulivi e bordato dalla pineta costie-ra, a poche centinaia di metri dal litorale, facilmente raggiungibile mediante mezzi pubblici e percorsi ciclabili. Agli scavi partecipano studenti dell’Università di Pisa, di istituti superiori (nell’ambito di progetti alternanza scuola-lavoro) e studenti europei ed extraeuropei della Vada Volaterrana Summer School (www.diggingvada.com).

Grazie ad una proficua sinergia fra Soprintendenza archeologica, Università, Comune e Civico Museo Ar-cheologico di Rosignano M.mo e le Società proprietarie dell’area (in precedenza Società Solvay e al momento Ineos Manufacturing Italia S.P.A.), Vada Volaterrana sin da subito è stata oggetto di Archeologia pubblica, cioè di interventi mirati a costituire un’area di interazione fra ricerca archeologica e società civile.

Negli anni molte sono state le iniziative finalizzate a coinvolgere il pubblico, e soprattutto le comunità locali, nei processi di ricostruzione della storia del territorio, ai fini di una condivisione e riappropriazione collettiva del passato, ad esempio le Mostre organizzate presso il Civico Museo Archeologico e i cicli di conferenze che hanno avuto notevole successo di pubblico.

Si segnala che già nella mostra organizzata nel 1987, Terme romane e vita quotidiana2, al fine di migliorare l’efficacia comunicativa del tema, soprattutto presso il pubblico più giovane, vennero inserite vignette disegnate da Alberto Fremura illustranti la vita alle terme, ovviamente sulla base di un’accurata documentazione da noi fornita, secondo una tendenza – la storia e l’archeologia a fumetti – che oggi è in grande espansione3.

Oltre che per questi eventi, l’interazione fra Vada Volaterrana e la Comunità civile è sempre stata forte grazie al continuo lavoro del Museo con una serrata organizzazione di Laboratori didattici per bambini e ragazzi, e di conferenze nelle scuole, e di eventi per adulti, come le “Cene romane”, anche queste basate su una solida ricostruzione storica e con un’efficace interpretazione della quotidianità del passato (fig. 1). Seguendo le più avanzate esperienze europee di reenactment, in un settore del Museo sono stati ricostruiti alcuni degli ambienti centrali di una domus, per contestualizzare gli oggetti che si vedono decontestualizzati ed “esaltati” in vetrina e per dare un’idea a tutto tondo della vita romana...

1 Sul sito vedi da ultimi Pasquinucci et al. 2015; Menchelli et al. 2016; Sangriso 2017.2 Con il relativo catalogo: Pasquinucci 1987.3 Si veda ad esempio https://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2018-02-27/storie-fumetti-22-musei-e-siti-archeologici-si-

rivolgono-giovanissimi-172704.shtml?uuid=AEydau7D

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Lo scavo archeologico di San Giovanni (Isola d’Elba, LI)e la rada di Portoferraio: il racconto di un’isolae di una ricerca condivisa e partecipata

Laura Pagliantini

A partire dal 2012 la rada di Portoferraio all’Isola d’Elba, legata al leggendario sbarco degli Argonauti e celebre per le inesauribili miniere di ferro, è oggetto di progetto di ricerca archeologica condotto dall’Università degli Studi di Siena e dal Gruppo di Ricerca AITHALE1.

Attorno al golfo protetto che si apre nel braccio di mare che separa l’isola dal continente, si sono infatti intrecciate nel corso dei millenni frequentazioni umane, approdi mitici, scambi culturali e storie produttive, divenute imprescindibili per la comprensione delle dinamiche storiche dell’intera Etruria.

La ricerca ha preso le mosse da una domanda fondamentale: perché l’Isola d’Elba è così importante nei secoli che vanno dal IX a.C. in poi? Il nome dell’isola, anzitutto, è indubitabilmente greco: Aethalia, o Aithale, è l’isola “fuligginosa”, con chiara allusione ai fumi dei forni fusori o, ancora meglio, al colore che caratterizza la massa scura dell’isola vista dal mare (questo era il punto di osservazione dei navigatori antichi)2.

L’elemento cromatico assume un rilievo anche maggiore, come è stato giustamente osservato, considerando altri toponimi narranti, ugualmente coloristici ma di senso opposto: i Capi Bianchi, all’Elba particolarmente numerosi, dovevano risaltare fortemente agli occhi dei navigatori, per un effetto di contrasto rispetto alla costa “color della fuliggine”3. Ma vi è di più.

Nella tradizione letteraria antica Portoferraio è Porto Argòo, il Porto Splendente, toponimo spiegato da Diodoro Siculo e da Strabone con la sosta della nave di Giasone e degli Argonauti, che qui avrebbero fatto tap-pa durante la ricerca del vello d’oro4. In una località caratterizzata dalla roccia bianca gli eroi greci avrebbero svolto delle gare sportive e il sudore emanato dai loro corpi avrebbe picchiettato di nero la roccia bianca, tanto da renderla inconfondibile. Questa roccia (aplite con inclusioni di tormalina nera) compare effettivamente nelle immediate vicinanze di Portoferraio e nella stessa rada ed è rarissima nel Mediterraneo, ciò che confermerebbe l’identità fra tradizione del mito e geologia.

Il racconto mitologico adombrerebbe quindi antiche navigazioni greche, a cui si susseguirono quelle fenice, e gli scambi etnici e culturali con le vicine isole della Corsica e della Sardegna5.

Ma, parlare dell’Isola d’Elba e della rada di Portoferraio, significa ancora oggi – a più di trent’anni dalla chiusura definitiva delle miniere di ferro nel 1981 – rievocare anche un mondo minerario e siderurgico che ebbe un grande rilievo nell’economia e nella società dell’isola e che tuttora ne costituisce un aspetto fortemente identitario.

A partire dal periodo etrusco nella rada si lavoravano i minerali di ferro estratti nel versante orientale dell’isola: questo luogo, uscito dal mito, era avvolto nei fumi emanati dalle fornaci ed attraversato dai rumori assordanti delle forge e delle officine in cui si producevano i lingotti di ferro, diretti poi verso Populonia ed i grandi centri dell’Etruria costiera6.

1 Il gruppo di ricerca è formato dall’Università degli Studi di Siena (Prof. Cambi), Università di Scienze delle Terra di Firenze (Prof. Marco Benvenuti) e Scuola Normale Superiore di Pisa (Dott. Alessandro Corretti).

2 Corretti 2004, 122-129.3 Corretti et al. 2015, 263-274.4 Corretti 2005, 231-258.5 Corretti et al. 2016, 51-62.6 Cambi 2009, 231-230.

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Il Museo fuori e la Società dentro.Esperienze e buone pratiche di un piccolo museo

Costanza Quaratesi, Giada Valdambrini, Luisa Zito

L’intento di questo contributo è quello di presentare le esperienze di gestione e fruizione messe in atto nei diciotto anni di vita del Museo Civico Archeologico Isidoro Falchi, piccola realtà museale nel cuore della ma-remma grossetana che, perseguendo uno dei temi cari al Professor Giovannangelo Camporeale, quello dell’Ar-cheologia Pubblica, ha dato avvio ad un circolo virtuoso di buone pratiche frutto della proficua interazione tra archeologia, pubblico, enti locali e territorio.

Il Museo Civico Archeologico Isidoro Falchi di Vetulonia

L’attuale museo si affaccia su una delle piazze principali del borgo di Vetulonia, frazione del Comune di Castiglione della Pescaia, ed è intitolato a Isidoro Falchi, medico, ma anche studioso e archeologo autodidatta che, attraverso una trentennale attività di scavi e ricerche, perseguite con tenacia e perseveranza a partire dal 1881, ha riportato alla luce e agli occhi di tutto il mondo accademico dell’epoca le testimonianze di una delle capitali dell’Etruria antica.

Nonostante la grande mole di dati e reperti rinvenuti nel corso delle indagini, oggetto di una prima mo-nografia già nel 18911, solo tra il 1977 e il 1981, quasi un secolo dopo l’attività del Falchi, gli Enti Locali e la Soprintendenza hanno fatto sì che venisse allestito ed aperto, nel centro del paese, un piccolo ma frequentatis-simo e molto apprezzato Antiquarium. Questo occupava un’unica sala dell’edificio polifunzionale realizzato nel secondo dopoguerra per ospitare la scuola elementare, la biblioteca e lo studio del medico di base, poi destinato unicamente a struttura museale.

Nei primi anni Ottanta, per questioni legate alla volontà di ammodernare la struttura dotandola di adeguati sistemi di monitoraggio e sicurezza, l’Antiquarium venne chiuso. Riaperto nel giugno del 2000, nella nuova veste di Museo Civico Archeologico offre al visitatore un allestimento che si snoda lungo sette sale, disposte su due piani (fig. 1); i reperti sono presentati in ordine cronologico, coprendo un arco di tempo che va dall’età villa-noviana a quella romana; la presenza lungo tutto il percorso di pannelli didattici bilingui, plastici ricostruttivi e apparati multimediali permette al visitatore di percorrere agevolmente un viaggio di mille anni attraverso le importanti testimonianze di una importante polis etrusca, dalla sua nascita alla decadenza.

Pur essendo una piccola realtà territoriale (è infatti l’unico museo del comune di Castiglione della Pescaia), conta circa 11mila presenze annue, che si sommano a quelle delle aree archeologiche situate sia in centro che subito fuori del paese. La visita al museo risulta in questo complementare a quella delle tombe monumentali e dei resti dell’acropoli, permettendo una comprensione immediata dei molteplici aspetti della storia di Vetulonia etrusca.

1 Falchi 1981.

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Museum Tailor:riprogettazione non invasiva di un museo archeologico

Nicola Amico, Cinzia Luddi, Ginevra Niccolucci, Virginia Niccolucci

Introduzione

I musei sono una grande risorsa, in particolare per il nostro paese. Per evitare che tale ricchezza rimanga solo potenziale è importante individuare e applicare delle soluzioni che siano in grado di valorizzarla.

Il ruolo del museo fin dalla sua nascita è quello di diffondere la conoscenza, attraverso la conservazione, il restauro, la documentazione, lo studio e l’esposizione delle opere che costituiscono le sue collezioni1.

Il rapporto con il pubblico e il ruolo educativo del museo è mutato negli anni. Inizialmente il modello di-vulgativo dei musei scoraggiava e metteva in soggezione il grande pubblico con un linguaggio affine più agli studiosi e agli esperti. Negli ultimi anni, invece, la comunicazione dei musei ha trasformato il pubblico da spet-tatore passivo a interlocutore attivo e consapevole2.

Il punto chiave di questa evoluzione nella strategia comunicativa è rappresentato dalle scelte espositive, che contribuiscono a superare il gap che divide il visitatore dal messaggio contenuto nel manufatto.

La diffusione crescente di dispositivi mobili ha generato un approccio nuovo, permettendo di sperimentare strumenti di divulgazione impensabili fino a pochi anni fa.

I musei devono oggi affrontare nuove sfide:

• migliorare l’esperienza per i visitatori personalizzando e (dinamicamente) adattando le informazioni sui beni culturali a ciascun individuo o gruppo di visitatori;

• trasmettere il senso della scoperta e della meraviglia nell’esperienza del visitatore;• rendere disponibile l’esperienza di visita al museo su diverse piattaforme digirali, ad esempio su web brow-

ser e dispositivi mobili ecc.;• fornire nuovi mezzi per rendere la conoscenza, l’interpretazione e l’analisi del bene culturale accessibile a

tutti.Un progetto di allestimento museale deve oggi confrontarsi con le più disparate soluzioni tecnologiche, dalle

audioguide agli schermi touch screen, dai percorsi interattivi alle app per dispositivi mobili, per arrivare fino alle installazioni interattive, ma, per rendere tale confronto proficuo nel tempo, devono essere fatte delle scelte strategiche lungimiranti. I progetti di riallestimento devono infatti tenere in considerazione necessità diverse, sia del museo che dei suoi fruitori3.

La metodologia Museum Tailor applicata da PRISMA inizia con una visita al museo con occhio critico e innovativo per realizzare un progetto di riallestimento che non sia né invasivo per il luogo che lo ospita né di-spendioso per il bilancio dell’Ente che lo gestisce, privilegiando il riuso del materiale digitale (o da digitalizzare) del museo ed evitando l’utilizzo di strumenti soggetti all’obsolescenza tecnologica. Particolare attenzione viene riservata alla creazione di contenuti che riescano a raccontare, sulla base delle nuove strategie comunicative,

1 La definizione ufficiale di museo è stata formulata nel 1975 dall’International Council of Museum (ICOM): “Il Museo è un’istituzio-ne permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificamente le espone per scopi di studio, istruzione e diletto”.

2 Marini Clarelli 2006, 16 ss.3 Freeman et al. 2016.

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Edizioni ETSPalazzo Roncioni - Lungarno Mediceo, 16, I-56127 Pisa

[email protected] - www.edizioniets.comFinito di stampare nel mese di dicembre 2018