Corte Sconta detta Arcana - Rizzoli LibriCorte sconta detta arcana Il bianco spezzato marco steiner...

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Transmongolica olTre Ulan BaTor

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Corte sconta detta arcanaIl bianco spezzato

marco steiner foto di marco D’anna

La torre della cicogna bianca

L’aurora irrompe, seguendo la montagna;

e intanto il Fiume Giallo fluisce verso il mare.

Ma tu potrai vedere un ampio panorama,

salendo ancor più in alto sulla torre.

(Wang chih-Huan, Salendo sulla torre delle cicogne)

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Pechino. entrata meridionale del Tempio del cielo.

Domenica pomeriggio. Yu Zuncheng è un pensionato,

appena può viene qui a passare il suo tempo, anche

quando è grigio e freddo, come oggi. Yu scrive poesie,

le scrive per terra, all’interno del piazzale che precede

l’immenso giardino del tempio. si porta un lungo

pennello che all’estremità ha una specie di spugna

appuntita, imbeve la punta nel suo secchio d’acqua

e scrive sul lastricato grigio. Yu scrive con molta

attenzione, i segni sono precisi, i movimenti eleganti.

la poesia che parla della salita sulla Torre delle

cicogne l’ha trascritta sul selciato, è una famosa poesia

dell’epoca Tang, ricorda un po’ L’infinito di leopardi e

il concetto dello sforzo necessario per guardare oltre, al

di là del visibile.

lentamente, i tratti scuri e umidi svaniscono sulla

pietra e tutto ritorna grigio com’era. la gente s’avvicina,

parla con lui oppure legge in silenzio la poesia. il tempo

scorre e asciuga i segni che ricordano i caratteri dipinti

da Vita lunga per corto maltese. Poi si scopre che Yu

non è un pensionato normale, conosce il mondo, parla

perfettamente l’inglese. molti anni fa, era l’interprete

personale del presidente Deng Xiaoping.

Prima di leggere Corte Sconta detta Arcana,

bisognerebbe guardare un film: Shanghai Express di Joseph

von sternberg. c’è un po’ di tutto lì dentro: il viaggio in

treno in una cina in grande fermento, l’amore impossibile,

una splendida marlene Dietrich che interpreta shanghai

lil’, le spie, i trafficanti d’oppio, le divise, i cambiamenti di

fronte e le mitragliatrici dei soldati.

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sosTa a irkUTsk

c’è anche una frase emblematica del generale

chang cinematografico: «siamo in cina, dove vita e

tempo non hanno valore».

Poi ci si rende conto che il nome del regista è lo

stesso di uno dei protagonisti della storia di Pratt, il

leggendario barone roman Ungern von sternberg

e allora il gioco dei rimandi potrebbe continuare

a snodarsi lungo i freddi binari che attraversano la

siberia, la mongolia, la cina.

D’inverno, il lungo paesaggio che separa Pechino

da mosca è bianco e ghiacciato, è fatto di spazi infiniti,

di un esercito di betulle allineate come esili spettri

di soldati, di treni impregnati dall’odore del carbone

e da un caravanserraglio d’umanità. non ci sono

vagoni carichi d’oro né cannoni, non ci sono diafane

marlene Dietrich né bionde baronesse russe dal fascino

distaccato, ci sono soltanto grasse prostitute cinesi

che s’impomatano il viso e variopinti personaggi che

trascinano valigie di merci da vendere a ogni fermata. il

treno è uno sferragliante mercato ambulante invaso da

borsoni telati a strisce azzurre, bianche e rosse, imbottiti

di magliette, jeans, tute adidas false e giubbotti di

stoffa sintetica, calze, calzini, occhiali griffati, lucide

borse di pelle. Denaro stropicciato cinese, mongolo,

russo, dollari ed euro passano continuamente di mano

in mano in ogni stazione di sosta. nel treno c’è un

sentore misto di vodka, sudore, grasse zuppe con carne

stufata, carbone, sigarette e caffè. alle dogane notturne

il tempo si blocca, immobilizzato da controlli, cambi di

carrelli e motrici che procederanno su binari dal passo

diverso. le guardie di confine s’infilano come gatti negli

anfratti sotto i sedili e sopra i soffitti, fissano le pagine

dei passaporti e gli occhi dei passeggeri per secondi che

scorrono infiniti senza parole. le teste dei controllori

s’inclinano impercettibilmente e i loro occhi scrutano

in profondità, come animaleschi segnali di studio

prima dell’attacco. la falsità trasuda da un battito di

ciglia o da un sorriso ostentato, poi il passaporto viene

richiuso e, magicamente, come per grazia ricevuta,

tutto si sblocca e la marcia del treno continua. lenta,

ingoiando chilometri, confini, sbadigli, fusi orari,

giornate fatte di grigi e albe che si confondono con i

tramonti.

Fuori dal finestrino, il paesaggio che sfila sembra una

tela rigata da un’impercettibile linea centrale: bianco

increspato di neve e azzurro pallido di cielo. il tutto,

macchiato dal vento. il sole non si vede, si nasconde da

qualche parte, dietro ad un diafano alone.

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l’isola Di olkHon, sUl lago BaJkal

Quando ci si avvicina alle stazioni, la neve diventa

sporca, grigia, triste. come le vicine città. i vetri dei

finestrini sono decorati da cristalli ghiacciati e gli

spazi fra un vagone e l’altro sembrano celle frigorifere

spazzate da un vento polare. Poliziotti silenziosi,

ferrovieri svogliati, passeggeri rassegnati, ossigenate

e corpulente cameriere s’incontrano nel vagone

ristorante e sono una sintesi variopinta dei possibili

incontri che avvengono realmente lungo quell’infinito

doppio nastro d’acciaio e di Paesi tanto diversi.

ci sono oltre 7000 chilometri fra mosca e Pechino,

5000 di siberia, 1000 di mongolia, 1000 di cina,

eppure il frate minore giovanni da Pian del carpine,

inviato dal papa innocenzo iV, arrivò a cavallo fino

alla corte di guyuk, il gran khan erede di gengis,

partendo dalla Francia nel 1245.

Dopo di lui ci arrivò guglielmo da rubruc con una

lettera del re di Francia luigi iX. i silenziosi viaggi dei

due francescani avrebbero modestamente aperto la

strada al celebre itinerario di marco Polo, eppure tanti

altri avventurieri, esploratori e geografi si erano spinti

in quelle terre lontane descrivendo i Takhi, i cavalli

selvaggi che non esistevano in altri luoghi del mondo e

gli Almas, gli uomini-animali, yeti ricoperti di peli che

vivevano in piccoli branchi nelle zone più inospitali e

desolate di queste durissime terre.

il sogno del barone Ungern von sternberg partiva

da questo centro del mondo, dalla mongolia. il

generale dalle nobili origini teutoniche e baltiche,

il fondatore dell’ordine militare Buddista e della

cavalleria selvaggia voleva ristabilire il predominio

culturale e religioso asiatico spazzando il materialismo

dei conquistatori cinesi e dei rivoluzionari russi.

oggi la patria di genghis khan si erge solitaria in

mezzo a due grandi colossi come la cina e la russia che,

dopo aver abbandonato i loro idealismi rivoluzionari,

ora inseguono diversi ma simili materialistici sogni di

moderno benessere.

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U nera in campo giallo

Bisogna combattere fino in fondo Grigori.

Anch’io ritengo che la guerra sia perduta.

Ma la disperazione è bugiarda quanto la speranza.

Solo una cosa conta: diventare ciò che si è e fare ciò che si deve.

(roman von Ungern sternberg,

da Il dio della guerra di Jean mabire)

Quando ci si rende conto che il sogno sognato è

troppo grande per essere vissuto, non restano che due

strade: smettere di sognare, oppure continuare fino in

fondo considerando la dura realtà come un passaggio

necessario verso il buio della fine o la luce lontana della

leggenda.

Questo è proprio quello che successe al barone

roman Ungern von sternberg nel marzo del 1921. il

«Barone sanguinario», il «Barone folle», nacque nel

gennaio del 1886 probabilmente in estonia, sull’isola

di Dago (oggi Hiiumaa saar), secondo altre fonti più

«occidentali» nacque invece a graz in austria nel

1885. Quello che è sicuro è che venne fucilato nel

1921 da un plotone d’esecuzione bolscevico, ma anche

il luogo della sua morte è incerto: novonikolajevsk o,

forse, Verkhne-Udinsk (oggi Ulan Ude).

li guardò in faccia uno per uno e ingoiò la sua croce

di san giorgio, la sua onorificenza più prestigiosa: non

voleva che finisse nelle mani di uomini che disprezzava.

Quei contadini, figli della nuova russia, erano giovani

miliziani e non antichi soldati come lui. la sua famiglia

apparteneva alla nobiltà baltica di lingua tedesca, gente

che discendeva dai vichinghi e, attraverso un ceppo

ungherese, dagli Unni di attila. Fra i suoi antenati

c’erano stati uomini che appartenevano all’ordine

dei monaci cavalieri Teutonici, alchimisti, corsari,

diplomatici, forse c’era una discendenza diretta da

gengis khan.

il barone aveva iniziato a studiare al ginnasio di

reval (Tallinn), poi era diventato un cadetto della

scuola Pavlovsk di san Pietroburgo e, alla fine, fu

assegnato al reggimento dei cosacchi di stanza a

cita, in Transbajkalia, vicino al confine cinese. Fu

qui che incontrò per la prima volta grigori semënov.

combatté nella galizia polacca e in Volinia, perse la

moglie Danielle in un naufragio nel Baltico e, dopo

una partita a carte, sfidò a duello e uccise un ufficiale

che lo aveva insultato: «Buddista e tedesco, cosa c’è di

peggio per un vero russo?».

Quel rozzo ufficiale siberiano prima di morire gli

vibrò un terribile fendente alla testa. il sangue gli colava

a sinisTra: lago BaJkal. a DesTra: “ger” mongole.

Pagina accanTo: cacciaTore mongolo

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copioso sugli occhi, ma roman, dopo averlo trafitto,

rimase a fissarlo lo stesso, fino a quando non rimase

immobile, nel ghiaccio.

Poi partì e se ne andò molto lontano. sembra quasi

di rivedere uno spezzone del film I duellanti di ridley

scott. il barone Ungern, sporco, lacero e ferito, si

dimise volontariamente dal reggimento e vagò per più

di un anno, in compagnia del suo cane e del cavallo

diretto dall’altra parte della russia, a Vladivostock.

attraversò deserti di pietre spazzati dal vento e

sconfinate distese coperte di neve, fino a quando, in

una lurida yurta, un’indovina predisse il suo futuro:

«Tu dominerai un grande Paese, dio bianco della

guerra. e io vedo sangue, molto sangue…».

Dopo quel suo lungo vagabondare aveva

assaporato la solitudine, apprezzato la libertà della

vita dei popoli nomadi, coltivato la sua spiritualità,

affinato la resistenza a ogni genere di privazione e

sviluppato ancora di più il suo mistico sogno.

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PecHino. selciaTo Del TemPio Del cielo. iDeogramma cinese Per

"lUnga ViTa"

monasTero BUDDisTa Di ganDan, Ulan BaTor

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PecHino. mercaTo Di laiTai

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Dopo aver ritrovato nel 1916 l’amico semënov

sul fronte armeno, con lo scoppio della rivoluzione

bolscevica dell’ottobre del 1917, si ritrovò assegnato

ai suoi ordini sul fronte dell’estremo oriente russo. il

«Barone sanguinario» e l’ataman semënov erano

sicuramente antibolscevichi, ma non riconobbero mai

l’autorità del loro comandante in capo, l’ammiraglio

aleksandr Vasilevic kolchak, il comandante delle

truppe bianche. Del resto, erano tutti molto lontani da

mosca e da san Pietroburgo, così ognuno seguì i propri

sogni o gli interessi personali. i giapponesi appoggiarono

con truppe, armi e denaro l’ataman semënov, loro

avevano intenzione di creare uno stato cuscinetto, lo

stato cosacco della Transbajkalia: doveva essere una

zona facilmente controllabile, una base d’appoggio da

incuneare fra la cina e la russia. semënov, più che a

combattere i «rossi», era interessato ai lussi, alle razzie

e ai suoi piaceri personali. Utilizzava i treni blindati per

spostarsi e per rapinare tutti i convogli che percorrevano

la sua zona, la linea transiberiana orientale. nel 1920

roman Ungern von sternberg si stancò di quell’inutile,

piccola, egoistica guerra e si separò anche da grigori

semënov. iniziò la sua guerra personale per realizzare

il sogno che aveva coltivato nel corso di tutta la vita:

creare un grande stato teocratico, una grande mongolia

che avrebbe unificato tutte le regioni dal Bajkal al Tibet.

il suo esercito, la cavalleria selvaggia, avrebbe raccolto

le élite combattenti dell’asia: mongoli, buriati, tibetani,

cinesi, tatari, afgani, kirghisi, calmucchi, cosacchi. i

suoi ufficiali, forgiati secondo i dettami del suo ordine

militare Buddista, dovevano essere uomini pronti

a ogni genere di violenza, sacrificio e privazione. in

caso contrario la pena era una soltanto: la morte. Quei

guerrieri dalle sciabole ricurve avrebbero seguito il loro

unico e indiscutibile capo Ungern khan nel realizzare

un progetto degno dei grandi conquistatori che

l’avevano preceduto in quelle terre di cavalieri selvaggi:

attila, gengis khan e Tamerlano. la loro bandiera era

gialla come il sole e come i deserti dell’asia, e la «U»

nera ricordava l’iniziale del loro khan, ma era anche il

segno dell’impronta degli zoccoli che i cavalli avrebbero

lasciato sui terreni strappati al «marcio occidente

rivoluzionario».

sciamani buriati e indovini tibetani venivano

continuamente convocati e interrogati dal barone per

guidare le scelte e per predire il tempo che gli sarebbe

rimasto, non tanto da vivere, quanto per realizzare quel

sogno eurasiatico.

all’alba del 7 febbraio del 1920, l’ammiraglio

kolchak venne giustiziato a irkutsk. aveva passato la

sua ultima notte nel monastero Znamensky, forse aveva

sentito anche lui i magnifici canti delle suore ortodosse

che ancora vivono in quelle sale decorate di fiori.

sicuramente pregò sotto alle volte intrise dall’odore

di cera o davanti alle ricchissime icone illuminate da

centinaia di candele.

la sua ultima immagine fu probabilmente quella

della grata sulla porta del monastero. oltre alle sbarre,

oltre a quell’oasi di religiosità, per lui c’era solo un

giardino ghiacciato.

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