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Maria Delia Contri 1. Le tragedie in forma di farsa I testi che ho preparato per l’esposizione odierna si aprono con una frase di Freud tratta dall’Introduzione alla psicoanalisi del 1915-17, frase che tutta- via compare in una quantità di altri testi: Vi è un sapere di cui l’uomo non sa nulla. Potremmo aggiungere: “Non sa nulla perché non sa di saperlo”. Si tratta in fondo del nucleo costante della commedia, nucleo che diventa esplicito nella commedia dell’assurdo è così, per esempio, in Beckett. Nome file data Contesto Relatori Liv. revisione 011201SC1.rtf 01/12/2001 ENC R Colombo GB Contri MD Contri Pubblicazione CORSO DI STUDIUM ENCICLOPEDIA 2001-2002 UNA IDEA SEMPLICE. LA PIETRA SCARTATA. IL PENSIERO «COMMEDIE» DEL PENSIERO 1° dicembre 2001 2° LEZIONE IPSA DIXIT "LA DONNA MI HA DATO IL FRUTTO E IO L'HO MANGIATO" IMPUTABILITÀ INDIVIDUALE E COLPA PRESUPPOSTA

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Maria Delia Contri

1. Le tragedie in forma di farsa

I testi che ho preparato per l’esposizione odierna si aprono con una frase di Freud tratta dall’Introduzione alla psicoanalisi del 1915-17, frase che tutta-via compare in una quantità di altri testi:

Vi è un sapere di cui l’uomo non sa nulla. Potremmo aggiungere: “Non sa nulla perché non sa di saperlo”. Si tratta

in fondo del nucleo costante della commedia, nucleo che diventa esplicito nella commedia dell’assurdo è così, per esempio, in Beckett.

Nome file data Contesto Relatori Liv. revisione

011201SC1.rtf 01/12/2001 ENC R Colombo GB Contri MD Contri

Pubblicazione

CORSO DI STUDIUM ENCICLOPEDIA 2001-2002 UNA IDEA SEMPLICE. LA PIETRA SCARTATA. IL PENSIERO

«COMMEDIE» DEL PENSIERO

1° dicembre 2001

2° LEZIONE

IPSA DIXIT

"LA DONNA MI HA DATO IL FRUTTO E IO L'HO MANGIATO"

IMPUTABILITÀ INDIVIDUALE E COLPA PRESUPPOSTA

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16 Ipsa dixit Imputabilità individuale e colpa presupposta

All’interno del tema generale del Corso, La pietra scartata, e del tema specifico, Commedie del pensiero, si inserisce il tema specifico di oggi: Ipsa dixit, che contiene un riferimento al libro della Genesi: “La donna mi ha dato il frutto e io l'ho mangiato”. Proprio questo riferimento introduce all’affronto della questione dal lato del rapporto tra imputabilità individuale e colpa pre-supposta. Colpa presupposta, annotiamolo, e non colpa originale o peccato originale. È un tema complesso che per millenni ha attraversato la storia della cultura.

Mi è utile partire da una frase dell’articolo di Claudio Magris comparso ieri sul Corriere della Sera. Dice Magris:

Non ricordo se sia stato Hegel o Marx a dire che nella storia le tragedie si ripre-sentano la seconda volta in forma di farsa o di commedia. In questa tesi, hegeliana o marxiana che sia, mi sembra di ritrovare una

definizione ante litteram di ciò che Freud chiamerà “ritorno del rimosso”, un rimosso che noi, con il titolo che dà unità ai lavori dei tre Studia, chiamiamo La pietra scartata o “rimossa”. Con il titolo generale del Corso, Le commedie del pensiero, riprendiamo le due formule dicendo che la pietra scartata ritorna - ritorno del rimosso - come commedia.

Nel suo articolo Magris se la prende con chi sostiene che tornando a rie-vocare la tragedia del nazismo si rivangherebbe un passato ormai trascorso e quindi suggerisce di lasciar stare per non riattivare inutilmente vecchi odi e vecchie storie. Convengo con lui che gli errori vanno ricordati e giudicati. Si tratta però di capir bene qual è l’errore e di chi è la colpa del delitto.

Mi è tornato alla mente un racconto di Giacomo B. Contri, in cui riferiva di una sua paziente che un giorno si espresse dicendo che la psicoanalisi, propriamente l’analisi, non è tanto guastafeste quanto guastatragedie. Ora, per tornare al nazismo, il nazismo non è stata una tragedia: è stata una commedia, anzi una farsa. Una farsa sanguinosa, certo, perché sanguinose sono le conseguenze che sono state pagate. Basterebbe ripensare agli effetti teatrali, alle luci da palcoscenico, alle sfilate da teatro, alle star che il nazismo ha creato - sono le cose più simili a quanto avviene sui palcoscenici del rock e del pop - e che peraltro Hitler si è preoccupato di far filmare da una regista di grande valore come Leni Riefensthal. Che cosa c’è di più teatrale di quelle sfilate di giovanotti e contadini con zappe tutte eguali in spalla? Se è vero che evocano un fucile imbracciato e una marcia militare, ricordano però anche le processioni che compaiono a teatro con fanciulle con un giglio in mano e la coroncina di rose in testa: una commedia, ovvero psicologia delle masse. E se analizziamo la psicologia delle masse, ritroviamo un dispositivo da commedia

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o un dispositivo teatrale, ma teatrale è il comico per definizione, quand’anche fosse apparentemente messa in scena una tragedia.

Come si arriva a una psicologia delle masse? Per muoversi, un corpo - e un corpo è individuale per definizione - ha bi-

sogno di avere ragioni proprie. Nell’animale saranno quelle dell’istinto. Ma a muovere l’uomo, la cui la guida è il pensiero logicamente - insisto su questo: anzitutto logicamente - non può essere che il pensiero del suo profitto o del suo beneficio. Insistiamo molto sull’aspetto osservativo di questo. A riflettere bene - credo che sia questo il passo importante da farsi - è logicamente l’unico pensiero che può produrre movimento. In assenza del pensiero del proprio profitto, che poi vuol dire di una meta pensata dal pensiero di quel corpo, un corpo non può che cadere prima nell’angoscia e poi nell’inibizione; mancan-dogli la ragione del movimento, non può non fermarsi. Ecco l’errore: far cade-re, mettere da parte, scartare l’unica ragione che darebbe senso e direzione al movimento del corpo e dei corpi. Caduta questa pietra, caduta questa ragione di movimento, resta certo un ricordo, ma al suo posto si sostituisce una commedia, una farsa, con cui motivare questo movimento. Motivazione: parola magica. Chi legge i testi di psicologia, sociologia, psicologia della formazione la troverà frequentissimamente. Tolta la ragione, bisogna dare un motivo per il movimento. È una farsa. Dà origine a una commedia, a una roba da ridere, come si dice: “Ma non farmi ridere!”. Sostituire a uno, che aveva già la ragione per muoversi, un motivo è una roba che fa ridere.

Ho provato a costruire una serie di possibili nuclei di commedie, farse o gag sull’esempio dei detti intorno agli animali: “Insegnare agli uccelli a vola-re”, “… ai gatti ad arrampicare” o, venendo agli uomini, “Al contadino non far sapere quant’è buono il formaggio con le pere”, quando è risaputo che il contadino lo sa già.

Un primo nucleo di una commedia sarebbe quella di un individuo che si proponesse di inculcare in un bambino che già è desideroso di apprendere - che anzi, fino a un certo momento è autodidatta - il dovere di apprendere. Un secondo nucleo potrebbe essere quello di un individuo che ritenesse più van-taggioso per sé ridurre un altro in schiavitù - occorre dire che ne ricaverebbe maggior guadagno se lo trattasse come un partner? che ricaverebbe maggior frutto del lavoro in una divisione del lavoro che fosse reciprocamente vantag-giosa?

Sono nuclei di commedie possibili che ritroviamo nella cultura sotto la veste di trattati o di assetti sociali.

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2. La commedia dell’universo malato della colpa

Il titolo della lezione di oggi fa riferimento a un testo antico, al libro del Genesi. L’ho spezzato in due atti, “Atto I” e “Atto II”, benché mi sia subito venuto da pensare che se il primo atto è effettivamente un atto, il secondo è piuttosto un atto di commedia. Mi è stato detto in effetti che, a quanto risulte-rebbe ai critici e agli esegeti, il libro della Genesi è un testo composito, scritto da due autori diversi in tempi diversi. Non sono un’esperta di queste materie e perciò mi limito a proporre alcune osservazioni, che tuttavia mi confermano che si tratta di due spezzoni diversi di storia.

Il primo atto, brevissimo, corrispondente al primo capitolo o paragrafo, sembra avere a che fare con una situazione di normalità e di salute, mentre il secondo, che ho chiamato “non atto”, descrive un assetto patologico dispiega-to. Purtroppo non ci viene detto come dalla normalità si piombi dalla patolo-gia, ma “Atto I” e “Atto II” sembrano quasi corrispondere alla scansione freu-diana - che noi abbiamo ripreso - di una normalità iniziale cui segue la patolo-gia.

Della Genesi si dice che è il testo in cui si parla della colpa originale, ma in realtà non è vera colpa. Sappiamo che per Freud se c’è colpa o senso di colpa, ci deve essere da qualche parte una qualche colpa. Si tratta di trovare qual è e di chi è. La colpa di cui qui si parla è la colpa già definita all’interno di un regime patologico: se vogliamo sapere qual è la colpa che ha fatto spro-fondare nel regime patologico, non ve la troviamo. Il II Atto, quello che chia-mo “Non Atto”, - lo ripeto: l’Atto I non è un atto da commedia, è un atto - è non atto quanto al rapporto ed è atto come atto di commedia. Il II Atto ci de-scrive infatti un rapporto Dio-uomo, uomo-donna, uomo-oggetti ormai pato-logico.

Vorrei cercare di descrivere questa patologia, mettendola a confronto con il primo atto e assumendo un’osservazione di Giacomo B. Contri nell’ultima seduta della Scuola Pratica di Psicopatologia. Diceva che la patologia esiste solo quanto alla salute; ossia, possiamo riconoscere i tratti di una patologia solo in quanto la assumiamo, la consideriamo, la giudichiamo in relazione alla salute. Se applichiamo questa osservazione al testo della Genesi, possiamo dire che il carattere patologico del II Atto risulta dal confronto con la salute del I Atto. In questo II Atto, in cui riconosciamo una situazione patologica ormai dispiegata, si è instaurato il dramma, la commedia dell’universo malato della colpa. Non può esservi colpa, perché ciò che viene definito come colpa, è l’universo della colpa. Ed è una commedia dove Dio - secondo le caratteri-stiche che Goethe ha individuato per il poeta, il romanziere, il commediografo - compare e prende il posto di burattinaio e sceneggiatore, anzi, burattinaio in

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quanto sceneggiatore, in una posizione individuata a questo punto come unica soluzione all’inibizione. Non avendo più ragioni per il movimento, scartata l’unica ragione logica che può permettere il movimento, l’unica soluzione ancora pensabile, anche se assurda e fonte poi di farse, benché tragiche, è quella del burattinaio e dello sceneggiatore.

Torniamo al testo biblico. Nell’Atto I, brevissimo, abbiamo un inizio glo-rioso. Dopo il racconto di Dio che crea la luce, poi le acque, poi la vegetazio-ne, poi gli animali e infine gli uomini, leggiamo:

A norma dell’immagine di Dio li creò; maschio e femmina li creò. Quindi li bene-disse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, ed abbiate dominio sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sul bestiame e su ogni essere vivente che striscia sulla terra". E poi disse: "Ecco io vi do ogni sorta di graminacee produttrici di semenza, che sono sulla superficie di tutta la terra e an-che ogni sorta di alberi in cui vi sono frutti portatori di seme: essi costituiranno il vostro nutrimento". Si parla di un Dio che ha costituito degli oggetti investendo del lavoro, e

proprio di lavoro si tratta, tanto è vero che al termine della sua opera si riposa. Lavoro dunque, non atto creativo.

Per questo atto di Dio quanto agli oggetti, mi sembra utile riprendere al-cune frasi del Pensiero di natura dove si parla di “costituzione dell’oggetto come materia prima per il lavoro di un altro soggetto”. Per Dio l’uomo è un altro soggetto, non un oggetto. Non c’è equivoco: “A norma dell’immagine di Dio li creò”.

Dio, la sua parte, la fa tutta; poi passa di mano questo prodotto che è ma-teria prima per il lavoro dell’uomo, dicendo: “Abbiate dominio su…” e “Siate fecondi…”. La modalità del passaggio di questo lavoro da Dio all’uomo ha caratteristiche giuridiche paterne, se individuiamo - come individuiamo - il proprio del rapporto Figlio-Padre nel passaggio del lavoro del Padre dalle mani paterne alle mani del figlio. Avendo fatto la sua parte, il padre dice al figlio: “Adesso è roba tua”, “Adesso datti da fare per moltiplicarla e renderla feconda”: ciò significa porre tutto sotto il dominio del figlio. In pratica, glielo lascia in eredità, e nella sua totalità: non si dà eredità parziale.

In altri termini, il Dio di questo Atto I tratta gli uomini come figli. Cosa vuol dire: “A sua immagine e somiglianza”? Questa espressione ha lo stesso significato del fatto che un padre tratta il figlio a sua immagine e somiglianza: è un altro soggetto con cui ha un rapporto ereditario. È un Dio che è all’interno di questa legge di movimento e che quindi è sottoposto alla stessa legge. Dio lavora, produce qualcosa che prima non c’era, lo passa di mano

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perché il prodotto del suo lavoro diventi materia prima per il figlio; è un lavo-ro comune sottoposto alla stessa legge di produzione dei beni.

All’interno di questa legge di moto, “maschio e femmina li creò”, in una divisione quindi del lavoro che permette di ripetere l’atto ereditario.

Che cosa troviamo nel II Atto? L’intera storia viene ripresa con disloca-zioni temporali, oltre che spaziali, estremamente interessanti. L’autore di questo secondo testo, che non è lo stesso autore del primo, ha riletto la storia a partire da un proprio sprofondamento nella patologia. Risulta evidente che chi scrive si è posto un problema: “Come mai le cose non vanno tanto bene?”. Questo autore, ricercando quale sia la colpa, la definisce dall’interno dell’universo della colpa in cui egli stesso si trova. Purtroppo la Genesi non ci informa di quale colpa si tratta.

L’Atto I prevede - ricordate il tema: imputabilità individuale e colpa pre-supposta - un uomo sicuramente imputabile, e anzitutto a partire dalla sanzio-ne premiale; l’uomo è stato posto come erede di tutto, affinché faccia fruttare ciò che ha ricevuto; è evidente che il premio gli è stato indicato come ragione del suo movimento, come sanzione premiale del suo lavoro.

Nell’Atto II, non-atto - in cui deve aver messo mano Beckett - si legge: Queste sono le generazioni del cielo e della terra nella loro creazione, quando il Signore Iddio fece il cielo e la terra, ancora nessun cespuglio della steppa vi era sulla terra e ogni arbusto della campagna, prima che fosse germogliata; poiché il Signore Iddio non aveva ancora fatto piovere sulla terra, né uomo alcuno vi era che lavorasse il terreno. E un vapore saliva dal suolo e ne irrorava tutta la superficie. E il Signore Dio formò l’uomo dalla polvere della terra ed alitò nelle sue narici un soffio vitale e l’uomo divenne anima vivente. Sembra quasi che Iddio abbia creato l’uomo per fare i canali, per fare

spuntare le graminacee, mentre nella prima versione si dice che tutto questo c’era già e Dio dice: “Prendilo, è tuo. Fallo fruttare”. In più, mentre nel primo passo si dice che Dio ha fatto l’uomo a immagine e somiglianza, qui Dio lo fa impastando la terra. Viene da pensare a Schreber che nei suoi deliri aveva l’idea di omuncoli fatti in qualche maniera, con il pongo… Storie da bambi-ni…

Se l’uomo non è creato a immagine e somiglianza, non è un figlio: è uno creato perché scavi i canali a Dio. E se è così, allora Dio non ha neanche finito i lavori. Non esiste cioè l’idea dell’eredità. L’uomo sembra quasi più un servo, uno schiavo. Inoltre, in questo secondo testo Dio pianta, a parte, il giardino dell’Eden, un luogo che ritroviamo poi frequentissimamente nelle commedie e nei romanzi.

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Poi il Signore piantò un giardino in Eden… e quivi pose l’uomo che aveva formato. Il giardino dell’Eden ha una modalità del pensiero quasi necessitata, simi-

le ad altre del politeismo, della cultura greca: c’è la terra, ci sono i boschi e poi c’è il recinto del sacro, che a ben vedere è perfettamente uguale a quanto c’è fuori. Nel giardino dell’Eden Dio fa spuntare ogni sorta di alberi, l’albero della vita insieme all’albero della conoscenza del bene e del male, fa scorrere i fiumi e tutto quanto, mentre fuori c’è da sgobbare.

Poi rapì l’uomo e lo depose nel giardino dell’Eden perché lo lavorasse e lo custodisse. Significa: Dio prende l’uomo dalla vita di fatica, fuori. In Eden poi ci

sono ulteriori recinti: Di tutti gli alberi di questo giardino tu puoi mangiare; ma dell’albero della cono-scenza del bene e del male non devi mangiarne

che è in più rispetto all’albero della vita. Questa storia ha fornito una gran quantità ad altre storie… a Barbablù, per esempio, che alla donna dice: “Puoi entrare in tutte le stanze, tranne che una”. Se poi nel primo testo Dio li aveva creati uomo e donna e a propria immagine e somiglianza, qui, dopo tutto que-sto tramestio di recinti,

Dio disse: "Non è bene che l’uomo sia solo, gli voglio dare un aiuto". Le fiere non andavano bene per Adamo e dunque non fu trovato per lui un

aiuto a lui corrispondente (tutto questo rientra nell’idea della donna migliore amica dell’uomo). Allora Dio fece cadere un sonno profondo sull’uomo, gli tolse una costola e ne formò una donna: in questo caso non c’è più rapporto uomo-donna, c’è l’uomo che deve avere un aiuto e a cui le fiere non vanno bene. La proibizione di mangiare dell’albero del bene e del male, dato da Dio ad Abramo, prima della creazione di Eva, non esiste nel primo atto, dove l’unica indicazione di Dio è: “Prendete, dominate su tutto, tutto è vostro, fatelo frutta-re”. Vedete invece quale complicatezza, non complessità da commedia, emer-ge dall’aver sottratto la pura indicazione dell’eredità.

Viene poi la storia del diavolo che esorta Eva a mangiare proprio quel frutto e delle chiamata di Adamo da parte di Dio. E ci sono, a questo proposi-to, passaggi un po’ ridicoli, con vero andamento da commedia: Dio chiama Adamo. Come capisce che l’uomo deve aver fatto “quella cosa”? È un pas-saggio interessante, perché Dio in questo caso giudica dalle conseguenze

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come farebbe uno psicoanalista: date certe conseguenze, bisogna che ci sia stato quell’errore. Dio chiama l’uomo e l’uomo risponde: “Ho udito il tuo rumore nel giardino e ho avuto paura” - segnalando così l’angoscia - “perché sono nudo e mi sono nascosto”. Dio chiede allora: “Chi ti ha detto che eri nudo?”. È una mossa da psicoanalista: se improvvisamente pensi di essere nudo, è sicuro che devi aver mangiato “dell’albero del quale ti avevo coman-dato di non mangiare”.

Siamo all’interno della patologia, nell’universo della colpa: “Colpa tua, caro Dio - dice Adamo - la donna che mi hai messo vicino, mi ha dato dell’albero e io ho mangiato. È “colpa sua”, ipsa dixit. La stessa cosa fa Eva, quando alla stessa domanda rispose a Dio: “Il serpente mi ha ingannato e ho mangiato”.

Dunque abbiamo un uomo che viene rapito dalla parte di mondo dove tra l’altro non c’era niente di pronto e che scioccamente viene esentato dal lavoro, per essere messo in questo Eden dove invece c’è tutto. Su quest’uomo, che sapeva della sanzione premiale - ”Prendi e lavora, rendi fecondo il terreno” - e che quindi avrebbe potuto costruire una sanzione penale ai suoi comporta-menti, su quest’uomo viene gettata la rete astratta del sistema binario bene-male, e insisto su questa astrattezza. Questo sapere appartiene solo a Dio, mentre all’uomo è del tutto estranea quest’idea di bene e male separata dall’idea del premio e della pena. Quest’uomo viene gettato nell’angoscia e nella colpa per il fatto stesso di non sapere ciò che non potrà imparare in quanto semplicemente già lo sapeva. Ecco come si entra nell’universo malato della colpa e dell’angoscia.

Una delle genialità di Freud - lo dice chiaramente nel Disagio della civiltà - sta nell’affermare che angoscia e colpa sono la stessa cosa. Un’angoscia è una colpa che mette l’uomo di fronte a questo ente, che in questo caso è Dio, che sa qualcosa che gli è totalmente estraneo. Non può che sentirsi nudo. È da Freud che sappiamo che cosa sono per esempio i sogni di nudità: sono il pen-siero dell’essere privi di strumenti, dell’essere inadeguati, dell’essere incapaci, dell’essere impotenti e non solo di esserlo ma di essere improvvisamente scoperti in questa incapacità, inettitudine, disarmatezza. Altro non è che una rappresentanza dell’angoscia e della colpa, di una sprovvedutezza irrimediabi-le, di fronte a un sapere che non si potrà mai sapere, perché lo si sa già; se non lo si sa ancora, lo si può elaborare con le proprie forze.

Adamo piomba nell’angoscia del sentirsi di fronte a questo Dio che gli ha buttato addosso un sapere che non può assolutamente capire; si sente scoperto nel suo non saperne niente e nel suo vivere ciò come nudità. Quando si dice di uno che è andato in battaglia a mani nude, cosa vuol dire? Che è andato di-sarmato. Propriamente si potrebbe persino dire che l’idea che questi abbiano

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mangiato il frutto è un’aggiunta da commedia: in realtà ciò che butta nella colpa è il solo fatto della presenza dell’albero del bene e del male che fa dire: “Che cosa sarà mai il bene e il male rispetto a ciò che so di premio e pena?”.

Nell’Atto II del Genesi viene avanti l’idea di un mondo assolutamente in-sensato, progressivamente spinto a rinunciare alla propria sensatezza per affi-darsi a un Dio che, alto sul mondo, lo maneggia con una ragione incomprensi-bile, a partire da una minaccia di perdita priva di contenuto. Credo che Goe-the, quando descriveva il suo poeta, teatrante e romanziere, quel costruttore di trame che in fondo è lui stesso, altro non facesse che una parafrasi del Genesi, identificandosi con questo Dio senza rapporto con l’uomo, eterogeneo a lui, che muove l’uomo con fini del tutto incomprensibili al pensiero di un corpo che per muoversi deve avere le proprie ragioni. Nel Disagio della civiltà, a proposito della storia del bene e del male, Freud scrive:

Va scartata l’ipotesi di una originaria, per così dire naturale, capacità discrimina-toria tra bene e male. Su questa faccenda Freud decide: la colpa non può essere l’aver “mangia-

to di quell’albero”, se non che hai cominciato ad assumere quell’idea, o per lo meno ti sei fatto irretire da quell’idea. Il male infatti diventa qualcosa che l’Io desidera e da cui trae diletto. Il male finisce per diventare il criterio di profitto. Se la discriminazione bene-male non è originaria, bisogna che agisca un influsso estraneo, che decide che cosa debba chiamarsi bene e male. Il proprio sentire non avrebbe condotto l’uomo lungo questa via ed egli deve avere un motivo per sottomettersi a tale influsso estraneo. Qual è questo motivo? È la paura di perdere l’amore. Freud coglie proprio l’assurdità di questa cosa. L’amore di questo ente ti dirige con criteri che non puoi in nessun modo capi-re. È il nucleo di ogni e qualsiasi commedia dell’assurdo.

In La vocazione teatrale di Wilhelm Meister di Goethe ritroviamo la stes-sa separazione del mondo del Genesi: da una parte c’è da sgobbare e dall’altra c’è l’Eden. Così Wilhelm Meister ritiene basse esigenze il commerciare, il trafficare, il pensare di guadagnare. Cosa resta come unica possibilità di solu-zione? Resta l’identificazione:

Guarda gli uomini come rincorrono la felicità e il piacere; coi loro desideri, con la fatica, col denaro, col tempo vanno a caccia… Il destino ha innalzato il poeta [ma potrebbe essere qualsiasi sceneggiatore] al di sopra di tutto ciò, rendendolo simile a un dio. E vorresti che egli si adattasse a qualche sudicio mestiere, lui costruito come un uccello per liberarsi alto sul mondo, per fare il suo nido nei cieli e nutrirsi di germogli e di frutti posandosi lieve di ramo in ramo?

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Che bello se anche gli uomini… fossero fatti come gli uccelli e senza filare né tessere potes-sero anch’essi godersi una vita beata! Se all’arrivo dell’inverno potessero anch’essi trasferirsi con la stessa facilità in paesi lontani! A ben vedere l’Eden è il palcoscenico di Dio: è lui che ci sta bene. Se la

costruzione di commedie diventa il modo di risolvere la paralisi e l’inibizione, in cui l’uomo è gettato per il venir meno di un proprio principio di profitto, è però una soluzione che individua come unica posizione ancora apparentemen-te praticabile quella di questo Dio che da sopra, come un uccello sul mondo, tira le fila della vita di altri. Per poter far questo, bisogna che tutto avvenga nella fantasia. Nel colloquio con un amico dice:

"Da dove hai preso tutte queste cose?". "Da dove? Dalla mia immaginazione, che era come un arsenale vivente di pupazzi e ombre cinesi in moto continuo". Quello che sono gli uomini per il Dio dell’Atto II: dei pupazzi. Come i giocatori appassionati non si stancano di darsi battaglia con poche carte e si divertono dalle svariate combinazioni per cui, secondo il valore segnato o attri-buito convenzionalmente ai loro eroi, questi a volte si incutono un terrore recipro-co, mentre altre volte e in date circostanze l’eroe soccombe al semplice fante, così anch’io facevo giocare le mie poche figure in un vortice di scontri interessanti. Più avanti queste favole diventano racconti amorosi, ma sempre da una

posizione di non lavoro, di non rapporto. Assumo questa come definizione di commedia, e di commedia del pensie-

ro: sono le trame a rendere perlomeno pensabile dalla paralisi, una volta che si sia scartato il principio di movimento. Ma questa soluzione ammette come unico posto praticabile quello di un Dio sceneggiatore e burattinaio.

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Raffaella Colombo

1. Imputabilità individuale e universo della colpa

A quanto Maria Delia Contri ha esposto aggiungerei un’osservazione ulte-riore, che devo sempre a lei. Giorni fa diceva che sempre nel secondo raccon-to della creazione, non solo Adamo ed Eva non sono l’uomo creato a immagi-ne e somiglianza di Dio, ma Eva è rispetto ad Adamo il primo clone della storia. È un elemento in più per documentare come la ripetizione di una trage-dia si presenta come una farsa.

Maria Delia Contri ha detto oggi che è l’errore a far cadere l’unica ragio-ne che muove un corpo. Questa ragione è il pensiero che pensa una meta con soddisfazione, è il primo pensiero e la prima soluzione che verrà continua-mente arricchita, salvo crisi, malattia. All’inizio della crisi ciò che fa cadere la

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legge è un inganno. Dell’errore, così come della ragione che aveva mosso il corpo, resta il ricordo, ma è un ricordo corrotto nella legge corrotta. La legge di moto, messa in crisi dall’inganno, rimane come memoria, ma è una memo-ria corrotta dall’inganno. I ricordi non spariscono, ma sono sempre scelti e poi trasformati secondo una nuova e corrotta formulazione della legge. Si tratta di ricordi di copertura, che si presenteranno di volta in volta o come un’infanzia beata o come un paradiso beato e poi perduto o come un’infanzia tragica, da poverino.

Il secondo racconto della creazione sembra in effetti il ricordo del primo, ma trasformato secondo una corruzione che deve essere avvenuta tra il primo e il secondo. Nel secondo racconto anche Dio è presentato come ingannatore, come colui che proibisce qualche cosa: è il tema costante di tutte le commedie e anche della psicologia. In altre parole: il Dio che proibisce è il legiferatore che istituisce una moralità esito di un divieto originario. Tutto è permesso salvo una cosa: questo divieto, che permetterebbe di costituire leggi e di avere una vita morale, è la moralità kantiana. Kant non sottolineerà tanto il divieto, ma l’esistenza presupposta di un bene assoluto e di una legge morale assoluta da amare e rispettare in se stessa.

Il pensiero di natura, che è un pensiero morale - non c’è il pensiero e poi una morale - non inizia da un divieto. Il divieto interverrà successivamente, come divieto ingannevole: sarà vietato pensare ciò che avevo già pensato.

Vi sono testi che partono da questo punto: esiste una colpa, e con questa colpa ogni uomo deve fare i conti. Un libro di Friederich Ohly, uscito recen-temente in Italia, Il dannato e l’eletto. Vivere con la colpa, tratta il tema della colpa ripercorrendo la letteratura soprattutto medievale per arrivare fino ai giorni nostri con Thomas Mann. Non si tratta della colpa individuale, cioè di un reato che un soggetto ha compiuto e di cui è anche consapevole, ma di una colpa dell’ordine dell’universo. Presto o tardi ciascuno deve fare i conti con l’universo della colpa.

Dice Ohly a questo proposito che la memoria, che rende modesti e fidu-ciosi, è una condizione della cultura, un presupposto per comprendere quanto è permanente nel mutamento, una premessa per avere presente un passato che è ancora vivo nei segni impressi. Occorre vivere una memoria perché vi sia una cultura. Ma questa memoria - e possiamo dirlo con Freud - può essere corrotta. E da questa memoria corrotta i ricordi possono a loro volta essere trasformati. La colpa, questa colpa universale, con cui bisogna fare i conti e che verrà trattata in special modo nell’ultimo incontro di Scuola Pratica di Psicopatologia, è una colpa presupposta, di cui c’è un sapere, che non è un sapere individuale. Si nascerebbe nella colpa, come si nascerebbe per amore, come si nascerebbe malati. Ma non è vero che una tale colpa presupposta

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esista, salvo che uno se la carichi come colpa propria nel senso di colpa. La distinzione tra colpa individuale - o peccato individuale, cioè colpa, reato con dolo e danno arrecato - e colpa dell’altro è la distinzione capitale a cui lavora il pensiero di natura. Il pensiero di natura di ciascuno si può perfezionare fino ad arrivare ad individuare che cosa è questa colpa universale. Se manca tale distinzione, il senso di colpa avrà il sopravvento.

Il pensiero di natura non accusa, ma giudica. E distingue. In questo caso il giudizio consiste nel distinguere colpa individuale da colpa universale, o dell’Altro. Nel racconto del giardino dell’Eden c’è accusa: accusa a Dio e alla donna da parte di Adamo, accusa al serpente da parte della donna. Accusa su accusa e, potremmo dire, vissero felici e scontenti. Il pensiero distingue fino alla libera decisione di contribuire al pagamento delle conseguenze della colpa dell’Altro. È quello che chiamiamo castrazione. Senza accusa, ma con giudi-zio. Come dire: “Date a Cesare quel che è di Cesare”.

È giusto dire che la memoria è una condizione della cultura, ma dobbiamo distinguere la memoria dalla falsa memoria, proprio come si dice falsa co-scienza.

2. L’incesto come colpa presupposta

Nel corso del XII secolo questo è stato il tema principale di romanzi, rac-conti, poemi. Ohly sottolinea come nei testi di quel secolo, e soprattutto nella seconda metà del secolo, l’argomento non fosse tanto quello di evitare e non cadere nella colpa, quanto piuttosto quello di convivere con la colpa, con questa colpa non personale con cui un individuo a un certo momento si trova a dover fare i conti. Nelle leggende e nelle opere di questo secolo, ispirate anche ai Vangeli apocrifi, ritornano due figure di peccatori: Giuda Iscariota e Grego-rio, che idealmente si collegano all’Edipo di Sofocle, ancora noto in quegli anni. Si tratta di racconti edificanti, letti anche in monasteri e conventi. L’autore più noto è Hartmann von Aue, un cavaliere vissuto molto probabil-mente fra il 1160 e il 1220 e forse attivo alla corte sveva tra il 1190 e il 1210. Hartmann von Aue è conosciuto dai poeti che fanno la fortuna dei romanzi cavallereschi in area tedesca: Gottfried, autore di Tristano, e Wolfgang von Eschenbach, autore della versione tedesca del Parsifal. Prima di Hartmann von Aue è noto Chrétien de Troyes.

Le vicende arturiane vedono come prima protagonista una donna, che si colloca come terzo tra marito e moglie. Vi si tratta dunque di drammi dovuti ad adulteri.

Esiste poi una prima serie di racconti a lieto fine. Gregorio ne è un esem-pio insieme alle leggende intorno alla vita di santi peccatori, in cui la questio-

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ne messa a tema è il fatto che i protagonisti, uomo e donna, uniti nel matrimo-nio, vengono a sapere di una colpa con cui devono fare i conti, fino all’espiazione della colpa, tramite la penitenza. La vicenda è tutta interna al coniugio e il terzo elemento che dà spunto all’avventura non è un terzo ester-no, ma un terzo interno al rapporto fra i due, che viene a disturbare il rapporto fra i due. Secondo Ohly e altri autori, tra la fine dell’XI secolo e per tutto l’XI l’incesto è la colpa presa di mira, tanto che essa è al centro di una lunga serie di leggende, le più famose delle quali hanno per protagonisti Gregorio Magno, Carlo Magno, Sant’Albano e una certa Vergogna, una ragazza che viene presa dal proprio padre, il quale vorrebbe uccidere il figlio che invece lo salverà.

Una seconda serie ha per protagonisti altri peccatori, in funzione di anti-tipo, sul modello di Giuda Iscariota. Anch’essi sono degli incestuosi e la vi-cenda narrativa ha sempre come inizio l’incesto, dei genitori o di loro stessi, come è il caso di Giuda. Scoperto l’incesto, si cercherà di espiare la colpa, ma l’esito è la dannazione, perché, come per Giuda, il pentimento cede il passo alla disperazione.

L’ammonimento in positivo è relativo alla penitenza per ottenere il perdo-no. L’elemento edificante in negativo è l’ammonimento contro la disperatio: non disperare della grazia. Unito all’ammonimento contro un secondo pecca-to, quello della presunzione. Quello che ci interessa in questo filone, e in par-ticolare in Gregorio, che fa eccezione a questi romanzi che comunque fanno eccezione ai romanzi cortesi, è il finale in cui la situazione iniziale viene pre-sentata come soluzione.

3. Il Gregorio di Hartmann von Aue

La prima lettura di questo poema è stata per me la risposta a una domanda che avevo da tempo. Avevo notato che le trame della vicenda erano costruite appunto intorno a tre personaggi: quando si tratta del rapporto uomo-donna, il terzo deve sparire e di solito o viene fatto morire o va in convento. In questo caso si tratta di una storia incestuosa. Poiché l’incesto è considerato una colpa, i due, per finire bene, non possono rimanere in due: uno dei due dovrà morire, andare in pellegrinaggio, o in monastero, come sappiamo anche dai romanzi più recenti, dentro e fuori la letteratura cristiana. Per la letteratura cristiana pensiamo per esempio a Miguel Mañara: qualcuno deve sempre morire; per trovare la soluzione, come due più due fa quattro, bisogna togliere di mezzo quell’uno che farebbe sbagliare i conti. Con tutte le varianti combinatorie.

Come ha risolto Hartmann von Aue il problema? Prima di rispondere si deve aggiungere questo: in questo, come tutti i romanzi, la colpa è presuppo-sta: l’incesto è considerato una colpa, una colpa oggettiva che viene raccolta

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così com’è e senza interrogazioni. Ma che colpa è l’incesto? È l’interrogativo che siamo noi a porre. Sulla nostra via troviamo Hartmann il quale immagina, come gli autori coevi, che l’individuo si trova soggetto di essa, inconsapevol-mente. La trama in breve è questa: nella terra di Aquitania un nobile signore muo-re; sul letto di morte chiama i suoi due amati figli, già orfani di madre, figli gemelli, un ragazzo e una ragazza. Al figlio affida la cura della figlia e il suo stesso regno, quindi affida entrambi alle cure di un fidato vassallo cui i bam-bini potranno rivolgersi per tutto ciò di cui avranno bisogno. I due ragazzi si cercano, stanno bene insieme, sono sempre insieme. Ma il diavolo tenta il ragazzo che va a letto con la sorella e in questo caso il terzo è il tentatore, ma ciò che interessa è che fratello e sorella, diventati sposi, non smettono di vo-lersi bene, non interrompono il loro rapporto.

La tristezza verrà quando la sposa-sorella si accorge di aspettare un bam-bino. Secondo le usanze del tempo, il vassallo invita il fratello ad andare in pellegrinaggio, e dalle fonti risulta che il pellegrinaggio era la penitenza indi-cata all’uomo che commetteva incesto. Alla donna era prescritta invece o l’astinenza o il convento. La ragazza rimane a governare le terre, mentre il fratello parte e muore di dolore, non per il peccato, ma per la lontananza dall’amata sorella e sposa.

Il bambino che nasce verrà posto in una botte su una barca, ben avvolto in tessuti e affidato alle acque. Ben chiuse nella botte, ci sono venti monete d’oro e una tavoletta d’avorio impreziosita da oro e pietre preziose su cui la madre scrive brevemente il modo in cui è nato, il suo essere figlio e nipote di en-trambi i genitori, senza però nominare assolutamente i nomi. La barca con la botte è anche un topos: il figlio dell’incesto, come Mosè, viene affidato alle acque. Sarà ritrovato da due pescatori che sono al servizio di un abate. Uno dei due lo crescerà come figlio suo e verrà ripagato per questo con una parte della dote del bambino, dell’altro l’abate comprerà il silenzio con una ricca ricom-pensa. L’abate lo battezzerà con il nome di Gregorio, il suo proprio nome, e si occuperà della sua educazione.

Diventato grande Gregorio, dopo aver scoperto nel corso di un litigio con uno dei fratelli, di essere un trovatello, decide di partire. L’abate lo vorrebbe in monastero e per trattenerlo gli promette di farlo diventare abate a sua volta, ma non riesce a dissuadere Gregorio. Anche questo è un tema frequente: il trovatello, insultato dai genitori che lo hanno adottato, si vendica e uccide o il padre o la madre adottivi. Una vicenda simile si trova nella leggenda di Giuda e un’altra analoga in quella di Sant’Albano. Gregorio ottiene dall’abate il permesso di partire e diventa cavaliere, avendo appreso nel frattempo tutta la

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sua storia dalla tavoletta d’avorio che da lì in avanti porterà sempre con sé. Da un momento all’altro si trova a portare il peso di una colpa non sua e decide di vivere in penitenza per espiare la colpa dei suoi genitori. Vuol diventare cava-liere e desidera conoscere il suo casato.

Una volta partito, arriva nel regno di sua madre, la quale, secondo l’usanza e la promessa, vive nell’astinenza. Un duca le muove guerra per farla cedere: se non cede con le buone, cederà con le cattive. Soltanto la capitale è rimasta in piedi; tutte le terre intorno sono devastate. Arriva Gregorio e salva la città, imprigionando il duca. La donna non riconosce nel suo liberatore il proprio figlio, così come non la riconosce il figlio. In seguito all’insistenza dei vassalli, la donna decide però di sposarlo, perché una reggente sposata è fonte di sicurezza. I due, diventati sposo e sposa, vivono notte e giorno felici. Ogni giorno Gregorio fa penitenza e piange sulla tavoletta, ma viene scoperto dalla serva che ne informa la padrona. La signora vuole assolutamente sapere il motivo di quel pianto, ma non osa chiederlo allo sposo, perché sa che se non gliene ha parlato è perché si tratta di qualcosa che non vuole dirle. Vede la tavoletta e ricostruisce tutto: ha sposato suo figlio. Lo fa cercare. Gregorio torna immediatamente dalla caccia. La donna si fa dire se quella tavoletta sia veramente sua o l’abbia eventualmente avuta da altri - c’è ancora un tentativo per rinviare la verità. Ma scoperta la verità, la donna non conosce più felicità. Nella disperazione si affida a lui che ha sapere di teologia. Rifacendosi ai sacri testi e alle leggi del tempo, Gregorio decide di partire in penitenza, invitando lei a rimanere e a vivere in povertà e astinenza per il resto della vita. Anche in questo caso per Gregorio si tratta di una colpa commessa inconsapevolmente.

Una volta partito, Gregorio trova un pescatore a cui chiede di portarlo in un posto selvaggio, dove possa rimanere assolutamente solo e dove possa passare il resto della vita in penitenza. Il pescatore, che vive nella miseria ed è roso dall’invidia nel vedersi arrivare in casa un mendicante che non ha per niente le sembianze di un mendicante, odiosamente lo accompagna su uno scoglio in mezzo al lago, dove addirittura lo incatena. Sarcasticamente dirà a Gregorio: “Così sarai sicuro di non potertene allontanare”. Dopo averlo inca-tenato, getta la chiave nel lago dicendo: “Sarai sicuro di essere perdonato, quando questa chiave tornerà a me” e se ne va, dimenticandosi poi di tutto.

Dopo 17 anni, arrivano due messi da Roma, dove nel frattempo è morto il Papa; si cerca il nuovo Papa, ma le fumate nere si susseguono. Ai due in so-gno è reso manifesto che il nuovo Papa si trova in Aquitania su uno scoglio. Essi non sanno dove andare, ma alla fine trovano chi cercano. In quello stesso giorno il pescatore ha pescato un pesce nella cui pancia ritrova la chiave. Tutto torna e Gregorio, peccatore innocente, diventa Papa.

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La madre, che è rimasta nelle sue terre, viene a sapere della santità del nuovo Papa e decide di andare da lui per confessarsi. Il Papa la riconosce dalle sue parole, mentre lei non riconosce lui. Al momento di rivelarsi alla madre, Gregorio le chiede se il rivederlo sarebbe una gioia o un dolore. La donna non esita, la sua più grande gioia sarebbe di poterlo rivedere almeno una volta ancora. “Se volete rivederlo, non occorre che attendiate”, è la sua risposta. “Cara madre, mi guardate: sono figlio e sposo vostro”.

“Sono figlio e sposo vostro”: se questa è la conclusione significa che non viene rinnegato nulla. Il lieto fine per entrambi sta a dire che la vicenda fra i due non cambia di una virgola; il rapporto che si stabilisce fra i due è il coniu-gio che non viene rinnegato.

Si pone allora una questione: e l’incesto? Dov’è finito? Come è finito? O si trattava di incesto o non si trattava di incesto. Diciamo che in questa vicenda l’incesto non c’è e non c’è nulla di non ca-

sto. Questa vicenda si svolge nella non separazione tra famiglia e universo. Ciò che è iniziato bene, il pensiero della legge nel pensiero di un individuo fin da bambino nei confronti di suo padre e di sua madre, continua e si perfeziona nella soluzione di continuità tra padre e madre, tra questi due altri e l’universo, correggendo l’errore che separa la famiglia dall’universo.

Il Gregorius rimane esempio unico di ciò che ho appena detto ed è inte-ressante che questo sia avvenuto più di mille anni fa. Thomas Mann riprende-rà questa vicenda, colpito a sua volta dalla sua eccezionalità. Maria Delia Contri ne ha scritto un saggio nel secondo volume di La Città dei malati. Thomas Mann - che ne dà una versione sarcastica dal titolo L’eletto e in cui c’è anche un cenno alla preparazione di sceneggiature per il teatro dei buratti-ni - dice che una storia come quella del Gregorius è forse come la sua:

Spesso nella nostra letteratura contemporanea le cose più sottili e più alte mi paio-no quasi un congedo - tratta il Gregorius, letto da studente di germanistica e trat-tenuto fra le sue carte in vista di scriverne un giorno qualcosa - un ricordare rapi-do, un ricapitolare ed evocare ancora una volta il mito occidentale, prima che cada la notte, forse una lunga notte e un profondo oblio. Una piccola opera come questa è tarda cultura che viene prima della barbarie, già guardata dal tempo quasi con occhi estranei. Grazie a Freud, siamo gli unici a riprendere la questione della colpa e a

metterla in questione, cioè a domandarci di che cosa si tratta.

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1. I comunisti e la fretta degli americani

Ho raccolto una questione che è stata sollevata. La introduco così. C’è una ragione precisa per cui il modesto Freud può essere chiamato un mite nel senso del Discorso della Montagna: per avere detto - peraltro questo detto è un titolo, Analisi terminabile e interminabile - che l’analisi è anche intermina-bile, ossia che non c’è momento in cui si possa dire: “È fatta una volta per tutte; adesso basta”. Equivarrebbe ad affermare la fissazione a uno pseudo-regime di salute in cui tutto è finito lì: non avrò più da pensarci e quindi non

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avrò altro da pensare che a porre l’analisi come fatta e finita una volta per tutte. Al di là del titanismo o al di là dell’idea di una società finalmente realiz-zata, felice, beata, il sole dell’avvenire, ecc., una simile idea – “È fatta una volta per tutte” - è semplicemente il dare come soluzione la patologia di par-tenza: si chiama fissazione.

Rien ne va plus, non si muove più niente, non c’è più movimento, non c’è più pensiero, non c’è più elaborazione, non c’è più rapporto, non c’è più nulla. Finire un’analisi è il momento in cui si può dire: “Ho ricominciato”, anzitutto, a pensare, e il pensiero stesso è un atto a due. Ognuno nel suo posto, come sempre ripetiamo, essendo intercambiabili i posti. Anche i miei pensieri dei con-posti, i più personali, più originali e inventivi dei miei pensieri.

La questione, alla quale ho fatto precedere, e si capirà subito perché, la precedente premessa è questa. E nazismo e comunismo? In termini quantitati-vi il comunismo ha fatto più cadaveri di quanti ne ha fatti il primo: vero, con- statato, da parecchio tempo. Il fatto è: se il nazismo è stata una commedia, e non è certo parola alleggerente, non è affatto la commedia come si dice “il campiello di quello là”. Il campo sì, il campiello no. Di campi ne ho fatti tanti. Attenzione ai campielli o alla famiglia separata dall’universo… I campielli di concentramento… Il nazismo è stata una commedia, il comunismo una trage-dia. Ciò consente di misurare pienamente il significato della parola fallimento. Non mi dilungo, ma so che un’altra volta vorrei intervenire su questo. Ora mi limito a dire che da tempo vorrei fare la raccolta delle osservazioni sempre misurate, in piccolo numero, ma costante negli anni, di Freud sul comunismo. Freud fa sempre e solo questa obiezione: ho visto cosa ci vuole per inco-minciare a concepire che una persona possa cambiare, o meglio mutare, o meglio guarire e addirittura non riesco nemmeno a sperare che veramente si possa andare più in fondo in una guarigione. E poi ci vuole tanto tempo, … gli anni; poi magari finisce male perché c’è la resistenza … mentre questi, in poco tempo, in dieci, vent’anni, e con un progetto di pochi, pensano di avere cambiato non un uomo, ma l’intera umanità. Alla fin fine è sempre questo. Aggiungo. Questa obiezione ai comunisti - donde il fallimento, i massa-cri, il maggior numero di morti dal lato della tragedia che non dal lato della commedia nazista e perciò nessuna pietà per nessuno a livello del giudizio - è la medesima obiezione che Freud fa a quella che lui chiama “la fretta degli americani”. Proprio la stessa. È un passaggio, ma è un giudizio, allorché dice-va: sì, certo, negli Stati Uniti è arrivata la psicoanalisi, ma alcuni psicoanalisti americani, alcuni psichiatri, psicologi americani, incominciano a chiedere: “Ma quanto tempo ci vuole! Facciamo più in fretta! Inventiamo le psicotera-pie brevi”. È la stessa critica rivolta al comunismo.

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2. Commedia

Un contributo alla definizione di commedia, che sottometto alla discus-sione. Il pensare sano è là dove inizia il lavoro libero, che non è il lavoro del sudore della fronte. Nella commedia si ritrova alla fine ciò che nella patologia è già dato come inizio, come principio, addirittura fissato come con il fissato-re, ma come falso inizio. La menzogna delle menzogne è che all’inizio era la patologia. All’inizio, “in principio”, per usare il Vangelo di Giovanni. Mentre Giovanni comincia dicendo: “In principio era il Verbo”. In quella commedia che è l’utopia si prendono tutti così come sono, cioè nella patologia, con l’aggiunta di un fattore, che è un fissatore. Questo fissatore è la psicologia di massa. Sarà fissato a ciò che come patologia già è.

3. L’interminabilità

Finisco a proposito dell’interminabile. Ecco la modestia e la mitezza. Guardate che la peggio finita delle analisi è quella in cui a un certo momento si crede di realizzare l’aspirazione: “Adesso basta pensare a queste cose”. Verrà il momento in cui comincerò a pensare bene anche al lapsus, ben diver-samente dal dire: “Adesso basta coi lapsus” o coi sogni. Se esisterà un paradi-so continuerà ad esistere il piacere del dormire e il liberissimo lavoro del sognare. Finisco dicendo che l’interminabilità, con un criterio di termine, è quello in cui ricomincio a… È il criterio di una guarigione. Chissà se un giorno ne inventeremo un’altra. Su questa questione dovremo tornare. Non l’ho detta a caso: è posta anche da Freud nel 1927.

L’interminabilità come l’ho descritta - Freud non ci aveva affatto pensato; sono io a far osservare l’identità del concetto - è lo stesso concetto di Città in Agostino: “Si ricomincia a combinarla bene”. Prima avevamo solo campi e campielli. O eravamo tentati prima dai campielli e dopo dai campi. Il grande guaio combinato nel tardo medioevo è stato l’abbandonare il pensiero agosti-niano della Città per entrare nell’idea: “È fatta una volta per tutte”: è la fissa-zione universale. Non si muove più niente e nessuno. Non si pensa più, non si elabora più. Questo è l’inferno. Voyeurismo celeste. Agostino non era un idiota; sapeva cos’era una Città, oltretutto qualche cosa di meglio della pidoc-chiosa polis greca. Altro che i greci e i greci! Una Città è quella in cui la gente si muove, briga, forca, traffica, si inventa, si riposa, si muove, in cui uno fa quello che gli viene. In cui c’è anche un’economia, dove ci sarà qualcuno che si occupa di diritto costituzionale, amministrativo e quant’altro. Diciamo che sarà congenitamente priva della necessità dei tribunali penali.

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Secondo la regola del rapporto. E la regola del rapporto è quella di Sog-getto e Altro, dove l’Altro è sempre uno dell’universo.

4. Ateismo

Qual è la formula generale dell’ateismo? Bisogna essere belli ingenui per pensare che l’ateismo è andare in giro a dire che Dio non esiste, come fanno specialmente dei marxisti. È un po’ pochino, un ateismo da ragazzino dell’oratorio, che un giorno ha detto: “Non vado più all’oratorio”. O come uno di quei modi frivoli con cui uno dice: “Ho perso la fede”.

Quando nel ‘68 arrivai nella mia prima epoca parigina, - so che attraverso il ricordo mitizzo anche un po’, ma… - incontrai un mio vecchio abbastanza amico che avevo perso di vista - lui poi si era messo con i gesuiti… Dopo i primi minuti di saluti e di sorpresa per l’incontro casuale, dice, a raffica: “Ho fatto l’analisi, sono guarito, ho perso la fede”.

La formula completa dell’ateismo è tristemente in atto in tanti paesi del mondo e su tanti giornali del mondo ed è: “Allah è grande”. Ve lo dimostro subito. Intanto la frase completa è: “Di’ che Allah è grande”.

“No, scusi, perché devo dire che Allah è grande?” “Di’ che Allah è grande. Sei musulmano se dici…”. “Scusi, ma in che senso è grande? Ma poi dov’è? Perché mi interessa…”. “Di’ che Allah è grande”. Garaudi, marxista, razionalista, superateo francese, si è convertito

all’Islam. È forse che ha preso la fede? No, è solo che ha scoperto che per essere un buon ateo bisogna diventare musulmano.

Ma la dimostrazione esauriente della la formula piena dell’ateismo è quel-la stessa formula in negativo: “Non dire che Dio è padre”. È scritto, formale. È la bestemmia per i musulmani. Che poi vuol dire tutto il resto: che non pen-sa… Che cosa vuol dire che non pensa? Vuol dire che non esiste. Non pensare è non esistere.

Come hanno fatto per tanto tempo a perdere tempo, e a farci perdere tempo, con la dimostrazione dell’esistenza di Dio senza che fosse la dimostra-zione del fatto che Dio pensa? Se esiste, pensa. Ecco perché insisto tanto sul pensiero di Cristo.

© Studium Cartello – 2007

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