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2 pubb plagron

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EDITORIALE

GLI ORMONI NELLE PIANTE

IDROPONICA ED ECONOMIA

TEST: LE COMPRESSEDI CO2

PIANTE CARNIVORE

NEWS

L’ESPERTO RISPONDE

LA REDAZIONE SEGNALA

sommario

S O M M A R I O

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5

7

10

18

24

28

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NUMERO SETTENOVEMBRE/DICEMBRE 2007

Giardinaggio [email protected]

Pubblicazione e distribuzione gratuita----------------------------Responsabile di redazione

Michel VenturelliCaporedattoreMassone Giada

RedazioneMassone GiadaMichel Venturelli

Cantabrina GlaucoManzilli Clementina

Lodi LidiaRoccatagliata Giustina

Collaboratori di redazioneNoucetta KehdiWilliam Texier

Mal LaneAndrea SommarivaChristian Cantelli

----------------------------Contatti

[email protected]à

[email protected]

Giardinaggio Indoor è una pubblicazione bimestrale a distribuzione gratuita edita da

Michel VenturelliCasella Postale 2076500 Bellinzona 5

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I contenuti della pubblicazione sono di proprietà dell’editore, nessuna parte della rivista può essere utilizzata senza espresso consenso

dell’editore.Le opinioni contenute nella pubblicazione ed espresse negli articoli dai

giornalisti partecipanti alla redazione sono da considerarsi personali e non necessariamente

condivise dall’editore.

Foto copertina: Denis GrachevFoto pagina 3 : Stephanie Raines

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Editorialea cura della Redazione

GLI ORMONI NELLE PIANTEprima parte

Arriva, o dovrebbe arrivare, la stagione fredda: bisogna correre ai ripari e trasferire la nostra coltivazione in in-terni.Spero abbiate tutti provveduto all’usuale pulizia della growroom o della serra e al controllo di tutta la stumentazi-one, come ricorda spesso il nostro esperto, per assicurare un inverno tranquillo alle vostre piantine.

A valutare dal numero delle email che riceviamo è davvero sempre più evidente che tantissime persone si stanno organizzando per rendersi indipendenti nella produzione ortofrutticola, ma anche delle piante verdi o dei fiori preferiti, e non si parla solo degli addetti ai lavori ma soprattutto di appassionati che ritagliano il loro spazio di benessere quotidiano nella cura delle piante.

Piccole serre, growroom, growbox, angoli di casa vengono allestiti per dare la possibilità al privato di capire, vedere, toccare con mano in ogni fase della crescita e seguire il ciclo di sviluppo esattamente come può fare il professionista.

Ma come funzionano davvero le piante, di cosa sono composte, di che tipo di sensi sono dotate? Possiamo dare una prima occhiata interessandoci ai misteriosi ormoni, spesso sentiti nominare e di cui ancora tanto abbiamo da imparare, nel chiaro compendio dedicato principalmente all’auxina, sostanza dai molteplici impieghi che tanto influisce sullo sviluppo vegetale.

Per restare negli argomenti che destano interesse e curiosità, pubblichiamo su questo numero la prima parte di una completissima ed esaustiva guida alle piante carnivore, a cura dell’esperto Fabio d’Alessi, dell’ A.I.P.C (Asso-ciazione Italiana Piante Carnivore): pur avendo spesso fama di piante difficili da curare o con esigenze particolari, scopriremo che si tratta di un genere molto vasto con specie alla portata di ogni principiante.

Non dimenticate di visitare il sito ufficiale, www.aipcnet.it, di cui vorremmo segnalare la ricca sezione dedicata ai blog degli appassionati ( http://www.aipcnet.it/blog ) ricca di foto, suggerimenti e report di coltivazione.

Foto: Verdona Team, 2007

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Editorialea cura della Redazione

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GLI ORMONI NELLE PIANTEprima parte

di Siglinde from HesiGli ormoni degli esseri umani e degli animali sono sostanze particolari, che causano grandi reazioni anche in piccole quantità e che vengono prodotte da speciali ghiandole ma hanno effetto altrove.

Un esempio lampante sono gli ormoni sessuali maschili e fem-minili, detti estrogeni e androgeni, o gli ormoni della tiroide: queste sostanze non solo influenzano le nostre reazioni fisiche, ma anche il nostro comportamento sociale e i nostri pensieri.

Anche le piante hanno ormoni, come tutti abbiamo scoperto leggendo le etichette dei prodotti radicanti per talee.

In realtà quelli delle piante sono dif-ferenti da quelli animali, ma il ruolo che svolgono è fondamentalmente lo stesso.

La produzione invece avviene in maniera differente e, se negli uomini è prodotta da ghiandole preposte, è possibile indicare solo in maniera generica la zona della pianta che li produce, situata nell’apparato radicale e in quello foliare.

Si tratta di agenti molto mobili, che possono essere trasportati pres-sochè da qualunque via all’interno della pianta.Ci sono cinque differenti gruppi di ormoni:-le auxine-le gibberelline-le citochinine-l’acido abscisico-l’etilene

Gli ormoni hanno molte funzioni, ed è praticamente impossibile parlare di uno senza parlare dell’altro a causa della grande interazione e interdipendenza.

Questi agenti si combinano, influ-enzano la produzione degli altri ormoni, regolano specifiche e

complesse funzioni e sono in gran parte responsabili della velocità di sviluppo della pianta.

AUXINA

E’ l’ormone della crescita che uti-lizziamo solitamente come sti-molatore della radicazione, noto anche come acido indolacetico, ed è prodotto dai meristemi del fusto, del fiore, del seme, del frutto allo stadio iniziale dello sviluppo, delle fogliol-ine giovani.

Viene trasportato fino all’apparato radicale direttamente attraverso le cellule, senza percorrere un canale principale, come accade anche in altre funzioni primare della pianta, ad esempio con l’acqua carica di nutrienti assorbita dai peli radicali e trasportata al fusto attraversando le pareti cellulari.

IL SENSO DELL’ORIENTAMENTO

zione alla grandezza della porzione di stelo) possiamo fare alcune os-servazioni:

A- L’auxina è presente nell’estremità non trattata: il trasporto ha avuto luogo.

B- Se capovolgiamo il tutto la migrazione dalle foglie alle radici continua correttamente, anche se ora l’ormone deve risalire lo stelo anzichè discendere.

C- Se poniamo la gelatina trat-tata all’estremità dove si trovano le radici il passaggio non avviene e il procedimento si blocca.

D- Se teniamo la gelatina con l’ormone nella posizione delle radici e capovolgiamo il tutto, il processo non ha comunque luogo.

Ogni cellula della pianta ricono-sce la posizione esatta delle foglie

Un esperimento permette di ca-pire in che modo l’auxina si muove. Prendiamo un pezzo di stelo o di radice, immer-giamo l’estremità superiore in una gelatina trattata con auxina e po-niamo l’altra in un contenitore con la stessa gelatina, questa volta non trattata.

Ricordiamo che l’auxina va po-sizionata nella parte opposta alle radici, a simu-lare la naturale produzione a carico delle foglie/frutti.

Trascorso un po’ di tempo (vari-abile in propor-

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e delle radici, ha un suo ‘ senso dell’orientamento’ ed è dotata di due poli con una precisa collocazi-one all’interno del sistema.Non è dunque l’ormone a percorrere una via piuttosto dell’altra, ma sono le cellule a guidarlo nella giusta direzione.

come abbiamo visto il flusso dell’auxina può scorrere solamente dalle foglie alle radici, e non vice-versa, indipendentemente dal verso in cui si pone lo stelo. Ogni cellula lavora come una pompa che sp-inge l’ormone nella cellula attigua, trasportandolo verso il basso.

COMUNICAZIONI ALL’INTERNO DELLA PIANTA

Se vengono percepiti i fattori ambientali adeguati alla prolifer-azione nella parte alta della pianta la produzione di auxina aumenta, promuovendo lo sviluppo di nuove radici.

Nel caso i fattori ambientali non siano positivi, ad esempio se la luce non è sufficiente o c’è un’infestazione in corso, l’apparato preposto produrrà ed invierà meno auxina alle radici.

Questa sorta di messaggio può

salvare la vita della pianta che, percepito un rischio o un minore apporto energetico, produce meno radici e concentra le risorse per fronteggiare il pericolo.

L’AUXINA NELL’INDUSTRIA

La comune polvere radicante in realtà non contiene auxina natu-rale, ma un composto chimico con caratteristiche simili, che di fatto ‘inganna’ la pianta.

La parte dell’ormone deputata allo sviluppo delle radici infatti viene riconosciuta come tale e innesca la reazione voluta, ma la materia che contiene questa chiave non viene riconosciuta dalle radici.

Non riuscendo a riconoscere questo materiale estraneo la decompo-sizione avviene molto lentamente e la polvere resta più a lungo, lavo-rando intensivamente.

Proprio per questa longevità si rac-comanda di non utilizzare stimolanti artificiali su piante adulte, che non riuscendo a smaltire l’eccesso in tempo per il raccolto finirebbero per immettere sostanze chimiche nella catena alimentare.Sostanze simili all’auxina vengono utilizzate anche come erbicidi,

specialmente nella coltivazione del grano: l’erba a sviluppo rapido infatti assorbe più erbicida e muore, mentre il grano, che ha una crescita più lenta, sopravvive.

Questi erbicidi hanno lunga vita prima di decomporsi e il rischio di ri-trovarseli nel piatto è molto elevato.

I defoglianti tristemente noti utiliz-zati ad esempio durante la guerra in Vietnam, come il famigerato ‘Agente Arancio’, erano a base di auxina ed erano in grado di rendere sterile il terreno e di intossicare la popolazi-one al punto di provocare nascite di bambini deformi anche a distanza di anni.

Evidentemente una dose troppo el-evata di ormone radicante ha un ef-fetto decisamente opposto a quello ottenibile utilizzando la corretta quantità, lo si può verificare quando malauguratamente immergiamo una talea troppo in profondità nella polvere radicante.

E’ importante cercare di evitare che il prodotto attivo si attacchi attorno allo stelo, intingendo solo la parte inferiore affinchè l’auxina possa penetrare senza eccessi di sorta.

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IDROPONICA ED ECONOMIA:PERCHE’ SI’, PERCHE NO.

di M.Bruna ZolinUniversità di Venezia, Facoltà di Economia

Le coltivazioni senza suolo

L’imprenditore agricolo è definito, dall’articolo 2135 del Codice Civile (così come modificato dalla “legge di orientamento” D.Lgs: 18 mag-gio 2001, n, 228), come colui che esercita un’attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicol-tura, all’allevamento del bestiame e all’esercizio di attività connesse alle precedenti.

Per coltivazione del fondo, per silvicoltura e per allevamento del bestiame si intendono le attività di-rette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase neces-saria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine.

L’introduzione nella legislazione attuale del “… possono utilizzare il fondo…” fa sì che il legame un tem-po indissolubile tra l’imprenditore agricolo e il fondo sia ora venuto meno.

Se le attività di allevamento (alle-vamenti intensivi), da oramai lung-hi anni, hanno reciso il tradizionale legame tra fattori produttivi terra-capitale-lavoro è difficile pensare che alcune coltivazioni vegetali, indipendentemente dal quadro giuridico, possano avvenire senza il supporto del fattore terra.

E’ questa una delle innovazioni che le colture idroponiche (coltivazione delle piante in acqua) e aeropon-iche (coltivazione delle piante in aria) introducono.

La possibilità di coltivare le piante in assenza del terreno non è re-cente: i giardini pensili di Babilonia o i giardini degli aztechi in Messico sono solo alcuni esempi.

Le colture senza suolo, per certi versi assimilabili alle protette

(serre), si basano sulla modificazi-one dell’ambiente alle esigenze specifiche della pianta. Il fuori suo-lo, inoltre, è una pratica colturale che permette coltivazioni intensive anche nel caso di suoli sono poco produttivi e/o con problemi legati alla fertilità o di scarsa disponibilità del fattore terra come nel caso di alcuni Paesi asiatici.

Ad ostacolare la diffusione del fuori suolo, tuttavia concorrono:

la forte incidenza dei costi di produzione che risultano elevati (nonostante il risparmio del fat-tore terra) sia per quanto riguarda l’acquisto dei fattori produttivi a logorio parziale (strumenti, impi-anti) sia per quelli a logorio to-tale (fertilizzanti), se comparati ai tradizionali metodi di coltivazione; le tecniche ancora adatte a un nu-mero piuttosto limitato di colture; i problemi ambientali derivanti dal riciclaggio degli input impiegati nella coltivazione.

Le coltivazioni Idroponiche

L’idroponia è l’arte di far crescere le piante nell’acqua. Può essere definita come la tecnica che con-sente lo sviluppo delle piante senza l’utilizzo del terreno, sostituito da un mezzo più o meno inerte (quale perlite, torba, pietra pomice, sabbia, ecc.), al quale viene aggiunta una soluzione nutritiva contenente gli elementi necessari alla pianta.

Pur descritta da geroglifici egizi ri-salenti a prima di Cristo, l’idroponica è diventata una tecnica a partire dal 1930, quando uno studioso dell’Università della California (W.F. Geriche) applicò le proprie espe-rienze di laboratorio su vasta scala. La prima applicazione pratica di rilievo risale agli anni Quaranta durante la seconda guerra mondiale.

I militari americani, operando

in zone molto disagiate, risolse-ro con l’idroponia il problema dell’approvvigionamento degli ortaggi freschi. Nonostante questa parentesi, la tecnica non ebbe grande diffusione.

La sperimentazione “necessaria” ha, tuttavia, il pregio di dare il via alla ricerca e allo sviluppo di una vasta gamma di tecniche di coltivazione, specialmente a partire dagli anni Settanta, molte delle quali hanno trovato un’estesa applicazione su scala commerciale in diversi paesi.

I sistemi idroponici di maggiore suc-cesso sono quelli che si avvalgono di un substrato che prevede l’impiego di materiali alternativi al terreno destinati a sostenere le piante. Tra i più utilizzati si ricordano:

-La torba: deriva dalla decompo-sizione di alcune specie vegetali e si caratterizza per problemi di smalti-mento molto contenuti, considerata la sua facile degradabilità, e per bassi costi di impianto e di gestione;

-La perlite: è un particolare tipo di roccia vulcanica, capace di es-pandersi sino 20 volte rispetto al suo volume originario, ha un ottimo drenaggio ed ossigenazione;

-La lana di roccia (o grodan): è una roccia vulcanica (basalto), che, opportunamente trattata, arriva a raggiungere un volume circa 90 volte superiore a quello iniziale. Ha, tuttavia, lo svantaggio di creare notevoli problemi di smaltimento a fine ciclo di coltivazione;

-La fibra di cocco: tra i più pratici ed efficienti, è ecologica e ricicla-bile; a differenza della torba con il passare dei mesi rimane soffice fa-vorendo così un più facile sviluppo.

L’idroponia permette, dunque, di recuperare aree di coltivazione

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uno sguardo al fuori suolo nel mondo per fare il punto della

situazione e valutare pro e contro di una tecnica affascinante

svantaggiate nelle zone climatiche sfavorite, di superare le difficoltà legate alla diminuita fertilità dei terreni, di ampliare i calendari di raccolta con una continuità dell’offerta e di ottenere una migl-iore standardizzazione del prodotto.

Per contro, gli ostacoli possono essere sintetizzati in problemi di natura economica e in problemi ambientali e logistici.

Sotto il profilo economico si deve ricordare che le attuali metodologie idroponiche comportano sprechi di terreno (le cosiddette tare im-produttive), che possono arrivare fino al 40-50% della superficie protetta, elemento che, unito agli elevati costi di realizzazione e ges-tione degli impianti, si traduce in un non trascurabile aumento dei costi di produzione.

Tra i fattori ambientali, il rilascio nel terreno degli elementi chimici inquinanti in seguito all’utilizzo di soluzioni nutritive a perdere e il difficile smaltimento dei materiali di sostegno utilizzati sono i principali ostacoli.

Rientrano tra i fattori logistici i sistemi in grado di far fronte al marciume radicale dovuto alla carenza di ossigeno alle radici e alla formazione di alghe. Altri problemi sorgono poi nella preparazione tec-nica degli addetti per la conduzione della coltivazione.

Nonostante gli ostacoli descritti, alcune potenzialità fanno presagire un consistente sviluppo. Tra queste si citano: i tassi crescenti di in-novazione tecnologica, i progetti di sviluppo per i Paesi in Via di Sviluppo, la minor disponibilità di terra per gli aumentati fenomeni di desertificazione e di urbanizzazione.

Per diffondere e risolvere i problemi che gli operatori agricoli incontrano

nella gestione delle coltivazioni idroponiche si deve, tuttavia, poter disporre di un adeguato servizio di assistenza tecnica, capace di gui-dare gli agricoltori nell’applicazione di questi nuovi sistemi e di mettere a punto sistemi gestionali semplici ed economicamente efficienti (ca-paci di ridurre l’elevato costo degli investimenti e di formazione degli operatori).

A livello mondiale, in anni recenti, l’idroponica ha registrato grandi progressi come mezzo di produzione intensiva. Il paese leader è l’Olanda che, oltre a destinare una notevole superficie a tale tecnica colturale, vanta un’indiscussa tradizione in questo settore.

In Gran Bretagna, Francia, Belgio e Giappone il senza suolo è una realtà conosciuta.

In Spagna e Grecia è in fase di forte espansione. Da alcuni anni anche in Italia è cresciuto l’interesse verso questi sistemi di coltivazione.

La superficie delle colture idropon-iche di 40-50 ettari nel 1990, è andata rapidamente aumentando. Attualmente si stimano circa 400 et-tari: le zone più importanti sono in Veneto e in Trentino per la fragola, in Sicilia ed in Sardegna per il po-modoro, in Toscana, Liguria, Lazio e Campania per la gerbera e la rosa.

Coltivazioni Aeroponiche

L’aeroponia è una tecnica di colti-vazione avanzatissima, con elevate rese produttive. Le piante sono poste su appositi pannelli forati destinati solamente a sorreggere la pianta. Lo sviluppo e la crescita avvengono in tubi di plastica attraverso i quali passano le soluzioni nutritive: le radici delle piante sono esposte all’aria e non hanno alcun tipo di contatto con substrati, naturali o

artificiali.

Il tempo di crescita della pianta, indipendente dalle stagioni (ciclo continuo), è lo stesso delle colti-vazioni tradizionali in terra, però senza interruzioni (nessun periodo di riposo).

Contrariamente a quanto avviene per l’idroponica, la coltivazione aeroponica permette di utilizzare l’intero volume della serra e di modificare i parametri della soluzi-one nutritiva in modo da ottenere i migliori risultati colturali.

Attualmente l’aeroponia è relati-vamente diffusa in Australia, in Canada e in alcune regioni/aree degli Stati Uniti mentre nei paesi europei trova scarsissima adesione.

Presenta un elevato grado di inno-vazione e si presta alla soluzione di singoli problemi. E’ di conseguenza assente un riferimento omogeneo capace di standardizzare i risultati ottenuti e di trasferirli in un sistema produttivo su larga scala e accessi-bile anche a persone di formazione media.

Le potenzialità sono, tuttavia, molto elevate. Le sue migliori applicazio-ni, anche in un’ottica di soluzione di problemi gravissimi quali quelli della malnutrizione, possono es-sere individuare nell’aumento della produzione agricola in territori roc-ciosi o semidesertici.

A tal proposito la FAO (Food and Agricolture Organization) ha pro-mosso alcune importanti iniziative al fine di esportare tale tecnica nei Paesi in Via di Sviluppo, soprattutto in quelli in cui l’acqua è una risorsa molto scarsa.

L’Organizzazione privilegia, infatti, lo sviluppo rurale e l’agricoltura, individuando strategie a lungo ter

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situazione e valutare pro e contro di una tecnica affascinante

mine capaci di garantire la sicu-rezza alimentare, conservando le risorse naturali. Per il raggiungimento di tale obiet-tivo, tuttavia, numerosi ostacoli devono essere ancora rimossi e la tecnica rimane a titolo sperimen-tale.

Tra i principali ostacoli si annover-ano:

-L’elevato costo degli impianti e l’alto fabbisogno energetico, non compensati dalle alte rese;

-I problemi di competizione lumi-nosa tra le piante nei sistemi che cercano di ridurre al massimo lo spreco di superficie coltivabile;

-Lo scarso adattamento degli im-pianti e delle soluzioni nutritive in relazione alle esigenze delle diverse specie orticole e floricole coltivabili;

-La gestione e il controllo compu-terizzato della produzione difficil-mente utilizzabili dall’operatore agricolo di media professionalità.

Attualmente in Italia la coltivazione aeroponica viene pratica sulle seg-uenti varietà vegetali:

pomodoro, peperone, melanzana, zucchina, cetriolo, lattuga, radicchio, cavolfiore, broccolo, basilico, salvia, melone, fragola per le orticole;garofano, rosa, crisantemo, iris, tulipano, narciso, gladiolo, fresia,

gerbera per le floricole.

Nella foto il progetto della FAO svi-luppato in Senegal per combattere il degrado urbano e fornire strumenti per il sostentamento delle famiglie attraverso un progetto di idroponica semplificata e orti doestici.

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L’USO DELLA CO2E LE RIVOLUZIONARIE PASTIGLIE A

LENTO RILASCIOdi C. Cantelli

Il test di Giardinaggio Indoor del mese si occupa di un nuovo rivolu-zionario tipo di pastiglie di anidride carbonica a lento rilascio.

LA CO2

Innanzitutto è il caso di spendere due parole sull’uso della CO2 per una coltivazione domestica ed i suoi benefici: tutte le piante sono costituite da tre macro elementi fondamentali, Idrogeno, Ossigeno e Carbonio; I primi due elementi, pre-senti nell’acqua (composta da due molecole di Idrogeno ed una di Os-sigeno) sono assorbiti dalla pianta tramite l’apparato radicale, mentre il Carbonio viene prelevato dall’aria.

Nello specifico la pianta scompone le molecole di anidride carboni-ca (altrimenti detta CO2 dalla sua composizione molecolare o bi-ossido di Carbonio) tenendo una parte di Carbonio e rilasciando due parti di Ossigeno grazie al processo di foto-sintesi clorofilliana.

L’USO

Saturare un microclima di anidride carbonica permetterà alla pianta di assorbire una maggiore quantità di carbonio e di conseguenza avere maggior materiale di costruzione disponibile per la sua crescita: un ambiente saturo di CO2 permette-rà alle piante una crescita rapida e rigogliosa.

I sistemi professionali per la som-ministrazione di anidride carbonica comprendono solitamente una bom-bola di gas, un timer per regolarne il rilascio e possibilmente uno stru-mento per la misurazione della con-centrazione del gas nell’ambiente.

Le quantità ottimali di CO2 sono di circa da 1600 fino a 2000 parti per milione durante la fase vegetativa e tra 1000 e 1500 parti per milione durante la fase di fioritura.

Per avere un’idea della quantità di CO2 necessaria per integrare quella normalmente presente in un

ambiente chiuso e ristretto come potrebbe essere una tipica istalla-zione per la coltivazione domestica basti pensare che il livello medio di anidride carbonica solitamente si assesta tra le 300 e le 500 parti per milione.

E’ bene inoltre far notare che in assenza di un adeguato sistema di ventilazione le piante esauriscono

molto velocemente la scorta di ani-dride carbonica presente nella grow-room rimanendo presto a corto di carbonio.

La crescita della pianta sarà quindi lenta e stentata.

Ad una maggior concentrazione di CO2 nell’ambiente deve corrispon-

dere una più elevata temperatura in quanto il carbonio è più effica-cemente metabolizzato in questo modo.

Se una pianta ad esempio necessita di una temperatura di 24-26 gradi in presenza di un’elevata concentrazio-ne di biossido di Carbonio la stessa pianta avrà bisogno di 30-32 gradi. Durante la fase di fioritura invece,

essendo necessaria una minore concentrazione di anidride carboni-ca, le temperature potranno tornare tra i 26 ed i 28 gradi anziché degli ipotetici 22-24 gradi necessari con un’atmosfera non arricchita.

Un’ulteriore appunto da ricordare per il coltivatore domestico è che le piante, in presenza di una mag-

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L’USO DELLA CO2E LE RIVOLUZIONARIE PASTIGLIE A

LENTO RILASCIOdi C. Cantelli

giore temperatura e di un metabo-lismo accelerato dalla saturazione di CO2, avranno anche bisogno di una quantità maggiore di acqua e di fertilizzanti.

Inoltre, se le piante sono allevate in coltura idroponica è bene far sì che esse ricevano anche un supplemen-to di Ossigeno tramite l’apparato radicale, aggiungendo una pompa con Ossigenatore o addizionando l’acqua di Ossigeno.

LE PASTIGLIE

Per una piccola coltivazione dome-stica non è sempre possibile avere a disposizione un impianto di sommi-nistrazione di gas professionale, ma si può comunque usufruire dei bene-fici dell’arricchimento dell’atmosfera utilizzando le pastiglie di anidride carbonica presenti in commercio.

Queste pastiglie possono essere usate sia per somministrazione radicale nelle vasche idroponiche (le piante possono assorbire una percentuale del loro fabbisogno di CO2 tramite le radici) oppure essere disciolte in un recipiente d’acqua all’interno dell’ambiente di coltiva-zione per permettere al biossido di Carbonio in esse presenti di essere rilasciato nell’aria.

Ovviamente più lento sarà il proces-so di rilascio del gas migliore sarà la diffusione e la saturazione dell’am-biente da parte dello stesso.

UN METODO PRATICO

Per poter sfruttare al meglio le pastiglie di anidride carbonica all’interno di una piccola coltivazio-ne domestica si può procedere in questo modo:

All’accensione delle luci le piante si “sveglieranno” ed apriranno gli sto-mi, questo è il momento di miglior e maggior traspirazione, e sarà il miglior momento per somministrare ad esse una dose di CO2. Sarà opportuno fermare tempora-neamente l’impianto di areazione per evitare che il gas sia trascinato via, in questo modo avverrà anche un rapido aumento di temperatura che favorirà ulteriormente la meta-bolizzazione del Carbonio.

Lasciando disciogliere una pastiglia o due in un recipiente basso e largo pieno d’acqua una dose di anidride carbonica sarà rilasciata nell’aria che ne diverrà quindi satura.

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Se le temperature non raggiun-geranno picchi troppo elevati sarà opportuno lasciare l’impianto di areazione fermo per un paio d’ore per garantire un ottimale assorbi-mento del gas. Dopodiché si potrà riavviare la circolazione d’aria.

Questo piccolo trattamento garanti-rà alla pianta una crescita eccezio-nale ed un metabolismo accelerato, piccola spesa, grandi risultati.

UN PO’ DI MATEMATICA

Ma di quanta anidride carbonica c’è bisogno? Certo che con un misura-tore di CO2 è tutto più semplice, ma in mancanza d’altro si può calcolare la quantità di gas necessaria a satu-rare la nostra grow-room.

1) Innanzitutto occorre calcolare il

volume dello spazio di coltivazione moltiplicando altezza x larghezza x profondità.

2) Stimiamo una concentrazione di CO2 di 400 parti per milione e se dobbiamo raggiungere le ipotetiche 1500 parti per milione dovremo alzare la concentrazione di 1500-400=1100 ppm

3)Moltiplichiamo il volume della stanza per 0,0011 (1100 parti per milione uguale 0,0011) ed otterre-mo il volume di anidride carbonica necessaria per saturare l’ambiente.

Esempio: grow-room 100cm x 100 cm x 200cm volume 200 cm cubi moltiplicato 0,0011 dà 0,22 cm cubi di biossido di Carbonio necessari ad alzare la concentrazione da 400 a

1500 ppm.

IL TEST

Per il nostro test abbiamo provato la velocità di discioglimento di tre tipi di pastiglie di anidride carbonica. Le tradizionali sulla destra, a lento rilascio al centro ed il nuovo rivolu-zionario tipo sulla sinistra.

Presi tre bicchieri di semplice ac-qua del rubinetto alle 16:00 parte l’esperimento, per ogni recipiente un tipo diverso di pastiglia.

Sin dal primo minuto si nota quanto velocemente venga rilasciato il gas dalla pastiglia tradizionale, non solo, si nota anche quanto residuo lasci in superficie.

In un tempo record di 3 minuti e dieci secondi la pastiglia tradiziona-

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le è completamente disciolta, essa ha rila-sciato molto veloce-mente tutto il gas.

La pastiglia a lento rilascio si comporta decisamente me-glio con un’azione più lenta e gradua-le, mentre il nuovo tipo rilascia soltanto qualche bollicina per volta.

Dopo altri dieci minuti le pastiglie sono ancora entram-be in azione, ma la differenza tra le due comincia a diventare notevole, la sfida non assomiglia già più ad un testa a testa.

Oltre trenta minuti dopo l’immersione

nell’acqua la pastiglia a lento rilascio sta ancora cedendo gas ma è ormai agli sgoccioli, un rilascio molto più lento è ormai evidente nel nuovo tipo di pastiglia, e quando l’orolo-gio segna le 13:35 rimane una sola concorrente per il nostro test.

La pastiglia a lento rilascio ha agito comunque per oltre trenta minuti in più della pastiglia tradizionale, già un ottimo risultato.

Quindici minuti dopo la pastiglia di nuova generazione ancora resiste.

Alle 17:15 la pastiglia sale in su-perficie, poi scende, risale. In altri quindici minuti infine si dissolve definitivamente.

Ha resistito un’ora e trenta minuti, contro i tre minuti della pastiglia

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tradizionale ed i trenta di una a lento rilascio.

Un risultato strabiliante.Notiamo inoltre una quasi assenza di residuo in entrambe le pastiglie a lento rilascio se paragonate a quella tradizionale.

Una ulteriore piccola quantità di anidride carbonica sarà rilasciata dall’acqua nelle successive 2 o 3 ore, questo è il tempo necessario ad una completa evaporazione;

Un lento rilascio risulterà migliore per saturare progressivamente l’am-biente mentre la pianta metabolizza il carbonio, e la piccola ulteriore quantità di gas manterrà il livello ottimale per il tempo necessario.

Un trattamento giornaliero con l’arricchimento dell’aria con CO2 ci garantirà risultati eccezionali con le nostre piante.

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PIANTE CARNIVOREdi Fabio d’Alessi

A.P.I.C Associazione Italiana Piante CarnivoreIntroduzione

Le piante carnivore sono piante che mangiano animali.

Sara’ vero? Definite cosi’ potrebbero sembrare degli esseri mostruosi e pericolosi. In effetti e’ cosi’, ma gli “animali” di cui queste piante si nutrono sono per lo piu’ insetti non piu’ grandi di una vespa o di un moscone.Questo e’ il motivo per il quale spesso si usa il termine piante inset-tivore, senz’altro meno cruento e impressionante.

Per la verita’, le piante carnivore si nutrono di insetti per necessita’. Sono piante, infatti, che in natura vivono in ambienti particolarmente poveri di quei nutrienti necessari alla crescita di tutte le piante.

Le ritroviamo in paludi, in torbiere acide, su rocce spoglie, abbar-bicate su tronchi di altre piante, sott’acqua... Le piante carnivore riescono a sopravvivere in questi ambienti sterili e inospitali ricavando il loro nutrimento dagli insetti. In questo modo, anche se il terreno e’ sterile, queste piante riescono comunque a crescere e moltiplicarsi.

Molti pensano che le piante carni-vore siano la sola “Venus acchiap-pamosche”, conosciuta da tutti (qui a sinistra).Al contrario, ce ne sono altre. Anzi, molte altre. Esistono centinaia di specie, distribuite dal Sud Africa al Canada del Nord. Alcune sono tropicali, altre le troviamo in aridi deserti e altre ancora sulle cime delle nostre Alpi.

Alcune sono piccole come la punta di uno spillo, altre lunghe metri e metri. Verdi e spoglie o vistose e coloratissime, acquatiche, terrestri, sotterranee, ce n’e’ per tutti i gusti. No, decisamente, le piante carnivore non si limitano alla sola “Venus ac-chiappamosche”, per quanto carina e affascinante essa sia.

Le piante carnivore non sono solo moltissime, ma anche molto di-verse tra loro. Diversi sono i loro

sistemi di cattura, e diversi i modi di uccidere e digerire le prede. Alcune sono dotate di trappole a tagliola, altre di tubi ripieni di liquido diges-tivo, altre ancora ricoperte di colla acida... in effetti e’ affascinante stu-diare tutti i meccanismi che queste piante hanno messo a punto per catturare le loro prede.

Molte sono le fantasie e i racconti che riguardano le piante carnivore, e non e’ raro trovare persone con-vinte che ne esistano di enormi, in grado di divorare cani e gatti, magari nascoste in qualche foresta tropicale. Tutto cio’ e’ dovuto essen-zialmente alla colossale ignoranza che circonda queste piante.

Anche e specialmente in Italia, questa ignoranza e’ spesso totale ed assoluta: il primo libro sulle carnivore e’ uscito solo nel 2002 e non c’era, fino a pochi anni fa, alcun punto di riferimento ne’ alcun gruppo di coltivatori o appassionati, niente. In questa desolante man-canza di tutto, l’unica sorgente di qualcosa di carnivoro sono i pochi negozietti e vivai in grado di vend-ere la mitica “venus acchiappamo-sche”.

Anche in questo caso, pero’, la ven-dita e’ accompagnata da consigli di coltivazione assolutamente vaghi, pittoreschi e spesso errati: purtrop-po gli stessi negozianti non ne sanno piu’ degli ignari principianti e si limitano a dare quattro consigli in croce, magari accompagnandoli da raccomandazioni da finti espertoni (campane di vetro, cioccolata nelle trappole, inverno in casa e orren-dita’ simili).

Questa situazione, fortunata-mente, sembra destinata a finire presto, grazie alla nascita dell’AIPC (l’Associazione Italiana Piante Car-nivore), e alla diffusione di internet, che ha reso finalmente semplice e veloce la circolazione di notizie, dati e materiale tra gli appassionati.

Mettendo insieme tutte le infor-mazioni che abbiamo appena letto, rivediamo quindi cosa sono le piante carnivore.

Le piante carnivore sono un vasto gruppo di piante, molto diverse tra loro, che vivono in ambienti pov-eri di nutrienti e che hanno quindi sviluppato la capacita’ di sfruttare insetti e altri piccoli invertebrati come sorgente alternativa di cibo.

Hanno sviluppato diversi sistemi per attirare, catturare, uccidere ed as-similare le loro prede. Sono molte, sono diffuse su tutto il globo (spes-so in paludi o torbiere), e sono gen-eralmente molto poco conosciute.

Adesso che sappiamo meglio di cosa stiamo parlando, entriamo in qual-che dettaglio sul loro riconoscimento e sulla loro coltivazione.

Primo riconoscimento

Con il termine riconoscimento (o determinazione) ci si riferisce al procedimento logico tramite il quale osservando una pianta qualsiasi si giunge a determinarne corret-tamente il binomio latino, o nome scientifico (per esempio ‘Bellis perennis’ per la comune margherita da campo). Da notare che il binomio latino e’ sempre composto da due parti, la prima sempre in maiuscolo che descrive il Genere e la seconda sempre in minuscolo che descrive la specie.

Riconoscere correttamente una pianta carnivora e’ un procedimento spesso difficile e laborioso. A volte ci vogliono molti anni e una gran dose di esperienza per riuscire a riconoscere correttamente una determinata pianta, e ci sono piante carnivore talmente simili tra loro che nemmeno i piu’ esperti riescono a distinguerle con certezza senza un’accurata indagine al microscopio.

Lasciando quindi la determinazione specifica delle piante carnivore ai piu’ esperti, possiamo pero’ riuscire, in cinque minuti, a farci un’idea delle piante carnivore esistenti e imparare a riconoscerle almeno a grandi linee. Non saremo in grado di distinguere una Sarracenia rubra al-abamensis da una Sarracenia rubra gulfensis ma per lo meno saremo in

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PIANTE CARNIVOREdi Fabio d’Alessi

A.P.I.C Associazione Italiana Piante Carnivore

grado, facendo un parallelo, di dis-tinguere una rana da un cavallo.

Come detto, le piante carnivore hanno sviluppato diversi sistemi di cattura (o trappole) per piccoli invertebrati.

Proviamo quindi a dividere le piante carnivore in categorie a seconda del tipo di trappola.

Per ogni tipologia di trappola di-videremo le piante a loro volta in generi ed eventualmente in specie. Ricordiamo che il binomio genere-specie e’ usato in tutti gli ambienti per identificare univocamente un organismo (esempio Homo sapiens per l’uomo).

Nel caso delle piante carnivore, due piante appartenenti a due generi diversi sono spesso diversissime tra loro, mentre due piante appartenen-te allo stesso genere ma a specie diverse sono diverse tra loro ma non in maniera marcata.

Quindi, Sarracenia psittacina e Pin-guicula vulgaris sono due piante as-solutamente diverse tra loro (genere e specie diverse), mentre Drosera capensis e Drosera regia sono due piante molto simili.

Passiamo ora in rassegna quindi tutti i tipi di trappola delle piante carnivore, e per ogni tipo elenchia-mo che piante esistono in natura.

Piante con trappola a tagliola

La trappola a tagliola e’ un mec-canismo formato da una foglia modificata in modo da chiudersi a scatto quando viene sollecitata da un animaletto.

La foglia si richiude sul malcapitato, intrappolandolo e soffocandolo. Nei giorni seguenti la cattura, la pianta secerne degli enzimi digestivi dentro la tagliola, che consumano la preda. E’ una trappola molto evoluta, e si riconosce immediatamente (aspetto tipico a tagliola).

Ecco l’unica specie dotata di trap-pola a tagliola. E’ la famosa Dionaea muscipula, comunemente chiamata “dionea” o “venus acchiappamo-sche”, di certo la pianta carnivora piu’ nota.In natura e’ diffusa negli Stati Uniti sudorientali, in terreni acquitrinosi e soleggiati. Predilige un clima simile al nostro, posizione in pieno sole, e inverni anche sottozero, durante i quali entra in uno stato di dorm-ienza.

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La dionea forma una rosetta schiac-ciata al terreno o con foglie sollevate e puo’ arrivare a 20-30 centimetri di diametro con decine di foglie. Le trappole possono essere lunghe 5-6 centimetri. Fiori semplici e poco vistosi, bianchi.

E’ l’unica pianta esistente al mondo con trappole a tagliola di questo tipo (a parte una rarissima specie acquatica), quindi quando vedete una pianta del genere, potete dire immediatamente “dionea!” e magari gonfiarvi il petto con il completo binomio latino Dionaea muscipula.

Un unico genere con un’unica spe-cie: Dionaea muscipula.Molto comune (anche se in natura rischia l’estinzione) e di facile colti-vazione

Piante con trappola a colla

Categoria molto vasta di piante car-nivore in cui le foglie si sono modifi-cate in modo da produrre una colla appiccicosa che intrappola gli insetti e li digerisce lentamente.

Quello della colla e’ un sistema piuttosto semplice ma efficace per catturare le prede, ed e’ infatti utiliz-zato da molti generi diversi di piante carnivore.

Questo tipo di trappola si riconosce facilmente passando un dito sulla superficie superiore di una foglia. Se al dito rimane attaccata una sorta di bava trasparente e appiccicosa, siamo davanti a una pianta carnivo-ra di questo tipo.

Essenzialmente le piante carnivore con meccanismo a colla si dividono in due grandi categorie. Vediamole.

Trappola a colla --- foglie con ghiandole invisibili

Le piante di questo tipo apparten-gono ad un solo genere, il genere Pinguicula. Queste piante presen-tano tutte foglie ricoperte di migliaia di peli microscopici e appena visibili a occhio nudo, che secernono un liq-uido simile a bava.

Questo liquido ricopre le foglie formando un velo di colla. Quando un insetto cammina sulla foglia, vi rimane invischiato e il liquido lenta-mente scioglie e digerisce la preda.

La pianta ha un tipico caratteristico verdechiaro-giallino, ed ha un as-petto tutt’altro che carnivoro. Anzi, con le sue foglie morbide e spesse e i suoi fiori simili a violette sem-bra piu’ una pianta grassa che una pianta carnivora.

Nonostante questo le foglie delle pinguicole sono delle trappole ve-ramente eccezionali e le pinguicole sono tra le piante carnivore piu’ di successo, capaci di sterminare de-cine di piccoli insetti per foglia.Pinguicula: unico genere con trap-pole a colla con ghiandole invisibili. Ha decine e decine di specie dis-tribuite su tutto il globo e in molti ambienti. Esistono anche in Italia (Pinguicula vulgaris, Pinguicula al-pina e altre).

Estremamente comuni e alcune di facile coltivazione. Pinguicula moranensis rappresenta una tipica pianta da principianti.

Trappola a colla --- foglie con ghiandole ben visibili

In questo caso le foglie sono coperte di peli molto sottili che portano alle estremita’ delle specie di goccioline. Queste goccioline sono composte da varie sostanze che servono ad intrappolare, appiccicare e uccidere le prede, una volta catturate.

Le foglie di questo tipo sono spesso dotate di una certa mobilita’, e quindi una volta catturata una preda non e’ raro vederle (nel corso di alcune ore) ripiegarsi e avvolgere la preda stessa.

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Vediamone alcuni esempi:

Drosera spatulata, una pianta ap-partenente al genere Drosera.

Questa pianta in particolare forma una piccola rosetta di foglie larga fino a 7-8 centimetri, e adagiata a livello del terreno. Le foglie possono essere di colore verde, o rosso, o ramato. Predilige ambienti torbosi e in pieno sole, dove fiorisce continuamente, producendo abbondanti semi.

Drosera binata.

Questa specie, al contrario di quella

precedente, presenta foglie molto ramificate e sollevate da terra, formando una specie di ragnatela impenetrabile di veri e propri tenta-coli ricoperti di colla. Il meccanismo di base (peli con gocce di colla) e’ lo stesso in entrambe le specie, ma la forma delle foglie e’ completamente diversa.

Esistono diversi generi di piante con trappole a colla e ghiandole ben visibili.Vediamoli:

* Drosera: genere di enorme suc-cesso, con decine e decine di specie, sparse su tutto il globo e in tutti gli

ambienti. Esistono specie austral-iane microscopiche e specie sudafri-cane molto grandi e vistose.

Qualora vi troviate di fronte ad una pianta carnivora con trappola a colla e ghiandole ben visibili, siete quasi sempre in presenza di una drosera.

In Italia sono presenti Drosera ro-tundifolia, Drosera anglica e Drosera intermedia.Alcune specie di Drosera sono comuni e di facile coltivazione, al contrario degli altri generi qui sotto elencati. La Drosera capensis e’ la specie in assoluto piu’ indicata per i principianti. * Drosophyllum lusitanicum: unico genere, unica specie. Molto simile ad una drosera con fusto lignificato, e’ una pianta molto particolare e bella che vive in Spagna, Portogallo e Marocco. Rara. * Byblis: genere con poche specie, tipico dell’Australia e della Nuova Guinea. Rare. * Roridula: genere quasi estinto, con due specie, nativo del Sud Af-rica. Rarissime.

Quindi riassumendo: foglie appicci-cose e bavose = trappola a colla.

Controlliamo le foglie piu’ da vicino: se le foglie sono all’apparenza nor-mali, con ghiandole invisibili siamo di certo davanti a una Pinguicula, se invece le foglie sono pelose con ghiandole ben visibili siamo quasi sempre davanti a una Drosera, rara-mente altri generi.

[continua sul prossimo numero.]

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NEWSL’IMPERO DEL POMODORO IDROPONICO AUSTRALIANO

Spesso il pensiero diffuso vuole che l’ortofrutta idroponica sia un pro-dotto di serie b da comparare con ‘il sano frutto della terra’ , maturato al sole, concimato con lo stallatico, curato da un contadino vigoroso che indossa un cappello di paglia e tiene una spiga in bocca.

Certo quest’immagine è piuttosto obsoleta e a meno che quel con-tadino non siate voi o un vostro vicino conoscente possiamo essere sicuri che la frutta e la verdura che consumiamo viene in ben altri modi prodotta. Il prodotto cresciuto in maniera ‘artificiale’ viene ancora avvertito in Italia come poco ap-petibile, nonostante sia -prove alla

mano- più igienico, affidabile e controllato.

Diverso è il discorso in altri Paesi, dove le tecnologie agricole alterna-tive sono più diffuse e conosciute, e il prodotto idroponico viene valoriz-zato in quanto tale: è il caso della Flavorite Hydroponic Tomatoes, ditta australiana specializzata appunto in pomodori idroponici.

Il procedimento è piuttosto sem-plice: germinazione in blocchetti per tre giorni alla temperatura costante di 29 gradi, seguita dal trapianto in blocchi più grandi alla comparsa delle prime foglie.

Terminata la prima fioritura le pi-ante vengono trasferite nella serra dove un irrigatore a gocciolamento

provvede al rifornimento idrico e un computer regola i fattori ambientali.

La raccolta è stata recentemente automatizzata così come il confezi-onamento, a garanzia di assoluta igiene, e la Flavorite è in lizza come una delle realtà col miglior rapporto produttività/costi pur mantenendo standard qualitativi molto elevati.

Qualche cifra: ogni pianta vive tra i 9 e i 12 mesi, crescendo fino a 10-12 metri (sorretti da cavi attaccati al soffitto) e produce 25-30 chili di po-modori che vengono garantiti come maturi al punto giusto, freschissimi e particolarmente saporiti come da marchio di fabbrica (Flavorite è un gioco di parole tra flavour, ovvero sapore, e favourite, preferito).

Il prodotto viene confezionato in loco e distribuito giornalmente, e data la richiesta la produzione è salita alla cifra stellare di 9.000 ton-nellate nell’anno 2005/2006, di cui una parte destinata all’esportazione a Singapore e Dubai.

Tra i punti forti dell’azienda c’è l’attenzione al risparmio idrico effettuato grazie ad un impianto d’irrigazione molto avanzato, che permette di impiegare solo 23 litri d’acqua per chilo di prodotto (con-tro i 60 litri/kg della coltivazione tradizionale in campo).

Questo pur otttimo risultato è des-tinato a migliorare ancora grazie all’impiego di un nuovo sistema che permette di riciclare l’acqua (arriv-ando ad impiegare 18 litri/kg).

L’impegno per il futuro è di far scen-dere l’utilizzo di pesticidi dall’attuale livello definito basso allo zero, grazie all’impiego di antagonisti naturali.

L’azienda offre anche molti servizi (vendita di piante e semi, confezi-onamento conto terzi, consegne a domicilio del prodotto, forniture di materiali, manutenzione e know how) ed organizza visite guidate della struttura, che attualmente oc-cupa 80.000 mq.

Un bell’esempio di imprenditoria che guarda lontano. Il sito dell’azienda,

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NEWS in inglese, è ricco di informazioni: www.flavorite.com.au

ENERGIA TERMICA DAL GRANTURCO

Il granturco (mais) usato da millenni nell’alimentazione ha ora assunto una importanza notevole anche come fonte energetica con numer-ose applicazioni.

Da diversi anni sono in produzi-one motori alimentati a biodiesel ricavato dal granoturco ed ora si è rivelato un ottimo combustibile che opportunamente usato in speciali stufe, termostufe e caldaie svilup-pano una elevata potenza rispettosa dell’ambiente.

Si tratta di un’ottima fonte in quanto non inquinante, rinnovabile, di facile reperibilità e trasporto, semplice da immagazzinare, economico.

Fornisce una combustione neu-tra, pulita, atossica e sicura, che non apporta sostanze nocive quali l’ossido di carbonio all’atmosfera, ed è già impiegato con profitto in strut-ture pubbliche e private, nelle serre, negli stabilimenti e in acquacoltura.Ha un potere calorico di circa 6200

Kcal/kg (con umidita intorno al 15%), e le stufe pensate per questo tipo di alimentazione si prestano anche alla combustione di cippato (noccioli di ciliegia e oliva, noccioli frantumati di pesca o albicocca, gusci di noci, nocciole, pinoli, etc ) o pellets (trucioli vegetali pressati in cilindretti).

Spesso sono previste dalle Regioni agevolazioni fiscali da chi adotta sistemi di riscaldamento ecocom-patibili, è bene informarsi in merito per iniziare a pensare ad una fonte di riscaldamento più ecologica e risparmiare sulla bolletta; infatti in

termini economici il mais garantisce un elevato risparmio se confrontato con Metano (PCI 8250 kcal/m³) e GASOLIO (PCI 8560 kcal/l):1,6 kg di mais = 1 m³ Metano = 1 l Gaso-lio.

Esistono tuttavia polemiche circa l’utilizzo del mais in questo con-testo, come le preoccupazioni per l’impiego di sostanze chimiche per l’agricoltura, per un ipotetico incremento nella diffusione degli OGM, per l’impianto della monocol-tura a grande scala, per i conflitti con le colture a scopo alimentare e la possibile impennata dei prezzi di

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alimenti tradizionalmente “poveri”, per il rapporto tra energia otte-nuta e consumata e ancora per la percezione della biomassa come combustibile di scarso valore o poco vantaggioso.

LA MUNGITURA DELLE PIANTE

Grazie ad un innovativo metodo inventato nel centro di Agronomia e Ambiente dell’Istituto francese di ricerche agricole (Inra), a Nancy, sarà possibile estrarre principi attivi dalle piante senza distruggerle.

Elaborato in oltre otto anni di ricerche da Eric Gantier e Fréderic Bourgoud, questa tecnica brevettata col nome di Pat (Plans à la traire, piante da mungere), permetterà di ricavare preziosissime sostanze senza mettere a repentaglio piante rare per fini economici.

Attualmente per ottenere un gram-mo di tassolo, un potente anti-cancro, è necessario abbattere tre alberi di tasso vecchi di almeno 150 anni.

Applicando questa nuova tecnica si può ottenere la molecola dalle radici più volte la settimana. La “mungitu-ra” viene applicata su piante in col-

tura idroponica, nella cui sostanza nutritiva viene aggiunto un tensio-attivo che aumenta la permeabilità delle radici favorendo la fuoriuscita delle molecole bioattive.

In seguito vengono introdotti agenti che stimolano le difese della pianta, inducendola a produrre i preziosi metaboliti secondari in grande quantità attraverso le radici invece che nelle foglie.

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l’esperto rispondeColtivo fiori in terra nella mia serra, ho notato la presenza di molti insetti che non conosco. Si tratta di bestioline senza ali, con una specie di esoscheletro a plac-che, che si appalottolano se toccati e restano im-mobili. Stanno nella terra, non sulle piante. Sempre nel-la terra ci sono degli in-setti tipo millepiedi. Non ho notato peggioramenti nella salute delle piante, ho provato comunque a trattare con olio di neem ma non ho visto risultati. Come posso intervenire?

L’ insetto che ‘fa la palla’, detto comunemente an-che porcellino di terra, è l’ Armadillidium vulgare. Si tratta di un crostaceo dell’ordine degli Isopoda, che vive in ambienti umidi cibandosi di vegetali ed animali morti.Normalmente non sono considerati dannosi per le piante, in quanto cibandosi principalmente di materi-ale marcescente contribuiscono alla pulizia e alla salute dell’ambiente di coltura.

C’è però da considerare che la presenza massiccia e improvvisa di questa animale è probabilmente dovuto ad un aumento sensibilie dell’umidità della serra (magari do-vuto ad una minore illuminazione) o alla presenza di materiale vegetale in decomposizione.

Fai dunque attenzione e controlla che non ci siano piante malate e che i valori ambientali siano nella norma.

Variando improvvisamente il tasso di umidità e rendendolo secco c’è il rischio che l’Armadillidium attacchi le piante sane per procurarsi l’acqua di cui ha bisogno per sopravvivere, quindi è bene che gli interventi siano graduali.

Quelli comunemente detti millepiedi sono chilopodi o miriapodi (millepie-di e centopiedi). Ve ne sono molte specie diverse facenti capo alla stessa famiglia: in generale sono

animali che amano gli anfratti bui e umidi, e la loro alimentazione talvolta può comprendere anche le radici o le gemme delle piante. Il problema dovrebbe risolversi da sè correggendo eventualmente i problemi di illuminazione/ umidità/ perdite del sistema di irrigazione. La credenza popolare vuole che

si combattano queste infestazioni piantando nella serra qualche fiore del genere Tagetes, il cui odore penetrante e sgradevole parrebbe infastidire gli insetti nocivi.

[foto: Franco Folini]

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l’esperto rispondel’esperto rispondePosso mettere delle piante in idroponica all’interno del terra-rio dell’iguana? E nel paludario con le tartarughe?

Benchè non sia il mio campo direi proprio di no.

Si tratta di animali che divorereb-bero le piante e anche mettendole fuori portata farebbero una gran confusione danneggiando le radici e sporcando l’acqua. Alcune piante ac-quatiche possono sopravvivere in un laghetto con tartarughe a patto che vi siano condizioni particolarmente favorevoli e spazio in abbondanza.

Sto provando a coltivare in serra alcune piante di agrume, so-prattutto arance, vorrei sapere come distinguere i sintomi della carenza di qualche elemento. Come faccio a sapere perchè la pianta è sofferente?

Normalmente utilizzando fertilizzanti completi adeguati non dovrebbero verificarsi carenze, ma ecco qualche suggerimento generico per ricono-scere i sintomi:

- Foglie pallide fra le nervature, di dimensione normale, pochi frutti : carenza di manganese

- Foglie ingiallite lungo le nervatu-re, crescita stentata, frutti piccoli, fioritura regolare o abbondante : carenza di azoto

- Caduta delle foglie, dei germogli e/o dei frutti, crescita stentata : carenza di potassio

- Foglie verde scuro e piccole, foglie vecchie con macchie nere e mor-te, sviluppo fermo o molto lento : carenza di fosforo

- Foglie pallide sui margini e fra le nervature, sviluppo lento : carenza di calcio

- Foglie ingiallite con nervature verdi, che cadono, frutti piccoli : carenza di magnesio

- Foglie sottili, pallide con nervature verdi, tendenti alla caduta, frutti piccoli e gialli : carenza di ferro

- Foglie piccole e ravvicinate, gialle fra le nervature, zone morte

a chiazze nella chioma, germogli cespugliosi, nessun frutto : carenza di zinco

- Foglie apicali ingiallite, rami fragili con protuberanze su quelli più gio-vani : carenza di rame

Le lampade ai vapori di sodio vanno gettate nel cassonetto del vetro?

Assolutamente no.

Si tratta di rifuti pericolosi il cui

trattamento è regolamentato dalle disposizioni di riferimento sulla ge-stione dei RAEE (Rifiuti da Apparec-chiature Elettriche ed Elettroniche), ovvero la messa in atto di alcune direttive comunitarie del 2002 e 2003, recepite nel Decreto Legislati-vo 151/2005.

Dovendo inizialmente entrare in vi-gore il 13 agosto 2005, l’applicazio-ne del Decreto ha subito numerosi rinvii, per essere infine ratificata il 1° luglio 2007.

La normativa prevede che il consu-matore possa riconsegnare l’usato direttamente al negoziante a fronte dell’acquisto di un prodotto analogo, ma nel periodo di regime transitorio della durata di 120 giorni la raccolta dei RAEE continuerà ad essere svol-ta dalla municipalità.

Il decreto, già pesantemente critica-to, risente di una carenza strutturale di fondo e ha creato malcontento presso molti esercizi commerciali, scontratisi con una burocrazia con-torta e con la poca versatilità degli strumenti forniti loro.

Attualmente per il privato o la pic-cola azienda è d’obbligo informarsi presso il proprio comune sulle mo-dalità di ritiro o contattare una ditta privata, o anche il consorzio per il recupero e lo smaltimento di appa-

recchiature di illuminazione ( i cui soci fondatori sono i giganti dell’in-dustria General Electric, Filometalli-ca, Leuci, Osram, Philips e Sylvania) Ecolamp.

Quest’organizzazione, che si propo-ne di essere presente capillarmente sul territorio, si occupa sia di RAEE provenienti da utenze domestiche sia quelli di provenienza professio-nale.

Il servizio del consorzio è a disposi-zione di chiunque ne faccia richiesta ed è a pagamento.

Per altre informazioni, per consul-tare la legge in questione o sapere quali prodotti sono interessati, con-sulta www.ecolamp.it

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la redazione segnalaSARTORIUS PP STRUMENTI DI MISURA PROFESSIONALI

Risultati di misura stabili, gestione dei dati affidabile e risparmio di tempo considerevole grazie ad un comfort di utilizzo ottimale: queste sono le caratteristiche essenziali che contraddistinguono non solo il lavoro professionale quotidiano in laboratorio, ma anche la nuova gen-erazione di strumenti Professional Meter della Sartorius.

La Sartorius, azienda fornitrice di tecnologie di laboratorio, ha rielabo-rato e ottimizzato la sua famiglia di strumenti PP. Il risultato è rap-presentato da quattro strumenti di analisi in grado di fornire fino a tre valori in un’unica misurazione: il valore di pH, la temperatura e la conduttività elettrica.

Grazie ad un’interfaccia utente comandata mediante menu, alla funzione di guida in linea attiva cor-rentemente e ai commenti di aiuto opzionali per un’esatta esecuzione dei test, il comando degli strumenti risulta estremamente semplice e sicuro. Inoltre, l’utilizzo dei nuovis-simiprocessori Motorola Coldfire garantisce un’elevata velocità di analisi.

La maggiore rapidità nella trasmis-sione dei dati si traduce a sua volta in un migliore monitoraggio del comportamento di scorrimento dei sensori .

In aggiunta, rispetto al modello base PP15, il PP20 analizza il valore della conduttività, mentre il PP25 consente anche l’analisi iono-selet-tiva.

Sartorius DocuClip® e Docu-pH Meter

L’uso dei pH-metri rende evidente quanto grande sia la differenza tra la teoria e la pratica. Con i nuovi prodotti DocuClip® e Docu-pHMeter la Sartorius, azienda fornitrice di tecnologie di laboratorio, ha risolto questo problema in modo più che convincente.

Collegato in modo irreversibile all’elettrodo di pH, il DocuClip® memorizza la designazione del tipo e il numero di serie dell’elettrodo corrispondente. Inoltre, essendo

dotato di unamemoria ciclica, il DocuClip® può conservare i dati completi delle ultime cinque cali-brazioni.

Una volta collegato al Docu-pHM-eter, i dati dell’elettrodo memoriz-zati nel DocuClip® vengono tras-feriti al Docu-pHMeter per l’analisi e la registrazione delle misurazioni. I dati di calibrazione aggiornati vengono scritti nella memoria del DocuClip’s® e qui associati in modo irreversibile all’elettrodo corrispond-ente.

Oltre al tipo e al numero di serie individuale, vengono memorizzati i dati completi della calibrazione iniziale: pH, mV, temperatura, pen-denza e il punto zero dell’elettrodo, nonché l’ora e la data al termine della calibrazione.

UMIDIFICATORE NEBLER

Umidificatore ad ultrasuoni, a basso consumo (40w per il modello ad 1 membrana, 105w per quello a 3), ideale per le zone dedicate alla germinazione / taleaggio o più in generale per ricreare un’ambiente sufficentemente umido alla crescita vigorosa delle piante, soprattutto in fase vegetativa quando il tasso di umidità non dovrebbe essere inferi-ore al 60%.

Funziona con un trasformatore da 12V, incluso nella confezione.Dotato di sensore per lo spegni-mento automatico il Nebler come dice la parola stessa crea una finis-sima nebbia di vapore, generata in un qualsiasi contenitore riempito d’acqua, ha una portata di 0,25 litri / ora per il modello ad una mem-brana, 1,2 litri / ora per quello a 3.

LUXMETRO DIGITALE LM631 METERMAN

Facile da usare, portatile, compatto, questo luxmetro digitale è pensato per essere usato in maniera intui-tiva con una sola mano, fornendo una misurazione veloce, affidabile e chiara.

Costruito per entrare in dotazione al personale addetto ai controlli dell’illuminazione negli ambienti di

lavoro, è raccomandato a chiunque desideri uno strumento resistente, pratico e di alta qualità.

Esegue un’ampia gamma di misure della luce, fino a 20.000 fc o lux, selezionabili sul panello anteriore. Strumento molto preciso ad alta risoluzione pari a 0,01 fc/lux è do-tato di calotta del sensore con cavo di 115 cm di lunghezza per un facile orientamento.

Allineato alla curva dello spettro CIE per avvicinarlo alla risposta dell’occhio umano, mantiene in me-moria i valori più alti registrati. Ha un ampio display a 3-1/2 cifre con retroilluminazione ed è conforme alla certificazione di sicurezza CE EN61326-1.

L’uscita è analogica mV per la regis-trazione delle misure, la custodia in dotazione ha un design ergonomico realizzata in plastica Valox per una presa più comoda e sicura.

Il vano batterie dotato di sportello per una facile e rapida sostituzione. Corredato di borsa per il trasporto, protezione per lenti, quattro batterie AAA installate e manuale.

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