Convegno SISP - 2016 Pannel: “Domande e metodi. L ... · 3 N. Bobbio, Teoria generale della...

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1 Convegno SISP - 2016 Pannel: “Domande e metodi. L’approccio filosofico alla politica” Filosofia pratica e genealogia. Il problema dell’ordine politico in una prospettiva transdisciplinare di Rosanna Castorina 1. I rapporti tra filosofia e scienza politica Tra i primi in Italia ad affrontare il tema dei possibili rapporti tra filosofia e scienza in relazione alle tematiche politiche, Norberto Bobbio compare tra i relatori di un famoso convegno che si tenne a Bari nel 1970 1 dedicato all’analisi dello statuto teorico e metodologico della filosofia politica. In tale occasione, adottando un approccio di tipo analitico, lo studioso cercò di indagare la problematica dei confini disciplinari, che venivano tratteggiati da una parte con lo scopo esplicito di fornire una o più definizioni possibili delle caratteristiche teorico-metodologiche della filosofia politica e dall’altra, seguendo un procedimento comparativo, facendo emergere le ‘differenze’ rispetto altri campi del sapere considerati affini (filosofia del diritto, teoria politica). Il dibattito scientifico non ignorò la necessità di confrontarsi con quella che venne definita la natura ‘ibrida’ di questa disciplina che intende indagare i ‘fatti’ politici da una prospettiva teorico - filosofica. La necessità di attribuire una specificità epistemologica alla filosofia politica discendeva dalla domanda relativa alla natura dell’indagine filosofica e al modo d'intendere l’‘oggetto’ di studio politico. Da ciò la comparazione con la scienza politica. Secondo Bobbio la scienza politica si occupa di indagare i fatti con la metodologia delle scienze empiriche, adottando come criterio fondamentale il principio di verificazione, avendo come scopo la descrizione e/o la spiegazione dei ‘fatti’ politici e assumendo il principio etico dell’avalutatività. La filosofia politica, al contrario, non presenta alcun criterio di verificazione, ha un carattere prescrittivo e normativo e non adotta, ne vuole adottare, come principio etico l’avalutatività, in quanto fa spesso riferimento ad universi valoriali e utopie politiche. L’oggetto della prima è la realtà come si presenta all’osservazione e alla descrizione, la 1 Gli atti del convegno sono contenuti in A.A.V.V., Tradizione e novità della filosofia politica, Laterza, Bari 1971.

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Convegno SISP - 2016

Pannel: “Domande e metodi. L’approccio filosofico alla politica”

Filosofia pratica e genealogia.

Il problema dell’ordine politico in una prospettiva transdisciplinare

di Rosanna Castorina

1. I rapporti tra filosofia e scienza politica

Tra i primi in Italia ad affrontare il tema dei possibili rapporti tra filosofia e scienza in relazione alle

tematiche politiche, Norberto Bobbio compare tra i relatori di un famoso convegno che si tenne a Bari nel

19701 dedicato all’analisi dello statuto teorico e metodologico della filosofia politica. In tale occasione,

adottando un approccio di tipo analitico, lo studioso cercò di indagare la problematica dei confini

disciplinari, che venivano tratteggiati da una parte con lo scopo esplicito di fornire una o più definizioni

possibili delle caratteristiche teorico-metodologiche della filosofia politica e dall’altra, seguendo un

procedimento comparativo, facendo emergere le ‘differenze’ rispetto altri campi del sapere considerati affini

(filosofia del diritto, teoria politica). Il dibattito scientifico non ignorò la necessità di confrontarsi con quella

che venne definita la natura ‘ibrida’ di questa disciplina che intende indagare i ‘fatti’ politici da una

prospettiva teorico - filosofica. La necessità di attribuire una specificità epistemologica alla filosofia politica

discendeva dalla domanda relativa alla natura dell’indagine filosofica e al modo d'intendere l’‘oggetto’ di

studio politico. Da ciò la comparazione con la scienza politica.

Secondo Bobbio la scienza politica si occupa di indagare i fatti con la metodologia delle scienze empiriche,

adottando come criterio fondamentale il principio di verificazione, avendo come scopo la descrizione e/o la

spiegazione dei ‘fatti’ politici e assumendo il principio etico dell’avalutatività. La filosofia politica, al

contrario, non presenta alcun criterio di verificazione, ha un carattere prescrittivo e normativo e non adotta,

ne vuole adottare, come principio etico l’avalutatività, in quanto fa spesso riferimento ad universi valoriali e

utopie politiche. L’oggetto della prima è la realtà come si presenta all’osservazione e alla descrizione, la

1 Gli atti del convegno sono contenuti in A.A.V.V., Tradizione e novità della filosofia politica, Laterza, Bari 1971.

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politica quale è; l’oggetto della seconda è di natura prescrittiva e prende in considerazione il dover essere,

indaga la politica come dovrebbe o potrebbe essere2.

Quanto appena detto deve può articolato più approfonditamente alla luce di una quadruplice definizione di

filosofia politica che Bobbio propone già nella prima metà degli anni Settanta, attraverso la mappatura dei

diversi orientamenti filosofico – politici esistenti, con il preciso scopo di restituire la complessità della

questione epistemologica e metodologica dei rapporti tra le due discipline3.

I quattro significati che può assumere la filosofia politica sono:

1. descrizione, progettazione, teorizzazione dell’ottima repubblica, cioè costruzione di un modello ideale,

fondato su postulati etici ultimi che devono essere realizzati .

2. Ricerca del fondamento ultimo del potere che permette di rispondere alla domanda: «a chi devo obbedire e

perché?»4. È il problema della natura e della funzione dell’obbligazione e della legittimazione dell’ordine

politico.

3. Determinazione del concetto generale di politica, come attività autonoma che ha delle caratteristiche

peculiari che la distinguono dall’etica e dall’economia, dal diritto e dalla religione.

4. Discorso critico sui presupposti e sulle condizioni di verità, sulla pretesa oggettività o avalutatività della

scienza politica. In questa accezione la filosofia politica è definita come una meta-scienza, uno studio della

politica di secondo grado, una sorta di metodologia della scienza politica intesa come metodo indiretto della

critica e legittimazione dei procedimenti con cui è condotta la ricerca di primo livello. Rientra in questo

orientamento della filosofia analitica la risoluzione della filosofia nell’analisi del linguaggio politico.

Bobbio ritiene che i rapporti tra scienza politica e filosofia politica si configurino in maniera diversa in base

alla scelta teorica adottata. Con riferimento alla prima definizione i rapporti tra filosofia politica e scienza

politica sono di separazione e divergenza in quanto il problema dell’ottima repubblica o dell’ottimo stato

presuppone un orientamento normativo, valoriale e persino utopico. A tal proposito Bobbio sottolinea che

nonostante filosofia e scienza politica si ripropongano ambedue di ripensare il presente in relazione al futuro,

la filosofia politica lo fa invocando l’immaginazione, la visione utopica che progetta nei termini di un dover

essere eticamente connotato o di un possibile altrimenti; la scienza politica, invece, definisce e spiega ciò che

è o sarà in senso naturalistico, per mezzo di previsioni scientificamente fondate. Nell’utopia politica il futuro

può essere altrimenti, in quanto ciò che ‘deve’ essere in senso morale può anche non essere; al contrario,

nell’utopia scientifica prevale il determinismo: ciò che ‘deve’ essere si verificherà necessariamente se la

previsione scientifica è esatta, nonostante porti con sé un esito non auspicato o desiderato. In questa prima 2 N. Bobbio, Scienza politica in Dizionario politico, Utet, Torino, 1983, II edizione riv. 3 N. Bobbio, Teoria generale della politica, a cura di M. Bovaro, Einaudi, Torino 2009. 4 Ivi, p. 9.

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accezione, esemplificata dall’Utopia di Tommaso Moro, il discorso sul giusto governo è inteso come utopia

politica possibile, da perseguire anche al di fuori dalla reale opportunità politica e richiede l’esercizio

dell’immaginazione5.

Nella seconda accezione filosofia politica e scienza politica rimangono separati e divergono in quanto, la

ricerca del criterio di legittimazione dell’obbligo politico non ha come suo elemento centrale la spiegazione

ma la giustificazione, cioè l’operazione che qualifica come moralmente giusto o ingiusto, lecito o illecito un

determinato ordine politico attraverso il richiamo a regole e valori socialmente stabiliti e condivisi. Tale

separazione però non è così netta come nella prima definizione, in quanto in questo caso il problema

filosofico presuppone la descrizione dei fenomeni ‘reali’. La ricerca dei criteri di legittimità non deve e non

può prescindere dallo studio realistico del potere e viceversa. Bobbio cita come esempio di questo secondo

filone di studi il realismo politico di Thomas Hobbes. Bisogna tuttavia sottolineare che il problema della

determinazione del criterio di legittimazione politica rimane un oggetto di studio profondamente differente

rispetto alla descrizione dei criteri di legittimazione possibili e ciò contribuisce a mantenere divaricati i

percorsi teorico-metodologici delle due discipline.

Nel terzo caso si assiste, invece, ad una vera e propria integrazione reciproca tra filosofia e scienza politica in

quanto nella determinazione della categoria di politica, così come nella descrizione dei suoi elementi

costitutivi, i confini tra i due campi divengono molto sfumati. Non si dà ricerca in scienza politica che non si

ponga il problema del concetto di politica e della delimitazione del campo d’indagine rispetto ad altre

discipline. Ma, allo stesso tempo, non si può pensare ad una speculazione filosofica sul concetto di politica

che non tenga conto dei dati raccolti e dei fenomeni che prende ad oggetto. Infatti, non vi è analisi dei

fenomeni politici che non parta da una teoria generale del potere, la quale a sua volta deve essere verificata

in termini empirici. In questo caso Bobbio sottolinea che le differenze tra filosofia e scienza politica non

sono più di natura qualitativa ma quantitativa. Ma anche questa proposta di convergenza presenta un

problema che sembra allontanare ancora una volta le due discipline: la ricerca della natura politica può essere

intesa sia, in termini machiavelliani, come determinazione del concetto generale di politica sia come ricerca

del fondamento politico. La prima accezione indica una convergenza, la seconda la esclude in quanto

presuppone la determinazione dell’essenza politica, intesa come ‘ciò che sta sotto’, che ne costituisce il

fondamento e che come tale si sottrae ad ogni possibile verifica empirica. Definire la natura della politica

significa, in altre parole, non solo tracciarne i confini e rilevare le differenze ma anche andare alle radici,

cercare di comprenderne il fondamento.

Infine la quarta definizione presuppone un discorso epistemologico e metodologico o di analisi linguistica

che fa della filosofia politica una meta-scienza della politica, cioè un discorso critico sui presupposti

metodologici ed epistemologici della scienza politica, essendo intesa come «il discorso sul discorso dello

scienziato»6. Non si tratta dello studio diretto dei fatti empirici ma dell’approfondimento dei criteri di

legittimazione e dei procedimenti adottati nella ricerca empirica. In questa accezione non solo la 5 Un interessante approfondimento di questa tematica si ha in P. Russo, Scienza politica e filosofia politica: una riflessione sui metodi, in F. Sciacca (a cura di), Filosofia politica. Metodi e categorie, Bonanno, Acireale-Roma 2016. 6 Bobbio, Teoria generale della politica, cit., p. 9.

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convergenza è massima ma si può dire che la filosofia politica è intesa epistemologicamente come filosofia

della scienza e analiticamente come filosofia del linguaggio.

Se nelle prime due definizioni spicca l’elemento differenziale che pone l’attitudine descrittivo - esplicativa

della scienza politica agli antipodi della vocazione prescrittivo – normativa della filosofia politica, nella terza

e soprattutto nell’ultima accezione la filosofia politica converge con la scienza politica. Tale dicotomia

tuttavia non va intesa in senso assoluto. Michelangelo Bovaro sottolinea la necessità di non interpretare in

termini riduttivi la teoria generale della politica di Bobbio, che deve essere più correttamente inquadrata

come una riflessione in grado di abbracciare le quattro accezioni della filosofia politica ed i loro differenti

orientamenti teorico-metodologici, ossia «un meta-linguaggio descrittivo il cui linguaggio-oggetto è in buona

parte un linguaggio prescrittivo»7. Pertanto anche se la teoria di Bobbio sembrerebbe risolvere la filosofia

politica nella quarta definizione, facendone una sorta di metodologia della scienza politica, l’analisi

concettuale non si risolve interamente nell’analisi del linguaggio8. Il suo oggetto tende a coprire l’intero

orizzonte dell’esperienza politica, affrontando il preliminare problema della delimitazione del proprio spazio

d’indagine (individuazione dei confini della disciplina) e focalizzandosi sullo studio dei problemi politici

sollevati nelle altre tre accezioni.

Mantenendo, come teoria non normativa, lo scopo eminente della chiarificazione concettuale, la teoria

generale sottopone ad analisi e ricostruisce i significati descrittivi delle nozioni (e dei giudizi) di valore

che vengono impiegati da parte delle teorie normative (ma anche da parte dei movimenti politici reali),

nell’elaborazione di argomenti per la giustificazione di azioni e istituzioni politiche, e nella costruzione di

modelli prescrittivi di buona convivenza9

Nonostante questa importante precisazione, si ha comunque la sensazione che la riflessione bobbiana da una

parte escluda la possibilità di tracciare un percorso di comunicazione interdisciplinare tra filosofia politica e

scienza politica e dall’altra, in termini paradossalmente opposti, ne individui la convergenza, risolvendo però

l’autonomia disciplinare della filosofia politica nella definizione dei principi epistemologico - linguistici

della scienza politica.

Dal punto di vista della teoria generale di Bobbio, la filosofia politica o smarrisce la propria “scientificità”

nella vocazione prescrittivo – normativa che la contraddistingue e che la oppone irrimediabilmente alla realtà

dei ‘fatti’ oppure diviene metodologia della scienza politica e finisce per smarrire la propria specifica identità

teorica ed epistemologica. Da una parte i fatti dall’altra i valori. Ma nel linguaggio mediatizzato e

burocratizzato della politica odierna questa presunta non scientificità della filosofia politica rischia di

7 M. Bovaro, Introduzione in Bobbio, Teoria generale della politica, cit., p. XXII. 8 L. Cedroni, Analisi del linguaggio come filosofia politica in L. Cedroni, M. Calloni (a cura di), Filosofia politica contemporanea, Mondadori, Milano 2012. 9 M. Bovaro, Introduzione in Bobbio, Teoria generale della politica, cit., p. XXI.

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scivolare in una sostanziale dichiarazione d’impotenza e potrebbe indirettamente prestarsi ad un’operazione

di marginalizzazione a vantaggio di approcci più pragmatici o descrittivi.

A questo discorso è opportuno quindi opporre una riflessione che evidenzi e motivi le caratteristiche

peculiari e l’apporto conoscitivo della filosofia politica nell’analisi dei ‘fatti’ politici, intesi sia come eventi

empirici sia come dimensioni connotate da valori e regole, dinamiche soggette al cambiamento e influenzate

da variabili spesso imponderabili. A tal proposito Roberto Gatti sottolinea che la filosofia politica, avendo

come oggetto la ricerca relativa alla natura delle cose politiche e dell’ordine politico, non si limita a “capire

descrivendo”, né solo “comprendere” ma cerca di ricostruire il significato culturale relativamente all’epoca

presa in esame 10 . Ciò presuppone un’attenzione all’aspetto ermeneutico, «cioè alla comprensione-

interpretazione del nucleo di senso profondo, così come delle origini, degli obbiettivi, delle componenti

simboliche che caratterizzano ogni evento e ogni testo o documento politico»11. Questo aspetto si affianca

alla componente normativa, cui ho già fatto riferimento. Essa introduce un orientamento sovrastorico che

determina un’ineliminabile tensione costitutiva della filosofia politica, la quale è «l’esercizio del pensare

posto in atto da un essere finito, limitato, collocato nel tempo, che però tende per sua natura ad interrogarsi

su una verità (…) che si pone al di là di tali determinazioni»12. Il duplice intento normativo ed ermeneutico

non esaurisce secondo Gatti lo statuto della filosofia politica in quanto tali aspetti vanno integrati con una

determinazione metafisica, tanto importante quanto ignorata nel dibattito pubblico relativo allo statuto

epistemologico della disciplina. Senza un presupposto metafisico infatti sia la componente ermeneutica che

quella normativa resterebbero prive di una spiegazione ultima dal punto di vista teoretico13.

Dopo aver preso in considerazione i punti di vista delle due discipline vorrei però sottolineare che la

complessità della realtà politica che ci troviamo ad analizzare richiede di adottare un approccio che,

salvaguardando la specificità teorico-metodologica di ogni campo, ponga allo stesso tempo in dialogo tra

loro i saperi che si occupano di studiare la politica. La transdisciplinarità è la strada migliore per cercare di

comprendere la complessità alla luce dello specifico apporto scientifico che ciascuna disciplina può fornire.

In questo contributo proporrò due approcci filosofico – politici che hanno l’indubbio vantaggio di fornire

delle chiavi di lettura transdisciplinari in grado di unire la vocazione empirico-descrittiva della scienza

politica e quella prescrittiva della filosofia politica, giovandosi di una metodologia per così dire “ibrida”,

sospesa tra vocazione normativa ed esigenza ‘pratica’ e fortemente orientata in termini storicistici. Si tratta

da una parte della metodologia aristotelica fatta propria e riproposta in termini originali dalla filosofia di

riabilitazione della prassi di Hannah Arendt e dall’altra della metodologia archeologico/genealogica adottata

da Michel Foucault partendo dall’eredità nietzschiana.

10 R. Gatti, Filosofia politica. Gli autori, i concetti, i problemi, Editrice La Scuola, Brescia 2011. 11Ivi, p. 14. 12 Ibidem 13 Non affronterò questo interessante aspetto nel presente contributo, rimandando a P. Russo, Scienza politica e filosofia politica: una riflessione sui metodi, in F. Sciacca (a cura di), Filosofia politica. Metodi e categorie, cit.

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2. H. Arendt: riabilitazione della filosofia pratica

La cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica (Rehabiliterung der Praktischen Philosophie) si è

sviluppata nel pensiero filosofico tedesco ad opera di autori quali Perelman, Arendt, Rawls e Habermas14.

Tale termine si riferisce nello specifico alla cosiddetta “riabilitazione” di due filoni del pensiero che erano

stati a lungo marginalizzati dal dibattito filosofico degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, fortemente

influenzato dal marxismo e dallo storicismo. Si tratta del filone neo-kantiano e del filone neo-aristotelico,

riproposto tra gli altri da Perelman e Arendt. Quest’ultima propone di impiegare la filosofia pratica come

strumento critico-teorico e metodologico per analizzare e cercare di ridiscutere le principali caratteristiche

della sfera politica moderna, il problema della coercizione, la contrazione degli spazi decisionali e di

espressione, le derive autoritarie o totalitarie, la burocratizzazione degli apparati amministrativi, il prevale

dell’agire strumentale sulla possibilità di discussione e di mediazione, la compenetrazione tra politica ed

economia, lo scarso interesse rivolto alla cosa pubblica rispetto agli interessi privati. Da questo punto di vista

l’essenza della politica risiede nella possibilità di riscoprire e valorizzare una specifica prassi che ha come

fine la possibilità di creare il più ampio spazio di discussione e di comunicazione tra i cittadini, una politica

che ponga in primo piano la collettività intesa come comunità fondata sul discorso, sulla libertà di ogni

cittadino di partecipare e influenzare i processi decisionali.

In The human contition Arendt propone, attraverso l’analisi del concetto aristotelico di prassi e del modello

greco classico di politia15, una critica della modernità che evidenzi le componenti intrinsecamente politiche

dell’azione umana non condizionata, «quelle generali capacità umane che nascono dalla condizione umana e

che sono permanenti, che cioè non possono andare irreparabilmente perdute finché la stessa condizione

umana non sia cambiata»16. Il concetto di azione è fondato sull’idea di pluralità, in quanto l’agire nella sua

forma pura mette in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione delle cose materiali. Questa pluralità per

Arendt è la condizione specifica di ogni vita politica. Vivere significa essere tra gli uomini, inter-agire con

essi sulla base del presupposto dell’uguaglianza che è possibile solo a partire dalle differenze individuali.

Inoltre la vita activa, a differenza della vita contemplativa, richiede l’esercizio della saggezza (phrónesis)

che rispetto alla sapienza, posseduta dall’uomo di scienza, ha come oggetto principale ciò che muta, ciò che

cambia continuamente. Arendt ribalta la gerarchia aristotelica delle virtù dianoetiche che presuppone la

superiorità della vita contemplativa su quella activa. Mentre la contemplazione implica l’isolamento

dell’oggetto di scienza, la saggezza conduce ad interagire con gli uomini in base al presupposto pratico, che

diventa quindi criterio di azione politica e sociale. Di conseguenza nella prospettiva arendtiana la vita activa

non deve essere subordinata alla vita contemplativa ma deve essere posta sullo stesso piano. E ciò soprattutto

perché la saggezza, a differenza della scienza che studia ciò che è necessario e immutabile, è una virtù che

14 R. Gatti, Filosofia politica. Gli autori, i concetti, i problemi, cit. 15 Aristotele, Politica, trad. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1993. 16 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Torino 1997, p. 6.

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consente di guardare al molteplice, di agire su ciò che è in divenire, di concepire la molteplicità in relazione

all’unità, obiettivo che, come detto, rappresenta l’essenza stessa della politia nell’ottica aristotelica17.

Arendt sottolinea inoltre che la via pratica conserva il concetto pre-cristiano di immortalità (poi sostituito dal

concetto di eternità nella filosofia cristiana), estendendolo anche all’uomo, essere per eccellenza mortale. La

vita activa, intesa come opera delle mani ma soprattutto come agire politico, proietta la condizione di

finitudine dell’uomo nell’orizzonte dell’immortalità perché conserva il mondo, agisce sulle cose esterne

imprimendo l’impronta dell’intervento umano. Questo aspetto che distingue gli uomini dagli animali e,

nell’orizzonte antropologico, il lavoro dall’opera delle mani e dall’azione, costituisce anche il discrimine tra

ciò che vive in funzione della necessità naturale e che si dissolve in essa e ciò che opera per conservare ed

estendere la presenza umana. Il carattere perituro dell’operare umano non deve però essere concepito come

un qualcosa di statico (come avviene nell’accezione di eternità con cui la filosofia cristiana decreta la

superiorità della contemplazione rispetto all’azione). L’immortalità garantita dall’operare umano coesiste

con il divenire del mondo e con la molteplicità dei fini che gli uomini perseguono.

Nel libro VI dell’Etica Nicomachea Aristotele indica la saggezza - distinta dalla scienza, dalla sapienza e

dall’intelletto - come la capacità di deliberare intorno al non necessario e come «la disposizione pratica vera

accompagnata da ragionamento, avente per oggetto le cose buone e le cose cattive per l’uomo»18. Essa

consente di trovare il giusto mezzo in termini etici, ma anche di mediare tra gli interessi e le opinioni in

campo nell’arena pubblica. Dal sapere fronetico scaturisce un modello di convivenza inteso come ordine non

statico, non immutabile ma dinamico. Sia l’argomentazione a favore della partecipazione politica sia le tesi

sulla superiorità del governo retto dalle leggi migliori rispetto al governo retto dall’uomo migliore (presenti

nel Politico) esprimono il profondo nesso aristotelico tra politica ed etica. Secondo Arendt tale nesso è

determinato dalla prevalenza, nelle questioni politiche, della ragione pratica rispetto a quella teoretica.

La forza dirompente di questo punto di vista intende restituire centralità alla condizione umana non come

spazio del ripiegamento nel privato ma al contrario come dimensione intrinsecamente etica. Ma nel pensiero

arendtiano questo aspetto diviene anche punto di articolazione della critica nei confronti della filosofia

politica moderna. Contro una visione economicista e funzional-pragmatica che interpreta l’azione (anche e

soprattutto politica) in una prospettiva strumentale connessa ai costi e ai benefici individuali, la riabilitazione

della prassi rappresenta un orientamento che restituisce all’azione e alla persona che la compie un valore

etico ed intrinsecamente politico. Agire significa sia prendere parte al discorso collettivo, staccandosi dalla

necessità materiale, sia decidere, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni.

Esiste una compenetrazione tra azione e decisione, tra condizione politica e dimensione etica. Questa

connessione può essere garantita solo nell’azione politica che si svolge nello spazio della polis, nel dibattito

collettivo. Al contrario il lavoro e l’opera rappresentano rispettivamente le dimensioni in cui la necessità

materiale e la strumentalità umana trattengono l’individuo in una situazione di “privatezza”, lo privano della

17 Aristotele, Politica, cit. 18 Aristotele, Etica Nicomachea, trad. di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999, Libro VI - 1142b, p. 231.

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componente più elevata ed importante: l’azione libera da condizionamenti, mossa dalla capacità di decidere

eticamente.

La polis si distingueva dalla sfera domestica in quanto si basava sull’uguaglianza di tutti i cittadini,

mentre la vita famigliare era il centro della più rigida disuguaglianza. Essere liberi significava sia non

essere soggetti alla necessità della vita o al comando di un altro sia non essere in situazione di comando.

Significava non governare né essere governati19.

È importante sin da subito sottolineare che questa impostazione non intende né opporre una visione utopica

ed idealizzata della democrazia diretta classica al grigiore burocratico o al malgoverno degli stati moderni né

negare le inevitabili contraddizioni che sorgono dal richiamo ad un’inclusività fondata sulla condizione di

“uomo libero”. Nella visione inclusiva della classicità greca esistevano degli esclusi: gli schiavi che

rappresentavano l’alterità interna alla polis e i barbari che erano l’alterità esterna e mostruosa, i popoli del

tutto privi di civiltà, che balbettano (i barbaroi).

Ritengo che Arendt, portando avanti il punto di vista della riabilitazione della prassi sulla base del modello

della polis greca, non voglia e non possa disconoscere il problema che sta a fondamento dell’allargamento o

del restringimento dei confini di qualsiasi comunità che voglia darsi un’identità politica: le dinamiche di

inclusione/esclusione presuppongono una componente violenta, più o meno legittimata socialmente. I

meccanismi di costruzione identitaria presuppongono, anche nelle prospettive più inclusive e democratiche,

una componente di violenza politica che costituisce il nocciolo duro ed il cuore del politico20. Per questa

ragione la filosofa sottolinea che il concetto di eguaglianza presente nella polis greca ha poco in comune con

il concetto di eguaglianza come la intendiamo oggi: «presupponeva (…) che si vivesse con i propri pari, che

si avesse a che fare solo con essi, e che esistessero degli ‘ineguali’ che, di fatto, erano sempre la maggioranza

della popolazione di una città-stato»21. Per questo, continua Arendt, in età classica l’eguaglianza non era

connessa con la giustizia come in epoca moderna ma era «la vera essenza della libertà: essere liberi voleva

dire essere liberi dalla disuguaglianza connessa a ogni tipo di dominio e muoversi in una sfera dove non si

doveva né governare né essere governati»22.

Ma le differenze con l’antichità non finiscono qui. Lo scarto nel quale questa distanza di prospettiva si

inserisce è anche quello tra una visione classica nella quale la sfera pubblica era nettamente separata dalla

sfera privata e la modernità nella quale pubblico e privato convergono nella cosiddetta “società civile”. Le

principali teorie politiche moderne sottolineano infatti il grande scollamento che si è determinato intorno alla

seconda metà del XVII secolo con il sorgere della società civile, intesa come estensione dell’oikia, della

comunità domestica, e delle attività oikonomiche (in senso lato, non solo economiche ma connesse alle

necessità vitali, come la sopravvivenza materiale o il lavoro) alla sfera pubblica. A questo prolungamento del 19 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, cit., p. 24. 20 Per approfondire questo argomento si veda L. Alfieri, C.M. Bellei, D.S. Scalzo, Figure e simboli dell’ordine violento. Percorsi fra antropologia e filosofia politica, Giappichelli, Torino 2003. 21 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, cit., p. 24. 22 Ibidem

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privato nel pubblico fa da contraltare un ripiegamento del pubblico nel privato, una riduzione della

partecipazione, uno spostamento dell’agire politico dallo spazio pubblico a quello privato e un isolamento

tecnico-istituzionale dell’apparato burocratico rispetto allo spazio sociale degli interressi collettivi23. Tale

compenetrazione pubblico-privato produce anche uno slittamento teorico e semantico del concetto di azione

che assume significati strumentali, perdendo la carica politica, sociale ed etica che la caratterizzava nel

pensiero classico. Il ribaltamento della prassi in azione strumentale influisce sulla condizione umana, la priva

della sua intrinseca libertà e la espone alle dinamiche di dominio e di obbedienza.

Per capire questo aspetto bisogna seguire il percorso teorico arendtiano dalle prime opere fino alla maturità.

Ritengo che il discorso della riabilitazione della prassi presente in The human condition possa essere

pienamente compreso solo riconsiderandolo alla luce degli scritti successivi sul totalitarismo e la tematica

della banalità del male 24 . La storia del Novecento ci ha drammaticamente mostrato che la riduzione

dell’azione umana a mera esecuzione strumentale di un nesso mezzi-fini ha condotto la condizione umana

verso la de-umanizzazione, ha dissociato l’umanità dalla capacità di essere responsabile di se stessa. Forme

estreme di totalitarismo possono scaturire da una degenerazione della società di massa e per questo il

nazismo e lo stalinismo non possono essere considerati come delle esperienze storico-politiche archiviate.

Per scongiurare questo pericolo è necessario quindi riconsiderare il valore stesso dell’agire politico come

suprema attività umana, come dimensione essenziale della libertà dell’agire in opposizione agli idoli e al

conformismo della società di massa. Vita activa deve essere letta all’interno di questo percorso critico. Come

sottolinea Alessandro Dal Lago nella Prefazione all’edizione italiana del 199725, Vita activa non fu ben

accolta dalla critica degli anni Sessanta e Settanta perché contrapponeva al ‘discorso’ prevalente delle

principali correnti ideologiche del periodo (come il marxismo e lo storicismo che esaltavano il primato degli

interessi, la sanità del lavoro, l’importanza dello stato-macchina) il richiamo ad una lettura della prassi in

chiave neo-aristotelica. Questo punto di vista cominciò ad essere apprezzato solo negli anni Ottanta quando

la teoria libertaria dell’azione cominciò ad essere criticamente opposta alle tendenze conformistiche della

società di massa. Si tratta, dunque, di una critica alla limitata concezione democratica della società di massa

più che della modernità in senso lato.

Tale critica che pone in primo piano la riattualizzazione della filosofia pratica può essere proficuamente

proposta come innovativo punto di vista metodologico per approcciare il problema della conoscenza dei fatti

politici in una prospettiva transdisciplinare che rappresenti una via intermedia tra filosofia e scienza. Ciò

esclude da una parte la dimensione metafisica e dall’altra il rigore epistemologico tipico delle scienze dure.

In termini aristotelici potremmo dire che la conoscenza pratica, soprattutto quella improntata alla saggezza

23 R. Castorina, Infinitamente finiti. Antropologia oikonomica e bioeconomia a partire da Foucault, Aras Edizioni, Fano2013. 24 Si veda H. Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. di A. Guadagnin, Einaudi, Torino 2004 e H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. di P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 2003. 25 A. Dal Lago, La città perduta in H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, cit.

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che orienta l’uomo nelle scelte relative al vivere in comune, può essere intesa come spazio di un possibile

incontro transdisciplinare tra filosofia politica e scienza politica.

Propongo di analizzare questo incontro proprio a partire dalla chiave di lettura della dialogicità e dalla

relazionalità che costituiscono dei presupposti imprescindibili di ogni possibile discorso sulla politica.

Ritengo che il punto di vista pratico medi tra opposte esigenze, consentendo allo stesso tempo di mantenere

centrale il riferimento al valore normativo e alla variabilità del mondo umano. Non bisogna infatti

sottovalutare il problema epistemologico che è alla base della distinzione tra scienze dure e scienze umane:

la questione dell’intenzionalità, della variabilità, dell’imprevedibilità del comportamento umano. La

caratteristica costitutivamente contingente e fluida dall’ “oggetto uomo” non può essere messa in secondo

piano. Per questo motivo il punto di vista della prassi può introdurre un orizzonte di senso a partire dal quale

poter studiare oggetti di interesse comune delle due discipline (come l’importante questione della costruzione

dell’ordine politico).

Per fare ciò bisogna tornare ad Aristotele, introducendo una differenza che, seppur non evidente

nell’interpretazione arendtiana, è molto rilevante dal punto di vista metodologico. Nel già citato libro VI

dell’Etica Nicomachea Aristotele opera una distinzione teorico-metodologica tra filosofia pratica e

phronesis 26 . La parte razionale dell’anima (la ragione) comprende sia una parte detta “scientifica”

(epistemonikon) che ha per oggetto le realtà che non possono essere diversamente sia una parte detta

“calcolatrice” (logistikon) che fa riferimento a ciò che può essere diversamente. La prima è rivolta alla

conoscenza delle cose necessarie, la seconda delle cose contingenti. Nella prima rientrano le scienze

teoretiche (matematica, fisica, metafisica) ma anche quelle pratiche che hanno degli oggetti

epistemologicamente comparabili alle prime. Nella seconda categoria rientrano, invece, tutte le attività che

dipendono dalla “deliberazione” umana.

Entrambe le parti dell’anima razionale hanno come fine la “verità” ma con una differenza: la parte scientifica

mira alla verità pura e semplice, quella deliberativa (detta anche calcolatrice) ha come obiettivo il

raggiungimento della verità pratica, cioè quella che si accorda con il desiderio retto. In quest’ultima l’azione

è mossa dalla scelta la quale deriva dall’incontro tra il desiderio di raggiungere un fine e il calcolo dei mezzi

necessari. La verità pratica si raggiunge quando il fine è buono e i mezzi sono adeguati. Entrambe le parti

dell’anima razionale mirano al raggiungimento della virtù (virtù dianoetiche). Le virtù della parte scientifica

sono: la scienza (all’interno della quale rientra anche la filosofia pratica), l’intelligenza e la sapienza. Anche

la phronesis è una virtù ma è collocabile nella parte calcolatrice dell’anima razionale. Come detto essa è la

capacità di deliberare bene, cioè di scegliere i mezzi necessari per raggiungere il fine buono. Essa non è una

scienza perché si occupa delle cose contingenti, che mutano. Al contrario la filosofia pratica, essendo una

virtù dianoetica, si riferisce pur sempre al necessario. Quest’ultima si occupa di ciò che è universale mentre

la prima è caratterizzata dalla variabilità dei mezzi e dei fini.

26 Aristotele, Etica Nicomachea, cit.

11

L’ambito nel quale filosofia pratica e phronesis trovano una corrispondenza più netta è la politica, poiché il

fine ultimo di quest’ultima è una vita buona, vissuta in vista del vivere bene e non del mero sopravvivere27.

A questo fine che muove universalmente l’azione politica si affiancano i fini particolari dei cittadini che solo

nella dimensione dell’agone politico e nello spazio della polis possono trovare una conciliazione e una

sintesi. Roberto Gatti propone di considerare il procedimento topico-dialettico aristotelico come metodologia

specifica della filosofia politica. Esso consiste nel confronto tra le opinioni a partire da quelle più accreditate

e si sviluppa attraverso il dialogo pubblico, il cui fine è far prevalere l’opinione razionalmente più forte

eliminando sul piano argomentativo quelle più deboli.

Si tratta di un metodo ritagliato sulla particolarità dell’oggetto esaminato, cioè l’azione, la quale, in

quanto espressione dell’umana capacità di deliberare, cioè di scegliere, e in quanto sempre storicamente

condizionata, non si presta a essere studiata con lo stesso metodo della scienza, che si occupa del

necessario e dell’incontrovertibile. Richiede invece il ricorso alla «saggezza», che è rivolta alle cose che

possono essere diversamente da come sono28.

Studiare l’agire politico significa in questa prospettiva prendere in considerazione l’attore politico come

soggetto inserito in un contesto plurale, caratterizzato dall’incontro-scontro degli interessi in gioco. L’attore

politico è un soggetto dotato di intenzionalità, la cui azione, orientata alla mediazione ma anche alla critica,

deve sempre presupporre l’esistenza di dinamiche di costruzione e rottura dell’equilibrio politico e sociale e

non la staticità del contesto. La mutevolezza della condizione umana influisce sull’interpretazione delle

dinamiche politiche e sociali, cosa che molto spesso tende ad essere messa in secondo piano in nome di un

approccio rigidamente comportamentista o economicista.

Nella filosofia aristotelica un altro terreno di incontro tra filosofia pratica e saggezza è l’etica. Come la

filosofia pratica deve presupporre un certo dominio delle passioni per potersi esercitare, così la phronesis

necessita della temperanza (sophrosyne) che indirizza la saggezza verso il giusto mezzo. Essa però non può

né deve mai essere perfezione morale poiché la saggezza o la conoscenza pratica possono discendere

entrambe anche dall’errore.

La sintesi più interessante di filosofia pratica e saggezza si ha nel cosiddetto sillogismo pratico, che unisce

l’universale e il particolare. La phronesis richiede una certa esperienza, la quale è conoscenza dei particolari.

Allo stesso tempo la filosofia pratica pone la premessa iniziale che costituisce la prima parte del sillogismo,

dando le direttive generali al caso particolare che è presente nella seconda parte del sillogismo, come di

seguito esemplificato:

27 Aristotele, Politica, cit. 28 R. Gatti, Filosofia politica. Gli autori, i concetti, i problemi, cit., p. 16.

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1. Tutte le carni leggere sono sane (premessa universale)

2. Le carni di uccello sono leggere (premessa particolare)

3. Mangiare carni di uccello fa bene alla salute (azione conclusiva basata sulla scelta)

Tale sillogismo può essere definito pratico perché conduce all’azione e in questo contesto la saggezza è una

dimensione fondamentale perché l’azione è fatta sempre da un individuo. Ma la premessa di questo

sillogismo rappresenta anche il fine, cioè il bene supremo che fonda il principio pratico. Esso presuppone la

virtù, la phronesis, che deve invece indicare il giusto mezzo (premessa minore del sillogismo). In tale

contesto la deliberazione resa possibile dalla saggezza riguarda i mezzi. Il fine universale non è soggetto a

deliberazione e non è mutevole. Tuttavia sia la premessa maggiore che quella minore, sia la conoscenza

derivante dalla filosofia pratica che quella derivante dalla saggezza, sono inestricabilmente legate tra loro

proprio perché concorrono a realizzare un agire pratico in vista di un fine universale. La phronesis infatti è

prescrittiva mentre la filosofia politica mira alla conoscenza della verità. Si può dire che metodologicamente

ci troviamo di fronte ad una forma di razionalità che può essere al contempo normativa e pratica, cosa che,

come detto, rappresenta un’anomalia dal punto di vista dell’orientamento analitico e realista.

In molti settori della scienza politica hanno prevalso in passato approcci che hanno analizzato il

comportamento dell’attore politico (ad esempio il comportamento elettorale) come espressione di una

razionalità strumentale che presuppone la ricerca dei giusti mezzi per raggiungere i fini. L’approccio

filosofico aristotelico propone, invece, di considerare l’azione come guidata da una razionalità di tipo pratico

che spezza il nesso strumentale tra mezzi e fini e introduce l’orizzonte plurale (conflittuale e/o consensuale)

della relazione fondata sul discorso, sulla dialogicità, sull’incontro e sulla possibile mediazione dei punti di

vista. Ciò ripropone una visione più partecipativa, più coinvolgente, più democratica di azione politica, una

visione che può essere individuata tanto come strumento metodologico che come orizzonte teorico di senso

in vista di un’innovativa analisi del rapporto politica-società civile.

Infatti questo approccio mantiene una forte valenza normativa, indicando cosa la politica deve essere e come

deve operare per garantire la felicità (principale fine etico, prima ancora che politico per Aristotele), per

stabilire un ordine equo, per favorire la partecipazione e la mediazione degli interessi in un’ottica

democratica. La filosofia pratica mantiene un punto di vista valoriale e riesce a conciliarlo con una

prospettiva “pratica” che riesca ad andare al di là del puro realismo analitico, ponendosi il problema non solo

di inquadrare l’obiettivo minimo ma anche di definire un orientamento normativo che vada al di là di quella

che Bobbio definì “la rozza materia”29.

Quest’ultimo, criticando le concezioni teleologiche che definiscono la politica non in base ai mezzi ma al

fine, accoglie la nota distinzione weberiana tra giudizi di valore e giudizi di fatto30 (o anche tra etica della

29 Bobbio, Teoria generale della politica, cit. 30 M. Weber, Economia e società, trad. di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Milano 1995.

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convinzione ed etica della responsabilità)31. Mentre il primo tipo di giudizio è orientato normativamente in

base ad un sistema di valori che muovono e giustificano l’azione, i giudizi di fatto mettono in campo un’idea

di razionalità puramente formale, che si basa sulla coerenza strumentale mezzi-fini. L’etica della

responsabilità che si genera da quest’ultima forma di razionalità impone di rispondere alle conseguenze

strumentali e formali (prevedibili) delle proprie azioni. In base al criterio della razionalità strumentale si

agisce bene se si utilizzano i mezzi corretti in relazione ai fini che ci si pone.

L’approccio teorico-metodologico di Bobbio che invoca il realismo di derivazione weberiana adotta la

chiave di lettura di una razionalità che non può che essere formale e strumentale, escludendo a priori la

possibilità che l’azione politica possa essere mossa da giudizi legittimati da un sistema di valori.

Il potere legale può dirsi razionale non in quanto tenda alla realizzazione di certi valori (etici o utilitari)

piuttosto che di altri, ma in quanto viene esercitato in conformità di norme generali e astratte che da un

lato, da parte del funzionario, escludono l’azione arbitraria e come tale irrazionale, e dall’altro, da parte

del cittadino, permettono la prevedibilità dell’azione, e quindi la calcolabilità in base al nesso mezzi-fini,

che caratterizza appunto ogni azione razionale secondo lo scopo32

La razionalità rispetto allo scopo e i giudizi di fatto sono alla base dei meccanismi di funzionamento degli

apparati burocratici, dove il potere deve essere distribuito razionalmente al fine di essere quanto più

“economico” e produttivo possibile, necessitando di quelle regole “minime” che consentono di ridurre

l’incertezza e la variabilità dell’agire umano. La differenza tra agire razionale rispetto allo scopo e agire

razionale rispetto al valore giustifica dal punto di vista teorico la distinzione dei criteri di attribuzione del

potere in legittimi (derivanti da un potere legittimo e quindi da un’autorità che incarna ed esprime un

determinato orizzonte valoriale) e legali (derivati dalla corrispondenza formale tra legge ed obbligazione

derivante).

Dal punto di vista metodologico tale riflessione spinge a guardare all’oggetto politico da due prospettive

profondamente differenti. Da una parte il procedimento seguito da Bobbio sulla scorta della riflessione

sociologica di Weber conduce al realismo, che, come detto, non può ammettere altro che l’eterogeneità dei

mezzi e dei fini (ad esclusione dell’obiettivo minimo del mantenimento dell’ordine politico). Sul piano

opposto l’adesione acritica ad una visione che sgombra del tutto il campo dai “fatti” e che aderisce solo al

punto di vista dei valori crea una pericolosa sovrapposizione tra etica e politica, tale per cui ogni giudizio

politico viene automaticamente riflesso in un punto di vista normativo che, in assenza di pluralismo, rischia

di proporsi come assoluto. Il normativismo deve sempre conciliarsi con i presupposti di una società aperta e

democratica nella quale l’accordo e la mediazione scaturiscano dalla libera partecipazione di tutti all’agone

politico. In questo contesto la filosofia pratica si propone come possibile terreno d’incontro tra filosofia e

31 M. Weber, La politica come professione in M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, trad. di H. Grunhoff, P. Rossi, F. Tuccari, Einaudi, Torino 2004. 32N. Bobbio, Teoria generale della politica, cit., p. 93.

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scienza della politica e può contribuire ad affrontare da una prospettiva teorico-metodologica convergente

problematiche comuni, come quella dell’ordine politico.

3. Foucault: archeologia e genealogia

Molte sono le analogie che possono essere rilevate accostando il pensiero di Hannah Arendt e di Michel

Foucault. Dal punto di vista delle problematiche affrontate si potrebbero citare i macro problemi del potere e

del consenso, l’analisi delle categorie politiche moderne (come la sovranità), la critica ai processi di

razionalizzazione dei saperi, l’analisi dell’ascesa e degli sviluppi della società di massa, la riscoperta del

mondo classico come spunto critico per rileggere le dinamiche politiche contemporanee e ridiscutere il ruolo

del soggetto della conoscenza. Questo paragrafo non intende approfondire questi macro-problemi ma vuole

essere uno spunto di riflessione sull’apporto che l’archeologia e la genealogia possono fornire al discorso sul

metodo delle scienze sociali (e quindi anche della ricerca di un possibile punto d’incontro tra filosofia

politica e scienza politica), che vada ad aggiungere un tassello al discorso finora condotto sulla scorta della

riflessione di Arendt. Il contributo di Michel Foucault oscilla tra la storia delle idee e la filosofia politica,

introducendo l’orizzonte temporale nel discorso epistemologico relativo agli sviluppi delle forme di sapere e

di potere (che non possono mai essere dissociate tra loro). In questo contesto analizzerò archeologia e

genealogia come un unico metodo che ha scandito diverse fasi della riflessione del filosofo francese. Ciò con

l’intento di proporre un punto di vista che, nonostante le profonde differenze, possa approfondire il nesso

necessità-contingenza emerso nella filosofia di riabilitazione della prassi. In particolare il metodo

foucaultiano sarà utilizzato per approfondire il versante “normativo” del nesso metodologico sopra

analizzato, evidenziandone la natura storicamente e geograficamente “costruita” e non per questo mettendo

in discussione l’importanza epistemologica di una filosofia politica che abbia un forte orientamento ai valori

e che possa più proficuamente dialogare con le altre scienze sociali e politiche.

Ci sono tre presupposti epistemologici che il metodo foucaultiano cerca di mettere in discussione nella sua

riflessione sulla natura della conoscenza nelle scienze sociali. In primo luogo le scienze sociali

presuppongono l’esistenza di un “mondo esterno” che devono spiegare o comprendere. Il secondo aspetto

riguarda l’assenza di una volontà di spiegare la natura stessa dei presupposti epistemologici interni alle

discipline. Il terzo fa riferimento alla tendenza a spiegare i fenomeni non familiari riconducendoli a quelli

familiari. Foucault cerca di mettere in discussione questi presupposti in quanto la sua ricostruzione non è

volta a descrivere il mondo esterno ma a scavare nelle ragioni interne della formazione e dello sviluppo di un

determinato sapere. Inoltre la ricerca di Foucault segue un movimento inverso: dal familiare all’inconsueto.

Più precisamente, anziché cercare le analogie con il familiare per spiegare il non familiare, il suo lavoro di

ricostruzione archeologica e genealogica mira a far emergere la “distanza”, mettendo a nudo ciò che

all’interno di un determinato sapere fino a quel momento era dato per scontato33.

33 P. Baert, F.Carreira da Silva, La teoria sociale contemporanea, trad. di R. Falcioni, Il Mulino, Bologna 2010.

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Queste caratteristiche scaturiscono dal duplice influsso che lo strutturalismo (soprattutto della Scuola delle

Annales) e gli storici della scienza come Bachelard e Canguilhelm hanno avuto sul pensiero di Foucault. Lo

strutturalismo esprime una concezione stratificata della realtà che attribuisce uno statuto di “realtà” non solo

ai fenomeni osservati ma anche alle strutture sottese che generano e causano i fenomeni. Gli storici della

Scuola delle Annales sono contrari all’approccio braudeliano che parla di storia in termini evenemenziali. Al

contrario, la ricerca storica strutturalista si concentra sulla longue durée, cioè su strutture relativamente

stabili, inconsce e vincolanti che sottendono lunghi periodi di tempo. Foucault trae da questo approccio la

tendenza a studiare le strutture latenti che si sono mantenute ed evolute per lunghi archi temporali. Fa ciò,

per esempio, quando analizza i discorsi sulla follia e sulla sanità mentale, quando ricostruisce la nascita e lo

sviluppo delle istituzioni totali, ecc.

Dagli storici della scienza invece il filosofo francese trae il concetto di discontinuità o rottura. Bachelard e

Canguilhelm, infatti, si oppongono alla concezione continua della storia, sottolineando, in continuità con

l’analisi delle fratture esistenti tra specie ed organismi nel mondo naturale, che il tempo storico è una

costruzione umana e che esso può essere suddiviso in periodi ed ambiti.

Dunque nel metodo archeologico di Foucault convergono ambedue le tradizioni in quanto da una parte si va

alla ricerca delle strutture sottese che agiscono al di sotto degli eventi umani e sono relativamente stabili nel

tempo; dall’altra si individuano le trasformazioni radicali che introducono delle rotture nella continuità

storica, segnalando la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra.

In tal modo si può spiegare - rispondendo alla prima critica mossa alla metodologia delle scienze sociali -

come il metodo foucaultiano segua il movimento che va dal familiare all’inconsueto, mettendo in discussione

in termini critici le verità storiche legittimate in ogni epoca, facendo emergere l’inquietante e non scontata

consapevolezza che il presente non è sempre stato così, che certi concetti o pratiche in uso oggi non sono

universali e stabili come siamo portati a credere. Si tratta di un importante esercizio di decentramento. In

secondo luogo, grazie al confronto con il passato, emerge il presente con le proprie contraddizioni ed emerge

soprattutto il carattere “costruito” e al contempo latente delle nostre concezioni epistemologiche o

ontologiche. Infine diviene evidente che l’approccio metodologico foucaultiano apporta una critica radicale

al realismo scientifico. Mentre questo cerca di dare un senso ai fenomeni non familiari ricorrendo ad

analogie con i fenomeni familiari, il metodo di Foucault si muove in senso inverso, mirando a spiegare

“l’estraneo familiare” (il presente dato per scontato). In questo senso alcuni studiosi hanno parlato

dell’approccio foucaultiano come una storia critica dell’esperienza, «un’esperienza (…) che da un lato muta

con il mutare delle epoche e quindi è storicamente determinata, ma che, dall’altro, ha la facoltà di

determinare i saperi, i poteri e i comportamenti che caratterizzano un certo ambito socio-culturale»34

Ne L’usage des plaisirs Foucault dichiara di voler studiare la sessualità come esperienza e specifica che con

questo termine deve essere intesa una correlazione tra campi del sapere, tipi di normatività e forme di

soggettività35. Non si tratta di esperienza come dato grezzo ma di “giochi di verità” e pratiche sociali

34 R. Ariano, Foucault e la storia critica del pensiero in Giornale Critico di Storia delle Idee – 8/2012, p. 29 35 M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, trad. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 2006.

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attraverso cui l’essere si costruisce come soggetto/oggetto di ciò che può e deve essere pensato. Ma ciò

equivale anche a dire che l’esperienza non ha valore costituente ma costituito.

Ritornando all’eredità dello strutturalismo possiamo dire che a costituire l’esperienza è ciò che ne Les mots

et les choses il filosofo definisce episteme, cioè delle griglie semiologiche che determinano in ogni epoca

storica l’ordine delle cose e le condizioni di possibilità di ogni sapere teorico e pratico36. Ma per fugare i

dubbi e le critiche che gli vennero mosse dopo la pubblicazione della suddetta opera in merito al carattere

universale e unitario dell’episteme (assimilabile ad una sorta di Weltanschauung) Foucault specificò ne

L’archéologie du savoir che l’episteme è un insieme di relazioni che in una data epoca si possono stabilire

tra saperi analizzati sul piano delle regolarità discorsive37.

Ciò che sottostà alla formazione di una specifica manifestazione epistemica sono le pratiche discorsive:

enunciati, formazioni discorsive e regole di formazione. Tali procedure non investono il discorso

dall’esterno, una volta che esso si sia formato autonomamente (es. meccanismi dell’interdetto o della

censura) ma dall’interno, organizzando le modalità stesse della sua produzione. La produzione del discorsi,

quindi, avviene per mezzo di determinate regole di formazione degli enunciati che, a loro volta, danno vita a

regolarità discorsive. Queste prescrivono le modalità di produzione degli oggetti e di qualificazione dei

soggetti del discorso, definendo le pratiche di soggettivazione e di oggettivazione che fanno emergere gli

oggetti e i soggetti legittimati a dire o a rappresentare il “vero” all’interno di uno specifico ordine del

discorso. Dal punto di vista dell’indagine archeologica gli oggetti non preesistono al sapere ma, al contrario,

si formano nel sapere e vengono prodotti dalle pratiche sociali che ne costituiscono la condizione

d’esistenza. Allo stesso modo i soggetti d’enunciazione non rappresentano una pura istanza fondatrice di

razionalità ma sottostanno alle condizioni di produzione degli enunciati che emergono dalla pratica

discorsiva. Le regole discorsive sono spesso inconsce (non in senso psicanalitico) e vengono applicate

inconsapevolmente dai soggetti e per questo Foucault ha ipotizzato che possano emergere da procedure

ordinate che caratterizzano l’agire pratico. Le pratiche discorsive infatti sono definite come «un insieme di

regole anonime, storiche, sempre determinate nel tempo e nello spazio che hanno definito in una data epoca e

per una data area sociale, economica, geografica o linguistica, le condizioni di esercizio della funzione

enunciativa»38. Inoltre, le formazioni discorsive sono anonime nel senso che sono prive di un autore o di un

soggetto e attribuiscono un ruolo marginale alle grandi individualità, privilegiando la storia materiale. Il

metodo archeologico si caratterizza, infatti, per l’attenzione riservata ai “saperi sepolti” e l’allontanamento

dalla “storia dei vertici”.

Addentrandoci nelle opere foucaultiane da Histoire de la folie à âge classique 39 a Les mots et les choses40

fino agli ultimi Corsi al Collège de France41 emerge la volontà del filosofo francese d’impostare la ricerca su

36 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, trad. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1999. 37 M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, trad. di G. Bogliolo, BUR, Milano 2006. 38 Ivi, pp. 157-158. 39 M. Foucault, Storia della follia in età classica, trad. di F. Ferrucci, RCS LIBRI, Milano 1992.

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quelli che definisce come “saperi non legittimati dalla storia”. Seguendo la metafora archeologica, in ogni

epoca ci sono stati dei dispositivi di potere-sapere che hanno prevalso sugli altri, seppellendo le micro-storie

quotidiane, il sapere comune della gente e la vita stessa degli uomini ‘infami’42, coloro che sono stati

sommersi e dimenticati dalla storia ufficiale. In ogni epoca esiste pertanto un certo ordine del discorso che

decreta cosa è storia ufficiale e cosa è destinato all’oblio o alla polvere degli archivi e delle biblioteche. In

questo senso l’archeologia si propone di disseppellire il sapere dimenticato, facendo emergere le

contraddizioni dei saperi de-qualificati, rompendo l’omogeneità del punto di vista storico-epistemologico,

lasciando in secondo piano il racconto delle grandi personalità storiche e filosofiche e guardando alla storia

materiale, considerando i cambiamenti economici, demografici e sociali connessi ai processi di

urbanizzazione o di industrializzazione, come avviene ad esempio in Surveiller et punir43.

Quest’opera, edita nel 1975, è considerata come uno spartiacque tra il periodo archeologico e quello

genealogico. Ritengo che sia improprio parlare di archeologia e genealogia come due momenti nettamente

separati del pensiero di Foucault. Se è vero che a partire da questa data il filosofo francese appare influenzato

in maniera considerevole dal pensiero nietzschiano, ciò non significa che nel periodo cosiddetto archeologico

non lo fosse e si disinteressasse della problematica del potere. Al contrario, ritengo che l’analisi dei rapporti

di potere sia strettamente connessa a quella dei dispositivi di sapere, che potere e sapere rappresentino il

medesimo soggetto-oggetto di analisi. La genealogia, riprendendo la terminologia nietzschiana, si incardina

nell’orizzonte archeologico proprio perché ha come presupposto la critica di quelle pratiche discorsive e di

quelle regole di formazione degli enunciati che rappresentano, nel loro consolidarsi in sistemi epistemici

organizzati, specifiche configurazioni di potere. In questo senso la genealogia traspone la critica archeologica

nell’orizzonte di un’analitica del potere che si occupa di studiare i rapporti e le dinamiche di

soggettivazione/oggettivazione, di dominio e sottomissione a partire da un punto di vista microfisico e

decentrato.

Dal punto di vista dell’analisi del potere ad una visione unitaria e piramidale Foucault oppone una

prospettiva reticolare e diffusa, ad una definizione repressiva (marxismo) o consociativa (contrattualismo)

una riflessione che fa emergere la complessità ed il pluralismo delle condizioni e delle superfici di

radicamento del potere. Il potere non è puramente repressivo, non viene imposto dall’alto agli individui; al

contrario sono questi ultimi che agiscono moltiplicando microfisicamente gli effetti del potere e operando

sulla base di dinamiche desideranti. Non si tratta di una lettura “negativa” del potere; esso non è

semplicemente un impedimento alla libertà, un ostacolo all’agency. Il potere plasma le cose e gli individui

40 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, cit. 41 Si vedano M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004, M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982 – 1983), trad. it di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano2009 e M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1984), trad. it di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011. 42 M. Foucault, La vita degli uomini infami, trad. di G. Zattoni Nesi, Il Mulino, Bologna 1994. 43 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1993.

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ma proprio per questo la dimensione soggettiva può avere incidenza, può mantenere, a sua volta, un potere di

resistenza. La genealogia si propone di smascherare i rapporti di potere nel corso della storia, di far emergere

ciò che è diventato sistema consolidato di potere, ciò che è stato legittimato da specifici dispositivi politici o

apparati di sapere. Un esempio di come analisi archeologica e genealogica si congiungano e possano

procedere di pari passo mantenendo una forte unità metodologico-teorica è lo studio del dispositivo

governamentale, condotto a partire dal Corso al Collège de France del 197744

La genealogia risale indietro nel tempo per dimostrare che ai concetti vengono attribuiti nuovi significati in

determinati momenti storici di rottura. L’emergere di questi nuovi significati dipende proprio dalle lotte di

potere e dagli eventi contingenti. Essi rappresentano dei nuovi punti di vista che vengono legittimati,

trasmettendosi di generazione in generazione fino ad essere acquisiti stabilmente all’interno di una

determinata cultura e diventare auto evidenti, coerenti e necessari per i soggetti che li assumono. Come detto

con riferimento all’archeologia, anche la genealogia mira a destrutturare l’autoevidenza dei significati

dimostrando che in passato sono esistiti significati differenti. Il punto di vista del genealogista parte dalla

constatazione che i sistemi di credenze, essendo strettamente legati alle lotte di potere, cambiano nel tempo

anche se bisogna sempre ammettere che vecchi e nuovi significati riescano a coesistere insieme.

La genealogia può essere vista come un tentativo, metodologicamente fondato, di rovesciare i rapporti

abituali tra contingenza e necessità nell’indagine storica. Mentre lo storico opera attraverso le spiegazioni

causali e i riferimenti all’origine concepita come essenza nell’ottica di una narrazione continuista e

totalizzante, la genealogia afferma che avremmo potuto essere altrimenti da come siamo, sottolinea che

esistono delle discontinuità, delle soglie e delle vere e proprie fratture nella rappresentazione lineare e

progressiva del tempo storico. La storia delle idee sceglie di muoversi nel senso della ricomposizione delle

discontinuità, la genealogia reintroduce il divenire e attribuisce valore alla molteplicità dei discorsi, dei

dispositivi e delle pratiche di potere/sapere. A tal proposito Foucault attribuisce alla filosofia un nuovo ruolo:

essere lavoro critico del pensiero su se stesso, mostrare la via per poter pensare diversamente45.

La posizione epistemologica di Foucault può essere dunque definita contestualista o costruttivista in quanto

non fa riferimento al rapporto tra un soggetto conoscente e una realtà esterna esistente al di fuori di esso

come un correlato neutrale ed invariabile. La conoscenza non si riduce ad un atto nominale che fa

riferimento ad un realtà indipendente dal soggetto e dal linguaggio ma sottostà ad un insieme di condizioni

restrittive che plasmano specifici regimi di pratiche discorsive e dispositivi di potere. La verità si dà nella

forma della relazione tra enunciati e condizioni storiche d’esercizio della funzione enunciativa. Si tratta di un

44 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), trad. di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005. 45 Potremmo dire che l’archeologia e la genealogia rappresentano il metodo attraverso il quale poter accedere a questa “filosofia critica di noi stessi”, mentre la riflessione teorica sugli effetti del biopotere e sulla trasformazione della condizione soggettiva ne rappresenta il contenuto. La critica foucaultiana, infatti, tocca il soggettivismo cartesiano così come il trascendentalismo kantiano e si orienta verso una genealogia del soggetto riletta alla luce delle tèkhnai tou biou e delle pratiche della cura di sé sviluppate in età classica (greco – ellenistica e romana).

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sistema complesso di relazioni, saperi, istituzioni, processi economici, relazioni sociali, modelli di

comportamento, norme, tecniche, procedure di classificazione, ecc. che si organizzano in dispositivi di

potere/sapere.

Questo aspetto metodologico va di pari passo con una specifica posizione antinaturalista ed antiessenzialista

che, avvicinando le posizioni foucaultiane a quelle di epistemologi come Kuhn e Feyerabend46, mette in

risalto l’incidenza del mutamento storico (e geografico) nella legittimazione dei criteri di verificazione delle

teorie scientifiche. Una riflessione filosofica sulla scienza deve porsi il compito specifico di condurre una

critica delle forme di razionalità attuale al fine di liberare il pensiero dalle costrizioni e portarlo a pensare

diversamente. Ciò non significa che non debba esistere un orientamento normativo che guidi la ricerca e la

conoscenza. L’orientamento ai valori ed il ruolo della filosofia appare rafforzato e non ridotto da una

prospettiva metodologica costruttivista. Essa consente, infatti, di difendere la prospettiva normativa

conciliandola con una visione pluralista. La metodologia storiografica proposta da Foucault rivaluta

l’apporto filosofico alle scienze sociali e politiche proprio perché, senza delegittimare il punto di vista

normativo, sottolinea l’importanza dell’indagine sistematica delle condizioni storiche, culturali, politiche ed

economiche che definiscono le pratiche e i dispositivi di sapere/potere.

4. Come pensare l’ordine politico?

Una delle tematiche che può costituire il terreno d’incontro tra filosofica e scienza politica è il problema

della costruzione dello ‘spazio’ politico, inteso come ‘luogo’ di incontro/scontro tra differenti istituzioni e

attori sociali coinvolti a vario titolo nei processi di decisione e partecipazione ma anche come ‘luogo altro’

dell’immaginazione politica, dell’interrogazione critico-ermeneutica. Da una parte lo spazio politico

definisce i confini di ciò che si può descrivere e spiegare; dall’altro rappresenta il contesto teorico e

immaginativo a partire dal quale si dispiega la possibilità di pensare diversamente la natura e i fondamenti

stessi del vivere comune, il problema del bene politico, della sua determinazione valoriale e i relativi nodi

critici che tale ricerca porta con sé. Ma prendere come punto di riferimento lo spazio politico significa

analizzarne le dinamiche di costruzione e trasformazione.

Propongo pertanto di porre al centro di questa indagine il tema dell’ordine politico, inteso come il risultato di

un insieme di decisioni istituzionali, processi socio-culturali ed economici, prassi comunicativo - relazionali,

teorie normative e visioni utopiche della realtà che definiscono l’identità e i confini dello spazio politico

presente e futuro. Tale definizione è molto estensiva e generica ma è strettamente interconnessa alla

questione della legittimazione e dell’obbligazione, di interesse sia della filosofia che della scienza politica.

46 Per Kuhn e altri epistemologi post-positivisti le rivoluzioni scientifiche rappresentano delle fratture che, interrompendo la continuità del ‘progresso’, comportano una ristrutturazione dei criteri di razionalità. Questi cambiamenti danno vita ad un nuovi paradigmi scientifici. Questo filone è attento alla configurazione storico-concreta del sapere scientifico e dà rilevanza ai condizionamenti extrascientifici ai quali è soggetta la scienza. In particolare vengono a cadere i criteri di verificabilità o falsificabilità in quanto si esclude a priori l’esistenza di una base empirica neutrale. Vi è inoltre la propensione a considerare le teorie non in termini di ‘verità’ bensì di ‘consenso’.

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Come detto, Bobbio poneva questa tematica al centro di una delle quattro definizioni di filosofia politica

delineate nella mappa concettuale proposta nel 1970 e la riconduceva al pensiero di Hobbes, considerato

come colui che si propose «di mostrare la ragione o le ragioni per cui lo stato esiste (ed è bene che esista), e

poiché deve esistere per la salvezza degli uomini, gli dobbiamo obbedienza» 47 . Ma il problema della

costruzione dell’ordine politico è connessa anche ad un altro importante oggetto d’indagine: il problema del

giusto stato o dell’ottima repubblica o del bene politico:

dipende dalla risposta che io do alla domanda sulla natura della politica (se e in quale misura la consideri

dipendente o indipendente dalla morale) la risposta al problema dell’obbligo politico, vale a dire se e in

quale misura io sia tenuto a ubbidire all’ordine ingiusto. Dipende dall’idea che mi faccio della natura

dello stato, dei suoi fini, la risposta che do alla domanda quali sono le istituzioni politiche migliori

(migliori per l’appunto rispetto a quei fini)48.

A partire da tale definizione si possono trarre due considerazioni.

La prima concerne il fatto che il problema del bene politico e la costruzione dell’ordine politico sono

strettamente intrecciati tra loro e non separabili; il secondo aspetto riguarda il fatto che la tematica della

costruzione dell’ordine costringe a problematizzare e a mettere in crisi la dicotomia netta tra realismo e

normativismo, tra dimensione descrittiva e prescrittiva. La definizione dei confini dello spazio politico, la

legittimazione delle istituzioni, degli attori, dei soggetti portatori di interesse, la difesa di una certa visione

identitaria più o meno allargata, più o meno ispirata dai valori della libertà e della giustizia, tosto che

dell’eguaglianza e dell’inclusione sociale, sono tutti aspetti che contribuisco a fare dalla macro-tematica

dell’ordine politico un oggetto di studio al contempo empirico e normativo. Da una parte definisce cosa è lo

spazio politico, su quali attori, istituzioni, visioni della realtà, principi ispirativi si fonda; dall’altro indica

quali valori dovrebbero ispirarlo o potranno ispirarlo in futuro.

Potremmo dire che nella tradizionale dialettica tra mezzi e fini della politica 49 il problema dell’ordine

pubblico si pone come “fine minimo” rispetto al quale tutti gli altri temi come la “giustizia o il bene comune”

sono considerati mezzi (ciò è vero soprattutto nell’ottica realista di Bobbio e nel contesto positivista). Dal

punto di vista realista/positivista la politica può essere definita solo in base ai mezzi in quanto non si danno

47 N. Bobbio, Teoria generale della politica,cit., p.10. 48 Ibidem 49 Tale dialettica è stata indicata da Walter Benjamin come fondante le due opposte visioni positivista e giusnaturalista del potere. Storicamente il dibattito relativo ai mezzi e ai fini si è articolato in due prospettive fondamentali: il diritto naturale e il diritto positivo. Per il diritto naturale - e la teoria giusnaturalistica che da esso deriva - sono importanti i fini. L’impiego di mezzi violenti per fini giusti diviene dimensione morale ed esistenziale dell’essere umano ed è concepito in termini poco problematici in relazione ad una visione che fonda la necessità vitale della politica sulla natura costitutivamente violenta dell’essere umano. Alla tesi giusnaturalista si oppone quella positivista che considera il potere storicamente posto (positum). Il positivismo fonda la critica della violenza a partire dall’attenzione riposta sui mezzi. Questi sono sempre giusti anche se conducono a fini che si rivelano successivamente ingiusti. Ciò significa che chi agisce in vista di un fine lo fa sempre predisponendo dei mezzi che siano considerati legittimi rispetto al fine stesso. In questo caso ciò che conta è la coerenza formale tra mezzi impiegati e fini previsti. Per approfondimenti si veda W. Benjamin, Angelus Novus, trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2006.

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fini ultimi che riescano a comprendere in sé tutti i mezzi, essendo essi variabili nel tempo e nello spazio ed

essendo fondati sulle molteplici e diversificate mete che i gruppi umani si propongono. Tuttavia, nell’ottica

di Bobbio si deve ammettere che esista almeno un fine minimo, l’ordine pubblico, in quanto: «se il fine della

politica […] fosse davvero il potere per il potere, la politica non servirebbe a nulla»50.

È lecito parlare dell’ordine come fine minimo della politica, perché esso è, o dovrebbe essere, il risultato

diretto dell’organizzazione del potere coattivo, perché, in altre parole questo fine (l’ordine) fa tutt’uno

con il mezzo (il monopolio della forza)51.

Quest’ottica realista è adottata anche da alcuni scienziati della politica. Maurizio Cotta e colleghi

sottolineano che nell’ambito delle scienze politiche il problema dell’ordine si pone come fine minimo in

vista del raggiungimento di altri fini. In questa accezione il problema dell’ordine politico è strettamente

legato alla possibilità di prendere decisioni, di scegliere tra alternative diverse che hanno un impatto sulla

collettività. In tal senso «la politica riguarda la gestione della collettività responsabile dell’ordine pacifico»52

e tale significato è costitutivo dell’accezione di politica intesa come polity, ossia come problema della

definizione dell’identità e dei confini della comunità politica53.

Individuato il terreno di un possibile incontro tematico tra le due discipline vorrei sottolineare che l’impiego

del concetto di ordine politico solleva una difficoltà in termini metodologici. Ciò riguarda la sua definizione

come “fine minimo”. Possiamo chiederci se esso soddisfi in pieno la complessità di determinazioni

empiriche e teoriche associabile al concetto stesso di ordine e al suo impiego nella prassi politica. Possiamo

restringere il problema dell’ordine alla definizione di un criterio strumentale che consenta di chiarire cos’è lo

50 N. Bobbio, Teoria generale della politica,cit., p. 110. 51 Ibidem 52 M. Cotta, D. Della Porta, L. Morlino, Scienza politica, Il Mulino, Bologna 2001, p. 29. 53 In scienza politica si è soliti distinguere tra politics (studio del potere, delle istituzioni e degli attori), policies (studio delle politiche pubbliche) e polity (studio dell’identità e dei confini della comunità politica). Pur non potendo distinguere nettamente questi tre aspetti della politica è necessario rilevare che esiste una profonda continuità tematico-metodologica tra scienza politica e filosofia politica con riferimento a due di queste accezioni: la politics, che ricalca l’originario interesse che sta alla base dello studio del potere e dei suoi fondamenti istituzionali e la polity, intesa, appunto, come definizione dei confini del politico. Le policies, invece, riguardano quel variegato campo che comprende programmi d’azione, politiche pubbliche, provvedimenti e interventi che vengono proposti dagli attori politici e decisi nelle sedi politiche. In questa accezione la scienza politica analizza i contenuti, la distribuzione dei costi e dei benefici, il processo decisionale, le modalità di azione degli attori istituzionali coinvolti, i loro rapporti reciproci e il processo di attuazione delle politiche stesse. Questa terza faccia della politica appare, quindi, divergente rispetto alle principali accezioni adottate dalla filosofia politica, soprattutto perché richiede un piano di stretta analisi empirica dei contesti applicativi oltre che di quelli decisionali. Riassumendo, pur essendo strettamente connesse tra di loro, le tre definizioni di politica poste al centro del dibattito sui confini disciplinari della scienza politica si prestano ad una distinzione adottabile a fini euristici e metodologici: la politics e la polity sono al centro della definizione di politica che accomuna filosofia e scienza politica e sono collegate tra loro dalla tematica centrale dell’ordine politico, inteso come “fine minimo”; le policies rappresentano invece quell’insieme di prassi politiche e programmi d’azione che cadono nel campo d’interesse specifico della scienza politica, in quanto richiedono, a differenza dell’approccio filosofico-politico, un’attenzione più spiccata alla dimensione descrittivo-esplicativa, empirica ed attuativa.

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spazio politico e quali sono le dinamiche che in esso si svolgono ma che non è in grado di dirci come

vorremmo che l’ordine politico fosse?

Avanzo l’ipotesi che la definizione di un criterio minimo associato al problema dell’ordine politico finisca

per escludere per definizione (cioè nel suo essere appunto “minimo”) un possibile orizzonte valoriale,

chiudendo le visioni politiche alternative intorno ad un concetto rigido di ordine. Si potrebbe ribattere a

questa argomentazione che l’individuazione di un orizzonte teleologico presuppone già una certa visione

normativa, una normatività che sarebbe adottata come criterio “minimo” di definizione della politica: il fine

minimo è pur sempre un fine ed esso non può che essere ispirato ad una visione valoriale specifica.

Il problema è che le prospettive finora citate, la filosofia politica realista di Bobbio e l’approccio empirista

della scienza politica, accettano tale apertura normativa solo al fine d’individuare un criterio ordinativo che

consenta di legittimare stabilmente una realtà “di fatto”. Come sottolinea Bovaro nella prospettiva realista il

problema morale della legittimità del fine si pone perché «il fine dell’azione politica non può essere (non è

lecito che sia) semplicemente il potere per il potere»54. Quando il potere di fatto è privo di un pur minimo

principio di legittimazione l’azione appare ingiustificata. Ma affermare ciò significa subordinare il problema

della legittimazione a quello dell’effettività, ponendolo strumentalmente. Il risultato è che l’attribuzione di

una definizione “minima” al fine (ordine politico) serve a giustificare l’effettività del potere ed il suo essere

privo di uno scopo ulteriore. La legittimità diviene orizzonte strumentale in vista di una giustificazione del

potere effettuale.

Argomenterò questo punto a partire da un esempio. Prendiamo in considerazione una delle principali

tematiche presenti nel dibattito politico nazionale ed europeo: la difesa dei confini degli stati e le politiche

migratorie55 . Si può sostenere che il problema dell’ordine politico chiami in causa in primo luogo la

definizione dell’identità e dell’alterità: chi siamo noi che ci riconosciamo in uno specifico ordine (a sua volta

declinabile in base a vari principi normativi come l’identità nazionale, linguistica, culturale, religiosa, ecc) e

chi sono loro, gli ‘altri’, gli stranieri o i nemici (ultimamente purtroppo queste due categorie tendono a

coincidere). Per definire lo spazio politico bisogna, in altre parole, legittimare una specifica visione

identitaria che ponga nei confini lo spartiacque tra ciò che fa parte del ‘noi’ e ciò che fa parte del ‘loro’.

Identità, alterità e confini. Ma non basta. Sulla definizione di questi tre soggetti/oggetti si articolano a loro

volta le politiche e si definiscono gli attori e le istituzioni responsabili. L’ordine politico è prima di tutto

definizione dello spazio politico ed in secondo luogo definizione di una visione politica, di un modo di

concepire la politica e di operare politicamente56. La stessa distinzione tra migrante economico e richiedente

asilo presuppone una definizione normativa che viene assunta e legittimata politicamente dalle istituzioni

54 M. Bovaro, Introduzione in Bobbio, Teoria generale della politica, cit., p. XXXIX. 55 Per approfondimenti sulla nuova natura dei flussi migratori verso l’Europa si veda Limes. Rivista italiana di Geopolitica, Chi bussa alla nostra porta, 6/2015. 56 Per approfondire questo argomento si veda R. Escobar, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna 1997.

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europee e italiane per predisporre meccanismi di difesa, di pattugliamento dei confini e d’identificazione dei

migranti che assicuri il respingimento di quanti non rientrano nei parametri stabiliti.

Ora, prendendo questo esempio e sviluppando il nodo critico proposto possiamo dire che se l’obiettivo della

politica è il mantenimento dell’ordine e se tale obiettivo è minimo, cioè sufficiente a definire la natura della

politica ed i criteri dell’obbligazione politica (la legittimazione di uno specifico ordine politico da parte dei

cittadini) non vi è spazio per quanti si sforzino di sostenere e di proporre un punto di vista diverso,

preoccupandosi di criticare la visione politica attuale e proponendone una alternativa. In altre parole il

problema del bene politico pur essendo, come sostiene Bobbio, strettamente connesso a quello

dell’obbligazione politica può essere messo in secondo piano da un approccio che, in nome del realismo e

dell’adesione ad una prospettiva empirista, riduce il complesso problema della costruzione dell’ordine

politico al problema del mantenimento dello status quo, in nome della stabilità dei confini e della difesa di

una presunta identità.

I due approcci filosofico-politici analizzati in questo contributo, la filosofia di riabilitazione della prassi di

Arendt e la genealogia di Foucault, possono a mio parere contribuire a superare l’ostacolo di una definizione

“minima” di ordine politico. Possono rovesciare l’approccio strumentale al problema della costruzione

dell’ordine politico mostrando che è possibile esprimere un orientamento filosofico che mantenga i piedi ben

saldi nel “fatto” politico ma che pensi ed agisca “normativamente”. Il concetto di ordine politico deve, cioè,

configurarsi come lo spazio di un pensare e di un agire politico in senso non strumentale.

La filosofia di riabilitazione della prassi ci mostra come la condizione umana sia direttamente investita di

questo compito fondamentale, che inerisce anche e soprattutto la dimensione etica e la capacità di creare uno

spazio relazionale d’azione e di dialogo nell’arena politica. La metodologia genealogica invece mette in

guardia dal cadere nell’eccesso opposto: concepire il normativismo sulla base di un unico e rigido orizzonte

di valori. L’apporto della riflessione storico-archeologica all’analisi dei processi di costruzione del potere-

sapere è in questo senso determinante per comprendere che l’ordine politico, le regole, le istituzioni, gli

attori, le dinamiche socio-economiche che lo definiscono si modificano nel tempo e che quindi non serve

barricarsi dietro imperativi universali, rivendicando il ritorno a mai esistite condizioni di purezza identitaria.

La filosofia e la scienza politica potrebbero incontrarsi sul terreno non scontato del pensiero critico,

potrebbero proporsi come dei saperi in grado di pensare altrimenti, come direbbe Foucault57.

Credo che oggi sia necessario rivendicare la transdisciplinarità come strumento utile per comprendere la

complessità derivante dall’accelerazione delle dinamiche di trasformazione sociale ed economica. Le

discipline che studiano la politica non sono megafoni del discorso mediatico o, nella migliore delle ipotesi,

del discorso legittimato dalle istituzioni politiche più autorevoli. Lo studioso di politica deve guardare ai fatti

in una prospettiva pratica, attraverso una ricerca che abbia una profondità storico-sociale, che parta dal

57 M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo? In M. Foucault, Archivio Foucault 3 (1978-1985). Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, trad. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano 1998.

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presente per mettere in discussione l’ovvio, per scardinare i preconcetti, per esprimere il punto di vista meno

scontato. In una società in cui chiunque si professa esperto di politica o legittimato a parlare in nome di una

parte di essa prevale, a dispetto delle differenze ideologiche, un’uniformità di pensiero che ha dei tratti allo

stesso tempo “banali”ed “estremi” in termini arendtiani58.

La tematica dell’ordine politico (che porta con sé la difesa dei confini e la definizione dello spazio

identitario) è profondamente influenzata da tale uniformità di vedute e da tale assenza di pensiero. Ciò è

testimoniato dal fatto che la visione prevalente, e di conseguenza le misure che vengono adottate in termini

istituzionali e normativi, sono spesso legittimati da “eventi”,“fatti di cronaca”, “reazioni emotive” che si

determinano a caldo. Facendo riferimento allo spazio politico europeo si rileva l’assenza di una specifica ed

organica politica in materia di immigrazione e di accoglienza dei richiedenti asilo. E con ciò non faccio

riferimento esclusivamente all’assenza di una normativa unitaria tra i paesi membri. Mi riferisco soprattutto

all’assenza di una prospettiva, di un orizzonte valoriale, di una visione del mondo e dell’altro. Molte

decisioni infatti si giustificano ormai in base all’emergenza e alla reazione emotiva.

Questa assenza di riflessione politica e di orientamento normativo non tocca solo i decisori politici (ormai

definiti tecnici) ma anche gli scienziati e i filosofi della politica o in generale tutti coloro che sono chiamati a

“riflettere” sulle dinamiche politiche. Poche voci si levano per lamentare tale assenza di orientamento e di

riflessione, molte, invece, si alzano per mettere in guardia da possibili pericoli. Le chiavi di lettura

maggiormente adottate anche dalla comunità scientifica sono: emergenza, paura, gestione economica

(ripartizione dei fondi e delle quote per l’accoglienza), invasione, ecc. tutte tematiche che rivelano la natura

strumentale o addirittura emotivo/emergenziale delle risposte messe in campo. Se nel linguaggio

giornalistico i flussi migratori sono considerati come delle calamità naturali, degli eventi imprevisti e non

completamente governabili o dei numeri spendibili per far girare denaro, gli intellettuali e gli scienziati

devono essere capaci di sollevare la voce e porre il problema etico – normativo. Come pensiamo l’ordine

politico attuale? Quale visione politica abbiamo della società futura? Come concepiamo noi stessi e gli altri?

Cosa sono i confini politici oggi? Chi è l’altro che bussa alla nostra porta? Perché viene e quali strumenti

posso mettere in campo per accoglierlo?

Una prospettiva transdisciplinare potrà fornire delle risposte a questi e ad altri quesiti se si tradurrà in

un’importante lavoro preliminare di riflessione in vista dell’assunzione di decisioni politiche. Ciò

sottrarrebbe il dibattito istituzionale al monopolio della decisione tecnica e aprirebbe i palazzi del potere ad

una discussione libera e veramente democratica. D’altronde, come dice Foucault, potere e sapere sono

strettamente intrecciati tra loro e la responsabilità d’indirizzare le politiche è estesa anche a chi si occupa a

vari livelli di “pensare” il potere e le sue molteplici configurazioni.

58 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, cit.

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