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Convegno annuale della Associazione Gruppo di Pisa Siena 8-9 giugno 2007 I principi generali del processo comune e i loro adattamenti alle esperienze della giustizia costituzionaleVersione provvisoria e preliminare della relazione Il diritto al processo e l’atto di promovimento del giudizio Pietro Milazzo 1. Premessa - 2. Atti d’impulso e “diritto processuale comune” - 2.1 Ruolo dell’atto introduttivo nella determinazione del thema decidendum nel giudizi comuni, fra processi di tipo dispositivo e processi di diritto obiettivo - 2.2 Il contributo dell’atto di impulso processuale alla determinazione del thema decidendum nella giurisprudenza comune - 3. Principi processuali comuni, “diritto al processo” e thema decidendum nelle esperienze di giustizia costituzionale - 3.1 Nel giudizio in via incidentale - 3.2 Nel giudizio in via d’azione - 3.3 Nei conflitti di attribuzione (cenni) - 4. Brevissime osservazioni su “diritto al processo”, atto di promovimento ed interesse ad agire - 5. Qualche conclusione 1. Premessa Come anticipato dal Presidente dell’Associazione nella sua introduzione, questo incontro si propone una riflessione sugli adattamenti dei principi processuali generali alle diverse esperienze della giustizia costituzionale, anche nell’ottica di apportare elementi di riflessione sulle discussa configurabilità di tali esperienze come “processi” 1 . Sullo sfondo, permane l’ancora più complessa questione – alla prima collegata – della collocazione della Corte costituzionale nel quadro dei poteri dello stato (della “forma di governo”, comunque la si intenda), e della lettura dei suoi poteri alla luce di tale collocazione 2 . 1 È ben nota, e non può essere qui richiamata se non per inciso, la proposta ricostruttiva basata sulla distinzione fra processo e procedura a suo tempo formulata, fra gli altri da G. Zagrebelsky, Diritto processuale costituzionale?, in Giudizio “a quo” e promovimento del processo costituzionale. Atti del seminario svoltosi in Roma Palazzo della Consulta nei giorni 13 e 14 novembre 1989, Milano, 1990, 105 e ss. 2 Per considerazioni delle funzioni della Corte basate sulla collocazione della stessa nel quadro dei poteri dello stato, cfr. C. Mezzanotte, Processo costituzionale e forma di governo, in Giudizio “a quo” e promovimento del processo costituzionale, cit., 63 e ss.

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Convegno annuale della Associazione Gruppo di Pisa Siena 8-9 giugno 2007

“I principi generali del processo comune

e i loro adattamenti alle esperienze della giustizia costituzionale”

Versione provvisoria e preliminare della relazione

Il diritto al processo e l’atto di promovimento del giudizio

Pietro Milazzo 1. Premessa - 2. Atti d’impulso e “diritto processuale comune” - 2.1 Ruolo dell’atto introduttivo nella determinazione del thema decidendum nel giudizi comuni, fra processi di tipo dispositivo e processi di diritto obiettivo - 2.2 Il contributo dell’atto di impulso processuale alla determinazione del thema decidendum nella giurisprudenza comune - 3. Principi processuali comuni, “diritto al processo” e thema decidendum nelle esperienze di giustizia costituzionale - 3.1 Nel giudizio in via incidentale - 3.2 Nel giudizio in via d’azione - 3.3 Nei conflitti di attribuzione (cenni) - 4. Brevissime osservazioni su “diritto al processo”, atto di promovimento ed interesse ad agire - 5. Qualche conclusione

1. Premessa

Come anticipato dal Presidente dell’Associazione nella sua introduzione, questo incontro si propone una riflessione sugli adattamenti dei principi processuali generali alle diverse esperienze della giustizia costituzionale, anche nell’ottica di apportare elementi di riflessione sulle discussa configurabilità di tali esperienze come “processi”1. Sullo sfondo, permane l’ancora più complessa questione – alla prima collegata – della collocazione della Corte costituzionale nel quadro dei poteri dello stato (della “forma di governo”, comunque la si intenda), e della lettura dei suoi poteri alla luce di tale collocazione2.

1 È ben nota, e non può essere qui richiamata se non per inciso, la proposta ricostruttiva basata sulla distinzione fra processo e procedura a suo tempo formulata, fra gli altri da G. Zagrebelsky, Diritto processuale costituzionale?, in Giudizio “a quo” e promovimento del processo costituzionale. Atti del seminario svoltosi in Roma Palazzo della Consulta nei giorni 13 e 14 novembre 1989, Milano, 1990, 105 e ss. 2 Per considerazioni delle funzioni della Corte basate sulla collocazione della stessa nel quadro dei poteri dello stato, cfr. C. Mezzanotte, Processo costituzionale e forma di governo, in Giudizio “a quo” e promovimento del processo costituzionale, cit., 63 e ss.

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Nel quadro dello sviluppo della esperienza italiana di giustizia costituzionale, una riflessione su questi binari è sempre apparsa necessaria, ma risulta sempre più indispensabile col passare degli anni, con il progressivo consolidamento di tale esperienza sotto il profilo procedimentale. Come è stato osservato3, infatti, tutti i giudici ed i processi “nuovi” tendono a cercare in primo luogo un sostegno dogmatico – ma anche una sorta di legittimazione nel sistema in cui si inseriscono – mediante un iniziale intenso ricorso a categorie elaborate in altri più antichi e consolidati sistemi processuali (in primo luogo, ovviamente, nel processo civile, che rappresenta l’esperienza più antica di tutte4), salvo poi elaborare principi e categorie proprie5. È ciò che è accaduto anche nel processo costituzionale italiano, per il quale si è fatto largo uso dello strumentario concettuale e della terminologia processualcivilistici, anche in ragione della particolare attenzione che – perlomeno nei primi anni – dedicarono al processo costituzionale gli studiosi di quella disciplina6 (oltre che, sotto altro profilo, della complessiva esiguità delle indicazioni legislative7 e dal complesso meccanismo – la “breccia aperta”8, secondo una definizione – costituita dal “doppio” rinvio al processo amministrativo e – quindi - al processo civile9).

Una riflessione di questo tipo, peraltro, non può prescindere dal soffermarsi sulla fase genetica del rapporto processuale10 che si instaura davanti alla Corte costituzionale, non tanto o non solo per tornare ad esaminarne le caratteristiche od i presupposti, quanto invece per cercare di verificare in che termini la Corte consideri gli atti di promovimento del processo quali atti di impulso processuale, alla luce dei principi generali che l’ordinamento processuale associa e riconduce a tali atti. Sullo sfondo c’è il problema dell’azione – o più limitatamente della editio actionis – nel processo costituzionale; problema sempre ben colto dai processualisti che hanno studiato i

3 Fra gli altri, cfr. la ricostruzione di M. D’Amico, Parti e processo nella giustizia costituzionale, Torino, 1991, 21 e ss. 4 Tant’è che si parla di “onnipotenza” di tale modello processuale (M. D’Amico, op. cit., 329). 5 Penso all’apparente “rifiuto” della automatica trasponibilità di istituti del processo ordinario da parte della Corte costituzionale in alcune sue pronunce, in ragione della specialità delle finalità del processo costituzionale “avente la precipua ed essenziale finalità di assicurare l'osservanza dei precetti della Carta fondamentale” (cfr., ad esempio, C. cost., sent. 49/1987, adottata nell’ambito di un conflitto di attribuzioni, con riferimento al problema dell’acquiescenza a precedente analogo provvedimento). 6 Penso, ad esempio, alle riflessioni di Redenti, Cappelletti e Calamandrei. Non si può poi non fare riferimento alle opere di V. Andrioli raccolte, oggi, in V. Andrioli, Studi sulla giustizia costituzionale, Milano, Giuffré, 1992, il cui interesse è messo in luce dalla Introduzione di A. Pizzorusso. 7 E. Catelani, La determinazione della “questione di legittimità costituzionale” nel giudizio incidentale, Milano, 1993, 41 e ss. 8 S. Bartole, Considerazioni sulla giurisprudenza della Corte costituzionale sull’interesse a ricorrere nei giudizi in via di azione, in Giur. Cost., 1965, 1674. 9 Come è noto, l’art. 22 della legge 87 del 1953 rinvia, per quanto non previsto, al Regolamento di procedura innanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (RD 17 agosto 1907, n. 642), ma non sfugge all’applicazione residuale del processo civile come norma processuale generale. 10 La nozione di “rapporto processuale” come individuato dagli atti introduttivi di impulso, mutuata evidentemente dalle categorie processuali comuni, è stata sempre utilizzata anche con riferimento al giudizio costituzionale, e ricorre nelle trattazioni generali sulla giustizia costituzionale (ad es. A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, V ed., Milano, 2004, 184).

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giudizi davanti alla Corte costituzionale, i quali – nel cercare di ricostruire tali giudizi11 (anche) mediante categorie processuali comuni - hanno paventato il rischio che essi restassero “nel limbo incolore ed esangue della giurisdizione senza azione”12. Il problema è dunque anche quello di verificare in che misura gli “adattamenti” dei principi generali sugli atti di impulso alle esperienze di giustizia costituzionale consentano di poter parlare di “azione”, o di facultas agendi, o di “diritto al processo”.

Le difficoltà che una ricerca di questa specie riserva sono perlomeno di tre tipi:

(i) sul piano delle esperienze dei giudizi davanti alla Corte vi è il problema che per l’appunto di tratta di “esperienze” (al plurale): esiste infatti notoriamente una singolare varietà – in un contesto processuale relativamente modesto sul piano quantitativo13 - di tipologie procedimentali e dunque anche di caratteristiche dei relativi atti di impulso processuale, che – se riflette le differenti funzioni ed i diversi ruoli della Corte costituzionale nel sistema complessivo - sembra poco prestarsi, in linea generale, ad una ricostruzione in termini sistematici: per usare una terminologia nota alla dottrina14, davanti alla Corte si svolgono sia processi “di risoluzione di conflitti” sia processi di diritto obiettivo, declinabili (anche, o forse soprattutto) come processi di attuazione di scelte politiche. Il che impone necessariamente di condurre in prima battuta una riflessione su più linee differenti, corrispondenti ciascuna ad una tipologia di “esperienza” di giudizio costituzionale, senza negarsi peraltro la possibilità di trarre qualche spunto di tipo generale;

(ii) anche sul piano del processo comune - per cui pure può contarsi su di una riflessione assai più antica e tendente indubbiamente alla sistematizzazione, nonché di una lunga elaborazione di un “diritto processuale comune” - non può dirsi che esista una sola “esperienza” di giudizio da tenere in considerazione per trarne principi generali in tema di atti di impulso processuale. Penso alla diversa collocazione sistematica – sul piano dell’attivazione del meccanismo processuale e del suo significato - di esperienze quali il processo civile ordinario e quello amministrativo, il processo penale, i giudizi c.d. di volontaria giurisdizione, i giudizi c.d. di diritto oggettivo, il rito cautelare, ecc.15.

11 Soprattutto, com’è ovvio, il giudizio in via incidentale, vista anche l’originaria minor incidenza quantitativa del giudizio in via d’azione. 12 V. Andrioli, La giustizia costituzionale ed i principi del diritto processuale, in Riv. Dir. Pubbl., 1950, I, 27 e ss, oggi in Id., Studi sulla giustizia costituzionale, cit., 7 13 Nel senso della relativa limitatezza quantitativa del numero di pronunce che annualmente la Corte costituzionale adotta, rispetto ad ogni altra giurisdizione. 14 T. Groppi, I poteri istruttori della Corte costituzionale nel giudizio sulle leggi, Milano, 1997, 109-110, che applica la classificazione proposta da A. Damaška, I volti della giustizia e del potere, Bologna, 1991. 15 Con riferimento al processo civile (rectius, alla giurisdizione civile), A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1994, 54, ne evidenzia la “molteplicità e la eterogeneità (in punto di processi, di contenuto dei provvedimenti, di modalità di attuazione)”, anche in relazione alla “elevata astrattezza” della elaborazione del concetto unitario di diritto di azione, come concetto autonomo rispetto al diritto sostanziale.

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(iii) di nuovo sotto il profilo delle esperienze di giustizia costituzionale, l’ampia possibilità di autoregolamentazione del procedimento riconosciuta alla Corte stessa (certamente sconosciuta ai giudici comuni), nonché le oscillazioni della sua giurisprudenza “pretoria” che non sempre consentono di trarre una linea interpretativa del tutto coerente16 ed “affidabile”17.

Si cercherà quindi principalmente di individuare qualche elemento di riflessione in ordine al significato, al valore ed alla portata procedimentale dei vari atti che danno impulso ai diversi giudizi costituzionali (eccezion fatta – per uniformità con gli altri relatori e per l’obiettiva minore incidenza – per i giudizi di ammissibilità del referendum abrogativo ed i giudizi sulla messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica), cercando di “leggere” tali aspetti con la lente dei principi processuali generali.

Evidentemente i profili oggetto di questo contributo sono ampiamente destinati ad integrarsi con quanto diranno i relatori che si occupano degli altri aspetti del processo costituzionale (penso soprattutto alle indubbie connessioni con il tema del contraddittorio e con il tema della corrispondenza fra chiesto e pronunciato, con le incidenze reciproche col processo amministrativo).

2. Atti d’impulso e “diritto processuale comune”

Nel processo comune gli atti di primo impulso svolgono un ruolo assolutamente centrale. Si tratta di un punto di snodo fondamentale in ogni tipo di processo, in quanto l’atto di impulso è lo strumento mediante il quale si attiva il meccanismo processuale che senza di esso resterebbe quiescente (a prescindere dal fatto che si tratti di giudizi aventi ad oggetto diritti/interessi ovvero giudizi di diritto obiettivo): il punto in cui da un lato si accede alla giurisdizione – facendo applicazione delle disposizioni generali che ne regolamentano le modalità di ingresso/accesso - e dall’altro si selezionano la fisionomia delle situazioni giuridiche che possono essere fatte valere davanti alla giurisdizione nonché le condizioni appagate le quali tali situazioni possono essere oggetto di un giudizio.

Ciò implica, ovviamente, che negli atti di impulso processuale siano strettamente embricati profili di carattere formale (poiché qualsiasi processo richiede un certo livello di formalità per gli atti che ne comportino l’attivazione) e profili di carattere contenutistico/sostanziale, soprattutto in quanto – perlomeno nei giudizi “di parti” in che abbiano ad oggetto diritti, interessi o status - normalmente negli atti di impulso è incorporata la domanda di tutela, alla soddisfazione della quale il processo è strumentalmente finalizzato.

16 Segnala la necessaria “tendenzialità” di ogni analisi sull’operato della Corte costituzionale, fra gli altri, B. Caravita, Corte «giudice a quo» e introduzione del giudizio sulle leggi, vol. I, La Corte Costituzionale austriaca, Padova, 1985, 11. 17 La “affidabilità” della giurisprudenza delle Corti supreme è considerata un “valore essenziale” .- con riferimento alla Corte di cassazione– da L. Carbone nella sua Prolusione agli Atti del convegno su “Le Corti Supreme” (Perugia, 5-6 maggio 2000), p. 25 del paper. Ma la valutazione sembra poter essere estesa anche alla giustizia costituzionale: cfr. P. Carrozza, Il processo costituzionale come processo, in R. Romboli (a cura di), La giustizia costituzionale ad una svolta, cit., 69).

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La prospettiva che si assume - non nuova, ma strumentale al discorso che si intende fare – è quella di prendere le mosse dalla “alternativa fondamentale: giurisdizione soggettiva od oggettiva”18, esaminarne a grandi linee le caratteristiche (con particolare riferimento alla fase genetica del rapporto processuale), e poi cercare di verificare se gli schemi processuali generali dei due modelli si adattano o meno ad alcune delle esperienze processuali costituzionali.

Nell’approccio processualcivilistico tradizionale (chiovendiano), secondo cui il processo è tendenzialmente sempre strumentale all’affermazione di un diritto sostanziale, gli atti di impulso costituiscono il momento in cui si incontrano l’azione-domanda (intesa nei vari sensi che gli studiosi del diritto processuale le hanno attribuito) e la forma processuale: “se la domanda non diviene atto, non viene, letteralmente, ad esistenza”19. Nei giudizi c.d. di diritto obiettivo20, in cui il giudice non si trova tecnicamente di fronte ad una domanda avente ad oggetto la lesione (ovvero la minaccia di lesione) di un diritto/interesse e prevalgono i poteri officiosi del giudice21, l’atto di impulso processuale è comunque fondamentale, in quanto consente l’emergere della “situazione di fatto” in relazione alla quale scatta il “dovere giurisdizionale di provvedere”22, ponendo all’esame del giudice la questione sull’attuazione dell’interesse oggettivo dell’ordinamento che costituisce la ragion d’essere (principale) di quei procedimenti23; senza considerare che in molti casi i processi di diritto obiettivo sono senz’altro connessi, più o meno direttamente, ad istanze di tutela più complesse, con non infrequentemente involgono diritti, interessi e status24. Sembra peraltro possibile affermare che si assista nel periodo più recente a forme significative di “obiettivizzazione” (che talora comporta ancora prima una “giurisdizionalizzazione”) di taluni ambiti che, fino a periodi non risalentissimi, erano prevalentemente affidati – quanto alla garanzia delle tutele – al principio generale dell’azione e della domanda. Appare sempre più frequente la riconduzione di alcuni ambiti materiali (società, famiglia, gestione insolvenza, ecc.) a regole oggettive di diritto la cui affermazione può essere affidata (anche) ad iniziative d’ufficio o comunque all’attivazione di un organo pubblico nel quadro di processi in cui l’interesse pubblico è quanto meno equivalente, quand’anche non prevalente rispetto all’interesse privato.

18 G. Zagrebelsky, Diritto processuale costituzionale?, cit. 144-145. 19 F. Satta, voce Domanda giudiziale (dir. proc. civ.), in Enc. Dir., vol. XIII, 818 20 Ci si richiama alla nozione elaborata in prima battuta da Allorio e ripresa da Tommaseo. Fa ampio utilizzo di tale nozione M. D’Amico, Parti e processo, cit., passim. 21 T. Groppi, I poteri istruttori della Corte costituzionale, 107. 22 F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, cit., 88. 23 A tale categoria può forse affiancarsi quella, elaborata fra gli altri da C. Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, I, Torino, 2000, 13 e ss. della “giurisdizione costitutiva necessaria” o “a necessario esercizio giudiziale”. La distinzione di questo tipo di giudizio con i processi di diritto obiettivo, secondo l’Autore, dovrebbe risiedere nel maggior grado di rilievo, in questi ultimi, per l’interesse pubblico rispetto all’interesse privato. 24 G. Zagrebelsky, Diritto processuale costituzionale?, cit., 112, osserva come nei processi – propriamente intesi – debbano necessariamente coesistere aspetti di diritto obiettivo ed aspetti di diritto soggettivo, senza la commistione dei quali “si è fuori dal concetto di processo”.

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Sotto il profilo più prettamente procedurale – cioè tenendo presente il coté processuale della azione/domanda25 - l’aspetto eminente dell’atto di impulso processuale viene sovente considerato quello della determinazione dell’oggetto del giudizio26: l’atto di impulso è quello mediante il quale si determinano il petitum e la causa petendi e per mezzo di essi – o meglio mediante la loro sintesi - il thema decidendum. Tale aspetto è destinato a riverberare i suoi effetti nel corso di tutto il processo, vincolando in modo significativo – ancorché non del tutto esclusivo - la dinamica processuale, pur nel rispetto dell’ulteriore principio processuale per cui iura novit curia27. È infatti normalmente con riferimento all’iniziale delimitazione del petitum e della causa petendi che vengono interpretate le preclusioni processuali in ordine ad ampliamenti della domanda e a sue riformulazioni (sia nel medesimo grado di giudizio che in sede di impugnazione), ed è ancora con riferimento alla delimitazione del petitum e della causa petendi che trova applicazione il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, cui è ovviamente connesso il divieto di extrapetizione, con le note conseguenze in punto di impugnazione.

Sotto altri profili, l’atto introduttivo è il momento in cui si determina – almeno in via iniziale ed integrabile - la portata del contraddittorio (la cui esigenza, di carattere costituzionale, permane anche nei giudizi di diritto obiettivo28, che siano embricati o meno con giudizi propriamente contenziosi su diritti/interessi/status29), nonché l’impianto probatorio. È altresì il momento in cui si manifesta – e rispetto al quale deve essere verificato, quantomeno nelle azioni di accertamento e cautelari30 - il principio dell’interesse ad agire (ancorché, secondo il risalente insegnamento di Chivenda, le condizioni dell’azione devono sussistere al momento della decisione).

Si tratta ovviamente di aspetti tutti strettissimamente connessi fra loro, nel senso che la conformazione dell’uno reagisce sicuramente sulla conformazione dell’altro.

25 Non è questa la sede per tornare sul tradizionale approccio chiovendiano in ordine alla bipartizione fra diritto sostanziale e diritto processuale, riflesso del rapporto fra domanda ed azione (Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1933, 145 ss. 26 Espresso dall’art. 163 c.p.c., quando richiede all’attore di indicare nell’atto introduttivo “la determinazione della cosa oggetto della domanda” nonché “l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda”. 27 Il rapporto fra applicazione del principio iura novit curia e determinazione del thema decidendum è complesso ed involge il delicato profilo dell’extrapetizione. Secondo Cass. 1° settembre 2004, n. 17610, il giudice può interpretare il titolo posto alla base della domanda, e può anche applicare una norma di legge “diversa da quella invocata dalla parte interessata”, ma deve lasciare inalterati petitum e causa petendi “senza attribuire un bene diverso da quello domandato e senza introdurre nuovi elementi di fatto”. 28 M. D’Amico, Parti e processo, cit., 303 e ss. 29 A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 746, osserva come anche nei giudizi in cui il legislatore ha affidato al giudice la funzione “obiettiva” di applicazione del diritto in corrispondenza al verificarsi di un fatto, possa accadere che la pronuncia possa avere significative conseguenze nella sfera soggettiva (interessi, ma anche diritti) di altri soggetti. 30 Faccio riferimento alla antica disputa sulla possibilità di configurare l’interesse ad agire in azioni costitutive, in quanto in tali azioni non si lamenta una “lesione” del diritto, ma si aspira ad un diverso “effetto” della sentenza, per cui l’azione costitutiva è “pura” (Chiovenda): riassuntivamente, da ultimo, C. Padula, L’asimmetria nel giudizio in via principale, Padova, 2005, 163 e ss.

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2.1 Ruolo dell’atto introduttivo nella determinazione del thema decidendum nel giudizi comuni, fra processi di tipo dispositivo e processi di diritto obiettivo

Con riferimento al problema della determinazione del petitum, della causa petendi e del complessivo thema decidendum mediante l’atto di impulso processuale – che sta ovviamente al centro della problematica del “diritto al processo” inteso come meccanismo strumentale alla soddisfazione del diritto - viene però in evidenza la seconda “difficoltà” paventata in premessa, e cioè quella relativa alla diversa conformazione delle varie esperienze processuali comuni, che impone di soffermarsi su cosa si intenda di fatto, nei giudizi comuni, per determinazione dell’oggetto, e quanto essa sia univocamente ed unicamente riconducibile all’atto di iniziativa processuale.

Anche qui, occorre distinguere fra esperienze processuali (processi) animati da un principio di disponibilità della procedura per le parti, e processi in cui la procedura sia (in tutto od in parte) loro sottratta, in virtù della diversa finalità cui tende il processo. In quest’ultima ipotesi l’oggetto del giudizio è sostanzialmente assorbito dall’iniziativa officiosa o camerale del medesimo, e la partecipazione delle parti alla determinazione di tale oggetto è significativamente ridimensionata dallo schema fatto (che comporta una certa modificazione della situazione giuridica per cui occorre una pronuncia giurisdizionale)/iniziativa volta a segnalare tale fatto al giudice/ decisione del giudice in ordine all’applicazione obiettiva del diritto; l’esigenza di garantire il contraddittorio consente che le parti (cioè gli interessati al provvedimento adottando) espongano al giudice le proprie prospettazioni31, ma ciò non implica (necessariamente) una modificazione dell’oggetto. Come è stato osservato, in tali processi le prospettazioni delle parti, espressive del loro diritto di difesa, si inseriscono nel procedimento in funzione collaborativa nell’esercizio dell’attività del giudice volta alla applicazione “obiettiva” di una regola di diritto.

Nelle esperienze di processi civili “di parti” – cioè i giudizi in cui le parti conservano la disponibilità pressoché integrale del procedimento (fino all’estremo di rinunziarvi) e dei suoi singoli eminenti aspetti (come l’istruzione probatoria) -, invece, non sarebbe del tutto corretto affermare che il thema decidendum sia completamente ed integralmente affidato alla determinazione dell’atto di impulso, e da esso esaurito. Per restare alle esperienze processualcivilistiche, nel giudizio ordinario di cognizione la fissazione definitiva del thema decidendum si ha solo con la (eventuale) appendice scritta prevista dall’art. 183 comma 6°, che consegue ad una prima comparizione della parti davanti al giudice (che presenta importanti funzioni “direttive e collaborative”32), nonché alla piena e completa esposizione delle eccezioni e delle eventuali domande riconvenzionali

31 Quantomeno nel senso “minimale” che non potrebbe del tutto precludersi l’accesso a tali prospettazioni. 32 Nell’udienza di trattazione, infatti, il Giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati “i chiarimenti necessari”, e indica “le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”. È dunque evidente che il giudice, in questa fase del giudizio, non si limita alla verifica formale dell’integrità del contraddittorio ma, prima ancora che il thema decidendum sia definitivamente fissato, indica alle parti taluni aspetti della controversia che hanno suscitato il suo interesse (e sulla base dei quali le parti stesse potranno eventualmente “calibrare” la precisazione definitiva delle domande).

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da parte dei convenuti33. Secondo la giurisprudenza di legittimità, peraltro, tale fissazione è solo tendenzialmente definitiva, in quanto consente comunque, fino alla precisazione delle conclusioni, modifiche di tipo quantitativo della domanda, ovvero una emendatio libelli che “incida sulla "causa petendi", sicché risulti modificata soltanto l'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul "petitum", nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere”34. Anche nel nuovo processo societario, introdotto con il D. l.vo 5 del 2003, la determinazione finale del thema decidendum non è riconducibile solo all’atto introduttivo, ma al complesso meccanismo dello scambio di memorie di cui agli artt. 5 e ss. del decreto legislativo. Una efficacia determinante dell’atto introduttivo sul thema decidendum può essere forse riconosciuta agli atti di impulso di giudizi di tipo cautelare e monitorio adottati inaudita altera parte (a contraddittorio differito od eventuale), ma la natura strumentale di tali giudizi – di per sé concepiti come eccezionali - implica che tendenzialmente alla fase monitoria o cautelare debba conseguire una fase a cognizione piena in cui si riproduce la dinamica di formazione progressiva del thema decidendum cui si è fatto cenno35.

Per ciò che concerne il processo amministrativo, Nicola Pignatelli questa mattina ha già ampiamente esposto quante e quali interferenze (anche con riferimento all’atto introduttivo) vi siano con il processo costituzionale. In questa sede, dunque, mi limiterò a richiamare solo le considerazioni già svolte dalla dottrina costituzionalistica in ordine alle similitudini fra processo amministrativo e costituzionale per ciò che concerne l’ “intangibilità” dei motivi di impugnazione da parte del giudice e l’impossibilità per le stesse parti di procedere ad una loro integrazione o modifica (salva l’ipotesi di motivi aggiunti, nei casi in cui essi siano consentiti)36.

In altre parole la dinamica iniziale del processo consente di plasmare in modo complessivo l’oggetto del giudizio stesso, al quale – in certi casi – non rimane del tutto estraneo il giudice stesso.

Potremmo dunque dire, traendo spunto da questo succintissimo quadro, che un principio del diritto processuale “comune” – in particolare di quello civile – è quello per cui il thema decidendum origina effettivamente dall’atto di impulso, ma si arricchisce di contenuto mediante la fase iniziale delle difese della parti (quando parti tecnicamente

33 Ciò a seguito della riforma dell’art. 183 c.p.c. da parte del DL 35 del 2005, conv. in legge n. 80 del 2005. Anche nella versione precedente dell’art. 183 c.p.c., peraltro, la fissazione definitiva del thema decidendum era affidata ad una appendice scritta eventuale, scandita però secondo tempistiche differenti. 34 Cass. civ. sez. III, 12 aprile 2005, n. 7524. La mutatio libelli si ha solo quando “si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un "petitum" diverso e più ampio oppure una "causa petendi" fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia” 35 In quest’ottica merita peraltro una citazione, oltre al caso del decreto ingiuntivo non opposto, la nuova disciplina – anch’essa derivante dalla legge 80 del 2005 - del “consolidamento” dei provvedimenti cautelari atipici ex art. 700 c.p.c., di quelli anticipatori degli effetti della sentenza di merito e di quelli relativi a giudizi di nuova opera o danno temuto, in caso di mancata introduzione del giudizio di merito, o in caso di estinzione di tale giudizio. 36 E. Catelani, La determinazione della “questione di legittimità costituzionale”, cit., 60 e ss.

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intese vi siano) con l’eventuale mediazione del giudice su alcuni aspetti (penso alla emersione delle eccezioni non rilevabili d’ufficio). A maggior ragione nei processi di diritto obiettivo, in cui il thema decidendum è tendenzialmente sottratto alle parti – nel senso che le parti, qualora vi siano, non si vedono riconosciuto il potere di vincolare il giudice al thema decidendum da loro fissato - la relativa determinazione è ascrivibile all’atto di impulso processuale, ancorché poi il giudice non trovi nell’originaria formulazione della denuncia un limite altrettanto solido di quello che troverebbe nella domanda che attiva il processo dispositivo.

Nel quadro di questo principio, si possono trarre talune conseguenze ulteriori, relative al significato dell’attività delle parti nella determinazione del thema decidendum:

(i) per così dire “determinativa” nella misura in cui l’ordinamento processuale relativo ai giudizi di natura contenziosa (“di parti”) connette la produzione degli effetti processuali della definizione del thema decidendum al momento in cui esso si sia formato con il contributo determinante delle parti, che sono state messe nelle condizioni di esercitare poteri loro riservati in termini di formulazione di domande, eccezioni, istanze probatorie;

(ii) per così dire “collaborativa” nei giudizi in cui al giudice non si chiede una decisione su diritti/interessi/status ma l’applicazione delle conseguenze che l’ordinamento fa obiettivamente conseguire ad un certo fatto, in quanto l’oggetto del giudizio è delineato dall’atto di impulso (e comunque non può eccedere lo schema della richiesta di applicazione obiettiva del diritto), ma non si può ritenere siano irrilevanti le considerazioni che le parti/interessati possono svolgere nelle diverse sedi processuali in cui possono operare – che possono concernere evidentemente le modalità mediante le quali l’interesse obiettivo dell’ordinamento connesso alla fattispecie può essere fatto valere, o eventualmente profili concernenti proprie situazioni soggettive collegate all’accertamento “obiettivo”.

Il thema decidendum, poi, può ovviamente subire una significativa complessificazione mediante la riunione di procedimenti connessi, in cui i petita e le causae petendi vanno a confluire in un unico contesto.

A queste considerazioni occorre poi aggiungere – necessariamente, solo per cenni – che il thema decidendum delineato dagli atti di impulso processuale entra in contatto con il principio iura novit curia: ciò può implicare – anche in un processo di carattere dispositivo – che il giudice si veda riconosciuto un qualche “margine di manovra” relativo all’ampiezza del thema decidendum, specialmente con riferimento alla prospettazione della ricostruzione giuridica della fattispecie formulata dalle parti37.

37 Su questi profili, ancora in un’ottica di “confronto” col giudizio costituzionale in via incidentale, cfr. E. Catelani, La determinazione della “questione di legittimità costituzionale”, cit., passim, ma soprattutto 64 e ss., in cui si valorizza molto il principio di “effettività” della tutela offerta dall’ordinamento alle situazioni giuridiche soggettive, che consentirebbe di “elaborare la questione di fatto e quella di diritto e di attribuire alle dichiarazioni del ricorrente il giusto valore e le relative conseguenze, in rapporto a ciò che in concreto il privato intende conseguire” (p. 75).

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2.2 Il contributo dell’atto di impulso processuale alla determinazione del thema decidendum nella giurisprudenza comune

In questo quadro risulta quindi interessante una verifica sulle caratteristiche che, secondo la giurisprudenza comune, consentono all’atto di impulso processuale di esplicare gli effetti che i principi processuali gli riconoscono in punto di determinazione del thema decidendum. A parte gli aspetti puramente formali38, il problema più interessante sembra quello di determinare il livello “minimo” di determinatezza che consente al giudice di non procedere con una pronuncia processuale che attesti la carenza di presupposti essenziali, e che gli impone invece di attivare pienamente il meccanismo che conduce alla determinazione definitiva del thema decidendum.

Ebbene, sotto questo profilo, la giurisprudenza sembra tendere ad utilizzare un metro – relativamente elastico - che trova la sua giustificazione e la sua ragion d’essere sostanzialmente nella tutela del contraddittorio fra le parti. Si afferma, in questa prospettiva, che l’identificazione dell’oggetto della domanda va operata avendo riguardo all’insieme delle indicazioni contenute nell’atto di citazione e dei documenti ad esso allegati39; la ragione ispiratrice delle disposizioni processuali comuni che impongono all’atto di impulso di contenere già il petitum e la causa petendi trovano infatti fondamento nell’esigenza di impostare un contraddittorio “ad armi pari”, ponendo fin da subito i convenuti nella possibilità di spiegare le difese che ritengono più adeguate nell’ottica della tutela della propria situazione soggettiva.

Ciò implica che il giudice, di fronte all’atto di impulso processuale, possa in una certa misura disancorarsi dalla interpretazione puramente letterale delle espressioni utilizzate dalla parte, desumendone il contenuto sostanziale e l’essenza della domanda spiegata e della pretesa, come desumibili dalla complessiva situazione dedotta in giudizio (in applicazione, per un certo profilo, del principio iura novit curia e da mihi factum dabo tibi ius)40.

Ovviamente, in qualche caso ciò può dar luogo a vere e proprie espansioni giudiziali del thema decidendum (non sempre agevolmente riconducibili ad un’opera puramente interpretativa da parte del giudice41, con apertura di un significativo orizzonte in punto di vizio di extrapetizione della sentenza), nonché alla emersione di istanze di tutela implicite42. L’aspetto fondamentale, secondo la giurisprudenza, è che l’interpretazione del petitum e della causa petendi alla luce della complessiva situazione dedotta in giudizio 38 Ivi compresi i casi di carenza assoluta ed insanabile di elementi essenziali dell’atto di impulso. 39 Fra le molte, Cass. 12 novembre 2003, n. 17023. 40 Cass. SS.UU., 10 luglio 2003, n. 10840, Cass. 28 aprile 2004, n. 8128. 41 Si pensi al recente dibattito in ordine ai limiti dell’interpretazione del giudice rispetto alla individuazione della domanda di merito nel quadro di giudizi introdotti mediante il rito cautelare, su cui, fra gli altri e sinteticamente, M. Giorgetti, Domanda e procedimento nelle recenti esperienze del processo cautelare, in www.judicium.it. 42 Solo a titolo di esempio: Cass. 2 dicembre 2004, n. 22665 ha ritenuto corretta la valutazione del giudice di merito che aveva ordinato il rilascio di un fondo rustico, ancorché l’attore avesse a suo tempo proposto unicamente domanda di accertamento della cessazione del rapporto di locazione. Il giudice, in quel caso, ha argomentato sulla base di una “connessione” fra petitum, causa petendi, ed istanza di tutela inespressa.

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non renda impossibile – od eccessivamente difficoltosa – l’instaurazione del contraddittorio fra le parti.

Naturalmente si tratta di un principio tendenziale, che soffre qualche eccezione anche significativa: si pensi, ad esempio, alla recente introduzione di una causa di inammissibilità del ricorso per cassazione della sentenza civile (per motivi diversi dal vizio di motivazione) quando il ricorrente, che pure abbia indicato i motivi di asserita illegittimità della sentenza impugnata, abbia omesso di formulare il “quesito di diritto” cui deve dare riscontro la Corte di Cassazione43. Qui il legislatore ha inteso vincolare in termini particolarmente rigorosi la formazione del thema decidendum da parte del ricorrente in cassazione – forse anche con meno confessabili finalità “economiche” di deflazione del contenzioso di legittimità44 – limitando al tempo stesso la possibilità per la Corte di “operare” sul thema stesso.

Diverso il discorso per i processi di diritto obiettivo, in cui il giudice è chiamato ad applicare un meccanismo processuale che non trova propriamente il suo fondamento nel principio della domanda e che quindi può contemplare il contraddittorio prevalentemente in un’ottica di (contributo alla) “realizzazione della finalità di giustizia”45, perlomeno laddove la decisione giurisdizionale è destinata ad avere riflessi sulla situazione giuridica degli interessati46. Qui l’atto introduttivo non è tanto espressivo di un diritto al processo o di una facultas agendi, ma ha la prevalente finalità di innescare nel giudice l’obbligo di decisione oggettiva (e, dal punto di vista istruttorio, di ricerca della

43 Come previsto dal “nuovo” art. 366-bis c.p.c.. a tale proposito cfr. B. Sassani, Il nuovo giudizio di cassazione, in Riv. Trim. Dir. Proc., 2006, 224, B. Balletti – F. Minichiello, Il nuovo contenuto del ricorso per cassazione, in G. Ianniruberto – U. Morcavallo (a cura di), Il nuovo giudizio di cassazione, Milano, 2007, 198 e ss. 44 A. Proto Pisani, Novità nel giudizio civile di cassazione, in Foro it., 2005, IV, 252, sottolinea la complessità – per il ricorrente – di strutturare esattamente l’atto di ricorso, soprattutto con riguardo alla inammissibilità connessa alla mancata formulazione dei quesiti di diritto. 45 È peraltro noto, e descritto, il progressivo affrancarsi di taluni giudizi nati “di diritto oggettivo” – come ad esempio il processo penale – verso le caratteristiche del giudizio “di parti”, in cui alla parte è attribuito non solo un diritto a collaborare alla ricerca della verità, ma un diritto di difesa vero e proprio. Potrebbe essere considerata discutibile la riconoscibilità di un identico iter anche ad altri giudizi, come ad esempio il giudizio di responsabilità amministrativa davanti alla Corte dei Conti, che mantiene caratteristiche che lo distinguono da altri giudizi pure posti in essere davanti alla medesima autorità (giudizi pensionistici): come ad esempio l’esclusione dell’istituto dell’abbandono (Corte conti, Sez. riunite, 26 novembre 1998, n. 37/A). 46 C’è da chiedersi se, quando la decisione non può avere riflessi diretti sulle posizioni individuali, il contraddittorio potrebbe essere pretermesso. Con riferimento al particolarissimo caso del ricorso per cassazione nell’interesse della legge (nel nuovo testo derivante dalle riforme dal d. l.vo 40 del 2006), A. Criscuolo, I provvedimenti ricorribili. Il ricorso nell’interesse della legge, in G. Ianniruberto – U. Morcavallo (a cura di), Il nuovo giudizio di cassazione, cit., sostiene la tesi della non necessità del contraddittorio “non essendo configurabile un interesse giuridicamente rilevante delle parti ad interloquire in una procedura destinata a concludersi con la sola declaratoria di un principio di diritto privo di effetto sul provvedimento del giudice di merito”, salvo il caso in cui l’enunciazione del principio di diritto sia richiesta dal procuratore generale quando il provvedimento del giudice di merito non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile (in questi casi, invero, non può escludersi che le parti abbiano un interesse ad interloquire con la suprema Corte, visto che il principio che essa si appresta a formulare potrebbe avere applicazione anche nella propria sfera soggettiva).

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verità, con ovvi accenti di carattere inquisitorio47). Trattandosi di questo, l’atto introduttivo assume sostanzialmente i caratteri della denuncia (spesso affidata ad un soggetto pubblico), più che della domanda, e come tale si presta ad essere utilizzato dal giudice in modo tendenzialmente più “libero” di quanto il giudice non possa fare nei processi di tipo dispositivo.

Se il giudice deve cercare la verità in un’ottica di attuazione del diritto oggettivo, allora in linea di principio l’impulso processuale serve per attivarlo, ma dovrebbe vincolarlo solo limitatamente: dico “in linea di principio” per ché la categoria dei processi di diritto oggettivo ha confini dubbi e comunque certamente non è omogenea48 - presentando solo alcuni caratteri comuni – ed un’indagine su questo profilo dovrebbe essere dedicata a ciascun procedimento di questa specie.

3. Principi processuali comuni, “diritto al processo” e thema decidendum nelle esperienze di giustizia costituzionale

Una chiave significativa per verificare come la Corte costituzionale “tratta” gli atti di impulso processuale è quella della valutazione che la Corte dà al thema decidendum: come è stato persuasivamente osservato alcuni anni fa, infatti, “in altri e non remoti tempi, gli studiosi avevano fatto dipendere dall’esistenza o dall’inesistenza del sindacato di inammissibilità della Corte sul thema decidendum e soprattutto sulla rilevanza, la propria visione complessiva del giudizio in via incidentale e del relativo “processo”” 49.

Dato che, come si è visto, il thema decidendum costituisce il “cuore” della domanda giudiziale dei processi comuni e(il contenuto del “bisogno di tutela” espresso con l’atto di impulso) d ha implicazioni significative anche nei processi di diritto obiettivo, il problema della determinazione del thema decidendum può svolgere un ruolo assai significativo nella ricostruzione complessiva del “processo” costituzionale. sotto il profilo del “diritto al processo”.

Prendendo le mosse dalle esperienze di giustizia costituzionale aventi ad oggetto il giudizio sulla costituzionalità delle leggi, si deve in primo luogo sottolineare ciò che a molti commentatori è apparso piuttosto evidente, e cioè che, mentre il giudizio in via

47 Ancorché l’inquisitorietà e le limitazioni del contraddittorio – già in passato oggetto di critica: A. Proto Pisani, Parte nel processo (dir proc. civ.), in Enc. Giur. XXXI. – debbano oggi essere lette alla luce del “nuovo” art. 111 Cost., che garantisce il contraddittorio nel quadro di tutti i procedimenti giurisdizionali, ovviamente nell’ambito dei rispettivi modelli (A. Andronio, Art. 111, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla costituzione, III, Torino, 2006, 2113-2114) 48 Si pensi, solo a titolo di esempio, ai dubbi espressi dalla dottrina processualcivilistica sulla riconducibilità nel quadro dei processi “di diritto oggettivo” del ricorso per cassazione “nell’interesse della legge” di cui all’art. 363 c.p.c., su cui in termini sintetici A. Criscuolo, I provvedimenti ricorribili, cit., 168. 49 V. Angiolini, La Corte senza il “processo” o il “processo” costituzionale senza processualisti?, in R. Romboli, La giustizia costituzionale ad una svolta. Atti del seminario di Pisa del 5 maggio 1990, Torino, 1991, 29. L’Autore formula una critica della tendenza a non inserire la riflessione sui singoli episodi della giurisprudenza costituzionale in punto di thema decidendum nel quadro di una ricostruzione del giudizio costituzionale come processo.

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incidentale, sotto diversi profili (ed in una certa misura anche per l’evoluzione che tale giudizio ha avuto), potrebbe essere assimilato nelle sue linee essenziali50 ad un giudizio di diritto obiettivo51, il giudizio in via principale presenta una struttura contenziosa che lo avvicina maggiormente ad un giudizio “di parti”52.

Entrambi i giudizi, però, tendono ad una finalità sostanzialmente comune – la individuazione delle norme incompatibili con la costituzione e l’espunzione delle relative disposizioni, occasionata dal manifestarsi storico dell’incostituzionalità in un exemplum concreto, un “caso della vita”53, almeno tendenzialmente – ed entrambi i giudizi sono nati per giustapposizioni normative (la costituzione, la legge 87 del 1953, le norme integrative) e mediante il “sovrapporsi di diverse concezioni”, forse non del tutto aderenti all’idea che della Corte costituzionale e delle sue funzioni era emersa in sede di assemblea costituente54.

Inoltre, in entrambe le tipologie processuali, svolge un ruolo assolutamente centrale l’evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale stessa: la “costruzione” del processo costituzionale, infatti, è stata ampiamente debitrice delle diverse scelte (non sempre coerenti) operate dalla Corte in uno spazio di rilevante “libertà” procedurale; tendenza, questa, accresciuta e potenziata dalla circostanza per cui la Corte ha la tendenza “retorica” a fare frequente appello al proprio precedente non solo in senso persuasivo, ma riferendovisi come alla fonte di regole (anche processuali) che la Corte stessa ha voluto darsi55.

50 Si pensi, solo a titolo di esempio, alla affermata indifferenza del processo costituzionale rispetto agli “eventi” che possono interessare il giudizio a quo (art. 22 delle norme integrative), ovvero alla possibilità che le parti del giudizio a quo non si costituiscano nel giudizio costituzionale. 51 Ancorché, come ricorda T. Groppi, I poteri istruttori della Corte costituzionale, cit., 106, nt. 75, proprio la dottrina processualcivilistica che ha elaborato e raffinato la nozione di processo di diritto obiettivo ne abbia poi negato l’applicabilità al processo costituzionale; ciò come conseguenza della denegata natura giurisdizionale di quel processo. 52 Si vedano le considerazioni di V. Angiolini, La «non manifesta infondatezza» nei giudizi costituzionali, Padova, 1988, 358 e di G. Brunelli – A. Pugiotto, Appunti per un diritto probatorio nel processo costituzionale: la centralità del «fatto» nelle decisioni della Corte, in P. Costanzo, L’organizzazione ed il funzionamento della Corte costituzionale, Torino, Giappichelli, 1996, part. 265, in base alle quali il processo costituzionale avrebbe carattere di obiettività ma anche di concretezza (da intendersi però non come connessione al giudizio a quo, ma come necessità di misurarsi con fatti attinti non solo al giudizio a quo, ma anche dal resto della realtà ordinamentale). 53 Ovviamente, l’ “esemplare” dell’incostituzionalità emerge nel corso del processo a quo per il giudizio in via incidentale, mentre emerge in sede di rivendicazione di reciproca competenza, minacciata o violata dalla legge altrui, in sede di giudizio in via principale (con la precisazione della ben nota asimmetria dei vizi denunciabili fra stato e regioni). 54 R. Romboli, Il giudizio costituzionale incidentale come processo senza parti, Milano, 1985, 62. A. Spadaro – A. Ruggeri, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 1998, 240-241, osservano invece che “non merita di essere trascurato lo sforzo compiuto dal legislatore di pervenire ad una soluzione complessivamente equilibrata”. 55 T. Groppi, I poteri istruttori della Corte costituzionale, cit., 123, riconduce questa tendenza al “tipo di processi [in cui] la disciplina processuale appare rimessa al prudente apprezzamento dell’organo giudicante”, e – nel quadro della nomenclatura adottata – ascrive il processo costituzionale, per questa caratteristica ai processi intesi come “attuazione di scelte politiche”.

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Ciò premesso, è in qualche misura evidente – ancorché con le precisazioni sopra accennate in ordine al rilievo delle situazioni soggettive di vantaggio anche nei processi di diritto obiettivo ed alla tutela del contraddittorio – che quando il processo costituzionale tenda a seguire i principi e gli strumenti elaborati nel quadro di processi di diritto obiettivo, la ricostruzione complessiva della funzione dell’organo tende verso una impronta più “politica” che lascia sullo sfondo le aspettative di tutela dei privati56; se invece il giudizio costituzionale tende a rispettare principi processuali che, nel quadro processuale comune, meglio si attagliano al processo dispositivo, la valutazione di fondo dovrebbe tendere a spostarsi verso una maggior rilievo dell’aspetto propriamente giurisdizionale, che tiene in considerazione anche l’aspetto della tutela di diritti attraverso il processo costituzionale.

In altre parole, non si vuole affermare che la distinzione processo dispositivo/processo di diritto obiettivo riproduca su scala processuale la problematica della natura della Corte costituzionale e dell’autonomia del relativo giudizio rispetto al giudizio a quo (o quella della natura astratta o concreta del giudizio57): si vuole semplicemente intendere che la riconducibilità dei poteri processuali della Corte all’uno ovvero all’altro modello – ovvero a diversi aspetti dell’uno o dell’altro - non è indifferente rispetto alle riflessioni in ordine a tale problematica.

Nell’ottica della linea d’indagine che si sta cercando di seguire – cioè una verifica degli “adattamenti” dei principi comuni sull’atto di impulso processuale nelle esperienze della giustizia costituzionale – si tratta dunque di formulare qualche considerazione sul modo con il quale la innegabile particolarità della funzione dei giudizi costituzionali sulle leggi reagisca rispetto ai principi elaborati dalla giurisprudenza comune in tema di atti di impulso processuale, specialmente con riferimento alla determinazione del thema decidendum.

3.1 Nel giudizio in via incidentale Prendendo le mosse dal giudizio in via incidentale, l’ordinanza di remissione alla Corte della questione di legittimità costituzionale è sicuramente lo strumento privilegiato per la cognizione del petitum e della causa petendi del giudizio di costituzionalità: il thema decidendum non si forma progressivamente, come nei processi comuni dispositivi, ma è già “scolpito” nell’atto introduttivo.

Sia lo schema dell’incidentalità/concretezza/rilevanza che l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale (specialmente quella desumibile dalle pronunce processuali di inammissibilità) impongono però qualche ulteriore riflessione sul thema decidendum indicato nell’ordinanza e sul potere del giudice costituzionale di “operare” su tale thema decidendum sia in senso per così dire negativo (stabilendo che il giudice a quo ha male o insufficientemente operato nella relativa individuazione) sia in senso “positivo” 56 Nel senso di attuazione obiettiva delle scelte politiche; per ciò che concerne la Corte costituzionale, il concetto di “politicità” implica la definizione della Corte stessa nel quadro della forma di governo. Sul punto, si vedano i saggi e gli interventi pubblicati in Giudizio “a quo” e promovimento del processo costituzionale, cit. 57 Sulla distinzione M. Luciani, Le decisioni processuali e la logica del giudizio costituzionale incidentale, Padova, 1984, 228 e ss.

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(procedendo ad “elaborare” i vari elementi del thema decidendum in senso differente rispetto alla prospettazione del giudice a quo). Con riferimento al thema decidendum, la giurisprudenza costituzionale sembra avere operato su più fronti, diversi fra di loro:

(i) ha mantenuto un atteggiamento piuttosto rigoroso in ordine al giudizio sulla effettiva ricorrenza delle caratteristiche proprie (id est: ritenute necessarie dalla Corte58) dell’ordinanza di rimessione per la determinazione del thema decidendum, attribuendo – ad esempio - un valore cospicuo ai vizi di carattere formale come causa di adozione di pronunce processuali59. La determinazione della questione di legittimità costituzionale, infatti - oltre a scontare le difficoltà della verifica del giudizio sulla non manifesta infondatezza e sulla rilevanza60 che aprono alla Corte, come è noto, ampie possibilità di pronuncia di ordinanze di tipo processuale (la cui tipologia e la cui nomenclatura non sempre ha seguito criteri del tutto omogenei e razionali61) - incorpora un giudizio della Corte sulla formulazione del thema decidendum da parte del giudice a quo. Tale giudizio si è appoggiato su criteri essenzialmente giurisprudenziali, tant’è che una parte della dottrina vi ha

58 Il riferimento è a talune ipotesi di caratteristiche dell’ordinanza richieste dalla Corte,ovviamente a pena di inammissibilità, ma senza un preciso fondamento desumibile dall’art. 23 della legge 87 del 1953, come la necessità di indicare il verso della pronuncia additiva richiesta (F. Modugno – P. Carnevale, Sentenze additive, «soluzione costituzionalmente obbligata» e declaratoria di inammissibilità per mancata indicazione del «verso» della richiesta addizione, in Giudizio “a quo” e promovimento del processo costituzionale, cit., 327 e ss.). 59 Tanto che, talvolta, si è rilevato un carattere quasi “censorio” della Corte rispetto al giudice a quo (R. Romboli, Il giudizio in via incidentale, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1990-1992), Torino, 1993, 47. 60 È evidente che il problema del (sindacato sulla) rilevanza assume un ruolo fondamentale anche nel quadro delle considerazioni che stiamo svolgendo; mediante il sindacato sulla rilevanza/irrilevanza, la Corte incide sulla sussistenza delle condizioni di promovimento della questione e, dunque – ancorché indirettamente – si pronuncia anche sull’influenza che la questione ha (o non ha) nel giudizio a quo; una espansione del giudizio sulla rilevanza - su cui pure la Corte afferma di voler mantenere un sindacato solo “esterno” (cfr. R. Romboli, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, cit., 72-73) basato essenzialmente sulla pregnanza della motivazione sul punto – incide significativamente sul giudizio costituzionale come fase, od aspetto del “diritto al processo”. Non è ovviamente questa la sede per addentrarsi nello studiatissimo campo della definizione dei parametri della “rilevanza” e della “non manifesta infondatezza”. Ci si limita dunque a rinviare alla copiosa dottrina sul tema, segnalando solo, trattandosi di contributi recenti ed assai completi, F. Dal Canto, La rilevanza e il valore del fatto nel giudizio di costituzionalità delle leggi in via incidentale, in E. Malfatti, R. Romboli, E. Rossi (a cura di), Il giudizio sulle leggi e la sua “diffusione”. Atti del seminario di Pisa svoltosi il 25-26 maggio 2001 in ricordo di Giustino D’Orazio, Torino, 2002, 145 e ss., e L. Azzena, La rilevanza, in R. Romboli, L’accesso alla giustizia costituzionale. Caratteri, limiti, prospettive di un modello, Napoli, 2007, 601. 61 A. Spadaro, Limiti del giudizio costituzionale in via incidentale e ruolo dei giudici, Napoli, 1990, 118, proprio in punto di determinazione della questione di legittimità costituzionale, osserva che “nonostante alcune flebili e temporanee “linee di tendenza” della giurisprudenza costituzionale […] non pare […] che possa parlarsi, sul punto, di un vero e proprio indirizzo giurisprudenziale costituzionale”.

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ravvisato un segno della tendenza della Corte a strutturare il processo, sotto questo profilo, sulla base delle finalità di volta in volta perseguite62;

(ii) ha tenuto un approccio – almeno in prima battuta – molto netto in ordine alla possibilità di trarre il thema decidendum solo dalla ordinanza di rimessione63.

Sotto questi primi due profili64, la Corte ha tenuto un contegno che potrebbe essere ricondotto, ancorché in primissima approssimazione, ai principi processuali generali che informano i processi di tipo dispositivo, in cui il thema decidendum è tendenzialmente solo quello introdotto dalle parti, ed il giudice che lo conosce ne è vincolato. In questi processi, se la parte – portatrice dell’interesse attivato - ha commesso un qualche errore nella formulazione della domanda, o se ha ricostruito la domanda/pretesa in modo generico ed indeterminato (tale eventualmente da impedire il corretto formarsi del contraddittorio), il giudice – che non possa ricostruire in via interpretativa la portata della domanda – deve effettivamente procedere con una pronuncia processuale: ciò è coerente con il “diritto al processo”, con l’impostazione di un processo “di parti” in cui si tutelano diritti o interessi; la strumentalità di tale processo alla tutela effettiva di un interesse non è realizzabile se il giudice non è messo in grado di ricostruire i termini dell’interesse attivato.

Tali principi, però, devono essere letti in un quadro processuale profondamente diverso da quello dei processi “dispositivi”: nel giudizio in via incidentale, infatti, il riferimento della Corte costituzionale è sempre l’ordinanza di rimessione e quindi l’operato del giudice a quo portatore del “dubbio” di costituzionalità, che certamente non è parte del giudizio costituzionale, e che quindi non è portatore di un interesse proprio alla dichiarazione di incostituzionalità65, né è istituzionalmente interessato ad un “contraddittorio” davanti alla Corte (che anzi gli è del tutto precluso). Dunque il parallelismo con i principi processuali sui processi dispositivi è solo apparente: la Corte giudica su di un atto d’impulso che non promana (se non – eventualmente – in modo indiretto66) dalle parti, ma da un soggetto che non ha modo di interloquire con la Corte,

62 M. Luciani, Le decisioni processuali e la logica del giudizio incidentale, cit. 63 A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, cit., 189.. 64 In realtà le due prospettive sembrano integrarsi in misura significativa. Come è stato osservato, infatti, perlomeno per certi aspetti le giurisprudenza costituzionale sulle caratteristiche che deve presentare una “corretta” ordinanza di rimessione ha impostato un “dialogo” collaborativo fra giudice a quo e giudice ad quem, in modo da delineare un modello di ordinanza di rimessione in cui il thema decidendum sia effettivamente correttamente formulato. 65 A meno di configurare in termini di “domanda” – tecnicamente intesa - l’ordinanza di rimessione (domanda del giudice volta all’accertamento del non dover dare applicazione ad una norma incostituzionale), come proponeva a suo tempo M. Cappelletti, La pregiudizialità costituzionale nel processo civile, Milano, 1957. Sulla antica polemica in ordine all’ordinanza di remissione come domanda o come denuncia, si veda A. Cerri, Il profilo fra argomento e termine della questione di costituzionalità, in Giur. Cost., 1978, p. 358, in particolare nota 62 66 Notoriamente la giurisprudenza della Corte costituzionale è assai critica rispetto alle ordinanze di rimessione che si limitino a motivare per relationem rispetto alle istanze di parte volte a stimolare il potere di sollevare la questione (c.d. “mero accoglimento”) ed anche nei confronti di quelle che motivino per relationem rispetto ad altre ordinanze dello stesso o di diverso giudice. Secondo la Corte il giudice, anche quando aderisce alle prospettazioni di parte, deve rendere esplicite le ragioni che lo

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se non attraverso i complessi meccanismi “collaborativi” della restituzione agli atti al giudice a quo o, talvolta, delle pronunce di inammissibilità che consentono la riproposizione della questione67.

Per quest’aspetto, quindi, il controllo della Corte costituzionale sull’ordinanza di remissione – nei suoi profili formali e sostanziali – non è finalizzato alla tutela del “diritto al processo”, quanto alla verifica corretta instaurazione di un meccanismo procedimentale le cui caratteristiche sono date dal “contenuto necessario” dell’ordinanza, stabilito solo in misura ridotta dalla legge, ed in misura assai più significativa dalla stessa giurisprudenza costituzionale.

Ciò premesso, non può negarsi che le parti del processo a quo possano avere un interesse soggettivo all’accoglimento ovvero al rigetto della questione, giacché l’una o l’altra soluzione influiscono sull’esito della domanda di tutela soggettiva spiegata nel processo68. Tale interesse si esprime ovviamente in prima battuta davanti al giudice a quo in sede di proposizione della (o di resistenza avverso la) istanza di parte volta ad attivare il potere di sollevare la questione di costituzionalità (nonché, eventualmente, in sede di “riproposizione” della istanza respinta – o sollevata in termini differenti - nei successivi gradi di giudizio, ex art. 24 comma 2° legge 87/53). La giurisprudenza della Corte – come meglio vedremo – nega peraltro in linea di principio che i rilievi svolti dalle parti in sede di giudizio a quo, anche se eventualmente ribaditi o ripresi dalle parti costituitesi nel giudizio costituzionale, possano avere rilievo nel senso di modificare il thema decidendum della questione: la questione, in altre parole è “del giudice a quo”69, e sottratta alle parti70.

Sotto questo primo profilo, dunque, il collegamento fra “diritto al processo” – inteso come diritto ad una tutela piena delle proprie affermate situazioni giuridiche di vantaggio, estesa se necessario alla rimozione delle norme incostituzionali che ostacolano la affermazione giudiziale di tali posizioni – parrebbe venire assai limitato dalla giurisprudenza costituzionale che connette una valore fondamentale solo all’opera

portano a dubitare della costituzionalità della norma che ritiene di dover applicare (cfr., per le applicazioni più recenti, R. Romboli, Il giudizio in via incidentale, in R. Romboli (a cura di) Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2002-2004), cit., 72, nonché ord. 75 del 2007, 33 del 2006, 125, 141 e 364 del 2005, 59 del 2004. 67 Il che, secondo la Corte, comporta sempre l’attivazione di un giudizio nuovo. 68 Fra gli altri, G. D’Orazio, Soggetto privato e processo costituzionale italiano, II ed., Torino, 1992, 65. 69 A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, cit., 181, segnala come la giurisprudenza costituzionale che nega l’ammissibilità delle questioni formulate per relationem si sia via via affrancata dall’originaria giustificazione (difficile conoscibilità della questione così motivata per gli altri potenziali giudici a quibus) collegandosi “in modo sempre più esplicito all’esigenza di una valutazione (anche della non manifesta infondatezza) autonoma e responsabile del giudice a quo”. 70 Come è noto, in dottrina vi sono differenti opinioni sulla possibilità, per il giudice a quo, di modificare l’istanza di parte, accogliendola ma proponendo alla Corte una questione articolata diversamente: per la tesi positiva, fra gli altri, G. D’Orazio, Soggetto privato e processo costituzionale italiano, cit., in part. p. 66 e ss.; per la negativa A. Ruggeri – A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., 249.

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del giudice a quo nella formulazione dell’ordinanza di rimessione e dunque ai termini in cui l’ordinanza è formulata71.

(iii) La Corte ha però talvolta operato delle significative modulazioni del thema decidendum formulato nell’ordinanza di rimessione72. E ciò sia mediante meccanismi di carattere solo “interpretativo” dell’ordinanza e del suo contenuto (tanto da parlare di “codeterminazione” della questione fra giudice a quo e Corte costituzionale73, o di oggetto “dinamico” del processo costituzionale74), talvolta basati anche su un esame degli atti di causa, sia mediante meccanismi assai più incisivi come la dichiarazione di illegittimità consequenziale75 e la possibilità di sollevare la questione di legittimità costituzionale, in via incidentale come giudice a quo, di fronte a se stessa.

Sotto questo profilo, l’approccio utilizzato dalla Corte sembra maggiormente riconducibile alla tipologia processuale di diritto obiettivo ed ai relativi principi: cioè il perseguimento di un interesse obiettivo dell’ordinamento (che non necessariamente si esaurisce con l’accoglimento della sola questione prospettata, ma può richiedere addirittura un’opera di ulteriore “pulizia”76 dell’ordinamento da altre norme incostituzionali) e dunque una potenziale maggiore incidenza del giudice sul thema decidendum77. Contribuiscono a confermare questo secondo inquadramento anche altre circostanze: l’iniziativa riservata78 ad un soggetto pubblico (il giudice a quo); così come 71 Come è noto, questa ricostruzione non sembra costituire un risultato “a rime obbligate” delle (peraltro scarne) premesso normative che regolano l’attività della Corte (R. Romboli, Il giudizio costituzionale incidentale come processo senza parti, cit.), tanto da avere indotto autorevole dottrina a formulare la teoria della “doppia legittimazione”, della parte (indiretta) e del giudice a quo (diretta), nella formulazione della questione (G. Zagrebelsky, Giustizia costituzionale, cit., 188). 72 Non è questa la sede per tornare a ripercorrere la nomenclatura delle ipotesi di decisioni processuali concernenti il thema decidendum (genericità o indeterminatezza, contraddittorietà, carenza del petitum, petitum avente ad oggetto l’interpretazione della norma e non la sua costituzionalità, ecc.). Per qualche “catalogo” cfr. E. Catelani, La determinazione della “questione di legittimità costituzionale”, cit., e, più di recente, A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, cit., 190 e ss. nonché, sinteticamente, M. D’Amico – F. Biondi, Art. 134, 1° alinea, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla costituzione, cit., 2579. 73 A. Ruggeri, A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., 283. 74 E. Catelani, La determinazione della “questione di legittimità costituzionale”, cit., 365 e ss. 75 Come è noto, non è affatto semplice distinguere le applicazioni dell’illegittimità conseguenziale che derivano dall’interpretazione del petitum e le applicazioni dell’istituto derivanti dall’effetto sull’ordinamento della caducazione della norma impugnata principaliter. Sul punto, per una distinzione fra ipotesi di illegittimità conseguenziale “automatica” ed ipotesi in cui la Corte è chiamata ad un’opera interpretativa del complessivo ordinamento giuridico in cui va a collocarsi la caducazione, E. Rossi – Tarchi, La dichiarazione di illegittimità consequenziale nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in AA. VV. Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Milano, 1988, 633. 76 Mutuo l’espressione da S. Bartole, Una dichiarazione di illegittimità consequenziale qualificata dalla speciale importanza della materia, in Reg., 1991, 312. 77 Naturalmente, ciò ha indubbi riflessi sulla applicazione del principio processuale della corrispondenza fra chiesto e pronunciato, di cui ha parlato il collega Roberto Di Maria. 78 Come è noto, una parte della dottrina nega l’esclusività dell’iniziativa in capo al giudice a quo, e preferisce parlare di “duplicità” di iniziative: “diretta” quella del giudice e “mediata” quella delle parti (G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 188). Qui si fa riferimento alla “riserva” del

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certamente la “domanda/denuncia”79 concerne l’applicazione del diritto (costituzionale) nell’interesse oggettivo dell’ordinamento; e certamente l’effetto erga omnes (quantomeno) delle pronunce di annullamento80.

Vi è dunque un elemento per così dire “ibrido” nella fase di ricostruzione del thema decidendum da parte della Corte costituzionale, che accede sia ai principi (o meglio “schemi”) processuali elaborati nel quadro dei processi dispositivi, sia a quelli elaborati nel quadro dei processi di diritto obiettivo, ed in entrambi i casi con “adattamenti” dovuti alla struttura ed ai meccanismi per giudizio di costituzionalità. Tale ambiguità tende ovviamente a risolversi in una corrispondente ambiguità in ordine alla prevalente finalità perseguita dalla Corte nella sua attività81.

Non è agevole ricostruire in che misura questa ambiguità nelle opzioni processuali della Corte risponda ad un criterio definito, che possa essere considerato oggetto di ragionevoli aspettative da chi alla Corte si rivolga; certamente la possibilità della Corte di “gestire” in una certa misura il thema decidendum sia per quanto concerne il suo inquadramento sia per quanto concerne il suo ampliamento, induce a qualche riflessione in ordine al problema della misura in cui il meccanismo incidentale ed il carattere “concreto” della questione e quello “obiettivo” del giudizio implichino una espressione – ancorché molto sui generis – di una forma di “diritto al processo” in capo ai soggetti interessati all’accoglimento (o al rigetto) della questione di costituzionalità.

Come anticipato, la giurisprudenza della Corte ha valorizzato notoriamente moltissimo il requisito dell’autosufficienza dell’ordinanza di rimessione della determinazione dell’oggetto del giudizio, respingendo con un certo vigore le spinte – che pure in varie occasioni non hanno mancato di emergere – volte a consentire non tanto un’integrazione, quanto anche solo una differenza “lettura” dell’ordinanza di rimessione proveniente dalle parti (in specie, sugli “argomenti” e sui “profili”). Il principio è quello secondo cui il thema decidendum del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle norme ed ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, non potendo essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste fissate, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti82, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze83. Tale principio, del resto, non sembra del tutto estraneo rispetto all’impostazione dei giudizi comuni di diritto obiettivo che, pur nella giudice a quo nel senso “neutro” per cui questioni trasmesse direttamente dalle parti sarebbero ovviamente inammissibili. 79 È appena il caso di ricordare che il termine domanda è utilizzato in senso atecnico. Si vedano però gli autori che, in passato, hanno cercato di ricondurre il meccanismo incidentale allo schema processualcivilistico della “domanda/azione”: in particolare M. Cappelletti, La pregiudizialità costituzionale, cit., in part. 143 e ss. 80 Il che è considerato un elemento tipico dei processi “a contenuto obiettivo” da M. D’amico, Parti e processo, cit., 306, nt. 30. 81 R. Romboli, Il processo costituzionale dopo l’eliminazione dell’arretrato. Il giudizio costituzionale incidentale come giudizio «senza processo»?, in Quad. cost., 1991, 598 82 La Corte, infatti, deve tenere conto delle deduzioni difensive che si risolvono in un’attività “non diversa dall’illustrazione del contenuto dell’ordinanza” (fra le molte, ord. 469 del 1992) 83 Fra le moltissima sentenze che riaffermano il principio, si vedano le sentt. n. 310, 234 del 2006, n. 282, 244 del 2005, ord. n. 273 del 2005, n. 174 del 2003.

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relativa diversità strutturale, normalmente contemplano una sorta di intangibilità del thema decidendum per le parti84. Ma anche i processi di diritto obiettivo, come si è avuto già modo di segnalare, non negano in assoluto la possibilità che (non tanto il thema decidendum quanto) l’inquadramento della questione rimessa al giudice possa essere effettuato mediante una apertura alle diverse prospettazioni delle parti interessate.

Si è anzi visto come nei giudizi di diritto obiettivo ciò che residua del “diritto al processo” ovvero della facultas agendi è sostanzialmente la possibilità di partecipare in forma collaborativa alla formazione della decisione giudiziale – nelle diverse modalità in cui ciò può in concreto verificarsi – in modo da contribuire all’attività del giudice indirizzata all’affermazione di una norma di diritto obiettivo che si applica a seguito di un determinato fatto (cui l’ordinamento connette una conseguenza giuridica). Né va sottovalutata la portata generale del diritto di difesa ex art. 24 cost. e del principio del contraddittorio generalizzato ormai a tutte le forme di tutela giurisdizionale dall’art. 111 cost, ancorché ovviamente con gli adattamenti che ciascuna forma può effettivamente comportare.

Sempre a voler utilizzare “schemi” processuli mutuati dall’esperienza comune, nel giudizio di costituzionalità c’è sicuramente un “fatto” (l’esistenza di una norma di legge della cui costituzionalità si dubita nella ordinanza di rimessione85), c’è un giudice chiamato a trarne le conseguenze (in caso di accoglimento, la caducazione della disposizione), e ci sono certamente soggetti interessati a che la questione di costituzionalità sia accolta ovvero respinta (in quanto essa è collegata alla situazione che essi hanno fatto valere nel giudizio a quo ovvero in altri giudizi: la aspettativa/pretesa di rimozione/non rimozione della legge indubbiata finisce per essere di fatto incorporata nella pretesa di tutela della parti stesse, attivata davanti al giudice a quo, in quanto il rilievo nel giudizio della legge incostituzionale costituisce un elemento impeditivo dell’affermazione del diritto sostanziale).

Ma questi ultimi vedono limitato il loro ruolo esclusivamente nel quadro dei motivi, argomenti e profili prospettati dal giudice a quo (magari in contrasto con le prospettazioni di parte).

Si tratta di un “adattamento” significativo dei principi processuali comuni, o forse proprio di un principio specifico del processo costituzionale, determinato dalla particolarità delle funzioni della Corte?

Potrebbe forse ritenersi che, se la Corte costituzionale riconosce (a se stessa) la possibilità di “sviluppare” il thema decidendum rispetto all’atto di promovimento, operando sul binario del cercare di pervenire ad una pronuncia sulla questione di costituzionalità (eventualmente individuandone anche di ulteriori), possa apparire non del tutto ragionevole (nel senso di corrispondente ad una ratio autonoma) che tale

84 In questo contesto possono inquadrarsi anche le linee interpretative della giurisprudenza della Corte volte ad escludere la praticabilità della lis ficta mediante l’esclusione della possibilità di coincidenza fra il petitum del giudizio a quo e quello del giudizio costituzionale (cfr. ad es. ord. n. 175 del 2003). Per quanto concerne la difficoltosa conciliabilità fra tutela cautelare urgente avente ad oggetto diritti pregiudicati da norme incostituzionali e giudizio in via incidentale, cfr. recentemente L. Azzena, La rilevanza, cit., 617 e ss. 85 A. Pizzorusso, voce Iura novit curia, I) Ordinamento italiano, in Enc. Giur., XVIII, 3 e ss.

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ampliamento/correzione non possa in alcun modo essere indotto dalle considerazioni sviluppate eventualmente dalle parti costituite nel giudizio di costituzionalità, differenti dalla prospettazione del giudice86, quantomeno con riferimento ai “profili” della questione87 (ad esempio: diversa individuazione del tertium comparationis, che può qualificare effettivamente la disposizione indubbiata come incostituzionale, segnalazione di un ulteriore dubbio di costituzionalità su un’altra disposizione, volto a stimolare l’autorimessione).

Ciò vale specialmente alla luce della frequente osservazione per cui, nel corso del giudizio a quo, la fase relativa alla determinazione del contenuto dell’ordinanza non è sempre oggetto di un dibattito particolarmente approfondito fra giudice a quo e parti.

Questa considerazione ovviamente porterebbe a riconfigurare in modo incisivo il processo costituzionale in via incidentale in termini più vicini al processo comune, e nel senso di un maggiore interesse per la posizione delle parti, senza peraltro pregiudicare l’autonomia del giudizio costituzionale, conciliando “l’importanza esemplare del caso concreto e l’interesse delle parti a recare il loro contributo nel giudizio”88, e preservando al tempo stesso la distinzione fra legittimazione a collaborare alla decisione della Corte e mera tutela dell’interesse sostanziale sostenuto nel giudizio a quo89.

Sotto un altro profilo un limitato accesso dei “profili” prospettati dalle parti, contribuirebbe certamente in modo significativo alla determinazione “dinamica” dell’oggetto del giudizio, che tenga in considerazione la norma (ovvero la “situazione normativa”) nella sua effettiva portata: cioè – forse paradossalmente – comporterebbe un ausilio proprio alla funzione della Corte di giudice di diritto obiettivo, se si tiene in considerazione che l’oggetto del giudizio della Corte costituzionale si “colora” attraverso la collocazione della questione incidentale nel contesto ordinamentale complessivo.

Certamente, la determinazione veramente “piena” della questione di costituzionalità – sia sotto il profilo della funzione lato sensu “politica” della Corte che sotto quello della concreta tutela degli interessi individuali - sarebbe maggiormente garantita se potessero in concreto avere accesso alla giustizia costituzionale tutti coloro i quali vedono immediatamente connessa una propria situazione soggettiva con il giudizio di costituzionalità. Prendendo le mosse dalla giurisprudenza costante secondo cui è inammissibile l’intervento “di chi non è stato parte del giudizio "a quo", a nulla rilevando l'eventuale partecipazione ad altri giudizi di identico o analogo oggetto nei quali la questione non sia

86 Una qualche apertura in questo senso nella giurisprudenza costituzionale c’è, ma non è una tendenza consolidata. L’ord. 88 del 1990, per esempio, ha restituito gli atti al giudice a quo lamentando la mancata considerazione di eccezioni e deduzioni dviluppate dalle parti sia nel giudizio a quo che nel giudizio davanti alla consulta (cfr. R. Romboli, Il processo costituzionale dopo l’eliminazione dell’arretrato, cit., 604, mette in risalto la particolarità – ovvero l’eccezionalità della pronuncia in quanto si tratta di “una delle pochissime volte in cui la Corte prende in considerazione esplicitamente la posizione della parte nel giudizio a quo e le garanzie per la stessa di fronte alla funzione del giudice di esaminare le istanze di costituzionalità avanzate”. 87 In questi termini A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, cit., 195 e già prima Id., Il profilo fra argomento e termine, cit., 364-365. 88 A. Cerri, Il profilo fra argomento e termine, cit., 364. 89 Su cui A. Ruggeri – A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., 256-257.

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stata rimessa alla Corte costituzionale”90 in quanto “la contraria soluzione si risolverebbe in una sostanziale soppressione del carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale e in un irrituale esonero del giudice "a quo" dal potere-dovere di motivare adeguatamente la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione sottoposta al vaglio della Corte”91, una prospettiva in termini di maggiore attuazione del “diritto al processo” - ancorché con le particolarità che tale definizione comporta nel processo costituzionale – dovrebbe emergere dall’abbandono delle prassi di “non remissione” della questione, pur ritenuta di fatto rilevante, alla Corte. Come è ben noto, infatti, è estremamente frequente che i giudici (potenzialmente) a quibus, quando si presenti loro la possibilità di sollevare un questione di costituzionalità identica o analoga ad altra già sollevata - ma anche quando essi potrebbero declinare la questione secondo differenti profili o con differenti argomenti (quando non addirittura individuando un diverso parametro) – preferiscono spesso utilizzare l’irrituale strumento della sospensione del giudizio a quo senza rinvio della questione alla Corte. Questa prassi: (i) impedisce alla Corte di pronunciarsi su di un oggetto più complesso e completo di quello proposto dal “primo” giudice a quo, formando davanti alla Corte un thema decidendum meno ricco di quello che avrebbe potuto essere; (ii) in caso di rigetto apre la strada ad ulteriori impugnazioni che avrebbero potuto essere utilmente riunite, e più in generale, (iii) impedisce alla Corte di avvalersi della “collaborazione” ricostruttiva che potrebbe derivare, oltre che dalla motivazione delle “altre” ordinanze di rimessione – il che, in caso di riunione, comporterebbe un ampliamento dell’oggetto – anche dalla costituzione delle parti dei giudizi rimasti sospesi senza rinvio. La decisione dei giudizi potenzialmente a quibus di non sollevare il giudizio, non perché persuasi della manifesta infondatezza o dell’irrilevanza della questione, ma semplicemente nella prospettiva di attendere il giudizio da altri introdotto, assieme alla scelta della Corte di attenersi scrupolosamente ai “limiti dell’impugnazione”, priva il thema decidendum del giudizio di costituzionalità in via incidentale di elementi che potrebbero essere preziosi o comunque significativi.

3.2 Nel giudizio in via d’azione

Il giudizio in via d’azione, come anticipato, segue uno schema molto diverso rispetto a quello incidentale, e sembra consentire una più agevole accostabilità ai modelli processuali comuni dei giudizi “di parti”. Il ricorso introduttivo incorpora una domanda92 che – pur tenendo debitamente in considerazione le varie “asimmetrie” contenutistiche fra il ricorso statale e quello regionale93, e le specificità della pretesa e degli effetti dell’eventuale accoglimento – muove da una pretesa di tutela di una posizione giuridica soggettiva (di livello costituzionale) espressa direttamente degli stessi

90 Fra le moltissime, Corte cost., sent, 2002 del 2005 91 Corte cost., sent. n. 470 del 2002 92 In questi termini M. D’Amico, Diritto processuale costituzionale e giudizio in via principale, in Giur. Cost., 1999, 2970. 93 Si veda, da ultimo, C. Padula, L’asimmetria del giudizio in via principale. La posizione dello stato e delle regioni davanti alla Corte costituzionale, Padova, 2005.

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ricorrenti, che se ne assumono titolari. La stessa Corte afferma che “il giudizio in via principale [è] un processo di parti, svolto a garanzia di posizioni soggettive dell’ente ricorrente”94.

In questo contesto, la Corte ha stabilito che l’esigenza della perimetrazione la più esatta possibile del thema decidendum svolge nel giudizio in via d’azione un ruolo assolutamente fondamentale, ed addirittura più importante di quanto non accada nel quadro del giudizio in via incidentale. In una pronuncia già oggetto di ampia segnalazione in dottrina95, infatti, la Corte argomenta sulla base dell’assunto per cui l’esigenza dell’esatta individuazione dei termini normativi della questione di legittimità costituzionale si pone, nei giudizi in via d’azione in termini “più pregnanti” che nei giudizi incidentali; ciò con riferimento sia alla difficoltà che la Corte incontra nell’esatta delimitazione di una questione mal formulata, sia soprattutto con riferimento alla rispetto del contraddittorio fra le parti del giudizio96.

La carente precisione nell’individuazione del thema decidendum non deve poter ridondare in una insormontabile difficoltà per l’ente resistente nella elaborazione e formulazione formulazione delle sue difese. Questo profilo è stato considerato dalla dottrina come un significativo “salto di qualità” della giurisprudenza costituzionale nell’ottica della riconoscibilità di un “processo costituzionale”97.

Sulla falsariga delle considerazioni che si vanno svolgendo, il rilievo della Corte sul maggior rilievo della esatta delimitazione del thema decidendum nel giudizio in via d’azione – argomentato sulla base dell’esigenza di garantire in termini effettivi sia il “diritto al processo” costituzionale sia il diritto di difesa - sembra espressivo del principio che si è sopra visto in tema di giudizio comune, per cui: (i) il thema decidendum nei giudizi dispositivi è determinato dalle parti, ma (ii) il giudice è tenuto a effettuare uno sforzo interpretativo per desumere l’effettiva domanda/pretesa svolta dall’attore, (iii) tale sforzo si deve fermare davanti alla constatazione che l’atto introduttivo non consente il contraddittorio.

Su questo punto merita soffermarsi per una precisazione in ordine al valore “in astratto” ovvero “in concreto” del richiamo al contraddittorio quale criterio che la Corte deve tenere presente nella valutazione del thema decidendum indicato nel ricorso. Si deve trattare di un criterio “astratto” di (possibilità di) contraddittorio, per cui il ricorso potrebbe essere considerato inammissibile per genericità/incompletezza anche quando il resistente si fosse costituito ed avesse sviluppato le proprie difese, oppure la verifica di tale criterio dovrebbe fermarsi di fronte alla constatazione che il resistente si è effettivamente difeso nel merito? Se si dovesse adottare la prima delle due prospettazioni, infatti, la Corte interpreterebbe il thema decidendum per come esso è

94 Sent. 228 del 2003- 95 Si tratta della sent, n. 384 del 1999, commentata sia da F. Dal Canto – E. Rossi, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in R. Romboli (a cura di ), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2002 – 2004), cit., 188, che da M. D’Amico, Le zone d’ombra nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale, relazione tenuta al Convegno dell’Associazione “Gruppo di Pisa” di Genova del 10 marzo 2006, p. 27 del paper, e Id., Diritto processuale costituzionale e giudizio in via principale, cit. 96 Sotto entrambi i profili A. Pace, La Corte disconosce il valore costituzionale della libertà di concorrenza?, in Giur. Cost., 1999, 2969. 97 M. D’Amico, Diritto processuale costituzionale, cit., 2973.

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formulato nel ricorso, affidando il giudizio sulla determinatezza dell’oggetto a criteri propri, senza procedere ad un test di resistenza tarato sulle difese avversarie; nel secondo caso, la Corte si limiterebbe a constatare l’integrità del contraddittorio, e potrebbe desumere da questo i termini della questione.

In qualche recente pronuncia la Corte sembra avere particolarmente valorizzato il dato testuale dell’oggetto del giudizio così come definito unicamente dall’atto introduttivo, prescindendo dal dare rilievo alla circostanza per cui il giudizio stesso si era effettivamente svolto in contraddittorio, e le parti erano riuscite a sviluppare le proprie argomentazioni (talvolta senza eccepire la genericità/indeterminatezza del ricorso)98. La Corte, in questi casi, non determina il thema decidendum prendendo atto del contraddittorio e desumendone i termini (anche) dagli atti mediante i quali il contraddittorio stesso si è sviluppato, ma esige che l’atto introduttivo, di per sé, “sia esso un ricorso principale ovvero per conflitto o un provvedimento giudiziario con cui venga sollevata una questione incidentale di costituzionalità, deve contenere – in via autonoma – tutti gli elementi che possano consentire alla Corte l’esame e la valutazione delle censure proposte”99. L’ente ricorrente si trova di fronte ad una pronuncia di inammissibilità quando lui stesso ed il resistente possono avere speso significative risorse nella elaborazione di difese, con la conseguenza (non certo secondaria) che una legge potenzialmente incostituzionale continua ad operare (ed ovviamente non può più essere impugnata in via d’azione)100.

Si tratta verosimilmente di uno “svilimento” del contraddittorio e del principio di formazione progressiva del thema decidendum nei giudizi dispositivi101 - improntato ad un contegno forse formalistico della Corte - che, nel quadro dei principi processuali comuni, potrebbe essere forse condiviso in un contesto cautelare102, ma verosimilmente molto meno in un contesto di giudizio di merito.

Inoltre, sempre in tema di inammissibilità del ricorso, la Corte continua a seguire due binari non sempre agevolmente sintetizzabili: da un lato ha preannunciato e poi seguito una linea “rigoristica”103 – quando non per certi versi formalistica - sulla ricorrenza dei requisiti minimi di ammissibilità (originata proprio dalla necessità di garantire il

98 Sul punto, cfr. sent. 51 del 2006, 450 del 2005, 176 del 2004. Si veda, su questi profili, A. Masaracchia, Note su una recente tendenza della Corte a disporre dell’oggetto del processo costituzionale, in Giur. Cost., 2005, 4839. 99 Corte cost., n. 38 del 2007. 100 Si vedano le considerazioni di L. Carlassare, I diritti davanti alla Corte costituzionale: ricorso individuale o rilettura dell’art. 27 l. n. 87 del 1953?, in Studi in onore di Leopoldo Elia, Milano, 1999, 214 e di A. Pertici, La Corte mantiene il rigore: questione inammissibile per erroneità delle censure e incerta individuazione dell’oggetto, in Giur. Cost., 2003, 1626. 101 A. Marasacchia, op. cit., 4848. 102 Ed infatti anche la Corte, nel primo caso di applicazione del nuovo potere cautelare di sospensione della legge impugnata ex art. 35 della legge 87 del 1953, come modificato dall’art. 9 della legge 131 del 2003, ha censurato la regione che aveva chiesto la cautela sulla base della prospettazione “sostanzialmente assertiva” del periculum in mora (ord. n. 245 del 2006, sulla quale, volendo, P. Milazzo, L’impugnativa regionale del “codice dell’ambiente”: un’occasione per qualche riflessione sulla struttura ed i limiti del potere di sospensione delle leggi nell’ambito dei giudizi in via d’azione introdotti dalle regioni, in Reg., n. 1/2007). 103 A. Pertici, La Corte sceglie il rigore: questione inammissibile per insufficiente definizione dell’oggetto e genericità della relativa motivazione, in Giur. Cost., 2001, 660 e ss., Id., La Corte mantiene il rigore:, cit., 1621.

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contraddittorio), salvo poi, in alcune non infrequenti occasioni, procedere invece ad operazioni di “autointegrazione” del contenuto del ricorso carente proprio di taluni di quei requisiti minimi che la Corte ha elaborato in connessione al rinnovato interesse per la problematica del contraddittorio104.

Infine, la Corte ha ritenuto applicabile (ed ha applicato) anche al giudizio in via incidentale lo strumento della illegittimità conseguenziale ex art. 27 l. 87/1953, consentendo così un’estensione degli effetti della pronuncia al di là del thema decidendum delineato dal ricorso introduttivo, ed al di là di ogni possibile garanzia del contraddittorio105.

È evidente che anche nel giudizio in via principale si manifesta il problema tipico di tutte le esperienze di giustizia costituzionale, strette fra tutela delle situazioni soggettive portate di fronte alla Corte e tutela obiettiva dell’ordinamento costituzionale106, finalizzata all’eliminazione delle norme incostituzionali (ma – a quanto pare – non solo di questo)107; problemi che sembrano addirittura accentuati nel quadro del giudizio in via d’azione108. Sotto quest’ultimo profilo, si comprendono quelle tendenze giurisprudenziali mediante le quali la Corte “salva” i ricorsi imperfetti o estende la portata della decisione a disposizioni non impugnate; sotto il profilo della tutela delle 104 Abbastanza frequente, ad esempio, la individuazione di un parametro – la cui indicazione è completamente carente - tratta da una interpretazione del “tenore” del ricorso (di recente, sent. 207 del 2006), ovvero la sostituzione di un parametro giudicato erroneo con uno giudicato corretto (cfr. sent. 48 del 2003, su cui D. Monego, Di un palese caso di ultrapetizione nel giudizio in via principale, in Reg., 2003, 883), od anche, infine, l’interpretazione del più fondamentale dei requisiti del ricorso – la norma impugnata ed il parametro invocato – mediante il riferimento non alla delibera del consiglio dei ministri, ma alla relazione del Ministro degli affari regionali (cfr. M. D’Amico, Le zone d’ombra nel giudizio di legittimità costituzionale, cit., pp. 22-23 del paper). La Corte ha peraltro osservato, nel notissimo caso definito con la sentenza n. 167 del 2004, che ogni “trasferimento” del parametro da parte del ricorrente in corso di giudizio comporterebbe un vulnus per la difesa, giacché “i termini della questione sono definiti dal ricorrente con l’atto introduttivo”. 105 Cfr. sent. 40 del 2006, commentata da E. Bindi – M. Mancini, Il sindacato di legittimità costituzionale su leggi regionali in materia di «professioni»: profili sostanziali e processuali, in Giur. Cost., 2006, p. 323 e ss., i quali segnalano la tendenza del governo ad impugnare solo una parte delle disposizioni affette dal medesimo vizio, “confidando” nella dichiarazione di illegittimità conseguenziale. 106 Espressione dell’uno e dell’altro polo è l’art. 25 delle norme integrative, che prevede la rinuncia (il che allude alla disponibilità del giudizio in capo alle parti), ma anche l’accettazione, il che comporta “un interesse all’accertamento della competenza che trascende quello della mera conservazione dell’atto impugnato” (A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, cit., 299) 107 Non è oggetto del presente contributo, ma non ci si può esimere di accennare a quelle pronunce (ad es. n. 380 del 2003, n. 13 del 2004) in cui la Corte modula gli effetti delle proprie decisioni – anche di accoglimento – tenendo in considerazione la circostanza per cui la pronuncia potrebbe comportare un vulnus nell’esercizio di diritti fondamentali. Qui la Corte mostra una volta di più di avere coscienza del fatto che la sua attività, oltre che “perfezionare il tessuto costituzionale” (G.L. Conti, L’interesse al processo nella giustizia costituzionale, Torino, 2000) sotto il profilo prettamente normativo, incide anche su una realtà sociale che può trovare nell’attuazione (immediata) della scelta costituzionalmente corretta, una lesione irreparabile sotto profili che – per la loro importanza – possono essere portati a bilanciamento con il valore stesso dell’immediata caducazione della norma incostituzionale e dell’immediato venir meno dei suoi effetti. 108 F. Dal Canto – E. Rossi, Il giudizio in via principale, cit., 196, parlano icasticamente di “schizofrenia” del giudizio in via principale “un po’ giudizio di parti, a garanzia delle rispettive sfere di competenza, un po’ giudizio sulla legalità costituzionale dell’ordinamento”.

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posizioni soggettive delle parti si comprende invece l’atteggiamento rigoristico sul contenuto “minimo” del ricorso (che però non riesce a giustificare appieno, a mio parere, il ricorso a pronunce di inammissibilità all’esito di giudizi a contraddittorio pieno)109. Non è affatto agevole – come si è visto anche per il giudizio in via incidentale – tracciare una linea netta in ordine ai motivi per cui la Corte lasci prevalere l’uno o l’altro modello. Sotto il profilo del “diritto al processo”, l’ente che intende agire a tutela delle proprie competenze legislative viene certamente immesso in un meccanismo di tipo contenzioso che vede nel suo ricorso (o meglio: nei “motivi” e negli “argomenti” ivi sviluppati, oltre che nell’oggetto e nei parametri individuati) il luogo unico in cui viene fissato il thema decidendum110.

Le modalità mediante le quali tale meccanismo si attiverà effettivamente, però, non sono completamente prevedibili, in quanto, come è stato scritto, la Corte “oscilla fra rigore e lassismo”111. Sia il ricorrente che il resistente, cioè, non sono perfettamente in grado di prevedere con esattezza se il ricorso sarà trattato dalla Corte proprio come viene trattato un atto di impulso processuale comune ordinario (con il debito rigore in punto di inammissibilità, ma con la debita considerazione del contraddittorio), ovvero se esso sarà prevalentemente trattato come una sorta di “occasione” colta dalla Corte per procedere a tutelare l’intesse oggettivo dell’ordinamento costituzionale, mediante tecniche di espansione/correzione/ridefinizione del thema decidendum ovvero mediante la dichiarazione di incostituzionalità di disposizioni ulteriori rispetto a quelle impugnate. In questo secondo caso le posizioni giuridiche delle parti (più spesso del resistente, ma anche del ricorrente) possono prestarsi a venire “immolate sull’altare delle superiori esigenze di legalità costituzionale”112.

In questo quadro merita quantomeno un cenno (anche se si tratta di tematica che attiene maggiormente al problema della corrispondenza fra chiesto e pronunciato) un ulteriore strumentario elaborato dalla Corte per affrontare numerose questioni di legittimità in via incidentale: l’operare combinato di riunione e separazione delle questioni, in modo da procedere con decisioni più “omogenee”, nelle quali possono essere affrontati “frammenti” di ricorsi diversi che – per usare la terminologia adottata dalla Corte nella pronuncia capostipite – sono unici solo quanto alla forma, ma diversi nella sostanza113. È stato ampiamente osservato nella riflessione scientifica come il fenomeno della riunione nel giudizio costituzionale, di per sé, abbia conseguenze significative riferite proprio alla definizione dell’oggetto del giudizio114 , e come non sempre abbia

109 Cui forse non è esente un atteggiamento di “economia” processuale, vista l’inopinata mole di ricorsi in via incidentale che hanno assorbito l’attività della Corte nel periodo successivo all’entrata in vigore delle riforme costituzionali del triennio 1999-2001. 110 Non sembra infatti possibile nel processo in via d’azione – se non forse con esclusivo riferimento agli “argomenti” del ricorso – procedere ad operazioni di emendatio libelli consentite invece nei giudizi ordinari (come si è visto) ed anche in giudizi di tipo impugnatorio come quelli amministrativi (fra le ultime, Cons. Stato, sez. VI, 1° dicembre 2006, n. 7094). 111 M. D’Amico, Le zone d’ombra, cit., p. 22 del paper. 112 F. Dal Canto – E. Rossi, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, cit., 195-196. 113 Sent. n. 201 del 2003. 114 C. Salazar, Riunione delle cause nel giudizio sulle leggi e teorie del «caos», ovvero: della «leggerezza» (insostenibile?) del processo costituzionale, in P. Costanzo (a cura di), L’organizzazione e il funzionamento della Corte costituzionale, Torino, 1996, 369

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risposto a logiche perfettamente coerenti e controllabili115 (anche in virtù dell’assenza di uno schema di regolamentazione generale dell’istituto116), basandosi su affermazioni di principio relative, di volta in volta, alla identità/analogia/affinità/connessione delle questioni sollevate. Combinare una frammentazione del thema decidendum mediante lo “stralcio” di parti di ricorsi con il meccanismo della riunione, se può in qualche misura razionalizzare il “prodotto-giurisprudenza costituzionale”117, può dunque comportare riflessi significativi in ordine al profilo del “diritto al processo”.

Il soggetto che agisca a tutela della propria situazione soggettiva (ad es. della propria competenza) struttura l’impugnativa sulla base di motivi ed argomenti, che forniscono alla Corte la sua rappresentazione della “situazione normativa” in essere e della asserita incostituzionalità della questione in quel contesto ricostruttivo; certamente il ricorso può essere plurimo quando si tratta di impugnare in termini perentori discipline estremamente disomogenee e complesse come – ad esempio – quelle nate nell’ambito della manovra finanziaria118: ma l’unicità del ricorso importa verosimilmente una certa unitarietà nella ricostruzione del quadro complessivo.

Tale intima unitarietà (ed eventualmente razionalità) del ricorso, derivante quantomeno dall’essere stato redatto ed elaborato in un unico torno di tempo e sulla base della medesima impostazione, tende a venire meno o comunque a perdere efficacia quando si “asporta” – in modo più o meno ragionevole – una parte del ricorso e la si “trasporta” nel contesto di un giudizio avente ad oggetto solo una parte della disciplina impugnata, ed in cui eventualmente confluiscono i rilievi formulati anche da soggetti diversi (per andare poi ad essere trattati in pronunce adottate magari a distanza di mesi, da relatori diversi, ed eventualmente dalla Corte in formazione differente). Al tempo stesso, il thema decidendum dei giudizi derivanti dall’operazione di stralcio/riunione tende a complessificarsi notevolmente, con significativi riflessi in tema di contraddittorio119. Anche sotto questo profilo, dunque, la Corte adotta uno strumento che – per quanto certamente ragionevole nelle sue implicazioni generali – configura un rapporto peculiare fra soggetto “che agisce”, contenuto dell’azione e “lettura” dell’azione da parte del giudice delle leggi120.

115 E. Bindi, La riunione delle cause nel giudizio di legittimità costituzionale, Padova, 2003. 116 Anche sotto questo profilo, dunque, si manifesta un’ipotesi di significativo “adattamento” del diritto processuale comune – che prevede ipotesi rigorosamente definite per procedere alla riunione – ed il processo costituzionale. La riunione delle cause, sia nel processo civile che in quello amministrativo, sono regolamentati in maniera dettagliata, e rispetto ad essi esistono poteri processuali e rimedi; così anche per le ipotesi di sentenze “parziali”. 117 Ma, come si vede, con questa considerazione siamo in un’ottica completamente “oggettiva” e – per certi versi – anche astratta. 118 A tale proposito, sembra che l’auspicio di A. Ruggeri, La Corte ed il drafting processuale (nota a sentenza n. 201/2003), in Id. “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, VII, 2, Studi dell’anno 2003, Torino, 2004, 1 e ss., volta ad intravedere nel nuovo strumento processuale adottato dalla Corte una sorta di “esempio” indirizzato al legislatore perché si impegni maggiormente nell’adozione di normative di tipo omogeneo, sia stato ampiamente disatteso dal legislatore stesso. 119 Su cui M. D’Amico, Le zone d’ombra, cit., 34 del paper. 120 Per non dire del fatto che il “diritto al processo” tende a perdere, in questo contesto, la valenza di azione unitaria, nella misura in cui l’effetto dell’impugnazione – qualora accolta dalla Corte – tende a prodursi “a rate” piuttosto che in modo unitario.

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3.3 Nei conflitti di attribuzione (cenni)

Il problema fin qui affrontato, quello degli adattamenti nelle esperienze di giustizia costituzionale dei principi processuali comuni che trovano loro esplicazione negli atti di impulso quali atti in cui si esprime il “diritto al processo”, assume nella materia dei conflitti un profilo non del tutto dissimile rispetto a quello che si è cercato di segnalare con riferimento al giudizio in via principale. Anche qui, infatti, siamo di fronte ad una giurisdizione di carattere contenzioso caratterizzata da una procedura “anche fin troppo essenziale, se non lacunosa”121, nella quale il giudice costituzionale è chiamato alla “soluzione di conflitti” attuali e concreti, ancorché di “tono” costituzionale.

Prescindendo dai profili soggettivi, che pure hanno interesse nella ricostruzione di un diritto al processo costituzionale, si intendere svolgere solo un cenno alle modalità mediante le quali la Corte costituzionale, nel giudicare sull’ammissibilità del conflitto (“osservatorio” ovviamente privilegiato – specialmente in tema di conflitti – sulla portata dell’atto di promovimento), valuti la domanda di parte. È abbastanza evidente, su questo punto, come la Corte abbia adottato, perlomeno nel più recente periodo, una atteggiamento “sostanzialistico” nel giudicare i ricorsi introduttivi di conflitti (particolarmente di quelli interorganici), diverso rispetto ai non del tutto superati aspetti formalistici del sindacato sugli atti di promovimento del giudizio sulle leggi, e non estraneo forse all’oggetto del giudizio (che solo assai limitatamente, come è noto, può essere la legge)122.

È frequente, in giurisprudenza, il rilievo per cui “si deve ritenere necessaria e sufficiente qualsiasi espressione idonea a palesare, in modo univoco e chiaro, la volontà del ricorrente di richiedere la decisione della Corte su un determinato conflitto di attribuzione”123, e per cui non è nemmeno necessario indicare i parametri costituzionali attributivi delle competenze asseritamente lese né un preciso petitum, in quanto “la doglianza” (cioè i termini “narrativi” di essa) “rimandano senza possibilità di equivoci alle norme che tutelano tali attribuzioni” ed il fatto di avere introdotto un conflitto implica l’obiettivo dell’annullamento dell’atto. Anche gli aspetti formali/materiali vengono sostanzialmente ritenuti secondari dalla Corte, ed il relativo mancato rispetto tendenzialmente non implica una lesione del contraddittorio: così per lo “scambio” della forma-ricorso con la forma-ordinanza124, e così per il venir meno delle “difficoltà materiali” connesse al deposito del ricorso in numerose copie125.

121 A. Ruggeri – A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., 352. 122 Sul principio di “presunzione favorevole” nei confronti della (costituzionalità della) legge, A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, cit., 445. 123 Sent. n. 97 del 2007, n.. 249 del 2006, n. 28 del 2005. 124 Ciò anche in relazione al principio di tipicità degli atti del giudice, che non viene meno anche quando egli assuma la veste di ricorrente in un conflitto; cfr. E. Malfatti – S. Panizza – R. Romboli, Giustizia costituzionale, Torino, 2003, 203. 125 La Corte censura il resistente (nella specie, la Camera dei deputati) quando richiede “una applicazione (non tanto rigorosa, quanto) rigidamente letterale” delle norme integrative; la norma integrativa in questione (l’art. 6), infatti, se interpretata rigorosamente - ma non in modo rigidamente letterale – “non ha nulla a che vedere” con la par condicio delle parti del conflitto. Si noti che la Camera aveva eccepito ampiamente l’inintelligibilità del petitum e della causa petendi del ricorso introduttivo

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D’altra parte, la giurisprudenza non è sempre molto chiara nell’individuare quali debbano essere i termini “minimi” perché un conflitto sia correttamente introdotto126. Si pensi alla giurisprudenza, non del tutto coerente, sul contenuto dell’atto introduttivo di un conflitto sollevato da un giudice comune contro la delibera di insindacabilità delle opinioni del parlamentare: talvolta la Corte ha ritenuto fondamentale la riproduzione esatta nell’atto di promovimento delle frasi “incriminate”127, talaltra ha ritenuto di poter procedere nel merito anche in assenza di tale requisito, eventualmente integrato per relationem128; ed infine ha censurato il ricorrente che – anziché procedere con la riproduzione delle frasi ingiuriose, o con l’allegazione di un documento che le riproducesse – ha effettuato una riformulazione di tali frasi nell’ottica di esporre come ed in che misura essere risultassero appunto ingiuriose e comunque estranee all’attività parlamentare.

Il ricorso introduttivo, quindi, pur costituendo il momento di introduzione davanti alla Corte di una questione concreta (si pensi al necessario profilo di attualità e lesività129), si presta ad essere ampiamente interpretato dal giudice costituzionale per trarne non solo i parametri costituzionali attributivi delle competenze asseritamente lese, ma anche i motivi di merito per cui il conflitto sussiste(rebbe)130. L’opera di “perfezionamento del tessuto costituzionale” sul versante della ricostruzione dei rispettivi ambiti competenziali e della “misurazione” 131 di tono costituzionale dell’operato degli enti (o degli organi), dunque, consente alla Corte di interpretare e per molti versi conformare il thema decidendum, fino alla conseguenza più vistosa, che è la selezione (nei conflitti interorganici) dei legittimati passivi del giudizio132. Come è stato rilevato, infatti, “la disciplina del contenuto del ricorso […] si sostanzia nella introduzione di una questione che dovrà essere ulteriormente precisata e delimitata, attraverso un giudizio interpretativo della Corte costituzionale”133.

Il limite a questo particolare ruolo della Corte costituzionale potrebbe essere forse essere visto nell’applicazione, in entrambi i tipi di conflitto, dell’istituto della rinuncia che, se accettata da tutte le parti, comporta l’estinzione del giudizio: evidentemente la prospettiva “di diritto obiettivo” del giudizio sui conflitti diviene recessiva al momento in cui il conflitto stesso (inteso in senso “storico”, e non come oggetto del giudizio) viene a cessare, e non soltanto perché superato da contegni conformi alle competenze costituzionali (non si può infatti escludere la soluzione “politica” del conflitto fra i

126 La Corte sembra talvolta utilizzare il riferimento alla “sommarietà” dei termini del conflitto previsto dall’art. 37 della legge 87 del 1953 come strumento per ritenere ammissibili conflitti il cui atto introduttivo sia succintamente motivato. 127 Ad esempio, sent. 79 del 2005. 128 Ad esempio, sent. 331 del 2006, ord. 264 del 2000. 129 Per cui “il conflitto non deve trasformarsi in uno strumento di mera garanzia dell’ordinamento oggettivo, ma deve rimanere legato alla tutela di posizioni in qualche misura soggettivate" (E- Malfatti – S. Panizza – R. Romboli, Giustizia costituzionale, cit., 200. 130 Sul punto, la Corte fa appello anche alla estrema stringatezza del 131 G.L. Conti, L’interesse al processo, cit., 132 A. Pisaneschi, I conflitti di attribuzioni fra i poteri dello stato. Presupposti e processo, Milano, 1992, 362-363. Sulle tendenze più recenti nell’individuazione dei legittimati passivi (ed attivi) al conflitto, E. Malfatti, Il conflitto di attribuzioni fra i poteri dello stato, in R. Romboli (a cura di), Aggiornamenti sul processo costituzionale (2002-2004), cit, 298 e ss. 133 A. Pisaneschi, op. cit., 364,.

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soggetti che l’hanno animato134); rinuncia che, peraltro, non comporta acquiescenza, visto il noto principio di indisponibilità delle attribuzioni costituzionali135.

Anche in questa esperienza di giustizia costituzionale – che pure parrebbe in linea di principio un processo in cui una parte pone una domanda di tutela (attribuzione di competenza, eventuale annullamento di atti lesivi), ed in cui non vi è iniziativa d’ufficio, mentre vi è diritto alla rinuncia - emergono profili di carattere sostanzialmente ibrido fra i due “poli” che contraddistinguono la natura dei i processi costituzionali.

4. Brevissime osservazioni su “diritto al processo”, atto di promovimento ed interesse ad agire

Se il sindacato della Corte costituzionale sul thema decidendum è un osservatorio significativo del modo con cui all’interno delle varie esperienze di giustizia costituzionale viene “letto” l’atto di promovimento, un altro indice significativo degli “adattamenti” ai giudizi costituzionali dei principi processuali comuni è quello dell’interesse ad agire, sul quale in questa sede si intendere spendere solo qualche breve considerazione.

Nel giudizio in via incidentale il problema dell’interesse o è assorbito dallo iato fra giudizio costituzionale e giudizio a quo (nel senso che solo il giudice a quo giudica dell’interesse ad agire delle parti)136, o è attratto nel prisma della rilevanza137 (e dei relativi limiti al controllo della sua sussistenza da parte della Corte costituzionale, come “applicabilità” o come semplice “influenza” sul giudizio a quo), o può essere risolto nell’interesse “istituzionale” (che andrebbe peraltro declinato in termini di obbligo) del giudice a quo - o eventualmente anche delle parti138 - di sollevare questioni rilevanti e non manifestamente infondate139 (con evidenti problematiche di confinazione col diverso problema della legittimazione del giudice). Certamente, in un quadro di tendenza verso una maggiore attenzione per la concretezza del giudizio di costituzionalità, il tema dell’interesse ad agire potrebbe avere sviluppi ed evoluzioni, che però dovrebbero “fare i conti” con i – peraltro mutevoli – confini del giudizio sulla rilevanza.

Nelle esperienze di giustizia costituzionale maggiormente assimilabili a processi “di parti”, animati – anche se con le precisazioni che si è cercato di passare in rassegna – 134 S. Grassi, Il giudizio costituzionale sui conflitti di attribuzione tra stato e regioni e tra regioni, Milano, 1985, 363 osserva che la situazione conflittuale è superata solo in caso di “riconoscimento (o di accettazione) reciproco(a) delle rispettive attribuzioni e dei relativi limiti). 135 S. Grassi, Il giudizio costituzionale sui conflitti di attribuzione., cit., 365. 136 Con talune, peraltro note e discutibili, pronunce giurisprudenziali che invece sembrano interessarsi al problema dell’interesse della parte: A. Ruggeri – A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., 255. 137 In questo senso già C. Esposito, L’interesse a ricorrere nei ricorsi contro le leggi, in Giur. Cost., 1960, 650 138 Seguendo la linea per cui anche le parti sono portatrici, oltre che del loro interesse sostanziale (ed anche, direi, del loro strumentale interesse ad agire per la tutela dell’interesse sostanziale), anche di un interesse soggettivo all’integrità oggettiva dell’ordinamento (A. Spadaro, Limiti del giudizio costituzionale in via incidentale e ruolo dei giudici, cit., 165). 139 Si pensi alla nota vicenda della sindacabilità delle norme penali di favore, nonché l’ampia casistica giurisprudenziale citata da A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, cit., 154 ed ss.

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dal principio della domanda, l’interesse ad agire si presenta invece nella sua forma classica di condizione dell’azione consistente nell’esigenza di ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile, e non conseguibile senza l’intervento del giudice (a meno che, ovviamente, rientri la “crisi di cooperazione” che ha dato luogo alla lite140), che si presenta come necessario e sufficiente.

Studi recenti hanno confermato quella che è un’impressione che emerge dalla lettura della giurisprudenza costituzionale, e cioè che il concetto di interesse ad agire viene utilizzato dalla Corte in modo non sempre perfettamente aderente alla definizione che è emersa nella dottrina processuale (civile ed amministrativa)141, e spesso per indicare problematiche di natura diversa dall’interesse, come ad esempio la legittimazione, la cessazione della materia del contendere, i vizi deducibili nel giudizio in via principale, ecc.142. L’uso di questa categoria da parte della Corte costituzionale nei giudizi in via di azione e nei giudizi sui conflitti può certamente lasciare perplessi, in quanto – come anticipato – la Corte sembra talvolta confondere l’interesse col motivo d’impugnazione, o con i parametri invocati (nel senso che – nei giudizi in via d’azione – la Corte pronuncia il difetto di interesse quando la regione impugna una legge statale per motivi diversi dalla violazione della competenza)143. E talvolta la Corte non è del tutto coerente con l’utilizzo dell’interesse in senso astratto o concreto. Vi è indubbiamente una qualche carenza di rigore applicativo che, secondo alcuni, riflette il già accennato problema della trasponibilità nel giudizio costituzionale dei principi processuali comuni.144.

In particolare per quanto concerne il giudizio in via d’azione, la giurisprudenza recente è passata da pronunce in cui ha accolto questioni introdotte dalla regione “salvando” la normativa statale pure dichiarata costituzionalmente illegittima145 a pronunce in cui ha richiesto che la regione abbia effettivamente esercitato le sue competenze prima di impugnare una normativa statale vertente nella medesima materia (e quindi ha proceduto con pronunce processuali).

Il primo caso è davvero interessante: lo schema seguito dalla Corte, infatti, non sembra sempre e solo quello di “far finta di non vedere”, per motivi di carattere obiettivo (di tutela obiettiva – o meglio astratta - dell’ordinamento) la carenza di interesse e la prematurità della questione proposta dalla regione, in contraddizione con i casi in cui si permette giudizi più tranchant su disposizioni per certi versi analoghe146. Nella sentenza n. 13 del 2004, ad esempio, la Corte censura una normativa statale che aveva attratto a sé una funzione (distribuzione del personale scolastico fra le istituzioni scolastiche) che la 140 Sul punto, però, nel giudizio in via d’azione si pone il problema del perdurante interesse ad una pronuncia di pieno merito anche in caso di cessazione dell’efficacia (ad es. abrogazione) della legge impugnata 141 D’altra parte, la stessa dottrina e la giurisprudenza comune non hanno trovato un punto di equilibrio veramente stabile: si pensi, solo a titolo di esempio, all’acceso dibattito sulla rilevabilità in concreto od in astratto dell’interesse. 142 C. Padula, L’asimmetria del giudizio in via principale, cit., 173 e ss. 143 M. D’Amico, Le zone d’ombra, cit., p. 13 del paper. 144 M. D’Amico, op. cit., 13. 145 Ivi, p. 14. 146 Ad es. la sent. n. 197 del 2003, commentata da F. dal Canto – E. Rossi, Il giudizio di costituzionalità della legge in via principale, cit., 224, in cui la Corte riafferma la “chiara” carenza di interesse nell’impugnazione di leggi statali in materie (divenute) di competenza regionale, in quanto in tali materie le regioni possono procedere a legiferare autonomamente.

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Corte considera strettamente ed indissolubilmente connessa a funzioni già attribuite alle regioni dal D. l.vo 112 del 1998: l’intervento statale comporta così una “privazione”, oltre che una invasione di competenza. Il differimento nel tempo degli effetti della sentenza, in questo contesto, non conferma tanto l’originaria carenza di interesse ad agire147, quanto la “presa d’atto” dell’invasione statale e – al tempo stesso - della necessità di mantenere la disciplina invasiva per la tutela di diritti costituzionali insopprimibili148.

Già in passato si è acutamente osservato che l’utilizzo frequente dell’interesse ad agire nella giurisprudenza costituzionale può essere fatto discendere dalla volontà della Corte di “essere un giudice”, cioè di “garantire la sua influenza sul sistema complessivo entro certi schemi severi e rigorosi di contraddittorio, concretezza, legame con l’esperienza”149. Nell’ottica che si sta seguendo, d’altra parte, l’utilizzo del nomen (se non della “cosa”) “interesse ad agire” non implica necessariamente una opzione per un giudizio di tipo obiettivo/astratto ovvero concreto, in quanto l’interesse ad agire può essere inteso sia come “motore” sia come “limite” della tutela assicurata dal giudice150. Prescindendo dalla terminologia non sempre rigorosa della Corte – che peraltro non è estranea nemmeno all’attività dei giudici comuni – si può forse pensare che l’utilizzo dell’interesse a ricorrere sia una “spia” della volontà della Corte di attenersi ad un criterio di concretezza – quasi come un pendant del criterio di ragionevolezza nel giudizio in via di azione151 – che ancori il giudizio ad un bisogno di tutela di livello costituzionale effettivo (e non astratto, accademico, eventuale, futuro, ecc.) non solo per motivi di economia processuale, (il che esprimerebbe un “freno” all’accesso alla Corte) ma anche per garantire strumentalmente “un giudice” ad istanze concrete, di livello costituzionale, che potrebbero non ricevere tutela (nel senso che potrebbero essere tutelate solo dal giudice costituzionale152). Sullo sfondo, insomma, sembra esserci sempre il consueto problema della natura ambigua della funzioni della Corte: se emerge un bisogno di tutela di livello costituzionale emerge anche il problema dell’azione strumentale (o meglio, dello strumento atto) a tutelarlo “oggettivamente”, procedendo ad un adattamento del tessuto ordinamentale (e non solo) affinché possa “assorbire” quel bisogno di tutela, ricomponendosi fino a soddisfarlo oggettivamente (cioè in modo conforme alle regole costituzionali). Il livello del bisogno espresso giustifica l’attivazione della Corte (se c’è interesse ad agire, allora la Corte deve provvedere alla ricomposizione oggettiva), ma in

147 Su cui in effetti, pur essendo stata sollevata dal resistente, almeno da quanto risulta dal considerato in fatto, la Corte non si pronuncia affatto. 148 D’altra parte, si trattava di normativa statale successiva alla riforma del titolo V, che non presentava carattere cedevole (almeno esplicitamente), ed il termine decadenziale per l’impugnativa della legge statale poteva comportare un suo consolidamento di fatto (con una verosimile “coda” contenziosa in altre sedi davanti alla Corte). 149 A. Cerri, Considerazioni preliminari sull’interesse ad agire nei giudizi innanzia alla Corte costituzionale, in Giur. Cost., 1976, 696, in dialettica con S. Bartole, Nuove riflessioni sull’interesse a ricorrere nel giudizio in via principale sulla legittimità delle leggi, ivi, 1974, 540 e ss. 150 Nel primo caso avvicinandosi ad una concezione soggettiva, nel secondo oggettiva. Mutuo la terminologia da G.L. Conti, L’interesse al processo, cit. 151 Di “problematiche vicine” parla A. Cerri, Corso di giustizia costituzionale, cit,. 283. 152 Si pensi al concetto di residualità dei conflitti di attribuzione elaborato da R.Bin, L’ultima fortezza. Teoria della costituzione e conflitti di attribuzione, Milano, 1996, 129 e ss.

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questo quadro l’interesse serve alla Corte anche per confermare la concretezza del bisogno espresso.

5. Qualche conclusione

Il breve percorso fin qui intrapreso ha avuto come chiave interpretativa e come sfondo il tentativo di “applicazione” ad alcune delle esperienze della giustizia costituzionale di taluni schemi processuali comuni, con riferimento agli atti introduttivi ed al valore che tali atti svolgono nel quadro di un “diritto al processo” (in questo caso, al processo costituzionale).

È evidente che le poche considerazioni qui svolte non consentono di elaborare una conclusione generale. Se però qualche dato emerge è sostanzialmente quello per cui nessuno dei due principali “schemi” di diritto processuale comune (soggettivo ed oggettivo) si attaglia in ogni suo aspetto ad alcuna delle esperienze processuali che abbiamo brevemente tenuto in considerazione. In ciascuna di esse, infatti, il rapporto fra soggetti detentori di diritti sostanziali connessi a situazioni di livello costituzionale (aventi ad oggetto o meno l’incostituzionalità di una norma) e processo costituzionale segue itinerari diversi, che attingono all’uno ovvero all’altro schema, senza peraltro consentire di propendere per la prevalenza del modello obiettivo o di quello soggettivo. Le tendenze all’ampliamento del thema decidendum, alla sua rimodulazione, quando non anche alla sua “scomposizione” e “ricomposizione” in contesti decisori differenziati, sono certamente elementi che inducono a ritenere che l’atto di attivazione del processo costituzionale in realtà tenda all’affermazione di un valore di tutela obiettiva dell’ordinamento. Il particolare rilievo attribuito – al tempo stesso - alla lettera dell’atto introduttivo come “unica fonte” del materiale decisorio del giudice costituzionale, le forme di tutela del contraddittorio (in certi contesti), le dinamiche della rinuncia ai ricorsi, le varie sedi in cui emerge il problema della concretezza (interesse a ricorrere, rilevanza, lesività, ecc.), sono invece elementi che inducono a mettere in rilievo, nel processo costituzionale, gli interessi soggettivi di tutela attivati (anche) mediante il ricorso alla Corte. Convivono dunque, nelle esperienze della giustizia costituzionale, sia elementi dell’uno che dell’altro modello.

Chi si rivolge alla Corte, mediatamente o immediatamente, sa dunque che la Corte “tratterà” l’atto propulsivo come “domanda” di un provvedimento, ma non necessariamente e non sempre come domanda connessa all’esercizio di un diritto di azione a tutela di diritto sostanziale: dunque una domanda “molto sui generis”153, in quanto nel giudizio della Corte – per la sua struttura ma soprattutto per la funzione (le funzioni) della Corte nell’ordinamento - possono di fatto entrare elementi che sono sostanzialmente estranei rispetto alle modalità con cui la “domanda” stessa è stata introdotta. In altre parole, chi si rivolge alla Corte sa che il suo atto di impulso è di fatto anche strumentale alla realizzazione di un interesse soggettivo (quella è la sua prospettiva sul giudizio costituzionale), ma potrà essere posto a fondamento di un accertamento e di una ridefinizione del quadro ordinamentale che potrà anche prescindere la sua posizione soggettiva (fino al caso paradossale della pronuncia costituzionale inutile nel 153 Riprendo la terminologia usata da G. Zagrebelsky, Diritto processuale costituzionale?, 137, con riferimento al processo costituzionale.

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giudizio a quo, in quanto ad esempio parziale e non idonea a risolvere il dubbio sulla base del quale era stata sollevata la questione). Ovviamente, questa prospettiva si afferma maggiormente nei giudizi sulle leggi e meno nei conflitti, cui pure non è del tutto estranea.

Ciò non significa di per sé che l’atto introduttivo del giudizio costituzionale non esprima un “diritto al processo”. Ovviamente, subentra il diverso problema della ragionevole prevedibilità del comportamento della Corte, che elabora molte delle sue regole a livello solo giurisprudenziale: se di diritto al processo si può parlare, occorre fare riferimento al diritto ad un certo processo, delimitato da regole – se non totalmente certe – quantomeno ragionevolmente affidabili nella stabilità e ragionevolmente prevedibili nell’applicazione (cioè: la Corte può discostarsi dai principi processuali comuni in ragione delle sue specifiche funzioni e della natura del giudizio che esercita, che fonde “soggettivo ed oggettivo”, ma non dovrebbe irragionevolmente discostarsi dai propri principi).

Di per sé il riferimento ad un parametro prevalentemente giurisprudenziale – per giudicare la portata e l’applicabilità delle regole processuali - non è certo esclusivo della Corte costituzionale, ma in una certa misura è tipico di tutti i processi e di tutte le giurisdizioni, anche quelle che seguono in modo vincolato una regolamentazione per loro indisponibile. Se la Corte ha incertezze sull’applicazione del concetto di interesse al processo, ad esempio, non si può dire che i giudici comuni applichino la disposizione dell’art. 100 c.p.c. in modo sempre uniforme ed identico. La particolarità della Corte sta nella tendenziale signoria sulla propria regolamentazione processuale, nonché ovviamente nella circostanza che si tratta di un giudice di grado unico ed ultimo, dato il principio di non impugnabilità in alcuna sede delle sue pronunce. Il che ovviamente aggrava il problema della prevedibilità, dato che – per così dire – la nomofilachia sulla giurisprudenza della Corte è affidata solo all’evoluzione giurisprudenziale della Corte stressa.