Contro l'Azienda Etica

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Pamphlet di Carlo DE Matteo sul politically correct

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Carlo De Matteo

Contro l’azienda eticaPer il bene comune

Basic Edizioni

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Proprietà Letteraria Riservata© 2010 Carlo De MatteoRelease 1Prima edizioneStampato il 19 gennaio 2010

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A mia moglie, il grande alberoche custodisce la nostra famiglia

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È certamente scomodo intitolare un libro: “Contro l’Azienda Etica”. È così poco politically correct parlare in questo modo quando usare l’aggettivo “etico” o “etica” e affiancarlo a qual-siasi concetto, comportamento o attività è diventato quasi la formula magica che mette tutto a posto e dà onorabilità a chi se ne fregia. Eppure, senza voler fare l’apologetica spesse volte un po’ snob dell’essere-contro, la forza di questo pamphlet è tutta nella sua capacità di uscire dai luoghi comuni e di voler guardare in faccia la realtà.

Nel saggio di Carlo De Matteo che vi accingete a leggere non c’è solo denuncia, ironia, a volte sarcasmo, nello smasche-rare il giochetto malsano di chi usa l’etica come paravento o di chi sgancia l’etica dalla sua radice, che è la moralità della coscienza. Questo pamphlet non è solo distruttivo. Il mondo di un certo management, che l’autore conosce bene, emerge in questo libro con tutti i suoi limiti, ma c’è, dall’inizio alla fine, la proposta di una possibilità di costruzione, in meglio, per tutti. “Per il bene comune”, appunto, come dice il sottotitolo.

Non è un caso che il saggio di De Matteo apra la nuova collana di Basic Edizioni intitolata “Agitatori di idee”: quello che di più manca nei dibattiti pubblici e nei discorsi quotidiani – negli ambienti di lavoro, o a scuola, o in famiglia – è la dispo-nibilità ad ascoltare chi è capace di smontare le idee consuete

INTRODUZIONELa provocazione del realismo

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e comuni e smuoverle, cercando però un’adesione sincera ai dati della realtà.

In una società che vive ancora delle tossine delle ideologie del Novecento, come nota bene De Matteo nella seconda parte del suo libro, si sente sempre maggiormente il bisogno dell’ossigeno del realismo. PerchÈ, oggi come ieri, la vera bat-taglia è sicuramente tra sistematici e realisti. Due “esseri”, due modi di affrontare la realtà, che furono caratterizzati in modo esemplare dal grande pensatore, scrittore e poeta francese Charles Peguy. Una dicotomia messa in evidenza nel 1953, nel suo volume “Lo spirito di sistema” edito da Gallimard.

Il sistematico, secondo Peguy, si comporta in questo modo: “Quando il teorico, il ragionatore, si trova in presenza di una realtà complessa (…) il primo istinto a cui si attiene (…) è di prendere in considerazione solo una parte di questa real-tà complessa, particolarmente una delle due parti nelle realtà doppie; egli elimina istintivamente, automaticamente tutto il resto, ciò che lo disturba, in particolar modo l’altra parte di due parti, senza alcuna preoccupazione. (…) Al contrario sa-rebbe preoccupato se conservasse molta realtà, se la rispettas-se; sarebbe ansioso se conservasse tutta la realtà”. E i realisti? “Non sono dei ragazzi che si spingono nella gloria nÈ nella celebrità stessa – dice Peguy – poichÈ in ogni istante si ri-fanno, si riferiscono alla realtà; e siccome essi riferiscono alla realtà tutto il loro lavoro, sono costretti anche a riferire ad essa, lo vogliano o meno, tutto il loro valore”. “Un sistema è una realtà monca”, annota Peguy. E, allora, guerra ai “sistemi”: “i realisti hanno tutti un elemento in comune: la realtà, che è il loro modello comune”.

Il modello che guiderà la collana “Agitatori di idee”.Adriano Moraglio

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PAMPhLET

Alcune cose che mi frullavano per la testa

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Prima di parlare di management e manager e in che cosa consista la vera eticità in rapporto al loro ruolo, dobbiamo identificare l’impresa, l’ambito sociale nel quale operano le persone con incarichi direzionali.

L’impresa, innanzitutto, non esiste in quanto entità in sÈ, ma come comunità di persone che secondo ruoli, responsa-bilità e legittimi interessi, ne esprimono dinamicamente i fini, l’organizzazione, la struttura e, di conseguenza, la cultura. Quest’affermazione, volutamente perentoria, entra in pole-mica con quelle concezioni dell’impresa come entità valoria-le portatrice in sÈ di una visione etica.

Dico subito che l’Azienda Etica si caratterizza oggi per un “moralismo senza morale” che è all’origine, a mio modo di vedere, dei disastri economici che hanno caratterizzato l’inizio di questo secolo. In questa concezione, l’etica è in-tesa come l’adesione a protocolli di comportamento statuiti dall’impresa. La morale, invece, stando all’etimologia latina, si rapporta alla coscienza della persona che deve operare il bene. Cioè protocolli al posto della coscienza.

Questa deriva moralistica ha prodotto il proliferare di quel-la “fiera delle banalità e dell’ipocrisia” che sono i codici etici, i bilanci di responsabilità sociale e le “mission” aziendali, che hanno fatto le fortune dei consulenti e sollevato le coscienze

Quando il “Protocollo” esautora la coscienza

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dei top manager. Voglio riportare qui di seguito alcuni esem-pi che, se non fossero drammatici, sarebbero semplicemente grotteschi ed esilaranti.

Cito dal Bilancio di responsabilità sociale del 2007 di AIG, una delle più grandi società di assicurazioni al mondo, salvata a settembre 2008 dalla bancarotta dal Governo americano che ne detiene oggi 80% del capitale: “AIG is devoting the resources necessary to manage our risks while developing innovative solutions to help our clients better manage their own risks.”1 (AIG dedica le risorse necessarie alla gestione dei propri rischi nel contempo sviluppando soluzioni inno-vative per aiutare i clienti a gestire meglio i loro).

Leggiamo ora il comunicato stampa della Parmalat Finan-ziaria in occasione dell’approvazione del Bilancio 2001: “Il Presidente Tanzi ha comunicato che il Consiglio di Ammi-nistrazione ha redatto un’apposita relazione sul proprio si-stema di Corporate Governance che risulta sostanzialmente adeguato alle raccomandazioni e alle regole contenute nel Codice di Autodisciplina delle Società Quotate, redatto dal ‘Comitato per la Corporate Governance delle società quo-tate’ e recepito dalla Borsa Italiana spa nel proprio quadro regolamentare. L’informativa sul sistema di Corporate Go-vernance di Parmalat Finanziaria è stata messa a disposizio-ne dei Soci”.

Un terzo esempio riguarda la mission di UBS, la Banca svizzera che ha accettato di pagare una multa di 780 milioni di dollari all’Amministrazione americana per evitare il pro-cesso penale relativo alle pratiche che hanno consentito a facoltosi contribuenti di evadere il fisco: “The UBS mission is to have a clientfocused approach, creating customized financial solutions based on their global resources and ca-

1http://www.socialfunds.com/saared/reports/1213718993_AIG_2007_Corporate_Responsibility_Report.pdf

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pabilities. They have a philosophy of, “You & Us”. UBS is committed to high standards of corporate behavior”. (La missione di UBS è avere un approccio focalizzato al cliente creando soluzioni finanziarie personalizzate basate sulle loro risorse globali e capacità. Esse hanno una filosofia del “voi e noi”. UBS è impegnata in alti standard di comportamenti di Gruppo).

Dopo il disastro della Enron del dicembre 2001, primo scandalo del turbo capitalismo della “America Corporation” che trascinò con sÈ la Arthur Andersen che ne certificava i bilanci, fu emanata nel 2002, la Sarbanes-Oxley Act che prevedeva una serie di misure tese a creare un sistema di controlli interni e esterni alle public company americane, tra cui l’istituzione della Public Company Accounting Oversight Board, un’agenzia che avrebbe dovuto controllare le società incaricate della revisione dei bilanci.

In Italia il Dlgs 231 del 2001 ha esteso alle persone giuridi-che la responsabilità per reati commessi in Italia e all’estero da persone fisiche che operano per conto della società. Per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico, che sino ad allora prevedeva solo la responsabilità della persona fisica che realizza l’eventuale fatto illecito, la normativa ha intro-dotto anche la responsabilità in sede penale degli enti, per alcuni reati commessi nell’interesse o a vantaggio degli stessi, da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di am-ministrazione o di direzione dello stesso ente o di una sua organizzazione dotata di autonomia finanziaria o funzionale e da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno di quei soggetti. Tra i reati rientrano anche le false comunica-zioni sociali (e dunque anche i bilanci), l’illegale ripartizione degli utili, le operazioni in pregiudizio dei creditori, la forma-zione fittizia del capitale, l’indebita influenza nell’assemblea, l’ostacolo all’esercizio della funzione di pubblica vigilanza, l’aggiotaggio.

Tra le altre misure volte a rafforzare l’apparato di control-

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li vi è la Legge n. 262 del 28 dicembre 2005 e successive modifiche (la cosiddetta “Legge Risparmio”), che ha istitu-ito la figura del Dirigente Preposto alla redazione dei docu-menti contabili societari e la normativa sull’internal dealing che mira a regolamentare le operazioni sui titoli delle società quotate da parte di soggetti interni che hanno accesso a in-formazioni privilegiate.

L’Unione Europea nel 2003 ha deciso di diventare uno “stan-dard setter” in materia contabile adottando i principi dello IASB (International Accounting Standars Board) con un ap-posito regolamento che li mette in bella copia (1725/2003). Per la tradizione contabile italiana s’è trattato della fine della regola di contabilizzazione basata sul costo storico delle atti-vità e delle passività a favore dell’indefinibile “Fair value”2 che avrebbe dovuto assicurare le “magnifiche sorte progressive” dei bilanci delle società quotate, finalmente espressivi del loro valore corrente (rectius di liquidazione!).

Quanto ottusa e ideologica sia stata questa pretesa è reso evidente dal recente goffo tentativo dello IASB, di riformu-lare lo IAS 39, il principio contabile monolite del “fair value” cui il CFO (Chief Financial Officer) deve offrire in sacrificio rituale (peraltro sempre incruento) l’impairment test (meto-dologia con cui si verifica la sostenibilità dei valori delle at-tività di bilancio rispetto a loro effettivo valore di mercato o valore d’uso).

Una società quotata deve, così, sopportare costi enormi di “compliance” (conformità):

1) l’adesione al Codice di Autodisciplina delle società quo-tate, redatto nel 1999 dal Comitato per la Corporate Gover-

2Per fair value si intende il corrispettivo al quale un’attività può essere scambiata, o una passività estinta, tra parti consapevoli e disponibili, in una transazione tra terzi indipendenti.

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nance promosso da Borsa Italiana che contiene raccoman-dazioni che costituiscono un modello di “best practice” per l’organizzazione e il funzionamento delle società quotate italiane3. Il codice prevede, tra l’altro, la costituzione di un Comitato per il Controllo interno composto da Amministra-tori non esecutivi;

2) la costituzione dell’Organismo di Vigilanza previsto dal-la legge 231;

3) la nomina del il Collegio Sindacale cui il Codice Civile assegna la vigilanza sull’osservanza della legge e dello statu-to, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e, in particolare, dell’assetto organizzativo, amministrativo e con-tabile;

4) la nomina della società di revisione che deve esprimere il proprio parere sulla correttezza del Bilancio e che ha la responsabilità del controllo contabile;

5) l’Internal Auditing, struttura interna alla società e depu-tata al controllo dell’osservanza delle procedure, alla riduzio-ne dei rischi ed alla prevenzione e controllo delle frodi;

6) le procedure relative alla legge 262 del 2005 che ha isti-tuito la figura del “Dirigente Preposto alla redazione dei do-cumenti contabili” miranti al controllo sulla corretta conta-bilizzazione nel rispetto dei principi contabili adottati dalla Società.

Il commento più istintivo porterebbe a chiedersi quanto tempo resti al management e ai professional per lavorare per i clienti esterni una volta soddisfatti tutti questi clienti “interni” i cui compiti, peraltro, molto spesso si sovrappon-gono. Quello più ragionato pone una domanda sull’efficacia

3Le raccomandazioni del Codice non sono vincolanti, ma le società quo-tate devono, in conformità alle Istruzioni al Regolamento di Borsa Ita-liana, tenere informati sia il mercato sia i propri azionisti in merito alla propria struttura di governance e al grado di adesione al Codice.

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di quest’apparato normativo e organizzativo, parcellizzato e pletorico, rispetto agli obiettivi di controllo e di affidabilità e sulla sua efficienza in rapporto alle risorse impiegate. Mol-tiplicare i controllori non migliora i controlli ma incrementa solo la confusione, gli arbitraggi regolamentari, la derespon-sabilizzazione, i costi e, in definitiva, ne riduce l’efficienza e l’efficacia. “Summa lex, summa iniuria”4 (quando la legge cerca di essere massimamente perfetta, perfettamente diven-ta ingiusta).

Ho citato questi passaggi non con un fine didattico, nÈ compilativi, ma esemplificativo di un paradosso: al rafforza-mento dell’apparato formale dei controlli sull’operato delle imprese e dei manager, e delle regole, e dei principi di corpo-rate governance, ha corrisposto un crescendo di scandali fi-nanziari individuali, da una parte e dall’altra dell’oceano (cito solo “a caso” Wordcom, Cirio, Parmalat, Banca Popolare Italiana, i fondi neri della Siemens, i trader senza controllo della Societè General sino alla catarsi dei mutui subprime e all’arresto di Bernie Madoff). “Sei tutte chiacchiere e distinti-vo”, recitava Robert De Niro nel film “Gli Intoccabili”.

4Cicerone, “De officiis”.

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Esiste ormai una vasta letteratura che analizza le ragioni che hanno generato la crisi cominciata nella seconda parte del 2008, che ha portato al collasso istituzioni finanziarie come la Lehman Brothers e rovinato la vita di milioni di persone. I vari punti di vista sono stati affrontati con do-vizia di analisi economiche. Tutto l’apparato teorico che ha governato la deregulation e la finanziarizzazione dei mercati – la Teoria delle Aspettative Razionali5 , lo Share Holding Value6, il meccanicismo matematico della formu-

Se è l’Azienda Etica a decidere ciò che è giusto

5Si tratta di una teoria macroeconomica secondo cui le azioni di poli-tica economica possono essere inefficienti o dannose in un sistema di aspettative razionali e prezzi flessibili, in quanto tali politiche, se previste, non avranno alcun effetto e se, non previste, avranno probabilmente una funzione destabilizzante della congiuntura economica. Si veda Robert Lucas e Thomas Sergent in «After Keynesian Macroeconomics», 19826 Secondo quest’approccio, il successo di un’impresa (e dunque il suo unico fine) si misura attraverso il valore creato per gli azionisti. L’ante-signano di questo credo manageriale, che si afferma nel 1980, è l’allora CEO di General Electric, Jack Welch.

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la Black-Scholes-Merton7 – è stato attaccato dai nostalgi-ci keynesiani e altrettanto tenacemente difeso dai teorici “dell’incidente di percorso”.

In definitiva, però, da tutto questo dibattito, sono rimasti fuori il “fattore umano” e la dinamica valoriale, comporta-mentale e motivazionale che ha portato migliaia di top mana-ger, middle manager e di professional a mettere in atto quella colossale truffa in stile “schema Ponzi” che è stata alla base del modello “originate e distribuite”. Vale a dire:

a) assumere una posizione di rischio finanziando soggetti che non erano in grado di restituire il capitale prestato (ori-ginate);

b) chiudere questa posizione cedendo il credito a un altro soggetto finanziario (distribuite) che a sua volta lo “impac-ca” in “polpette” finanziarie avvelenate (obbligazioni, bond eccetera);

c) cedere queste “polpette” ad altri soggetti finanziari (ban-che e fondi d’investimento) i quali le commercializzano a clienti finali sotto forma di innocui investimenti di liquidità garantiti in tripla A da quelle istituzioni “etiche” per eccel-lenza che sono le società di rating. Il tutto riuscendo a lucrare utili enormi grazie a una leva finanziaria esasperata.

Bene, se prima del grande “botto”, che ha fatto collassare la leva finanziaria (ogni cent di credito in default ha prodotto sino a 40 cent di perdite potenziali originate dalla “catena di Sant’Antonio” del modello originate e distribute), un inter-locutore naif avesse chiesto a un trader di Lehman o Gold-

7Modello matematico che permette di assegnare un prezzo a uno stru-mento derivato (put & call), utilizzando come parametri il prezzo corren-te dello strumento sottostante, il prezzo d’esercizio, il tempo residuo fino all’esercizio e la volatilità dei rendimenti dei titoli sottostanti all’opzione stessa. Merton e Scholes hanno ricevuto nel 1997 il Premio Nobel per l’economia.

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man Sachs o a un professional di AIG se valutava eticamente corretto quello che stava facendo, sarebbe stato sicuramen-te guardato con commiserazione: “il codice etico governa i comportamenti leciti, le linee guida li indirizzano, le proce-dure li controllano e io incasso bonus in proporzione agli utili generati per la banca. È la finanza, stupido!”.

È la dinamica dell’Azienda Etica che porta il singolo a rite-nere come eticamente corretto ogni comportamento legitti-mato da un protocollo, senza chiedersi se quanto sta facen-do è giusto o sbagliato o, più semplicemente, ragionevole o meno. In nome dell’Azienda Etica il singolo perde la dimen-sione della morale individuale in un processo di identificazio-ne che lo rende pronto a compiere le peggiori nefandezze. Non sfugge ai più avveduti che questo processo psicologico di annichilimento dell’io a vantaggio di un super-io collettivo è lo stesso che ha caratterizzato i grandi sistemi ideologici del Novecento: il nazifascismo e il comunismo.

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Tabella 1 – dati di Bilancio primo trimestre 2009 – da Plus 24-Il Sole-24 Ore del 7 novembre 2009

Non è, però, solo la morale individuale a essere annichili-ta: è il senso della realtà che viene meno a vantaggio di una sua rappresentazione astratta e ridotta a un modello. Anni di studi in prestigiose università, MBA, algoritmi matemati-ci, sofisticate tecniche di risk management, hanno prodotto economisti, premi nobel, top manager, trader, banchieri e governatori delle banche nazionali che hanno ballato la stes-sa danza sabbatica perdendo ogni contatto con l’evidenza:

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la saggezza popolare di Collodi ci insegna che solo i gonzi possono credere che seminando uno zecchino ne nasca una pianta con 40 senza lavorare (alias con un click su un com-puter). Il gatto e la volpe lo sapevano bene che non era vero, ma avevano predisposto un ottimo protocollo. Purtroppo “Pinocchio” è ritenuto solo un libro per bambini e non è letto nelle università.

Grafico – da Plus 24 Il Sole-24 Ore del 7 novembre 2009

Eppure non era impossibile applicare il ragionamento: in un sistema globalizzato la diversificazione del rischio sembra funzionare a livello individuale (originate e distribuite), ma è un gioco a somma zero a livello totale. Se il sistema collassa perchÈ il fenomeno ha raggiunto livelli esponenziali, nessuna istituzione finanziaria è in grado di onorare i CDS (Credit Default Swaps) posti a garanzia del credito e la traslazione del rischio torna indietro come la cambiale che, di girata in girata, ritorna per il pagamento al suo originale sottoscrittore.

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Nel famoso esempio utilizzato da Edward Lorenz8 per esemplificare i sofisticati concetti matematici alla base del-la Teoria del Caos, il battito d’ali di una farfalla in Brasile avrebbe potuto scatenare una sequenza di interazioni tali da modificare il clima in Texas. Analogamente, Mr. Smith del New Jersey, classificato come Ninja (No Incom, No Job, No Asset), ottiene un mutuo senza alcuna istruttoria9 a un basso tasso fisso per i primi due anni e a uno elevato variabile negli anni successivi. L’agenzia di credito immobiliare non si pre-occupa più di tanto del merito di credito di Mr Smith fidando nel fatto che avrebbe in seguito ceduto il mutuo – lucrando un minimo spread a qualche banca o istituzione finanzia-ria semigovernativa creata per la diffusione della proprietà immobiliare e che a sua volta lo avrebbe rivenduto ad altre istituzioni finanziarie eccetera.

Mr. Smith, per pagare i debiti delle sue tre carte di credito, decide di richiedere un ulteriore mutuo sulla sua abitazione perchÈ, nel frattempo, la bolla immobiliare ne ha alzato ul-teriormente il valore rispetto a quello finanziato dal prece-dente.

Due anni dopo Mr. Smith salta la prima rata del suo mutuo anche perchÈ, nel frattempo, i tassi d’interesse hanno co-minciato a salire e l’importo della rata è ben superiore a quel-la stimato in origine. La sua casa è messa in vendita fidando

8Il 29 dicembre 1979 il fisico Edward Lorenz presentò alla Conferenza annuale della American Association for the Advancement of Science una relazione in cui ipotizzava come il battito delle ali di una farfalla in Brasile, a seguito di una catena di eventi, potesse provocare una tromba d’aria nel Texas. 9Mutui sub prime, cioè mutui erogati a soggetti che hanno una storia creditizia che include insolvenze, o addirittura problemi più gravi, come pignoramenti e fallimenti personali.

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del fatto che il valore di mercato sarebbe stato superiore a quello del mutuo erogato. Peccato che la casa di Mr. Smith sia l’ennesima che l’agenzia di credito immobiliare mette in vendita in quel quartiere e i potenziali acquirenti siano meno dei venditori. Mr. Martinez, cittadino ispanoamericano di se-conda generazione che cerca casa in quel quartiere, decide di modificare le proprie aspettative sull’andamento del mercato immobiliare e, attendendosi prezzi in calo, decide di pospor-re l’acquisto e annulla l’appuntamento con l’agente immobi-liare sostenendo che il prezzo è troppo elevato.

L’agente immobiliare è desideroso di incassare la provvi-gione ed è pressato dalla banca che ha emesso obbligazioni che hanno come collateral il mutuo di Mr. Smith e che non vuole chiudere il suo “fiscal year” con un credito in sofferenza. Decide, dunque, di fare un piccolo sconto e corregge di conseguenza il prezzo esposto sul cartello. Altri potenziali acquirenti, notando il prezzo corretto al ribasso, decidono anch’essi di modificare le proprie aspet-tative e attendono ulteriori sconti prima di procedere all’acquisto. Ben presto i prezzi cominciano a scendere ben al disotto del valore nominale dei mutui erogati, in una spirale al ribasso sempre più accentuata che fa fallire l’agenzia finanziaria. Di conseguenza, tutti i suoi mutui, in precedenza ceduti a una banca e da questa “impaccati” in CDO (Collateralized Debt Obligations) il cui flusso di pagamento degli interessi nonchÈ del capitale è garantito dagli n Mr Smith, diventano “tossici” rendendo tali tutti gli strumenti finanziari derivati che li hanno come “colla-teral” (garanzia).

L’onda d’urto generata da tutti i Mr. Smith e i Mr. Mar-tinez si diffonde nel mondo come un gigantesco tsunami finanziario e arriva fino al signor Ferrero, piccolo impren-ditore meccanico di Givoletto, paese dell’interland torine-se, al quale la filiale richiede di rientrare dal fido perchÈ il Tier 3 della banca comincia ad abbassarsi e neanche Basi-

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lea II sta troppo bene. La prima cosa che fa il signor Fer-rero rientrando in ufficio è annullare una serie di ordini ai fornitori e chiamare la propria organizzazione impren-ditoriale per informarsi sulla cassa integrazione perchÈ anche le sue aspettative sono mutate: sente imminente la crisi, altrimenti perché la banca gli avrebbe chiesto di ri-entrare?

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Un altro aspetto deleterio dell’Azienda Etica è la sua pretesa di creare “l’uomo nuovo” a una dimensione, la cui vita si identifica con la società per la quale lavora. Per ma-nager e professional non c’è soluzione di continuità tra la vita privata e quella lavorativa e l’impresa etica diventa la nuova “chiesa” con una pretesa totalizzante sull’esistenza dei propri dipendenti.

L’armamentario di questa mistica dell’appartenenza, sono gli insulsi house organ, le cerimonie aziendali (con-vention, ritiri, corsi di team building, medaglie eccetera) e tutta la retorica che fa riferimento alla “centralità della risorsa umana” che non regge, di solito, oltre il primo bi-lancio in perdita. Un giovane professional che si affeziona a una azienda e rinuncia a perseguire in modo equilibrato un’opportunità di crescita professionale in un’altra società non riceverà in cambio la garanzia di un posto a vita, ma prepara le basi per il suo futuro licenziamento.

L’azienda non è un’istituzione con dei fini astratti, ma ha come vero unico comune denominatore il legittimo interesse, sia quello dei dipendenti, dei manager, dell’im-prenditore (o gli azionisti che sono l’imprenditore collet-tivo) sia quello esterno dei clienti, dei finanziatori, dei for-nitori, dell’amministrazione pubblica. È solo il corretto

La pretesa di creare l’uomo-azienda

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bilanciamento di tutti questi interessi, in cui tutti i soggetti esercitano il proprio ruolo e difendono i propri interes-si, che garantisce il successo e la durata dell’impresa. Se i top manager fissano i propri bonus, scrivono i bilanci e autovalutano le proprie performance vuol dire che questo bilanciamento è venuto meno e che gli altri portatori d’in-teressi ne pagheranno il prezzo anche perchÈ non hanno esercitato correttamente il proprio ruolo tutelando i propri interessi. Per gli amanti dell’inglese: “check and balance”.

L’assolutizzazione dei risultati a breve, determinato dal meccanismo distorto della retribuzione variabile del ma-nagement basato su bonus e stock option, induce inoltre a una truffa contabile – perché è a scapito degli utili degli anni futuri – e ad assumere posizioni di rischio sempre più elevate. Il risultato è che l’interesse al profitto a breve del management entra in conflitto con chi ha interesse alla continuità dell’impresa e alla salvaguardia del suo capitale economico (gli azionisti in primis).

Non è in discussione il concetto di retribuzione variabi-le legata ai risultati raggiunti, nÈ il fatto che i top manager debbano guadagnare in proporzione alle responsabilità e ai rischi personali (non ultimo quello di essere licenziati se non raggiungono gli obiettivi), ma che i meccanismi retributivi non tengano conto dell’interesse alla conti-nuità aziendale e alla sostenibilità dei profitti nel tempo: “Un’impresa che ha successo nel lungo periodo è tale in quanto riesce non solo a utilizzare al meglio le risorse esi-stenti, ma perchÈ sa accrescere continuamente il patrimo-nio di risorse di cui è dotata”10 .

In Italia l’agglomerato mortifero di ideologia e morali-smo ha associato alla parola interesse una valenza nega-

10 S. Vicari, Brand Equity, “Il potenziale generativo della fiducia”, EGEA edizioni, 1995, p.20

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tiva, riducendolo alla materialità del tornaconto, invece è questo il vero motore del progresso umano: è per l’inte-resse al soddisfacimento di un bisogno che l’uomo si in-dustria a trovare soluzioni sempre più progredite, è per un interesse al lavoro e alla bellezza dell’opera che l’artigiano medievale lavorava la parte interna, che non si vedeva, nello stesso modo di quella esterna, visibile.

Lo stesso dono è espressione di un interesse: mi inte-ressi tu (“I care”, una delle poche espressioni inglesi che rendono meglio dell’italiano). La parola interesse è tran-sitiva perchÈ implica un oggetto, un fine anche quando è il sÈ. PerchÈ non si può coltivare il proprio interesse annichilendo quello degli altri: alla fine si annichilisce an-che se stessi. “Cosa giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso?”11.

Quindi il miglior payoff (la frasetta che oggi le società più trendy mettono sotto il loro marchio) è: “noi faccia-mo i nostri legittimi interessi”.

In Italia abbiamo avuto il prototipo dell’Azienda Eti-ca per eccellenza: l’Olivetti. Ai tempi gloriosi di Adria-no Olivetti, essa custodiva i propri dipendenti dalla culla alla tomba; forniva servizi alla persona e ne organizzava la vita sociale e culturale. Quello che appare discutibile non sono i servizi che l’azienda garantiva e che si poteva permettere grazie agli alti margini commerciali, ma quella deriva etica che fu il movimento di Comunità: la pretesa di creare intorno alla fabbrica una dimensione totalizzante e pervasiva, dandosi dei fini che trascendevano la dimen-sione produttiva. Quando si ha la pretesa di creare “si-stemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono”12 gli esiti sono nefasti. Dopo un gestio-

11 Luca 9, 24s12T.S. Eliot, de “Cori della Rocca, in “Opere”, Bompiani, 1961

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ne predatoria che ne ha succhiato ogni residua risorsa, dell’Olivetti non resta che un marchio e il museo a cielo aperto della sua ex Company Town: Ivrea.

Dunque ecco spiegato ciò che è avvenuto in questi anni e ciò che si è voluto eliminare: la persona e la sua irridu-cibilità come unico soggetto valoriale e quindi l’impresa come esito operativo e dinamico di persone che si rap-portano e operano secondo reciproci interessi per un le-gittimo scopo comune, che non è il solo scopo della loro vita.

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Uno degli errori più perniciosi di un manager è la mitiz-zazione della tecnica come strumento di rappresentazione della realtà. Essa è un insieme di strumenti e conoscenze operative utili, ma non uniche, per analizzare e interpretare la realtà. L’uso distorto della tecnica e la sua assolutizzazione producono un’inversione dei mezzi con i fini: la tecnica crea una sua realtà e la rappresenta.

In termini più generali si assiste a un processo di “mo-dellizzazione” della realtà che induce i manager a ritenere di avere sotto controllo tutte le variabili chiave necessarie a prendere le decisioni. Anzi, che non sia nemmeno necessario decidere, ma solo implementare correttamente quello che il modello ha già calcolato essere l’opzione ottimale.

Dunque la tecnica diventa manifestazione di estrema vo-lontà di potenza in quanto dà l’illusione di assicurare il domi-nio della realtà nel suo divenire avendone domate le compo-nenti stocastiche e aleatorie.

Questo processo di astrazione fa dei manager degli

Le insidie della tecnica e della modellizzazione

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“avatar”13 che interagiscono con un mondo creato dai mo-delli. Il manager-avatar ritiene di conoscere i clienti della sua azienda perchÈ ne ha una rappresentazione statistica e ne ha modellizzato i comportamenti, ma non ne ha una conoscenza diretta: non si mette alla prova come cliente della sua azienda, non acquista i prodotti o i servizi che vende, non interagisce con la rete commerciale, non telefona al call center.

Ma dal manager-avatar al manager-zombie il passo è bre-ve. Infatti “lo scopo della tecnica è incrementare la propria capacità di darsi degli scopi”14. A decidere i fini è dunque lo strumento, diventato padrone di chi dovrebbe utilizzarlo.

Teoria astratta? Filosofia d’accatto? Vediamo nel concreto gli effetti di questa “realtà virtuale”.

I complicati algoritmi che sono alla base dei calcoli finan-ziari utilizzati dai trader hanno consentito la crescita espo-nenziale del mercato dei derivati15. Si calcola che il totale del valore nominale dei derivati emessi prima della crisi sia stato pari a dieci volte l’economia reale del mondo intero.

In origine, il mercato dei derivati è nato dall’esigenza di fis-sare oggi il prezzo di una transazione che si perfezionerà nel futuro. Dunque il derivato aveva solo un fine di copertura del rischio ed era comunque funzionale a uno scambio reale. Ti-pico il caso di un acquirente di materie prime alimentari che

13 Presso la religione Induista, un avatar o avatara è l’assunzione di un corpo fisico da parte di Dio o di uno dei suoi aspetti. Nel linguaggio di internet l’avatar è un’immagine scelta per rappresentare se stessi in co-munità virtuali, luoghi di aggregazione, discussione, o di giochi on-line.14Emanuele Severino, lezione su “Che cos’è la tecnica”.15Il derivato è un contratto caratterizzato da uno schema negoziale che prevede la corresponsione ad una data futura del differenziale fra il prez-zo (o rendimento) corrente dello strumento finanziario di riferimento e quello predeterminato nel contratto, oppure la consegna o l’acquisto ad una futura data di uno strumento finanziario ad un prezzo prefissato.

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desidera fissarne ora per allora il prezzo, evitando il rischio della sua fluttuazione per effetto degli eventi meteorologici o di mercato (il fine: acquistare a un prezzo certo una quantità di un merce; il mezzo: il derivato di copertura).

A partire dagli anni 80 il mercato dei derivati si è affrancato da questa funzione di mera copertura, ancillare rispetto allo scambio di merci e materie prime, diventando un prodotto in sÈ. Le grandi banche d’affari hanno cominciato a molti-plicare le transazioni su questi strumenti perchÈ consenti-vano guadagni enormi: infatti, con un minimo investimento si ottiene il diritto di acquistare o vendere una merce o uno strumento finanziario a una certa scadenza. Ovviamente la banca non ha alcun interesse ad acquistare o vendere alla scadenza barili di petrolio piuttosto che grano o nichel. Sem-plicemente il contratto si chiude “per differenza” rispetto al prezzo a pronti. Valga un semplice esempio: il trader della banca A intende speculare sul WTI (il prodotto di riferimen-to per il petrolio sul mercato americano) e dunque acquisisce da una controparte un contratto che gli dà il diritto ad acqui-stare a tre mesi un quantitativo di petrolio a 80 dollari il bari-le. Il prezzo del contratto derivato è di 1000 dollari mentre il valore del quantitativo sottostante è di un milione di dollari. Alla scadenza dei tre mesi il prezzo a pronti del barile è di 90 dollari e pertanto il valore della partita è pari a 1.125.000. La banca “chiude” la posizione incassando la differenza di 125.000 dollari. La leva rispetto all’investimento iniziale è pari a 125 (125.000 dollari diviso 1000).

Quanto ho esposto serve a fare le seguenti riflessioni:a) il mercato dei derivati richiede una “tecnica” sofisticata

per gestire il portafoglio delle posizioni, calcolarne il prezzo e valutarne il rischio. Questa “tecnica” è fatta di hardware (computer, capacità di calcolo, telecomunicazioni) e di sof-tware (algoritmi, modelli, sistemi per la gestione del portafo-glio e delle transazioni);

b) il fine è il derivato inteso come il profitto conseguibile

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da esso, il sottostante (cioè il bene reale) è un mezzo per con-seguire questo fine e non ha alcun interesse in sÈ;

c) la “tecnica” continua a inventare nuovi scopi cioè prodot-ti derivati sintetici sempre più complicati, frutto dell’incrocio di derivati standard (in gergo “plain vanilla”). I trader che operano sui mercati regolamentati e non (over the counter) utilizzano la “tecnica” per dominare la complessità, ma in realtà sono appendici ben pagate di essa. Non “decidono”, attuano l’opzione più redditizia calcolata dal modello.

I fogli elettronici hanno reso estremamente agevole effet-tuare calcoli finanziari senza padroneggiarne la matematica sottostante. La modellistica economico-finanziaria è diven-tata quasi una commodity alla portata di un neolaureato in discipline economiche. Sulla base dei risultati della modelli-stica finanziaria i manager decidono investimenti, comprano e vendono aziende. La trappola di questi modelli è che essi producono un output apparentemente di semplice lettura e interpretazione: il Tasso Interno di Rendimento e il Valore Attuale Netto cioè il valore dello sconto di flussi finanziari futuri16. L’amministratore delegato chiede: “qual è il TIR di questo progetto?” e la risposta è immancabilmente un nu-mero oltre la soglia minima fissata.

Un modello finanziario per produrre il proprio output ha bisogno di essere alimentato da variabili di input i cui valori devono essere fissati su un vettore temporale talvolta molto lungo: ad esempio, il prezzo del petrolio al 2020 o il cam-bio euro-dollaro al 2015. In altre parole, si adottano degli scenari. Utilizzare uno scenario piuttosto che un altro può

16“Dal punto di vista teorico, la valutazione dell’impresa fondata sui flus-si reddituali o finanziari consiste nella determinazione dell’“equivalente certo” di un flusso futuro di risultati incerti.” Luigi Guatri, “Trattato sulla valutazione delle aziende”, Edizioni Egea.

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modificare significativamente e talvolta cambiare il segno di un risultato. Dunque il modello crea e rappresenta una realtà sulla base di assunzioni sull’andamento futuro di eventi im-prevedibili. La previsione del futuro è sempre stata uno de-gli assilli dell’umanità, da questo punto di vista l’economista d’impresa non è molto diverso dagli aruspici romani e non dissimili i risultati in termini di affidabilità.

Ancora una volta, in discussione non è lo strumento e la sua utilità come supporto a decisioni i cui effetti si dispieghe-ranno in un universo stocastico, quanto l’assolutizzazione dello strumento che diventa “l’oracolo” che esime il mana-gement e gli investitori dalla fatica di vagliare tutti i fattori e prendere decisioni in condizioni d’incertezza.

I modelli finanziari e quelli econometrici utilizzati per stu-diare la macroeconomia, si basano su variabili quantitative ma non includono la variabile che origina le dinamiche di tutte le altre: “il fattore umano”. Tale variabile non è quan-titativa ma qualitativa, il che non vuol dire che non abbia un valore intrinseco.

Acquistare un’azienda, senza tenere conto del capitale umano e degli effetti della sua valorizzazione o distruzione, è un errore di prospettiva che può portare alla perdita dell’in-vestimento perchÈ i flussi di cassa presi a base della valuta-zione del prezzo “scontano” il capitale umano che, con il suo lavoro, li genera.

Le grandi società di consulenza finanziaria che supportano le operazioni di “merger and acquisition” non quantificano mai, nei loro modelli finanziari, gli effetti delle operazioni a leva esasperata (leverage buy out) dal punto di vista degli effetti sul capitale umano e delle conseguenze sulla gestione. Un management che ha come primo compito di ripagare il debito con cui la sua azienda è stata acquisita ha nell’ingegne-ria finanziaria la sua prima occupazione e ha poco tempo per occuparsi dei prodotti e dei servizi che l’impresa produce.

La massima estrazione del valore dagli asset attraverso la

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cessione anche di quelli strumentali, l’ossessiva riduzione dei costi a scapito della capacità futura dell’azienda di produrre ricavi, le continue ristrutturazioni indotte dai risultati insod-disfacenti, generano un clima di precarietà che pregiudica quel rapporto bilanciato di interessi che è alla base del suc-cesso dell’impresa. Il capitale umano (che ovviamente inclu-de il management) si dissolve perchÈ non può prosperare in un’azienda che deve chiudere ogni mese un bilancio di liquidazione per dimostrare agli investitori e alle banche che il loro investimento è “in the money”.

Alla fine della parabola il capitale economico dell’impresa è perso o compromesso: ogni possibile valore è stato prosciu-gato e distribuito alle banche e agli investitori (o meglio ai ca-pitalisti di ventura) e poco o nulla è stato trattenuto dall’im-presa per garantirne la continuità. I soli ad averne un sicuro vantaggio sono i consulenti finanziari che hanno come unico obiettivo quello di moltiplicare i propri scopi.

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L’ignoranza e l’autismo sono sicuramente tra i peccati capi-tali dei manager che producono i peggiori disastri.

L’ignoranza, prima ancora che uno stato di conoscenza, è un’attitudine della persona. Molto spesso essa si abbina alla rozzezza, all’arroganza e alla pigrizia che ne sono il corolla-rio. Organizzazioni che premiano in termini di carriera que-sto tipo umano di manager, scambiando queste tare come capacità di leadership, non possono prosperare perchÈ ne saranno devastate.

I grandi leader che hanno ricostruito l’Italia del Dopoguer-ra, siano essi stati politici, manager o imprenditori, avevano come tratto comune la sensibilità culturale. Enrico Cuccia aveva sempre sulla scrivania un libro o una pubblicazione d’arte e ne discuteva volentieri con i suoi interlocutori.

L’interesse per la cultura non è un vezzo da intellettuali ma segno di una curiosità verso la realtà che è sicuro indizio di intelligenza. Si può anche solo leggere un libro di narrati-va o uscire dall’ufficio per andare a vedere una mostra o ad ascoltare un concerto. La cultura rappresenta un “punto di fuga”, non nel senso di astrazione dal lavoro quotidiano, ma di riposo e riflessione che lo alimentano.

La cultura, infatti, sviluppa il “pensiero laterale”, la capaci-tà di utilizzare paradigmi apparentemente estranei al proble-

Ignoranza e autismo manageriale

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ma che si sta analizzando, ma capaci di evidenziarne aspetti sconosciuti o sottovalutati facilitandone la soluzione. Inoltre, sviluppa l’empatia e la capacità di capire la funzione di utilità della controparte riuscendo a trovare le variabili che consen-tono di arrivare alla migliore sintesi negoziale.

La cultura è il miglior antidoto al delirio di onnipotenza che affligge tanti brillanti top manager e imprenditori (e non solo) e che trasforma la gestione dell’impresa in dittatura. È lo schiavo che tenendo l’alloro della vittoria sulla testa del generale romano durante il Trionfo gli sussurrava “Memento mori! Memento te hominem esse! Respice post te! Hominem te esse memento!”17.

E veniamo ora all’autismo manageriale. Questo è spesso il “duale” dell’ignoranza, ma talvolta anche manager capaci e competenti nel loro settore ne sono preda. L’autismo è una patologia che porta le persone a rinchiudersi in una propria “dimensione introversa” rifiutando e temendo la comuni-cazione e il confronto con la realtà. Nei manager, talvolta, è una manifestazione di debolezza, ma molto spesso è un peccato di ybris, la presunzione di sÈ che acceca gli uomini e li perde.

La “dimensione introversa” di un manager può essere il prodotto/servizio che produce o vende che è “ in assoluto il migliore e immodificabile”. Oppure, la propria competenza specialistica che è “indiscutibile”. O, ancora, le quattordici ore che passa in ufficio, assolutamente “indispensabili”. Per non dimenticare, i risultati conseguiti nel passato “che saran-no sicuramente incrementati in futuro”; il modello di busi-ness “che ha funzionato e funzionerà”; i clienti “che com-prano e certamente continueranno a comprare”; i fornitori “che sono sempre i soliti” eccetera.

17“Ricordati che devi morire! Ricordati che sei un uomo! Guardati attor-no! Ricordati che sei solo un uomo!”

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La realtà, tuttavia, cambia e manda segnali deboli e forti, ma il manager o l’imprenditore autistico non sa decodificarli, non ha gli strumenti necessari perchÈ tutto il suo tempo e tutte le sue energie sono assorbite dalla sua “dimensione in-troversa”. Nella vocazione di San Matteo di Caravaggio (fi-gura 1), il manager autistico è quello che, imperterrito, con-tinua a contare le monete mentre una realtà imprevedibile muove Matteo (il suo concorrente) al cambiamento.

Figura 1

FinchÈ un giorno “Ciàula scopre la luna”18. Cioè, per il manager autistico, l’occasione di un cambiamento, la scoper-ta di una cosa nuova, perchÈ la conoscenza avviene nell’im-battersi di un fatto talvolta inaspettato.

Lo chauffeur è malato, non ci sono taxi e il manager pren-

18 Luigi Pirandello in “Novelle per un anno”.

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de l’autobus, oppure accompagna al supermercato la moglie (che ha mantenuto usanze popolari), cosa mai accaduta in venticinque anni di matrimonio, oppure… Ed ecco che la realtà gli si para davanti. Non quella rappresentata dai consu-lenti o dai modelli, ma la molteplice e irriducibile dinamica di persone e bisogni, prodotti e servizi, tecnologia, opportunità e interessi.

Il Manager Ciàula ha una alternativa: tornare in ufficio e cominciare a lavorare per il cambiamento e l’innovazione an-che se le cose vanno bene (perchÈ è quando le cose vanno bene che bisogna cominciare a cambiare) oppure ritornare al buio della sua miniera di zolfo (tutte le miniere, anche le più redditizie, si esauriscono prima o poi) e continuare ad essere un manager autistico preparando la propria rovina e quella dell’azienda per cui lavora.

Mandaci o Padre Zeus il miracolo del cambiamento19, in-vocava Simonide di Ceo.

19 Simonide di Ceo, poeta greco del sesto secolo avanti Cristo.

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La teoria dei giochi analizza, anche attraverso modelli matematici, le situazioni di conflitto e ne ricerca le possi-bili soluzioni competitive e cooperative. Non voglio cer-to affrontare teoricamente la questione20: la vedremo dal punto di vista pratico. A tal fine, esemplificando, esistono due macrocategorie di situazioni conflittuali: quella in cui la funzione di utilità di uno dei due giocatori cresce solo a scapito di quella dell’altro (e, al limite, si massimizza con il suo annichilimento, i cosiddetti giochi a somma zero) e quella in cui la condizione per incrementarla è che anche la funzione di utilità del secondo cresca in qualche misura (si chiamamo “giochi cooperativi”).

L’essenza del management: i giochi cooperativi

20 Per chi fosse interessato ad approfondire la teoria dei giochi si consi-glia la lettura di “The strategy of conflict” di Thomas Schelling, premio Nobel 2005 per l’economia.

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Una rappresentazione esemplificativa della prima cate-goria di funzione di utilità è data dal grafico che segue:

Grafico 1

Il giocatore Y per incrementare di un’unità la propria utilità deve sottrarla al giocatore X e la sua massimizzazione la ot-tiene annichilendo X. Infatti con X = 0, Y = 4.

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La seconda categoria può essere rappresentata dal gra-fico che segue:

Grafico 2

In questo caso l’incremento di utilità del giocatore Y è cor-relata positivamente con l’incremento di utilità del giocatore X. I due possono negoziare la ripartizione tra loro dell’incre-mento di utilità (se la retta ha coefficiente angolare uguale a 1, è alla pari) ma sanno che devono comunque cooperare per conseguire un reciproco vantaggio.

Continuando con questo giochetto matematico, se met-tiamo sull’asse delle ordinate il prodotto delle due utilità di Y e X e lo chiamiamo “bene comune” e sull’asse delle ascisse la loro somma e la chiamiamo “interessi individua-li”, scopriamo che nella seconda categoria (comportamen-ti cooperativi) il “bene comune” cresce esponenzialmente rispetto al crescere degli “interessi individuali”.

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Grafico 3

Viceversa nella prima (giochi a somma zero) quanto Y ha annichilito X e massimizzato la propria utilità indivi-duale, il “bene comune” è uguale a zero (4 x 0 = 0).

Il bene comune si costruisce attraverso una sinergia sociale: in questo caso 1+1 >2, per questo le utilità di X e Y sono moltiplicate e non semplicemente sommate. Applichiamo questo ragionamento al numero di relazio-ni tra gli individui che compongono un’organizzazione, quali un’azienda, un’opera no profit, una bocciofila, una comunità, un paese, una nazione eccetera, moltiplichia-mo questo numero anche per le relazioni tra le diverse organizzazioni e otterremo una cifra che tende a infinito.

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È questa la dinamica alla base del progresso della nostra civiltà o della sua decadenza.

Qualcuno potrebbe obiettare che per Y sia nel grafico 1 sia nel grafico 2 l’utilità individuale, cioè il suo interes-se, è comunque raggiunta e dunque non vi sarebbe alcun incentivo a scegliere l’opzione cooperativa. La mia rispo-sta è che nel grafico 1 l’utilità di Y ha un limite (quando X=0 cioè è annichilito), mentre nel grafico 2 l’utilità di Y può crescere indefinitamente in funzione dello sviluppo dell’approccio cooperativo con X. Inoltre, nel grafico 1, Y raggiunge la massima utilità quando il “bene comune” è uguale a 0.

Orbene, è vero che il bene comune è un patrimonio in-disponibile (nel senso che nessuno se ne può appropriare individualmente), ma Y ne partecipa e dunque quando è uguale a 0 ne ha comunque una perdita. Ecco perchÈ a Y “conviene” il grafico 2 (ovviamente tutto il ragionamento vale anche per X).

Ragionamenti astratti? Bene, allora andiamo ai casi pra-tici.

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È evidente, tenendo presente tutto il discorso sulla teoria dei giochi, che la crisi emersa nell’ultimo quadrimestre del 2008, con gli effetti che ne sono seguiti, è nata dall’asso-lutizzazione di singole utilità individuali (banche, enti fi-nanziari e i loro top manager che hanno incassato bonus stratosferici) a spese del bene comune. A spese, cioè, di un contesto di scambi dove l’azzardo morale21 avrebbe dovuto avere sufficienti contrappesi in termini di controlli, sanzio-ni formali e informali (cioè l’emarginazione dalla business community), tali da garantire un ecosistema economico fa-vorevole agli scambi. Vale a dire, ai giochi cooperativi di cui al grafico 2 del precedente capitolo.

In altre parole, l’impoverimento del bene comune ha avu-to come effetto la crisi di fiducia nelle transazioni (le ban-

Da “Robbers city” al bene comune

19L’azzardo morale definisce il perseguimento da parte di un soggetto (sia esso un individuo o una organizzazione) dei propri interessi econo-mici a spese della controparte o della intera collettività scontando il fatto che questo comportamento irresponsabile non sarà sanzionato (il tipico esempio è quello di un imprenditore che opera con profili di rischio elevati sapendo di beneficiare degli extraprofitti e di poter scaricare le eventuali perdite sullo Stato).

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che non si prestavano più i soldi tra loro nÈ li prestavano agli operatori) che ha determinato il collasso dell’economia reale e dunque anche la distruzione delle utilità individuali.

A “Robbers city” nessuno si fida più di nessuno, prevale la legge del più forte e si spendono somme enormi per la sicurezza: porte blindate, bunker e guardie del corpo che ammazzano anche chi li paga se qualcuno è disposto a pa-garle di più. A “Robbers city”, la maggior parte delle risor-se materiali e intellettuali è impiegata nel difendersi dall’of-fesa dell’altro. Alla fine l’ultimo dei sopravvissuti pianterà la sua bandiera su un cumulo di macerie e soccomberà esso stesso.

“Robbers city” è un’amministrazione pubblica dove tut-to è un favore e niente è un diritto, un paese dove i vigili urbani fanno multe solo ai forestieri, un quartiere dove un artigiano non amplia la bottega perchÈ dovrebbe pagare il pizzo e dunque non assume quei ragazzi disoccupati che quindi andranno a lavorare per i suoi estorsori…

Tuttavia, è altrettanto evidente che nel sistema delle im-prese e dei mercati l’annichilimento del concorrente non sempre produce vantaggi durevoli: non è detto che i clien-ti siano disponibili ad acquistare i prodotti e i servizi del vincitore. Senza dimenticare che le tecnologie e il capitale umano del soccombente si disperdono creando opportu-nità per nuovi entranti. Aggiungiamo poi che le economie di scala attese dall’acquisizione di quote di mercato spesso si rivelano fallaci, specialmente quando prodotti e servizi del soccombente non sono immediatamente fungibili con quelli del vincitore.

L’esempio dei nostri distretti produttivi dimostra che questo sistema a rete, in cui si è contemporaneamente con-correnti e partner, è molto più resistente ai cambiamenti tecnologici e alle crisi di mercato rispetto ai singoli nodi che lo compongono. Il distretto ha una creazione di valore totale maggiore e più durevole nel tempo rispetto a quella

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che sarebbe originata da singole imprese che si muovessero in modo atomistico.

Un’impresa che esaspera la competizione interna (utilità individuale), ritenendo in tal modo di selezionare i migliori accantonando gli altri, induce a comportamenti predato-ri e opportunistici (azzardo morale) da parte dei vincitori: “Oggi sono io, domani un altro… meglio esasperare i risul-tati a breve e prendere le stock option e i bonus incremen-tando oltre misura la leva dei rischi”.

Un’impresa di questo tipo, inoltre, distrugge capitale umano perchÈ i soccombenti hanno un patrimonio valo-riale di conoscenze ed esperienze che è sprecato o sottou-tilizzato. Inoltre, i vincitori divorano (metaforicamente) i migliori che potrebbero insidiarli costringendoli ad abban-donare l’impresa o ad accettare la mediocrità.

Alla fine quest’impresa potrà ottenere successi effimeri nel breve termine ma non potrà prosperare nel lungo ter-mine. Manca il bene comune cioè l’interesse indisponibile alla valorizzazione bilanciata di tutte le risorse impiegate nell’impresa e dei relativi interessi: il capitale umano dei lavoratori che hanno interesse a mantenere il proprio lavo-ro, quello economico degli azionisti che hanno a cuore alla continuità dell’azienda, quello finanziario di chi vorrebbe che i prestiti fossero onorati, quello commerciale dei for-nitori che vorrebbero essere pagati, quello fiscale dell’am-ministrazione pubblica che ricava imposte da un’impresa che produce utili durevoli eccetera. Un’impresa come que-sta non potrà prosperare nel tempo anche se ha un ottimo bilancio di responsabilità e adotta codici etici “politically correct”.

Un’impresa che definisce un sistema di valori che premia i migliori e dà la possibilità di riconfigurarsi a riqualificarsi professionalmente a coloro che vogliono diventarlo – an-che indirizzandosi a un’attività diversa non necessariamen-te nell’impresa stessa – è, nel confronto, molto più dura

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e sfidante di quella che esaspera la competizione interna perchÈ richiede una responsabilità personale verso questo sistema di valori (il “bene comune”). Ed è più efficace ed efficiente perchÈ massimizza la leva organizzativa.

Lo stesso ragionamento vale, esattamente al contrario, per un’impresa (o una università!, per esempio) dove il merito non è premiato, nè la pigrizia sanzionata. In assenza di uti-lità individuale prevale la congiura dei mediocri; i migliori si rassegnano diventando essi stessi mediocri o vanno via. Anche in questo caso il bene comune non è tutelato anche se sembrerebbe il contrario: esso è minato dall’egualitari-smo collettivista e dall’assenza di responsabilità personale.

Gli italiani, che esprimono senz’altro il meglio dell’inven-tiva e della capacità imprenditoriale individuale, risultano perdenti come sistema paese quando perdono di vista que-sto orizzonte del bene comune. È proprio l’incapacità a capire i vantaggi che ne derivano e l’assolutizzazione esa-sperata dell’individualità la radice di questo handicap. Di fronte ai tanti successi individuali conseguiti nel campo dell’industria e della ricerca, che pure hanno dovuto scon-tare questa penalizzazione di partenza, viene da chiedersi che cosa potrebbe essere questo paese se essa venisse, non dico rimossa, ma attenuata.

Nel secondo Dopoguerra, quando ancora erano vivi i ri-cordi della sofferenza comune e la memoria di una prova condivisa, l’Italia ha compiuto il miracolo della sua rico-struzione. Il fattore dinamico di questo sviluppo è stato una sintesi straordinaria tra interessi individuali e bene comune, percepito come valore in sÈ avendo sperimentato, durante gli anni della dittatura e della guerra, gli effetti tragici della sua assenza.

Abbiamo avuto il Premio Nobel per la chimica con l’in-gegner Giulio Natta, ma anche una grande impresa chimica dove ha potuto lavorare e sperimentare e che ne ha inge-gnerizzato l’opera realizzando prodotti che hanno reso più

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facile ed economico il vivere quotidiano delle famiglie. Abbiamo avuto un signor Pininfarina che, non potendo

partecipare al primo salone dell’automobile dopo la fine della guerra perchÈ l’Italia era ancora soggetta a sanzioni, parte da Torino con il figlio e con due auto e va ugualmen-te a Parigi dove si svolge l’esposizione. Lì, ogni mattina, le parcheggia all’ingresso sino a quando non viene cacciato ma tornerà a casa con un portafoglio d’ordini.

Abbiamo avuto un sistema paese in grado di esprimere una posizione di leadership nella nascente industria nucle-are e di inventarsi dal nulla un ruolo di rilievo nella petro-chimica grazie al genio individuale di Mattei. Il “grafico 3” “lavorava” alla grande sino a quando il collasso culturale ed educativo degli anni 70 ha sostituito l’astrazione ideologica al realismo del lavoro facendo prevalere il modello del “tut-ti contro tutti” ancora tragicamente imperante.

Non si può essere imprenditori, top manager, politici, pa-dri o madri di famiglia, avere responsabilità di uomini, di risorse, di organizzazioni senza avere capito i fondamentali di questi concetti. Si può essere tiranni, devastatori, ban-chieri d’affari alla Gordon Gekko22, mafiosi, trafficanti di droga, ma non costruttori di un bene che duri.

“Gli altri siamo noi ma qui sulla stessa via, vigliaccamen-te eroi, lasciamo indietro i pezzi di altri noi… e tutti vittime e carnefici, tanto prima o poi gli altri siamo noi… in questo mondo piccolo oramai siamo noi siamo noi, gli altri siamo noi”23.

22Il protagonista del film “Wall Street” di Oliver Stone, un buon registra che ha pero il cattivo vezzo di abbracciare i dittatori in pubblico.23“Gli altri siamo noi” di G.Bigazzi, G – U.Tozzi

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Alcuni manager utilizzano i consulenti direzionali come alcune anziane signore i propri cagnolini di compagnia: gli parlano, gli attribuiscono sentimenti e volontà, assecondano i loro capricci e, alla fine, sono loro a essere portate a spasso illudendosi di tenere il guinzaglio dalla parte giusta.

I “consulenti di compagnia” sono animali stanziali: si in-sediano presso il cliente e vi fanno il nido, crescono la prole e sviluppano un modello simbiotico con il cliente inducen-dogli uno stato di dipendenza.

Se un signore alla domanda del taxista su dove vuole anda-re rispondesse seccato, “io la pago e lei che mi deve dire dove devo andare”, lo considereremmo con benevola indulgenza una persona da aiutare e cercheremmo il bigliettino che, tal-volta, i parenti pietosi mettono nelle loro tasche “mi chiamo tizio, abito a… In caso di emergenza telefonare al numero …”. Ebbene, con la stessa lucida follia, molti top manager mantengono torme di lanzichenecchi che s’insediano nelle sedi direzionali, consumano centinaia di cartucce di toner per produrre presentazioni Power Point che mettono in bel-la copia quello che i modesti impiegati e dirigenti del cliente gli hanno fornito lavorando per loro. Purtroppo nessuno mette le mani nelle tasche di questi top manager per cercare il numero di telefono dei loro azionisti per informarli su

Mode manageriali e “consulenti di compagnia”

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come sono stati spesi i loro soldi. Alla fine, quando le loro teorie e i modelli astratti hanno

prodotto cumuli di macerie, i “consulenti di compagnia” si allontanano disgustati, imputando al cliente l’incapacità di implementare le loro strategie assolutamente giuste.

Quanto descritto, in modo volutamente paradossale, descrive la dinamica perversa con cui molte imprese si av-valgono dei consulenti direzionali per ridefinire il proprio modello di business, per far fronte a una crisi di mercato o di prodotto, per modificare l’organizzazione e i processi, per definire una nuova strategia di sviluppo o per valutare un’acquisizione.

Il consulente è un taxi driver: potrà consigliarci sul percor-so e sulle diverse opzioni e alternative, renderlo più breve mettendo a disposizione la sua esperienza, trasportarci con un po’ di confort, ma non potrà mai sostituirsi al manager o all’imprenditore nella “vision” e nella scelta. PerchÈ “vi-sion” e scelta sono insiti nel ruolo del manager, che è pagato e misurato per decidere, e dell’imprenditore individuale che ci mette i propri soldi e risponde di quelli dei finanziatori.

I “consulenti di compagnia” sono come gli stilisti: a ogni stagione ci propongono una nuova collezione e ci convin-cono a liberare il guardaroba dei vestiti vecchi che maga-ri non abbiamo ancora fatto in tempo a usare. C’è sempre qualche nuova “release” del sistema contabile integrato che è assolutamente necessario acquistare, anche se di quella precedente non siamo riusciti a utilizzare che poche funzio-nalità; c’è l’ultimo grido in materia di Business Intelligence che promette di mettere sulla scrivania dell’amministratore delegato una consolle alla “Star Trek” da dove dominare ogni processo dell’azienda (i famosi cruscotti aziendali). È il consumismo aziendale indotto da una catena che parte da alcuni brillanti professori delle business school americane che impongono il trade mark su pretese invenzioni intel-lettuali (si pensi all’ Economic Value Added, meglio cono-

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sciuta come EVA ®)24, passa dagli sviluppatori di software applicativo per il business che lo incorporano nei loro siste-mi gestionali e finisce con i consulenti di compagnia che ne diffondono il verbo.

La critica non è ovviamente a favore del rifiuto aprioristi-co delle innovazioni prodotte dalle discipline manageriali e dalle tecniche che ne consentono la loro implementazione: il luddismo manageriale. La Balanced Score Card (BSC)25, ad esempio è una delle innovazioni più significative nella storia delle discipline manageriali e il suo contributo per il miglioramento della gestione è innegabile.

La questione, invece, è riportare le scelte in capo a un ma-nagement responsabile e consapevole, che deve riflettere su alcune determinanti fondamentali di valore, prima di impe-gnare ingenti risorse finanziarie e umane in progetti sug-geriti dai consulenti aziendali o anche dal proprio middle management.

Ecco queste determinanti fondamentali di valore:1) il rapporto tra il costo della informazione e il suo valo-

re per l’impresa: i fallimenti peggiori nell’implementazione dell’Activity Base Costin26 nascono da una errata valutazio-ne di questo rapporto;

24EVA is a registered trademark by its developer, Stern Stewart & Co. 25La Balanced Scorecard (BSC), è uno strumento di supporto nella gestio-ne strategica dell’impresa che permette di tradurre la mission e la strategia dell’impresa in un insieme coerente di misure di performance, facilitando-ne la misurabilità. La Balanced Scorecard venne sviluppata da Robert Ka-plan e David Norton in un articolo del 1992 (“The Balanced Scorecard – Measures that Drive Performance”, Harvard Business Review).26La Activity Based Costing (ABC) è una metodologia di analisi che for-nisce dati sull’effettiva incidenza dei costi, associati a ciascun prodotto e a ciascun servizio passando attraverso la determinazione dei costi delle attività che sono state necessarie per produrli.

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2) la curva delle innovazioni delle discipline manageriali e dei sistemi gestionali in genere (si veda il grafico 4) tende ad essere esponenziale mentre la nostra capacità di imple-mentarle nei processi aziendali è una retta. Traslare questa retta dallo stato A (situazione ante innovazione) allo stato B (stato che realizza l’implementazione dell’innovazione), richiede lavoro, tempo e risorse;

3) lavoro, tempo e risorse non sono infinite: vi è un tra-de off tra impiegarli per capire un’innovazione e impegnarli nella sua implementazione. Se s’inseguono continuamente le innovazioni il sistema complesso dei processi aziendali non riesce a riconfigurarsi e resta “indeterminato”. Un sistema indeterminato è instabile e può collassare. Quanti cambia-menti di software gestionali mal preparati hanno portato al blocco della fatturazione, alla perdita dei saldi contabili mettendo a rischio la stessa sopravvivenza dell’impresa. Lo stesso vale per la gestione della produzione o dei magazzini.

Grafico 4

Prima di firmare l’ordine e di “dare il giro” all’organiz-zazione è meglio riflettere su questi poche determinanti di buon senso. Chi si innamora della innovazioni organizzative e delle sirene che le cantano (i consulenti di direzione) corre il rischio di portare la nave e l’equipaggio sugli scogli.

grafico 4

0 5

10 15 20 25 30 35 40 45

0 5 10 15 20 25 tempo

fatto

re I

retta implementazione curva innovazione traslazione retta implementazione

stato A stato B

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Prima di passare alla release successiva del vostro ERP27 cercate di capire se l’organizzazione ha assimilato i contenu-ti di quella precedente traducendoli in processi e valore per l’impresa. Altrimenti firmerete l’ennesima fattura ma l’unico a essere contento sarà il vostro “consulente di compagnia”. Chi è al guinzaglio di chi?

27Enterprise Resource Planning: sistema di software gestionale che inte-gra in un insieme strutturato di flussi contabili e operativi la pianificazio-ne, gli approvvigionamenti, la logistica, il manufacturing, la manutenzio-ne, il ciclo passivo e quello attivo, la contabilità e l’amministrazione del personale.

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Il super-io manageriale

La volontà di potenza e il super-io manageriale rap-presentano una deriva nietzschiana assai pericolosa per l’impresa. Molti imprenditori e top manager costruiscono imprese di successo che poi divorano perchÈ ne fanno la proiezione di se stessi: i collaboratori sono semplici ese-cutori, i manager assistenti deresponsabilizzati e l’orga-nizzazione è concepita radiale con i singoli vettori con-vergenti su un unico fulcro che la muove.

Molte imprese sono andate in crisi perchÈ, con il rad-doppio del capannone, il “padrone” non poteva più gui-dare “a vista” la fabbrica eppure pretendeva di continuare a farlo diventando, in tal modo, il fattore ostativo alla sua crescita.

Molti top manager, inoltre, pretendono di essere “uo-mini per tutte le stagioni”, ma non è cosi. Ciascun top manager ha un suo ciclo di vita ed è portatore di una sua “Weltanschauung”, cioè la visione complessiva del busi-ness e dell’impresa. Il successo di un imprenditore, di un top manager è determinato da quanto questa visione in-terpreta correttamente il mercato e ne anticipa gli sviluppi permettendo all’impresa di costituire vantaggi competitivi sostenibili. Il punto è che il mercato cambia e che le vi-sioni perdono di efficacia nel tempo. Ci sono manager e

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imprenditori che riescono a modificare in modo adattivo la propria visione, ma non sono capaci o disposti ad ab-bandonarla (tattici di successo). Altri, i migliori, genera-no diverse visioni nella loro vita lavorativa.

Tutti devono misurarsi con una legge inesorabile del-la natura: più si invecchia e meno si hanno energie per il cambiamento, semplicemente perchÈ i benefici attesi sono oltre l’orizzonte della nostra durata mentre esso as-sorbirebbe tutte le nostre residue energie presenti. In altre parole, il cambiamento richiederebbe sacrifici e rischi nel presente ma i suoi vantaggi si collocherebbero in un futu-ro, dove noi non ci saremo.

Oltre a questo limite naturale ne esiste uno esistenziale, tutti noi dopo un po’ tendiamo a perpetrare e difendere ciò che sappiamo fare meglio, diventando degli inguaribili conservatori: l’ideale del martello è un mondo pieno di chiodi, ma sfortunatamente per lui non è così.

Vi è un ciclo di vita manageriale che possiamo esempli-ficare in quattro fasi (si veda il grafico 5):

Fase 1 – l’elaborazione della “Weltanschauung”. Il top manager elabora la propria visione del business e defini-sce il profilo competitivo ottimale dell’impresa, la matri-ce concettuale prodotto (o servizio)/organizzazione e il “business model”.

Fase 2 – implementazione della “Weltanschauung”. È la fase eroica del top manager: si costituisce il management team e si dà inizio alla guerra. Si cambiano l’organizza-zione e i processi, anche sacrificando il management pre-cedente. Si innovano i prodotti e i servizi, si indirizza in modo nuovo il mercato, si ridefinisce il concetto di cliente target e dei suoi bisogni. Ci si sacrifica e si lavora per co-struire la propria opera, per dare una vocazione al proprio talento.

Fase 3 – consolidamento e difesa della “Weltanschau-

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ung”: è la fase del raccolto per il top manager. Se la visio-ne ha avuto successo, superato l’ultimo passo, una vasta e ricca pianura si apre al suo sguardo. Può consolidare la sua opera e avere il tempo di razionalizzare quanto fretto-losamente impostato durante le fasi concitate dell’azione. Si irrobustiscono gli avamposti e si rafforzano le difese ai confini. Si incassano i bonus (quelli meritati: quando si è vinta la guerra non quelli elargiti frettolosamente per una battaglia apparentemente vittoriosa) e ci si può prendere due settimane di ferie senza computer.

Fase 4 – decadimento della “Weltanschauung” e difesa di se stessi: è la fase della degenerazione e del super-io. Il top manager identifica nell’impresa se stesso e la pro-pria volontà di potenza. Ogni giovane manager brillante è visto come un fattore di disturbo e una minaccia, una corte di mediocri adulatori e di “reduci” circonda il Capo che si è trasformato in un tiranno. L’impresa decade per-chÈ prevale l’introspezione, l’autoreferenzialità, l’interes-se personale e il rifiuto del cambiamento. Nel mentre, il business evolve, i concorrenti si appropriano di quote di mercato, nuovi prodotti attirano i clienti insoddisfatti.

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Grafico 5

Nessun azionista, sia esso individuale o collettivo, nessun Consiglio di amministrazione dovrebbe permettere all’am-ministratore delegato di accumulare tanto potere da entrare nella fase 4.

Quando un imprenditore, davanti al figlio che aspetta da anni di succedergli o davanti al manager che ha a lungo preparato alla funzione direttiva, pronuncia la fatidica frase “mi sento ancora utile”, è l’inizio della fine dell’opera di una vita.

Scendete da cavallo da condottieri consegnando le redini e la spada a chi vi succederà con la dignità e la fierezza di chi resta grande; non fatevi disarcionare da chi oggi merita più di voi. Fatevi rimpiangere, non compatire.

Vi è un rimedio a questa deriva: è il “non possesso”. La governance delle grandi imprese dovrebbe prevedere mec-canismi in grado di evitare il consolidarsi del potere manage-riale avente come fine la propria durata indefinita. A nessun manager dovrebbe essere consentito di essere al top per più

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di un certo periodo, anche in presenza di risultati brillanti. Il cambiamento va preparato quando le cose vanno bene. A metà del suo incarico il top dovrebbe cominciare a esercitare la funzione di coach del proprio successore e il bonus di uscita dovrebbe essere commisurato a un insieme di parame-tri in grado di misurare le performance di tutto il periodo del mandato. Questo eviterebbe comportamenti predatori e op-portunistici ed elargizione di bonus e stock option sulla base di risultati a breve che implichino l’assunzione di rischi che potrebbero mettere in discussione la continuità aziendale.

L’imprenditore dovrebbe darsi un termine ed essere re-sponsabile verso l’intero capitale investito nella sua impre-sa, che non è costituito solo di asset materiali, ma anche di capitale umano, garantendo la continuità aziendale e la suc-cessione. L’imprenditore non è un monarca e il figlio il suo delfino. Grazie a Dio i figli non sono i cloni dei padri e quan-do questo avverrà spero di non essere più su questa terra. Se vostro figlio non è adatto o vuole fare il medico, fate una bella S.A.P.A.28 e selezionate un manager capace come socio accomandatario… ma non eterno.

Per un top manager lasciare un’azienda per prendere il governo di un’altra, magari in crisi o che opera in un altro business, è la medicina migliore contro la noia e il conserva-torismo. Rigenera i neuroni e valorizza il patrimonio di co-noscenze manageriali che altrimenti correrebbero il rischio di fossilizzarsi.

28Società in Accomandita per Azioni.

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“On me dit que le destin se moque bien de nous Qu’il ne nous donne rien et qu’il nous promet toutParais qu’le bonheur est a PortÈe de main,Alors on tend la main et on se retrouve fou”29. Così canta una fascinosa signora ex ita-liana che ha fatto carriera all’estero per la sua disponibilità a calzare le “paperine”.

Io non credo che sia così. Il destino di chi opera non può essere il nulla. La costruzione di un’opera, sia essa un’impresa o la propria famiglia, permane nel tempo at-traverso quel moltiplicatore di utilità che costituisce il vero capitale permanente di una società o di un’impresa e che si chiama bene comune.

L’unico soggetto attuatore del bene è la persona: atten-dersi dalle istituzioni o dall’impresa etica la soluzione che ci esima dalla nostra responsabilità è un errore terribile. Quante volte abbiamo sentito le frasi “qui manca lo sta-to”, “ci deve pensare l’azienda” oppure “non è compito mio”?.

PerchÈ un manager, un imprenditore dovrebbe perse-

happy End

29Carla Bruni, “Quelqu’un m’a dit”.

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guire il bene comune? Questa domanda potrebbe dare la stura ad una discussione infinità sulle categorie del bene e sulla relatività del concetto e l’opportunità di avere più dubbi che certezze (va di moda il pensiero debole). Qual-cuno potrebbe anche argomentare che è una domanda non pertinente, in quanto imprenditori e manager non hanno alcun bene comune da perseguire, ma solo interessi.

La tesi che ho sostenuto credo sia chiara: non vi è una antinomia tra bene comune e interessi individuali. Per-seguire il primo è il modo migliore per assicurarsi, nel tempo, la soddisfazione dei secondi.

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POSTfAZIONEIn dialogo con Marco Boglione

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Aprile 2009: Carlo De Matteo conosce Marco Boglione leggendo le bozze di “Piano piano che ho fretta – Imprenditore è bello!”, il libro che racconta l’avventura umana e imprenditoriale del patron di Basic-Net, la società titolare dei marchi Kappa, Robe di Kappa, Superga, K-Way e Jesus Jeans. Piace a tal punto a De Matteo da spingerlo a scrivere un commento che – non a caso – andrà a finire nelle pagine conclusive di “Piano piano che ho fretta”.

I due s’incontrano e discutono a “casa Boglione”: c’è un’intesa pro-fonda, un rimando continuo di voce in voce.

Novembre 2009: Marco Boglione legge le bozze di “Contro l’azien-da etica – Per il bene comune”, scritto da De Matteo e ideale sviluppo di quel primo dialogo. Il “signor Robe di Kappa”, come lo chiamano in molti, vi sente riecheggiare i motivi di molte sue opinioni ed espe-rienze. È lo spunto per un nuovo incontro per discutere sul pamphlet di De Matteo – e vedere se è possibile realizzare un nuovo libro della BasicEdizioni. È giunto il momento di decidere sul da farsi.

Ora Carlo e Marco sono di fronte l’uno all’altro nella sala consiglio di BasicNet: i pensieri scorrono liberi e senza schemi ...

A Boglione piace subito il titolo “Contro l’azienda etica”. Gli piace perchÈ È adeguatamente provocatorio: ha la forza di uno slo-gan, che martella dentro, e che porta a domandarsi perchÈ mai uno debba dichiararsi contro l’azienda etica in una società dove già il solo

Il rischio che tutti corriamo

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sbandierare questa parola consente di attribuirsi dignità e attirare rispetto. Boglione taglia corto: “Non abbiamo mai pensato di fare il Bilancio Sociale. La BasicNet fa un solo bilancio. Questa è la nostra sfida: farne uno solo. Abbiamo sempre voluto lavorare secondo questa logica.

Ecco dunque spiegato il feeling che lega De Matteo e Boglione. Il loro è un dialogo “ open mind”, dove le ragioni dell’uno, se ritenute valide, sono fatte proprie e sviluppate dall’altro.

BoglioneGrazie Carlo, ho letto con gusto il tuo libello e ne con-

divido il contenuto. Devo dire che metti bene in quadro la situazione e non senza una certa ironia. Tutti sanno che è proprio come dici tu: descrivi molto bene questo mondo di avventurieri, sedicenti manager o imprenditori che, se-condo me oltretutto, da un bel po’, non credono neanche più loro a quello che stanno facendo. Non hanno più la situazione sotto controllo e per sopravvivere devono avva-lersi di tutta una serie di strutture e personaggi che creano quel grandissimo alibi, quella grandissima bolla che oggi fa tremare i polsi all’economia mondiale.

Leggere quanto hai scritto è stato piacevole: una lettu-ra che scivola rapida. Tu parli con un po’ di sarcasmo dei consulenti: ti confesso che il giorno dopo aver letto il tuo libro si è presentato a BasicNet proprio un illustre rappre-sentante di altrettanto blasonata società di consulenza. Ha iniziato la sua presentazione dicendo proprio le stesse cose che avevo letto la sera prima nel tuo libro: consulenza a 360 gradi, definizione della strategia di sviluppo, ridefini-zione della mission, education delle risorse eccetera. Alla fine della presentazione, ho pensato che se avessi accettato avrei davvero potuto prendermi un po’ di quelle famose settimane di vacanza che, si dice, gli imprenditori possono concedersi quando si affidano a consulenti così in gamba… Mannaggia! Avrei potuto accettare.

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De MatteoSe penso alla mia esperienza di manager devo sottolineare

quanto sia stato importante per me, in questi anni, coltivare una capacità critica sulla realtà. È una cosa che uno deve as-solutamente fare perchÈ altrimenti si diventa preda dei tem-pi, oppure più semplicemente preda di se stessi, di quello che uno fa. Quanto a ciò che ho scritto, credo che il professor Reviglio, che l’ha letto, abbia centrato il mio obiettivo. Mi ha detto che questo libretto dovrebbe essere letto dai giovani che cominciano l’università. È un giudizio che mi lusinga: è proprio quello che vuole essere; non è un trattato, è sem-plicemente uno strumento per veicolare idee supportate da evidenze.

Ciò che mi preme è innanzitutto mettere in guardia i giova-ni da una dinamica che si ritrova ormai dovunque: il condi-zionamento dei tempi. Uno dei problemi che noi dobbiamo affrontare è proprio questa enorme capacità di condiziona-mento che ci viene dai tempi. Intendiamoci, non è solo di ora, ma quando la quantità supera un certo livello diventa qualità. La cosa drammatica dei nostri tempi è la capacità pazzesca di condizionamento e quindi di riscrittura – po-tremmo dire, prendendo a prestito il linguaggio informatico – del nostro software interno. Avviene così nell’organizza-zione del lavoro, ma è così anche nel resto della vita.

BoglioneÈ vero, è una cosa pazzesca.

De Matteo Per proseguire nella metafora quando ti viene riscritto il

tuo software tu diventi veramente lo strumento, l’appendi-ce di un meccanismo che è fuori di te. Questo accade a un manager depredato della sua coscienza morale. Attenzione però: il meccanismo che ci stravolge non è indistinto, è fatto delle singole volontà che lo accettano per cui ognuno diven-

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contro l’azienda etica

ta portatore del sassolino che costruisce l’opera. La scelta è libera, certo, ma si diventa prede.

Allora, per parlare della crisi che attraversiamo, bisogna subito dire che il meccanismo che l’ha prodotta si sta ripro-ducendo. Esattamente come prima. La lezione non è stata imparata. Sta ripartendo la questione dei derivati, perchÈ il meccanismo funziona proprio così: si deve bruciare una grande quantità di moneta di “fuffa” per poi ripartire dacca-po. È un meccanismo che procede in due fasi: distruzione e ripresa. Alla fine però a essere distrutti sono le persone e il lavoro.

BoglioneÈ sotto gli occhi di tutti che ci stiamo autocambiando il sof-

tware di base e che questo rischia di portarci, come nei compu-ter, al loop e all’impallamento. Nel libro di Francesco Antonioli “La Bibbia dei non credenti”, ipotizzo che le religioni abbiano avuto storicamente il ruolo di software operativo dei nostri cervelli, delle nostre coscienze, esattamente come il DOS lo è per i PC: le strutture informatiche dei nostri processori, grazie alle quali immensi gruppi di individui hanno potuto interagire senza andare in loop generando caos e distruzione anzichÈ, come invece è avvenuto, progresso e benessere.

Il nostro software interno sta diventando sempre meno ri-goroso e si sta confermando quello che dici tu: è come se tutti facessimo anche solo una piccola modifica al DOS e poi pretendessimo che i singoli programmi funzionassero cor-rettamente o che le comunicazioni in rete fossero omogenee ed affidabili. No, non funzionerebbe più niente, esattamente come quando ti capita di aprire un file con il programma sba-gliato. Se ti va bene vedi un’infinità di informazioni inutili, quadratini, asterischi e numeri insignificanti. Su queste ma-trici fondamentali del software gestionale degli esseri umani si sta “pacioccando” troppo.

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De MatteoIl problema di un manager, come di un qualsiasi uomo o

donna in azione, nel mestiere come nella vita, è che per ri-manere ancora alla metafora informatica – il suo software operativo interno è sì fatto di diversi strati, ma oggi l’ag-gressione della mentalità dominante arriva fino al nucleo centrale, il kernel – le istruzioni di base. Se l’aggressione arriva fin lì il “cuore”, il nucleo centrale dell’uomo viene distrutto e può essere modificato a piacere. Ecco il punto: il condizionamento dei tempi sta arrivando al “kernel” di ogni uomo.

Diciamola chiaramente: noi stiamo ancora subendo le tossine del secolo passato. Il Novecento ha diffuso delle tossine micidiali, perchÈ è il secolo delle grandi sistemati-che ideologiche (fascismo, nazismo, comunismo), che ave-vano come fine ultimo entrare nel “kernel” umano, creare cioè l’“uomo nuovo”. Il nazismo, a partire dal principio della superiorità della razza; il comunismo, dalla superio-rità di una classe. Per riuscire a portare avanti un disegno che, ultimamente, è contro l’uomo, per riuscire a elimina-re 6 milioni di ebrei e 12 milioni di contadini russi o fare quello che è successo in Cina con la Rivoluzione culturale o in Cambogia per mano dei Khmer Rossi di Pol Pot (che

L’attacco al “kernel” umano

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aveva studiato alla Sorbona), bisogna aggredire il “kernel” umano, perchÈ occorre bypassare, far saltare quei mecca-nismi che sono innati nell’uomo, che sono alla base della sua natura: il fatto che l’uomo, tendenzialmente, non si autodistrugge e nè vuole distruggere. Per programmare un kamikaze, che arriva a distruggere se stesso e chi gli sta intorno, bisogna aver aggredito il kernel.

BoglioneÈ così ...

De MatteoOccorre però un lavoro di anni per preparare un kami-

kaze, perchÈ lui riesca a bypassare la sua natura e arrivi a produrre distruzione.

BoglioneÈ come essere attaccati da un virus…

De MatteoEcco: la forza di condizionamento dei tempi, oggi come

in mezzo alle ideologie del Novecento, è come un virus. Non è un’apocalisse, ma io vedo le cose andare veramente così. Noi dobbiamo fare argine a questo virus che sta dila-gando a tutti i livelli. Ma per arrestarlo dobbiamo ritorna-re al “kernel”, alla persona nella sua intangibilità. Anche l’impresa è coinvolta in questo contesto...

BoglioneAllora, Carlo, bisognerebbe riuscire a trovare il modo di

mettere al centro l’interesse collettivo come causa dell’in-teresse individuale. Per farmi capire meglio: l’individuo ha maggiore consapevolezza della sua individualità quando è capace di mettersi a sistema, di organizzarsi. Anche dal punto di vista esistenziale se ci definiamo uomini credo

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contro l’azienda etica

che lo facciamo perchÈ ci riferiamo ad una situazione collettiva; siamo uomini perchÈ apparteniamo a questa specie. Non perchÈ l’uomo è rappresentato da noi stessi. L’essere umano, ma anche un gatto, sono tali perchÈ fan-no parte di una collettività genetica.

De MatteoÈ il bene comune di cui parlo nel mio saggio. È la curva

che sale nei grafici che avrai visto, è il risultato di quei giochi cooperativi che, per esempio in un’azienda, favo-riscono, insieme, imprenditori, manager, collaboratori e maestranze.

BoglioneTu lo dici benissimo: lavorando per il bene comune la

moneta che ti ripaga è la soddisfazione individuale. Quin-di il bene comune è il ponte per trovare l’interesse per-sonale. Invece che cosa succede? Le aziende che si au-todefiniscono “etiche” rifuggono dall’interesse personale perchÈ lo giudicano come fonte di egoismi e di danni per gli altri e si affibbiano missioni aziendali “buone”. Fanno del buonismo; in realtà mettono in atto una grande presa in giro che si trasforma sul lungo anche in diminuzione della motivazione delle risorse umane. Come si può chie-dere a qualcuno di essere veramente motivato a far sem-pre meglio e di più se gli si toglie l’aspettativa, ancorchÈ indiretta, del beneficio personale?

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BoglioneHo risposto tante volte con una battuta a chi mi chie-

deva perchÈ alla BasicNet fossimo così attenti alla qualità dell’ambiente di lavoro dei nostri dipendenti e collaboratori: “per sfruttarli meglio!” La qualità dell’aria che si respira, la flessibilità degli orari, la libertà di rimanere in contatto con l’ambiente esterno, le televisioni in tutti gli uffici, l’accesso a Internet, Facebook compreso, l’informalità nei rapporti interpersonali e nell’abbigliamento, la palestra o il servizio di commissioni personali anche per chi non ha la segrete-ria, la fiducia che riponiamo nella buona fede e onestà di tutta l’organizzazione sono il modo migliore per ottenere il massimo da chi lavora in azienda. Non è una concessio-ne; è, al contrario, una “furbata”. Più faccio star bene chi lavora con me, più lo faccio sentir parte del mio progetto, più riesco a motivarlo, più ottengo; non io personalmente subito – è ovvio – ma l’azienda in termini di competitività e di capacità di svilupparsi e di guadagnare soldi. Di conse-guenza eccomi accontentato anche su ciò che alla fine mi sta più a cuore: il mio interesse personale.

L’interesse, ecco il “nodo”: devo operare per l’interesse di chi lavora con me e così facendo ne ho un tornaconto individuale.

L’interesse di un’azienda e della società

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Un insieme di aziende vivaci e competitive, che abbiano già provveduto a soddisfare gli interessi di chi ci lavora dentro, degli imprenditori, azionisti, fornitori o consulen-ti che siano, costituirebbe quel tessuto produttivo su cui l’Occidente basa oggi la sostenibilità della sua società. E di cui, di questi tempi, in certe parti del mondo si sente così tanto la mancanza.

La presenza di aziende che competono, che creano oc-cupazione, che creano prodotto interno lordo vero, non virtuale, perchÈ trasformano è il modo che gli imprendi-tori hanno per partecipare al bene comune.

Non si pretende ovviamente che tutte le risorse umane di un’azienda abbiano chiaro questo concetto. Tutti, però, possono condividerlo nella pratica, godendo come già detto del bene comune limitato al perimetro dell’azienda.

Quanto ho descritto vale anche per tante altre situazio-ni. Per esempio, il modo migliore per tirar su bene dei figli è farli crescere in una buona famiglia; o, più banalmente, il modo migliore per stare bene a casa propria è di non litigare col vicino di casa.

De MatteoPotremmo dire che il bene comune è un concetto a

matrioska russa. Pensa, Marco, alle dinamiche di bene co-mune che possono scattare tra persone che operano nel modo che descrivi tu. Pensiamo a tutte le realtà sociali, dalle imprese alla bocciofila, che a loro volta operino in questa logica: è così che si crea un enorme capitale, il vero capitale di una società, che è il capitale del bene comune. PerchÈ il tesoro che noi abbiamo è questo enorme capi-tale. Ciò che ha costruito il benessere del nostro paese è questo capitale comune che, tra l’altro, ci è stato con-segnato e dobbiamo incrementare per lasciarlo ai nostri figli. È quel meccanismo “moltiplicativo” che ho cercato di descrivere nel mio scritto. Il bene comune ha davvero

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una logica a matrioska. Per esempio, se non si valorizza la prima cellula del bene comune di una società, che è l’am-bito familiare...

Se si attacca quella singola cellula, che è poi la cellula-madre su cui poi si costruisce tutto il resto; si produce un disastro che costa anche in termini di esternalità ne-gative. Per esempio, una famiglia nella quale non ci sia una dinamica educativa, con il rischio di disagi giovanili e devianze, può comportare per la società un costo enorme. PerchÈ? PerchÈ, se va bene, produce un capitale umano inadeguato. Se va male, perchÈ allora si tratta di recupe-rare un adolescente deviato, per la società significa costi enormi.

Fondamentalmente, perchÈ quel giovane rischia di non valorizzare se stesso. Purtroppo mi sembra di dire delle cose ovvie: invece sono le cose fondamentali che ci siamo dimenticati. E dimenticandocele, abbiamo cominciato ad attaccare quel “kernel”, quella specie di codice genetico morale dove se tu ci metti le mani fai dei danni. Non sem-bri che io voglia fare il discorso “Dio, patria, famiglia”; dico solo che ci siamo dimenticati di cose fondamentali e di quanto lo siano ce ne accorgiamo proprio quando vengono meno.

Oggi nei giovani vediamo il risultato di non aver preser-vato la cellula-base della società e il valore del rapporto educativo. Prendiamo la scuola: in questi ultimi anni, se-condo me, si è abbattuto su di essa un autentico tsunami distruttivo. Alla fine di tutto questo si dice: giovani “ma-leducati”, come titola la copertina di un importante ma-gazine italiano. Sai, Marco, qual è il nostro problema? Il problema è culturale. Sugli effetti comincia a esserci una generale convergenza. Quel che manca, invece, è la com-prensione del meccanismo. Non abbiamo capito dov’è la malattia. E finchÈ non lo capiamo, finchÈ l’Occidente non lo capisce, andremo avanti fatalmente con i sintomi,

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che non potranno che peggiorare. Adesso è cambiato il vento: si dice che ci vuole rigore. Ma rigore per chi e per cosa?

BoglioneBisogna anche tener presente che questa malattia non

fa male a tutti. Anzi, a qualcuno fa molto bene. E, guarda caso, questo qualcuno ha anche una grande influenza sulla governance del mondo...

De MatteoPerfetto! È proprio così.

BoglioneIl problema, secondo me, sta proprio in questo famo-

so bene comune: non fa parte della natura degli uomini sbranarsi e uccidersi, sennò non saremmo arrivati qui. La natura degli uomini è, invece, quella di progredire. E si può progredire solo se si riesce a mettere a sistema l’intel-ligenza. Credo che il sentire del bene comune faccia parte del Dna degli uomini. Tu dici che nel Novecento c’è stata una svolta, un cambiamento. PerchÈ dici che è cambiato tutto? Il fascismo, il nazismo e il comunismo, sono espe-rienze dell’uomo che hanno messo davanti a tutto il bene comune. Oggi per fortuna abbiamo superato e archiviato quei grandissimi sbagli. Ma come?

De MatteoNon sono uno che pensa che siano esistite delle età

dell’oro in cui tutto andava bene e altre, di decadenza, in cui tutto è andato male. Io sono cattolico e penso, quindi, che il male ci sia sempre stato e sempre ci sarà finchÈ dura l’uomo sulla terra. Però io sono convinto di una cosa: nel-la storia dell’Occidente c’è stato un principio unificatore e fondatore.

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carlo de matteo

Io credo che un fattore fondativo della nostra storia sia stato, parlando dell’Occidente, quello che chiamiamo “cristianesimo”, perchÈ ci sono alcune cose che noi dia-mo per scontate ma che invece – veramente! – sono state i fondamenti della nostra costruzione e della nostra civiltà. Mi riferisco al valore della persona e della sua irriducibili-tà, che è stato introdotto dal cristianesimo. E questo è un dato fondamentale. Noi lo diamo per scontato, ma non era così nell’impero romano, non era così nella civiltà gre-ca: c’era sempre una funzionalità. Il valore della persona e della sua irriducibilità nasce con il cristianesimo. Questo potrà piacere o non piacere, ma è un fatto. È un fatto. E quando c’è il valore della persona e della sua irriducibilità stiamo fondando il concetto di libertà. Questo è ciò che ha permesso la grande dinamica di sviluppo dell’Occiden-te. Certo, anche attraverso sbagli, errori, peccati, miserie, tragedie, tutto quello che volete, però, alla fine, il valore della persona e della sua irriducibilità è stato una costante. Quello che è successo nel Novecento e che secondo me ha rappresentato la svolta – questo è il fatto vero – è che a un certo punto si sono affermati dei sistemi ideologici che hanno negato proprio il valore della persona e della sua irriducibilità, rendendola funzionale a qualcosa d’altro da sÈ. È questo il grande cambiamento avvenuto. I siste-mi ideologici si sono affermati su questi presupposti, su quello che io chiamo l’aggressione al “kernel” e di questo non ci siamo ancora liberati....

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BoglioneCarlo, scusa se interrompo il tuo ragionamento: tu dici

giustamente che il cristianesimo è stato la pietra milia-re dell’uomo libero e della centralità dell’individualità e dell’irriducibilità dell’essere umano. E va bene. Però – scu-sa se torno su questo punto – è anche vero che i disastri del Novecento di cui stiamo parlando, e che hanno negato quella libertà intuita nel medioevo dal cristianesimo e che è alla base del mondo moderno, sono stati fatti nel nome del bene comune. È lì la fregatura...

De Matteo La fregatura nasce dal fatto che questo bene comune,

alla fine, è stato identificato con un fattore esogeno rispet-to alla persona. Quando il bene comune viene identificato con una parte – nel caso del comunismo il proletariato, o nel caso del nazismo nel bene della razza – il problema di questo bene comune è che è stato costruito in modo eso-geno. È stato costruito su un sistema ideologico dove, alla fine, la persona era funzionale a questo progetto e quindi poteva essere annichilita se questo serviva al progetto.

Il bene comune conviene!

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carlo de matteo

BoglioneMa adesso si è rifatta la stessa cosa sulla finanza!

De Matteo Esatto!

BoglionePer il bene comune – un falso bene comune, ovviamen-

te – si è dematerializzato il denaro, si è incominciato a far commercio di sogni, che sono i futures, come tu bene descrivi. A un certo punto, tu stesso lo dici, c’è stata una svolta, perchÈ hanno deciso che – incredibile! – si poteva incominciare a far Pil con i derivati, i contro-derivati, venduti, piazzati e ripiazzati: tutte transazioni di roba che in gran parte non esisteva.

De MatteoÈ avvenuto quello io dico quando parlo dell’inversione

dei mezzi con i fini e quando mi riferisco alla speranza riposta nella tecnica. L’altra grande cosa che ha caratteriz-zato il Novecento, infatti, è la tecnica e l’abnorme fiducia in essa. In questo modo, però, ci siamo avviati verso la creazione di una realtà virtuale che ci sta portando a livelli di astrazione tali per cui noi viviamo in qualcosa che pen-siamo di avere costruito ma in cui, in realtà, siamo finiti dentro.

BoglioneE dunque come facciamo? Qual è la cosa che bisogna

dire per far fare un clic nella testa di qualcuno? Io ritengo che non sia difficile spiegare che si vive meglio in una città ricca che in una città povera, e meglio in un’economia sana che in un’economia zoppa. Si vive meglio oggi di 50 anni fa, non foss’altro perchÈ ci sono ospedali, trasporti...

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contro l’azienda etica

De Matteo…perchÈ la gente mangia...

Boglione…certo, ci sono i supermercati, i servizi sociali e an-

che la social card. Quindi, che cosa è successo? È miglio-rato il bene comune. Gli imprenditori sanno benissimo che se hanno successo, per un motivo o per l’altro, non rappresentano loro la middle class; se uno fa prodotti di largo consumo, che cosa vorrebbe che succedesse per il suo interesse? Avere un mercato più grande, quindi poter contare su una cosiddetta classe media sempre più gran-de e benestante. È chiaro che anche in quel caso il bene personale sarebbe la conseguenza del bene comune. Oggi potessi farlo, non comprerei un altro marchio, ma farei crescere i consumi del 10% in Italia. Potessi, aumenterei lo stipendio a tutti e lo darei a chi l’ha perso. E lo farei nel mio interesse, non nel loro. Forse dobbiamo dubitare di più di chi attribuisce al bene comune un valore etico appunto. Smetterla di considerare buoni quelli che dichia-rano di perseguire il bene negli interessi degli altri e invece rispettare e assecondare di più chi onestamente si sbatte dal mattino alla sera, senza tanti raffinati arzigogoli intel-lettuali e filosofici, per tenere aperta la bottega.

De MatteoÈ esattamente quello che dico io.

BoglioneBisognerebbe trovare il sistema per far capire che il bene

comune lo dobbiamo perseguire non per bontà, per com-passione, per carità.... ma perchÈ è nel nostro interesse. Si dice “oh come è bravo quello lì che si preoccupa tanto degli altri”...! Ma nooo! La verità è che, se lo fa, è un fur-bacchione, è uno che ha capito tutto. Chi dice che chi non

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carlo de matteo

litiga e chi non si azzuffa con tutti quelli che incontra è un buono, lo dice secondo un’idea di bene comune come bontà. La provocazione è dire che i veri furbacchioni sono coloro che si comportano così perchÈ gli conviene, sono gli autentici marpioni. E che in fondo non c’è nulla di male a essere un po’ marpioni.

Carlo, dai, mi hai convinto! Che cosa ne dici, lo faccia-mo ‘sto libro?

De MatteoDal momento che l’editore è convinto, sì.

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INDICE

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INTRODUZIONE – La provocazione del realismo

PAMPHLET – Alcune cose che mi frullavano per la testa Quando il “Protocollo” esautora la coscienzaSe è l’Azienda Etica a decidere ciò che è giusto La pretesa di creare l’uomo-azienda Le insidie della tecnica e della modellizzazione Ignoranza e autismo manageriale L’essenza del management: i giochi cooperativi Da “Robbers city” al bene comune Mode manageriali e “consulenti di compagnia” Il super-io manageriale Happy End

POSTFAZIONE – In dialogo con Marco Boglione Il rischio che tutti corriamo L’attacco al “kernel” umanoL’interesse di un’azienda e della società Il bene comune conviene!