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Considerazioni sul Cantiere Medievale Mercoledì 08 Febbraio 2012 00:00 - Ultimo aggiornamento Mercoledì 23 Aprile 2014 12:48 di FERNANDA POLI Il Medioevo non aveva una concezione chiara e lineare del tempo, per cui sia la rapidità sia la lunga durata di una costruzione potevano essere oggetto di meraviglia come attestato dalle fonti: si prendano i due casi estremi dei venti anni necessari per innalzare Cluny III e dei centoundici per il duomo di Ulm ({tooltip}1{end-link}1 W. SauerlÄnder, Tempi pieni e tempi vuoti, in E. CASTELNUOVO – G. SERGI, a cura di, ‘Arti e storia nel Medioevo’, I: ‘Tempi Spazi Istituzioni’, Torino 2002, pp. 12 ss.{end-tooltip} ). Per quanto i loro testi tendessero a magnificare le operazioni di costruzione delle cattedrali, non sfuggiva neanche ai cronisti del tempo che varianti imponderabili come il rigore degli inverni e la durata delle piogge influenzavano i tempi di realizzazione. Le epigrafi di consacrazione indicano la fine dei lavori e non la durata degli stessi: caso eccezionale quello del pergamo di Guglielmo (oggi a Cagliari), la cui realizzazione viene indicata in quattro anni e l’ultimazione al 1162 ma si tratta di un manufatto costruito nella bottega del marmoraro e per ciò stesso la sua realizzazione è indipendente per lo meno dalle vicissitudini atmosferiche. Ovviamente se il committente è un imperatore, un re o un grande abate i tempi ‘vuoti’ si annullano. La Santa Sofia di Costantinopoli fu portata a termine dagli architetti di Giustiniano in soli cinque anni e mezzo ({tooltip}2{end-link}2 C. Mango, Architettura 1 / 8

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di FERNANDA POLI

Il Medioevo non aveva una concezione chiara e lineare del tempo, per cui sia la rapidità sia lalunga durata di una costruzione potevano essere oggetto di meraviglia come attestato dallefonti: si prendano i due casi estremi dei venti anni necessari per innalzare Cluny III e deicentoundici per il duomo di Ulm ({tooltip}1{end-link}1 W. SauerlÄnder, Tempi pieni e tempivuoti, in E. CASTELNUOVO – G. SERGI, a cura di, ‘Arti e storia nel Medioevo’, I: ‘Tempi SpaziIstituzioni’, Torino 2002, pp. 12 ss.{end-tooltip} ). Per quanto iloro testi tendessero a magnificare le operazioni di costruzione delle cattedrali, non sfuggivaneanche ai cronisti del tempo che varianti imponderabili come il rigore degli inverni e la duratadelle piogge influenzavano i tempi di realizzazione.

Le epigrafi di consacrazione indicano la fine dei lavori e non la durata degli stessi: casoeccezionale quello del pergamo di Guglielmo (oggi a Cagliari), la cui realizzazione vieneindicata in quattro anni e l’ultimazione al 1162 ma si tratta di un manufatto costruito nellabottega del marmoraro e per ciò stesso la sua realizzazione è indipendente per lo meno dallevicissitudini atmosferiche. Ovviamente se il committente è un imperatore, un re o un grandeabate i tempi ‘vuoti’ si annullano. La Santa Sofia di Costantinopoli fu portata a termine dagliarchitetti di Giustiniano in soli cinque anni e mezzo ({tooltip}2{end-link}2 C. Mango, Architettura

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bizantina, Milano 1989, p. 68.{end-tooltip} )grazie ad una straordinaria organizzazione del lavoro e un sistema gigantesco di forniture;l’abbazia desideriana di Montecassino fu costruita nell’arco di un lustro da architetti chiamati daAmalfi e dalla Lombardia e grazie al riuso di materiali come colonne e marmi fatti venire daRoma ({tooltip}3{end-link}3 M. D’ONOFRIO - V. PACE, La Campania, Milano 1981, pp. 43ss.{end-tooltip}); Federico II in soli sette anni portò quasi a termine il castello di Maniace a Siracusa. Ma lacattedrale di Santiago di Compostela (iniz. 1078), nonostante il ‘geniale maestro’ Bernardo ilVecchio avesse a disposizione, oltre al caposquadra Roberto, una cinquantina di tagliapietre,durò quarantaquattro anni ({tooltip}4{end-link}4 M. Durliat, L’arte romanica, Milano 1994, p. 71.{end-tooltip}). Per la cattedrale di Cefalù furono assoldati quarantacinque lapicidi e circa trecentocinquantalavoratori ({tooltip}5{end-link}5 S. Tramontana, Il Regno di Sicilia, Torino 1999, p. 435; non indicato iltempo di esecuzione.{end-tooltip}). Un tempo record è considerato il decennio necessario per la costruzione della prima cattedraledi Lucca (1060-70), ma per il San Marco veneziano occorsero più di trent’anni (1063-

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1094). Per A.C. Quintavalle la cattedrale di Modena sarebbe stata eretta in sette anni(1099-1106), un giudizio (non condiviso da altri studiosi e neppure da chi scrive) che lo stessoQuintavalle è andato via via attenuando nel suo rigore, ammettendo la possibilità che l’attivitàdocumentata a Cremona a partire dal 1107 della taglia di Wiligelmo non testimoni una fine deilavori di costruzione a Modena, bensì attesti l’eventualità che lo scultore si spostassevelocemente tra i due cantieri contermini. Il 1099 è la data dell’inizio dei lavori e il 1106 quelladella traslazione del corpo di San Gemignano a chiesa non ultimata. L’opera di Wiligelmosarebbe posteriore a questa data: egli avrebbe lavorato a Modena una quindicina d’anni. Adogni buon conto trenta/quarant’anni sono stati giudicati un tempo abbastanza breve per lacostruzione di una cattedrale (ad esempio quella di Parma), tanto da consentire cioè laconservazione dell’unità stilistica del monumento, sebbene rimanga assai difficile se nonimpossibile stabilire il tempo medio per l’erezione di un edificio chiesastico ({tooltip}6{end-link}6Si veda sull’argomento in generale X. Barral I Altet, Contro l’arte romanica? Saggio su unpassato reinventato, Roma 2009, pp. 177-78; cfr. anche A.C. Quintavalle, L’arte sulle vie delpellegrinaggio in ‘Romei e Giulibei. Il pellegrinaggio medievale a San Pietro (350-1350)’, Milano1999, p. 176; Id., Ritualità e strutture dell’arredo tra XI e XIII secolo. Novità sull’officina diNiccolò a Fano ed Ancona e su quella antelamica in Puglia, in ‘Medioevo: i modelli’, Atti delConvegno internazionale di studi di Parma 1999, Milano 2002, p. 135, nota 7; Id., Medioevo: imodelli, un problema storico, in ‘Medioevo: i modelli’ cit., pp. 11 ss; Id., I mostri stiliti. I capitellidel duomo di Modena, FMR, 161, dicembre-gennaio 2004, pp. 60-78; Id., I tempi della sculturae le officine dei progettisti tra XI e XII secolo in Lombardia e in Occidente, in ‘Medioevo: artelombarda’, Atti del Convegno internazionale di studi di Parma 2001, Milano 2004, pp. 327 ss: inquest’ultimo studio precisa comunque che le sculture della cattedrale di Modena potevanoessere state ultimate nel 1106 avant la pose, una data che, sembra di capire, nonimplicherebbe anche l’ultimazione dei lavori di costruzione.{end-tooltip}). Infine si ricordi che è stato autorevolmente calcolato che, per erigere una modesta chiesa dicampagna (dunque con ogni probabilità senza committenti facoltosi) occorrevano almenoquindici anni impiegando due operai specializzati e usufruendo, per i lavori più pesanti, dellacollaborazione della gente del villaggio: ‘povertà di mezzi e difficoltà dei trasporti leganostrettamente il cantiere medievale alla realtà fisica e sociale del territorio in cui esso opera’({tooltip}7{end-link}7 D. Fiorani, Tecniche costruttive medievali. Il Lazio meridionale, Roma 1996,p. 5.{end-tooltip}). Da rifiutare categoricamente è l’idea ‘romantica’ che nel Medioevo gli edifici nascessero privi diprogettazione a monte. Infatti documentata e indispensabile era la presenza di un architectorprogettista (detto anche magister),

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che poteva o meno dirigere i lavori (in questo caso chiamato rector), spesso sculptor, di nomee di fatto. Significativa la distinzione tra architectus sapiens, il progettista, e architectuscoementarius, il costruttore, segnalata da A. Melucco Vaccaro ({tooltip}8{end-link}8 Agere dearte, agere per artem, in ‘Morfologie sociali e culturali in Europa tra tarda Antichità eAltomedioevo’, Spoleto 1998, p. 349.{end-tooltip}). Gli artifices erano gli operai specializzati, cui veniva demandata l’erezione delle murature;glioperarii erano i manovali, spesso maestranze locali. Con questo personale, inevitabilmenteanalfabeta, le difficoltà di comunicazione venivano superate dal progettista/direttore dei lavorisegnando i blocchi tagliati con lettere o simboli di semplice e immediata comprensione; allostesso scopo si creavano modellini o sagome elementari e conosciute e si progettava l’operamediante l’uso, per quanto possibile, di numeri interi e forme geometriche facili da riprodurre,servendosi sul campo di strumenti quali cordicelle, squadre, livelle.

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Ricordiamo che fino al XVII secolo la capacità di calcolare la resistenza alle sollecitazioni deidiversi materiali non superò la fase empirica, basata cioè sull’esperienza di cantiere ({tooltip}9{end-link}9 cfr. J.J. Terrin, Cupole, Milano 2006, p. 32.{end-tooltip}). Tra le infinite difficoltà e incognite legate alla costruzione di un edificio sacro ricordiamo cheper realizzare un concio un lapicida doveva lavorare da cinque a sei ore e che per scavare lefondazioni era necessario un anno. Uno strumento indispensabile al lavoro dei muratori come lacarriola, mossa da un solo uomo, sembra non sia entrato nei cantieri edili prima del XIII secolo ({tooltip}10{end-link}10 J. Gimpel, I costruttori di cattedrali, Milano 1961, pp. 164;167.{end-tooltip}).Sino a quel momento il movimento dei materiali era affidato a manovali: un uomo non potevaportare sulle proprie spalle entro ceste più di due conci per volta, a causa del loro peso nonindifferente; si faceva anche uso di barelle rette da due uomini. Tra questi si trovavano penitentiche cercavano così di lucrare il perdono della Chiesa per i loro peccati, donne e bambini: unaiuto in verità poco apprezzato dagli operatori di mestiere che li consideravano concorrenti nongraditi({tooltip}11{end-link}11 F. Cardini, La cattedrale: il simbolo, il documento, il monumento, in ‘Libridi pietra. Mille anni della cattedrale di Ancona tra Oriente e Occidente’, Milano 1999, p.23.{end-tooltip}). A tutto ciò si dovevano aggiungere i tempi per la realizzazione delle macchine necessarie alfunzionamento del cantiere (argani, ponteggi, ecc.), 

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quelli per la cavatura delle pietre cui doveva sommarsi il periodo necessario per l’espulsionedell’acqua di cava. Si consideri che il materiale veniva estratto preferibilmente d’estate perpotere espellere rapidamente l’acqua di cava, cioè di imbibizione naturale: la pietra venivaestratta preferibilmente d’estate e tenuta esposta agli agenti atmosferici per diversi mesi (a volteanche due anni) al fine di stabilirne il grado di durevolezza in condizioni climatiche estreme,operazione che garantiva una cernita naturale del materiale di qualità scadente consentendo diutilizzare solo quello più resistente ({tooltip}12{end-link}12 U. Menicali, I materiali dell’ediliziastorica. Tecnologia e impiego dei materiali tradizionali, Roma 1992, p. 19.{end-tooltip}). Pensiamo alla ricerca e trasporto degli enormi tronchi necessari per realizzare le capriate.

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La stagionatura del legno, ovviamente ricavato da alberi di grosso fusto ed esposto all’arialibera, avveniva in un tempo medio di almeno sette-otto anni onde essiccarsi a dovere edassicurare così stabilità strutturale prima di poterlo utilizzare. La manovalanza da reperire inloco era indispensabile per operazioni di bonifica del terreno dalle acque superficiali, lo sterro,lo scavo delle trincee, l’eliminazione dei materiali di risulta con gerle o cesti, la realizzazionedelle fondazioni e la cottura della calce. Personale specializzato coivolto erano poi carpentieri,cordai, fabbri: tempi lunghi erano necessari ai carpentieri per la progettazione e realizzazionedei ponteggi; i falegnami, come già detto, potevano lavorare il legno solo dopo almenosette-otto anni di stagionatura naturale, il che comportava una progettazione di lungo periododel cantiere medievale. Si pensi infine ai lunghi tempi di sosta legati all’andamento stagionalelocale: d’inverno ogni lavoro veniva interrotto perché il freddo intenso gelava l’acqua rendendodecoese le malte e lo stesso dicasi nelle estati troppo calde quando l’acqua di miscela siasciugava troppo rapidamente; anche durante la stagione delle piogge l’attività doveva esseresospesa. In sintesi non erano poi così tanti i mesi di lavoro nell’arco di un anno, ma a queste difficoltàoggettive si poteva ovviare in parte in un cantiere ben organizzato con la creazione di logge, 

dove potevano ricoverarsi e continuare la loro opera preparatoria scalpellini, scultori, fabbri,falegnami, carpentieri, cordai. Altri accidenti frequenti che rallentavano il lavoro eranol’improvvisa mancanza di fondi (spesso dovuta alla morte del committente legata spesso ailunghi tempi necessari al compimento della costruzione), le carestie ed epidemie molto gravi e icrolli in corso d’opera. Non è nell’ordine logico delle cose che un cantiere di media grandezza eimportanza potesse essere improvvisato. L’osservazione che a questi tempi si poteva ovviare inparte grazie a depositi di materiale ligneo sempre disponibile (come oggi) non apparesostenibile stante i costi di approvvigionamento e lavorazione: forse può essere valida perpiccole quantità di legno immagazzinate in botteghe artigiane che realizzavano pale d’altare(per essere utilizzato con tranquillità nella pittura su tavola una tavola aveva bisogno comunquedi una stagionatura di circa sei-sette anni ad evitare imbarcamenti e fessurazioni), ma non difronte a impegni finanziari di queste astronomiche dimensioni. Vogliamo solo accennare aitempi di costruzione della più famosa cattedrale del Mille e cioè il duomo di Pisa,semplicemente con qualche considerazione di ordine pragmatico poiché il problema non è statoa nostro avviso ancora risolto in modo ineccepibile nonostante, come è ovvio, sia statoesaminato dai maggiori architetti e storici dell’arte. Ci limiteremo alla prima fase del duomo di Pisa che, iniziata da Buscheto nel 1063/64, sarebbedurata circa mezzo secolo (i suoi altari furono consacrati nel 1118 e nel 1120). Continuano asfuggirci le ragioni per cui, epigrafi e documentazione storica a parte, solo raramente si è presain considerazione la più che probabile impossibilità che uno stesso individuo di nome Buschetoabbia iniziato e portato a termine l’antica prima cattedrale entro il 1110, data presunta della suascomparsa (gli succederà Rainaldo). Basterà porre attenzione ad alcune considerazioni (comeanticipato, di puro pragmatismo) sia in ordine alla dimensione biologica della vita mediadell’uomo nel Medioevo (trentasei anni), sia al fatto che in genere un maestro di cantierediventava tale ad una età non giovanissima. Si consideri che un architetto, oltre a non esseredigiuno di cognizioni-base di aritmetica e geometria, acquisiva la propria esperienza dentro lefabbriche, tra successi straordinari ed errori plateali che spesso portavano al fallimentodell’impresa già in corso d’opera. Un’esperienza che si maturava, ci sembra logico, in un arco ditempo abbastanza ampio per cui, tenendo conto dei lunghi tempi ordinariamente necessari percostruire una chiesa, un maestro (come è stato scritto) non avrebbe diretto nel corso della suavita più di un paio di cantieri: dunque una attività lavorativa di venti, forse trent’anni. Ovviamentenon può essere escluso tout court che il nostro Buscheto sia vissuto grosso modo fino asettant’anni in attività di servizio. Quasi sicuramente era ancora vivo nel 1110: sarebbe mortoinfatti il 21 settembre di quell’anno (ma ricordiamo che secondo l’uso medievale l’epigrafesepolcrale non indica alcuna data) ‘o di uno degli anni immediatamente successivi’. Per di più idocumenti storici che lo riguardano con sicurezza sono tutti del secolo XII ({tooltip}13{end-link}13 cfr. voce Buscheto, in EAM, IV, Roma 1993, a cura di G. SCALIA – V. ASCANI, pp.17-19.{end-tooltip} ). Non si potrà certo disconoscere il ruolo di crocevia di esperienze disparatissime in una cittàmarinara come Pisa e suoi stretti legami con la Terrasanta, così come l’esistenza di edificipreromanici siti nella città come il San Piero a Grado (dintorni; metà circa del X secolo: il piùantico), Santa Cristina, San Matteo, San Zeno, dove compare il motivo orientale del quadratosull’angolo più o meno geometricamente regolare. Si legga, ad esempio, quanto scrive a taleproposito lo scandalizzato monaco Donizone nella Vita di Matilde di Canossa, composta tra1111/12 e 1115/16: ‘sudicia città di pagani, di Turchi, di Libici ed anche di Parti, i bui Caldeiscorazzano sulle sue spiagge’({tooltip}14{end-link}14 vv. 1370-73, traduzione e note di P. Golinelli, introduzione di V.Fumagalli, Milano 19879.{end-tooltip}). In verità a Pisa, dove tra XI e XII secolo si registra il primo documento interamente in volgare,il cosiddetto ‘conto navale’, tra XII e XIII gli intellettuali conoscevano bene non solo il latino, maanche il greco e i mercanti erano in grado di scrivere e parlare l’arabo({tooltip}15{end-link}15 L. BATTAGLIA RICCi, Breve profilo della cultura a Pisa tra XII e XIIIsecolo, in ‘Cimabue a Pisa. La pittura pisana del Duecento da Giunta a Giotto’, Pisa 2005, p.48.{end-tooltip}). Dunque può non essere necessario immaginare fantastici viaggi di Buscheto attraverso tuttol’orbe conosciuto. Ci sia permesso comunque di dubitare che un giovane grosso modo poco piùche ventenne nel 1064 avesse già acquisito esperienze così vaste da conoscere l’architetturasiriaca (da cui discenderebbe l’icnografia del duomo pisano), quella dell’antichità pagana epaleocristiana, del mondo armeno (quadrati sull’angolo) e islamico (bicromia, soprattutto nellaversione iberica: moschea di Cordova in particolare, secc. IX-XI), insomma conoscenze cheabbracciavano l’Egitto, la Spagna musulmana, l’Anatolia, Costantinopoli. Egli possedeva inoltrecognizioni ingegneristiche (principio delle leve, risalente come è noto ad Archimede, madimenticato dai teorici del Medioevo ma comunque noto solo a pochi addetti ai lavori) eminerarie (supposta riapertura di cave di granito non sfruttate da secoli all’Elba e in Sardegna):insomma, come scrive Mario Salmi({tooltip}16{end-link}16 Architettura romanica in Toscana, Milano-Roma 1928, p. 12.{end-tooltip}), ‘una limpida mente assimilatrice’ cui tuttavia ‘non toccò la ventura di attuare interamente la suagrandiosa visione estetica’. Dell’argomento si è occupato Adriano Peroni({tooltip}17{end-link}17 Architettura e decorazione, in ‘Il Duomo di Pisa’, Modena 1995, pp. 13ss.{end-tooltip})senza, ci sembra, dare risposte convincenti forse perché impossibili. Da ultimo vedi cheneanche Guido Tigler({tooltip}18{end-link}18 Toscana romanica, Milano 2006, p. 46.{end-tooltip})si pone il problema sotto questo profilo, ma è importante segnalare quanto scrive (p. 211)invece sulla situazione edilizia pisana, e cioè che ‘poco dopo il 1026’ il monaco Bono,proveniente da Nonantola, ricostruì il monastero di Borgo San Michele a Pisa ‘per il cui chiostrofece venire colonne dall’Elba (in granito) e da Luni (in marmo di Carrara)’. Di conseguenzasembrerebbe che circa un quarantennio prima che si desse inizio al duomo pisano le cavedell’isola d’Elba fossero già in funzione. Comunque il nostro genio giovinetto (Buscheto) fuincaricato dalla Repubblica dell’Arno, dal Vescovo e dai Marchesi di Toscana di progettare edirigere la costruzione di un edificio di una tale importanza e dimensioni da costituire unesempio unico nel panorama dell’architettura del Mille non solo in Toscana, ma non sappiamosulla base di quali referenze. Ci pare indubbio che la scelta sia stata fondata sulla conoscenzadi sue opere ben note, realizzate nella città o nei dintorni. La critica non ci sembra abbia ancoraindagato a fondo questo aspetto del problema: pare tuttavia accertato che fosse attivo anche aPistoia negli anni Settanta del secolo, dunque in contemporanea al cantiere pisano.Indubbiamente le sue straordinarie capacità seppero dare al nuovo edificio una perfezioneestetica mai vista sino ad allora, come la regolarizzazione del motivo armeno dei quadratisull’angolo già presenti, sebbene estremamente insicuri nella loro irregolarità geometrica, nelSan Piero a Grado e nel San Zeno. Non sappiamo se si debba dubitare che Buscheto sia statoil progettista di questa grandiosa fabbrica o che lo stesso individuo l’abbia portata a compimento(come sembrerebbe più probabile basandosi sulla documentazione storica superstite). Le bennote iscrizioni celebrative e trionfalistiche della sua tomba, riesaminate con attenzione da G.Tedeschi Grisanti({tooltip}19{end-link}19 scheda n. 8, pp. 336-37, in ‘Il Duomo di Pisa’, Modena 1995.{end-tooltip}), mostrano che la mitizzazione della sua figura ebbe inizio già in vita e perdura tuttora nellaletteratura specialistica. Il problema resta aperto ma, come scrive M.L. TESTI CRISTIANI({tooltip}20{end-link}20 Tra Oriente e Occidente. Arte medievale a Pisa, CNR, Roma 2005, p.141 ss.{end-tooltip}), se l’inizio della costruzione del Duomo avvenne ‘non implausibilmente’ nel 1087, sisistemerebbero alcuni tasselli del mosaico sulla durata della lunghissima vita di Buscheto(esattamente di una generazione più giovane). Neanche per le grandi cattedrali o chiese abbaziali di Sardegna si potrà immaginare un tempoinferiore ai quindici anni e ciò ad essere ottimisti considerando comunque che nell’isola forsel’andamento stagionale era meno condizionante rispetto, ad esempio, a quello delle regionisettentrionali della penisola, senza dimenticare che fattore imprescindibile per abbreviare itempi di costruzione era il disporre di una committenza alta (i giudici) e dunque di fondipressoché illimitati come a Bisarcio e Saccargia e prima ancora nella basilica del Mille del SanGavino a Porto Torres, illustrata da chi scrive nel 1997

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({tooltip}21{end-link}21 F. Poli, La basilica di San Gavino a Porto Torres. Storia e vicendearchitettoniche , Sassari 1997.{end-tooltip} ) prima dunque di conoscere i risultati delle indaginiarcheologiche, scavi impenetrabili da parte dei non addetti ai lavori ed oggi praticamentescomparsi alla vista. Forse tale durata non sarà stata sufficiente se si tiene conto che le notiziestoriche in nostro possesso rivelano la presenza (in verità assai esigua) di soli undici operaispecializzati provenienti da Pisa. Ovviamente altra forza lavoro sarà stata come semprereclutata in loco e cioè manovali, apprendisti, carpentieri, fabbri, falegnami, cordai, cui sisaranno aggiunti secondo la consuetudine assai diffusa penitenti, donne e bambini. Ci riferiamoovviamente alla prima fase del San Gavino (iniz. 1030-40) e cioè la ecclesia est, raddoppiata(ecclesia ovest) qualche decennio dopo (sempre entro il Mille) fino a comporre l’attualeicnografia ad absidi affrontate. Abbiamo comunque la fortuna per il San Gavino di disporre dei risultati degli scavi archeologicieseguiti nelle campagne di scavo degli anni 1963 e 1989-2003. Le prime ricerche furono iniziatenei lontani anni Sessanta da Gugliemo Maetzke ({tooltip}22{end-link}22 ‘Monte Agellu‘. Leorigini della basilica di S. Gavino di Porto Torres secondo le testimonianze archeologiche,Sassari 1989.{end-tooltip} ) e portarono allascoperta dei resti di un edificio sacro occidentato attribuibile a V secolo, reso ispezionabileattraverso la tristissima galleria inferiore seicentesca della basilica. Il suo schema planimetricoraccorciato trova precisi riscontri in chiese scomparse sia sarde (Dònori, San Nicola), siaravennati (Africisco, San Michele), sia siciliane (Nésima, basilica), costruite tra il V e il VI secolo.Gli scavi sono proseguiti, senza potere essere portati a conclusione, negli anni 1989-2003 neicortili che fiancheggiano la chiesa sui lati lunghi, denominati per tradizione ‘Atrio Metropoli’ (asud; oggi lastricato, con ingresso agli scavi non agibile) e ‘Atrio Comita’ (a nord; sistemato averde, con indicazione del perimetro degli edifici ritrovati). Dei lavori compiuti si è dato conto inun volume a più mani in verità assai lacunoso e impreciso, che riassumiamo con beneficiod’inventario stante l’assenza di una documentazione fotografica e grafica esauriente({tooltip}23{end-link}23 Indagini archeologiche nel complesso di San Gavino a Porto Torres.Scavi 1989-2003, Roma 2006.{end-tooltip}). Oltre alla conferma della destinazione a cimitero pagano-cristiano dell’area del Monte Agellugrazie alle numerose tombe venute in luce, la scoperta di maggiore importanza è stata quella diuna presunta chiesa a tre navi, risultato di un doppio rimaneggiamento eseguito tra IV e VIsecolo: si tace sostanzialmente sui resti messi in luce dal Maetzke. L’icnografia trinavata èipotizzata ma non provata perché gli scavi non si sono estesi al di sotto della navatellasettentrionale della basilica, in corrispondenza dei ritrovamenti esterni: se mai costruita, questanavatella avrebbe distrutto le strutture murarie ritrovate dal Maetzke nel 1963. Sono poi statiindividuati (ad ovest) i resti del basamento di un portico di età posteriore a questa ‘seconda’chiesa, sfuggenti per datazione e destinazione d’uso. A sud è stata ritrovata una cisternaaltomedievale coperta da volta a botte e, in uno scarico di cantiere, minuti frammenti di affrescoprobabilmente del Mille (giudichiamo dalla fotografia pubblicata). Il testo prosegue con ipotesiinsoddisfacenti per mancanza di elementi di scavo inequivocabili e di rilievi di ineccepibilelettura, tra contraddizioni cronologiche nei diversi contributi. Per quanto riguarda il nostro assunto è stato segnalato che sul fianco settentrionale dell’edificioprotoromanico sono state individuate buche di palo che gli operatori ritengono trattarsi dei restidi un’ipotetica chiesa lignea. Se così fosse l’organismo avrebbe avuto dimensioni spropositateper un edificio provvisorio destinato, per un tempo relativamente breve, ad una comunitàpresumibilmente assai ristretta di fedeli, eretto in attesa dell’ultimazione/agibilità delraddoppiamento verso ovest dell’edificio in muratura in costruzione nel secolo dell’Anno Mille.Non ne conosciamo esempi simili ma solo strutture di modestissime dimensioni, di cui si ètrovata traccia archeologica nelle regioni alpine e nell’Europa settentrionale. A nostro avviso citroviamo in presenza di una loggia di cantiere funzionale alla razionalizzazione di tutte leoperazioni costruttive sopra descritte, identiche per qualunque edificio medievale perchésoggette agli stessi condizionamenti ambientali ed economici. Presso il cantiere, quando questoveniva supportato da una committenza facoltosa, si costruiva appunto una loggia, cioè unacasa-magazzino in legno dove operavano scalpellini, fabbri, falegnami ecc. al riparo dallepiogge e dai freddi invernali e dove si conservavano gli attrezzi e il materiale da lavorare,nonché le macchine per il sollevamento dei materiali da costruzione. Tali strutture precarie, checonsentivano di abbattere i tempi morti di lavorazione, oltre un ‘ufficio’ amministrativo/tecnico,ospitavano gli alloggi e la mensa per il personale. In ogni caso una scoperta importante poiché si tratterebbe dell’unico caso nell’isola chetestimoni la presenza di un cantiere edilizio protomedievale di grande specializzazione e diperfetta organizzazione. Il materiale iconografico riprodotto è stato tratto da: - AA.VV., ‘Villard de Honnecourt. Disegni’, Milano 1988. - AA.VV., ‘Cantieri medievali’, Milano 1995. - AA.VV., ‘Medioevo: le officine’, Atti del Convegno internazionale di studi, Parma 2009,Milano 2010.

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