Considerazioni letterarie

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Saggio storico di DANILO CARUSO / Palermo, settembre 2012

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In memoria di mio padre Antonino,

artista e artefice di una Lercara archeologica.

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INTRODUZIONE

l comportamento dell’essere umano in aggiunta alle sue naturali inclinazioni è influenzato dalle circostanze ambientali in cui cresce, si forma e continua a vi-vere.

Dipende dunque dalla presenza di disagi la crescita di una personalità segnata da un accumulo di motivi di rivalsa che si possono scaricare sulla società, motivi che partendo dalle più svariate tipologie rischiano di sfociare in atti illeciti anche reite-rati nonostante le leggi li reprimano.

La spinta a delinquere sorge perlopiù da uno stato di malessere: l’energia psichica può indirizzarsi su versanti positivi (pulsione al piacere) o versanti nega-tivi (pulsione alla distruzione).

Chi ha inclinazione a deviare dall’ordine costituito è soprattutto un sogget-to formatosi in contesti di carente benessere e acculturazione.

Questo insieme di fattori scatenanti anima dei comportamenti che mirano a distruggere nei più diversi modi il vivere civilizzato.

L’irrazionalità dell’atteggiamento delinquenziale è quindi una conseguenza di quei sistemi sociali che producono sperequazioni dalla base, tendenti a creare sacche di ridotto arricchimento senza riguardo per la massa.

Un’architettura socioeconomica che non dia luogo a differenze, la fornitura statale di servizi quanto più efficaci, la distribuzione del benessere su più ampia scala darebbero il via alla riduzione degli illeciti.

Questo piano di prevenzione dovrebbe naturalmente unirsi alla scolarizza-zione e all’acculturamento, dato che un buon cittadino non è quello che non com-prende le dinamiche del mondo in cui vive e che non abbia idee chiare.

L’ignoranza è tra i fattori promotori di condizioni devianti, del loro attec-chire e del loro protrarsi.

Il concorso degli istruiti può favorire buone leggi, e più acculturati signifi-cherebbero più buone leggi.

Cosicché non si verifichi neanche in una animal farm letteraria che il Napole-on di turno, chissà, stabilisca che abbiano diritto di parola solo coloro che cono-scano e sappiano spiegare bene le grammatiche delle lingue grazie a cui si espri-mono, nello stesso modo in cui guidare un veicolo richiede il conferimento di una patente dopo aver superato un appropriato esame.

Ma a ciò, fortunatamente, rimediano già le scuole.

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1. ANTROPOGONIA E ANDROGINIA NEL SIMPOSIO E NELLA GENESI

l racconto di “Genesi” sulla creazione dell’umanità appare sotto nuova luce se sovrapposto a quello di Aristofane nel “Simposio” platonico. Platone fa dire al commediografo che «in origine c’erano tre sessi umani, non due, maschio e

femmina soltanto, come ora, ma ce n’era un terzo, che partecipava dell’uno e dell’altro e che, scomparso oggidì, sopravvive ancora nel nome. C’era allora un terzo sesso, l’androgino, che di fatto e di nome aveva del maschio e della femmina, e questo non esiste più, fuorché nel nome che suona un oltraggio. Inoltre ogni uomo aveva una figura rotonda, dorso e fianchi tutt’intorno, quattro braccia, gambe di numero pari alle braccia, su un collo cilindrico due visi, perfettamente simili fra loro, un’unica testa su questi due visi, posti l’uno in senso contrario all’altro, quattro orecchie, doppie pudende e tutto il resto come si può supporre da ciò che si è detto».

A questa descrizione dei primordiali esseri umani con doppia connotazione somatica (maschio-maschio, femmina-femmina, maschio-femmina) segue la spie-gazione di come Zeus, per punirli della loro volontà di sfidare gli dei, li avesse ta-gliati simmetricamente in due. Il sovrano dell’Olimpo «venne segando gli uomini in due, come quelli che tagliano le sorbe per metterle in conserva, o quelli che di-vidono le uova con il filo di crine. E a misura che ne segava uno, ordinava ad A-pollo di girargli la faccia e la metà del collo dalla parte del taglio, acciocché l’uomo, avendo sotto gli occhi il proprio taglio, fosse più modesto, e medicargli le altre ferite. E Apollo girava a ciascuno la faccia in senso opposto, e tirando d’ogni parte la pelle verso quello che ora chiamiamo ventre, come le borse a nodo scorso-io, lasciandovi appena una boccuccia, la legava nel mezzo del ventre, in quel pun-to preciso che chiamano ombelico. Spianava poi tutte le altre grinze, che eran mol-te, e rassettava le costole, servendosi d’uno strumento suppergiù simile a quello che adoperano i calzolai per spianare sulla forma le rughe del cuoio; ma ne lasciò poche nel ventre e intorno all’ombelico, ricordo dell’antica pena. Orbene, poiché la creatura umana fu divisa in due, ciascuna metà presa dal desiderio dell’altra, le andava incontro, e gettandole le braccia intorno e avviticchiandosi scambievol-mente, nella brama di rinsaldarsi in un unico corpo, morivano di fame e d’inerzia, perché l’una non voleva far nulla senza dell’altra. E quando l’una delle metà mo-riva e l’altra sopravviveva, quella che sopravviveva andava in cerca di un’altra metà e le si avvinghiava, sia che s’imbattesse nella metà d’una donna intera –

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quella che appunto ora chiamiamo donna – sia nella metà d’un uomo; e così mori-vano. Mosso pertanto a compassione, Zeus ne escogita un’altra; trasporta le loro pudende nella parte anteriore – fino a quel momento anche queste le avevano avute al difuori, e generavano e partorivano non tra loro, ma in terra, come le cica-le… gliele trasportò dunque così, sul davanti e in questo modo rese possibile la generazione fra loro, per mezzo del maschio nella femmina, con questo fine, che nell’amplesso, ove un maschio s’incontrasse in una femmina, generassero e si per-petuasse la specie; ma, ove invece un maschio s’imbattesse in un maschio, provas-sero sazietà nello stare insieme e smettessero e si volgessero a operare e attendes-sero agli altri doveri della vita. Cosicché fin da quel momento l’amore vicendevole è innato negli uomini: esso ci riconduce al nostro essere primitivo, si sforza di fare di due creature una sola e di risanare così la natura umana».

Questa procedura di scissione, anche se circoscritta al solo androgino e con un impianto concettuale differente, era già presente nell’anteriore narrazione della “Genesi” (il testo di riferimento è quello masoretico). Il posteriore testo platonico ha una traduzione più chiara nella resa del pensiero esposto. L’espediente analiti-co della sovrapposizione di due scritti elaborati in contesti culturali distinti, co-munque non necessario, non è fuor di luogo nel momento in cui tale operazione mostra un fondo comune di base dottrinale tra platonismo ed ebraismo che risul-terebbe la sapienza egizia (gli dei androgini dell’antico Egitto sono connessi al cul-to del sole).

Riguardo all’antropogonia ebraica Gn 1,26-27 comincia col raccontare che «Dio (Elohiym) disse: “Produciamo (naaseh, qal imperfetto 1a persona plurale) adam per mezzo della nostra immagine (be-tsalme-nu) a nostra somiglianza (ki-dmute-nu)”… maschio e femmina (zakar u-neqebah) produsse loro». Qui si dice che l’essere umano (adam) è stato prodotto per mezzo di una statua (tselem), con connotati maschili e femminili, poi 2,7-25 approfondisce e continua l’argomento. Gn 1,11 parla di «al-bero di frutto che faccia (produca: oseh, participio maschile singolare del qal) frutto in relazione alla sua specie (le-myn-o), il suo seme (zar-o-) mediante esso (-b-o) sulla ter-ra». Gn 1,31 usa lo stesso verbo, quando alla fine del sesto giorno della creazione «Elohiym vide tutto ciò che aveva fatto (asah, participio maschile singolare del qal)». Pertanto stando all’uso dei verbi: Elohiym sta a tselem come albero di frutto sta a seme. Nel v. 2,7 appare esplicito che la tselem di 1,27 è una statua con cui Dio «formava (-yyiytser, qal imperfetto 3a persona maschile singolare: si faccia molta attenzione al modo verbale che indica un’azione non completa, perdurante) l’adam, (che è) polvere dalla superficie della terra (apar min-haadamah)».

In particolare la parte finale di questo secondo brano riecheggia la divisione degli androgini di cui parla Aristofane. Che «maschio e femmina» di 1,27 fossero attributi riferiti a un singolo soggetto (e non a due generi individualmente diversi-ficati) lo credeva Filone Alessandrino, anche se poneva tale coppia di qualità nel

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nucleo unitario di un’idea universale di umanità nella mente divina (archetipo no-etico poi servito nell’operazione di 2,7-25). Il secondo racconto sull’origine umana contraddice però Filone Alessandrino sul modello ideale perché Dio crea all’inizio solo l’adam e non pure la donna (creata in un secondo momento): la mancanza di contemporaneità dimostra che il maschile e il femminile di cui si fa cenno in 1,27 fos-sero concentrati in un unico essere androgino da cui è stata successivamente sepa-rata la femminilità.

Il senso di 1,27 va interpretato in maniera distributiva unitaria (maschio-e-femmina). Tale lettura supera l’impressione di ripetitività di 2,7-25, dove si narra in effetti del modo in cui gli androgini – in principio unici esseri umani – fossero stati diversificati (21-22). A confermare il passaggio della scissione dell’androgino sono alcune interpretazioni midrashiche: l’adam primordiale prodotto in Gn 1,26-27 era in pratica più o meno come uno dei tre tipi androginici descritto da Aristofane nel “Simposio” (una creatura unica con doppi connotati sessuali distinti di maschio e di femmina, di natura bifronte, poi tagliata in due per costituire l’uomo e la donna individuali). La donna prodotta dalla scissione dell’androgino è una sottospecie dell’adam maschio-e-femmina, è la causa di questa sua mutilazione che lo degrada nella scala degli esseri viventi. Questo adam androgino, in cui l’unione col femmi-nile è il carattere della perfezione, è nato con una vocazione maschilista. Dopo la nascita di Caino Eva, in Gn 4,1, affermerà di aver ottenuto «un iysh (uomo) [che è] come il Signore (et-Yahweh)»: la particella et, che introduce un complemento ogget-to, compare già due volte in tale versetto, e pare dunque corretto tradurre l’espressione «et-Yahweh», seguente il complemento oggetto «iysh», con un com-plemento predicativo dell’oggetto.

È qui tra l’altro una visione antropomorfa del divino. Per quanto concerne l’antropologia veterotestamentaria, l’aver distinto sostanzialmente la femminilità in un secondo tempo serve a giustificare la naturale esistenza dei generi sessuali, ma al contempo a porre in subordine il ruolo della donna, nuova creatura compar-sa nella gerarchia tra l’adam menomato e gli animali. In Gn 2,18 Dio constata «non buono l’essere dell’adam in relazione alla separazione (le-badd-o)», perciò avrebbe prodotto «riguardo a lui un aiuto (ezer: aiutante, supporto) a-somiglianza-di-fronte-a-lui (ke-negd-o)». A cosa si riferisca «le-badd-o» in questo versetto non è così chiaro. Tale locuzione in generale interessa persona o ente che resta da una separazione (per es. in Gn 30,40 / 32,17 / 32,25 / 42,38 / 44,20; Es 12,16 / 22,19 / 24,2; Dt 8,3 / 22,25). La non bontà di questo distacco potrebbe concernere uno di due aspetti e-spliciti dopo: a) l’assenza di un aiutante, b) la divisione in due creature dell’androgino. In entrambi i casi si può parlare di un distacco non positivo poiché in a) viene a mancare un supporto e in b) si originano l’uomo e la donna singoli e imperfetti. La solitudine androginica di genere è comunque tema comune ad a) e b). Nell’eventualità di qualsiasi delle due interpretazioni Dio cercherebbe, infrut-

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tuosamente, di trovare un aiuto all’adam producendo degli animali (Gn 2,19-20) prima di procedere alla scissione dell’androgino. Gn 2,21 attesta di un prelievo chi-rurgico di qualcosa da una zona angolare dell’adam, non viene menzionata esplicita-mente la costola: il termine tsela vuol dire lato (ad es. Es 26,26-27 / 26,35 / 36,31-32; 1 Re 6,8 / Ez 41,5-6): Dio, mentre l’adam dormiva, «prendeva numero uno dai lati di lui (achat mi-tsalotay-v) e chiudeva la carne (basar) al di sotto di questo (tachte-nnah)… e costruiva la tsela che aveva tratto dall’adam per [dare vita a] la donna (le-ishah: complemento di fine)».

Adesso l’adam è soddisfatto della nuova proposta di un ezer (Gn 2,23): pre-sa da lui («osso dalle ossa di me e carne dalla carne di me», dirà) la chiamò «ishah (don-na) poiché dall’iysh (uomo) è stata tratta». Gn 2,24 stabilisce uno scopo antropologi-co dicendo che l’uomo lascerà la sua famiglia di provenienza per ripristinare una sorta di unità sullo stampo dell’androgino: «si sarà unito (avvinghiato, attaccato; avrà aderito strettamente: -dabaq, qal perfetto 3a persona maschile singolare) nella donna di lui (be-isht-o) e saranno diventati (-hayu, qal perfetto 3a persona comune plurale) la creatura primigenia (letteralmente la carne, il corpo numero uno: le-basar echad, in que-sta espressione di termini – costituente nel testo masoretico un complemento di fine – echad ha – considerati i risvolti dell’analisi – più un valore ordinale che cardi-nale)». Quando l’uomo (iysh) avrà recuperato il lato (tsela) femminile (neqebah, ishah) si sarà innalzato di nuovo alla completezza del primo adam. Ecco una fondazione ontologica del pregiudizio discriminatorio contro le donne, di cui il seguito dei brani contenuti nel terzo capitolo di “Genesi”, che parlano della tentazione e della conseguente cacciata dall’Eden, sono altra fondazione antropologica.

L’esistenza separata di un essere femminile non solo ha provocato una prima degradazione al momento della separazione androginica, ma ha per giunta squalificato il genere umano una seconda volta (Gn 3,16-19). Alla luce di questa ottica ermeneutica si comprende Gn 5,1-3, un brano che non è ulteriormente ripe-titivo rispetto a 1,26-27 e a 2,7-25, e che non fa una strana inversione nell’uso dei termini quando usa tselem per il complemento di paragone e dmuwth per il com-plemento strumentale invertendo la logica espositiva di 1,26.

Quando il passo in esame asserisce che Dio «produsse lui [l’adam] per mezzo della similitudine di Elohiym (bi-dmut Elohiym asah oto)… maschio e femmina (zakar u-neqebah) li produsse» e che «Adam causava una nascita (-yyoled, hiphil imperfetto 3a persona maschile singolare) grazie alla similarità di lui [di Adam] (bi-dmut-o: Eva), a somiglianza della sua [di Adam] immagine (ke-tsalm-o: la tselem androgina)» lega l’espressione «zakar u-neqebah» in senso predicativo binario (chi maschio e chi femmina) agli esseri umani sessualmente differenziati, non più all’androgino come reso evidente laddove si parla di similitudine e non di immagine/statua: «la si-milarità di Elohiym» è il risultato della separazione androginica (le due nuove cre-ature fatte nella costituzione del genere umano definitivo). «Per mezzo della so-

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miglianza» è complemento correlato al concetto di una produzione seguita alla scissione dell’androgino: creazione dell’uomo e della donna (5,1-2), e nascita di un figlio di Adamo ed Eva (5,3).

Gli esseri umani provenuti dalla divisione dell’androgino poiché hanno perduto la completezza iniziale sono imperfetti. Questo è il senso di Gn 2,25: A-damo ed Eva, nudi («arummiym»), non erano ancora consapevoli di tale status, la cui conoscenza si appaleserà in Gn 3,1-7. Da detto momento mostrare la nudità e-quivarrà a rendere visibile l’imperfezione (che è motivo di vergogna), perciò nell’episodio di Gn 9,20-28 Cam meriterà la maledizione di Noè (visto ubriaco nu-do). Nudo (eyrom, erom al singolare) indica in ebraico una situazione di privazione e bisogno. Il verbo corrispondente a questo aggettivo, cioè proveniente dalla stessa radice, ha tra le sue sfumature di significato quelle di distruggere, danneggiare, lede-re, oltraggiare, ferire e di versare fuori.

L’argomento dello sposalizio nella concezione socioreligiosa ebraica è fon-damentale: il matrimonio e l’unione sessuale (con la procreazione) sono la via a-datta a recuperare la dimensione di perfezione dell’androgino (una formula per benedire gli sposi durante il rito definisce Dio artefice dell’adam, terminologia che non ha luogo quando viene al mondo un neonato imperfetto). L’esercizio della ses-sualità nell’ebraismo antico aveva un concreto obiettivo procreativo a scopi de-mografici tendenti a rafforzare l’esercito e la difesa della nazione, pertanto tutto quello che era deviazione da questo funzionale comportamento era respinto e ri-provato. La questione della restaurazione androginica si è protratta sino ai Vange-li. In Matteo 22,23-30 l’ultimo versetto ribadisce che dopo la resurrezione non ci sarà più bisogno di sposarsi perché gli esseri umani, prima uomini e donne nella sostanza separati, avranno recuperato la completezza dell’androgino, paragonabi-le alla perfezione angelica.

L’apocrifo “Vangelo copto di Tomaso” si segnala oltre a questo motivo per il carattere misogino. Al brano 22 viene prima detto che «Gesù vide dei bimbi che succhiavano il latte. Disse ai suoi discepoli: “Questi bambini che prendono il latte assomigliano a coloro che entreranno nel Regno”. Gli domandarono: “Se noi sa-remo bambini, entreremo nel Regno?”. Gesù rispose loro: “Allorché di due farete uno, allorché farete la parte interna come l’esterna, la parte esterna come l’interna e la parte superiore come l’inferiore, allorché del maschio e della femmina farete un unico essere sicché non vi sia più né maschio né femmina, allorché farete occhi in luogo di un occhio, una mano in luogo di una mano, un piede in luogo di un piede e un’immagine in luogo di un’immagine, allora entrerete nel Regno”».

Poi all’ultimo (il 114): «Simon Pietro disse loro: “Maria deve andar via da noi! Perché le femmine non sono degne della vita”. Gesù disse: “Ecco, io la guide-rò in modo da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito vivo uguale a voi maschi. Poiché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel Regno dei cieli”». Ri-

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guardo alle venature misogine del giudaismo va ricordato che una preghiera ela-borata per i credenti di sesso maschile rivolge un pensiero di sentita riconoscenza a Dio per il fatto di non essere nati donne. Le trattazioni dell’androgino nella “Ge-nesi” e nel “Simposio” hanno una mira in comune: quella di prospettare il tema di un’originaria unità fondante dei generi, unità ipotizzata a posteriori per spiegare la normalità attuale e la cui bontà andrebbe riprodotta. La tradizione cristiana medie-vale di antifemminismo, che trasse spunti dalla misoginia ebraica, raggiunse uno degli estremi negativi della storia umana con la caccia alle streghe. La cultura greca antica, pervasa da forti tratti discriminatori verso le donne, espresse invece la figu-ra della sacerdotessa, recuperata poi da correnti protestanti.

2. IL WERTHER GOETHIANO

dolori del giovane Werther” è tra le opere più famose di sempre, un capo-lavoro del protoromanticismo tedesco che in seguito ispirò la creazione del foscoliano Ortis, dilatando in maniera universale la tipologia del personag-

gio: Werther da solo sarebbe bastato, però concretamente da Foscolo è stata dimo-strata questa sua universalità.

Si tratta di un romanzo epistolare (modello ricalcato ne “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”) in cui il protagonista attraversa l’esperienza non positiva e non for-tunata del suo innamoramento verso Carlotta (una ragazza ormai destinata a un altro). Come già sottolineato dalla critica, il testo contiene motivi autobiografici di Goethe, che non saranno qui da me menzionati.

Due sono i fili conduttori: aspetti di archeologia letteraria goethiana, cioè tracce fossili di letture (altri autori passati rievocati per mezzo di loro immagini), e un’analisi psicologica del tipo wertheriano.

Tuttavia la prima cosa che sollecitò la mia attenzione quando lessi il libro aveva la caratteristica di un simpatico ante litteram: all’inizio della lettera datata 6 luglio 1771 Werther dice di Carlotta che «in ogni luogo mitiga la sofferenza e porta gioia». Questo passaggio rievocò alla mia mente la figura storica di Eva Peron, non solo per la qualità dell’affermazione, ma anche perché quelle parole riecheg-giano alcune di Evita durante il Cabildo abierto del justicialismo di Buenos Aires il 22

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agosto 1951 allorché ella attaccò ancora una volta la borghesia argentina non pro-gressista: «A ellos les duele que Eva Perón se haya dedicado al pueblo argentino; a ellos les duele que Eva Perón, en lugar de dedicarse a fiestas oligárquicas, haya dedicado las horas, las noches y los días a mitigar dolores y restañar heridas». Echi saffici compaiono nell’epistola del 13 luglio. Chi ha letto i frammenti della decima musa non può non riscoprire i versi del frammento 31 (edizione Voigt, 1971) – a sua volta ripresi da Catullo per il carme 51 – in questi brani: «Un brivido mi corre nelle vene, quando per caso le mie mani sfiorano le sue, quando sotto tavola i no-stri piedi si toccano. Mi ritraggo come dal fuoco, mentre una spinta segreta mi spinge di nuovo avanti; ed una vertigine prende tutti i miei sensi… Ella mi è sacra. Ogni volontà dinnanzi a lei si tace. Non posso riferirti quello che accade in me quando mi è vicina: mi sembra che tutta l’anima si riversi nei miei nervi… Il pro-fondo turbamento dell’anima mia si disperde, e respiro di nuovo più liberamen-te». Nella lettera successiva del 13 luglio la radice del brano d’apertura è platonica e richiama la figurazione del mito della caverna in senso opposto: «O Guglielmo, la nostra anima che cosa diverrebbe senza l’amore? Simile ad una lanterna magica senza la luce. Appena si mette la piccola lampada, ecco le immagini più varie ap-paiono sulla parete bianca. E nonostante siano fantasmi fuggenti, essi rendono ugualmente felici, quando sostiamo davanti ad esse, simili ad innocenti fanciulli, estasiati dalle meravigliose apparizioni».

La rappresentazione di un motivo catulliano (dal carme 8, risalta il v. 2: «quod vides perisse, perditum ducas») si presenta, con la voglia di ribaltarlo, il 30 luglio: «Mi adiro e irrido alla mia miseria, ma irriderei di più chi mi dicesse che è necessario rassegnarsi perché le cose non possono ormai avere uno svolgimento diverso». E il contrasto al carme 8 continua ancora il 30 agosto: «Infelice! Non sei un pazzo? Non inganni te stesso? Che significa questa furente e sconfinata passio-ne? Non ho più preghiere se non per lei: alla mia immaginazione non si presenta altra visione che la sua, ogni manifestazione del mondo non la considero se non in rapporto con lei. Mi procuro così molte ore felici, finché non devo strapparmi da questa visione. Ah, Guglielmo, dove mi sospingerà il mio cuore? Quando siedo con lei due o tre ore; e mi sono riempito del suo aspetto, dei suoi movimenti, delle sue celesti parole, pian piano i miei sensi si esaltano, gli occhi mi si velano, ascolto con sforzo, mi sembra d’essere stretto alla gola da una mano omicida, e il mio cuo-re, con i suoi tonfi affrettati, cercando sollievo ai miei sensi oppressi, non fa che aumentare il loro scatenarsi».

Gli effetti sono paragonabili a quelli provocati da Lesbia. L’epistola del 12 settembre 1772 combina due ordini di immagini: agli ammiratori di Catullo non sfuggono gli echi del carme 2 congiunti a quelli di “The flea” di Donne: fusi as-sieme fanno del canarino un passero di Lesbia elevato a canale di collegamento co-me la pulce di Donne: «Carlotta è mancata qualche giorno per essere andata a

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prendere Alberto. Oggi sono entrato nella sua stanza; ella mi si è fatta incontro ed io con gran gioia le ho sfiorato la mano con un bacio. Un canarino ha preso il volo dallo specchio alla mia spalla. facendoselo venire sulla mano ha detto. “Ecco un nuovo amico; è per i miei piccoli. Ammiri come è grazioso. Se gli offro del pane, muove l’ala e becca dolcemente; guardi, mi bacia, anche!”. Quando il piccolo ani-male fu vicino alla sua bocca, e le premette con tanto amore le dolci labbra, come se avesse potuto valutare la beatitudine di cui godeva: “Deve dare un bacio anche a lei”, diss’ella offrendomi l’animaletto; il piccolo becco andò dalle sue labbra alle mie, e le beccate erano simili ad un alito, ad una promessa di voluttà amorosa. Dissi allora: “Il suo bacio è interessato; cerca il cibo, rimanendo insoddisfatto dopo una vana carezza”. “Prende anche il cibo dalle labbra”, aggiunse Carlotta. Gli por-se allora qualche mollica di pane con la bocca, sulla quale traspariva la felicità di un puro amore. Io volsi lo sguardo altrove; ella non doveva far così; non avrebbe dovuto eccitare la mia fantasia con queste visioni di purezza e di felicità; non a-vrebbe dovuto scuotere l’animo mio dal torpore in cui spesso lo adagia la superfi-cialità del vivere! E perché no? Ella sa con quale intensità l’ami, ed ha quindi fidu-cia in me».

Quest’indagine sulla serie dei fossili – naturalmente non esaustiva – termi-na alle ultime pagine del romanzo, laddove Werther e Carlotta rispecchiano Paolo e Francesca del V canto dell’Inferno dantesco: il loro svago di lettura ricalca la di-namica di Dante culminando con Werther che «baciò appassionatamente la sua [di Carlotta] bocca tremante» (vedasi il v. 136 del V dell’Inferno).

Tutti questi rinvenimenti di archeologia letteraria ci fanno vedere abbozza-to lo spettro creativo goethiano, che attinge dai suoi predecessori allo scopo di fare produzione originale nella sua nuova sintesi, la quale non è dunque plagio artisti-co (tutt’altra cosa, pertinente all’incapacità intellettuale di costruire un edificio di concetti, che incastri pure delle idee altrui, comunque avente un autonomo proget-to – più o meno originale – nel pensiero del suo autore).

Il secondo tratto d’analisi delle considerazioni iniziate si rivolge al profilo interiore di Werther, scandagliato secondo uno stile psicoanalitico, conseguenza di cui non è la bocciatura di Goethe o della sua creazione letteraria, bensì proprio di Werther stesso preso come individuo. Poiché il suo agire, in apparenza contenuto sino al finale della storia, è del tutto animato dal disordine del suo animo per nien-te riflessivo o razionale. Oserei definirlo stupido se non fosse per il fatto che fini-sca in tragedia. Werther non è una persona nel pieno possesso dell’equilibrio men-tale, si fa intrappolare da un disturbo ossessivo che ha per oggetto Carlotta, e non potendo ottenere l’appagamento non trova via migliore che l’autodistruzione. Il mondo è pieno di donne e lui ne eleva una impegnata a materia di nevrosi, lan-ciando la nefasta moda romantica del suicidio amoroso. Non che egli celi le sue velleità e i suoi ideali, il 20 luglio 1771 dice: «Tutto il mondo si dissolve nel nulla,

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ed un uomo, che per volontà altrui, ma senza un intimo interesse o un sogno ricer-chi affannosamente denaro, onori od altro, sarà sempre un pazzo». E il 26 succes-sivo – sembrando perfino un po’ ridicolo – aggiunge: «Mia cara Carlotta, ben vo-lentieri mi occuperò di ogni vostra cosa e dei vostri desideri. Datemi un sempre maggior numero di commissioni. Vi chiedo una sola cosa: non mettete più sabbia nelle lettere che mi scrivete. Quella di oggi, dopo averla avvicinata alle labbra rapidamente, ha fatto in modo che i miei denti scricchiolassero».

L’8 gennaio 1772 ha un lampo di pragmatismo machiavellico nella com-prensione del mondo: «Quanti re si lasciano governare dai loro ministri, e quanti ministri dai segretari! E allora chi è il primo? Mi pare chi sa comprendere gli altri, chi ha abbastanza forza o astuzia da aggiogare le loro passioni alle realizzazioni dei suoi propri scopi». Ciò nonostante resta lontano da una qualsiasi matura ri-flessione sulle cose e sul senso della vita, cosa che sarà causa della sua definitiva involuzione, come da lui stesso affermato (16 giugno 1772): «Io sono solo un pel-legrino sulla terra; voi siete di meglio?».

Quando l’uomo pone il suo attuale baricentro fuori della sua realtà prossi-ma ha fallito la sua ragion d’essere: egli è quello che è, in base al suo statuto onto-logico, nel suo qui e nel suo ora (hic et nunc). La fuga dal mondo è indice di una scorretta posizione delle questioni: i problemi dell’esistenza e di questa dimensio-ne quotidiana non sono di natura metafisica. La loro soluzione va ricercata qua, non dopo, non oltre. E con un solo linguaggio, quello che Dio ha dato all’uomo della ragione: unico, universale, al cui tavolo tutti possono sedere.

Werther si perde sciogliendosi nell’infinito, con un atteggiamento egoistico, come se identificasse sé e i suoi desideri con la dialettica dell’Assoluto da soddi-sfare necessariamente. Trascura l’altruismo e l’interesse verso una società più giu-sta, nel momento in cui la Rivoluzione francese si avvicinava e il Romanticismo – che lui incarnava in embrione – avrebbe risvegliato le ambizioni di indipendenza nazionale e di libertà (che Jacopo Ortis dal canto suo non mise da parte).

Alter ego wertheriano al femminile è Madame Bovary. Nella diversità di contesto in cui si svolgono le loro vicende, il DNA concettuale è lo stesso: lo scol-legamento dalla realtà. Lei, come Wether, vive immersa in un personale universo fantastico costellato di illusorie proiezioni narcisistiche che crollano a causa dell’urto con la dialettica mondana. Wether è il primo titano romantico che inau-gura una serie, Emma rappresenta l’ultima donna del Romanticismo che ha preso coscienza dell’enorme difficoltà di tradurre in atto i vagheggiamenti già prima della fine: il suicidio del personaggio goethiano è una decisione impulsiva e inevi-tabile nella chiusura della sua parabola; Emma, invece, si trascina con evidente di-sagio verso l’ineluttabile sorte che l’accomuna a Jacopo e a Wether. Da Goethe e Flaubert si sviluppa un tipo psicologico che negli estremi (Wether-Emma) circo-scrive la storia di aspetti del pensiero romantico dalla sua nascita al tramonto.

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3. ATTUALITÀ DI EZRA POUND

eurocentrismo, che dalla scoperta dell’America impresse la sua indelebile impronta sullo sviluppo del pianeta, è crollato dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale. L’Europa ha ceduto il passo a forme di bipolarismo

“Occidente / resto del globo”, che l’hanno posta in subordine al cospetto degli USA e della Russia (ex URSS). Il tentativo di recuperare al vecchio continente il suo ruolo di guida mondiale ha spinto le principali nazioni europee ad associarsi in gruppi comunitari sempre più evoluti e compatti con il fine di cementare una piat-taforma di forza. L’Unione europea si avvia verso la struttura istituzionale di una federazione politica con la creazione degli Stati Uniti d’Europa, i quali pare si vo-gliano modellare sullo stampo sociale capitalistico americano.

Al momento attuale l’assetto testimonia che la procedura adottata abbia prediletto, attraverso l’unione monetaria, posta sotto il governo di una banca cen-trale, una via socioeconomica. La BCE è un governo delle produzioni, dei consu-mi, in pratica dei regimi di vita, poiché il controllo sull’euro dà facoltà di alimen-tare o meno detti circuiti. Il clima di darwinismo sociale creatosi, in cui sembra operarsi una scrematura generale a scapito di tutte le categorie umane che non sa-pranno adeguarsi (quasi fossero Eloi davanti a Morlock) offre lo spunto di richia-mare il pensiero economico di Ezra Pound (1885-1972). Vissuto lungamente in Ita-lia, fu ammiratore del fascismo, di cui vide i metodi di affrontare la precedente grande crisi degli anni ’30. Da scrittore non si dedicò solo alla letteratura: espose le sue riflessioni nel campo dell’economia meritevoli di un’obiettiva attenzione e di un critico esame, non ideologici, ma di schietto carattere storiografico, il quale non coinvolge altri temi degli accadimenti italiani di quegli anni (che in taluni casi – come l’antisemitismo, la vicinanza al nazismo, e le loro nefaste conseguenze – si accompagnano a inequivocabili giudizi di nette disapprovazione e condanna). L’accento poundiano su peculiari aspetti del rapporto uomo-lavoro si rivela molto interessante.

Tutto ciò che gli uomini producono in termini di servizi o di cose può esse-re comprato. Questo prodotto lordo scaturisce come frutto dell’attività lavorativa. Il circuito – in senso lato – commerciale è tenuto in piedi da questa, se la produ-zione cessasse anche gli scambi in moneta prima o poi finirebbero: riducendosi a zero la produttività tutta la valuta in giro perderebbe il suo potere d’acquisto. Per-tanto è evidente che ad avvalorare il denaro come mezzo di scambio è il lavoro svolto. Il valore di una merce è quello dell’opera necessaria a produrla (quantità e qualità del lavoro), senza cui neanche esisterebbe. I soldi in circolo sono espres-

L’

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sione della produzione e Pound raccomanda che «il certificato del lavoro compiu-to deve equivalere a tale lavoro».

I titoli relativi al prodotto si traducono in titoli generali (denaro), però «la finanza dei finanzieri consiste in gran parte nel far giocare abilmente titoli generali contro titoli specifici»: un’emissione di biglietti senza concreta copertura può far svalutare il titolo relativo alla produzione, e di conseguenza il lavoro effettuato. Riguardo al rapporto nevralgico tra l’emissione della moneta e la sovranità dello Stato il monito poundiano è chiaro: «Quella nazione che abbandona lo strumento per misurare gli scambi alla mercé di forze estrinseche alla nazione, è una nazione in pericolo; è una nazione priva di sovranità nazionale. […] Nessun altro reparto o funzione dello Stato andrebbe sorvegliato con cura più gelosa che non questo, e in questo più che non in qualsiasi altro reparto dell’amministrazione statale occorro-no alti requisiti di moralità». Lo scopo di un apparato produttivo non deve essere quello di creare ricchezza monetaria, Pound ricorda che «quando si tratta di pro-porre un sistema economico, si deve innanzitutto domandare a quale scopo deve servire. E la risposta è che deve servire ad assicurare a tutti il cibo (sano), l’alloggio (decente), e l’abbigliamento (secondo le esigenze del clima)».

La vocazione del capitalismo, secondo l’analisi weberiana che ne vede nell’attivismo protestante la radice, è quella di concentrare con criterio progressi-vo soldi, più di ogni altra cosa da non investire: gli esseri umani predestinati da Dio cercherebbero nel successo socioeconomico un segno dell’elezione divina alla salvezza eterna, e dei frutti possibili delle attività l’etica del protestantesimo im-pedirebbe di fare spreco (proiettandoli in direzione di una sedimentazione indefi-nita, l’accumulo di capitale tanto criticato da Marx).

La teoria marxiana del plusvalore ha spiegato come fosse sufficiente agli imprenditori garantire solo l’essenziale alla vita della classe lavoratrice: buona fet-ta della differenza ricavata dai costi di vendita dei prodotti arricchiva il capitalista sottovalutando ad arte l’esclusivo potere del lavoro umano di avvalorare il dena-ro, mentre sarebbero state più giuste ed eque la garanzia del diritto al lavoro nei confronti di tutti e la partecipazione di ogni soggetto coinvolto attivamente nell’impresa ai suoi utili (un’idea poundiana contempla dividendi pubblici ai cit-tadini a beneficio dell’intero insieme nazionale).

Le basi di un’economia funzionale al benessere (welfare) collettivo sono co-sì sollecitate da Pound: «Chiunque sia abbastanza corretto da voler lavorare per la propria sussistenza e quella di chi dipende da lui […] dovrebbe avere la possibilità di fare una quantità ragionevole di lavoro. […] Il PRIMO PASSO consiste nel man-tenere la giornata lavorativa abbastanza corta da impedire che un singolo faccia il lavoro pagato di due o tre persone. Il SECONDO PASSO consiste nella fornitura di certificati onesti del lavoro fatto [moneta-lavoro, n.d.r.]». Tuttavia sulla distri-buzione di carichi lavorativi puntualizza: «È ABBASTANZA CURIOSO che, no-

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nostante tutte le lagnanze di coloro che erano soliti lamentarsi di essere oppressi e oberati di lavoro, l’ultima cosa che gli esseri umani sembrano voler spartire sia il LAVORO. L’ultima cosa che gli sfruttatori sono disposti a lasciare che i loro di-pendenti condividano è il lavoro.». Se la valuta a disposizione della gente dimi-nuisce perché si deposita e si accumula nelle banche a causa delle loro speculazio-ni, il ciclo produttivo ne risentirà contraendosi (diminuzione del PIL). Pound dice che bisogna «trovare un sistema che consenta di tenere in circolazione il mezzo di scambio in modo che la domanda del singolo, o ad ogni modo ciò di cui ha biso-gno, non sia superiore all’ammontare del mezzo di scambio in suo possesso, o a lui immediatamente accessibile», e «considerando il denaro come un certificato di lavoro compiuto, il modo più semplice per continuare a distribuirlo (in biglietti di credito a corso legale) consiste nel continuare a distribuire lavoro». Nella ricerca di soluzioni afferma che «la scienza dell’economia non andrà molto lontano se non garantirà la presenza della volontà tra le sue componenti: cioè volontà d’ordine, volontà di “giustizia” o equità, desiderio di civiltà inclusi gli scambi di cortesie».

Negli anni ’30 la politica economica del fascismo incoraggiava le assunzioni di nuove persone in luogo dello svolgimento di lavoro straordinario, la riduzione dell’orario lavorativo al posto di licenziamenti e l’abbassamento dell’età per la pensione (soprattutto nei casi delle mansioni più pesanti).

In questo scenario una parte fondamentale ebbe la Banca d’Italia, la quale grazie a sane strategie d’intervento sulla realtà finanziaria e imprenditoriale, con-corse al salvataggio dell’economia italiana. Questa attitudine interventista – non nuova – si sposò con le direttive del regime patrocinante la presenza della mano pubblica nel comparto produttivo privato, al fine di evitare che questo affondasse tra i problemi. Il programma fascista comportò a gradi un sempre migliore con-trollo del mondo bancario (posto sotto la vigilanza della Banca d’Italia, divenuta nel 1926 unico istituto di emissione della lira, i poteri operativi della quale al ser-vizio dello Stato si accrebbero nel 1936) e la creazione, dopo l’IMI, dell’IRI (un braccio d’azione erogatore di finanziamenti e gestore di partecipazioni).

L’Istituto mobiliare italiano, negli anni ’90 prima privatizzato e poi accorpato, e l’Istituto per la ricostruzione industriale, in maniera similare assorbito e scomparso nel 2002, entrambi a vantaggio di privati, sono due tipologie strumentali oggi ve-nute a mancare. Enti del genere ben gestiti darebbero all’Italia quell’aiuto di cui necessita. La sottrazione della sovranità monetaria sembra pure aver complicato la situazione dato che se i soldi pubblici si sprecano nell’effimero senza concreti ri-torni di servizi e cose il circolo valutario si guasterebbe: una quantità minorata di vero lavoro coprirebbe il valore del denaro investito, il quale rischierebbe d’altro canto di venire eroso e paralizzato nelle banche. L’accumulazione bancaria miran-te all’investimento sui titoli del debito sovrano, può ingenerare in Europa un effet-to coperta corta: chi attrae in eccesso euro da una parte toglierebbe dall’altra, dan-

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neggiando così un normale ciclo economico. In questa ipotesi avere una seria pro-duzione, creatrice di ricchezza, potrebbe equivalere, a causa del suo effetto di cre-scita, a gestire un proprio (e quindi non comunitario) centro di gravità monetario che indebolirebbe gli altri Stati se la BCE e le banche non perseguissero una con-dotta analoga a quella della Banca d’Italia all’epoca del fascismo (la quale si ado-però a favore di un interesse generalizzato). Non sprecare le risorse pubbliche, non ingrandire il debito statale, non rimanere prigionieri di norme comunitarie, non prestare il fianco a particolari convenienze sono prassi di sopravvivenza vali-de a vantaggio di tutti i governi europei a disagio, in attesa che l’Unione assuma un’egida politica federale esplicita. Nel frattempo ancora le parole di Pound tor-nano a suggerire: «1. Quando c’è quanto basta, si dovrebbero trovare i mezzi per distribuirlo a chi ne ha bisogno.

2. È compito della nazione provvedere a che i suoi cittadini abbiano la loroparte, prima di preoccuparsi del resto del mondo. (Altrimenti che senso avrebbe essere “uniti” od organizzati in uno Stato? Che cosa significa “cittadino”?)

3. Quando la produzione potenziale (la produzione possibile) di qualsiasicosa è sufficiente per soddisfare la necessità di tutti, è compito del governo prov-vedere a che sia la produzione, sia la distribuzione, vengano portate a termine». L’auspicio poundiano finale è questo: «Nel momento in cui il denaro viene conce-pito come il certificato del lavoro compiuto, le tasse risultano un’anomalia, in quanto sarebbe semplicissimo emettere certificati di lavoro compiuto per lo Stato, senza affaticarsi inutilmente per recuperare certificati già in circolazione. Ciò non significa che lo Stato debba acquistare proprio tutto quel che gli salta in mente. Ci sarebbe una corsa di “cercatori d’oro” nel momento in cui questo concetto diven-tasse operativo, ma dovrebbe esserci anche un accresciuto senso della proporzione nei valori PER lo Stato. Non si risparmierà più sulla sanità».

Nell’UE è impossibile alle singole banche centrali nazionali stampare bi-glietti, ma è possibile in un Paese rilanciato adoperarsi verso l’obiettivo di lasciare più soldi ai cittadini e alle imprese (ad esempio diminuendo l’IVA). Se l’Italia, co-stretta allo scopo di evitare il peggio, uscisse fuori dell’euro e reintroducesse la li-ra, con la sovranità monetaria, la valuta iniziale da una lira partirebbe da una si-tuazione di uguaglianza teorica con la moneta dell’Unione (1 L = 1 €).

Tenendo conto di una scontata successiva svalutazione della lira negli scambi anche di 1/3 del suo valore di partenza, questa si attesterebbe – secondo giudizi esperti – su un piano di parità col dollaro (1 L = 1 $): la capacità dell’economia in Italia pare essere tale di tener testa alle possibili difficoltà e la svalutazione competitiva agevolerebbe le esportazioni. Il futuro migliore dei po-poli in Europa resta comunque la pacifica e solidale unità politica, costruita se-condo giustizia sociale sulla libertà degli individui, esempio di civiltà e di pro-gresso a sostegno della vita umana sulla Terra.

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4. “ARCARATA RUSTICANA”: COMMENTO CRITICO

incenzo Vento Vicari, autore dell’opera, con abile tecnica di narrazione ac-compagna il fruitore nello sviluppo delle vicende in prima persona, con un ruolo che non è semplicemente quello del cantastorie. La sua presenza nel

racconto ricorda il Manzoni dei “Promessi sposi”. E l’intera sua creazione, sotto-posta ad analisi, mostra molti aspetti e personaggi che hanno un’ascendenza pre-valente nelle letterature europee dell’Ottocento. Ma non solo: l’uso di un partico-lare dialetto – quello lercarese – è stato adeguato alla poesia, in un sinolo forma poetica – materia descritta di elevato tenore lirico per il suo equilibrio rappresen-tativo. “Arcarata rusticana” è linguisticamente una sorta di “Divina Commedia” per quel lessico di cui si serve.

Non bisogna trascurare questo aspetto linguistico per concentrarsi esclusi-vamente su quelli relativi al contenuto: la forma espressiva scelta è la rappresenta-zione di un universo reale elevato a letteratura attraverso la poesia. Ascriverei questo piacevole e monumentale lavoro sotto una categoria di realismo poetico. Come il Manzoni, il Vento Vicari dà cittadinanza nella produzione letteraria agli umili, ribaltando a sua volta un topos che era già stato dell’ “Ivanhoe” di Walter Scott: non più cavalieri o nobildonne, ma gente di popolo, gente con le proprie storie, le proprie vicissitudini, gente che parla in lercarese – dipinta da un esperto cantastorie – , che prorompe in un quadro dalla enorme carica espressiva.

Tutto ciò che si sviluppa da questa “fujtina”, ambientata nello scenario del-la Lercara degli anni ’50, tra la quasi diciottenne Carmela e il ventiquattrenne Ca-liddu, è l’esito inconfondibile di una felicissima creatività. Come non pensare ad Alěsa Karamazov quando si legge nel cap. 2 del fratello di Carmela – convinto del fatto che si possa ragionevolmente rimediare all’accaduto – che tenta di riportare alla ragione il padre furibondo. O all’arroganza e alla presunzione di don Rodrigo che rivivono nella figura di don Tano duca De Lamberti – nel cap. 6 e nei successi-vi – presso cui Carmela lavora come cameriera ricevendo attenzioni non ricambia-te. Purtroppo la situazione familiare di Carmela e Caliddu dopo anni dal matri-monio di riparazione è degenerata poiché lui si è trasformato in uno scansafatiche bevitore.

E lei per cercare di salvare economicamente e moralmente la famiglia (con tre figli e uno in arrivo) svolge la mansione di cameriera, e tiene lontano, d’altro canto, il ritorno di fiamma del suo primo fidanzato Mariano Colasanti, un brac-ciante. Dal sapore stilnovistico una quartina del canto 5, in cui Mariano esprime la

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sua devozione e le sue speranze a Carmela (sembra il Dante della “Vita nova” che parla di Beatrice):

... Sarà ca spirimentu ‘a fantasia: ‘na bedda vista sí quannu accumpari. Û raggiu, ca radia ‘ntensa luci, diventa scuru quannu v’a stracoddi. E Mariano nuovamente manifesta a Carmela nel cap. 9 apertamente i suoi

sentimenti; ma lei per amore e decoro della famiglia e personale lo respinge: Facemmu casta ‘a brama sensuali; platonichi i suspiri e i taliati. Tinemmulu cchiú nobili e virtuali ’stu tristu nostru amuri clandistinu. La tempra e la robustezza morale di Carmela sono quelle di una Lucia

Mondella: prima davanti a don Tano come al cospetto dell’Innominato, con ferma fede nei valori. Adesso in questo abboccamento di elevato lirismo compare il pa-thos di un incontro tra Lancillotto e Ginevra. A questa poeticità si aggiunge un di-retto commento dell’autore che li segue da presso:

Si vonnu e sannu c’o nsi ponnu haviri... e ccomu ca è gravusa la rinuncia. P’u nn’allurdari i megliu sintimenti si sannu ‘nserragliari u disideriu. In precedenza lo scrittore si era levato, dalla fine del cap. 6 al cap. 8, a di-

sapprovare la condotta di coloro che impensierivano Carmela: don Tano, che ci prova spudoratamente, e che l’autore con irruenza e caparbietà vendicativa degna di un conte di Montecristo vorrebbe ammazzare con un trattamento speciale (cap. 7); e Caliddu, di cui descrive gli svaghi perditempo che gran danno arrecano a lei e ai figli (cap. 8). A chi non verrebbe un moto di stizza di fronte alle cose storte, moto però temperato nel nostro caso da quel sublime elogio dell’amore contenuto nel canto 6:

La cosa c’o ns’accatta e c’o nsi vinni, diletta cu si scopri ‘nnamuratu, la godi c’u nci joca a spiculari, si duna a ccu c’è a ccori haviri beni.

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[…] La cosa c’o nn’è serva né patruna, si parti distinata a la só sorti... senza ‘ntrallazu o atru sintimentu, si junci a cu a la pari si la scancia. La parte centrale dell’opera (dal cap. 11 al 19) è occupata da eventi che si

sviluppano nel giro di pochissime ore. È il 20 agosto, giorno della processione nel-la festività a Lercara della Madonna di Costantinopoli: Mariano apprende quasi casualmente da un compaesano che Carmela quasi un’ora prima ha subito un ten-tativo di violenza sessuale da parte di don Tano, evitato per l’intervento della gen-te richiamata dalle voci. In preda alla rabbia, e con l’impulsività di uno Renzo Tramaglino, corre da Carmela. Lo spettacolo che gli si palesa è quello di una mol-titudine di malelingue sedicenti confortatrici: colorita questa rappresentazione culminante in un canto di biasimo, l’undicesimo.

Ma la scena sale di tono quando a casa di Carmela si recano il sindaco, il barone, don Peppino: le personalità più in auge del paese, espressione di un si-stema ancora feudale negli atteggiamenti e di una società in parte disagiata con sperequazioni sociali. Sono venuti in rappresentanza di don Tano a chiedere per quel suo tentato abuso un gesto di comprensione adeguatamente ricompensato. Significativo il modo di esprimersi (cap. 12):

‘Stu passu, comu segnu di fauri è ‘n’attu ca fa amicu di l’amici. Mariano schifato da quel tentativo di accomodatura portato avanti con ar-

roganza (rivive qui lo spirito del confronto fra il conte zio e il padre provinciale nei “Promessi sposi”) si congeda da tutti e da Carmela. Ritorna a casa meditando uno sproposito: uccidere don Tano nella sua villa recintata poco fuori paese. Lo sorprende di notte: quell’incontro è un’altalena di colpi di scena (dal cap. 14 al 19), con profonde introspezioni interiori sui due contendenti tratteggiate dall’autore. Don Tano sorprende Mariano con un delirio d’onnipotenza, ben affrescato nei canti 14, 15, 16, 17. In quest’ultimo canto emergono anche intonazioni veterote-stamentarie (il libro dell’ “Ecclesiaste”), che costituiscono metafora di una dialetti-ca contrapposizione con quell’epoca di attualità:

S’agghiorna e scura e tuttu havi assettu […] Í, sugnu Diu! E... nu nni circati di atri!

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Nu rriclamati vogli vanitusi, nu rrincurriti fasti e vanagloria. S’haviti fedi e a mmia cumpiaciti vi saziu e vi dissitu di criatu. Mariano più volte disorientato desiste alla fine definitivamente dal suo in-

tento assassino di vendetta e perdona cristianamente don Tano: ai quattro canti di escalation segue quello del perdono – il 18 – a spezzare un ritmo narrativo sino a quel frangente unilaterale. Il perdono chiude la parabola acquietandola. Lo scon-tro è stato vivace, con delle puntate psicologiche operate da don Tano all’indirizzo di Mariano cui attribuisce una aggressività dislocata.

Rifletti a quantu sprecu di bonsensu p’u ndubbiu sintimentu a l’ammucciuni: rugnusu comu i tinti sannu fari ti veni a scarricari û fallimentu... Gli preannuncia pure i titoli dei giornali se l’avesse ucciso. Gilusu, persu û lumi dä ragiuni, affrunta lu rivali e fa ‘na stragi. A stari ô si capisci dû muventi, parissi fu, p’ammiccu fora ô piattu. L’autore, che già si era rammaricato del fatto che Mariano abbandonasse il

suo proposito omicida, ha finemente intessuto una tela di diverse emozioni e sen-timenti, partendo dal tentativo riparatore in casa di Carmela (poi conclusosi), e passando da questo conflitto fra il Bene e il Male, che ampiamente ha occupato il cuore del poema. L’ingiustizia cede il passo alla superiorità dell’indulgenza e alla fede in una giustizia infallibile non delegata agli uomini.

La terza parte di “Arcarata rusticana” si apre con due perle: una ricchissima e vivissima descrizione della festa del 4 settembre a Lercara in onore di santa Ro-salia (cap. 20) seguita da un canto di ringraziamento alla santa; e l’autobiografico canto 22 che si conclude con il riferimento all’esperienza dell’emigrazione (una versione in italiano di questo canto è stata musicata dal Maestro Pietro Lo Forte da Mendoza).

Mariano infatti nella notte tra il 4 e il 5 settembre, reputando la sua condi-zione insostenibile e insopportabile, decide di dare un taglio al passato e di partire da Lercara – come un novello Ulisse – e si trasferisce a Milano (seguendo tra l’altro le orme dell’autore). I capitoli dal 21 al 24 sono dedicati ai temi dell’emigrazione e

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della solidarietà fra conterranei. Commovente è l’approccio di Mariano con un ventenne di Cammarata che sul treno diretto al Nord se ne stava in disparte molto rattristato a causa dell’allontanamento dal suo paese e dall’amata. Giunto, la pri-ma sensazione che coglie Mariano è quella di stupore – accompagnato a disorien-tamento – nell’affrontare l’immensità di Milano.

Ma l’amicizia con i compagni di stanza, nella pensione in cui alloggia, – il Messinese Niria Mezzabrocca e il cantante calabrese Totuzzu Malerbanu – gli offre punti di riferimento in questo nuovo mondo: questi due momenti sono trattati con realismo ed entusiasmo nel canto 23 (l’amicizia) e nel 24 (la scoperta di Milano per un meridionale e le aspettative personali in una realtà diversa rispetto a quella da cui si proviene).

Quel trio iniziale, poiché ognuno è andato appresso ai propri impegni, si è disgregato. Ottenuto un impiego come operaio e raggiunta una stabilità economi-ca trova un appartamento in cui garantire la sua privacy. Nonostante cerchi di oc-cupare tutto il tempo a sua disposizione non riesce a cancellare l’imprinting di Carmela. E spinto da un irrefrenabile bisogno di parlare con qualcuno e di infor-marsi sulle sorti del paese e della famiglia di Carmela, una notte telefona a caso a Lercara da una cabina pubblica. Raggiunge così ciò che voleva (le telefonate conti-nueranno, sempre di notte, come se fosse vittima di un disturbo ossessivo com-pulsivo).

Il tentativo di Mariano di alienarsi, che l’autore ci descrive con sottile anali-si della personalità, non riesce. Anzi si rovescia in un allontanamento dalla realtà quando si mette a scrivere immaginarie lettere da consorte rivolte a Carmela. L’introspezione psicologica di questo protagonista, condotta anche in precedenza, avvicina Vento Vicari a quegli stili di sondaggio interiore che furono del Decaden-tismo. Dopo alcuni anni di residenza a Milano una lettera inaspettata perviene a Mariano: è Carmela, che afflitta (con un eloquio lirico simile ad una Francesca da Rimini: il tono della rassegnazione, ma al contempo di un’alta dignità) si dispiace della lontananza dell’unico che le aveva recato conforto nelle avversità che perse-veravano ancora duramente. Tutto sommato però preferisce che sia lontano.

Il canto 26 è l’elegia di questo addio delicatamente rappresentato. ... Caru, caru Mariá, s’u nn’‘u perdu ‘stu curaggiu, ti nni libiru di mia. ‘A longa ti la scarricu ‘sta cruci. T’alleviu ‘sta spina e votu strata, Di mia nu nni senti cchiú parrari.

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Mariano rimane profondamente turbato da quella lettera e lì per lì non si rassegna a rinunziare all’idea di Carmela. Dopo averla letta ricerca ancora una volta impetuosamente la via dell’alienazione come ovidiano remedium amoris (canto 27).

... P’u nc’accurdari spaziu ô sintimentu, quannu ‘a malincunia ‘u suprastava... risutta a carricarisi di ‘mpegni p’haviri, a ricumpenza, ‘u sfinimentu. Un cerchio si è riallacciato dal cap. 26 nel contesto strutturale del poema al-

lo scopo di cementare un’unità narrativa che ci propone delle coppie dicotomiche interpretative: Lercara/Milano, Carmela/Mariano.

La storia si conclude con l’annunzio a Mariano, cinque anni dopo, della morte per strangolamento di don Tano nella sua abitazione (l’assassino è rimasto sconosciuto). Si amareggia di non averlo ucciso lui quella notte che lo ebbe di fron-te: ma una coppia dicotomica Mariano/don Tano non è che esistita occasional-mente. Come don Rodrigo don Tano muore per una mano diversa da quella dei protagonisti, in qualche modo una giustizia è fatta. E soprattutto è salvo il codice etico che ha animato il comportamento di Carmela e Mariano: non un moralismo di facciata, bensì una linea di comportamento che dà risvolti pedagogici all’opera.

Una ulteriore lettura del testo in chiave psicoanalitica fa emergere il ruolo fondamentale della freudiana libido. Ogni personaggio principale media tra il proprio ES e il SUPER EGO; gli EGO che vengono fuori da tale conflitto sono: don Tano, Caliddu, Carmela, Mariano. Alla fine dicotomia più profonda delle altre si rivela quella etica/libido.

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Indice

Introduzione pag. 1

1. Antropogonia e androginia nel Simposio e nella Genesi pag. 2

2. Il Werther goethiano pag. 7

3. Attualità di Ezra Pound pag. 11

4. “Arcarata Rusticana”: commento critico pag. 15

Bibliografia dei brani contenuti nel saggio volti da e di autore diverso

Platone, Simposio – Il dialogo dell’Eros, BIT 1995

Gesù / Il racconto dei vangeli apocrifi (Volume X de “I grandi libri della religione”), Mondadori

I dolori del giovane Werther, Newton 1993

A che serve il denaro, Edizioni San Giorgio, Napoli 1980

ABC dell’economia, Bollati Boringhieri, Torino 1994

Arcarata rusticana – ’A fujuta, Istituto Poligrafico Europeo 2009

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Palermo

settembre 2014