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24 Nel corso dei secoli, il dibattito sul tema del restauro ha intrapreso percorsi teorici piuttosto differenti. Restauro è una “strana” parola che nel tempo ha acquisito varie accezioni, spes- so in aperta contraddizione; alcuni degli aggettivi utilizzati per individuare linee di pensiero differenti sono stati: stilistico, ro- mantico, storico, filologico, scientifico, cri- tico 1 . La definizione attuale della parola re- stauro, che ritengo più attinente, è dedot- ta da Wikipedia: il restauro è un’attività legata alla manutenzione, al recupero, al ripristino ed alla conservazione delle ope- re d’arte, dei beni culturali, dei monumenti ed in generale dei manufatti storici, quali ad esempio un’architettura, un manoscrit- to, un dipinto, un oggetto, qualsiasi esso sia, al quale venga riconosciuto un partico- lare valore. Vorrei quindi ragionare su due concetti. Il primo è che con la parola “restau- ro” possiamo intendere tutte le operazio- ni necessarie alla trasmissione del bene al futuro, indipendentemente dalla natura e tipologia del bene stesso, prendendo in esame dal dipinto all’edificio, dalla stoffa alla cornice in pietra e così via. Il secondo è che risulta fondamentale il riconoscimento del valore di ciascuno og- getto in quanto propedeutico all’attività di restaurare e, di conseguenza, sarà impor- tante la struttura culturale della persona (società) che con esso si confronta, perchè sarà proprio quella persona, in quel preci- so momento storico, che determinerà det- to valore. La manutenzione, il recupero, il ripri- stino, la conservazione, insite nella defi- nizione di restauro, devono garantire la trasmissione del bene al futuro, comprese tutte le informazioni che vi sono contenu- te. Nel caso di un edificio (tipologia di bene per me più interessante), tali informazio- ni possono essere di tipo formale, attinen- ti al suo sistema costruttivo e, soprattutto, alle caratteristiche legate al suo utilizzo. La conseguente e necessaria rifunziona- lizzazione presuppone una possibile tra- sformazione dell’edificio, poiché oltre all’eventuale consolidamento e ricostru- zione della sua struttura fisica e formale, si innescherà automaticamente un processo attinente al suo adeguamento, mediante l’inserimento di nuovi impianti, di nuo- vi arredi o di nuovi infissi. E il manufatto, inevitabilmente, si trasformerà. Qual è allora il limite oltre il quale il re- stauro diventa trasformazione? E la trasformazione è di per sé restau- ro? Forse occorre superare la cultura che vede restauro e architettura schierati su fronti antitetici: da un lato il restauro de- stinato al “vecchio” ed al rispetto rigoroso dell’integrità dell’opera e dall’altro l’archi- tettura delegata al “nuovo” . Confrontarsi con l’esistente e con il suo valore culturale, semantico e materico, considerare il contesto, l’ambiente, il ter- ritorio nel quale si inserisce l’intervento, preservarne tutte le caratteristiche pecu- liari valorizzandole ed inserendone di nuo- ve che assolvano alle esigenze attuali, in poche parole “trasformare”, non è forse un progetto di architettura? Non è forse un progetto di restauro? Ed arriviamo al secondo concetto che volevamo affrontare, quello del ricono- scimento del valore di ciascuno ogget- to, propedeutico all’attività di restaurare. Abbiamo già assodato che fra gli oggetti “meritevoli” di restauro vi rientrano tutti i CONSERVAZIONE, TRASFORMAZIONE, CONTEMPORANEITÀ ROBERTO PASQUALETTI 1 2

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Nel corso dei secoli, il dibattito sul tema del restauro ha intrapreso percorsi teorici piuttosto differenti.

Restauro è una “strana” parola che nel tempo ha acquisito varie accezioni, spes-so in aperta contraddizione; alcuni degli aggettivi utilizzati per individuare linee di pensiero differenti sono stati: stilistico, ro-mantico, storico, filologico, scientifico, cri-tico 1.

La definizione attuale della parola re-stauro, che ritengo più attinente, è dedot-ta da Wikipedia: il restauro è un’attività legata alla manutenzione, al recupero, al ripristino ed alla conservazione delle ope-re d’arte, dei beni culturali, dei monumenti ed in generale dei manufatti storici, quali ad esempio un’architettura, un manoscrit-to, un dipinto, un oggetto, qualsiasi esso sia, al quale venga riconosciuto un partico-lare valore.

Vorrei quindi ragionare su due concetti.Il primo è che con la parola “restau-

ro” possiamo intendere tutte le operazio-ni necessarie alla trasmissione del bene al futuro, indipendentemente dalla natura e tipologia del bene stesso, prendendo in esame dal dipinto all’edificio, dalla stoffa alla cornice in pietra e così via.

Il secondo è che risulta fondamentale il riconoscimento del valore di ciascuno og-getto in quanto propedeutico all’attività di restaurare e, di conseguenza, sarà impor-tante la struttura culturale della persona (società) che con esso si confronta, perchè sarà proprio quella persona, in quel preci-so momento storico, che determinerà det-to valore.

La manutenzione, il recupero, il ripri-stino, la conservazione, insite nella defi-nizione di restauro, devono garantire la trasmissione del bene al futuro, comprese

tutte le informazioni che vi sono contenu-te. Nel caso di un edificio (tipologia di bene per me più interessante), tali informazio-ni possono essere di tipo formale, attinen-ti al suo sistema costruttivo e, soprattutto, alle caratteristiche legate al suo utilizzo. La conseguente e necessaria rifunziona-lizzazione presuppone una possibile tra-sformazione dell’edificio, poiché oltre all’eventuale consolidamento e ricostru-zione della sua struttura fisica e formale, si innescherà automaticamente un processo attinente al suo adeguamento, mediante l’inserimento di nuovi impianti, di nuo-vi arredi o di nuovi infissi. E il manufatto, inevitabilmente, si trasformerà.

Qual è allora il limite oltre il quale il re-stauro diventa trasformazione?

E la trasformazione è di per sé restau-ro?

Forse occorre superare la cultura che vede restauro e architettura schierati su fronti antitetici: da un lato il restauro de-stinato al “vecchio” ed al rispetto rigoroso dell’integrità dell’opera e dall’altro l’archi-tettura delegata al “nuovo” .

Confrontarsi con l’esistente e con il suo valore culturale, semantico e materico, considerare il contesto, l’ambiente, il ter-ritorio nel quale si inserisce l’intervento, preservarne tutte le caratteristiche pecu-liari valorizzandole ed inserendone di nuo-ve che assolvano alle esigenze attuali, in poche parole “trasformare”, non è forse un progetto di architettura? Non è forse un progetto di restauro?

Ed arriviamo al secondo concetto che volevamo affrontare, quello del ricono-scimento del valore di ciascuno ogget-to, propedeutico all’attività di restaurare. Abbiamo già assodato che fra gli oggetti “meritevoli” di restauro vi rientrano tutti i

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Fig. 1. Restituzioni grafiche per il restauro di dipinto.Fig. 2. Andrea Brustolon, poltrona con decorazioni sim-boliche del segno zodiacale della Bilancia, inizi del secolo XVIII. Giorgio Bonsanti, teorico del restauro, afferma «Se una sedia si rompe, viene riparata. Se la sedia è del Brustolon, viene restaurata».Fig. 3. Intervento su Notre Dame, Eugéne Viollet-Le-Duc.

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manufatti con oltre 50 anni di vita, come teo-rizzato da Alios Riegl e normato dai Codici di tutela.

Ma forse anche un manufatto nuovissimo, ritenuto di valore da chi deve, per qualsiasi ra-gione, intervenirci, dovrebbe essere “trattato” con lo stesso protocollo del restauro. L’inter-vento su di un edificio recente progettato da un architetto di fama internazionale ad esempio, non dovrebbe, essere considerato restauro? In questo caso è addirittura opinione unanime che l’edificio sia di pregio, come appurato appli-cando la serie di valori teorizzata dallo stesso Riegl. E allora perché limitarsi a restaurare solo edifici vecchi di cinquant’anni? Basterà che un oggetto sia “di valore” per essere suscettibile di restauro.

Continuando nel nostro ragionamento, vo-gliamo ancora andare oltre; applicando un sal-to di scala.

Curiosamente negli ultimi anni, più che dai teorici e dagli storici dell’arte, la discussione sul tema è stata alimentata nell’ambito degli ope-ratori dell’architettura, ove si registrano prese di posizione da parte di architetti impegnati nel recupero di grandi complessi edilizi, che trag-gono autorevolezza proprio dal loro operato sul “campo”.

Per Giorgio Grassi «il restauro si presenta in primo luogo come un problema di architettura […] e non v’è dubbio che si tratti di progetta-zione architettonica in senso stretto»: ogni edi-ficio dovrà misurarsi con la sua funzione e con il suo uso quotidiano ed integrarsi con il con-testo urbano (o territoriale) in cui si inserisce, perché è lo stesso contesto che forma parte della vita di un edificio. Questo principio era già presente nei maestri “precursori” del restau-ro: per Ruskin l’architettura non era un’isola ma viveva in un contesto e doveva rispettare la sua unità, per Viollet-Le-Duc era l’intorno ur-banistico che doveva valorizzare ancora di più l’opera. Del resto interventi anche recenti, co-me quello realizzato da Chipperfield a Berlino, con il Neues Museum, attraverso la ricostruzio-ne di un intero isolato, hanno una grande inci-denza sull’ambito urbano.

Restauro e conservazione, (e conseguente-mente trasformazione) sono parte di un uni-co concetto, che vogliamo espandere su scala maggiore.

L’intervento su di un edificio facente parte di un contesto storico-artistico, quale magari un centro storico, che dovrà essere adeguato all’uso attuale ed al quale verrà attribuito un nuovo ruolo nel contesto urbano, è plausibile,

per le teorie fino ad oggi accettate, considerar-lo restauro.

Se vale il concetto che restaurare significa non soltanto conservare ma, nell’accezione più ampia del termine “trasformare per riutilizza-re”, così come una sedia viene restaurata per potervici sedere e un edificio per essere riutiliz-zato, allora affermiamo che anche la ricucitura di uno spazio cittadino è restauro.

La ricostruzione di un edificio distrutto durante la guerra, come le ricostruzioni ef-fettuate a Pisa sui Lungarni, ma anche un “completamento” edilizio su un vuoto urbano di una via pubblica, sono operazioni di risana-mento e ricucitura del tessuto edilizio e credo possano essere considerate operazioni di re-stauro del quartiere o restauro di quel settore di città.

Invito, a tal proposito, a vedere ad esempio le immagini qui riportate dei progetti di Massi-mo Carmassi per il settore urbano delle mura medievali, il progetto del verde e degli edifici ordinatori di Pisa, nonché quelli per l’area Fieri-stica di Bologna.

Se cambiamo il punto di vista ed introdu-ciamo nuovi valori come quello della relatività dell’opera rispetto al contesto, il nostro ragio-namento può avere una buona logica.

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Fig. 4. Eugéne Viollet-Le-Duc, Ricostruzione di Carcassonne.

Fig. 5. Luca Beltrami, Castello Sforzesco di Milano, 1894-1905. Restauro e ricostruzione.

Fig. 6. Luca Beltrami, Giacomo Boni, ricostruzione campanile di San Marco a Venezia, 1912.

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Si restaura un oggetto, si restaura un edifi-cio e si restaura anche una città, utilizzando gli stessi metodi di conservazione, trasformazione e rifunzionalizzazione.

Com’è consentito parlare di restauro per un edificio perché non dovrebbe essere lecito passare dal manufatto all’isolato, dall’isolato al borgo e da questo alla città e magari al territo-rio?

Del resto il codice dei beni culturali non pre-vede la tutela e il restauro del territorio?

Voglio a questo punto aggiungere due ci-tazioni: una di Gianfranco Gorrelli e l’altra di Carlo Cresti, tratte dal volume Architettura contemporanea nel paesaggio toscano, Edizioni Edifir, realizzato nel giugno 2008, in occasione del relativo convegno svolto a Colle Massari in Toscana.

«Lo Statuto del territorio che della pianifica-zione strutturale è lo snodo centrale, esprime le regole durevoli di utilizzazione delle risorse con lo scopo di conservarne o aumentarne la

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consistenza: conservazione, ma anche integra-zione, risarcimento o addizione sono le azioni che suscita. In contesti in cui le tracce profonde delle trasformazioni di lungo periodo siano sta-te alterate o corrose da eventi urbanisticamen-te e architettonicamente deboli o nulli, il compito dell’architettura dovrebbe essere quello di con-tribuire a ricomporre le lesioni subite, proponen-dosi di ridare compiutezza al senso dei luoghi mediante un “dialogo” esplicito con i caposaldi

territoriali e paesaggistici del contesto e facen-dosi carico di ricostruire i rapporti interrotti» 2.

In una parola restaurare il territorio. Ovvero fare un progetto di architettura.

Operare in architettura o in urbanistica (ma c’è differenza?) utilizzando tutti i metodi sin qui esposti ed adattandoli di volta in volta al conte-sto ed alle caratteristiche dell’opera sia essa un monumento, un isolato, un borgo o un pezzo di città, un territorio vuol dire “restaurare”.

Figg. 7-10. Ricostruzione elementi edilizi secondo la teoria del restauro filologico di Camillo Boito

(1836-1914).

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«Se prendiamo atto (come dobbiamo) di questa realtà, ovvero se riconosciamo con convinzione che il paesaggio è un paesaggio abbon-dantemente architettato e costruito nel corso dei secoli; se non pos-siamo disconoscere che l’intervento dell’uomo ha creato un paesaggio che tutti considerano prodigioso e affascinante, perchè dovremmo so-spendere le opportunità di intervenire con attuali contributi creativi su questo organismo? Siamo forse più barbari, incapaci, o imbecilli dei nostri predecessori? Ammettiamolo pure (non senza una buona dose di scetticismo); tuttavia non si può accettare il principio che la storia debba essere interrotta per il veto insindacabile di un soprintenden-te che sembrerebbe l’unico depositario di ciò che è bello e di ciò che è brutto, di ciò che è ammissibile e di ciò che è inammissibile, ossia per il giudizio di un burocrate che spesso appare scarsamente dotato di sen-sibilità culturale e di qualità progettuali» 3.

Fig. 11. Ricostruzione edifici in via dei Georgofili a Firenze.Fig. 12. Carlo Scarpa, Castelvecchio a Verona.

Figg. 13-14. Tadao Ando, Fondazione François Pinault, Punta della Dogana a Venezia.Figg. 15-16. Roberto Pasqualetti, intervento ex Macelli a Pisa.

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Arrivo pertanto alla mia tesi affermando che:ogni intervento dell’uomo teso a trasformare l’esistente per adeguarlo ai propri usi in modo sostenibile, mantenendone le caratteristiche di valore, si può definire restauro (ricordiamo quello che diceva Oscar Wilde: «se la natura fosse stata comoda gli uomini non avrebbero inventato l’architettura»). Preciso che, oltre

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21 Fig. 17. Amoretti Calvi e associati + Giancarlo Ranalli, ampliamento cimitero comunale, Santo Stefano al mare (IM).Fig. 18. Archea Associati, abitazioni, Milano.Fig. 19. DAP Studio, Biblioteca Elsa Morante, Lonate Ceppino (VA).Fig. 20. Monovolume architecture+design, Centrale Idroelettica sul Rio Puni, Malles(BZ).Fig. 21. Franco Albini, INA in strada Cavour, Parma.Fig. 22. Bernardes+Jacobsen Arquitetura, MAR- Art Museum of Rio, Rio de Janeiro, Brasile.

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alle parole trasformare, adeguare, usare, ho usato la parola sostenibile perchè oggi, a dif-ferenza del passato, l’attività dell’uomo nell’a-dattare il proprio ambiente può innescare nuovi rischi come l’inquinamento, l’effetto ser-ra, il surriscaldamento del globo terrestre, che potrebbero avvisare l’avvicinarsi dell’irreversi-bile superamento della soglia di sopportazione della natura. Ma bisogna avere coraggio, fer-mezza e speranza, utilizzando la vitale cultura del progetto.

Vorrei concludere queste mie riflessioni con una provocazione: forse è proprio l’opera d’ar-te che non è possibile restaurare perché non può essere modificata senza alterare i suoi valori comunicativi. Non potrà essere restau-rata perché di questa non si cerca un utilizzo funzionale, ma il suo significato di valori este-tici e culturali. Un edificio meraviglioso si au-tocelebra o diventa un museo, l’opera d’arte si ammira e ci commuove. E se restauro vuol di-re conservazione e restituzione del manufatto

nella sua utilizzazione, è proprio l’opera d’arte che non potrà essere restaurata perché non è necessario/giusto modificare il suo stato, an-che solo per lo scopo di conservarla nel tem-po. Poiché non è possibile intervenire senza modificarla e ridurne quindi il valore semanti-co, meglio lasciarla all’usura del tempo. Ci tra-smetterà comunque il suo codice, arricchito dalla patina del tempo.

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Fig. 23. Robbrecht en Daem architecten, Marie-josè Van Hee architecten, Market Hall, Ghent, Belgio.Fig. 24. AS.Architetture-studio, Novancia Business School, Parigi, Francia.Fig. 25. aMDL, Progetto di adeguamento architettonico e progetto sistema arredi biblioteca Laudense, Lodi.Fig. 26. James&Mau Architetti, Residenze San Vicente Ferrer, Madrid, Spagna.Fig. 27. Massimo Carmassi, Ricostruzione di San Michele in Borgo, Pisa.

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Note1 Nel corso dell’Ottocento, soprattutto in Fran-

cia, la cultura romantica del periodo contribuisce ad alimentare la presa di coscienza storica legata ai va-lori dell’arte e dell’architettura, quali valori essenziali della civiltà. Diviene prioritaria la conservazione del patrimonio storico e nascono due opposte teorie sulle metodologie del restauro: quella del francese Eugéne Viollet-Le-Duc e quella dell’inglese John Ruskin .

Secondo Viollet-le-Duc (1814-1879) princi-pale teorico del cosiddetto restauro stilistico

«Restaurare una costruzione, non vuol dire mante-nerla, ripararla o rifarla, ma ristabilirla in uno stato completo che può non essere mai esistito fino a quel momento».

Ciò consisteva nel cancellare la storia successiva alla nascita di un edificio, demolendo le porzioni in-coerenti ed aggiungendo parti ritenute mancanti, per riportare il manufatto alla sua unitarietà stilistica.

Esemplificativo l'intervento su Notre Dame di Pa-rigi, iniziato nel 1844 da J.B. Lassus e dallo stesso Viollet-le-Duc. Oltre a restaurare la cattedrale, dan-neggiata durante la Rivoluzione Francese, furono

aggiunti nuovi elementi in facciata, realizzata la gu-glia centrale tra coperture e transetto ed inserite le cinquantaquattro “gargolle” che ci osservano minac-ciose dall'alto, completando così, secondo lo spirito medievale ma arbitrariamente, un’opera che mai era stata compiuta.

Di tutt’altro avviso l’intellettuale inglese John Ruskin (1819-1900), teorico del cosiddetto restau-ro romantico, che si oppose radicalmente a Viollet Le Duc, accusandolo di cancellare la memoria stes-sa del monumento e quindi di “mentire”. Ruskin, per il quale «il cosiddetto restauro è la peggiore delle

sere musive e migliaia di grandi e piccolielementi sono stati incorporati nell’edi-ficio. Il sorprendente risultato com-prende anche affreschi mancanti, pavi-menti incompleti e pareti drammatica-mente segnate da colpi di proiettili.Dove non possibile, per effetto dellacompleta distruzione, sono stati creatinuovi ambienti seguendo,comunque, lelinee del progetto originale di Stüler.L’intera ala nord-ovest dell’edificio, adesempio,è stata totalmente ricostruita; lamaggior parte dell’area sud, compresa lasplendida galleria con cupola, che erastata demolita dai tedeschi dell’est, èstata rivisitata da Chipperfield in chiavecontemporanea.Anche la maestosa sca-linata centrale, elemento cruciale dellacostruzione e completamente distruttadai bombardamenti, è assolutamente evisibilmente coeva ma finisce tra le co-lonne doriche preesistenti.Per rimediare alle numerose mancanze,David Chipperfield ha ripreso le pro-porzioni originali degli ambienti ideatida Stüler e, lasciando apparire con forteevidenza le parti ricostruite ex novo, harestituito in maniera leggibile e omoge-nea l’originario aspetto.La sequenza originaria delle diversestanze è stata ricostruita con l’annes-sione di spazi di nuova costruzione, chesi sviluppano in continuità con la strut-tura originaria. Il recupero dell’esistenteè stato tuttavia generato dall’obiettivo divalorizzare, nella sua matericità auten-tica e nel suo primitivo contesto spa-ziale, la struttura con soluzioni attualiz-zate in grado di riflettere ciò che è an-dato in rovina senza tuttavia imitarlo.“Vecchio”e “nuovo”sono stati così per-fettamente armonizzati.Le stanze di nuova costruzione sonostate realizzate con grandi elementi pre-fabbricati in cemento, ottenuti con unagettata di granulati di marmo della Sas-sonia mescolati a cemento bianco,men-tre l’involucro è completato con unatessitura muraria di mattoni pieni “fac-cia a vista” che, con un ritmo serrato,sono disposti su corsi sfalsati.La responsabile scelta di Chipperfield di

È nel cuore dell’attuale Museums Insel(Isola dei Musei), la parte settentrionaledell’isola di Sprea nel centro di Berlino,che il re prussiano Federico GuglielmoIV, nel diciannovesimo secolo, creò unaspecie di santuario pubblico di cultura eapprendimento,una moderna Acropoli.Il complesso dei cinque musei berlinesi(Altes Museum, Alte Nationalgalerie, BodeMuseum, Pergamon Museum e Neues Mu-seum), costituito su un’area paludosa trail 1822 e il 1930 e gravemente danneg-giato da un bombardamento soltantonove anni dopo l’inaugurazione del suoultimo intervento, è stato inserito nel1999 nella World Heritage List dell’Une-

sco.Attualmente appartenente alla Stif-tung Preussischer Kulterbesitz (FondazioneCulturale Prussiana), il Neues Museum fucostruito tra il 1841 e il 1859 per acco-gliere la collezione egizia: l’architettoFriedrich August Stüler, allievo del piùfamoso Karl Friedrich Schinkel, diedeall’edificio una fisionomia fortementeclassicista. Colpito dalle bombe alleatetra il 1943 e il 1945, il Neues Museum èrimasto in totale stato di abbandonofino al 1986.Nel 1997, lo Studio DavidChipperfield Architects, in collabora-zione con Julien Harrap Architects, havinto il concorso internazionale di pro-gettazione per la sua ricostruzione.Il recupero archeologico, seguendo iprincipi dettati dalla Carta di Venezia,rispetta i diversi stati di conservazionedell’edificio storico. La lunga opera diristrutturazione è stata affrontata comela ricomposizione di un enorme puzzlecostituito da una catasta di macerie:dopo una prima operazione di metico-losa riclassificazione, colonne,muri, tes-

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Adolfo F. L. Baratta

david chipperfield architects

Ricostruzionedel Neues Museumdi Berlino, Germania

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Figg. 28-31. David Chipperfield, Neues Museum, Berlino. Fig. 28. Planimetria generale.Fig. 29. Interno.Fig. 30. Vista della facciata principale.Fig. 31. Disegno del prospetto.

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distruzioni», sosteneva che un edificio nasceva, viveva e moriva; unica operazione consentita la sua conservazione; quando ciò non era più perseguibile per l’eccessivo degrado dell'opera, era giusto lasciarla “morire”, perché restaurarla avrebbe significato dar vita a un manufatto di-verso dall’opera originale.

Su rielaborazioni ed integrazioni dei pensieri di Viollet Le Duc e di Ruskin, in Italia nacquero due nuove metodologie di restauro architetto-nico: Il cosiddetto restauro storico teorizza-to da Luca Beltrami (1854-1933) che pur non distaccandosi dal restauro stilistico, sosteneva che eventuali integrazioni dovessero essere fondate su fonti archivistiche e non su un me-ro criterio di coerenza stilistica, ed il restauro filologico con il quale Camillo Boito (1836-1914) al congresso di Roma degli ingegneri ed architetti del 1883 pose le basi per il restauro scientifico in Italia.

Boito stabilì una gerarchia degli interventi: i monumenti devono essere «piuttosto conso-lidati che riparati, piuttosto riparati che restau-rati»; come Ruskin riconobbe il valore della conservazione e dei segni lasciati dal tempo

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Figg. 32-33. Massimo Carmassi, progetto mura città di Pisa.Fig. 34. Vista assonometrica del settore est e del settore nord delle mura urbane. Fig. 35. Progetto di riqualificazione del settore dal Duomo alla Cittadella.Fig. 36. Area mura di Stampace e il canale dei Navicelli con la cateratta, progetto di recupero. Fig. 37. Bastione San Gallo, progetto recupero area lungo via Bovio.Figg. 38-40. Massimo Carmassi, piano urbanistico città di Pisa. Il progetto del verde e degli edifici ordinari.

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definendo la patina come uno «splendido sudi-ciume del tempo», ma si contrappose all’inglese non accettando la “morte” del monumento e ri-conoscendo dunque l’importanza del restauro. Come Viollet le Duc promosse lo studio rigoroso dell’edificio, ma rifiutò la sua accezione di restau-ro stilistico, considerandolo un inganno per i con-temporanei; teorizzò infine il concetto della rico-noscibilità dell’intervento: quando il restauro è indispensabile le parti nuove devono essere indi-viduabili senza alterare l’aspetto complessivo del manufatto; gli elementi decorativi vanno limitati e le aggiunte devono ricondursi a semplici volumi essenziali.

Un importante contributo fu dato da Alois Riegl (Linz 1858–Vienna 1905), storico dell’ar-te austriaco, appartenente alla Wiener Schu-le der Kunstgeschichte (“Scuola viennese di storia dell’arte”) per la sua teoria dei valori (la

“DenkmalKultus”), a cui si lega la sua battaglia contro il “restauro stilistico” (teoria di Viollet-le-Duc). Secondo Riegl il restauratore deve opera-re con la consapevolezza dell’esistenza di diversi valori, agendo attraverso il confronto dialettico tra questi. Il “valore storico” che invita a garanti-re la leggibilità del documento storico (richieden-do l’eventuale reintegrazione di parti mancanti o perdute); il “valore d’antichità”, invece, reclama il non-intervento (andando contro la stessa con-servazione) per tutelare gli effetti causati dal pas-saggio del tempo (e dunque, a favore della “pati-na” tanto amata da John Ruskin); il “valore di no-vità” asseconda gli istinti di ripristino e rifacimen-to, è visibile nei restauri di Viollet-le-Duc; infine il “valore d’uso” garantisce la sopravvivenza del do-cumento storico e non mero resto archeologico.

Nel corso del Novecento si fece strada la ne-cessità di concepire il restauro in modo univoco,

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su basi più scientifiche che empiriche, ed i contenu-ti delle conferenze internazionali tra studiosi ed ar-chitetti sul tema, furono di volta in volta racchiusi in quelle che sono state definite “carte del restauro”.

La prima carta del restauro del 1931 fu quella di Atene che precedette di solo un anno la prima Carta Italiana del Restauro; alla formulazione di entrambe un contributo fondamentale fu dato da Gustavo Gio-vannoni (1873-1947) che, in continuità con il Boito, sosteneva che in ogni intervento era indispensabile sfruttare tutte le più moderne tecnologie, Introdu-cendo così il concetto di restauro scientifico, da suddividere in varie categorie di intervento:1. anastilosi o restauro di ricostruzione: ricomposi-

zione con pezzi originali di una costruzione anda-ta distrutta; plausibile utilizzo di elementi neutri, ma le integrazioni distinguibili dalle parti antiche;

2. restauro di completamento: aggiunta di parti “nuove” con il criterio della riconoscibilità;

3. restauro di liberazione: rimozione delle superfe-tazioni ritenute di scarso valore storico-artistico;

4. restauro di consolidamento per ristabilire un ade-guato livello di sicurezza statica all’edificio;

5. restauro di innovazione: integrazione di parti rile-vanti anche “moderne” per il riutilizzo dell’edificio.A seguito delle distruzioni della Seconda Guer-

ra mondiale in Italia ci fu un progressivo distacco dalle posizioni di restauro filologico-scientifico per virare verso il cosiddetto restauro critico, meto-dologia formulata principalmente da Cesare Brandi (1906-1988) storico dell’arte e direttore per molto tempo dell’Istituto Centrale del Restauro (oggi Isti-tuto superiore per il restauro e la conservazione). Nel suo saggio del 1963 sosteneva che il restauro

Figg. 41-42. Massimo Carmassi, Area fieristica di Bologna, progetto di riqualificazione e

rifunzionalizzazione.Figg. 43-44. Barcellona, progetto di riqualificazione

settore sud litorale.

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Fig. 45. Pont du Garde, acquedotto romano. Fig. 46. Viabilità medievale. Fig. 47. Viadotto autostradale.Fig. 48. Ambrogio Lorenzetti, Buon governo, 1338.Fig. 49. Giovanni di Paolo, Madonna dell’Umiltà, metà del ’400.

Fig. 50. Gerardo Stamina, La Tebaide, primi del ’400.Fig. 51. Agnolo Gaddi, Leggenda della Croce (1330-1394).Fig. 52. Benozzo Gozzoli, Cavalcata dei Magi (1449-1469).Fig. 53. Campagna di Montepulciano.

Fig. 54. Val d’Orcia.

Fig. 55. Chianti.

Fig. 56. Le lavorazioni del terreno a ritocchino.

Fig. 57. Centuriatio nel territorio modenese.

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è «il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista del-la trasmissione al futuro» aggiungendo anche che «si restaura solo la materia dell’opera d’arte» e che «il restauro deve mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso sto-rico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo».

Giorgio Bonsanti col suo “paradosso di Brustolon” (noto artista veneto del Settecento) ribadisce nuo-vamente lo stesso concetto «Se una sedia si rom-pe, viene riparata. Se la sedia è del Brustolon, viene restaurata».

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio ha definito il restauro come un complesso di opera-zioni finalizzate all’integrità materiale, al recupe-ro del bene ed alla protezione e trasmissione dei suoi valori culturali, non delegandolo più soltanto

Fig. 58. Edoardo Milesi, cantina di Collemassari.Fig. 59. Castello di Collemassari.Fig. 60. Jean Nouvel, Colle Val d’Elsa, progetto di riqualificazione.Fig. 61. Renzo Piano, Centro Paul Klee, Berna; Eisenman Architects, Città della Cultura di Galizia, Santiago di Compostela.

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alla conservazione “dell’aspetto visivo” dell’oggetto, mettendo perciò in crisi le basi del restauro critico che impostava la sua teoria proprio sul concetto di “opera d’arte”.

Negli anni settanta nasce la cosiddetta teo-ria della conservazione che rifiutando ogni ti-po di integrazione stilistica seppur semplificata, promuove nell’edificio conservato integralmente

l’inserimento di aggiunte palesemente moderne (tra i massimi esponenti Amedeo Bellini e Marco Dezzi Bardeschi).

2 Gianfranco Gorrelli, Territori, paesaggi e archi-tetture, in Architettura contemporanea nel paesaggio toscano, Edizioni Edifir, Firenze giugno 2008.

3 Carlo Cresti, Il paesaggio costruito, in Architet-tura contemporanea nel paesaggio toscano, cit.

Fig. 62. Iotti + Paravani, Marazzi, progetto di nuovo stadio a Siena, 2005.

Fig. 63. Piero Sartogo, Nathalie Grenon. Cantina “L’ammiraglia” di Frescobaldi, Montiano (GR).

Fig. 64. Archea, Cantina Antinori nel Chianti, in Toscana.

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