«Conosco un ottimo storico dell’arte»

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«Conosco un ottimo storico dell’arte...»Per Enrico CastelnuovoScritti di allievi e amici pisani

a cura di Maria Monica DonatoMassimo Ferretti

EDIZIONI DELLA NORMALE

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© 2012 Scuola Normale Superiore Pisaisbn 978-88-7642-435-9

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Indice

Premessa ixMaria Monica Donato, Massimo Ferretti

1953-2012 Paola Barocchi 1

Un periegeta greco a Roma. Pausania e i theoremata nel centro dell’ImperoFrancesco de Angelis 5

Un trionfo per due. La matrice di Olbia: un unicum iconografico ‘fuori contesto’Maria Letizia Gualandi, Antonio Pinelli 11

Il volto di Cristo e il dilemma dell’artista: un esempio di IX secoloFrancesca Dell’Acqua 21

Rappresentare il Giudizio a Roma al tempo della Riforma Gregoriana: il caso di San Benedetto in PiscinulaEleonora Mazzocchi 29

Sul ‘bestiario’ del reliquiario di san Matteo: Montecassino, Roma e la ‘Riforma’ tra Occidente cristiano e Oriente islamicoStefano Riccioni 35

Un frustolo disegnato. Lucca, Biblioteca Statale, ms. 370, c. 102Alessio Monciatti 43

I Leoni custodesGigetta Dalli Regoli 51

Il Medioevo lucchese rivisitato a Villa GuinigiMaria Teresa Filieri 61

Da Limoges a Lucca: modelli iconografici per l’oreficeria sacraAntonella Capitanio 69

Iconografia per Sacrum Imperium. Rilievi nella facciata del Duomo di San DonninoYoshie Kojima 77

Un volto per due dame, tra Poitiers e l’abbazia di CharrouxChiara Piccinini 83

Le casse-reliquiario di san Giovanni Battista per il Duomo di Genova: strutture narrative e percezione pubblicaAnna Rosa Calderoni Masetti 89

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Luoghi e immagini nelle Storie degli Anacoreti di PisaAlessandra Malquori 97

Un frammento della chiesa della Spina nel Museo BardiniRoberto Paolo Novello 105

Nino Pisano e la scultura lignea franceseMax Seidel 111

SpigolatureMariagiulia Burresi 117

La pala d’altare di Maubuisson: note sull’iconografiaMichele Tomasi 125

L’Offiziolo bolognese della Biblioteca Abbaziale di KremsmünsterRoberta Bosi 131

Una ‘maniera latina’ nel Levante tardomedievale?Michele Bacci 141

Un tema di origine altomedievale nella pittura gotica: nota su tre cicli pittorici del TiroloFabrizio Crivello 149

Intorno a un trittico in muratura di Pietro di MiniatoElisa Camporeale 155

Alla ricerca della Fontana di giovinezza. Il programma iconografico degli affreschi della sala baronale del castello della Manta: riflessioni e nuove proposteRomano Silva 163

La fontana ‘del melograno’ di Issogne: due sogni e qualche indizioPaola Elena Boccalatte 173

FouquetianaMaria Beltramini, Marco Collareta 181

L’«officina» e il «padiglione fiorito». Appunti sulla pratica artistica ferrarese nel QuattrocentoCarmelo Occhipinti 189

Dalla cartella «Geografia della scultura lignea nel Quattrocento»Massimo Ferretti 197

Due false attribuzioni a Giovanni Bastianini falsario, ovvero due busti di Gregorio di Lorenzo, ex «Maestro delle Madonne di marmo»Francesco Caglioti 207

L’epitaffio del VecchiettaRoberto Bartalini 219

«Se pensa levare lo Arno a Pisa». A proposito della Mappa del Pian di Pisa di LeonardoEmilio Tolaini 223

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Sulle tentazioni iconoclaste ebraiche in Italia fra tardo Medioevo e prima età moderna Michele Luzzati 227

Formiche assetate, tartarughe in viaggio, architetture incrollabili. Sulla lunga fortuna di un topos epigraficoFulvio Cervini 239

Il doppio ritratto della maga AlcinaLina Bolzoni 245

Ariosto, schede di censoriAdriano Prosperi 255

Intorno alla cappella Guidiccioni in Santo Spirito in SassiaBarbara Agosti 259

Le pinceau et la plume. Pirro Ligorio, Benedetto Egio et la «Aegiana libraria»: à propos du dessin du Baptistère du LatranGinette Vagenheim 267

«Come dice l’oppositione»: Aurelio Lombardi, Pellegrino Tibaldi e Leone Leoni nel presbiterio del Duomo di Milano (1561-1569)Walter Cupperi 271

Giovanni Battista Adriani e la stesura della seconda edizione delle Vite: il manoscritto inedito della Lettera a messer Giorgio VasariEliana Carrara 281

‘Anticomoderno’: significati ed usi del termine nella letteratura artistica tra Cinque e SettecentoFabrizio Federici 291

Tre medaglie per Joachim von SandrartLucia Simonato 297

Città e santi patroni nell’età della ControriformaLucia Nuti 307

Inediti sul Porto Pisano a San Piero a Grado con schemi dell’iconografia portuale Fulvia Donati 315

«Un torso di un Fauno, non inferiore al torso di Belvedere». Note sulla ricezione critica del Fauno Barberini nel SeicentoLucia Faedo 323

La scoperta di Giunta PisanoAntonio Milone 331

L’Antiquité expliquée e i Monumens de la monarchie française di Bernard de Montfaucon: modelli per una storia illustrata del Medioevo franceseElena Vaiani 337

Intreccio e dramma, provvidenza e misericordia nella storiografia lanzianaMassimiliano Rossi 347

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Rapporti tra Galleria degli Uffizi e Accademia di Belle Arti nel periodo leopoldino (1784-1790)Miriam Fileti Mazza 353

Un quadro disperso di Pietro Benvenuti e le ‘razzie’ francesi a Firenze dell’autunno 1800Ettore Spalletti 359

Voyage en Suisse, Belgique, Hollande et à Paris (1846). Un diario di Costanza d’AzeglioCristina Maritano 365

Appunti di Giovanni Morelli per un catalogo della Pinacoteca di BreraDario Trento 373

«Il Buonarroti». Cronaca ed erudizione artistica a Roma nel secondo OttocentoMarco Mozzo 381

Fotografia e giapponismo: ancora sull’Alzaia di SignoriniVincenzo Farinella 389

L’Exposition des Primitifs flamands de Bruges (1902), «une œuvre patriotique»?Claire Challéat 399

Firenze 1911: la mostra del ritratto italiano e le radici iconografiche dell’identità nazionaleTommaso Casini 407

Un paesaggio ‘moderno’ a Torino: il Torrente in inverno (1910) di Giuseppe BozzallaFlavio Fergonzi 415

Les promenades péripatéticiennes: appunti su e di Filippo De Pisis al LouvreMaria Mimita Lamberti 423

Aby Warburg, il Déjeuner sur l’herbe di Manet. La funzione di modello delle divinità pagane elementari in rapporto alla evoluzione del moderno sentimento della naturaMaurizio Ghelardi (a cura di) 431

«Maestri in tournée». Aby Warburg ed Ernst Robert Curtius a Roma, il 19 gennaio 1929Silvia De Laude 445

Il XIII congresso internazionale di storia dell’arte (1933) e la geografia artistica. Le origini di un metodo e le sue inflessioni ideologicheMichela Passini 453

Musei e multimedialità: cenni per una frammentaria archeologiaDonata Levi 461

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Conosco un ottimo storico dell’arte, uomo di vastissime letture, che fra tutti i libri ha concentrato la sua predilezione più profonda sul

Circolo Pickwick, e a ogni proposito cita battute del libro di Dickens, e ogni fatto della vita lo associa con episodi pickwickiani. A poco

a poco lui stesso, l’universo, la vera filosofia hanno preso la forma del Circolo Pickwick in un’identificazione assoluta. Giungiamo per

questa via a un’idea di classico molto alta ed esigente.

Quando Italo Calvino così rispondeva all’eterna domanda Perché leggere i classici, nell’intervista comparsa sull’«Espresso» nel 1981, gli amici di Enrico Castelnuovo non avranno esitato un istante a riconoscere il personaggio che agli occhi dello scrittore era diventato l’incarnazione stessa di ‘come leggere’ (piuttosto di ‘perché’). Altrettanto facilmente lo avranno poi identificato generazioni di allievi, dopo che l’intervista fu ripubblicata, dieci anni dopo ed ormai postuma, nella raccolta di scritti a cui darà il titolo. I più giovani, magari, avranno avuto l’impressione che il romanzo di Dickens non fosse scalzato da quel ruolo, questo no, ma che stesse ormai trovando concorrenti come l’île des pengouins di Anatole France.

La ragione per cui ci è parso utile usare un frammento di quel ritratto per il frontespizio (una specie di ritratto tipologico, e perciò senza didascalia e solo da alcuni riconoscibile) sta tutta nel verbo che fa da incipit: nel privilegio di aver conosciuto Enrico da vicino, come colleghi o allievi. Questo privilegio è largamente condiviso. Gli amici sono sparsi ovunque e gli estimatori della sua intelligenza non stanno soltanto fra gli storici dell’arte. Di allievi, poi, ne ha avuti molti: a Torino, a Losanna, di nuovo a Torino, e infine in Normale, per venti anni (dal 1983-1984 al 2004). Sarebbe stato impossibile riunirli tutti in una raccolta en hommage. Si è così scelto subito, sia pure a malincuore, di limitare l’invito a chi ha frequentato Enrico nella sua lunga e così fruttuosa stagione pisana. Ma la sua presenza a Pisa non si è fatta sentire solo nelle aule della Normale. Enrico ha frequentato diversi colleghi dell’Università. Dal suo studio sono passati allievi di ‘San Matteo’. Ha preso parte, anche direttamente, oltre che assieme ad alcuni di questi allievi interni ed esterni, ad alcune importanti mostre di ricerca organizzate a Pisa, Lucca, Sarzana dai colleghi della Soprintendenza. Ha rinsaldato i legami con il maggiore centro di studio, nel nostro ambito disciplinare, presente in Toscana: il Kunsthistorisches Institut.

Anche se l’invito a partecipare al volume è stato rivolto soltanto a quanti fossero entrati in questo pur parziale raggio della geografia e della biografia di Enrico, le risposte sono state davvero numerose. E se qualcuno non ce l’ha fatta a scrivere, non ne iscriveremo il nome in un elenco epigrafico. Si riconoscerà comunque nell’omaggio cumulativo: assieme a chi fosse stato dimenticato, malauguratamente e non di proposito; assieme agli allievi più giovani del corso

Premessa

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ordinario e del perfezionamento che ne hanno semplicemente seguito le lezioni durante gli anni del ‘fuori ruolo’. Il contributo di uno di noi due, che ha riservato il suo impegno per questa raccolta al lavoro organizzativo e redazionale, comparirà a breve in altra sede. Il volume è comunque davvero corposo, tanto da farci rabbrividire al solo pensiero della battuta con cui Roberto Longhi accolse il volume a lui dedicato, uno degli incredibili episodi di vita che Enrico ha tante volte ricordato: «grazie Bottari di questa bella… pizza» (i puntolini, per chi ha sentito raccontare l’episodio, corrispondono al gesto del festeggiato che soppesa il volume). Non ci preoccupa invece l’estrema varietà degli argomenti perché confidiamo che richiami qualcosa dell’inesauribile curiosità intellettuale di Enrico.

La gestazione editoriale di questo volume è stata più impegnativa di quanto si fosse pensato. Ce ne dispiace, pensando agli autori più solleciti nella consegna; e soprattutto ad uno dei primissimi, Romano Silva, improvvisamente mancato l’autunno scorso (era contento – diceva, rinviando le bozze – che l’articolo per Enrico gli avesse fatto maturare un più largo progetto di studio sul salone della Manta). Per la complessa opera di preparazione dei testi e di correzione delle bozze siamo grati in modo particolare a Matteo Ferrari e Elena Vaiani. Grazie anche, per ragioni diverse e differentemente gravose, a Gabriele Donati, Miriam Fileti Mazza, Miriam Leonardi, Michela Passini, Stefano Riccioni, Ludovica Rosati, Lucia Simonato, Giovanna Targia. Un ringraziamento particolare a Maria Vittoria Benelli e Bruna Parra sarebbe dovuto, da parte nostra, se non fosse che anche loro fanno parte a pieno titolo degli amici pisani che hanno contribuito a questo omaggio ad Enrico Castelnuovo.

Maria Monica DonatoMassimo Ferretti

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1953-2012

Carissimo Enrico, mi piacerebbe saper raccontare quello che in più di cinquanta anni abbiamo

vissuto insieme nella nostra lunga ed intensa attività storico-artistica, in modo da conoscere meglio noi stessi e molti altri.

Partirei dal 27 ottobre 1953, quando nell’Istituto Germanico di Firenze, allora in Palazzo Guadagni di piazza Santo Spirito sentii risuonare in stanze eccezio-nalmente vuote, un grido di profonda soddisfazione. Proveniva da Enrico che leggeva sghignazzando nel «Nuovo Corriere» i famosi Dubbi su una ‘tegola’ (o su un ‘mattone’) alla Mostra del Signorelli di Roberto Longhi. Evidentemente il gioco allusivo delle parole (tegola e mattone) trovava in Castelnuovo un con-senso divertito e sonoro, che fu per me una rivelazione.

Erano gli anni della netta contrarietà tra due fronti: un Salmi, che all’ultimo momento era succeduto all’Università di Roma a Pietro Toesca ed un Longhi che era approdato all’Università di Firenze, quale successore di Salmi (sempli-cemente menzionato come «la passata amministrazione»). Gli allievi dei due protagonisti dovevano rispettare le distanze e non c’era possibilità, salvo casi eccezionali, di deroghe. L’ironia con cui Enrico accoglieva la burla longhiana dimostrava una capacità di indipendenza del tutto estranea ad una doverosa e passiva partecipazione accademica. Tutto ciò mi fece sperare in una possibilità di colloquio, favorito dalla inaspettata recensione di Longhi al mio Rosso Fio-rentino (alla contemporanea mostra di Napoli da parte di Causa e Bologna si parlava della: «Barocchi col Rosso negli occhi») e dalla imprevista neutralità con cui risposi agli inviti di mutare partito. Intanto le rare lezioni del docente fio-rentino erano per me, come per Castelnuovo un modello di esperienze formali e testuali che induceva a riflettere.

Se Enrico prediligeva le ‘mappe inconsuete’ della pittura umbra e bolognese, io mi stupivo alla lettura, a viva voce dell’autore, della Antologia della critica caravaggesca, nella quale ogni parola veniva valutata nelle particolari accezioni e quindi in un particolare contesto, confermando la ragione della scelta, nella precedente prolusione (Proposte per una critica d’arte), del passo di Vasari su Giorgione, che aveva sconvolto Mary Pittaluga (che mi sedeva accanto). Così cadevano le categorie mentali e ambientali (il ‘disegno’ dei Fiorentini e il ‘colo-re’ dei Veneti) e maturava nei testi una attenzione puntuale e una valutazione linguistica che implicava una osservazione storica specifica.

In campi diversi si aprivano invitanti prospettive: Enrico amava approfondire situazioni di frontiera (Avignone e Matteo Giovannetti), forse favorito anche dal suo spostamento a Losanna (1964-1978), a me toccò la commissione del buon Salmi di un commento alla Vita di Michelangelo di Vasari nelle due reda-zioni del 1550 e del 1568, che implicò un lavoro di ben dieci anni (1952-1962), dal quale risultò molto chiaramente che le due edizioni rispondevano ad ottiche del tutto diverse (romana la prima e cosimiana la seconda), pur restando spesso identica la lettura stilistica. La valorizzazione e la sua eccezionalità stimolaro-

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no ovviamente anche l’edizione laterziana dei Trattati del Cinquecento (1960-1962) e quella ricciardiana degli Scritti d’Arte del Cinquecento (1971-1977), che rinnovava la partitura per temi, allargando una problematica specifica e geogra-ficamente più varia.

Maturava in tali esperienze il bisogno di evadere da un longhismo che dive-niva, dopo la morte di Longhi (1970), sempre più bloccato nel mero figurativo, mentre i fortunati scritti correnti sulla storia sociale dell’arte (Hauser) rischia-vano di tutto appiattire nell’infelice parallelo tra figurativo e letterario.

La pubblicazione degli scritti d’arte dell’«Antologia» di Vieusseux e la ferma volontà di Sandra Pinto di organizzare un convegno intitolato La cultura ro-mantica e l’«Antologia» mi indussero ad invitare nel 1976 anche Castelnuovo, che presentò il suo contributo Arti e rivoluzione. Ideologie e politiche artistiche nella Francia rivoluzionaria (poi pubblicato in «Ricerche di storia dell’arte» nel 1981). La sorpresa di un’indagine così innovatrice ci rincuorò notevolmente e ci indusse ad ascoltare in massa, il giorno dopo, alla Facoltà di Lettere, le prime riflessioni su Una storia sociale dell’arte, subito pubblicate in «Paragone» nello stesso anno. Se la brillante storia del nesso tra storia dell’arte e storia della so-cietà suscitò molto interesse, non mancarono i dubbi di un crociano convinto; Roberto Salvini dichiarò pubblicamente che per lui l’Arte era solo quella con l’A maiuscola. Ed Enrico sorrise con piena comprensione.

Dal 1976 al 1983, Enrico divenne un interlocutore costante alla Scuola Nor-male, dove teneva seminari prolungati sulla museografia francese (rivoluzio-naria e post-rivoluzionaria), sul rapporto ‘centro e periferia’ (insieme a Carlo Ginzburg), sfoggiando letture inusitate e profondamente innovative. II rappor-to periodico portò ad un insolito scambio di vedute, rafforzato dalla presenza di altri ospiti. Penso a Carlo Dionisotti (1979-1981) ascoltatore paziente del-le ricerche in corso e conferenziere vivacissimo, quando, ad esempio, leggeva con enorme divertimento e gusto la lettera del Vasari sull’albero della Fortuna. Quasi in tema, ricordo che proprio a Pisa i funzionari einaudiani concordarono con lui la pubblicazione delle Machiavellerie (1980).

Si era così formata, grazie anche ad Enrico, una consuetudine tra persone di varia esperienza e di varia età che riconosceva ad ognuno libertà e dignità di invenzione e proposizione. L’eccezionalità della situazione fu confermata, in un certo senso, dal convegno promosso da Previtali nel decennale della morte di Longhi (1980). Vi predominava una lode del passato (talvolta drammaticamen-te sceneggiata; penso all’intervento di Garboli che ammaliò Castelnuovo), ma non si intravedevano linee future, quelle che altrove si cercavano assiduamente.

Ricordo ancora con meraviglia vari incontri romani promossi dalla casa edi-trice Einaudi in una sede vicino a Trinità dei Monti, ai quali partecipavano Pao-lo Fossati e vari amici, tra i quali Enrico. Si parlava di ciò che ci veniva in mente e si poteva passare agevolmente da un argomento all’altro sotto il severo con-trollo di esperti non solo di editoria, ma della più recente produzione culturale.

A livello più alto fummo invitati, dopo la partecipazione alla Storia dell’ar-te Einaudi, anche nella residenza montana del Presidente, dove tra sobrie pa-stasciutte al burro e salvia e tradizionali giochi di carte si poteva scambiare le ipotesi più immaginarie. Gianni Romano, sempre attento ed arguto, Settis sem-pre intraprendente ed asseverativo, Enrico familiarmente dimesso ed io molto timorosa e costretta, per cortesia, a bere da astemia un vino assai decantato, eravamo guidati da Paolo Fossati e dovevamo esibirci. Naturalmente i meno

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aggressivi eravamo Enrico ed io, e spesso passeggiavamo nei corridoi in modo interlocutorio. Alla resa dei conti la palma fu conquistata da Salvatore Settis, che ottenne la pubblicazione dei volumi sulla Memoria dell’antico, mentre io mi limitai a proporre gli studi di Donata Levi su Cavalcaselle (poi usciti nel 1988).

A Pisa intanto le cose procedevano più semplici e fattive. L’esperienza della mostra di Palazzo Vecchio del 1980 mi aveva confermato i profondi legami tra collezionismo e storiografia artistica ribaditi dal centenario della Galleria degli Uffizi (1982) in un lungo saggio, che Enrico giudicò positivamente e ne propose un ampliamento einaudiano.

La consultazione reciproca fu poi facilitata dalla chiamata di Castelnuovo alla Scuola Normale nel 1983, dove fu accolto con grandi speranze di una collabo-razione intensa anche da parte della Soprintendenza (di cui la mostra Niveo de marmore di Sarzana, 1992, fu una riprova). Si pensò, insieme a Clara Baracchini, ad iniziative relative al Camposanto e fu deciso di comune accordo di iniziare dai secoli più vicini per favorire l’intervento di molti (si ricordi il Camposanto di Pisa edito da Einaudi nel 1996). Intanto la presenza di Paolo Fossati alla Scuola Normale diveniva sempre più frequente e molti ricordano ancora i suoi energici seminari che spesso anticipavano gli scritti quasi come una prova preliminare. La sua guida alle opere di Burri a Città di Castello e al Vittoriale dimostrò sem-pre una esemplare vitalità d’approccio del tutto originale. Sul versante edito-riale concordammo proprio a Pisa una Storia moderna dell’arte in Italia (1795-1990) che cercasse di colmare il divorzio tra gli strumenti della storia dell’arte e quelli della storia della critica d’arte, offrendo in ordine cronologico le testimo-nianze più diverse (non solo di storici dell’arte ma di artisti, critici, giornalisti ecc.) in modo che il presente e il passato riuscissero a colloquiare su vari piani.

Nel culmine di tante imprese – e riprese (mi piace ricordare due interventi cortonesi: Che cos’è la storia dell’arte da me tenuto nel 1980, Di che cosa par-liamo quando parliamo di storia dell’arte di Castelnuovo nel 1982) – nelle quali Enrico ed io avevamo sempre una compartecipazione sia pure meramente in-formativa, che ci rendeva comunque compresenti in una istituzione nella quale gli studenti avevano piena libertà di colloquio con entrambi, ci giunse la notizia del premio Feltrinelli dell’Accademia Nazionale dei Lincei. L’abbinamento so-stenuto da Argan superava evidentemente frontiere di scuola ed evidenziava i nostri intenti anche su binari allora inconsueti, quali le applicazioni informati-che, da me sostenute fin dal 1978.

Il riconoscimento non poteva che avvalorare le strade da tempo intraprese, e in parte condivise da allievi, divenuti a loro volta professori. Ricordo con viva nostalgia Alessandro Conti, che ci ha lasciato nel 1994. Lo abbiamo conosciuto nel suo pieno vigore di cultore delle arti, le cui ricerche sapevano affrontare gli itinerari più vari e proprio in essi potevamo vedere una traccia comune.

E siamo arrivati così alla pensione (io nel 1999, Enrico nel 2001), siamo di-venuti emeriti e non demordiamo. Io sono impegnata nella Memofonte, fonda-zione nazionale dedicata alle applicazioni informatiche sulle fonti e i documenti storico-artistici, cercando di valorizzare il lavoro di sessanta anni, Enrico ha continuato (dal 1990) i suoi studi sulla fortuna dei primitivi francesi ed ha in-trapreso con Giuseppe Sergi Arte e storia nel Medioevo (Einaudi 2002-2004), alla cui progettazione aveva contribuito Paolo Fossati. Oggi Enrico è festeggiato in questo volume come uomo di grande cultura che ha saputo tentare vie nuove e generose.

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Ci unisce ancora l’affetto di tanti allievi ormai divenuti amici solidali e il ri-cordo di anni fiorentini e pisani, che per noi sono stati importanti, come ho cercato di ricordare.

Paola Barocchi

La fotografia mostra Roberto Longhi, in visita alla mostra di Antonello da Messina. Con lui c’è il ventiquattrenne Enrico Castelnuovo, il terzo da sinistra. Sapere che nel marzo del 1953 Enrico era arrivato «nell’isola terribile e luminosa» in compagnia del maestro fa subito pensare al suo primo grande libro, quello su Matteo Giovanetti, pubblicato nel 1962 sotto l’‘anti-monografico’ titolo di Un pittore italiano alla corte di Avignone. Introducendone la riedizione, Enrico ricordava che ad occuparsi dell’argomento fu spinto dallo stesso Longhi nel dicembre del 1952: poco prima di quel viaggio in Sicilia. Non è difficile immaginare i loro dialoghi davanti alle opere esposte, con il pensiero del più giovane tutto rivolto al progetto di lavoro appena avviato. Longhi gli avrà subito indicato nella Madonna dell’Umiltà di Bartolomeo da Camogli «un capolavoro di arte senese dipinto» in Liguria da un pittore che doveva aver appreso «la proprietà del parlare senese e in accento puramente martiniano non già a Siena, ma in curia, ad Avignone». Enrico, fra sé, avrà pensato che la formula iconografica confermava in pieno l’ipotesi: se ne parlava, della Madonna dell’Umiltà, nel libro recentissimo di Millard Meiss, dove l’opera palermitana veniva però detta di qualità mediocre; e proprio per simili giudizi il libro non era piaciuto a qualche compagno di studi, a Firenze. Enrico avrà cominciato a pensare che un argomento a così largo raggio era davvero ‘suo’.

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L’«officina» e il «padiglione fiorito». Appunti sulla pratica artistica ferrarese nel Quattrocento

corti sembrava piegarsi alla categoria interpretativa novecentesca: l’intera Mantova di Mantegna diven-ta, un po’ forzatamente rispetto a quanto non avve-nisse nei secoli medievali, un’«officina» (1996).

Le declinazioni cinquecentesche di «officina» sono le più varie, ma spesso proprio insensate, nel proiettare lo sperimentalismo fabbrile sulla «ma-niera moderna». Si faceva a Firenze la mostra L’of-ficina della maniera (1996), il cui titolo conteneva una contraddizione in termini, perché la «manie-ra» moderna, nell’accezione vasariana, era intesa all’insegna del superamento della «fatica», della «difficoltà», della dimensione di bottega medievale che, invece, la parola «officina» implica. Analoga perplessità: «officina parmense», nella congiuntu-ra dominata da Correggio e Parmigianino, oggi è la moneta corrente (benché «manierismo» non sia del tutto fuori corso); in nome dell’anti-tradizione «officina» si lega in effetti a importanti ricordi di neoavanguardia. Longhianamente, quindi, l’«offi-cina emiliana» unisce Correggio a Guercino e Lan-franco (2006).

Ogni realtà locale diventa «officina». Si parla di «officina veronese» (2007) o, in senso molto di-verso, di «officina farnesiana» (2001). Perciò le officine nel Cinquecento sono una miriade. Ogni artista opera al centro di un’«officina». Accezio-ni particolari sono spesso di grande interesse. C’è un’Officina Dürer, titolo di catalogo sfornato dalle officine Skira (2007). Officina di Rembrandt (1988), edizione italiana di un saggio fortunato, restituisce un quadro socio-culturale che prima non si sentiva il bisogno di esplorare. La casa di Pietro da Cortona si presta – molto meglio che la corte di Borso d’Este – a diventare un’«officina» (1997) perché l’odierno storico dell’arte, al di là delle tradizioni filologico-stilistiche, tende ad avvicinarsi al maestro, alla sua cultura personale, ai suoi concreti metodi di lavoro.

Al grande Settecento veneto si riferisce «officina veneziana» (2002). Una mostra si intitola L’offici-na neoclassica (2009). Proiezioni di un modo mo-derno di pensare operatività e sperimentalismi? La

La nozione di «officina» è oggi tra le più comune-mente adoperate da chi scrive di storia dell’arte. Più di mille titoli nel solo catalogo digitale on-line del Kunsthistorisches Institut di Firenze rispondono a «officina»: e si infittiscono sul finire del Novecen-to, riguardando l’arte contemporanea fino alle più recenti sperimentazioni, ma anche l’età medievale e moderna.

Per i medievisti si tratta di indagare, in contrasto con gli approcci teorici più tradizionali della disci-plina, la dimensione operativa interna alla bottega o al cantiere: la dimensione dello sperimentalismo artigiano, della specializzazione tecnica, della ma-nualità fabbrile e anonima. Così l’Italia medievale, oggi, pullula di officine. Officine del mosaico, a par-tire dall’età paleocristiana. Officine della miniatu-ra. Officine marmorarie (come quelle romane dei secoli VII-IX). Officine cosmatesche. Officine del vetro. Le «Officine lombarde», poi, si spostano per l’Italia in lungo e in largo, per spiegare fenomeni diversi: «officina» è parola-chiave che si piega a schemi interpretativi dinamici, in senso storico-artistico, con particolare riguardo alla scultura. Fino, per esempio, a collegare l’«officina parmen-se» a un’«officina antelamica» di Puglia (2002)1. Dire «officina pisana» (2006) in riferimento al XIII secolo suona meno forzato, meno accademico che dire «scuola pisana». Ma si tende a parlare di of-ficine pittoriche medievali molto meno di quanto, curiosamente, non accada oggi per l’Italia rinasci-mentale dopo Officina ferrarese (1934) di Roberto Longhi; già nel 1937, del resto, Silvio Ferri parlava di «officina scultoria romana».

Sul Quattrocento Ferrara la fa da padrona. An-cora oggi dire «scuola ferrarese» suona più accade-mico, quindi anche più inadeguato, in certo qual modo, che dire «officina ferrarese». Forse perché «officina» è vocabolo di lontana accezione futu-rista? Usciva La grande officina di André Chastel (Le grand atelier d’Italie, 1966: sarebbe interessante una storia del termine atelier, vincolato com’è alla cultura artistica contemporanea), e l’Italia delle

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mostra L’officina del mago (2003) era, del resto, un consapevole omaggio alla Casa del Mago di Fortu-nato Depero.

Gli strumenti e i criteri valutativi del presente si confrontano con quelli del passato. Così parliamo anche di «officina di Bellori» (2006). Di «officina» di Crowe e Cavalcaselle (1981). Di «officina di Ro-berto Longhi» (2001): in riferimento al sistema di lavoro e alle conoscenze di storiografia.

Alla fine, non sarà oggi un caso che girino colla-ne editoriali come Officina dello storico, Officina del critico, Officina delle immagini.

La categoria novecentesca, nella duttilità degli schemi interpretativi a essa legati, continua a dare forma alla conoscenza. Ma che si guadagna e che si perde, oggi, iscrivendo la realtà varia di corte uma-nistica come quella estense dentro lo schema di «of-ficina», vocabolo che era stato marinettiano? Fatto è che certe pagine del catalogo Arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este (2007) sanno ancora di «impasto di scorie metalliche, di sudori inutili, di fuliggini cele-sti», quando descrivono la corte come una «fucina»: «una fucina, nella quale furono gettati nel crogiolo non solo diverse matrici stilistiche, bensì i contribu-ti di diverse esperienze tecniche senza pregiudizio gerarchico»; «perizia medievale», «fase seminale», «tensione sperimentale»2 sono gli aspetti di questa corte fabbrile, abitata non più da principi e umanisti ma da maestri che pensano come pensano gli storici dell’arte del XX secolo, preoccupati di intrecciare le matrici stilistiche di un’Italia che non è l’Italia delle corti, ma un grande atelier.

Lo schema storiografico rischia di fare sparire la realtà dei fatti, se adoperiamo categorie storiche che non sono del nostro tempo. Nel citato catalogo grande spazio è dato, invero, all’esame delle fonti di storiografia, dal Settecento a Longhi, tra Baruf-faldi, Lanzi, Laderchi, Venturi. Ma a scapito delle fonti coeve a Borso. Fonti che ancora, certo, non parlavano il linguaggio degli storici dell’arte. Vasa-ri, perdipiù, conosceva poco Ferrara, e per questa ragione gli autori sette-ottocenteschi, citati poi in Officina ferrarese, rimasero privi delle aperture sul-la tradizione umanistica che invece Vasari consen-tiva per Firenze.

Nelle pagine che seguono sono presi in esame – e messi in cortocircuito – alcuni vocaboli attestati nel Quattrocento ferrarese, fra volgare e latino, fra cultura tecnica e cultura umanistica, fra mondo

meccanico e mondo della corte. Tensione oppositi-va che, pure, Longhi aveva felicemente intuito: tra l’«officina» e il «padiglione fiorito». Dimensioni tra loro distanti, rese ancora più distanti dalle specia-lizzazioni disciplinari del nostro tempo.

«Officina»

Il vocabolo del latino classico, recuperato nel volgare letterario, vi mantenne la irriducibile acce-zione negativa, se per Dante e Petrarca «officina» richiamava le più sporche operazioni di alchimia3. Un’idea di quanto sporche è resa a Ferrara da un «Comto di dibituri e credituri», stilato nel 1452 dal pittore miniaturista Taddeo Crivelli, che insie-me ai nomi di decine di garzoni addetti a pestare, polverizzare, cuocere, carbonizzare le sostanze più disparate vi annotò, con la competenza che oggi lo storico non possiede, ricette per preparare stru-menti e supporti, ottenere pigmenti e media, l’«o-leum filosoforum» (fatto di «solfaro vivo», «arseni-co», «tucia mazarabia», «caraba», «mercurio rubifi-cado», «fiele bovino») o il «crocofero» (di velenoso orpimento, «azale», «salnitro» ...)4. Da una simile alchemica fucina uscivano le pagine della Bibbia di Borso d’Este.

Ma anche i «tramonti di croco ossificato» di Co-smé Tura, certo, uscivano da una simile alchemi-ca fucina. Come pure la «Dea terribile e pungente come un idolo di Borneo»: terribile perché? Perché, nella tradizione vasariana, superiore alla capacità di valutazione razionale del descrittore. E «pungente idolo di Borneo»? Forse in ricordo di una visita di Longhi al Museo di Palazzo Nonfinito, che da al-cuni decenni esponeva oggetti indonesiani, idoli di Borneo, trofei di Giava e di Sumatra, amuleti, brac-ciali di avorio, marionette, armi di denti di squa-lo della Micronesia, collane di dischetti di uova di struzzo. «Conchiglie, buccine, perle, tritoni, graco-le, grotte, origlieri» si devono all’artista mago, stre-gone, astrologo di Borneo.

D’altra parte, al nesso pliniano «officina ferraria» si avvicina fonicamente il titolo di Longhi. Un «che di ferreo che già punta sul Tura», infatti, può anche significare estrazione plebea, pratiche vernacole di strumenti, di tecniche, di cose fabbrili. Un che di ferreo, insomma, che sembra puntare anche sul famoso «trescone di villani»; nel 1470 dal mondo

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tecnica destinata a grande fortuna nel linguaggio figurativo (fino alla settecentesca «pittura di toc-co»). Se ne chiarisce il significato in relazione al procedimento, tutto interno alla pratica di bottega, della lavatura accessoria, «aquarella», sovrapposta ai tracciati lineari. La visibilità del procedimento descritto, inammissibile nell’opera finita, si tollera evidentemente su un cartone. Forziamo il docu-mento: «toccare» si diceva della mano del pittore, che si posa sulla carta, sui materiali, sugli strumenti.

La mano di Cosmé «toccava» i disegni, pure quel-li che tornano visibili agli infrarossi ma oggi anche a occhio nudo, i tracciati lineari impetuosamente incrociati che preparano gli effetti volumetrici del dipinto finito. E la materia in quanto «toccata» di-venta figura, per via di modellatura, e vive pur re-stando materia sporca, liquida. Il tocco che ha la priorità sulla vista ripete la Creazione. È così che per Cosmé pittura e scultura sono una cosa: il pla-sticismo che la superficie «toccata» genera è fatto anche di geometria piana, di linee, di tratti, di ango-li. Dentro l’officina, dove nessun principe né uma-nista poteva vederlo, Tura disegnava cose come Er-cole col Leone Nemeo9, un foglio che ostenta segni poderosi di penna a inchiostro marrone con rialzi in bianco su carta ocra che alcuni credono «toccati» addirittura da mano cinquecentesca. Una potenza di tocco destinata a scomparire nelle stesure pitto-riche finite, per secondare le esigenze di diligenza, pulitezza, gentilezza.

«Diligentia»

Persino dal Tura si pretese, nel 1456, di ritoccare – «diligenter», «diligentissime» – il Cristo morto di un perduto gonfalone, dopo che un suo primo di-segno non era piaciuto. Quasi che lo si costringes-se a moderare nella «diligentia» tanta autonomia espressiva, tanta libertà esecutiva che si esercitava nella dimensione dell’officina10.

Il foglio dell’Evangelista11, tardivamente ritagliato lungo il contorno, appare più finito che uno schiz-zo: i «tocchi» di biacca sono controllati, «diligen-ti», chiaroscuro e segnoni marcati di nero scavano nervosamente le pieghe, prevalendovi un’attitudi-ne lineare tipicamente quattrocentesca, che sa però restare inconfondibilmente turiana. Con ancora più diligenza i lineamenti neri sono ricalcati nella

basso delle officine si levava la protesta di France-sco del Cossa che, nella sua nota lettera a Borso, lamentava di essere a corte «tratato et iudicato et apparagonato al più tristo garzone de Ferara», no-nostante la propria fama di pittore5.

Nel XVI secolo divenne addirittura un vanto per i principi sporcarsi le mani nella nera fucina di un dio fabbro, o toccare le opere di un «figulus» Pro-meteo. Ma resta impressionante, per ora, il ricordo della fantesca sordida, immaginata da Luciano, che ammoniva: se diventerai scultore «non sarai altro che un facchino, che dovrà lavorare duramente per un compenso magro e servile; ti toccherà baciar basso, e in pubblico farai figura d’uomo da nulla, confuso con la plebaglia»6.

«Dissigni», «cartoni», «patruni»

«Studio» e «fatica» sono già i termini orgogliosa-mente usati da Cossa, nella lettera citata, in difesa del proprio mestiere: alludeva egli a una concreta dimensione di officina, dove l’esercizio grafico era tra le prime attività di un artista italiano ormai con-sapevole della propria individualità poetica. I dise-gni servivano, poi, per regolare i rapporti tra ma-estri e committenti, e se dovessimo seguire la sola via documentaria, attraverso i documenti notarili, conosceremmo Tura più che come pittore come di-segnatore, in quanto fornitore di «dessigni», «car-te», «grandi carte», «cartoni», «patroni». Del resto, Vasari riteneva Cosmé «migliore disegnatore che pittore».

Così nel 1471, alla morte del maestro, tutti i fogli ritrovati nell’officina, tra chissà quanti studi prepa-ratori e schizzi che oggi avrebbero quotazioni al-tissime se non fossero andati persi, dovettero valu-tarsi, per così dire, secondo l’ottica del «padiglione fiorito»: essi non rispondevano alle «esigenze este-tiche della cerchia locale, principesca per eccellen-za», erano vile materiale di bottega («omnia designa et alia quæ spectant ad artem picturæ»)7.

«Tocado de aquarella»

Un «carton designato cum una festa ala antiqua» veniva detto «tocado de aquarella» in un docu-mento del 14698. «Toccare» già implica l’accezione

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vece, si adeguava alla «gentilezza» l’arte di Cosmé, così poco «antiquaria» – eppure quanto donatellia-namente moderna, e quanto soggettivamente fan-tasiosa nelle invenzioni liminari e di architettura.

Ma gli orientamenti di gusto di Borso, che ama-va il decoro all’antica ridotto a gentilezza minuta, a fattura preziosa e polita, stridevano fortemente con la cultura antiquaria come la si intendeva a Roma, nella contemporanea corte papale. Borso nel 1471 portò a Roma la Bibbia per dare prova di quale fa-sto materiale egli si circondasse, ma ottenne di es-sere giudicato personaggio frivolo, probabilmente anche provinciale, perché legato a modi desueti di fasto cortese, a mode franco-borgognone17. Se, da un lato, lo stesso Decembrio disapprovava la fatua ostentazione, dall’altro persino Cossa, nell’opporsi al committente, criticava la lussuosa varietà poli-materica dei costumi di Schifanoia, che sminuivano le capacità mimetiche della pittura modernamente esaltate da Alberti18.

Certo, la frivolezza desueta di questi ritratti di corte era lontanissima dalla ritrattistica poco orna-ta, per così dire, chiara e ideale, del Pisanello. Così come dalla maestosa narrativa, in certo qual modo inelegante, del Beato Angelico romano.

«Sottigliezza»

La sottigliezza – una qualità essenzialmente line-are, in senso pliniano – si esigeva ai pittori come agli intagliatori e ai miniatori. Come quando nel 1447 era compensato tale «maistro Zorzo, lo quale ha amidiato sotilmente» un breviario per Leonello d’Este19. Può suonare pomposa e un po’ ridicola l’espressione «magister lignarius nobilissimus», «magister lignarius subtilissimus», riferita a un Ar-duino intagliatore, nobilissimo in quanto sottilissi-mo20. D’altronde, l’atto di incidere e di intagliare si nobilitava umanisticamente al confronto con l’«ex-politio» del letterato, che lavorando sottilmente rendeva il testo nitido e luccicante come una pre-ziosa gemma antica21. Si ricordi il vocabolo quin-tilianeo – nonché albertiano – di «circumscriptio», riferibile anche ai tracciati finemente incisi nelle pietre dure, incisi appunto con un fare lineare e sottilissimo22.

Alla nostra sensibilità, però, la perfezione forma-le delle miniature impersonalmente gentili, come

Figura femminile alata con sfera12, che infatti è un foglio dell’officina di Tura, messo a disposizione degli artigiani.

«Politezza», «gentilezza»

I progetti si esigevano, in genere, chiari e per-fettamente finiti, disegnati con estrema politezza. Come nel caso delle otto divise di Borso d’Este che nel 1452 un pittore si impegnava a disegnare «suso una carta polidamente de bon e de boni coluori»13, perché gli artigiani ne ricalcassero facilmente i li-neamenti.

La politezza si ricerca ancora di più nell’opera di-pinta, finita («in ea arte politior ceteris et dignior in ducendo varios vultus», «bonis coloribus, ornate et polite» ...)14. Lo imponevano le esigenze estetiche: Decembrio spiegava il titolo De politia litteraria (ca. 1470) ricorrendo all’accezione tecnica di «po-lire», «unde ipsa politia vel expolitio», riferita per così dire alla propria officina letteraria. Sia pure concettualmente, Decembrio così non faceva che nobilitare certe nozioni della pratica artistica, pur restando convinto della tradizionale inferiorità alle lettere delle arti visive, perché manuali, perdi-più praticate in tempi moderni da artisti indocili e troppo infiammati di rivalità e orgoglio individua-le: «quos nunc mutua novimus æmulatione laces-siri»15.

Non a caso la «politezza» si sposava con la «gen-tilezza», soprattutto nell’illustrazione dei codici che richiedeva un grado di finitezza supremo. Nel 1450, per esempio, in pieno fervore di Belfiore, l’or-namento su di un codice estense, «intorno intorno a l’antiga», veniva descritto come «lavorato intorno intorno el margene, quanto è grande, bellissimo e adornado zintilmente»16, quasi che i richiami di gu-sto anticheggiante (architetture, acanti, girali) po-tessero rendere «gentile» la fattura di un manufatto tradizionale che, d’altronde, si sapeva uscito da una fucina diabolica come quella ricordata di maestro Taddeo. Le qualità richieste per disposizione con-trattuale sembravano davvero riconducibili alla sfe-ra dei codici di comportamento, quasi che si sen-tisse il bisogno di educare, disciplinare, adeguare il mondo delle botteghe al linguaggio cortese. In tal senso la miniatura si doveva proprio credere più «gentile» della pittura, più nobile. Difficilmente, in-

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le potevano apprezzare gli umanisti, appare cosa diversa dalla sottigliezza acuminata e pungente di Cosmé, che è prova, anzi, di strenua affermazione personale, pienamente italiana e moderna.

«Forma», «archetypos», «emplastrum», «figmentum»

I latinisti rinascimentali non concepivano di sporcare la loro prosa elegante con i vocaboli e le nozioni provenienti dalla pratica delle officine, ri-guardanti per esempio la condotta, più o meno diligente, gentile o sottile di «dissigni», «patruni», «aquarella». A meno che non si prendessero in considerazione termini tecnici del greco e del latino che, riferibili comunque a moderni procedimenti tecnici, ne permettessero una sorta di nobilitazio-ne, anche se solo a livello concettuale.

In un passo del De politia – che era sfuggito a Baxandall – si definisce «archetipo» come «prima tra le forme»:

ajrcivtupo", archytupus, ‘princeps formarum’, imagi-num, statuarum vel signorum. Reperitur et archetypos et archetypon in neutro, nomen primi signi velut esempla-ris23, ex quo simillima conficiuntur ad eius mensuram, cuiusmodi soleas ligneas calceariorum putaremus. Et hæc cum ajrchv, quod ‘principium’ est, superius autem cum ajrcov"24.

«Forma» richiamava anche il pliniano foggia-re «figmenta»25 che altro non era che il lavorare la terra, lo stucco, la cera, il gesso in funzione del riporto della forma per mezzo del calco. Tutto ciò secondo una pratica antica tornata in auge a Ferra-ra grazie all’avvio della fiorente bottega di bronzi-stica, parallela a quella donatelliana di Padova. Nel 1443 si bandiva il concorso per la realizzazione del monumento equestre alla memoria di Nicolò III, e per volontà di Leonello i primi umanisti di corte, tra cui si trovò coinvolto Alberti, furono chiamati a giudicare i progetti – «imagines perpulchrae» – presentati dai maestri («vult princeps ut sapientes deliberent»)26.

Ne derivò un intenso confronto tra competenze diverse, tecniche e letterarie, che trova riflesso, a livello linguistico, sui contemporanei testi notari-li. Questi iniziano a riferirsi alle nuove figure dei «figuli» e «sculptores», fonditori e bronzisti, con la

conseguente affermazione, tra l’altro, del termine classico «statua», attestato ormai in riferimento ad attività coroplastiche e fusorie27; «forma», nel senso di modello, di «emplastrum», si attesta perciò sem-pre più spesso nei riguardi di modelli di terra o di cera o di gesso28 – «forme da zitare figure» (1442), «imagini di terra» (1448) – da sottoporre preventi-vamente al giudizio del principe29.

Che la statua bronzea, una volta rinettata, fosse affidata alla mano del pittore, che provvedesse, dili-gentemente e sottilmente, alla stesura delle doratu-re (come nel caso del citato monumento equestre, affidato a uno dei pittori di Belfiore, Michele Pan-nonio)30, di certo significava «ingentilire» l’opera, assimilarla cioè alla pittura così da allontanarla dal-la sporca dimensione di fucina vulcanica.

Del resto, anche il tradizionale maestro tagliapie-tre e intagliatore si nobilita umanisticamente come «lapidum incisor» (1436, 1437, 1439 ...)31 o «incisor lignaminis» (1440, 1441 ...)32, di certo in riferimen-to a ornamenti lineari di gusto antiquario, di su-perficie. La «nobiltà» dell’artefice si lega infatti alla capacità di resa sottile.

«Lineamentum», «liniamentum»

Nessuna delle nozioni umanistiche permette però di risalire allo schizzo come lo intendeva-no, almeno nelle valenze più espressive, i maestri dentro le loro officine. A livello mentale, in effetti, Decembrio era in grado di distinguere, in un altro passo sfuggito a Baxandall, l’accezione pittorica di «liniamentum» da quella più astratta di «lineamen-tum», l’insieme dei tratti somatici che permettono di riconoscere il figlio e il padre (quasi che, in certo qual modo, anche il «liniamentum» fosse figlio del «lineamentum»):

Liniamentum in coloribus vel picturis cum secunda i, li-neamentum cum e in venarum et oris dispositione, qui-bus filius ex parente dignoscitur33.

Distinzione sottilissima, memore forse di Pier Candido Decembrio, padre di Angelo, che già nel 1435 aveva spiegato – ciceronianamente – il senso del «liniare» pensando al tracciato materico delle linee che esprimono, proprio attraverso movimenti della mano, la «prima idea» concepita nella men-

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te («primum idea [...] mente concipiunt»), che si precisa poi nella resa delle membra e dei dettagli («subinde notas in reliqua membra distinguunt»)34.

Dottissime e ben note parole nel De politia litte-raria erano messe in bocca a Leonello d’Este: se-condo cui le opere d’arte andavano apprezzate non in ragione di minute rifiniture di dettaglio, tipiche della pittura medievale o nordica e gradite al po-polo ignorante, ma, sull’esempio della statuaria antica, in considerazione della bellezza fisica dei corpi nudi dai bei «lineamenti» («lineamentorum oris nudi vel corporis subtilitas»)35. In questo sen-so, forse, il bel disegno era inteso discendere dai bei lineamenti, come insegnava l’osservazione delle statue antiche. Così, anche su un ritratto o su una medaglia moderni erano ritenuti motivo di grande lode i «liniamenta» con cui l’artista sapeva esprime-re, nella massima essenzialità (in contrasto con gli inutili riempitivi della pittura nordica), i tratti di un volto o di una figura. Già in una sua lettera del 1416 Guarino aveva fatto allusione alla percezione del bel disegno nelle opere d’arte antiche («liniamenta cernuntur»), riferendosi anche ai ritratti equestri di bronzo dorato. Ma i disegni sono muti, aggiunge-va, a differenza della scrittura che, sola, assicura la gloria36.

Perciò anche un semplice disegno contornato a carbone, da Leonello inteso plinianamente, stavol-ta, come tracciato di «liniamenta» condotti nella consueta politezza e sottigliezza, era degno di am-mirazione, purché il pittore fosse stato fedele alla fonte letteraria, a un’idea, a ciò che Alberti aveva chiamato «storia»37.

Carmelo Occhipinti

1 Segnalo per brevità l’anno di pubblicazione, da cui il lettore potrà risalire, dal catalogo digitale on-line, al titolo completo.

2 F. Toniolo, La miniatura a Ferrara: crogiolo delle arti, in Cosmè Tura e Francesco del Cossa: l’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, a cura di M. Natale, Ferrara 2007, pp. 111-123, in part. 111.

3 Numerose attestazioni nel Vocabolario degli accademici della Crusca, in Venetia 1612.

4 In A. Franceschini, Artisti a Ferrara in età umanistica e rinascimentale. Testimonianze archivistiche. Parte I dal 1371 al 1471, Ferrara 1993, pp. 827 sgg.

5 Franceschini 1993, doc. 1204. 6 Luciano, Somn. 9, per cui R. e M. Wittkower, Nati sotto

Saturno. La figura dell’artista dall’Antichità alla Rivoluzione francese, Torino 1968 (ed. or. London 1963), p. 14.

7 Franceschini 1993, doc. 1235.8 Ibid., p. 739, doc. 1159 f.9 Rotterdam, Museum Boijmans van Beuningen, inv. I 180.10 Franceschini 1993, docc. 808 e 815.11 Firenze, Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, inv.

2068F.12 Berlin, Kupferstichkabinett, Staatliche Museen, inv. KdZ

505.13 Franceschini 1993, p. 384 (del 1452 ca).14 Ibid., docc. 582 d (del 1447), e 539 (del 1445).15 A.C. Decembrio, De politia Litteraria, a cura di N.

Witten, Leipzig 2002, p. 427 (il passo è discusso anche in M. Baxandall, A Dialogue on art from the court of Leonello d’E-ste. Angelo Decembrio’s ‘De Politia Litteraria’ pars LXVIII, «Journal of the Warburg and Courtalud Institutes», 26, 1963, pp. 304-326, in part. 315, e più di recente in S.J. Campbell, Pictura and scriptura: Cosmé Tura as courtly performance, «Art History», 19, 1996, pp. 267-295, in part. 282, cui si rinvia per ogni approfondimento bibliografico).

16 Franceschini 1993, p. 824, doc. App. 25 (del 1450).17 L. Syson, Lo stile di una signoria: il mecenatismo di Borso

d’Este, in Cosmè Tura e Francesco del Cossa, pp. 75-88, in part. 77 e 85.

18 Secondo la lettera citata supra.19 Franceschini 1993, p. 280, doc. 585a, datato 18 gennaio

1447.20 Ibid., doc. 461n (1441).21 Decembrio 2002, pp. 425, 534.22 Ibid., p. 430: «Videtisque præterea in quotidianis anulo-

rum cæsuris domorum insignia heroumque circumscriptiones figurari locis quantumvis angustissimis».

23 Attestazioni tecniche di «exemplaria» sono state di recen-te esaminate in Campbell 1996, p. 283.

24 Decembrio 2002, p. 492. Cfr. anche C. Occhipinti, Il disegno in Francia nella letteratura artistica del Cinquecento, Firenze 2003, ad indicem.

25 L.B. Alberti, nel De equo animante chiamava «formae» anche i fantocci in figura umana impiegati nell’addestramento dei cavalli (Le cheval vivant, a cura di J.-Y. Boriaud, Paris 1999, pp. 56-58).

26 Franceschini 1993, doc. 511 (del 1443).27 Ibid., doc. 493 (1443).28 Ibid., pp. 265 e 823, doc. App. 23, d.29 Ibid., docc. 481q, 952q, 601m. «Forma» ricorre nei docu-

menti su Belfiore in riferimento a «forme de formaio de va-

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cha», forse per ricavarvi la caseina per fare la colla, più credibil-mente per saziare l’appetito dei maestri (doc. 606n).

30 Ibid., docc. 582c (1447), 583cc (1447), 585c (1447), 657o (1450), 690 (1452).

31 Ibid., docc. 419 (1436), 426 (1437), 441n (1439).32 Ibid., docc. 461l e 461b.

33 Decembrio 2002, p. 533.34 Citato in Baxandall 1963, p. 307.35 Decembrio 2002, p. 427.36 R. Sabbadini, Epistolario di Guarino Veronese, I, Venezia

1915, pp. 125-126.37 Decembrio 2002, p. 428.

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2012in Pisa dalle

Edizioni ETSPiazza Carrara, 16-19, i-56126 Pisa

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