Conferenza dei Leader parlamentari - Interventi

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CONFERENZA LEADER PARLAMENTARI dei Sconfiggere il populismo, promuovere un governo equo e progressista Sala della Regina, Camera dei deputati Roma, 14 e 15 gennaio 2011

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CONFERENZA dei Leader parlamentari - Sconfiggere il populismo, promuovere un governo equo e progressista - Sala della Regina, Camera dei deputati Roma, 14 e 15 gennaio 2011 Il presente volume riproduce gli interventi svolti nel corso della Conferenza dei leader parlamentari “Sconfiggere il populismo, promuovere un governo equo e progressista” promossa dal Gruppo parlamentare del PD e tenutasi presso la Sala della Regina della Camera dei deputati il 14 e il 15 gennaio 2011.

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CONFERENZALEADER

PARLAMENTARIdei

Sconfiggere il populismo, promuovere un governo equo e progressista

Sala della Regina, Camera dei deputati Roma, 14 e 15 gennaio 2011

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Il presente volume riproduce gli interventi svolti nel corso della Conferenza dei leader parlamentari “Sconfiggere il populismo, promuovere un governo equo e progressista” promossa dal Gruppo parlamentare del PD e tenutasi presso la Sala della Regina della Camera dei deputati il 14 e il 15 gennaio 2011.

L’ascolto delle relazioni in lingua straniera era assistito da un servizio d’interpretariato simultaneo. Tali rela-zioni, come anche quelle svolte in italiano, sono state riportate elaborando le registrazioni foniche.

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Rosy Bindi

Discorso di benvenuto ......................................................................................5

Lapo Pistelli

Introduzione - Il ruolo dei parlamenti nelle democrazie moderne .................7

Massimo D’Alema

Relazione - Le sfide del mondo nuovo per i partiti progressisti ....................11

SESSIONE 1Come vincere un secondo mandato realizzando un’agenda progressista

Matt Browne

Introduzione - Guardare con fiducia ai cambiamenti .................................27

Jennifer Palmieri

Gli Stati Uniti dopo le elezioni di “mid-term” ............................................... 31

Maria Murillo

Il caso spagnolo ..................................................................................................34

Nick Reece

L’esperienza australiana ..................................................................................39

Stavros Lambrinidis

Dopo la grande crisi .........................................................................................46

Girija Vyas

La più grande democrazia del mondo .............................................................53

CONCLUSIONI

Pierluigi Bersani

Costruire un’agenda progressista su scala europea ..........................................57

indice

Prima giornata

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SESSIONE 2Progressismo contro virus populista

David Sassoli

Relazione introduttiva - Rivitalizzare il sogno europeo dopo le ultime elezioni ..............................................................................................................63

Antonio Estella

Introduzione ....................................................................................................67

Raymond Johansen

L’esperienza scandinava...................................................................................68

Enrico Letta

Oltre Berlusconi ................................................................................................73

Frans Timmermans

Il disagio olandese .............................................................................................80

Justin Trudeau

La politica della speranza contro la politica della paura ...............................84

DIBATTITOTony Lloyd ..............................................................................................93

Matt Browne ...........................................................................................93

Girjia Vyas ................................................................................................94

Lapo Pistelli ...........................................................................................95

Antonio Estella ....................................................................................96

Enrico Letta ............................................................................................96

Frans Timmermans .................................................................................97

Justin Trudeau ........................................................................................98

Raymond Johansen ...............................................................................99

David Sassoli ........................................................................................100

Seconda giornata

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SESSIONE 3Dall’opposizione al governo: nuove leadership, nuove idee

Tobias Piller

Introduzione ..................................................................................................105

Tony Lloyd

Le nuove sfide dei laburisti ............................................................................106

Akira Nagatsuma

I compiti dei democratici giapponesi al governo ........................................... 110

Carolina Toha

Una nuova generazione per un nuovo centrosinistra in Cile ..................... 113

Victor Ponta

Come riconquistare il futuro .......................................................................... 118

DIBATTITOTobias Piller .........................................................................................125

Matt Browne .........................................................................................125

Tony Lloyd .............................................................................................126

Carolina Toha ......................................................................................127

Nick Reece ..............................................................................................128

Justin Trudeau ......................................................................................129

Stavros Lambrinidis ............................................................................130

Raymond Johansen..............................................................................131

Girija Vyas ..............................................................................................132

Tobias Piller .........................................................................................132

Akira Nagatsuma ..................................................................................132

Tobias Piller .........................................................................................133

Tony Llyod..............................................................................................133

CONCLUSIONI

Dario Franceschini

Come proseguire questo lavoro .......................................................................135

Appendice

Biografie ..........................................................................................................139

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Discorso di benvenuto

Rosy BindiSono veramente lieta e onorata di darvi il benvenuto qui alla Camera dei deputati, anche a nome del Presidente Fini, e di ringraziarvi per aver accolto il nostro invito, per aver accolto l’invito del partito, del gruppo parlamentare del Partito democratico che ha scelto Montecito-rio per una conferenza che vuole mettere a confronto culture politiche, esperienze parlamentari progressiste e riformiste del vecchio continen-te con quelle del Nord America e dei paesi emergenti. È una grande opportunità di reciproco ascolto e di scambio sulle difficili sfide di que-sto tempo, segnato da profonde trasformazioni sociali, da una grave crisi economica e finanziaria nel mondo e da grandi cambiamenti. Nelle tre sessioni di lavoro in cui si articoleranno le due giornate di questa conferenza, avremo la possibilità di approfondire la conoscenza dei diversi contesti politici e istituzionali e di riflettere insieme sul fu-turo e sulla qualità della democrazia. Non a caso è stata scelta la sede parlamentare come luogo di confronto: le culture politiche e democra-tiche progressiste hanno sempre investito sulla forza e sulla centralità dei parlamenti come luoghi di rappresentanza diretta e di formazione della volontà popolare. Questa centralità è oggi offuscata sia dalle ide-ologie populiste e plebiscitarie sia dalla difficoltà di governare, attra-verso le politiche pubbliche, i nuovi processi economici e sociali. La nostra ambizione, invece, è quella di affermare una cultura politica capace di restituire dignità, autorevolezza ed efficacia alle istituzioni democratiche, una cultura politica capace di guidare i processi del-la globalizzazione, di interpretare il cambiamento del mondo, i nuovi equilibri che si sono formati, le nuove sfide che abbiamo di fronte a noi, le diverse conseguenze che la globalizzazione dei mercati finanziari ha creato nelle varie parti del mondo. Accanto a nuove opportunità per i paesi emergenti, si consuma anche una crisi profonda, soprattutto nel mondo occidentale, che la destra non è stata capace di interpretare e di

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governare, come non è stata capace di governare i grandi proces-si di cambiamento. La destra si è chiusa nelle paure, ha investito nell’economia della guerra, ha contribuito a creare disuguaglianza. Noi siamo invece qui chiamati ad una profonda innovazione di pensiero e di strategia, a superare vecchi schemi del passato e una diffusa subalternità culturale anche ai credo neo-liberisti. Si tratta di aprire un orizzonte nuovo, senza perdere di vista il nostro an-coraggio ai principi della democrazia, della partecipazione, della solidarietà, della giustizia sociale e della pace. Anzi, questi principi devono ispirare la guida del nuovo mondo che vogliamo costruire, attraverso il confronto del nostro lavoro parlamentare, del lavo-ro delle nostre forze politiche, individuando anche nuovi luoghi e nuovi strumenti. Questa conferenza dimostra che il pensiero democratico può pren-dere corpo e forma nell’incontro tra culture ed esperienze diverse: il pensiero democratico non è imprigionabile né in un’ideologia né in un confine nazionale né in un continente né in una fede, per sua natura è plurale e capace di incarnarsi in tutte le culture, in tutte le storie, in tutti i processi. Consentitemi di dire anche che in Italia la sfida del Partito democratico è stata esattamente quella di scom-mettere sulla possibilità di una forza politica che non ha voluto imprigionarsi neanche nelle storie del passato, ma che ha la voglia di aprirsi al futuro per guidare nuovi processi. Aver organizzato questa conferenza, questa grande opportunità per la quale voglio ringraziare il gruppo parlamentare, il partito e Lapo Pistelli, autore principale di tutto ciò, sta a dimostrare la nostra volontà di dare anche un’altra dimensione al pensiero democratico, che è appunto quella del mondo intero. Il pensiero democratico si candida a guidare e a non subire le trasformazioni del mondo e per questo vuole anche trovare nuovi strumenti e nuove possibilità. Io credo che da questo incontro può nascere uno strumento per crescere insieme. Per questo, auguro a tutti un buon lavoro e sono sicura che i frutti saranno abbondanti.

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Lapo Pistelli IntroduzioneIl ruolo dei parlamenti nelle democrazie modernePermettetemi innanzitutto di salutare, a nome del Partito demo-cratico, gli ospiti stranieri che hanno accettato il nostro invito e specialmente coloro che ci hanno raggiunto a Roma letteralmente dai quattro angoli del mondo: Canada, Cile, Giappone, Australia e India. Spero che abbiate fatto un buon viaggio e che la vostra permanenza qui a Roma, la città eterna, sia piacevole. È per noi un piacere e un onore poter ospitare questo momento di dialogo di così alto livello in una fase della storia che mi sembra di stra-ordinario interesse e di grande cambiamento. Dato il tempo assai misurato a nostra disposizione, desidero dare il buon esempio ed entrare subito nel vivo di questa comunicazione introduttiva dal titolo “Il ruolo dei parlamenti nelle democrazie moderne”. La mia domanda di partenza potrà suonare sinceramente provo-catoria: «I parlamenti sono ancora una cosa moderna, una cosa at-tuale?”. Lo dico da membro del Parlamento, rivolgendomi a molti autorevoli membri di Parlamento, avendo visitato, dato che sono un uomo fortunato, molti dei vostri parlamenti, parlando in una delle sale più prestigiose del Parlamento italiano. Perché questa domanda? E soprattutto come rispondere?Duecento anni fa, circa – con alcune notevoli eccezioni anche più antiche – abbiamo sperimentato in Europa e anche altrove, in America latina e negli Stati Uniti, i primi parlamenti elettivi. I partiti politici non esistevano a quel tempo. I diritti civili e politici erano individuali. Eravamo molto lontani dal suffragio universale (le donne, i non abbienti, gli analfabeti non potevano votare). Ma un primo pezzo della società, non più soltanto i nobi-li, faceva il suo ingresso sulla scena politica, con la ferma volontà di cambiare le regole dell’economia, i rapporti sociali, limitando i poteri della monarchia. Le monarchie costituzionali, le Car-

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te costituzionali rappresentarono la frontiera più avanzata che la politica aveva saputo costruire. C’era un pensiero politico dietro questa idea: una nuova divisione del potere fra Esecutivo, Legislativo e Giudiziario e la Costituzio-ne come documento fondamentale per inquadrare questo nuovo equilibrio politico. Ricordate due famosi film, “Quarto Potere” di Orson Welles e “Quinto Potere” di Sidney Lumet. Questi due film hanno messo in luce come nel mondo contemporaneo, l’equilibrio dei poteri non fosse più capace di incorporare e comprendere il potere della comunicazione: stampa e televisione. Per rimanere a Hollywood, pensate al recente film “The social network” dedicato al fenomeno di Facebook. Pensate a Mark Zuckenberg scelto come “Uomo dell’Anno 2010” da Time, che è prevalso su Julian Assange, il creatore di Wikileaks. Parliamo stavolta del Sesto Potere, il po-tere della comunicazione via internet. Non limitatevi alla comuni-cazione. Almeno altri due poteri sono andati oggi ben oltre il ruolo che avevano nella vita dell’umanità del XVIII secolo: la tecnica e l’economia. Anzi, per essere precisi, il processo continuo della autonomizzazione della tecnica e dell’economia dalla sfera del con-trollo politico è ciò che abitualmente chiamiamo globalizzazione.Tutti coloro che sono qui oggi, i nostri amici stranieri, vivono e agiscono all’interno di sistemi politici differenti, dove il Parla-mento – al di là dell’essere temporaneamente in maggioranza o all’opposizione – ha poteri e ruoli diversi. Ma ovunque voi viviate e agiate, resta però vero per tutti che negli ultimi anni il Parlamento è percepito sempre più dall’opinione pubblica come un luogo lento rispetto al fluire della vita quotidiana, troppo complicato rispetto al bisogno di decidere velocemente. E non è casuale che in molti sistemi parlamentari classici il Governo ha gradualmente preso il potere di fare le leggi.Da qui, una seconda domanda. Questa dinamica globale colpisce nello stesso identico modo conservatori e progressisti? Secondo me, no. Io credo che si tratti di un malessere asimmetrico, che colpisce

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più duramente il campo progressista rispetto a quello conservatore. So che non è sempre facile tirare delle linee dritte fra conservatori e progressisti, specie in tempi di crisi, in tempi di globalizzazione che hanno ridotto lo spazio di manovra dei singoli Stati nazionali. Ma mi sento di dire, in termini generali, che i conservatori poggia-no assai di più sull’individualismo, sull’idea che il ruolo della poli-tica e dell’azione collettiva e pubblica debba essere ridotto. Semmai, ma credo che Justin Trudeau o Frans Timmermans ne parleranno domani, i partiti neo-conservatori sono capaci di cavalcare le paure, di pungere i nervi scoperti per poi offrire ad una società spaventata una grande “manona” protettiva. È tipico dei progressisti credere nella responsabilità sociale, credere nella politica come azione col-lettiva per coinvolgere le persone, per dare loro un’occasione, per dare loro voce quando sono più deboli, per rappresentare coloro che non sono in grado di proteggersi da soli. E il Parlamento è il luogo dove tutte queste facce, tutte queste voci, tutti gli aspetti della so-cietà contemporanea trovano rappresentanza. Oggi, almeno in Europa, noi affrontiamo, oltre che l’attacco da destra, anche un attacco più sottile e duro: l’attacco del populismo, quello che sminuisce il valore in sé dell’impegno politico, che at-tacca i politici e i loro privilegi. Conoscete la storia. Questo per dire come mai penso che il disagio sia in qualche modo asimme-trico. Nonostante le differenze fra noi, costituzionali e politiche, io penso che il Parlamento è sempre di più oggi il luogo in cui, più che fare leggi, si deve esercitare il controllo sul Governo; il Parlamento è il luogo in cui dobbiamo eleggere gente competente e di talento, per trasformare in soluzioni concrete quegli argomenti comples-si delle nostre società che la comunicazione e i media tendono a semplificare; il Parlamento è soprattutto il luogo in cui la comunità nazionale si ricompone nella sua diversità, il luogo di integrazione delle tante identità, il luogo dove un paese abbagliato dalla luce bianca della leadership politica carismatica restituisce tutti i suoi colori, tutte le sue sfumature.

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Noi desidereremmo dare vita ad un network, abituarci a lavorare assieme. Altri lo spiegheranno meglio in questi due giorni. L’economia è globale, la comunicazione è globale, la tecnica è glo-bale, i più difficili e irrisolti problemi sono globali. Se vogliamo essere all’altezza di questo nuovo mondo, anche la politica deve fare questo salto di qualità. Spero che ce la faremo.

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Massimo D’Alema

RelazioneLe sfide del mondo nuovo per i partiti progressistiSono grato per l’invito che mi è stato rivolto ad aprire questa im-portante iniziativa con una relazione sul tema “Le sfide del mondo nuovo per i partiti progressisti” e saluto i molti amici che sono venuti qui da diverse parti del mondo. Non è facile, oggi, tracciare un’agenda dei progressisti su scala internazionale. Vorrei partire, comunque, dal ruolo dell’Europa, cercando di affrontare la que-stione introdotta da Lapo Pistelli quando ha parlato di un asymme-tric disease. Muoverei da questa asimmetria e da questo paradosso, e cioè dal fatto che oggi nel nostro continente la crisi del centrosi-nistra europeo, il suo arretramento, sembrano andare molto al di là di quella fisiologica alternanza al governo tra forze di diverso segno politico che caratterizza le democrazie europee. Le forze di centrosinistra, in particolare i partiti socialisti, sono al governo soltanto in sei dei ventisette Paesi dell’Unione, e in nessuno dei maggiori tranne la Spagna. Esse sono state respinte all’opposizione persino in quei paesi dell’Europa scandinava che costituiscono per molti aspetti il modello socialdemocratico di maggior successo. Dobbiamo riflettere sul fatto che questo avviene nel momento in cui la crisi internazionale sembra colpire i pre-supposti di una lunga stagione neoliberale e ripropone per molti aspetti l’attualità dei nostri valori, dei nostri principi, della nostra visione della società. Vorrei aggiungere che solo dieci anni fa i socialisti erano al gover-no in quattordici degli allora quindici paesi dell’Unione europea e – come mi è capitato di ricordare – le riunioni del Consiglio euro-peo si svolgevano alla presenza del Presidente e di undici Vicepre-sidenti dell’Internazionale socialista. Sembravano quasi, al Con-siglio europeo, una rappresentanza del socialismo internazionale.

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Quanto è cambiato, da quel momento, nel corso di soli dieci anni! Forse è vero quello che il grande storico inglese Tony Judt ha scritto, poco prima di morire, nel saggio “III Fares the Land”, ossia che il socialismo è un’idea nata nel Diciannovesimo secolo e ha avuto la sua storia nel secolo Ventesimo. Tuttavia, in quello stesso saggio, Tony Judt difende appassionatamente i nostri valori, l’esperienza so-cialdemocratica, sulla base di una distinzione tra socialismo e social-democrazia che appare invero molto sottile dal punto di vista dell’a-nalisi storica, ma che è interessante anche sul piano culturale. Egli stesso, infatti, ci dice che il riferimento alla democrazia appare oggi come elemento non rinunciabile per una forza progressista moderna. A quali condizioni può esserci una ripresa dei progressisti? E in quale rapporto i progressisti europei, socialisti e non socialisti, debbono porsi di fronte alle esperienze progressiste, nuove e an-tiche, che in altre parti del mondo sembrano oggi prevalere di fronte alla crisi? È come se la globalizzazione avesse effetti fortemente contrastan-ti. Mi sono riferito più volte a quel suggestivo saggio di Dominic Moïsi sulla geopolitica delle emozioni. Egli distingue il mondo in un’area della speranza, un’area della paura e un’area del rancore e dell’umiliazione. Moïsi descrive come mondo della speranza quello dei grandi paesi emergenti o che tornano a essere prota-gonisti sulla scena internazionale, visto che è difficile parlare di Cina e India come di paesi emergenti. Si tratta, infatti, di paesi che tornano a essere grandi attori. In questo mondo della spe-ranza prevalgono le forze progressiste, che molto spesso non ap-partengono alla tradizione e alla storia socialista. Nel mondo più sviluppato, viceversa, Moïsi individua l’area della paura, quella che teme di perdere i privilegi conquistati nei secoli passati. Ed è qui che prevalgono le spinte conservatrici e prende corpo un populismo pesantemente regressivo. Non c’è dubbio che l’esperienza progressista in Europa ha dato un’impronta a una lunga storia passata, in particolare nel corso del

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dopoguerra, rendendosi protagonista di quella che Ralf Dahren-dorf chiamò “la quadratura del cerchio”: la capacità di conciliare lo sviluppo capitalistico con la democrazia e la giustizia sociale. Un patrimonio che, oggi, è messo brutalmente in discussione da un capitalismo selvaggio senza regole. È stata la globalizzazione a rappresentare la grande sfida che ha aperto una crisi nel riformi-smo europeo, innanzitutto perché la trasformazione della società e dell’economia ha colpito le premesse stesse di quel modello, e cioè la crescita progressiva e lineare della ricchezza, la struttura sociale dei nostri paesi basata sulla centralità dell’organizzazione fordista del lavoro, il ruolo e i poteri dello Stato nazionale. Nello stesso tempo, l’Europa soffre del fatto che la globalizzazione sta ridimensionando il ruolo stesso del nostro continente sulla sce-na mondiale. Un ridimensionamento vissuto con un sentimento di paura, di ostilità verso la competizione economica che viene oggi soprattutto dall’Asia, ma anche per la difficoltà di creare un rap-porto equilibrato con la crescita asiatica. Paura e ostilità nei con-fronti di una crescente immigrazione, che rappresenta la principale risorsa per l’Europa per poter reggere la sfida demografica, ma che, invece, è vissuta soprattutto come un pericolo, come una minaccia.Senza considerare, poi, il crescente peso di un conflitto di religione e di civiltà che sembra caratterizzare i rapporti tra l’Europa e il mondo islamico. Si appanna quel sentimento di fiducia nel progresso e nel futuro, che è stato a lungo lo spirito degli europei e nel quale il cen-trosinistra e il socialismo hanno trovato alimento e forza. La paura, invece, rafforza la destra. Parliamo non di una destra tradizional-mente liberale, ma di una destra di tipo nuovo, regressiva e populi-sta, che propone, come risposta alle incertezze del mondo globale, il riferimento alla terra e al sangue. Si tratta di un fenomeno che inve-ste anche gli Stati Uniti. Basti vedere quali forme viene assumendo la destra americana che fa un crescente uso politico della religione. Da noi c’è la visione di un’Europa cristiana, che appare in contra-sto con la stessa universalità del messaggio cristiano e che è incline

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a favorire l’idea di un conflitto di civiltà. È questa visione identita-ria, paurosa e ostile nei confronti della sfida della globalizzazione, che rappresenta il sostrato di una destra populista. Non c’è dubbio che essa appare più efficace, rispetto ai riformisti, nel rispondere a un bisogno di protezione e di identità che investe, in particolare, gli strati sociali più deboli e più indifesi nel mondo globalizzato. È evidente che nel rapporto tra socialismo e capitalismo, che ha ca-ratterizzato la storia europea, la globalizzazione ha introdotto una rilevante e decisiva asimmetria: il capitalismo è globale, i suoi cen-tri propulsivi e trainanti si trovano sempre più al di fuori dell’Eu-ropa, mentre il socialismo è un fenomeno esclusivamente europeo, che non ha saputo varcare i confini del nostro continente, il quale, oltretutto, perde progressivamente peso e centralità. Credo, allora, che tra i principali problemi che noi europei abbia-mo di fronte vi sia la costruzione di una risposta politica a uno sviluppo senza regole, che ha condotto a una crisi molto grave. Una risposta che vada oltre i confini storici, tradizionali, del nostro movimento, allargando, costruendo nuove convergenze e una piat-taforma culturale più avanzata e moderna. La crisi che stiamo vivendo, la grande crisi internazionale, dalla quale il mondo, in particolare quello più sviluppato, esce con mag-giore fatica, non è stata un incidente di percorso lungo il cammino delle “magnifiche sorti e progressive” del capitalismo globale. In realtà, questa crisi ha rappresentato la caduta di una illusione ide-ologica di un mercato che, liberato dai lacci e dai condizionamenti della politica, avrebbe garantito da solo una crescita ininterrotta, una redistribuzione virtuosa delle risorse. Sono tornate prepotentemente di attualità idee, criteri di interpre-tazione della realtà, visioni politiche che sembravano totalmente dimenticate, accantonate, e che per molti aspetti appartengono alla nostra tradizione. Direi che, per un certo periodo, di que-sto linguaggio si è appropriata anche la destra. Abbiamo vissuto una breve stagione, testimoniata da un’interessante copertina del

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“Time”, nella quale siamo tornati tutti socialisti. Un breve periodo di ritorno al socialismo, interpretato soprattutto come possibilità di attingere alle casse dello Stato per ripianare i debiti delle grandi banche internazionali. Questo è stato l’unico elemento di sociali-smo che ha funzionato per alcuni mesi, perché adesso mi sembra che torni quell’illusione di poter ricostituire puramente e sempli-cemente il meccanismo di sviluppo entrato drammaticamente in crisi nel 2008. Quel tipo di sviluppo, però, alimenta insostenibili disuguaglianze, non solo tra paesi ricchi e poveri, ma anche all’interno delle no-stre società. Più che mai ci sarebbe bisogno di un’azione politica globale, capace di colmare il gap tra un’economia mondializzata e una politica sostanzialmente confinata nell’ambito degli Stati nazionali. È il tema della democrazia che torna a essere centrale, che credo rappresenti il valore unificante di una nuova coalizio-ne progressista internazionale. Il tema della democrazia, almeno nel mondo sviluppato, sembrava un valore comune, acquisito, così come scontata appariva la convivenza tra capitalismo e democrazia. Oggi tale questione è assai più problematica, anche perché, su scala globale, il potere dei grandi gruppi finanziari non è bilanciato da alcun potere pubblico, è un potere assoluto. Questo è il vero problema politico della regolazione. Non si tratta di una questione tecnica. Esso pone esattamente il tema di un deficit democratico che è la caratteristica, la contraddizione più profonda del capitalismo globale nel quale noi viviamo. E il deca-dimento della democrazia investe anche la dimensione nazionale, perché il populismo non è separabile da quello svuotamento di poteri e di ruoli dello Stato nazionale che è una caratteristica di quest’epoca, in cui la politica torna a essere dominata dall’ideo-logia, proprio perché spesso vuota di contenuti reali e di poteri effettivamente esercitabili. Il populismo, attraverso il controllo dei media, il peso del denaro nella competizione politica, tende ad alterare e impoverire il fun-

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zionamento dei sistemi democratici. Da questo punto di vista, non è facile ricostruire le forme di una partecipazione critica dei citta-dini in grado di bilanciare il peso crescente delle leadership. Così come non è facile ristabilire una fondamentale capacità delle isti-tuzioni pubbliche di orientare e regolare lo sviluppo verso finalità di promozione umana, di crescita civile, dopo che per anni è stata esaltata l’idea del primato dell’economia sulla politica. Un’idea, in-troiettata anche a sinistra, magari in modo inconsapevole, intesa nel senso della riduzione della politica a pura predicazione propa-gandistica, mentre il momento della decisione si è via via ridotto a momento tecnico, dominato dalle esigenze “obiettive” dell’eco-nomia. Questo è, a mio parere, uno dei compiti fondamentali di un’agenda progressista internazionale: ristabilire il primato della politica sull’economia e rafforzare quelle istituzioni capaci di eser-citare questo ruolo al di là dei confini nazionali. La crisi ha determinato uno sconvolgimento del tessuto delle istituzioni tradizionali, ha portato a un’eclissi del G8, istituto non più rappresentativo degli equilibri e dei rapporti di forza at-tuali, e ha portato in campo il G20 come espressione più larga dei nuovi protagonisti. Inoltre, com’era inevitabile e giusto, ha ridimensionato il ruolo dell’Occidente. Quando nacque il G7 a Rambouillet, i paesi che ne facevano parte erano gli azionisti di maggioranza dell’economia mondiale. Oggi non lo sono più e quindi è fisiologico che si debba far posto ad altri azionisti. Non è possibile, in questa sede, affrontare un tema che meriterebbe ben altro approfondimento. Ne abbiamo discusso lo scorso ottobre con Joseph Stiglitz a Washington, in un convegno organizzato, tra gli altri, dalla Columbia University. Voglio però osservare che neppure il G20 risolve il problema del rapporto tra efficacia e legittimità delle istituzioni internazio-nali. Il grande nodo che i progressisti sono chiamati a scioglie-re è quello del rinnovamento, della rivitalizzazione dell’efficacia del sistema delle Nazioni Unite, che resta, piaccia o no, l’unico

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sistema internazionale legittimato a dare un fondamento a una nuova governance mondiale. G8, G20, possono essere strutture che assumono compiti operativi, ma non possono essere il luogo delle decisioni legittime e vincolanti per tutti. Porsi il tema di una democrazia che vada oltre i confini nazionali, che fino a qualche tempo fa poteva sembrare utopistico ma che oggi rappresenta la sfida più attuale e impegnativa, significa per noi europei tornare a pensare all’Europa. Anche a sinistra c’è stata una certa sfiducia verso un’Europa tec-nocratica che sembrava svuotare gli Stati nazionali democratici. Oggi appare chiaro come sia l’Europa, in molti campi, a garantire la possibilità di esercitare una sovranità che è tale solo in quanto condivisa. Il progetto europeo dovrebbe diventare finalmente la premessa indispensabile di un programma progressista nel nostro continente. Insomma, per molti anni, essere “pro-europei” per i progressisti è stato facoltativo. Oggi è diventato assolutamente obbligatorio. È un terreno vero di discrimine fra conservatori e progressisti, tra l’idea di un’Europa come arena di governi nazionali (sostan-zialmente l’Europa di oggi, dominata dalle forze conservatrici) e l’idea di un’Europa che abbia invece un programma di sviluppo, una strategia comune per la crescita, in grado di creare un quadro condiviso di tutela e riorganizzazione dei diritti sociali. L’Europa deve essere attrice sulla scena internazionale, nel confronto con altri continenti e con altri protagonisti, se vuole continuare ad avere un posto nel mondo. Un altro grande tema, che deve essere alla base di un program-ma progressista e che sembrava ormai dimenticato, travolto dagli errori della sinistra del secolo scorso, dalle esperienze di un egua-litarismo livellatore, si ripropone oggi con stringente attualità in termini nuovi: il tema dell’eguaglianza. La crisi, infatti, ha pro-dotto paurose diseguaglianze, effetto di uno sviluppo non regolato. Diseguaglianze che non sono soltanto un tratto di insostenibile

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ingiustizia, ma rappresentano una delle stesse cause scatenanti del-la crisi economica. Come sottolinea in modo efficace Stiglitz nel saggio “Bancarotta”, la crisi, che si è manifestata come grande ca-duta della domanda globale, nasce innanzitutto dall’impoverimen-to dei lavoratori e delle classi medie. Solo in un secondo momento la speculazione finanziaria ne ha moltiplicato gli effetti, ma quella è stata la ragione originaria di fondo. Uno degli aspetti di questa diseguaglianza crescente è lo spostamento della ricchezza dal lavo-ro al capitale. Se, da un lato, la competizione dei paesi emergenti ha contribuito a contenere i livelli dei salari allo scopo di mante-nere la competitività, dall’altro lato, invece, la mobilità dei capitali ha accresciuto l’iniquità dei sistemi fiscali, diventando sempre più difficile tassare la rendita finanziaria. Ciò ha condotto allo sposta-mento del peso della tassazione sul lavoro e sulle imprese. La riduzione delle diseguaglianze, quindi, non è soltanto un tema di giustizia, ma una delle condizioni per favorire una ripresa eco-nomica stabile. D’altro canto, sappiamo bene che, senza una cresci-ta dei consumi da parte dei cinesi e senza una ripresa del mercato interno europeo, difficilmente avremo una crescita stabile. Al di là di queste considerazioni di natura economica, è giusto tor-nare ad affermare che la diseguaglianza rende la società più infeli-ce. Sono un appassionato divulgatore di un bel saggio, che ha avu-to un grande e meritato successo, di due studiosi inglesi, Richard Wilkinson e Kate Pickett, “The Spirit Level. Why More Equal So-cietes Almost Always Do Better”. Sulla base di ricerche empiriche, il testo ci dimostra che il maggior divario tra ricchi e poveri produce un tasso sociale di infelicità più alto. Una maggiore diseguaglian-za produce violenza, ignoranza, disagio psichico. Se, dunque, noi vogliamo che si apra un nuovo ciclo economico che non favorisca solo la crescita del Pil, ma crei le condizioni di una migliore qualità della vita, dobbiamo cercare di ridistribuire ricchezze e opportu-nità. La lotta alla povertà, all’ignoranza, all’esclusione sociale, alla precarietà, all’umiliazione del lavoro devono tornare a essere una

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grande priorità per i progressisti. Infatti, è proprio fra i ceti sociali più deboli che abbiamo perso terreno a favore del populismo della destra. Mi riferisco a quel mondo popolare che non si è sentito di-feso, che ha pagato il prezzo più alto alla globalizzazione e che, alla fine, ha trovato nell’appello al protezionismo o all’odio contro gli immigrati l’illusione di una tutela. Non è facile affrontare questo grande tema con gli strumenti tradizionali nell’epoca del capitali-smo globale. Anche per questo è necessario favorire le nuove forme di regolazione internazionale. Infatti, mentre il lavoro e il reddito di impresa sono tassabili a livello nazionale, la rendita finanziaria la si può colpire solo a livello internazionale. Per questo parliamo di financial transaction tax, uno strumento efficace contro la specu-lazione ma anche funzionale al riequilibrio del peso della fiscalità. Il tema dell’eguaglianza, però, non si riduce a quello, pure impor-tante, della redistribuzione della ricchezza. Esso tocca la questione essenziale della diseguaglianza sul piano dei diritti: quella tutt’ora persistente tra uomini e donne, quella che divide cittadini europei e cittadini immigrati, quella tra le generazioni, che forse è la più drammatica di tutte, almeno nelle nostre società. Infatti, mentre la generazione più anziana gode dei diritti acquisiti nell’epoca della crescita sociale ed economica, quella più giovane vive una dram-matica riduzione di aspettative e di garanzie. Il tema della qualità dello sviluppo, di una competitività che non sia fondata esclusiva-mente sul contenimento dei salari e sulla riduzione dei diritti dei lavoratori, propone come essenziale un altro valore, che dovrebbe costituire il terzo caposaldo di un’agenda progressista: il tema del-la cultura, della scienza, dell’innovazione come decisivi fattori di produzione e di crescita umana. Non si esce dalla crisi e non si apre un nuovo ciclo dello svilup-po senza investire grandi risorse sull’istruzione, sull’innovazione, nella ricerca di nuove tecnologie ecocompatibili, che siano in gra-do di conciliare la crescita economica con la tutela dell’ambiente. Fu questa la grande intuizione del Consiglio europeo di Lisbona,

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che costituì una sorta di manifesto del riformismo europeo. Tut-tavia, nello scrivere quel manifesto, dimenticammo che l’Europa non aveva gli strumenti per realizzarlo, non li acquisimmo, con la conseguenza che quel programma è rimasto un libro dei sogni. Sarebbe necessaria, dunque, una proposta politica progressista im-perniata intorno a queste tre idee principali, capaci di delineare un nuovo orizzonte dopo la crisi e di proporci un’azione sul piano internazionale per regolare e correggere la globalizzazione capita-listica, che non si può fermare e di cui non si possono nascondere gli aspetti positivi. Viceversa, l’orizzonte dei progressisti sembra rimanere quello del secolo scorso nei paesi più avanzati. Proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di correggere il capitalismo, di ridurne la portata disegualitaria e di conciliarlo con esigenze di crescita umana, emerge la debolezza e l’incertezza del nostro movimento. Negli ultimi anni, il movimento progressista si è sostanzialmente diviso tra chi ha accettato una visione neoliberale della globa-lizzazione, valutandone ottimisticamente gli effetti di lungo pe-riodo, e chi si è arroccato in una difesa di esperienze riformiste del passato, nell’illusione che la globalizzazione avrebbe potuto essere in qualche modo arrestata o condizionata, difendendo i vecchi compromessi nazionali. Non sono tra coloro che pensano che bisogna liberarsi delle idee della cosiddetta “terza via”, che sia sufficiente tornare alle idee del passato per avere un futuro luminoso. Si tratta di una visio-ne semplicistica. La “terza via” ha avuto aspetti molto positivi di modernizzazione della cultura del riformismo europeo, tuttavia ha pagato il prezzo della subalternità a una visione neoliberale. Ma, dall’altra parte, non l’ha spuntata neppure chi si è arroccato in una visione più tradizionale. Il movimento progressista è appar-so complessivamente impreparato di fronte alla sfida del mondo globale e gli strumenti politici di cui ci siamo dotati storicamente sono apparsi inadeguati e insufficienti. È evidente che questa sfida

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può essere vinta soltanto da un centrosinistra nuovo dal punto di vista culturale, in grado di andare oltre i confini tradizionali del movimento socialista. Negli Stati Uniti la parola socialismo non è utilizzabile, in molti grandi paesi emergenti nessuna delle forze progressiste che guida-no le trasformazioni sociali si richiama alla tradizione socialista. Ad esempio, in Brasile l’antagonista di Dilma Rousseff era il capo del Partito socialdemocratico, eppure è parso evidente che la posi-zione progressista fosse piuttosto quella della candidata sostenuta da Lula. Se noi guardiamo all’India o all’Africa, dobbiamo misu-rarci con le peculiarità di forze progressiste che si sono formate in una tradizione diversa. Sono convinto che soltanto dotandoci di nuovi strumenti, che consentano a questo movimento così ricco e articolato di esprimere le proprie potenzialità, sarà possibile dare forza a un nuovo schieramento progressista mondiale. Questo diventa, oggi più che mai, un tema di stringente attualità. Lo stesso Partito socialista europeo ha sentito il bisogno di dare vita a quel Global Progressive Forum che costituisce un luogo di confronto tra forze e personalità che non appartengono alla tradi-zione socialista. Nel saggio “The Power of Progress”, John Podesta, Presidente del Center for American Progress, che oggi è forse il più interessante think tank dei democratici americani, spiega perché per i democratici americani è necessario andare oltre la dottrina liberal, che ha essenzialmente posto l’accento sulle libertà e sui di-ritti dei singoli. Per Podesta, viceversa, occorre definirsi più aperta-mente progressisti, insistendo piuttosto sulla comunità e sui diritti sociali. Questo è interessante perché, tra le due sponde dell’Atlan-tico, le forze di centrosinistra appaiono oggi culturalmente molto più vicine di quanto non fossero in passato. Ricordo le esperienze degli anni Novanta, dove, soprattutto per iniziativa di Bill Clinton e di Tony Blair, si avviò quel dialogo tra socialisti europei e democratici americani che prese la forma della global progressive governance, dialogo tra leader di governo ma con

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una evidente caratterizzazione politico-culturale. Ricordo anche le difficoltà di quei primi confronti. Nel corso di una discussione a Washington, nella sede del club dei leader democratici e a margine del cinquantesimo anniversario della Nato, un autorevole esponen-te democratico americano ci esortò: “su questi temi - disse - dob-biamo lavorare insieme”. Dalla tribuna, dove tra gli altri sedevano Tony Blair, Wim Kok e Gerhard Schröder, qualcuno rispose: «Ma noi lavoriamo insieme nell’Internazionale socialista!». La parola “socialista” creò in sala un turbamento difficilmente descrivibile. Con grande tatto Bill Clinton osservò: «Non bisogna avere pau-ra delle parole. Ma voi dovete anche rendervi conto che le parole hanno un peso, e qui bisogna usare parole che siano comprese dagli americani».Al di là delle parole, era chiaro che ci misuravamo con proble-mi comuni e questo dialogo, questo processo di avvicinamento è andato avanti negli anni. Ecco perché ritengo che oggi ci siano le condizioni per immaginare una coalizione progressista inter-nazionale, che si dia istituzioni e nuove forme di organizzazione. Non si tratta, come si potrebbe pensare, della proiezione mondiale di un’esperienza italiana, non abbiamo questo tipo di ambizione. Come andare oltre esperienze pure così interessanti di confronto e di dialogo, come costruire forme di cooperazione politica più am-pie e strutturate, sono domande che riguardano tutti i progressisti. D’altro canto, se la politica deve globalizzarsi per reggere il con-fronto con l’economia, ha bisogno anche di soggetti, di forme di coordinamento, di un allargamento della discussione di leadership che si pongano a questo livello. Per tornare al punto di vista degli europei, non credo che si debba sopravvalutare la forza della destra. Il populismo sa parlare alla pancia della società, coglierne gli umori, ma non sembra in grado di offrire risposte efficaci e convincenti. D’altro canto, l’Unione eu-ropea sotto la guida della destra, non è capace di proporre nulla di più che una politica di difesa del rigore finanziario e della stabilità

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monetaria. Non voglio sottovalutare l’importanza di questi obietti-vi, ma è evidente che se non si sviluppa una politica per la crescita e per l’occupazione, lo stesso equilibrio finanziario sarà difficilmente raggiungibile. Ecco perché credo che ci sia spazio per una ripresa progressista anche in quella parte del mondo dove oggi essa appare più problematica. I nostri amici che governano grandi paesi e gran-di economie emergenti, in questo momento dovrebbero farsi carico anch’essi dell’esigenza di una ripresa complessiva del movimento progressista. Capisco che ci sono sfide difficili ma, ad esempio, non è pensabile una libera competizione mondiale, seppur auspicabile, senza che si affermi nel contempo una globalizzazione dei diritti del lavoro, a meno che non pensiamo che la competizione avvenga soltanto attraverso una compressione di questi diritti e una umilia-zione del lavoro. Insomma, tutti siamo investiti da grandi problemi che, per essere affrontati, richiedono una cooperazione più stringente e più impe-gnativa. I vecchi strumenti, compreso quello più glorioso dell’In-ternazionale socialista, sono figli del secolo scorso e mostrano tutti i loro limiti. Oggi bisogna pensare al futuro e chi vuole difendere e riaffermare la sostanza dei nostri valori deve, con coraggio, ripen-sare strumenti figli di un tempo definitivamente concluso.

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Sessione 1Come vincere un secondo mandato realizzando un’agenda progressista

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Matt Browne

IntroduzioneGuardare con fiducia ai cambiamentiVorrei per prima cosa ringraziare i nostri amici italiani, la Vicepre-sidente Rosy Bindi e Lapo Pistelli in particolare, per averci riuniti qui. Ricordo la conversazione dello scorso agosto, quando iniziam-mo a parlare di questa idea, e credo che sia veramente straordina-rio ritrovarci oggi in una sede così importante. Vorrei ringraziare anche Massimo D’Alema per i dieci anni in cui ha continuato ad approfondire il tema della “terza via” in Europa e negli Stati Uniti e per i riferimenti ai libri che ha fatto. Ora, io non posso dire se noi siamo il tank team più influente degli Stati Uniti. Posso però dire, sinceramente, che stiamo davvero os-servando con estrema attenzione la politica democratica. Sono pre-senti qui, oggi, per parlare di quale agenda progressista approntare per riconquistare il potere, illustri relatori. Da parte mia, vorrei iniziare facendo riferimento a un documento che ho scritto nell’ot-tobre del 2009, partendo da un paradosso europeo: perché, dopo la crisi economica e finanziaria, i partiti progressisti non ne hanno tratto alcun vantaggio? La prima premessa era che la stessa crisi economica indicava la bancarotta della politica neo-liberista. Cosa, questa, indicata anche dal fatto che nel marzo 2009 tutti erano diventati neo-keynesiani. Basti pensare al G8 e all’intervento di Gordon Brown: sulla sua scia tutti, praticamente, sottolinearono quanto servisse una poli-tica di stimolo all’economia, da Sarkozy a Berlusconi. La secon-da premessa era l’esistenza di altri presupposti in grado di portare vantaggi politici ai progressisti, per esempio un livello di istruzione maggiore e la crescita di famiglie “non tradizionali”. Perché, allora, i partiti progressisti in Europa non hanno avuto successo alle ele-zioni? La conclusione a cui si arrivava in quel documento è che alla base di ciò c’erano almeno tre elementi.

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Prima di tutto i partiti progressisti hanno dimostrato di non avere un’agenda economica. Qualcosa di più, cioè, rispetto alla pur giu-sta capacità di indicare le cause specifiche della crisi finanziaria, a cominciare dalla deregulation. In un certo senso, si potrebbe dire che i socialdemocratici e i progressisti pensano, in qualche modo, che esaminare statistiche e raccogliere dati sia sufficiente per fare politica. E dunque ci sarebbe bastato far vedere, cifre alla mano, che eravamo più bravi dei nostri avversari. Ma non è così che fun-ziona la politica. Drew Westen, psicologo e politologo, ha sottoli-neato come il voto sia anche un fatto emotivo, e quindi come noi si debba in qualche modo riportare i valori e le emozioni all’interno della nostra agenda. Un secondo elemento riguarda la coalizione, e qui c’è una lezio-ne molto importante per i progressisti, perché è evidente che noi abbiamo troppe divisioni al nostro interno: ognuno concorre per conquistarsi dei voti, quando invece bisognerebbe lavorare attorno ad una agenda comune. È difficile, basti pensare a come alcuni partiti progressisti affrontano i temi del lavoro e a quanto, al tempo stesso, la classe operaia tradizionale sia disdegnata da una parte di elettorato che noi rischiamo di perdere. Ma è fondamentale trovare questi contenuti comuni. Anche perché abbiamo di fronte una sfi-da, quella del populismo, estremamente impegnativa, per tutti noi. Il terzo elemento che abbiamo esaminato è di tipo organizzativo. Qui abbiamo notato due tendenze. La prima è che alcune persone sono molto meno deferenti e leali nei confronti dei partiti politici, nel senso che una volta si votava i liberali a vita o i democratici a vita; si votava, insomma, sempre per lo stesso partito. Adesso inve-ce la gente non vota più così, è più informata, e questo è un aspetto che dobbiamo tenere ben presente. La seconda tendenza è che oggi è molto più facile formare dei movimenti politici: abbiamo visto dei movimenti emergere come partiti on line e organizzarsi attraverso Internet, senza bisogno di dotarsi di un’organizzazione di massa. È evidente che questo cambia la natura della politica.

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Ora, di fronte a simili cambiamenti, che cosa facciamo? Come af-frontiamo queste novità? Dov’è che possiamo trovare un elemento di speranza per noi? Io credo che siamo in un momento cruciale della nostra storia. E credo che la sfida, a livello di definizione, sia mutata. Se diciotto mesi fa dovevamo definirci rispetto ad un movimento conservatore che parlava come se fosse composto da socialdemocratici, ora invece quella che era cominciata come una crisi del neo-liberismo nella mente delle persone si è trasformata, diventando crisi del bilancio, del debito, della riduzione dei servizi. Per cui ora noi vediamo che il movimento conservatore riduce i servizi pubblici, riduce la spesa e utilizza questa crisi proprio per sfasciare lo Stato. Ma se è così, questa potrebbe essere una grandis-sima opportunità per i progressisti. A condizione che si riesca ad andare avanti e ad affrontare le sfide. A tal proposito, una delle cose che dobbiamo chiarire tra di noi è che dobbiamo essere più ottimisti nei confronti del futuro. Gran parte del dibattito, in Europa e negli Stati Uniti, si svolge intorno ad un pessimismo per cui le cose non torneranno mai ad essere positive come un tempo. Il nostro messaggio è all’incirca: ecco, pian piano ci sarà il declino dell’Europa e degli Stati Uniti, è ine-vitabile. Ma a questo punto, allora, potremmo anche andarcene a casa e non fare più niente. La verità è che abbiamo bisogno di una visione più ottimista. Sono i nostri valori, non le nostre politiche, che sono universali. Dobbia-mo quindi rivedere in qualche modo il contratto sociale, dobbiamo avere un programma sociale che sia a favore dell’economia. Questo significa regolare di nuovo i mercati finanziari e riformare il mer-cato del lavoro, in modo che vada a vantaggio di tutti. È quel che dobbiamo fare a livello di società e di economia: creare situazioni di vantaggio per tutti. Dico questo perché dobbiamo anche comin-ciare a pensare e a muoverci con una mentalità da vincitori. Ricordo una riunione a New York, c’erano molti di voi, in cui un leader dei democratici danesi ha detto: nessuno vota per un

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perdente. Aveva ragione, ma noi a volte ci comportiamo proprio come dei perdenti, e la gente non vuole questo. Silvio Berlusconi imbroglia tutti, è un bugiardo, e si possono dire tante cose di lui, però praticamente vince sempre, ne esce sempre e comunque vin-cente. Anche noi dobbiamo essere un po’ più vincenti nel nostro modo di porci. Termino sottolineando come questa sia la sfida e lasciando la paro-la a Jennifer Palmieri, che è stata a lungo nel Partito democratico americano, occupando al suo interno vari ruoli, ed è attualmente Vice presidente del nostro Centro. A lei chiedo: com’è la situazione negli Stati Uniti? Le cose stanno migliorando?

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Jennifer Palmieri

Gli Stati Uniti dopo le elezioni di “mid-term”Sono molto lieta del fatto che in America ci sia un presidente pro-gressista. Come Center for American Progress, stiamo cercando di capire come la presidenza di Obama possa essere non solo otto anni di buona amministrazione, ma l’inizio, in America, di un’era progressista di lungo respiro. Guardiamo i conservatori: la loro era, almeno in epoca moderna, è iniziata nel ’68 con la presidenza di Nixon e ha raggiungo l’apice con Reagan negli anni ’80. Poi ne abbiamo assistito al crollo nell’agosto del 2005, quando c’è stato l’uragano Katrina e quando l’opinione pubblica americana si è ri-voltata contro la guerra in Iraq, e nel settembre del 2008, quando c’è stato il crollo di Wall Street. Ecco, quel che noi ora stiamo cercando di capire è, come dicevo, in quale modo gli elementi della presidenza Obama possano sostenere una politica progressista di lungo respiro negli Stati Uniti. È stato sottolineato come la situazione demografica negli Stati Uniti sia tale che nell’anno 2050 noi non avremo un gruppo etnico con una particolare maggioranza rispetto agli altri. Sì, avremo dei caucasici, ma avremo anche una grandissima popolazione ispani-ca, asiatica e afro-americana. E avremo anche un paese sempre più giovane. Sono tanti, insomma, i fattori che devono essere presi in considerazione e che sono a nostro favore. Il punto, però, è anche creare un’agenda, un programma che possa tener conto delle di-verse esigenze. Obama è stato eletto come portatore di cambiamento nella politica americana. Cominciando a governare il paese, ha poi incontrato, purtroppo, tutta una serie di ostacoli lungo la strada. Candidandosi alle presidenziali, aveva fatto una campagna incentrata sull’energia pulita, sulla salute, sulla riforma del sistema sanitario, ma si è ri-trovato a non avere una vera e propria delega per mettere in pratica

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questo tipo di programma. Il suo mandato era quello di non essere come George Bush. E gli americani lo hanno votato per questo, ed anche per diversi aspetti di incompetenza che hanno caratterizzato la campagna di McCain. Ma dopo aver vinto, quando ha parlato di riforma del sistema sanitario e di cambiamenti climatici, ci si è accorti che a questo, in realtà, gli americani non avevano pensato più di tanto. Le idee di Obama sono state allora sottoposte a diversi attacchi, dei repubblicani in primo luogo ma non solo, e così gli ultimi sono stati diciotto mesi difficili, senza poter realizzare più di tanto. Ecco il perché del risultato piuttosto disastroso delle elezioni di medio termine. Il mio ex capo, il Presidente Clinton, diceva d’altra parte che i democratici vengono votati per risolvere i problemi, mentre non vinciamo le elezioni nei momenti di benessere: è quando la gente pensa che ci sia un problema da risolvere che cerca risposte da noi e ci dà fiducia. Per promuovere la nostra agenda, molti in Ameri-ca dicono: dobbiamo fare come fa la destra, dobbiamo ripetere lo stesso messaggio in continuazione, fare appelli, attrarre gli elettori in questo modo. Io credo invece che per noi – ed è vero per tutti i progressisti – sia più complicato, perché stiamo cercando di cam-biare davvero le cose, e quando si cerca di far questo, e non sem-plicemente di mantenere uno status quo già acquisito, il traguardo diventa più difficile da raggiungere. Noi dobbiamo avere una vision, dobbiamo avere una buona politi-ca e far capire al paese quali sono i nostri obiettivi, in base a valori che sono nostri, che possono richiedere nuove politiche, ma che sono eterni. Dobbiamo far capire come l’America potrà crescere nei prossimi trent’anni, come potremo farlo nonostante la Cina o l’avanzata dell’India. Questa è la visione che dobbiamo trasmette-re. E poi, altro elemento, dobbiamo essere in grado di controbat-tere le tesi degli altri, degli avversari. Dobbiamo fare tutto questo, se vogliamo che gli americani accettino i cambiamenti che noi

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proponiamo, e il grande mito della politica americana è che la gente vuole il cambiamento, ma attenzione: moltissimi in realtà volevano semplicemente eliminare Bush. Faccio un esempio di quel che bisogna fare: questo mese ricor-re il trentesimo anniversario dell’insediamento di Reagan. È un momento di commemorazione, è vero, ma non per questo dob-biamo smettere di ribadire come il sistema finanziario sia crolla-to, in America, proprio per via delle teorie dei conservatori. Noi dobbiamo continuare a smantellare quelle teorie, in modo tale che la gente possa riconoscere e capire le politiche economiche che vogliamo promuovere. Insomma: abbiamo bisogno di una vision, di un messaggio, e abbiamo bisogno di continuare a criticare gli avversari. Il vantaggio è che ormai Obama non combatte più con-tro uno spettro, come è successo negli ultimi due anni, quando i repubblicani dovevano attaccare qualsiasi cosa lui proponesse. Ora la discussione è più aperta, cosa che l’America chiede. Perché al di là del drammatico episodio avvenuto recentemente in Arizona – e bene ha fatto Obama ad affermare che non è la retorica politica ad aver scatenato la strage da parte di una persona disturbata a livello psichico – è evidente che c’è bisogno di una discussione sulle con-dizioni del paese. È per questo che a breve termine sono un po’ più ottimista rispetto alla nostra capacità di conquistare gli america-ni. Ora il nodo da affrontare è però quello del nostro programma, perché le cose, a livello economico, non è che nei prossimi diciotto mesi miglioreranno in modo straordinario. Dobbiamo allora pen-sare all’agenda progressista più di lungo termine per l’America.

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Maria Murillo Il caso spagnoloA nome del gruppo socialista del Senato spagnolo voglio ringrazia-re il Partito democratico per l’invito ad essere qui. L’argomento che ho il compito di affrontare riguarda il caso Spagna, in particolare quel che è successo negli ultimi tre anni, e la situazione attuale in cui si trova il mio paese. Per far questo, mi è necessario inquadrare la situazione del Psoe, il Partito socialista operaio spagnolo, e delle forze progressiste in Spagna. Il Psoe è un partito che ha una storia lunga più di centotrenta anni. Per circa la metà di questo periodo è stato un partito in esilio, costretto a nascondersi. Dal 1977, dopo la morte del dittatore Francisco Franco, da quando cioè ci sono state le prime elezioni democratiche generali nel mio paese, il Psoe ha governato per ventuno anni, a fronte di otto terribili anni di gover-no della destra. Uscire dalla situazione di dittatura ed entrare nella democrazia ha quindi richiesto, naturalmente, un formidabile la-voro di architettura e ingegneria politica. Noi socialisti siamo stati quelli che hanno costruito lo Stato di diritto in Spagna, quelli che hanno definito un sistema di welfare, che hanno riconosciuto e ampliato i diritti. Ora il nostro edificio ha delle fondamenta molto solide, con l’istruzione gratuita univer-sale fino a sei anni e uno dei migliori sistemi sanitari del mondo. E penso che questo ci debba rendere orgogliosi: è un sistema per tutti, con una serie di magnifici servizi, con un sistema di pensioni che per ragioni democratiche dovremmo modificare, ma che co-munque garantisce anche a coloro che non hanno potuto versare contributi il diritto ad avere una pensione. Ma in Spagna si sono ampliati anche altri diritti, perché la società comunque è in evoluzione. Il nostro paese è invecchiato, come d’al-tra parte tutti i paesi europei: la piramide della popolazione è in-vertita, quindi era ed è necessario prestare delle cure assolutamente dignitose alle persone che lo hanno costruito e che purtroppo, per

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via dei guasti prodotti dall’età, hanno ora minore autonomia perso-nale e sociale. Bene, per loro il Partito socialista spagnolo ha rico-nosciuto come diritto universale una serie di prestazioni e una serie di cure fino al termine della vita. E non ci siamo limitati a tutto questo: siamo andati oltre, riconoscendo – non solo sulla carta, cosa già esistente – la parità tra donne e uomini, introducendo una serie di riforme legislative e di programmi che obbligano le impre-se ad avere, ad esempio, una reale uguaglianza salariale. Inoltre, poiché vogliamo procedere in questa direzione, la scorsa settimana il Consiglio dei ministri ha approvato la bozza – che ora arriverà in Parlamento – di quella che sarà la legge dell’uguaglianza del trattamento per quanto riguarda le discriminazioni nel lavoro in qualsiasi sede. Intendendo con questo le possibili discriminazioni non solo per la razza o la religione o il sesso, ma anche per l’aspetto fisico, cosa che purtroppo succede in molti casi. Il Partito socialista ha quindi basato il suo lavoro sui valori, e non solo nei momenti in cui le cose sono andate bene, ma anche nei momenti di crisi. Per primo il valore dell’uguaglianza. È su questo che si basa il progetto di tutti i progressisti nel mondo: la ricerca dell’uguaglianza. È una strada che non finisce mai, perché sempre sorgono nuove disuguaglianze nel mondo. Dunque uguaglianza, pari opportunità, ampliamento dei diritti: quando si sono potuti distribuire i benefici economici lo abbiamo fatto, così come per i benefici sociali. In questo momento ci troviamo in una situazione nuova. Come è stato detto prima di me, siamo di fronte ad un cambiamento epo-cale. Si tratta allora di essere consapevoli del fatto che per definire le nostre analisi e le nostre proposte dobbiamo conoscere bene il mondo che si sta venendo a formare. Un mondo dove ci sono delle riforme che non ci piacciono. Noi, la sinistra, per natura siamo riformisti, vogliamo il potere perché vogliamo trasformare e “rifor-mare” il mondo. Oggi, in qualche modo, tutti abbiamo accettato la necessità di una serie di riforme delle nostre strutture in modo da

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poter uscire, tutti insieme, da questa terribile crisi, che è una crisi dell’economia reale che giunge fino alle persone. Una crisi che, non bisogna dimenticarlo, è stata provocata dalla voracità, dall’egoismo e dalla mancanza di regolamentazione di un sistema finanziario che nessuno, né la destra né la sinistra, hanno saputo contenere. È giunto, quindi, il momento di fare autocritica. Dobbiamo vedere dove abbiamo fallito, perché è vero che la sinistra si è lasciata tra-scinare dal canto delle sirene. Uno degli ultimi interventi ha fatto riferimento al fatto che l’uscita dalla crisi ha molti punti in comune fra tutti i paesi. Certamente, però, non sarà uguale per tutti. Non si stanno prendendo le stesse misure nel Regno Unito o in Irlanda, in Spagna o in Portogallo. Nei primi due paesi che ho citato dicono che faranno scomparire mezzo milione di funzionari pubblici: un vero e proprio attacco alla funzione e ai servizi pubblici, quelli che garantiscono i diritti. La Spagna e il Portogallo hanno deciso, invece, di diminuire del 5% lo stipendio dei funzionari. Ecco, qui vediamo una differenza concettuale, e sarebbe interessante analizzare le misure che stanno adottando i singoli paesi per affrontare il tema della riduzione del deficit, così da rispettare gli impegni europei. Si tratta di una sfida importantissima e appassionante. Il problema è se saremo capaci di convincere i cittadini e in che modo riusci-remo a farlo, perché purtroppo, soprattutto in questo momento, con la politica che non sta vivendo il suo momento migliore, la loro fiducia nei confronti delle istituzioni e della stessa politica è piuttosto scarsa. Anche perché ci sono persone che pensano che la democrazia serva solo per scegliere le élites che stanno al governo. È molto triste ma è così, stiamo arrivando a tutto questo. Dobbia-mo quindi essere capaci di costruire una nuova democrazia, che sia partecipativa, che veda i cittadini compartecipi delle decisioni che si prendono. Questo è l’unico modo in cui possiamo procede-re. E dobbiamo essere sinceri, dire la verità, perché ad un cittadi-no non possiamo promettere che torneremo ai tempi che furono.

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Dobbiamo essere onesti, perché solo così la gente crederà in noi. In questo senso noi parlamentari abbiamo un ruolo importantis-simo. È vero che a volte il Parlamento si è un po’ defilato, forse per colpa dell’Esecutivo. Ma noi parlamentari siamo persone che, per le nostre capacità, per la legittimazione che ci viene dall’essere eletti direttamente dai cittadini, siamo loro molto vicini, conoscia-mo la realtà e quindi possiamo fare quella politica di prossimità, di vicinanza, attraverso la quale costruire delle piattaforme, delle reti, che consentano a noi di essere protagonisti della ricucitura del tessuto sociale e ai cittadini stessi di sentirsi responsabilizzati e “complici”. Io penso che il Parlamento, in questo senso, abbia un ruolo im-portantissimo. Varie volte ho fatto questa riflessione: ci possono essere parlamenti senza democrazia, come è successo nel mio paese con la dittatura franchista, ma non ci può essere una democrazia senza il Parlamento. Quindi penso che deputati e deputate, sena-tori e senatrici, abbiano un ruolo importantissimo. E penso che la sinistra abbia ancora un grande spazio per continuare a costruire l’uguaglianza, in un cammino che può al tempo stesso generare ricchezza e sviluppare l’economia. Stiamo parlando di una nuova società, della nuova conoscenza che la trasformerà e ne cambierà i valori, delle nuove tecnologie, dell’informazione, della comunica-zione che ci mette in contatto con milioni di persone, di sistemi politici e religiosi diversi, in un mondo piuttosto destrutturato. A proposito di rivoluzione della conoscenza, vorrei raccontarvi un episodio. Io sono una senatrice dell’Estremadura, vengo da una regione del sud-ovest della Spagna che ha 42 mila chilometri qua-drati e solo un milione di abitanti. È una zona prevalentemente rurale, che è stata oggetto di abbandono nel corso dei secoli; una regione molto povera, che confina con l’Andalusia e con il Porto-gallo. Come tutti sapete, la Spagna ha una suddivisione territoriale con comunità autonome e governi delle regioni. La mia regione, dall’inizio della democrazia, è stata governata dal Psoe, e un terre-

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no sul quale ci siamo più impegnati è stato quello dell’istruzione. È l’istruzione, infatti, che cambierà il modo di pensare, che cambierà i valori. Ma certo bisogna modificare il sistema educativo, perché oggi molte risposte sono in Internet, sono nella Rete, e noi abbiamo il compito di educare i ragazzi a porsi domande, ad essere curiosi, ad essere innovatori. Nella mia regione, dove abbiamo competenze in materia di istruzione solo dal 2000, siamo stati capaci di vedere che le nuove tecnologie sono una finestra sul mondo e su questo ab-biamo investito molto, tanto da diventare un caso esaminato anche sulle pagine del “Washington Post”. Anche le nuove energie alterna-tive e rinnovabili sono per noi estremamente importanti. Queste sono le strade su cui proseguire. Dobbiamo procedere così, andando avanti nel riconoscimento dei diritti, nella copertura delle necessità delle persone anziane e delle famiglie che devono conci-liare lavoro e vita personale. E dobbiamo regolamentare il sistema finanziario. Come è stato detto prima, ci deve essere una colla-borazione orizzontale tra i paesi, perché nessun essere umano sia colpito nei suoi diritti in nessun luogo del mondo. Io penso che la sinistra abbia ancora, a questo proposito, un discorso da fare. E penso che noi deputati e senatori dobbiamo essere attivi perché non venga meno il ruolo del Parlamento. Termino dicendo, come donna, come parlamentare donna, che noi donne dobbiamo fare un grandissimo lavoro, soprattutto se abbiamo delle responsabilità a livello di governo o comunque di direzione. Rappresentiamo metà della popolazione mondiale, metà della forza del mondo. Soprat-tutto in un momento di crisi come questo, usiamo la nostra forza.

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Nick Reece L’esperienza australianaVorrei cominciare innanzitutto ringraziando il Partito democra-tico per averci invitato a questo evento. L’ultimo decennio è stato sicuramente un decennio di successi per il Partito laburista austra-liano: ha vinto le elezioni nel 2007 e ha formato un governo di mi-noranza nel 2010. Ci sono stati governi con laburisti per dieci anni e, dal 2006 al 2009, ci sono stati governi laburisti in ogni Stato della federazione. Questa è una cosa che non si era mai verificata in centodieci anni, da quando cioè il Partito laburista ha cominciato a partecipare alle elezioni. Ciò di cui vi parlerò oggi, comunque, non è improntato tutto all’ottimismo. Bisogna sempre vedere se i partiti socialisti posso-no arrivare al potere con un’agenda progressista. I nostri consensi ad esempio si sono ridotti e può succedere che abbiamo bisogno di volta in volta di formare una coalizione con gli Indipendenti o con i Verdi. Certamente non posso descrivere tutto quello che è avvenuto. È interessante però vedere perché il Partito laburista ha avuto successo in questo decennio e che cosa ha inciso sul recente declino. Per quanto riguarda quest’ultimo la ragione è quella che incide su tutti i partiti politici: la longevità al potere. Ma prima di procedere all’analisi vorrei attirare la vostra attenzio-ne su una particolarità del nostro sistema elettorale. È obbligatorio andare a votare, quindi è un reato non farlo e credo che la mag-gior parte degli osservatori politici, in qualche modo, sia d’accordo nell’affermare che questo dà una obiettiva centralità alla politica. Questa però era una condizione presente anche nelle elezioni pas-sate. Perché allora abbiamo avuto successo in questo decennio? Vediamo alcuni elementi di questo successo: a volte dipendono dal pragmatismo politico. La prima cosa da dire è che il Partito laburista in Australia ha azzeccato le cose più importanti: abbia-mo scelto candidati buoni e con una certa grinta, abbiamo spin-

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to con forza la leadership mentre in passato abbiamo supportato candidati o leadership non efficaci. Ancora, in questo decennio il Partito laburista ha intrapreso campagne moderne per mobilitare il consenso e quindi ha ottenuto il sostegno dei sindacati e dei gruppi d’interesse. È evidente che, rispetto ai nostri avversari, noi avevamo proprio dei candidati migliori e anche una campagna migliore. Comunque, questo professionismo ci ha esposto a critiche da parte dei media – forse non devo descriverle troppo, potete immaginare di che tipo di critiche si trattasse – mentre all’interno del Partito laburista au-straliano c’erano dei professionisti della politica che perseguivano con una certa nobiltà i loro obiettivi ma con un approccio molto professionale: questo non sempre è stato un vantaggio. Poi, alla fine dei conti, le elezioni sono state decise per pochissimo, ma d’al-tra parte è questo che fa la differenza tra la vittoria e la sconfitta. Ora, in questi ultimi dieci anni, c’è stata anche una forte visione, un forte programma, perché i cittadini si aspettano da noi che at-tuiamo le riforme che promettiamo. La coalizione conservatrice riesce a ottenere consenso soltanto dif-ferenziandosi da noi e dicendo: non siamo laburisti. Io penso che però questa regola valga un po’ per tutti qui, nel senso che come partiti progressisti un programma è proprio la cosa fondamentale per vincere. Ci deve però essere anche un messaggio chiaro, dei propositi, una visione chiara, in modo che non sia soltanto un puro esercizio accademico. A mio avviso, il Partito laburista australiano ha saputo individuare un messaggio fondamentale che ci ha consentito di vincere venti elezioni a livello statale e federale. Adesso ve lo descriverò. A li-vello politico si fonda su quattro pilastri: il primo è un bilancio in pareggio e l’aumento dell’occupazione; il secondo pilastro è offri-re servizi alle famiglie, quindi sicurezza nel territorio, istruzione, scuola e welfare; il terzo pilastro riguarda l’intero paese per cui noi, in qualche modo, ci rivolgiamo anche ai territori lontani e

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nessuna regione o area viene abbandonata, e poi c’è un governo trasparente, una governance trasparente; un altro pilastro è che noi abbiamo presentato i laburisti come l’opzione sicura, la scelta si-cura, ed è questo che dovrebbero fare i partiti socialdemocratici. Inoltre abbiamo presentato i nostri oppositori come un rischio. Noi dicevamo che non ci si poteva fidare di loro perché avrebbero ta-gliato l’occupazione, i servizi, nel senso che loro non credono in quel tipo di politica, di erogazione di servizi e sicurezza così come ci crediamo noi. La nostra agenda era progressista ma non radicale, ad esempio noi ci siamo concentrati sull’ordine pubblico e abbiamo vinto a livello di dibattito perché abbiamo legato questo tema a quello delle ri-sorse per la sicurezza, dicendo che bisognava aumentare le forze di polizia, dotarle di migliori tecnologie e che ci dovevano essere anche maggiori stazioni di polizia. In questo modo abbiamo anche sottolineato che i conservatori avrebbero ridotto drasticamente le forze dell’ordine. Insomma, noi abbiamo trasformato il dibattito sull’ordine pubblico in un dibattito sulle risorse ed è così che ab-biamo ottenuto un ottimo risultato. Ci sono poi altre tre cose che vorrei illustrare. Innanzitutto le ele-zioni del 2007. Prima c’erano stati undici anni di Partito conserva-tore. Abbiamo imparato tutta una serie di lezioni. In quel periodo però abbiamo aggiunto anche dei nuovi elementi e i laburisti si sono posizionati come il partito del futuro. Dicevamo che i conser-vatori non erano più in contatto con gli elettori dopo undici anni di governo. Si è parlato di un nuovo pensiero laburista. Ci siamo concentrati su una rivoluzione della scuola, dell’istruzione, di cui il paese aveva bisogno per affrontare le sfide della globalizzazio-ne. Poi abbiamo parlato della rete, della banda larga, in modo che ovunque in Australia si possa avere una connessione velocissima. Quindi abbiamo parlato di tutti i cambiamenti che avremmo rea-lizzato e della visione che avevamo per il futuro del paese. Ovvia-mente abbiamo anche affrontato questioni che comunque ci hanno

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consentito di ottenere buoni risultati. Ad esempio la questione del-la sigla del Protocollo di Kyoto, per cui ci siamo scusati anche nei confronti degli aborigeni. Ecco, abbiamo parlato dei conservatori che non sono più in contat-to con gli elettori, abbiamo detto che questo in qualche modo era un comportamento irresponsabile. I laburisti invece si sono pre-sentati come un partito che sarebbe stato molto attento al bilancio, e abbiamo vinto quell’elezione con un margine notevole. Come ho detto all’inizio, il Partito laburista recentemente ha subito delle perdite, e sono emerse anche delle nuove forze. Per comprendere cosa è avvenuto bisogna andare a vedere le ele-zioni federali di agosto e anche quelle di novembre a Victoria. La strategia della campagna era quella di presentare il nostro primo ministro, Julia Gillard, come la persona che avrebbe portato avanti l’Australia, mentre Tony Abbott, che era poco popolare, l’avrebbe fatta, in qualche modo tornare indietro. Noi abbiamo parlato del rafforzamento dell’economia, degli investimenti nella scuola e in servizi sanitari migliori, quindi abbiamo anche indicato che il le-ader conservatore avrebbe riportato indietro l’Australia. Il Partito liberale si è concentrato sui difetti dell’amministrazione laburista precedente: questa è stata la loro campagna. Tipico attacco con-servatore, come nella politica statunitense, e quindi c’è questa for-te retorica in cui toni si alzano, e c’è anche una violenza nel loro attacco a livello politico. Purtroppo poi ci sono stati degli eventi drammatici, nel senso che ci sono stati degli scontri all’interno del Partito laburista anche durante la campagna elettorale e in più i conservatori ci hanno aggredito con una ferocia che prima non avevamo mai visto. A sinistra del Partito laburista ci sono i Verdi, che hanno cercato di capitalizzare l’insoddisfazione dell’elettorato parlando o presen-tando slogan del tipo: “Questa volta voto Verde!”, quindi indica-vano che era necessario votare i Verdi proprio per distinguersi dai conservatori. In qualche modo loro hanno raggiunto una vittoria,

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hanno dei seggi in Parlamento. Comunque c’è da dire che hanno eroso solo marginalmente il consenso laburista. L’Australia del resto è uscita dalla crisi meglio di qualsiasi altro paese dell’Ocse. Abbiamo sentito parlare oggi della crisi finanzia-ria globale. Forse bisognerebbe riflettere un momento sull’impatto che ha avuto sulla politica australiana. È evidente che noi avevamo dei rapporti con la Cina e anche con l’economia indiana. Oggi la disoccupazione è al 4,8% e il bilancio in attivo: il nostro tenore di vita non è mai stato migliore. Eppure queste circostanze econo-miche non si sono tradotte in un successo elettorale per il partito progressista. Io credo quindi che in questi due giorni non dovrem-mo cadere in una trappola: credere che questa crisi finanziaria pos-sa essere di per sé un vantaggio per i partiti progressisti. Ci sono altre dimensioni, altri fattori, sia politici che culturali, capaci di incidere su un simile dibattito e sulla politica in genere. Il fatto è che ci siamo trovati esposti ad una campagna un po’ vecchia da parte dei conservatori mentre noi ci siamo concentrati su tutta una serie di tematiche, ad esempio i cambiamenti climatici, contro cui i conservatori formulavano le solite critiche: no alla carbon tax, solo una grossa tassa che avrebbe alzato tutti i prezzi. Nel contempo, noi non portavamo più avanti questa necessità di intervenire a li-vello ambientale perché ritenevamo che ormai, dal 2006, non ci fosse più bisogno di convincere la gente rispetto ai cambiamenti climatici. Comunque, a livello più profondo, vediamo che c’è un’ulteriore sfi-da rappresentata dalla frammentazione delle famiglie politiche. In Australia questa frammentazione ha inciso sull’elettorato nel senso che gli elettori si spostano da un partito all’altro a seconda delle tematiche. Quindi oggi l’appartenenza a un sindacato e il tasso di sindacalizzazione si stanno riducendo. Infine, dobbiamo affrontare la frammentazione della società, e quindi i partiti devono presen-tare un programma che abbia un gradimento maggiore per l’eletto-rato, e vorrei sottolineare qui che si tratta di trovare un programma

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politico che possa attrarre alcuni elettori, perché non si trova un programma fondato sui valori che possa essere gradito a tutti. Io credo che i partiti che non affrontano queste questioni saranno in qualche modo sopraffatti dalla realtà. A novembre, nello Stato di Victoria, abbiamo visto emergere nuovi fattori, si è dovuto discutere di una forte leadership per il futu-ro: era importante proporre un primo ministro forte e popolare e comunque avevamo un concorrente conservatore che non lo era e quindi i laburisti hanno avuto tutta una serie di carte da giocare. Noi abbiamo proposto anche una serie di slogan, la campagna ha affrontato l’insoddisfazione dell’elettorato legata in qualche modo anche alla questione della immigrazione, e questo è stato un punto di forza per noi. La questione dell’aumento demografico ha invece giocato a no-stro sfavore. È evidente che è una sfida universale per tutti i par-titi politici, quando si è al potere da molto tempo; noi abbiamo avuto un’esperienza di permanenza al potere in passato e quindi possiamo attingere da quell’esperienza. Inoltre abbiamo adottato una strategia dei piccoli obiettivi e siamo stati capaci di convincere parte dell’elettorato con nuove strategie. I conservatori, invece, non hanno promesso molto, continuavano ad attaccarci e questi attac-chi erano anche un po’ difficili da contrastare. In ogni caso, per le elezioni di Victoria, noi siamo stati in grado di riconquistare il voto dei Verdi e successivamente abbiamo otte-nuto il 3-4% in più, grazie a campagne basate sui valori socialde-mocratici tradizionali. In Australia, in genere, i Verdi ottengono un buon risultato quando si rivolgono soprattutto ai giornalisti, agli accademici, ai professori universitari: noi abbiamo di nuovo giocato la carta dei valori e quindi riconquistato il voto dei Verdi. In particolare adesso i governi devono trasmettere i loro successi, dire che cosa hanno realizzato e solo dopo possono annunciare le nuove iniziative.

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È questo il modo in cui un partito può avere successo per un certo periodo di tempo. Ora, per chi è all’opposizione devo dire che le cose cambiano rapidamente. Per concludere, vorrei illustrare alcuni altri aspetti: in primo luogo bisogna centrare le cose più importanti, in secondo luogo non si deve mai dimenticare che l’elettorato si aspetta dai progressisti che facciano cose concrete. In terzo luogo, i partiti progressisti devono proiettarsi verso il futuro e noi appunto abbiamo fatto leva sull’istruzione, i cambiamenti climatici e la banda larga. I partiti progressisti devono anche essere visti come la scelta migliore, e questo è veramente importantissimo. Noi abbiamo avuto succes-so in Australia perché abbiamo neutralizzato tutta la questione relativa al bilancio in pari. In quinto luogo non dovremmo mai dimenticare un messaggio: bisogna ricordare che i conservatori sono contro la famiglia perché riducono i servizi, quindi non sono a favore della famiglia e della sua crescita. Questa è una cosa da ricordare all’elettorato. Sesto punto. Io credo che i partiti progres-sisti possano proporsi in modo progressista però devono anche ri-manere in contatto con questioni come l’ambiente e l’ordine pub-blico. L’elettorato si sta frammentando: bisogna in qualche modo trovare nuovi messaggi.

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Stavros Lambrinidis Dopo la grande crisiCercherò di essere breve, anche se si tratta di un tema molto com-plesso. Voglio iniziare con quello che ha detto Lapo Pistelli nella sua introduzione: il rapporto tra poteri e l’incremento del potere. Abbiamo visto, sempre attraverso la crisi finanziaria ed economica, che abbiamo un forte spostamento nel rapporto e nell’equilibrio dei poteri tra le varie istituzioni. Abbiamo la Commissione europea, che è una sorta di governo europeo, che naturalmente elabora le leggi ma che non decide su queste leggi, e poi il Parlamento euro-peo, oltre al Consiglio. Ora, soprattutto negli ultimi mesi, che cosa abbiamo visto? Con la crisi c’è stato un crollo dell’equilibrio dei poteri in Europa a tutto vantaggio dei governi e proprio per questo a svantaggio dei parlamenti e della Commissione. Il Consiglio ha deciso di affrontare la crisi a livello intergovernativo. Tutte le deci-sioni prese e discusse sono quelle proposte dai primi ministri: cosa si farà di questo o di quest’altro meccanismo o elemento di soste-gno. Al Parlamento non si chiede mai di votare. La Commissione in teoria avrebbe il potere e dovrebbe assumere un ruolo guida, con un Presidente che abbia volontà, possibilità, potere, di lottare contro il Consiglio. Ma è proprio nel Consiglio che si sta violando l’equilibrio del potere. È così che non abbiamo più un paese un voto, ma abbiamo un paese e ventisette voti, e quindi la Germania e ventisette voti, oppure due paesi e ventisette voti, quindi la Ger-mania e la Francia. Se veniamo al Parlamento europeo – che insieme a David Sasso-li ho l’onore di rappresentare in questa sede – noi come Grecia e come Italia abbiamo delle delegazioni di tutto rispetto. È fuori discussione che negli ultimi mesi, non direi tutto il Parlamento, ma i socialisti e i democratici del Parlamento europeo, stiano assu-mendo un ruolo guida, stiano cercando quindi di correggere questo squilibrio nel rapporto dei poteri. Come? Contribuendo con ele-

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menti politici, non giuridici, con pressioni politiche per cambiare le cose. Perché dobbiamo cambiare? Il Consiglio negli ultimi mesi ha preso delle decisioni che rappresentano un esercizio di lotta anti incendio. Ecco, questo esercizio non ha avuto un successo pieno. Negli ultimi mesi stiamo cercando invece di vedere come possiamo prevenire gli incendi, non spegnerli una volta che si verificano. Per tornare alla Grecia, il meccanismo di sostegno finanziario che è stato creato, naturalmente, è stato un atto di importante solidarietà – anche se abbiamo avuto dei forti ritardi a causa della Germania – ma non ha impedito all’Irlanda di diventare bersaglio della spe-culazione. In modo analogo, i mercati hanno spinto il Portogallo a entrare in questo meccanismo e due giorni fa Lisbona ha avuto un certo successo nell’emissione di obbligazioni. L’analisi mediatica però è stata: se sono sopravvissuti a questa crisi dovranno subire un duro colpo alla fine. Quindi questa lotta anti incendio non funzio-na. Perché? Perché non parliamo soltanto di pochi paesi che dove-vano mettere ordine nei conti. Il fatto è che non abbiamo la giusta architettura. Non abbiamo un giusto sistema in grado di gestire l’euro. Che cosa vuol dire? La crisi ci ha fatto capire quelle che sono le tre cause profonde della crisi in Europa: una è nazionale, una è europea e una è globale. La causa nazionale varia da un paese all’al-tro, ma è presente comunque; la Grecia ha le sue responsabilità molto gravi perché, con un governo conservatore, negli ultimi cin-que anni, ha portato alla rovina la propria economia: crescita zero, calo di competitività catastrofico, aumento vertiginoso del debito pubblico, aumento vertiginoso dell’assunzione nel settore pubblico soprattutto per collocare delle persone che dopo avrebbero garan-tito il proprio voto. Insomma, ci sono nostre responsabilità. Siamo noi che ce ne dob-biamo occupare. Il governo Papandreou ha ereditato questo disa-stro e ora si sta occupando di questi problemi con misure davvero dure. L’obiettivo è quello di aumentare le entrate e diminuire la spesa pubblica. Questo comprende anche misure spiacevoli come il taglio degli stipendi e delle pensioni. Certo, sono cose antipatiche

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per il popolo e anche per noi socialisti. Ma non solo: ci sono an-che delle riforme strutturali che vengono proposte. Alcune erano fondamentali in Grecia ed altre, tra breve ne parlerò, non lo erano. Ora, i problemi della Grecia non sono uguali a quelli dell’Irlanda. L’Irlanda aveva una situazione abbastanza sana prima del crollo delle banche, ha dovuto sostenerle, poi c’è stato un aumento del debito pubblico, c’è stata la crisi del settore immobiliare, ed è scop-piata la bolla. Insomma è una situazione completamente diversa, e quella del Portogallo lo è ancora di più. Alcuni stanno cercando di inserire la Spagna in questo tipo di dibattito, e anche lì comunque la situazione è ben diversa. Ora, io voglio chiarire un punto importante. Non c’è nessun mo-tivo, zero motivi, di preoccuparsi dell’economia in Portogallo e in Spagna. Le misure che vengono adottate in questi paesi e la loro traiettoria di crescita magari non sono il massimo, ma certamente sono le migliori che si possa sperare di avere in un mondo pieno di problemi. Sappiamo che ci sono altri mercati e altri paesi che non hanno la stessa solvibilità. Consideriamo gli spread che vengono richiesti rispetto al Portogallo e alla Spagna con queste riforme di cui abbiamo parlato. Il programma di riforme nazionali in Grecia non li ha modificati. E allora cosa fare? Noi dobbiamo credere alla Grecia, perché il mio paese ha perso un anno fa, con i conserva-tori, l’unica moneta unica che abbiamo in Europa: non l’euro ma la fiducia. Abbiamo perso la fiducia ed è difficile riguadagnar-la. Ora, come rispondere? Dopo un anno di duri cambiamenti ci chiediamo: ma perché non è cambiato nulla? Passo ora al livello europeo, poi a quello globale e poi concluderò. Allora, come so-cialisti, come democratici, come progressisti, è evidente che noi dobbiamo considerare l’adozione di misure unificate a livello eu-ropeo. Dobbiamo essere certi di affrontare il problema del debito e la crisi della crescita insieme. Abbiamo una crisi del debito e gli speculatori non vogliono monete o valute nazionali separate, di-stinte. Anche se abbiamo l’euro vogliono speculare sui debiti na-

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zionali. È evidente come la governance economica non sia andata di pari passo con l’unione monetaria. Questo ha portato a diversi tassi di crescita economica in Europa, tassi che venivano sostenu-ti, vorrei aggiungere, da parte di tutti quando era il momento di vacche grasse ma ora, che è un momento di vacche magre, il ri-sultato è quello di una fortissima disuguaglianza. Alla Germania certo questo non importava molto: quando la Grecia dal 2004 fino al 2009, si indebitava sempre di più e poi acquistava tante Bmw, alla Germania non interessava. Uno dei più grandi scandali della Grecia è che se andate in giro per le strade e contate le Bmw e le Mercedes rimarrete sorpresi. Alla Germania quindi non importa-va più di tanto. Sì, i greci vivevano al di sopra dei propri mezzi ma lo facevano anche i tedeschi; vi posso assicurare che se il governo greco avesse applicato, come avrebbe dovuto fare, una migliore pratica fiscale, la Germania non avrebbe venduto così tanto, lo stesso dicasi per la Spagna, per il Portogallo, per l’Irlanda. Quindi tutti abbiamo avuto da guadagnare. Anche i cosiddetti virtuosi, non soltanto i cattivi. Tutti abbiamo guadagnato qualcosa, abbia-mo fatto semplicemente finta di niente in periodi di vacche grasse ma non è più così, ed ora si discute. Allora, innanzitutto abbiamo bisogno, questo lo posso dire, di una governance economica comune. Secondo punto, dobbiamo conso-lidare sul lato del bilancio le nostre economie. Terzo punto, dob-biamo affrontare il problema del debito insieme, collegialmente, e questo vuol dire eurobond, ovvero il debito che consente agli Stati membri dell’Europa di fare provvista a tassi analoghi fino al 60% del debito nazionale, che è quello che richiedono i criteri di Maa-stricht. Tutto questo per poter inviare dei segnali chiari al mercato, cioè che il gioco dell’euro è finito. Gli Stati Uniti hanno i titoli di Stato del Tesoro, possono fare provvista, indebitarsi a tassi bassi e nessuno va a vedere se l’economia della California sia più debole o no di quella del Nevada o dello Utah. Loro hanno il dollaro e han-no i titoli del Tesoro del governo americano. Noi abbiamo l’euro

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ma non abbiamo gli eurobond. È così che noi possiamo garantire che questo gioco dell’euro e questa speculazione del debito possano terminare e possiamo dare un respiro a tutti i paesi che giustamente hanno applicato dei duri tagli oggi, proprio per riguadagnare un certo livello di fiducia e rientrare nei mercati. Tutti i partiti socia-listi in Europa devono poter dire questo, a chiare lettere. George Papandreou, il primo ministro greco, dopo tutte queste misure e con la credibilità che viene riacquisita dalla Grecia nella sua am-ministrazione, lo ha detto chiaramente. Ma chi altro? Solo Jean Claude Junker, il primo ministro conservatore del Lussemburgo. E chi invece non lo ha detto? Gli altri leader socialisti. E poi c’è il problema del Parlamento, che con la crisi ha rischiato di dividere anche noi, non riesco a capire perché. Allora, lasciamo da parte il tema del debito, vediamo l’altra parte dell’equazione in Europa, che è la crescita. Non possiamo crescere senza nuovi fondi. Il budget europeo per il 2011 è stato aumentato soltanto del 2,9%. Che noia questi dati. Pensiamo così: siamo ventisette Stati mem-bri ora, con dei fortissimi fabbisogni. Non siamo più quindici, non siamo sedici e il budget aumenta in modo impercettibile. Questo che vuol dire? Vuol dire che per molti paesi ci sono meno fondi per ottenere i risultati desiderati. Tutti devono operare dei tagli: Regno Unito, Spagna, Grecia, Portogallo. Anche la Germania deve farlo. E dove troveremo questi nuovi fondi per la crescita? Abbiamo un programma energetico e per l’istruzione molto ambi-ziosi, per l’Europa, per il 2020. Certo che abbiamo bisogno di nuovi fondi e l’unico nuovo fondo che potrà portare 200 miliardi di euro in Europa ogni anno è la Financial Transaction Tax, imposta sulle operazioni finanziarie. Tutti dicono che le banche devono pagare per la crisi che è stata creata in Europa. Voi sapete che l’unico servizio oggi al mondo che non paga neanche l’Iva è quello delle operazio-ni finanziarie. Mi dispiace per gli amici americani perché so che lì c’è una forte resistenza. Mi riporta anche al livello globale. Questo poco importa se gli americani non sono disposti a fare qualcosa: se

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pensano di non aver bisogno del denaro e se pensano di poter conti-nuare ad indebitarsi, allora lo facessero. Il modo migliore però, oggi, per trovare nuovi fondi, per garanti-re una crescita negli Stati senza appesantire il budget è quello di parlare in Europa di questi temi e quindi adottare un approccio comune, congiunto. In questo modo le istituzioni finanziarie non possono ricattarci, non possono dire: se lo fate qui noi andiamo in America, se lo fanno in America noi andiamo a Londra. Quindi, ad un certo punto, dobbiamo essere seri, dobbiamo veramente im-pegnarci e parlare insieme, tra noi. I mercati non vogliono perdere 200 miliardi di euro in Europa ma non possono neanche dirci loro cosa fare. Questa tassa sulle operazioni finanziarie potrebbe anche ridurre la speculazione nei mercati finanziari, perché ogni volta che si fa un’operazione speculativa si deve pagare qualcosa. Esiste un danno morale, come dice la Germania, in tutto ciò? Perché noi non vogliamo paesi cattivi per così dire, come l’Italia, la Grecia, la Spa-gna, il Portogallo; paesi che spendono e ai quali non importa nulla. Non vogliamo questo per due motivi. Intanto gli eurobond creereb-bero delle regole uguali per tutti i paesi, non ci sarebbe un vantaggio per uno piuttosto che un altro e tutti dovrebbero avere concordato un importo del debito; tuttavia non coprirebbero il debito che va al di là del 60%. Quindi, in caso di irresponsabilità fiscale, oltre il 60% appunto, il debito verrebbe pagato a un tasso elevatissimo. Così non ci sarebbe alcun danno morale. Ma voglio dire anche questo. Se voi dite che uno Stato commette uno sbaglio e spende troppo e uno Stato investe in maniera errata, allora dobbiamo punire questo Stato, lo dobbiamo frustare, dobbiamo essere certi che milioni di cittadini, che non hanno nulla a che fare con queste decisioni, per-dano in salario, in paga, in pensioni; ma quando invece è una banca a commettere un errore di investimento, quando è una banca ad operare speculazioni e quindi quando, come nel 2007 e nel 2008, c’è lo scoppio della bolla delle banche, ebbene, allora non può suc-cedere che quelle banche non solo non siano punite, non solo non

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vengono maggiormente regolate, ma anzi, possono avere dei forti bonus, dei forti benefici come se non fosse successo nulla. Questo è il danno morale oggi, in Europa, e questo è quello che il governo tedesco soprattutto, e Angela Merkel in particolare, hanno creato. È arrivato il momento, per noi socialisti, di non avere più paura. Non dobbiamo avere paura di sembrare cattivi ad Angela Merkel, dobbiamo essere invece uniti per portare giustizia a questo sistema. Molti tedeschi, anche i socialdemocratici tedeschi si rendono conto dell’importanza di questo. Dobbiamo essere responsabili dei nostri paesi, dobbiamo avere credibilità, dobbiamo lavorare insieme e tro-vare una nuova vision per l’Europa, dobbiamo fare proprio questo. La questione più grande per me non è un problema finanziario, ma è quello dei valori, come abbiamo detto tutti. Uno dei valo-ri fondamentali che noi abbiamo, quello della solidarietà, sta ve-nendo meno. Noi ci stiamo opponendo gli uni agli altri, e poi c’è un incremento del sentimento razzista, non parlo del razzismo nei confronti degli esterni, musulmani, ebrei, no, io parlo di un feno-meno insidioso, il populismo, di cui si è parlato. È un razzismo molto pericoloso, che mettiamo in pratica gli uni contro gli altri. Ora, io non sono semplicemente un greco, forse non l’avete sapu-to, ma sono anche un “PIIGS”: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna. Un “PIIGS”, questi paesi insieme fanno questo acronimo. Dovremmo tutti ricreare un clima politico favorevole alla solida-rietà e a un maggior senso di responsabilità, come sta facendo la Grecia. Questa retorica, questo razzismo, questa paura gli uni degli altri è la cosa che mi mette più paura. E voglio dirvi che io sono molto fiero di essere greco, come avrete ormai capito immagino. Ma sono molto fiero di essere portoghese, sono fiero di essere spagnolo e irlandese, e certamente sono molto orgoglioso di essere italiano. Sarei molto fiero di poter essere tede-sco, qualora la Germania avesse dei problemi e vorrei anche essere olandese, qualora ci fossero dei problemi nei Paesi Bassi perché sono davvero fiero di essere socialdemocratico europeo.

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Girija Vyas La più grande democrazia del mondoVorrei prima di tutto ringraziare gli organizzatori. Io sono vera-mente grata del fatto che avete scelto questo argomento, il ruolo dei parlamenti. Il mio partito è chiaramente responsabile dello sviluppo dell’India e noi stiamo progredendo, stiamo evolvendo e arriveremo ai massi-mi livelli. Il nostro è stato un partito che non ha mai demonizzato l’altro, noi siamo sempre stati una forza democratica e inclusiva, abbiamo aiutato i soggetti discriminati e devo dire che ci sono va-rie cose che ci distinguono e cose che abbiamo in comune, però noi siamo diventati una Repubblica solo nella seconda metà degli anni ‘40. Il Mahatma Gandhi credeva molto nella democrazia e diceva che il senso proprio della democrazia era di rappresentare tutti i vari interessi che compongono una Nazione. Quando poi abbia-mo adottato il sistema parlamentare, perché è il migliore di tutti i sistemi - vorrei citare un nostro primo ministro - noi abbiamo scelto la democrazia parlamentare deliberatamente, perché in un certo senso pensavamo che rispettasse le nostre vecchie tradizioni e i nostri valori tradizionali. Oggi si può dire che ci sono anche delle istituzioni diverse, come quelle che sono a livello di villaggio. Stiamo anche cercando di garantire la partecipazione delle donne e questo è stato un grande cambiamento che abbiamo introdotto, perché la legge è passata nella Camera Alta e adesso aspettiamo, o meglio prevediamo, che anche la Camera Bassa approvi il testo. Ecco, devo dire che sono molto fiera del fatto che abbiamo realizzato la parità delle donne in ogni ambito della vita, per cui oggi partecipano allo sviluppo del paese. Questo è molto importante dal punto di vista dei diritti delle donne ed è importante soprattutto per lo sviluppo e la crescita femminile.

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Noi abbiamo proprio cominciato da zero e ci sono stati dei deputati che hanno combattuto grazie alla guida del Mahatma Gandhi e non sorprende che sia emerso il Partito del Congresso come par-tito così importante. Con la leadership di questo partito abbiamo realizzato moltissimo. Noi abbiamo dei piani quinquennali di volta in volta diversi e cer-chiamo di introdurre anche questo nuovo approccio per un’econo-mia aperta. È stato avviato un processo di modernizzazione a li-vello agricolo e industriale - importante in questo contesto è stata la leadership di Indira Gandhi - e abbiamo poi dato molta impor-tanza al welfare, tenendo però presente anche le esigenze dell’eco-nomia, perché chiaramente l’obiettivo a livello nazionale era quello di eliminare la povertà. Questo è stato fatto anche mediante una riforma agraria. Il Mahatma Gandhi aveva già individuato questa necessità e si rendeva anche ben conto di quelle che sarebbero state poi le esigenze del Ventunesimo secolo. Quindi noi attualmente abbiamo una delle industrie di software e di computer più sviluppa-ta del mondo, ci sono telefoni in ogni villaggio. È stato avviato un programma di risanamento strutturale e ora l’India da tutto il mondo è riconosciuta come una grande potenza economica. Ciò è dovuto al fatto che noi siamo stati in grado di realizzare, di ottenere delle grandi conquiste con il sostegno del nostro Parlamento. Grazie al nostro successo, in qualche modo il nostro partito è stato sempre in contatto con i cittadini, con la gen-te e quando siamo noi a dirigere il paese la cittadinanza si sente al sicuro. Anche Indira Gandhi una volta ha perso le elezioni, ma noi abbiamo accettato il verdetto dell’elettorato. Io vorrei aggiun-gere che sicuramente stiamo affrontando delle difficoltà, però direi anche che questa è la seconda legislatura diretta dal Partito del Congresso e da Sonia Gandhi. A livello economico stiamo crescendo ad un tasso del 9% e c’è crescita anche a livello agricolo, tuttavia ci occupiamo anche delle riforme sociali ed è per questo che esiste il diritto al lavoro, il di-

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ritto all’istruzione e stiamo creando anche il diritto alla sicurezza alimentare. Quindi, nonostante la crisi economica globale, grazie alle nostre politiche, alle nostre tradizioni e ai valori, noi stiamo estendendo la ricchezza a tutti. Una volta il Mahatma Gandhi ha detto che noi dobbiamo affrontare una grande sfida che è quella della lotta per la democrazia, quindi mi rivolgo a tutti i leader dei partiti progressisti per elaborare una strategia che possa combatte-re tutte le minacce tali da mettere in pericolo la democrazia. Questo è quello che dobbiamo fare soprattutto adesso, in tempi di globalizzazione. Noi dobbiamo unire le nostre forze e quindi vorrei dire che veramente dobbiamo procedere insieme, mangiare e bere insieme e godere insieme e anche ottenere la nostra salvezza insieme, ecco perché ci dobbiamo riunire e procedere con gioia e speranza. Tutti i partiti progressisti dovranno, mi auguro, guida-re gli Stati. Avevo promesso che avrei concluso in dieci minuti. Grazie per avermi dato l’occasione di citare il Mahatma Gandhi. Devo dire che la discussione di oggi mi ha ricordato quando il Mahatma è andato a Londra e gli è stata rivolta una domanda sul-la civiltà. Lui rispose: «Beh, sarebbe opportuno avviarla, la civiltà occidentale».

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Pierluigi Bersani

Conclusioni Costruire un’agenda progressista su scala europeaLa prima più grande sfida da affrontare, in questo nostro tempo, è come rimontare il gap fra il mondo che si è globalizzato, e cioè quel-lo dell’economia, della tecnica, della comunicazione, quello dei trend sociali, dei problemi che non conoscono barriere – l’emergenza cli-matica, l’energia o il governo dell’immigrazione – e quello della po-litica, che invece non si è globalizzato e che perciò insegue, si adatta come può, spesso in ritardo. Da una parte il modello economico del-la globalizzazione non rende più necessario creare un prodotto, e poi venderlo, trarre profitto, pagare le tasse, tutto nello stesso territorio. Si è rotto il legame automatico fra il territorio, la sua ricchezza, il po-tere politico, il potere fiscale. Dall’altra parte la governance mondiale si regge ancora fondamentalmente sul sistema Onu, creato dopo la seconda guerra mondiale, e sui summit del G8, oggi aggiornato nel G20 per tenere conto delle nuove potenze emerse. Tra le risposte capaci di colmare questo gap, di far recuperare ter-reno alla sfera della politica, noi – mi rivolgo ai non europei – cre-diamo fortissimamente nel valore unico e irripetibile dell’Unione europea, primo cantiere democratico sovranazionale. È un’espe-rienza che da sessant’anni ha allontanato dall’Europa lo spettro della guerra, della fame, la paura del vicino; e che ha saputo dare anche dei primi segni importanti di reazione dopo la crisi finanzia-ria. Nonostante questo, però, i progressisti devono tenere ben pre-sente il problema, devono continuare a domandarsi come rendere adeguati gli strumenti della politica globale. Seconda questione. Ci siamo lasciati alle spalle un secolo dram-matico. L’Europa regalò al mondo due guerre mondiali e sposò la neonata società di massa con ideologie assolute e tragiche. Dopo la caduta del muro di Berlino, si è pensato che la storia fosse finita

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e che la globalizzazione dei mercati e delle democrazie potesse co-stituire un approdo tranquillo e relativamente facile. Direi, se mi è permesso, che si è proposta la globalizzazione come grande ideolo-gia sostitutiva di quelle del Novecento. Le paure scatenate dall’11 settembre e la guerra al terrore con cui abbiamo aperto il decennio, insieme alla crisi finanziaria globale con cui l’abbiamo chiuso, ci consegnano un mondo che è rimasto orfano di una visione, di una narrazione positiva che sospinga la politica. La vittoria del Presidente Obama con la sua parola chiave change, imitata da molte parti del mondo in questi due anni, è segno più di una volontà e di un coraggio verso nuove direzioni, che un affresco compiuto di un mondo nuovo. C’è dunque, per i progressisti, il problema di una narrazione condivisa, capace di conquistare i cuori e le menti delle opinioni pubbliche. Una narrazione grande, positi-va, fondata sulla speranza, non soltanto l’offerta di una protezione dalle paure che scuotono le nostre società.La terza questione, per i progressisti, dopo gli strumenti e la vi-sione, è ovviamente quella della volontà politica. Noi in Europa potremmo fare molto. Abbiamo costruito una nuova dimensione nella quale esercitare efficacemente la sovranità. La crisi econo-mica, la crescita, l’innovazione, l’immigrazione, l’energia, la si-curezza, la protezione dei consumatori sono tutte questioni che o saranno affrontate su scala europea o non verranno risolte in maniera efficace. Al tempo stesso dobbiamo essere consapevoli del fatto che gli ultimi anni ci insegnano che è in corso un pro-cesso di “rinazionalizzazione” della politica. Processo che è in contraddizione con l’analisi razionale della realtà ma che, nono-stante questo, muove la parte emotiva e più irrazionale dei citta-dini e degli elettori. E rischia molto concretamente di produrre un arretramento della politica in una dimensione solo domestica. Dico con franchezza che anche i progressisti europei, i riformisti, troppo spesso iniziano i loro discorsi evocando una dimensione internazionale, ma poi si fermano alle soglie del proprio paese.

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Vorrei infine dire poche parole sull’Italia, prima di terminare. Noi sappiamo che l’Italia è un paese molto amato nel mondo. Molto ama-to per la sua storia, per la sua arte, per le sue bellezze naturali, per le sue tre “F”: Ferrari, food and fashion. Ma è un paese che in questo mo-mento solleva curiosità, diciamo così, per la sua condizione politica. Il Partito democratico sta lavorando per un’alternativa al governo Berlusconi, ma ancora più per un’alternativa al modello Berlusco-ni. Non è facile. Quindici anni di presenza di Berlusconi hanno cambiato molto il campo di gioco. Perciò l’uscita dal berlusconismo sarà più lunga e difficile dell’uscita da Berlusconi. Dobbiamo esser-ne consapevoli. Per il resto, la situazione è che noi siamo stati colpiti duramente dalla crisi economica e stiamo recuperando più lentamente di al-tri partner europei. Abbiamo aree di eccellenza e aree che resta-no invece in grande difficoltà. Abbiamo proprio ieri, nella nostra Direzione nazionale, discusso dell’orizzonte lungo di riforme e di impegni che servono al paese per recuperare il tempo perduto. La tenacia non ci manca. E nemmeno la passione per il nostro paese. Stiamo cercando di convincere altri ad unirsi con noi in questo disegno, a formare un’alleanza più grande per dare all’I-talia un governo migliore. E siamo fiduciosi di poter riuscire in questa nostra impresa. Come in Italia serve un campo di forze politiche diverse, progressiste, riformiste, più moderate, così noi pensiamo che i progressisti debbano lavorare nel resto del mondo. Pensiamo a una rete, a uno scambio di buone pratiche, di espe-rienze legislative e di governo. Una rete per fare incontrare i nostri amministratori locali, la nuova generazione che cresce spontanea-mente più “globale” della nostra.Ricapitolando: strumenti, narrazione, volontà politica. Abbia-mo dei forti partiti nazionali. Partiti che sopravvivono ai lea-der che li guidano. Che non sono ammalati del populismo di corto respiro degli ultimi anni. E abbiamo principi e valori che non passano come le mode: il rispetto della persona, l’in-

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clusione sociale, le opportunità per tutti, il merito e il talento da valorizzare, la solidarietà, i diritti umani da promuovere. Noi siamo disponibili a fare la nostra parte, a partecipare ad uno sforzo comune.Questa iniziativa, per la quale ringrazio Dario Franceschini, no-stro capogruppo alla Camera, è il segno che l’Italia non vuole solo essere un meraviglioso posto per trascorrere indimenticabili vacan-ze, ma anche un nodo della nuova rete che si candida a rendere questo mondo un posto migliore per le generazioni che verranno.

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Sessione 2Progressismo contro virus populista

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David Sassoli

Relazione introduttivaRivitalizzare il sogno europeo dopo le ultime elezioniMi è stato affidato un tema molto ambizioso: come rilanciare il so-gno europeo. Voglio partire però da quello che ho capito dai vostri interventi di ieri: l’agenda progressista può riempirsi di contenuti soltanto rilanciando l’idea che la vita degli uomini e degli Stati non sia inesorabilmente scritta dalle dinamiche del mercato. Siamo noi invece che possiamo contribuire a scriverla, con una politica fon-data sul principio di uguaglianza. Cosa insegna, del resto, la storia della crisi finanziaria esplosa nel 2008 e che ancora non ha depo-sitato tutti i suoi effetti? Abbiamo capito che la globalizzazione è un processo inarrestabile, che oltre il 40% del Pil mondiale è frutto della globalizzazione, che la rivoluzione scientifica e tecnologica è un fattore unificante del mondo globale, che l’innovazione telein-formatica rappresenta una rivoluzione economica pari alla rivolu-zione industriale, che nessuna dimensione nazionale, naturalmente non parlo della Cina, può sostenere sfide globali. Di fronte a tutto questo e agli effetti di questo processo abbiamo ca-pito di essere tutti impreparati. Tutti ci presentiamo a mani nude di fronte ad un mondo che ha messo in scena queste dinamiche globali che presentano vantaggi e svantaggi. Se fra i vantaggi ritroviamo la crescita della ricchezza globale, le opportunità individuali, la crescita degli investimenti esteri, l’allargamento dei mercati; fra gli svantag-gi prodotti da una finanza lasciata a se stessa, troviamo l’esplosione della crisi, più marginalizzazione, più esclusione e l’emergere di una nuova questione sociale che è la questione sociale globale. La globalizzazione, oggi lo capiamo per davvero, lo capiamo in profondità, non consente più politiche economiche o monetarie nazionali. Questo è un punto fermo per tutti, Nord, Sud, Est, Ovest del mondo e, credo, occorra partire da qui, dalla consapevo-

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lezza che siamo tutti pezzi sparsi in un mondo che ha bisogno di nuove regole e di nuova politica. Tutti ci ritroviamo, anche questo è stato detto, nella necessità di dare governo e quindi politica alla finanza e all’economia. Un sistema internazionale-transnazionale governato dalla sola legge del mercato può essere di estrema bru-talità, può escludere coloro che non sono competitivi; questo vale per gli individui ma anche per gli Stati; l’Africa ad esempio deve tornare nei pensieri dei progressisti, non può essere solo terra di conquista né mercato interno cinese. Uno dei drammi della globalizzazione senza governo è quello di rendere fragili i legami sociali. L’estrema competitività mette gli uni contro gli altri, gli svantaggiati contro gli avvantaggiati, i po-veri che diventano sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi; l’u-miliazione dell’immigrazione cui sono costretti milioni di uomini ogni anno deve essere una priorità nell’agenda dei progressisti. Ci sono costi economici, ci sono costi umani, ci sono anche gravi co-sti culturali: quando le culture s’incontrano è positivo, quando le culture vengono marginalizzate o si sentono minacciate, si posso-no creare le condizioni perché nascano nuovi conflitti all’insegna dell’identità nazionale o dell’identità religiosa; il tema lo conosce-te, è all’ordine del giorno in tante aree del Medio Oriente, dell’A-frica e dell’Asia. Ma non ci sono solo conflitti evidenti e sanguinosi. La crisi econo-mica sta producendo virus nelle aree geografiche dove pensavamo fosse più robusta la tenuta di vincoli di solidarietà e di uguaglian-za; l’Europa in questo momento è una di queste realtà a rischio, basta venire al Parlamento europeo – anzi veniteci più spesso – per rendervi conto che su settecentocinquanta parlamentari eletti a suffragio universale, nel più importante Parlamento del Nord del mondo, cento parlamentari circa sono rappresentanti a vario ti-tolo di culture nazionaliste, xenofobe, fasciste, ultraconservatrici e antieuropee. Se andassero d’accordo tra loro, sarebbero il terzo gruppo parlamentare al Parlamento europeo.

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Sarebbe bello vivere in una società europea in cui si confrontano progressisti e conservatori. In realtà una terza via già esiste, ed è quella di un populismo che sta minando in profondità la gamma di valori che formano il serbatoio dei valori universali. La crisi europea – come diceva ieri Stavros Lambrinidis – è soprattutto crisi di valori politici, a questo dovete aggiungere l’egoismo degli Stati, le dinamiche intergovernative che prevalgono sullo spirito europeo. Credo che una grande responsabilità pesi su di noi, sui progressisti. Possono farcela le famiglie politiche del Novecento, con il loro ba-gaglio culturale, le loro esperienze, i loro successi, le loro sconfitte, a rispondere a sfide nuove, e così globali? Possono farcela. Il tema è all’ordine del giorno in Europa, ma non ci sono ricette. Credo che tutti abbiano il dovere di aprire le case, perché con la globa-lizzazione stanno emergendo anche comportamenti nuovi, sensi-bilità nuove, movimenti nuovi che possono offrire identità ad una cittadinanza mondiale. Spesso siamo molto bravi, noi progressisti, nella lettura delle distorsioni, ma non sempre altrettanto bravi nel cogliere la vitalità di culture, opportunità, sensibilità che emergo-no anche spontaneamente e che ci interrogano con severità. Spes-so siamo anche troppo timidi nella proposta, il dibattito sulle mo-nete di riserva deve vederci più coraggiosi. Ieri è stato accennato alla tassa sulle transazioni finanziarie: può essere quella tassa uno strumento per ridistribuire i danni causati dal mercato finanzia-rio e così garantire risorse da destinare al lavoro? Penso anche al reddito minimo garantito: è una proposta positiva o negativa per dare cittadinanza a milioni di persone escluse dal mercato del la-voro? Penso alla difesa di fondamentali beni pubblici, messi a dura prova dalle politiche liberiste; penso all’allargamento dello spazio europeo, come forma di vincolo per mettere in sicurezza stabilità e pace. E penso anche – su questo i progressisti europei dovrebbero essere più coraggiosi – alla questione della Turchia, come l’anno scorso ci è stata riproposta dal Presidente Obama. Se nessun paese

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nell’economia globalizzata può farcela da solo, anche la Turchia, allontanata dall’Europa, dovrà trovarsi altrove altri partner. Il sogno europeo, appannato dalla destra, minacciato dal populi-smo, deve essere rilanciato. Ma c’è una novità: non possiamo più realizzarlo da soli. È essenziale il contributo di una rete progressi-sta esterna all’Unione europea, che si ponga la grande questione di questo inizio secolo: come fermare il dinamismo spontaneo della mondializzazione finanziaria. La situazione europea è stata fotografata molto bene di recente, nel rapporto sul mercato unico dell’Unione europea, consegnato alla Commissione europea dal professor Mario Monti. L’Europa soffre di consenso, consenso da parte dei cittadini e da parte degli stati: se non si ottiene consenso è improbabile che possano essere adottate le iniziative per realizzare un forte mercato unico, per rilanciarlo; per essere robusto questo richiede un potenziamento della funzio-ne esecutiva e della governance europea. L’Europa, che possiede il più grande mercato del mondo è oggi ad un bivio: imboccare con decisione la strada di una maggiore integrazione economico-sociale o aspettare che smetta di piovere, che finisca il temporale. Ma il mondo globalizzato ci aspetterà? Mi ha colpito molto lo scorso anno l’intervento del Vicepresiden-te degli Stati Uniti, Joe Biden, in visita a Strasburgo, quando ha ricordato, anche con una certa fierezza che il Parlamento europeo rappresenta ottocento milioni di cittadini. Parliamo di istituzioni importanti, di scatole che contengono valori decisivi per dare re-gole alla globalizzazione. Ma gli altri cinque miliardi e mezzo di uomini e donne, mi sono chiesto, dove sono? Sono dall’altra parte del mondo, dove di diritti troppo spesso non ne vediamo, dove si cresce ad un ritmo molto veloce, dove le istituzioni sono spesso troppo fragili e la dignità dell’uomo, in tanti casi, non ha valo-re. Credo che una visione progressista debba partire da qui, non stancandosi dei problemi, come ci invita a fare Zygmunt Bauman, prima di averli risolti.

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Antonio Estella

Introduzione Avevo preparato delle note introduttive, però, dopo aver ascoltato il collega greco ieri, credo che abbia detto tutto quello che avrei voluto dire io oggi, nel senso che ha fatto proprio il discorso che bisognava fare in questo caso. In Spagna, dal maggio 2010, noi abbiamo cominciato a perdere e la destra a vincere. E questo perché il governo socialista è do-vuto intervenire molto per ridurre la spesa. Ciò significa che ogni volta che smarriamo le nostre parole, la nostra narrativa sociale, noi perdiamo e vince la destra. Credo che questo sia veramente importante per noi progressisti: non dobbiamo perdere la nostra carta d’identità in quanto socialdemocratici, dobbiamo mantenere la nostra narrativa sociale, è davvero molto importante. Qui in Italia la destra ha portato una narrativa neo-liberista che arriva dall’Europa: ridurre la spesa per crescere; ma come ha detto il mio collega greco dobbiamo pensare che se non si cresce, non saremo in grado di ridurre la spesa in futuro, quindi è veramente importante non perdere di vista il fatto che l’obiettivo ultimo di quello che stiamo facendo in Europa e in molti Stati dell’Unione non può essere ridurre la spesa come attività fine a se stessa. La nostra meta deve essere la prosperità, dobbiamo parlare di una nar-rativa di prosperità alla nostra gente. Io non so se ciò sia popolare o populista, io so solo che dobbiamo rimanere aderenti a questo tipo di idea perché altrimenti in futuro i tempi si faranno sempre più duri e non saremo in grado di garan-tire un’Europa prospera. Adesso la parola a Raymond Johansen, Segretario generale del Partito laburista norvegese, ex Vicemini-stro degli Esteri.

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Raymond Johansen L’esperienza scandinavaSono molto lieto di essere qui. È importante per i partiti social-democratici condurre un dibattito attivo sulle sfide da affrontare. La socialdemocrazia in Scandinavia ha una posizione forte, però in questi tempi dobbiamo affrontare i problemi posti dalle destre, sia dai conservatori che dalla destra populista. I socialdemocratici hanno perso le elezioni per la seconda volta consecutiva e quindi sono in una fase di ristrutturazione. Un nuovo partito anti im-migrazione è entrato per la prima volta nel Parlamento svedese. In Danimarca i socialdemocratici non sono al potere da vari anni perché i liberali governano con il sostegno della destra populista, tuttavia i sondaggi indicano che i socialdemocratici, con Helle Thorning-Schmidt alla guida, hanno veramente la possibilità di vincere le prossime elezioni e noi gli facciamo i migliori auguri. In Norvegia, che è un paese europeo e che è più integrato in Eu-ropa, nell’economia europea, di tanti altri paesi europei, abbiamo vinto le elezioni nel 2005 e abbiamo formato un governo di coali-zione con due partiti minori, poi siamo stati rieletti nel 2009 per altri quattro anni, e questa è la prima volta che il Partito laburista norvegese è in una coalizione. È stata una buona esperienza ed ha portato al paese un governo stabile. Io penso che molti di voi ritengano che la Norvegia sia un caso particolare e che è facile crescere perché abbiamo gli introiti del petrolio e del gas. Non è vero, questo non basta per crescere. La storia ce lo ha insegnato. Naturalmente siamo messi bene per combattere la crisi finanziaria, ma per garantire una società equa ed egualitaria nel lungo termine dobbiamo riuscire in una serie di settori, non possiamo basarci solo sugli introiti del petrolio e del gas, e il compito più importante è garantire un elevato tasso di occupazione. Questo è stato e sarà l’obiettivo principale del nostro partito. L’oc-cupazione infatti ci dà un doppio vantaggio, da un lato fa aumen-

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tare le entrate dello Stato, dall’altro riduce la spesa pubblica, ridu-cendo i problemi sociali e le disparità. Questo è il presupposto del welfare scandinavo. La sostenibilità del nostro welfare è al centro del dibattito politico norvegese oggi, è qui che si vedono le diffe-renze tra il Partito laburista e i conservatori e i populisti di destra, ed è qui che dobbiamo dare all’elettorato qualcosa con cui identifi-carsi, per cui riconoscono difesi i loro interessi. Ora vorrei spiegare un po’ meglio questo modello di welfare che abbiamo costruito negli anni. Si fonda su tre pilastri: il primo è un prelievo fiscale moderato che poggia su un’ampia base imponibile ovvero un prelievo che sia il più basso possibile, ma il cui livello sia alto quanto è necessario; come secondo pilastro un settore pubblico forte, che eroga buoni servizi e, infine, la cooperazione dei tre sog-getti che disciplinano il mercato del lavoro. Questi tre pilastri sono interdipendenti, e se ne viene meno uno crolla l’intera costruzione. Ora entriamo più nel dettaglio. La nostra priorità è mantenere una forte partecipazione della forza lavoro abbinata ad elevati salari. Questo garantisce un’ampia base imponibile che quindi porta ri-sorse finanziarie allo Stato. Il nostro segreto sono le donne: ci sono tante donne nel nostro mercato del lavoro, questo è importante, più importante quasi del petrolio e del gas. Il secondo pilastro è un settore pubblico forte. Le società nordiche sono caratterizzate da un settore pubblico che eroga buoni servizi perché ci sono tante persone che pagano le tasse ed esigono anche servizi dal settore pubblico. Un esempio: quando le giovani coppie hanno dei figli, il fatto che noi mettiamo a disposizione asili a tempo pieno consente ad en-trambi i genitori di lavorare. Oggi le donne norvegesi hanno più figli delle donne in Italia o in Spagna, proprio grazie a questi ser-vizi moderni, perché entrambi i genitori lavorano. Quindi questo è un elemento importante del secondo pilastro. Il terzo pilastro, forse, è quello più straordinario. La cooperazione tra Stato, sindacati e datori di lavoro. I sindacati norvegesi fino ad

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ora hanno dimostrato responsabilità, anche per questo sono diven-tati sempre più influenti. I sindacati siedono nei Cda delle società e questo sviluppa l’attenzione verso la produttività sul posto di lavoro ed agevola la modernizzazione. Inoltre si sono ridotti i conflitti a livello di relazioni industriali. I sindacati hanno accettato aumenti salariali moderati e i datori di lavoro hanno investito molto per le nuove tecnologie. Il patto è stato: noi accettiamo aumenti salariali minori, ma in cambio voi investite in tecnologia. In collaborazione con i sindacati e non in contrasto con loro, poi abbiamo realizzato una riforma delle pensioni che garantirà la sostenibilità del sistema pensionistico anche in futuro. La cooperazione tra questi tre ele-menti ha aumentato la competitività ed ha abbassato la disoccupa-zione. Nonostante elevati salari e prezzi quindi abbiamo uno Stato e un welfare che funzionano e la disoccupazione al 3,5%. Allora perché il Partito laburista fatica, e invece i conservatori e la destra populista ottengono consensi? Dopo cinque anni al gover-no, forse, alcuni elettori sono stanchi degli stessi politici e, come in un reality show, gli elettori vogliono facce nuove, personalità nuove. Anche nel matrimonio ci si stanca, a volte. Però le ragioni princi-pali, vere, sono in realtà molto più serie. In primo luogo il Partito conservatore – e questo vale per tutta l’Europa – si sta posizionan-do verso il centro. Hanno studiato i moderati in Svezia e stanno cercando di adottare la stessa strategia in Norvegia. Dicono all’e-lettorato che sì, il governo sta operando bene per quanto riguarda la sicurezza del lavoro e il welfare, ma loro saranno in grado di essere più efficienti, con una maggiore privatizzazione e una mag-giore libertà di scelta. Stanno cercando di rubarci le nostre politiche, mentre noi siamo impegnati a governare. Inoltre i conservatori, per la prima volta, stanno dichiarando che hanno intenzione di formare una coalizio-ne con il partito di destra populista, il cosiddetto “partito progres-sista”, e nei prossimi due anni e mezzo vi si prepareranno. L’eletto-rato adesso è più abituato all’idea di una coalizione tra conservatori

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e “partito progressista”, però, quando chiediamo agli elettori, biso-gna pensare che il 60% ritiene che la Norvegia stia andando nella direzione giusta; certo non possiamo competere con i cinesi perché lì c’è un fortissimo consenso per il governo, come anche in Brasile; rispetto al consenso che hanno i governi in Europa che è al 30% stiamo molto meglio. Insomma, in generale la popolazione è soddisfatta di questi orien-tamenti, però vogliono comunque un cambiamento. Allora la que-stione è la strategia. Dobbiamo in qualche modo battere la loro strategia e quindi dobbiamo dire che cosa vogliamo per la socie-tà. Come qualcuno ha detto ieri, è molto più importante dire cosa vogliamo piuttosto che fare tante analisi. Noi invece analizziamo sempre! Dobbiamo dire loro qual è la narrativa, qual è la storia nella quale si potranno identificare, per avere una storia positiva. Ci deve essere un’identificazione dell’elettorato. In secondo luogo dobbiamo individuare quei temi che fanno emergere il contrasto tra destra e sinistra e indicare quali sarebbero le conseguenze di un governo di destra: ad esempio il dibattito sulla proprietà pubblico-privato, o sull’assistenza agli anziani, sono elementi da chiarire al pubblico. In terzo luogo dobbiamo far capire che i conservatori sono legati a doppio filo con la destra populista e che ridurranno la spesa pub-blica. Anche David Cameron ci ha dato degli esempi molto utili per quanto riguarda i servizi pubblici e le riduzioni previste per le borse di studio agli studenti. Dobbiamo riconoscere la trappola del welfare, ovvero la trappola della difesa di ciò che abbiamo, di ciò che esiste. Noi in genere ci concentriamo sulla sostenibilità del welfare, dobbiamo invece parlare della creazione di posti di lavoro, della produttività: questo è necessario per il futuro, questo è vera-mente importante. Vedete, il movimento socialdemocratico non può essere solo per coloro che non hanno avuto successo nella vita. Mi esprimo in questi termini per essere un po’ provocatorio, perché alle ultime elezioni in Svezia, 4,2 milioni di svedesi, vale a dire il 33,5% ha vo-

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tato per i moderati mentre solo il 21% per la socialdemocrazia. Pro-prio perché noi parliamo di questioni sociali non possiamo sem-pre occuparci di coloro che non sono riusciti nella vita. Dobbiamo concentrarci anche su chi ha avuto successo. Sono questi che poi contribuiranno al welfare. Dicevo di questa trappola della difesa dell’esistente, di ciò che abbiamo. Dopo anni al governo, spesso si cade nella trappola di difendere quello che si ha, e noi difendiamo il welfare, però lo dobbiamo anche criticare duramente, individuare cosa non funziona e migliorarlo. Dobbiamo sempre rinnovare il settore pubblico perché è quella la difesa migliore. C’è sempre il rischio di scivolare. E poi dobbiamo evitare la trappola dell’apatia, dovremmo essere una forza positiva e mostrare alla gente che i politici possono guidare lo sviluppo. In un momento di competizione globale, di difficoltà economica, dobbiamo dimostrare che i partiti hanno a cuore le sorti delle per-sone comuni: dobbiamo concentrarci sui temi che sono importanti per loro. Recentemente un collega svedese ha detto che i parti-ti democratici non hanno rapporti, non sanno parlare alla gente. Questo potrebbe essere esagerato, ma c’è un elemento di verità: per avere successo nel futuro dobbiamo rimanere in contatto con la gente, uscire dai nostri uffici, andare nelle strade, nelle scuole, nelle imprese, dobbiamo incontrare gli elettori dove si trovano e parlare in una lingua che loro comprendano. Se noi non descrivia-mo la realtà della gente in modo riconoscibile, noi perderemo la nostra forza come ampio movimento popolare. Questa conferenza è una buona occasione, e noi tutti possiamo valutare, vedere a che punto siamo. Dobbiamo essere aperti alle nuove idee e moder-nizzare le nostre politiche. È necessario per far fronte alla sfida conservatrice. Sono convinto che ben presto ci saranno nuovi pri-mi ministri socialdemocratici, e il primo potrebbe essere proprio Schimdt in Danimarca.

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Enrico LettaOltre BerlusconiGrazie a voi e grazie anche a Raymond Johansen per ciò che ha detto. Parlerò ovviamente della situazione italiana: evidentemente non siamo ancora giunti al dopo Berlusconi. Stiamo cercando di sconfiggerlo, ma non è così facile. Voi sapete che in Italia andiamo pazzi per il calcio, e quindi io terrò come schema, come struttura del mio intervento, un modulo 4-3-4. Quattro punti su Berlusconi e sui motivi della forza di Berlusconi ancora dopo diciassette anni; tre circa i motivi per cui il populismo e i conservatori riescono a realizzare i propri obiettivi, perché hanno avuto successo; quattro considerazioni finali su ciò che secondo me dobbiamo fare in Ita-lia, per sconfiggere il populismo di Berlusconi e cercare di offrire un’alternativa a questo populismo e a questo conservatorismo. Ora i quattro motivi che riguardano la presenza di Berlusconi. Voglio sottolinearli non perché ci troviamo in Italia e non perché dobbiamo parlare per forza dell’Italia e di Berlusconi, ma perché secondo me potrebbe essere interessante per tutti voi. Non ritengo Berlusconi un’anomalia italiana, anzi ritengo rappresenti un caso con caratteristiche che potrebbero verificarsi in tutti gli altri pae-si. Cercherò di spiegare il perché. Il primo punto riguarda natu-ralmente il controllo dell’informazione e dell’economia; questo è molto importante, perché è uno dei veri motivi della sua forza. Non è giusto dire che Berlusconi vince perché convince la gente. Così si sottovaluta il controllo dell’informazione. Al contrario, è importante questo controllo. Uno dei nostri errori è stato non cambiare le regole, perché avere la possibilità di controllare l’informazione pubblica e quindi il fatto di poter avere il sistema mediatico più grande, più forte, sotto control-lo, dà a Berlusconi la possibilità di parlare con una voce forte, una forza che naturalmente cambia la possibilità di essere convincenti o meno. Il fatto di avere una voce forte dà la possibilità di essere

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ascoltati da cinquanta milioni di persone, avere una voce debole ci dà la possibilità di essere ascoltati dalle persone che leggono i gior-nali. Ora, in Italia la gente che legge i giornali è pari a 5 milioni di persone, in un paese con 50 milioni di abitanti, è un gruppo davvero limitato, quindi la differenza è davvero rilevante. Ma non è solo il ruolo mediatico, c’è anche il controllo dell’economia, perché il suo ruolo nell’economia gli dà la possibilità (è una persona che ha molto denaro al di fuori della politica) di esercitare un controllo e quindi un’influenza considerevole su tutta la dinamica dell’economia. Pen-so che questo sia un elemento davvero importante a cui dobbiamo fare attenzione. Intendo il ruolo delle persone che controllano l’in-formazione e l’economia e che cercano di entrare in politica o di operare in politica, avendo questo tipo di potere. Nell’ultima elezione in Catalogna c’è stato il caso Laporta. Ora, Laporta ha fallito, però il modello Laporta era un modello ber-lusconiano in piccolo: innanzi tutto il calcio, il Barcellona in quel caso, quindi il potere, ma niente media, niente informazione. Ecco perché il controllo mediatico è uno dei punti fondamentali, lo vo-glio sottolineare davvero. Ora, secondo punto: l’approccio di Berlusconi non è un approccio prettamente politico, è in Parlamento da diciassette anni e quindi è molto difficile dire che non sia un politico, ma il suo approc-cio nei confronti della gente è quello di dire sempre: «io non sono come loro, loro sono i politici, non io; loro sono sporchi, non hanno mai gestito un’impresa, non hanno un lavoro, io sono un uomo di successo, un uomo d’affari». Il fatto di sposare questa anti-politica come strategia ha portato i suoi frutti e noi dobbiamo essere con-sapevoli di questo, è una storia di successo. Oggi in Italia è questo che sembra avere successo: la strategia dell’antipolitica. Terzo punto: il successo che ha ottenuto nel separare i fatti dalla narrativa. Avete sollevato un punto molto interessante sulla narra-zione, lo riprenderò più tardi. Quello che qui voglio dire è che il successo di Berlusconi è basato sul fatto che separa sempre i fatti

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dalla narrativa, e quindi la gente segue questo teatro come se fosse uno spettacolo dal vivo, in televisione, una diretta televisiva con gente che parla, che assume una posizione o un ruolo, ma con una separazione netta tra questa e i fatti, tra ciò che accade nella realtà e ciò che vediamo in televisione. Questo successo è strettamente le-gato al controllo dell’informazione, perché se i media sono in gra-do di ricollegare i fatti e la narrazione, in contrapposizione ci sono solo i giornali, ma non è possibile, solo con i giornali, raggiungere cinquanta milioni di persone. La differenza è proprio questa, tra cinque milioni di lettori di quotidiani e cinquanta milioni di tele-spettatori, cinque milioni di lettori di quotidiani e cinquanta mi-lioni di persone che vivono la propria vita senza leggere i giornali e senza quindi avere accesso a questo tipo di informazione. Passiamo al quarto punto: la crisi finanziaria. Per Berlusconi è stata una fortuna. Perché dico questo? Non perché mi riferisco al risultato economico, calo della crescita e aumento della disoccu-pazione. Per lui la crisi è stata una fortuna perché ha portato la gente a dire: abbiamo bisogno di più Stato e meno mercato, e più Stato e meno mercato è il contrario in Italia di quello che si pensa normalmente riguardo allo Stato e al mercato; questo vuol dire più monopolio e meno potere per i consumatori. In questo conte-sto Berlusconi vince perché ha basato il suo potere sull’economia o meglio sui monopoli e contro i consumatori, contro il mercato, contro il mercato libero. Ecco perché questo aspetto della crisi rappresenta per lui una fortuna. Questi sono i primi quattro punti. Passiamo ora agli altri tre che spiegano la forza del populismo e del conservatorismo, in questo ultimo decennio. Quello che ha detto Raymond Johansen è molto importante. Il primo di questi tre punti riguarda l’immigrazione. Dobbiamo considerare i dati, perché senza una valutazione nume-rica è difficile parlare dei fatti. I dati sull’immigrazione in Euro-pa: nel ventennio compreso tra gli anni ’70 e ’80 sono arrivati in Europa cinque milioni di immigrati, negli anni ’90 e nell’ultimo

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decennio invece, venticinque milioni. Questi dati spiegano – come ci diceva prima David Sassoli – perché oggi al Parlamento europeo abbiamo delle forze anti immigrazione molto forti. La differenza tra cinque milioni e venticinque milioni è rilevantissima, questo vuol dire che cambia la vita delle nostre comunità, vuol dire che cambia la vita di città intere nei nostri paesi, nei nostri Stati, e la reazione degli elettori in alcuni casi è stata piuttosto dura, e noi, come progressisti, veniamo visti come coloro che dicono al riguar-do: «A noi non interessano le conseguenze provocate da questi ven-ticinque milioni di persone, rispetto ai cinque milioni di prima». Secondo me questo è un punto importante, perché i populisti e i conservatori hanno unito la propria reazione, forse in modo molto negativo – in modo molto sporco direi – comunque hanno preso fortemente in considerazione questo aspetto. Secondo punto: l’impasse per l’integrazione europea. Per loro è stato un atout davvero importante. L’impasse raggiunto nel processo di integrazione europea ha dato a loro l’idea che l’Europa sociale è negativa. Ci sono troppe procedure, regole, lacci e lacciuoli e noi vogliamo decidere a livello nazionale. Questo secondo punto ci con-sente di capire il successo dell’unione tra populisti e conservatori. Poi c’è il terzo che riguarda il protezionismo e gli insuccessi degli ultimi dieci anni dell’Organizzazione mondiale del commercio. Penso all’ingresso nel Wto della Cina, senza la possibilità di avere un periodo di transizione e di cercare di evitare alcuni problemi che avevamo nelle industrie manifatturiere europee; chiaramente questo è stato sfruttato dai populisti per dire: sono loro i colpevoli. Ecco, questi tre punti sono importanti per capire perché i populi-sti e i conservatori negli ultimi decenni si sono uniti, hanno unito le forze ed hanno vinto, hanno vinto nel Parlamento europeo e hanno vinto a livello nazionale in Europa (naturalmente mi rife-risco agli Stati europei). Voglio quindi chiudere su ciò che dobbiamo fare, perché l’analisi può essere giusta ma ora passiamo alle misure da adottare. Que-

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sto è fondamentale, dobbiamo capire come possiamo cambiare. Il primo punto è sicuramente collegato a ciò che ha detto prima Raymond Johansen: dobbiamo cambiare il modo di far politica. Se parliamo di sfide per noi che siamo in Italia, Berlusconi ci co-stringe ad affrontare queste sfide in modo molto duro, diretto. Gli elettori vedono e pensano che non sia più accettabile una politica con troppi privilegi, dobbiamo riconoscere questo. Non è solo un fatto legato al populismo, è più importante, la gente deve guar-dare i politici, ci deve vedere come persone normali, persone che si occupano di politica. Potremmo anche fare altro nella vita e la nostra credibilità personale è importante, perché senza una credi-bilità personale ciò che noi diciamo è inutile. È importante anche poter raccontare delle storie personali. Quindi, meno privilegi per la classe politica e più decisioni. Poi un altro punto: la fiducia. Qui in Italia la situazione è davvero drammatica. Il nostro partito, il Partito democratico, è l’ultimo vero partito italiano, perché è l’unico che continua a seguire le re-gole, e cioè possiamo cambiare leader, possiamo avere all’interno una maggioranza e una minoranza. Certo, continuo a parlare del partito, mi rendo conto che per voi è difficile capire questo, potre-ste pensare: «Ma è ubriaco questo signore?». Il problema però è che gli altri partiti in Italia, a sinistra, a destra e al centro, non hanno questa stessa caratteristica che abbiamo noi; alla sinistra e al centro e a destra tutti gli altri partiti italiani sono partiti personali, dove è impossibile cambiare il leader, perché il leader è il partito, quindi è impossibile avere all’interno dello stesso partito una minoranza e una maggioranza, perché, se esiste una minoranza, allora que-sta organizzerà un altro partito non un’opposizione all’interno del partito. Negli altri partiti non esiste il dibattito interno. Però questo fatto di essere l’ultimo vero partito italiano non è un bene per noi. Perché? Perché la gente dice: «D’accordo, hanno la democrazia interna, esiste il dibattito, ma a me non interessa que-sto confronto, voglio una vera leadership, voglio le decisioni e la

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leadership, non mi interessa il dibattito interno, il confronto inter-no». Dobbiamo riconoscere che questo forse trasmette un’immagi-ne negativa. Quindi dobbiamo cambiare. Non dobbiamo diventare un partito basato su una persona, ma dobbiamo poter avere un confronto e un dibattito interno fina-lizzati però a poter presentare agli elettori un fronte unitario, in grado di prendere decisioni, di offrire una leadership, di assumer-si responsabilità. Questo è importante, perché se non faremo così non sarà positivo per noi dire che siamo un partito, un partito de-mocratico. È un valore davvero grande questo e dobbiamo capire le implicazioni. Sul welfare le parole giuste le ha dette Raymond Johansen, posso sorvolare; per quanto riguarda l’Italia c’è da dire che noi abbiamo ancora uno Stato assistenziale, un welfare basato sull’Italia degli anni ’70, sulla famiglia degli anni ’70 che, come struttura, non esiste più. Un welfare, infine, basato sul ruolo centrale dell’uomo, dell’uomo di mezza età. Oggi ci sono i dati che ci ha mostrato pri-ma Raymond: l’Italia e la Spagna sono i paesi con il più basso tasso di natalità. Credo che questo sia un punto di grande rilevanza. In Italia il tasso di fecondità è 1,3-1,4 figli per donna. Non possiamo continuare così. Il futuro del welfare è centrato su giovani, donne e bambini; certo che sarà difficile, perché in questo momento dob-biamo tagliare la spesa pubblica, e per fare ciò naturalmente dob-biamo modificare, trasformare il welfare che c’è. È chiaro che non è facile; come Partito democratico avremo un importante confronto su questo tema nella prossima assemblea di Napoli, lì presenteremo la nostra idea. E poi ci sono gli ultimi due punti. La narrazione. La narrazione e le promesse: noi dobbiamo sempre unire queste cose, perché na-turalmente siamo diversi, nel senso che non possiamo essere come loro, come i populisti, siamo diversi. Dobbiamo essere migliori e, allo stesso tempo, dobbiamo mantenere le promesse, altrimenti Berlusconi vincerà ancora una volta.

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L’ultimo punto riguarda l’Europa. Questo è molto difficile. Non basta dire: Europa, Europa, Europa. Dobbiamo riconoscerlo: l’Eu-ropa non è sexy, non attrae. Dobbiamo anche capire però che se l’Europa si indebolisce si rafforzano conservatori e populisti, men-tre con un’Europa più forte a rafforzarsi sono i progressisti. Io sono convinto di questo. Dobbiamo porre l’accento sul rafforzamento dell’integrazione europea, e dobbiamo dire alla gente che l’inte-grazione europea è utile per loro, perché, se i nostri cittadini pos-sono viaggiare, possono spostarsi grazie alla Ryanair, ad esempio, questo è grazie all’Europa, alla presenza dell’Europa, e se i nostri cittadini possono fare tantissime cose proprio in Europa, questo è grazie al processo di integrazione europea, non per il contrario. Questo è il punto centrale. Dobbiamo dire: l’Europa è la nostra bandiera, la nostra bandiera positiva e dobbiamo quindi rafforzar-ne l’integrazione. Ora, per concludere, qual è il problema italiano? Berlusconi è il magnate che tutti conoscono e noi siamo contro Berlusconi. Ok. Questo decennio però ha trasformato il nostro approccio da mo-dernizzatore in conservatore. Perché? Perché il fatto che Berlusconi si ponesse contro i valori costituzionali e democratici ci ha obbliga-ti a trasformare il nostro approccio e ad assumere un profilo con-servatore, per preservare i valori costituzionali. Questo però non è stato un bene. Una simile trasformazione non è un fatto positivo per noi, almeno non agli occhi degli elettori. Noi dobbiamo esse-re coloro che rappresentano il cambiamento, mentre non veniamo visti dalla gente come i fautori del cambiamento. Perché ci vedono come quelli che devono difendere, preservare, conservare, tutelare. Dobbiamo cambiare, dobbiamo cercare di separare la difesa delle regole della Costituzione e dei valori dalla nostra capacità di dire: siamo i fautori del cambiamento.

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Frans TimmermansIl disagio olandeseAnch’io ho vissuto qui a Roma, e sono stato romano e romanista, è una cosa che non cambierà mai per me. Ho sentito Alessandro Ba-ricco un paio di settimane fa. Ha scritto questo libro, “I Barbari”, che non è stato accolto bene, perché è stato visto come un’accusa verso coloro che non agiscono sempre allo stesso modo e utilizzano le stesse parole, quelle tipiche delle persone civili. Ecco, voglio par-tire da qui per dire che adesso ci sono nuovi modi di comportarsi anche in politica. Il mondo sta cambiando rapidamente, la gente se ne accorge, an-nusa il mondo che cambia. Beethoven era stato definito un barbaro per la sua musica, però con la sua barbarie ha anticipato il roman-ticismo. Anche Napoleone era considerato un barbaro. Non sto di-cendo che Berlusconi sia come Napoleone o Beethoven, il fatto che li accomuna è che hanno avuto successo, vincono, proprio perché riescono ad intuire i cambiamenti che stanno intervenendo, cosa che in qualche modo la sinistra non riesce a fare, non riuscendo quindi ad agire di conseguenza. Noi continuiamo a fare statistiche sulla politica: «questi sono i dati, la situazione è così», ma proprio questo è stato il nostro errore degli ultimi dieci anni. Vi racconto quella che per me è stata la battuta più importante dopo le elezioni olandesi, un paio di mesi fa. Siamo a Ruken, nella provincia di Brabant, dove l’estrema destra ha avuto il 35% dei voti, a una signora hanno chiesto: «Perché hai votato per Wilders? Perché hai votato per uno xenofobo, islamofobo?» e la risposta è stata: «Io lo so che quello che dice non è proprio vero, però lui ha ragione». Questa è l’espressione quintessenziale di quello che sta avvenendo in Europa, sentono che in qualche modo, a livello subliminale, hanno ragione. Noi siamo i figli di Platone, noi analizziamo il mondo, produciamo testi e statistiche, loro sono i figli di Socrate, hanno idee e ambi-

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zioni, e noi non lo facciamo abbastanza. Poi hanno questa nuova lingua, questo nuovo modo di raggiungere le persone. Noi invece parliamo ancora con un linguaggio antico, vecchio, e sia ieri che oggi abbiamo parlato di valori che sono validi per noi, ma che non vogliono dire molto per gli altri. Quando parliamo dei nostri partiti, che sono veri partiti demo-cratici, questo potrebbe essere vero dal punto di vista delle analisi, ma se considero l’Italia o altri paesi, ebbene, come si diventa leader di un partito socialdemocratico? In qualche modo, sistemando le persone all’interno del partito, rispondendo alle loro esigenze. Ma questo crea una distanza, uno iato con l’elettorato e le persone. L’ho visto, per esempio, rispetto alla Fiat a Torino. Ci sono per-sone che potrebbero veramente diventare dei leader della sinistra e invece sono in qualche modo costretti ad accettare le posizioni sin-dacali. Questo è quello che avviene ai politici di sinistra nel mondo occidentale. In Olanda, la socialdemocrazia è sempre stata fondata sullo Stato socialdemocratico, il secondo elemento era il mercato del lavoro, organizzato in modo tale che ci fossero pieni diritti per i lavoratori, il terzo il welfare, che erogava servizi alla popolazione. Noi, in tutti questi tre campi, abbiamo dei problemi. Lo Stato ha perso credibilità. Il mercato del lavoro ha perso l’equilibrio perché l’economia globale e il lavoro non sanno contrastare le forze della globalizzazione. La Fiat è un esempio tipico. Dobbiamo ricalibrare questo elemento. Infine il welfare. In Olanda è stato razionalizzato, privatizzato, ma è ancora così distante dalle esigenze delle persone che la gente davvero sente che non funziona. Questo è un proble-ma per la socialdemocrazia. Lo vediamo anche in Germania. Noi socialdemocratici in qualche modo siamo identificati con il welfare ed anche con tutto ciò che non funziona nel welfare. Un altro punto che credo sia molto importante è che, se si consi-derano gli europei ovunque vivano nell’Europa occidentale, non hanno un’aspettativa di progresso, ma di perdita; in un paese come il mio noi stiamo andando bene nonostante la crisi, la disoccupa-

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zione è al 4-5%, l’economia va, non come la Germania natural-mente, però va, e ciononostante le persone affermano apertamente – e lo dicono anche i populisti – che pensano di stare in un paese del terzo mondo: non per come vivono oggi, ma per le aspettative che hanno rispetto ai figli e ai loro nipoti. Quindi l’idea del progresso, l’idea di migliorare la propria posizio-ne sociale, è stata trasformata in una specie di regresso, di perdita. Qual è quindi questa idea della perdita? Chi l’ha creata? Noi par-liamo della globalizzazione, di regolamentare l’economia, ma la gente non capisce questi concetti così astratti. Gli amici o i nemici xenofobi parlano di immigrazione, dicono che l’immigrazione è la causa di tutti i mali e, dopo l’11 settembre, addirittura siamo arrivati a dire che il problema sono gli islamici. Di nuovo ritorna il profilo socratico su quello platonico. Da noi si dice: se eliminiamo l’Islam andrà tutto bene, è così che va avanti la destra. Come usciamo da questa situazione? Dobbiamo compren-dere ed analizzare meglio questo mondo che cambia, dobbiamo elaborare un nuovo idioma, trovare una nuova lingua, un nuovo linguaggio, nuove parole che siano nostre, che non siano intrap-polate nei concetti della destra, e non dobbiamo trasformare quella lingua in una lingua che possiamo utilizzare noi. Quindi dobbia-mo vedere come si possano utilizzare nuovi media e nuove moda-lità di comunicazione. Abbiamo visto che Internet e i nuovi media possono creare una rivoluzione. Abbiamo visto cosa è successo a Ben Ali, in Tunisia, che è stato costretto ad andare via. Ecco, questo è il modo in cui si crea un vero slancio politico. Ora, se si guarda il comportamento dei politici di destra, soprat-tutto in un momento di cambiamento, essi dicono: sono loro i malvagi! In Olanda noi abbiamo una coalizione di destra e perché hanno consensi? Perché dicono: «noi vi consentiamo di guidare in macchina a velocità maggiore, potrete fumare, ecc.». Le persone sanno che è sbagliato, però a loro piace, le persone non vogliono

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diventare come Forrest Gump, e questo è quello che offre la de-stra: Jack Sparrow. Mentre noi proponiamo sempre Forrest Gump. Come potremo vincere in questa situazione? C’è un gigante che dorme nelle nostre società. Le nuove genera-zioni. C’è questo gigante che cerca di sollevare il tetto, però poi si rimette a dormire. Invece noi dobbiamo creare la possibilità di mobilitare i giovani, far vedere che noi abbiamo qualcosa da of-frire loro, che anche loro possono contribuire al cambiamento, e dobbiamo anche educarli, far loro capire che, se vogliono incidere a livello politico, si devono organizzare. Loro pensano che, stando dietro al computer o scrivendo un’opinione su Facebook, cambi il mondo. Invece dobbiamo far vedere loro – la Tunisia è un esempio interessante – che certamente questo è un buon punto di partenza, però bisogna anche organizzarsi per cambiare qualcosa davvero. E chi sarà vincente in politica? Quella persona o quel partito che saprà coinvolgere le nuove generazioni: questo è il punto più im-portante per i socialdemocratici. Se vedo l’elettorato in Germania, in Scandinavia, o anche da noi, noto che stiamo perdendo le nuove generazioni. Quello che vi posso dire è: conquistate i giovani, per-ché lì è il mondo del futuro. Dobbiamo soltanto risvegliarli.

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Justin TrudeauLa politica della speranza contro la politica della pauraSono felice di essere qui e di poter ascoltare tanti interventi. È anche un risveglio. Perché dico questo? Nel 1989, io viaggiavo in Europa con lo zaino, come facevano tanti studenti dell’America del Nord dopo la laurea. Sono arrivato a Berlino e ho raggiunto il confine dell’allora Cecoslovacchia, eravamo in tre. Ricordo che al confine si sentiva la polizia di frontiera che entrava urlando, dando calci alle porte per poter entrare negli scompartimenti, chiedendo i passaporti e mettendo paura a tutti i passeggeri. Eravamo tutti giovani che viaggiavano per l’Europa. Io e il mio amico mostrava-mo il passaporto canadese, lo mettevamo sul tavolo e poi quando la polizia, dando un calcio alla porta, entrava chiedendo il passaporto, esclamava: «Ah, canadesi!» Ci sorrideva e andava via. Ecco, ricordo che questo mi faceva sentire una grande fierezza, un grande orgo-glio. Voglio dire che il Canada veniva visto come un paese di grandi soluzioni, un paese equilibrato che in qualche modo compensava un po’ il nostro vicino americano. Quel mondo non esiste più. Negli ultimi anni in Canada abbiamo dovuto risvegliarci, e sono contento di vedere che abbiamo sfide simili a quelle di altri pro-gressisti. Noi abbiamo avuto, per esempio, un primo ministro un po’ alla George W. Bush, molto di destra, e dall’altra parte il Parti-to liberale, il principale partito di centrosinistra, figlio di una gran-de storia nel XX secolo. Ma il Partito conservatore che prima si chiamava dei “conservatori progressisti”, ha cambiato nome: hanno tolto la parola progressista. Ora impostano le campagne sulla pau-ra, sull’odio, sulle divisioni. Per la prima volta il Canada si sta trasformando in un paese dove la gente mette in discussione l’immigrazione; assurdo per un paese basato da sempre sull’immigrazione; un paese preso sempre come modello di integrazione di successo, un paese che è sempre riuscito ad attrarre persone da tutto il mondo, che hanno poi preso la citta-

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dinanza canadese! Fino ad ora il fatto di definire una persona “cit-tadino canadese”, è stato sempre un elemento di forza. Oggi invece c’è una grande insicurezza riguardo all’immigrazione, alle nuove ondate di persone che arrivano, e non solo: il primo ministro ha operato forti tagli sociali, gli ammortizzatori sociali sono stati di-minuiti, c’è stata una riduzione dei servizi offerti. Cionondimeno il primo ministro gira in tutto il paese, si prende tutto il merito della forza del sistema bancario canadese e ripete: siamo bravi, siamo saggi. Eppure, come leader dell’opposizione, dieci anni fa, era lui che diceva: «dobbiamo essere come la City Bank, dobbiamo unire, fondere le nostre banche, dobbiamo deregolamentare in modo da poter competere sullo scenario mondiale». Ora, visto che la politica è quella che è, riesce a prendersi il merito per quello che dieci anni fa aveva condannato. Eppure, in qualche modo, riesce a trovare sempre un equilibrio. Tornando al Canada, il paese sta andando abbastanza bene, però c’è uno spostamento verso destra; questo ovviamente ci preoccupa moltissimo. È a causa di ciò che abbiamo perso la nostra posizione, il nostro ruolo sulla scena mondiale. A Copenhagen-Cancun si è parlato di ambiente e, la domanda che si facevano tutti era: «ma dov’è il Canada?». Alla conferenza di Copenhagen addirittura qualcuno ha chiesto: «il Canada può uscire dalla sala in modo tale che possiamo impe-gnarci seriamente sull’ambiente?». Ecco, non è questa la nostra re-putazione, non è così che i canadesi si autodefiniscono, eppure oggi dobbiamo affrontare questa situazione, l’ascesa di un populismo di destra che pone in essere strategie di grande efficacia: negazione del voto agli stranieri, mobilitazione di base di elettori infuriati, incoraggiamento dell’apatia dei cittadini. Questa è la loro strategia, e ci preoccupa moltissimo. Sono tre invece le cose da cui penso possiamo ripartire: la narrativa della speranza, il potere dei singoli, il rafforzamento della demo-crazia. Allora, per prima cosa: la speranza. Molti hanno parlato della narrazione, abbiamo riunito qui leader progressisti che pro-

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vengono da tutto il mondo per parlare delle sfide che insieme dob-biamo affrontare. Se questo dibattito venisse teletrasmesso nelle case dei nostri cittadini, essi vedrebbero tante persone che parlano di teorie, di politiche, senza però parlare delle narrative, di quello che si deve raccontare. In sostanza, non stiamo creando, non stia-mo scrivendo una nuova narrazione. Siamo tutti molto abili e intelligenti, abbiamo letto dei libri inte-ressanti, abbiamo tante idee politiche su come dovrebbe essere il mondo, ma come hanno detto già molte persone, non siamo colle-gati alla realtà, non stiamo costruendo questa nuova narrativa. Qui veniamo chiamati liberal, labour, new labour, socialdemocratici, democratici progressisti, neo-democratici, abbiamo tanti nomi, le etichette politiche cambiano, noi balliamo, giriamo intorno, una volta siamo liberal con la elle minuscola, un’altra con la elle maiu-scola. Eppure tutti sanno chi sono gli altri, quello che vogliono gli altri, che nome hanno gli altri: i conservatori; credono in uno Stato piccolo che riduca la pressione fiscale e offra meno servizi. Questa è, come diceva qualcuno ieri, la loro idea. Però non fun-ziona. Le economie del XXI secolo potranno essere forti soltanto nella misura in cui tutti i cittadini potranno parteciparvi. Ora, se tutti avranno modo di essere produttivi, di esprimere un qualche risultato e quindi di essere apprezzati, allora si può essere forti. Questo però non sta succedendo. I movimenti conservatori riesco-no a sfruttare l’idea di successo del singolo, cavalcano l’individua-lismo, mentre le nostre democrazie sociali, la nostra idea degli am-mortizzatori sociali, i nostri sistemi di welfare non corrispondono più alla visione della gente, a ciò che la gente pensa. Noi possiamo leggere i giornali o guardare la televisione, abbiamo informazioni 24 ore su 24, abbiamo migliaia di canali televisivi, Internet ci offre tutta la conoscenza – se crediamo naturalmente in ciò che scrive Wikipedia – ed è così che i singoli pensano di avere sempre qualcosa da dire, di poter esprimere le proprie opinioni, e quindi di poter fare a meno dei politici che interpretano, al posto

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loro, le cose del mondo. Trecento anni fa, gli unici che avrebbero potuto interpretare la Bibbia erano i sacerdoti, i religiosi; ora è di-verso, la gente può leggere liberamente la Bibbia e trarre le proprie conclusioni. Ora è la destra a sfruttare questa situazione con l’idea che tutti siano autonomi: «vi lasceremo più denaro in tasca – di-cono – così voi potrete avere successo da soli». Il mondo chiede proprio questo e alla gente piace. Dobbiamo contrastare una simile deriva. Dobbiamo riassumere il controllo di questa narrativa che parla del singolo. Dobbiamo continuare a parlare alle comunità forti, ma per fare questo noi dobbiamo dare potere ai singoli, dobbiamo dare alle persone del-le opzioni, la possibilità di creare qualcosa in modo tale da poter trovare il proprio spazio nel mondo, devono seguire un proprio percorso, capire il loro ruolo, la loro rilevanza. Ogni essere umano ha un desiderio, ha un’esigenza, al di là delle esigenze basilari di una casa e di qualche cosa da mangiare; noi siamo degli animali sociali, dobbiamo credere che siamo importanti nell’ambito della nostra tribù, della nostra comunità. Dobbiamo avere qualcosa da offrire agli altri, alla nostra collettività, dobbiamo pensare di poter cambiare il mondo in tanti modi, anche limitatamente, ma questo è importante, dobbiamo credere che possiamo compiere questi pic-coli passi per arrivare a dei cambiamenti. Ora, invece, al singolo viene detto: «tu non conti niente nel quadro d’insieme, lascia stare il tentativo di cambiare il mondo, lascia stare ogni tentativo di migliorare la comunità. Pensa a te stesso perché le crisi che dobbiamo affrontare, le grandi questioni del mondo, ci fanno capire che tutti devono poter contare solo su se stessi». Questa è davvero un’idea piuttosto vuota perché in questi ultimi anni abbiamo capito che non importa quanto sia grande l’automo-bile, quanto sia bella la propria casa, dove si va in vacanza, quanto si guadagna. Non è questo l’importante, anzi è importante capire se possiamo o meno avere un impatto sul mondo e se abbiamo modo di cambiare le cose del mondo; non parlo di stipendio o di

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promozione, ma parlo di una migliore qualità della vita, di più tempo per viaggiare con la propria famiglia, di turismo basato sul volontariato, di provare a migliorare il mondo. La via per migliora-re la qualità di vita non è guadagnare più denaro, ma avere un ruolo più rilevante nel mondo. Ecco, è da qui che possiamo cominciare a costruire questa nuova narrativa. Mi ha fatto piacere ascoltare l’analogia dei “barbari” che ha sug-gerito Frans Timmermans, ma non penso che sia Berlusconi il barbaro qui. Io penso che forse è l’ultimo dinosauro: ha capito dove si sta andando e sta utilizzando ogni mezzo a sua disposi-zione, il denaro, l’influenza, le tecniche, le strategie, sta usando tutto ciò per cercare di tutelare lo status quo, mantenere l’esi-stente, e quindi portarci ad un punto in cui non succede proprio nulla. Ecco, io credo invece che i partiti socialdemocratici siano i “barbari”, perché noi sappiamo dove stiamo andando come pia-neta e sappiamo dove dovremmo spostare il nostro pensiero: non verso un esito di breve periodo, lo sfruttamento immediato delle risorse, la massimizzazione dei profitti, la trimestrale di cassa. No. Dobbiamo cominciare a pensare a come stiamo costruendo, ma nel lungo periodo, la nostra società; ora il problema qual è? È che questo spostamento mette paura, ci terrorizza. Nei duecentomila anni della vita dell’essere umano, così come esiste oggi, noi abbiamo potuto sempre far leva su questa strate-gia del breve periodo, perché in qualche maniera si è seguito il principio del «io penso a te, tu pensi a me, e riusciremo in qualche modo a sopravvivere». Ma non è più così, siamo arrivati ad un punto di saturazione, non possiamo più andare avanti così. La Cina, l’India stanno emergendo. Forse ci sarà uno spostamen-to delle civiltà, gli imperi nascono e poi crollano, lo sappiamo. Siamo qui, a Roma, ma non possiamo dire che c’è il declino della civiltà occidentale e che in oriente c’è l’ascesa di nuovi poteri. No, non possiamo dirlo perché non esiste più la civiltà separata, o due civiltà separate: la globalizzazione vuol dire che seguiamo tutti le

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stesse regole e, se non lo faremo, se noi come società non faremo ciò che nessuno in fondo ha fatto, ossia raggiungere un apice e poi spostare l’attenzione prima del crollo, se noi non riusciremo a fare proprio questo, allora saremo rovinati, ma non come civiltà occidentale: come specie. Cosa dobbiamo fare, quindi? Dobbiamo far leva sull’istinto uma-no: noi sappiamo di avere un ruolo, noi sappiamo di essere in grado di forgiare il mondo intorno a noi, e questo è in contrasto con ciò che ha sostenuto con grande efficacia la destra: paure, timori, in-sicurezze che arrivano sempre in momenti come questi di grande transizione e cambiamento. La gente sa che la situazione è inso-stenibile che non possiamo andare avanti così. La gente sa che è necessario un cambiamento, ma è terrorizzante pensare a ciò che si dovrà cambiare; è più facile rimandare tutto, agire un quinquennio alla volta. È difficile prendere decisioni di lungo periodo, e quin-di meglio concentrarci sul breve periodo. Berlusconi, George W. Bush rappresentano questo, pensiamo al Tea Party. Noi invece ci concentriamo sulle grandi crisi, siamo preoccupa-ti dell’ambiente, siamo preoccupati della povertà, della giustizia sociale, dei diritti umani, però in realtà non facciamo nulla. Dob-biamo svegliarci. E credo che lo faremo: abbiamo ora una giova-ne generazione che è molto informata, molto consapevole, molto collegata. E cosa pensa questa generazione? Pensa: «tanto siamo tutti destinati ad andare all’inferno, quindi viviamo una vita velo-ce, cerchiamo di sfruttare al meglio la situazione, cerchiamo di fare una bella vita e basta, senza pensare al futuro». I giovani spesso pensano in questi termini e si preoccupano di avere successo. D’al-tra parte però, vivono anche con impegno, interessamento, consa-pevolezza sincera il mondo globale. Oggi più che mai. Il fatto è che a loro non interessano la politica e i partiti, non vanno a votare, e non perché c’è apatia, ma perché a loro importa così tanto del mon-do che hanno una grande frustrazione: non hanno gli strumenti per intervenire. Come dare allora a questi giovani gli strumenti

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per intervenire? Come dire ai giovani che se non votano, non è per causa loro, ma per causa della politica? Questa è la domanda che dobbiamo porre. Come possiamo cam-biare? Come possiamo essere più generosi nei confronti dei no-stri giovani? Non si tratta di comprarli dando loro delle cose, non vogliamo convincerli a votare per noi. La questione è rispondere alla nostra preoccupazione centrale: «come sarà il mondo tra cin-quant’anni». Noi abbiamo una giovane generazione che probabilmente non avrà un mondo uguale a quello dei loro genitori, e questo accade per la prima volta nella storia della civiltà occidentale. Quindi, come far leva su questo? Dobbiamo contrastare questa narrativa della paura e delle divisioni, e dobbiamo invece far leva su un senso dell’otti-mismo, dell’importanza del ruolo rilevante e sostanziale che ogni singola persona può veramente avere e svolgere. In quanto cana-dese, io so che il Canada è uno di quei paesi in cui dobbiamo, nei prossimi anni, affrontare questo aspetto nel modo giusto. Partia-mo avvantaggiati perché abbiamo già individuato ciò che in tutto il mondo stanno cercando di capire: come poter vivere e crescere sulla base delle differenze. Il Canada è un paese forte non malgrado le sue diversità, ma grazie alle sue diversità. Proprio perché abbiamo la possibilità di accet-tare diverse narrative, diverse storie, diverse origini, riusciamo in qualche modo ad unire tutto ciò, consolidarlo, emergere ed essere migliori. Questo lo sappiamo fare, anche se negli ultimi cinque anni abbiamo perso la diritta via, noi, come tanti altri. Dobbiamo imparare a ritrovare il giusto percorso e, secondo me, la chiave è aiutare i nostri cittadini a sognare un mondo migliore per i propri figli. Abbiamo perso questa capacità di sognare, è quello che invece dobbiamo riacquistare.

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Il dibattito

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Tony Lloyd Un paio di punti. Prima vorrei dire questo: si è parlato della nar-razione e della storia rispetto alla politica. È vero. Non dovrem-mo pensare che le storie sono contro la politica, però il mondo è molto diverso. Il governo deve affrontare tutti i fatti della vita, noi abbiamo notizie che vanno avanti ventiquattro ore, quindi in qualche modo dobbiamo considerare ogni aspetto, non soltanto gli elementi di fondo. C’è differenza fra quello che avviene al governo e quello che avviene all’opposizione. Nel mio paese il problema è che noi non abbiamo creato una nar-razione della nostra politica, quindi, in qualche modo, abbiamo consentito che fosse distrutta la nostra narrazione. È un equilibrio davvero difficile da centrare. Un’altra cosa che volevo dire è che sembra sempre si debba parlare della Gran Bretagna come eurofobica; uno dei problemi della si-nistra progressista è che l’Europa chiaramente è una buona cosa, però voi fate parte di un’istituzione molto lontana dai cittadini di Milano o di Roma, non solo perché è Bruxelles, ma anche perché Bruxelles non vuol dire molto. Se noi dobbiamo costruire questo processo europeo e trasformar-lo in un sogno europeo, non dobbiamo limitarci alle istituzioni perché, se è difficile coinvolgere la classe politica a livello interno, figurarsi a livello europeo. Io voglio “popolarizzare” l’Europa, per-ché noi abbiamo bisogno di soluzioni collettive ai nostri problemi, abbiamo bisogno di soluzioni globali. Non deve essere solo un so-gno istituzionale, ma un sogno per tutti.

Matt BrowneVolevo riprendere uno dei punti evidenziati: il fatto che la gente deve sapere di poter incidere e creare un mondo migliore. Sono assolutamente d’accordo. Blair diceva che il Partito laburista do-veva comunicare, per questo andava di porta in porta; una volta

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ad una donna ha chiesto: «che ne pensi dell’energia nucleare?». La donna ha risposto: «Il mio problema sono i topi, non l’energia nu-cleare!». Una cosa che il Partito laburista non ha azzeccato è aver parlato dei massimi sistemi senza toccare i problemi concreti. La sfida ambientale, per esempio. Rispetto a questo tema le persone pensano che basti fare negoziati, tipo quello di Kyoto, mentre siamo noi che creiamo ad arte problemi e soluzioni, facendo tutto da soli. Sono problemi che la gente sente come lontani. Cameron è riuscito a fare una cosa: coinvolgere il territorio, la comunità locale. Noi, come socialdemocratici, non l’abbiamo fatto abba-stanza. Io credo che da adesso in poi i socialdemocratici devono tornare ad ascoltare la gente. I conservatori si occupano di carità, dell’intervento di beneficenza, perché così non è lo Stato a spendere. Noi invece dobbiamo far capire l’importanza dei servizi, far capire alla gente che noi stiamo cercando di fare del bene.

Girjia VyasSono veramente lieta di quello che ho sentito oggi. Penso che tutti i partiti progressisti debbano occuparsi di ambiente, salute, delle donne. Sono questi i problemi delle persone. I programmi dovreb-bero contenere questi temi perché il valore della democrazia è il progresso sostenibile. Le giovani generazioni sono importanti. Senza le giovani gene-razioni, come è stato detto correttamente, senza le donne, senza i bambini non si può andare avanti. Sottolineo questo perché noi in India riusciamo ad avere uno sviluppo economico, una crescita del 9%, anche in settori come l’agricoltura. Bisognerebbe riusci-re sempre a far convergere progresso sociale ed economico. Ecco perché tutti, anche chi è al di sotto della soglia di povertà, vota e può anche accedere all’istruzione. Il diritto all’istruzione è fonda-

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mentale: ognuno dovrebbe poter andare a scuola. Ora noi stiamo inserendo anche il diritto all’alimentazione. Il compito dei partiti politici dovrebbe, in conclusione, concentrarsi sull’ambiente, sulle donne, e non solo sulle questioni di potere.

Lapo PistelliVolevo riprendere alcune cose dette tra ieri e oggi e rivolgermi a Frans Timmermans e Justin Trudeau in modo particolare. Ieri Matt Browne, nella sua introduzione, ha fatto un’osservazione che mi ha molto colpito e che trovo molto vera. Ha detto che il co-sto organizzativo d’ingresso per un movimento politico oggi si è drammaticamente abbassato: un buon blog, un buon movimento su Internet, un media che fa eco e prendi il 10% in Parlamento se azzecchi il punto. È un fatto molto vero. Non si sono solo abbassati i costi di trasporto e di comunicazione, ma anche i costi organizza-tivi della politica. Tutto vero. Justin Trudeau poi ha fatto un riferimento molto efficace alla nuo-va generazione more plug-in, più connessa, e al fatto che è una ge-nerazione che ti chiede come può cominciare a cambiare il mondo intorno a sé. Frans Timmermans, sempre bravo, ha fatto però un riferimento pessimista dicendo: il problema è la nuova generazio-ne, se gli offri semplicemente di entrare nel tuo partito, semplice-mente la allontani. Ecco, a questo punto io chiederei soprattutto a loro due di provare ad aggiungere qualcosa su come può esserci un rapporto con questa nuova generazione. Penso a qualcosa che non passi solo attraverso il modo tradizionale che conosciamo, cioè la nuova generazione contro la vecchia, che riduce tutto ad uno: «scansati e vai via perché adesso arrivo io». Fino ad ora all’interno un partito, assistiamo al tradizionale scontro generazionale. Esiste un modo che non sia lo “scontro” ma che non sia neppure la tradi-zionale cooptazione?

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Antonio EstellaVoglio fare un’osservazione su quello che hanno detto Tony Lloyd e Matt Browne, sull’equilibrio tra narrazione e politica. Adam Tciwonsky ha scritto un documento molto interessante nel 2003 su come ha funzionato la politica dopo gli anni ’40, e che cosa dice? Cosa sostiene in maniera piuttosto convincente? Bene, noi socialdemocratici siamo stati molto bravi nell’elaborare politiche ed attuarle, noi abbiamo creato il welfare state, noi siamo stati molto attivi nella creazione dello stato assistenziale, e poi la de-stra ci ha copiati. Quindi, quando si tratta di politica noi abbiamo un capitale molto importante, noi sappiamo elaborare le politi-che, e sappiamo anche metterle in pratica, ma non siamo molto bravi a raccontare delle storie. La politica sì, ma la narrazione no.

Enrico LettaIntervengo su quello che ha detto Tony Lloyd a proposito dell’in-tegrazione europea e su quello che hanno detto gli altri circa il futuro. Punto uno. Noi abbiamo perso la narrazione sull’Europa proprio mentre cercavamo di dire perché l’Europa è importante per i cittadini, per la gente. Gli ultimi decenni di conferenze inter-governative sono stati veramente un disastro. Le persone vogliono sapere che cosa fa l’Europa per me, per la mia vita quotidiana, la mia vita personale. E, quando prima ho citato la Ryanair, credo che dobbiamo parlare dell’Europa e parlare dell’Europa con il pro-gramma Erasmus, la Ryanair, cioè gli aspetti normali, quotidiani. Senza l’Europa non ci sarebbe questa possibilità di viaggiare a 29 euro in aereo! Quindi, il punto principale per il futuro, secondo me, è come essere in grado di parlare dell’Europa sottolineando la narrazione positiva per quelli che sono gli aspetti normali della vita di un cittadino. Io credo che i greci, come cittadini europei, si rendano ben conto di quanto sia importante l’Europa, adesso, per

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la loro vita quotidiana. Dobbiamo sottolineare questo aspetto in una narrazione più precisa. Il secondo punto riguarda il futuro. In questo decennio gli ultimi tre anni hanno ucciso il G7 e il G8. Questo “formato” rappresen-tava il potere del mondo. Tra cinque anni, nel nuovo G7-G8 non ci saranno solo europei ed americani. La Germania sarà al settimo o all’ottavo posto. L’unica possibilità è far sì che l’Europa si unifichi e arrivi così al secondo o al terzo posto. Questo è quello che dob-biamo comprendere per il futuro del mondo ed anche per il ruolo dei paesi europei nel mondo. L’Europa sarà importante per offrire una narrazione ai nostri cittadini. In questo ultimo secolo la cartina geografica ha avuto al suo centro l’Europa. Adesso ci sarà un nuovo centro, un centro diverso, e noi dobbiamo comprendere che non possiamo perdere questa opportu-nità: essere dentro questo grande e rapido cambiamento, ed esserci come europei e non, come diceva prima Frans, alla maniera di For-rest Gump. Questo è quello che dobbiamo fare.

Frans TimmermansPrima di tutto dobbiamo vedere che c’è molta rabbia. Non sono d’accordo nel dire che questa rabbia sia espressione della volontà di avere solo diritti individuali. C’è un desiderio di comunità, ma la gente non sa come esprimerlo, perché ha perso il senso di comu-nità, di appartenenza e, almeno nel mio paese, questo in qualche modo è stato affidato allo Stato. Poi lo Stato si è ridimensionato, ma questo non ci ha, per così dire, restituito la comunità. Da qui deriva questo senso di perdita. Bisognerà dire alle persone qual è il loro senso di comunità, di appartenenza, utilizzando il loro lin-guaggio, lo stesso che utilizzano su Facebook. Io insegno anche all’università e i miei studenti si entusiasmano davvero, devo dire che hanno lo stesso entusiasmo, forse di più, del-le vecchie generazioni. Vogliono una società sostenibile, vogliono

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essere gli agenti di questo cambiamento, però vogliono anche sapere che cosa c’è per loro, che cosa rappresenta il cambiamento per loro: «come posso incidere io su questo cambiamento positivamente?». L’interfaccia rappresentata dai partiti politici non può limitarsi a dire: iscrivetevi. Bisogna dare loro risposte e dire: se premi questo pulsante, questo è il risultato che otterrai in termini di cambiamen-to. Dovremmo abbandonare l’idea che il loro idealismo sia ideo-logico. Da leggersi in termini di destra o sinistra, o conservatore o socialista. Non significa niente. Bisognerebbe dire loro che tipo di società, che tipo di mondo noi vogliamo. Noi dobbiamo dire che cosa è di destra o di sinistra, però in realtà a loro non interessa se la buona idea è di destra o di sinistra, perché loro sono una generazio-ne eclettica, così li abbiamo educati, quindi, se vedono una buona idea a destra la faranno propria e creeranno tutta una serie di valori intorno a questa idea. I partiti politici e i politici stessi dovrebbero essere in grado di dire: io sono contro quel partito, però hanno avuto una buona idea. Questa è una cosa che viene apprezzata dai giovani. Se si fanno proprie le idee buone è un’ottima idea perché non devono essere necessariamente di destra o di sinistra.

Justin TrudeauSarò assolutamente brevissimo sulla comunità e su quello che ha detto Frans Timmermans. Noi dobbiamo ricostruire il territorio. Una delle sfide che dobbiamo affrontare è proprio la comunicazio-ne con i giovani. I giovani sono veramente interessati. Il problema è che chi si interessa a un partito politico non pensa al motivo per cui i giovani s’impegnano. Noi dobbiamo coinvolgere persone intorno a determinate tematiche. È l’esempio che volevo portarvi e che voi forse conoscete. In Canada, Calgary è forse la città più di destra del paese, dove ci sono i centri di potere petroliferi, ed è la base dell’attuale pri-

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mo ministro. È una città proprio di destra; sei mesi fa c’è stata un’elezione comunale e si sono presentati due bianchi di Calgary di una certa età. Erano entrambi di estrema destra a livello politi-co, e quindi evidentemente controllavano tutto. Però c’era un altro candidato che aveva solo un consenso dell’1%: era giovane, non era bianco, era del sud dell’Asia e musulmano, e si pensava anche che fosse gay (non che fosse importante per molte persone, però in qualche modo è stato sollevato anche questo punto). Un can-didato assolutamente sconosciuto. Ebbene, durante la campagna elettorale, attraverso i media sociali questo candidato è riuscito a conquistare la gente. Calgary adesso è la prima grande città cana-dese ad avere un sindaco musulmano. Ha sbaragliato tutti grazie agli strumenti che ha utilizzato e grazie alla storia, alla narrazione, ha parlato alla gente di ogni età. Abbiamo detto: sì, i giovani sono idealisti, ma comunque a volte si pensa che le persone siano apati-che o disinteressate, però bisogna veramente conquistare i giovani, perché, attraverso la conquista dei giovani, si conquistano anche i giovani di spirito.

Raymond Johansen Justin ha sollevato una questione molto importante, quella di dover affrontare tematiche davvero sentite dalla gente. Questa è una par-te del problema: i democratici partecipano ai vertici sull’ambiente, ma cosa succede? Vogliono continuare a godere di popolarità in casa propria e quindi cosa dire del processo di elaborazione delle soluzioni? Il modello cinese per molti è più interessante che non il modello democratico tradizionale e questo sia per quanto riguarda la presa di decisioni che l’individuazione delle soluzioni. Su quanto ha detto Frans Timmermans, sono d’accordo. Nei paesi scandinavi io vedo alcuni elementi analoghi a quelli dell’Olanda: stiamo perdendo i giovani. Faccio l’esempio della Norvegia: il 12%

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della popolazione ha più di 67 anni e noi stiamo perdendo terreno; in Svezia i vecchi hanno votato per il partito socialdemocratico e i giovani, la generazione della Ryanair, hanno votano per i conser-vatori, per i populisti perché propongono delle soluzioni. Dobbia-mo sicuramente concentrarci sulla nuova generazione e dobbiamo anche tenere vicino a noi i più giovani tra gli anziani, perché loro hanno più probabilità di andare al voto rispetto ai giovanissimi.

David SassoliPartecipiamo tutti, nei nostri paesi, alla grande scommessa di battere la destra populista. Questo è molto importante ma non sufficiente. La questione europea e la questione nordamericana. Il dibattito è importante se noi pensiamo che l’Europa, il sogno europeo, come la democrazia negli Stati Uniti, possano essere una risorsa per l’altra parte del mondo. Se la questione è invece come ridiventare più forti, allora la questione è messa molto male. Credo che questa non sia la visione progressista. Noi dobbiamo rilanciare il sogno europeo perché sia una risorsa per i processi di globalizzazione, perché i processi di globalizzazio-ne siano più democratici, più vicini alle persone, diano più possi-bilità alle persone di essere attori della loro vita. Se è un problema di come rendere più forte l’Europa, io credo che questa non sia la nostra visione, ma sia una visione conservatrice. La questione politica e la questione istituzionale. Noi dobbiamo dare regole al mondo globalizzato, non tutto però si risolve nelle questioni istituzionali, che pure sono fondamentali. In Europa noi abbiamo bisogno di rinnovare le famiglie politiche. Quando par-liamo di come ci possiamo avvicinare ai giovani lo dobbiamo fare guardando con occhi nuovi il mondo contemporaneo, le sensibilità che ci sono. Abbiamo bisogno di rinnovare le famiglie politiche. Poi c’è il piano istituzionale. Delicatissimo. Il populismo si insinua

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nei meccanismi istituzionali perché ci sia meno democrazia, meno uguaglianza. Quindi rafforzare le istituzioni e nello stesso tempo rinnovare le famiglie politiche. Ecco perché il circuito, la rete dei progressisti non può non essere globale e non può essere solo con-tinentale, non può essere solo europea. Coniugare questi due piani è la sfida. Credo ci riguardi tutti.

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Sessione 3Dall’opposizione al governo: nuove leadership, nuove idee

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Tobias Piller

Introduzione Voglio dare il benvenuto ai nostri ospiti: Tony Lloyd dalla Gran Bretagna, Carolina Toha dal Cile, Victor Ponta dalla Romania e Akira Nagatsuma dal Giappone. Il nostro tema è “Dall’opposi-zione al governo. Nuove leadership, nuove idee”. Vuol dire che se l’ultima sessione è stata sulle idee politiche, oggi invece ci occu-piamo in modo più approfondito della politica a livello pratico, e cioè di come passare dall’opposizione al governo con nuovi leader e nuove idee. Direi, quindi, che possiamo ascoltare i primi interventi e considerare questa sessione come una sorta di brainstorming, da cui trarre elementi da inserire poi in un programma. Per la politi-ca “pratica”, visto che abbiamo ospiti da ogni parte del mondo, li pregherei di fornirci delle indicazioni sulla situazione generale del loro paese oppure di segnalarci se c’è in vista un cambiamento o se il loro è un sistema bipartitico o multipartitico.

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Tony LloydLe nuove sfide dei laburistiVorrei associarmi a coloro che mi hanno preceduto nel ringraziare chi ha pensato e organizzato questo seminario. Io ho in qualche modo rielaborato il mio intervento, in queste ultime ventiquattro ore, sulla base di quello che ho sentito. Vorrei cominciare parlando un momento della sinistra radicale. Per favore, in questa necessità di occupare il centro, si tenga presente per prima cosa che non lo si deve occupare solo da un punto di vista progressista. Anche perché, ed è l’altra cosa che volevo dire, il centro, in tutte le nostre società, non è fisso e permanente, e quindi a volte abbiamo il com-pito innanzitutto di ridefinirlo, anche se questo può suonare un po’ strano e perfino ridicolo. Vorrei soffermarmi, in proposito, sul perché il Partito laburista ha vinto nel 2007 e perché invece ha perso nel 2010. Tony Blair ha parlato sempre della “terza via”, l’ha messa al centro della sua pro-posta. Io mi sono sempre chiesto che cosa significasse, e la mia risposta è che vuol dire un po’ tutto, a seconda delle persone. Cre-do si possa dire che il Partito laburista, il New Labour, non fosse in quel momento un partito sospinto dall’ideologia. Certamente aveva, avevamo, una base di valori, ma non eravamo prigionieri del passato. Il Partito laburista si è presentato con una forte narrazione rispetto al Partito conservatore, perché sia la Thatcher che Major avevano un’immagine negativa in tutto il mondo. Comunque, in termini di politica specifica, vorrei ripetere che nessun partito all’opposizione può passare al governo elaborando ogni singolo dettaglio, perché altrimenti non suscita interesse nel-le persone, rischia di non farsi capire. E poi non bisogna sempre rimanere ostaggi dei media: bisogna invece intervenire nel dibat-tito indicando che tipo di governo “filosofico”, “spirituale”, si vuole essere. Quell’aspetto, a suo tempo, noi lo abbiamo indovinato. Al-cune cose, però, le abbiamo sbagliate, anche a proposito di quelle

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politiche mirate a trasformare la Gran Bretagna in un paese più felice, in una società migliore. Credo di poter dire che ogni scuola, ogni ospedale che è stato ricostruito abbia davvero rappresentato un successo del Partito laburista, non certo del Partito conservato-re. Questo nostro successo, però, noi non l’abbiamo messo abba-stanza in evidenza. In qualche modo, poi, abbiamo anche subito quel problema della noia su cui si è soffermato il collega australiano. Voi tutti sapete anche che c’è stato quello scandalo rispetto alle spese dei membri del Parlamento, cosa che ha portato ad un atteggiamento assoluta-mente contrario alla politica e ai politici. E infine ci sono stati altri problemi, a cominciare dal fatto che il Partito laburista è stato al potere a lungo: succede in questo caso che i politici diventino dei manager, perché si rendono conto che devono gestire i ministeri e devono attuare le politiche che sono assegnate loro. Questo, però, non deve sostituirsi alla politica da proporre alla società in generale. Potrei aggiungere anche altre cose, ma resta il fatto che arrivati alle elezioni noi avevamo comunque saputo assumere delle decisioni molto importanti per far fronte alla crisi finanziaria. Soprattutto Gordon Brown ha compiuto scelte veramente decisive per bloccare un ulteriore disastro economico-finanziario. Nel periodo che poi ci ha separato dalle elezioni, ci sono state però, da parte del governo uscente, incompetenza a livello di bilancio e mancanza di retti-tudine. E ora i conservatori si sono posti nella condizione di un governo che in qualche modo ha ereditato la crisi, descrivendo il Partito laburista negli stessi termini negativi che i laburisti avevano usato a suo tempo nei loro confronti. Sta di fatto che noi non dovremmo accettare passivamente che i nostri avversari possano sempre scegliere da una sorta di menu i temi dello scontro politico. Soprattutto se si tratta di una sorta di menu ideologico di destra. È ovviamente possibile che il governo possa dare la colpa al governo laburista uscente dei problemi che il paese deve affrontare, ma credo anche che noi ad esempio si deb-

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ba mettere al centro del dibattito temi come quello della partita mediatica in atto in questo momento. E mi riferisco al fatto che Rupert Murdoch ha acquisito tutta Sky e ha cambiato la struttura proprietaria dei media in Gran Bretagna, un po’ come è avvenuto qui in Italia per Berlusconi e l’assetto dei media. Certamente que-sta sarebbe per i laburisti una sfida impegnativa, perché i media, soprattutto le televisioni, intervengono molto a livello politico. Ma è una sfida in cui dobbiamo cercare di essere prima di tutto sentiti, e poi ascoltati. Dobbiamo anche ammettere che abbiamo discono-sciuto la titolarità di parte del passato, e questo è stato un errore, nel senso che noi non dobbiamo negare tutto quello che viene dal passato, perché altrimenti non avremo un futuro, né potremo defi-nire ciò che in futuro vogliamo. Io credo che la sfida principale da affrontare si riduca, in sostanza, a due cose abbinate. La prima riguarda l’economia britannica e il tema attorno al quale ruota gran parte del dibattito: l’austerità, la necessità di ridurre la spesa, cosa che sembra essere diventata nor-ma in tutto il mondo. Se gli inglesi arriveranno a pensare che non ci sia altra strada che l’austerità, il Partito laburista non riuscirà a riconquistare il centro della scena. È invece importante, fonda-mentale, ricominciare a parlare di economia della crescita, perché senza crescita non ci sarà incremento dell’occupazione e non ci sarà investimento nelle nuove industrie, non ci sarà nemmeno un pro-gramma ambientale e non si potranno erogare ulteriori servizi. La seconda cosa, la seconda questione, è importante per tutti i par-titi politici. Se un partito perde potere perde anche fiducia, crede meno in se stesso, ha una maggiore introspezione. Quel che deve fare il Partito laburista è ripetere che noi crediamo nella giustez-za dei valori progressisti. Dobbiamo trasmettere questo messaggio con una fiducia che ci consenta di affrontare la Gran Bretagna mo-derna. La Gran Bretagna può sperare, in futuro, di avere un ruolo nel mondo soltanto se sarà convinta di poter progredire a livello sociale ed economico, in modo equilibrato.

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La mia ultima osservazione critica è questa: negli anni ‘70 sembra-va incredibile che nel decennio successivo avremmo avuto Thatcher e Reagan, invece è proprio questo il pensiero che ha dominato, e c’è stata la reaganomics. Anche ieri se ne è parlato in termini poco elogiativi, perché certamente non ha funzionato negli anni ‘80 né in Gran Bretagna né nel resto del mondo. Dopo che cosa è succes-so? Prima tutti sono ridiventati keynesiani, e adesso si è di nuovo tornati a una sorta di reaganomics modificata. Ma così noi svuotia-mo la politica, svuotiamo il futuro. Il Partito laburista deve assu-mere delle decisioni e parlare di gestione economica e di fiducia, però dipendiamo anche dai partiti progressisti di tutto il mondo, che a loro volta devono cominciare a parlare la stessa lingua e dire che la democrazia può essere la forza politica dominante. Ci sono tematiche come la globalizzazione, l’uguaglianza nel mondo, la si-curezza internazionale: tutti questi temi richiedono che la sinistra conquisti il centro del dibattito e che si crei lo spazio politico per poter ottenere dei risultati in questo senso. Un compito che abbia-mo, quindi, è lavorare perché non si crei un terreno fertile per la reaganomics. È quello che dobbiamo fare.

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Akira NagatsumaI compiti dei democratici giapponesi al governoPrima di tutto vorrei esprimere la mia gratitudine agli organiz-zatori per avermi dato la possibilità di intervenire a questa confe-renza. È un onore per me essere qui, ne sono davvero lieto. Il mio primo ministro sette anni fa era all’opposizione. Oggi il Partito democratico ha la maggioranza alla Camera Bassa, anche se siamo in minoranza nella Camera Alta, e quindi governare non è sempli-ce. Il mio partito, il Partito democratico giapponese, ha molta con-siderazione per la rete dei partiti progressisti, alla quale per parte nostra vorremmo davvero contribuire in modo fattivo. Vorrei allora utilizzare questa opportunità per parlare del cambio di governo che c’è stato nel mio paese nel settembre 2009 e dei pro-blemi del Giappone, che riguardano innanzitutto la riduzione del bilancio e l’invecchiamento della popolazione. Fino al settembre 2009, il Partito democratico liberale aveva governato il Giappone in maniera pressoché ininterrotta dal 1955. Dalla fine della secon-da guerra mondiale fino ad oggi, insomma, siamo sempre stati una nazione democratica, ma con un vero e proprio dominio del Partito liberaldemocratico. Senza alternanza al governo, la macchina burocratica in qualche modo si è identificata con l’Esecutivo e la grande maggioranza de-gli operatori economici ha sostenuto questo tipo di struttura, que-sto tipo di governo, che ha continuato ad andare avanti per molti anni. Anni in cui il Giappone è diventato un paese prospero grazie alla sua crescita economica, certo, ma tuttavia ha anche avuto dei deficit di bilancio notevoli e quindi è dovuto ricorrere ai contri-buenti e ci sono stati una serie di scandali politici. Attualmente uno dei fronti su cui siamo impegnati è proprio quello di districare questo legame che c’è tra Stato, mondo dell’economia, eccetera. Un altro tema al centro del dibattito in Giappone è quello riguardante il cambiamento delle strutture, nel senso che abbiamo

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una struttura politica vecchia. A questo proposito il Partito de-mocratico quest’anno introdurrà una legge che vieta di contribuire finanziariamente, quindi di fare versamenti, ad un sindacato o ad una società. Poi c’è l’organizzazione del vecchio sistema di dipen-denti pubblici, che in qualche modo sono legati ai politici e da loro disciplinati. Altra questione che il Giappone deve affrontare è, come accennavo prima, quella dell’invecchiamento della popolazione. Tra i paesi sviluppati, il Giappone ha un problema notevole da questo punto di vista. Quindi noi dobbiamo vedere come affrontare il problema del welfare in futuro, e a questo punto vorrei fare qualche commen-to sulla questione dell’invecchiamento della popolazione, perché c’è anche un problema di natalità decrescente. Solo se noi riusci-remo a colmare il divario tra i ricchi e i poveri potremo migliorare la situazione, perché altrimenti nei prossimi vent’anni un giap-ponese su tre non si sposerà. La popolazione non può continuare con quest’idea degli scatti di anzianità e di un’occupazione a vita. Siamo certi che le società sosteranno questo nuovo orientamento verso le pensioni erogate dalle aziende. E bisognerà anche vedere la dinamica delle famiglie nucleari. È necessario creare un modello giapponese per superare le sfide poste dalla società con la natalità decrescente e l’invecchiamento della popolazione, perché altrimenti si andrà verso un sempre più grande livello di insicurezza nella terza età. La previdenza sociale è sempre stata considerata il prezzo da pagare per la crescita econo-mica. Tuttavia noi crediamo che la previdenza sociale sia alla base della crescita economica, e quindi riteniamo di dover cambiare, di doverci orientare verso politiche di welfare positivo. Il welfare positivo è quello che sottolinea la filosofia dell’inclusione sociale, per cui si include ognuno e si prevede un ancoraggio al mercato del lavoro, alla famiglia e al territorio. In passato si ritene-va che il raddoppiamento del reddito e un’elevata crescita economi-ca fossero gli obiettivi, invece noi adesso abbiamo bisogno di col-

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laborazione a livello di territorio, per poter far sì che ogni membro della società possa assistere anche gli altri. Insomma, dobbiamo trasformare la nostra Nazione in una sorta di “gigante sociale”, per cui i servizi sociali fondamentali possano essere erogati, per fare un esempio, in ogni bacino di utenza di una scuola media inferio-re. In ognuno di essi ci devono essere delle cliniche, dei centri di assistenza 24 ore su 24, assistenza medica, e poi delle strutture per i bambini e servizi di assistenza quotidiana come gli asili. Tutto questo farà sì che i residenti potranno usufruire di questi servizi quotidianamente. Certo, poi abbiamo anche bisogno di eliminare il più possibile gli sprechi a livello amministrativo. E dobbiamo affrontare il problema della tassa sui consumi. Allargando lo sguardo, nel passato recente i risultati dello svilup-po economico hanno fatto sì che in Asia siano aumentati i paesi industrializzati. Non tutte le nazioni asiatiche, però, sono delle democrazie. E se noi riconsideriamo la storia del Ventesimo seco-lo, vediamo che nelle nazioni dove non c’era democrazia non solo i cittadini hanno sofferto di più, ma ci sono stati attriti sfociati in contrasti con altri paesi e addirittura in guerre. Per prevenire tragedie come quelle avvenute nello scorso secolo è bene, allora, essere decisi, e operare per aumentare il numero dei paesi demo-cratici. Dobbiamo garantire che il ventunesimo secolo sia un secolo di speranza, e anche per questo i partiti politici progressisti devono mettersi in relazione gli uni con gli altri e agire a livello globale. È per questo che noi siamo pronti a collaborare con voi e vorremmo avere una sempre maggiore cooperazione fattiva.

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Carolina TohaUna nuova generazione per un nuovo centrosinistra in CilePrima di parlare di come fare per tornare al governo, credo che noi in Cile si debba innanzitutto capire perché siamo andati all’op-posizione. Siamo stati al governo per vent’anni, abbiamo avuto molti successi, ma adesso abbiamo perso le elezioni. Magari voi, in altri dibattiti, avete sentito esponenti della Concertacion, la co-alizione di centrosinistra che ha perso le elezioni, dire che ci sono per questo delle spiegazioni congiunturali, tipo il candidato, una campagna che non è stata buona, delle primarie fatte non molto bene. Io, ad essere sincera, penso che le spiegazioni siano un po’ più profonde di queste. Sono Presidente del Partito per la democrazia, partito fondato da Ricardo Lagos per recuperare la democrazia in Cile, partito che è stato parte e cuore della Concertacion per vent’anni, e penso che la nostra sconfitta abbia a che fare con ragioni più profonde. È una sconfitta che ha a che vedere con la perdita della maggioranza del centrosinistra all’interno della società cilena, non soltanto dal pun-to di vista politico, ma anche culturale e sociale. È una sconfitta che ha a che fare con la perdita di capacità di attrarre e rappresen-tare i cittadini e cogliere i loro sogni, le loro aspettative. E penso specialmente ai nuovi cittadini del Cile, non soltanto i giovani, ma anche i non più giovani al centro dei cambiamenti di questi anni, a cominciare dai nuovi gruppi della classe media. Perché si è prodot-to questo? Per tre ragioni. Prima ragione, un deficit di futuro: tanti successi in vent’anni ci hanno fatto parlare troppo di quello che avevamo fatto e meno di quello che avevamo ancora da fare. Parlavamo troppo di noi stessi, dei nostri trionfi e poco delle sfide per il futuro. Parlavamo troppo del governo e poco della società. Parlavamo guardando il paese dal punto di vista del governo e non dal punto di vista dei cittadini. Questa è una prima cosa molto importante. Non importa quanto

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bene abbiamo fatto nel passato, la politica deve sempre parlare del futuro, deve parlare del futuro e sfidare il futuro. Seconda ragione: il deterioramento della politica. I progressisti non possono prescindere dalla politica, la destra può. In Cile e in molti altri luoghi la politica è diventata un rito molto conflittuale, mar-cato da lotte di potere, dispute personali, mentre le decisioni vere si sono fatte invisibili per i cittadini, inserite come sono in dibattiti tecnici, in complesse negoziazioni politiche che sono incompren-sibili per la gente, per i cittadini e per l’opinione pubblica. Noi progressisti dobbiamo trovare il modo di dare un nuovo significato alla politica, al suo dibattito. Dobbiamo avvicinarla alle persone e identificarla con dei valori e non soltanto con dispute di potere, come spesso è vista dalla gente. Terzo punto, terza ragione. La nostra promessa progressista, e penso che questo non sia soltanto un problema del Cile, anche se ha avuto successi nel passato, si è dimostrata impotente per diverse restrizioni, alcune cilene, altre no. Nel Cile una restrizione molto importante è il sistema politico, il sistema elettorale, che ha molti problemi, vede poca partecipazione, è molto centralizzato, con le tendenze ad assegnare la sostanziale parità di seggi tra maggioran-za e minoranza, con la prima che ha molte barriere nel dispiegare la sua azione, qualunque sia il suo colore politico. Vuol dire che in questo sistema politico fare dei cambiamenti è molto difficile. Il potere è molto concentrato. Ma c’è un’altra ragione che penso sia valida anche al di fuori del Cile, e cioè che le nostre riforme si sono mostrate impotenti di fronte a molti problemi che ha la società. In Cile abbiamo avuto molto successo in un tipo di riforma di prima generazione, vale a dire nelle riforme necessarie ad avere una buona crescita economi-ca, a porre il paese in condizione di approfittare dei cicli positivi dell’economia mondiale, a garantire aperture commerciali e buone infrastrutture per gli affari, a stabilire regole chiare e una buona capacità di rispondere con politiche anticicliche nei momenti dif-

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ficili, difendendo la gente e i posti di lavoro. È quest’agenda che ha reso possibile una buona crescita dell’economia per vent’anni e ha permesso di avere più risorse per attuare politiche sociali, per andare in aiuto della gente. Ma questa agenda, pur avendo molti successi, ha anche mostrato, con il tempo, i suoi limiti. Parlerò dopo di questi limiti. In questo quadro, la destra è stata capace di mordere i talloni al centrosinistra in Cile. Noi avevamo poco futuro, c’era una società nuova che loro sono stati più bravi a capire e interpretare di noi. C’era una politica carica di conflittualità e senza molto senso per la gente, con dibattiti importanti ma non comprensibili, con riforme che hanno migliorato molto la vita delle persone ma non hanno cambiato il livello delle diseguaglianze in Cile, le gerarchie sociali e l’elitarismo molto forte che c’è nella società cilena. E questo ha permesso un trionfo della destra, che è una destra che ha molto a che fare con quello che abbiamo sentito questa mattina e ieri nel nostro dibattito: una destra di tipo populista, con un discorso aset-tico, meno politico, che cerca di prendere i contenuti del centrosi-nistra e lo fa con molta audacia. Ma la sua agenda, la vera agenda della destra, è molto classicamente neoliberale: privatizzazioni, sussidi alla domanda, incentivi e sanzioni, disprezzo delle istitu-zioni, una forte scommessa sul mercato e sugli attori del mercato, un controllo dei mezzi di comunicazione e forti vincoli negli affari.A questa realtà noi dobbiamo opporci, per recuperare la maggio-ranza. Ma non soltanto una maggioranza elettorale o politica: una maggioranza culturale e sociale in Cile. E per riuscire in questo non servono le stesse risposte del passato, la stessa Concertacion che avevamo anni fa: ci vuole una Concertacion più aggiornata alla so-cietà di oggi. Fare opposizione dal Parlamento per questo è indi-spensabile, se non sei nel Parlamento con una voce chiara vuol dire che non esisti. Ma non basta, non è sufficiente. Dal Parlamento si può reagire alle decisioni del governo, ma non si possono prendere molte iniziative. Si può controllare, ma non si può convocare. Ci

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vogliono altre cose, nel nostro caso prima di tutto occorre tornare alla società, tornare al territorio, stare con la gente, tornare a recu-perare i vincoli con la cultura e con i movimenti cittadini, e questo è molto importante. Sinistra e cultura in Cile, e penso in tutto il mondo, hanno avuto un rapporto molto forte. Noi, almeno in Cile, l’abbiamo in gran parte perso. I movimenti cittadini sono di tipo nuovo, con loro ci vuole un rapporto diverso da quello che avevamo storicamente con i movimenti tradizionali, con i sindacati, con le organizzazioni studentesche. Questi movimenti sono nuovi perché sono molto apolitici, non hanno un legame con i partiti. Hanno un legame con cause che hanno un valore politico, e vogliono un rapporto con la politica di altro tipo, più legato a valori e compiti e non a progetti politici e compromessi politici con i partiti. Voglio-no la garanzia che non saranno usati, che avranno delle alleanze per cause specifiche. E poi i giovani: in Cile ci sono più di due milioni, quasi tre milioni di persone giovani, che non sono iscritti alle liste elettorali e che non votano. Ora ci sarà un cambiamento nel sistema elettorale e tutti saranno iscritti automaticamente a diciotto anni. Molti, nella sinistra cilena, non vogliono questo cambiamento, perché pensano chissà cosa faranno questi giovani, e temono che probabilmente saranno molto più sensibili al discorso della destra. Ma io penso che questa strategia attendista un po’ sia la morte per noi. Se non accettiamo questa sfida, se non cerchiamo di avere un rapporto con queste nuove generazioni, il futuro che ci aspetta è nero. Allo stesso tempo dobbiamo pensare che tutto ciò non è sufficiente se il centrosinistra non è capace di delineare un progetto di futuro per il Cile, un progetto che riesca a convogliare i sogni e i valori delle persone. Da questo punto di vista penso ci sia una riflessione da fare in Cile e in tutto il mondo, perché la nostra agenda di fare redistribuzione attraverso lo Stato continua ad essere molto impor-tante per il futuro, ma è completamente insufficiente per cogliere i sogni delle persone e offrire loro una società diversa. La dinamica

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del mondo di cui siamo parte non può essere cambiata soltanto con delle politiche di ridistribuzione attraverso lo Stato. Ripeto: non è sufficiente, è una cosa che serve per umanizzare la società, ma non per disegnare veramente una società retta da valori diversi. C’è un libro, non so se qui in Europa sia stato pubblicato, di un brasiliano, Roberto Mangabeira, che è stato un Ministro di Lula. Mangabeira dice – con una parola magari troppo grande, ma è bello usare parole grandi per sognare un po’ – che non ci serve un centrosinistra o un progressismo che parli di umanizzare la socie-tà: ci vuole un progressismo che parli di “divinizzare” l’umanità e che parli un’altra volta di una società dove gli esseri umani, con i loro migliori valori e istinti, dominino e mettano al centro le regole della convivenza. Questo vuol dire non soltanto fare politiche per compensare con lo Stato quello che succede, ma migliorare quello che succede nei rap-porti economici, nel mondo del lavoro e nelle relazioni internazio-nali. Niente di questo può essere fatto soltanto all’interno dei paesi. Certamente ci vuole, in questo tempo globalizzato, la capacità dei progressisti di offrire regole diverse per il mondo e all’interno dei singoli paesi. Un’ultima parola. In Cile abbiamo avuto vent’anni di successi di una coalizione che è stata diretta da una leadership di persone formatesi negli anni ’60, che hanno fatto la rivoluzione dei giovani nel ’60 e l’unità popolare, che hanno conosciuto l’esilio, che sono stati artefici del recupero della democrazia, che hanno gover-nato vent’anni. È una generazione fortissima e di grandi capacità ed è molto difficile da sostituire. Per sostituirla si dovrà probabil-mente passare un momento difficile quanto ad esperienze, errori e problemi, ma in Cile dobbiamo fare questo percorso, perché non è possibile chiedere un’altra volta a questa stessa generazione di scrivere il prossimo capitolo della nostra storia.

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Victor PontaCome riconquistare il futuroVorrei prima di tutto rivolgere i miei complimenti ai colleghi ita-liani per aver organizzato questo dibattito. È utile scambiarsi le opinioni e parlare del nostro destino, e spero anche che troveremo delle idee comuni per tornare al governo. L’argomento di que-sta sessione, passare dall’opposizione al governo, rispecchia bene la situazione in Romania, perché, forse lo sapete, dal 2004 noi abbiamo perso gli incarichi di governo e siamo costretti a stare all’opposizione. Non siamo riusciti a ottenere la metà dei seggi in Parlamento, e in base alla nostra Costituzione è il Presidente della Repubblica che decide chi forma il governo. Il nostro obiettivo, ovviamente, è quello di tornare lì, al governo, per attuare le nostre idee e realizzare quei cambiamenti che sono necessari per la nostra società. Naturalmente dobbiamo capire quali sono i migliori modi per arrivarci. Vorrei darvi un quadro della situazione, a partire da un evento che è stato davvero scioccante, ma che è un po’ il simbolo della nostra democrazia, della situazione dei paesi che sono in situazioni simili alla nostra. Due giorni prima di Natale, in Parlamento il primo mi-nistro ha dovuto affrontare una mozione di sfiducia, naturalmente presentata da noi, e durante il suo discorso un uomo si è buttato giù dal secondo piano, gridando «avete ucciso il futuro dei nostri figli». È stato veramente uno shock, sia per il primo ministro che per il governo, ma alla fine non hanno fatto altro che lavare il sangue e procedere, andando avanti senza l’opposizione. Chiaramente c’è stata una forte reazione dell’opinione pubblica, ma il primo mini-stro ha semplicemente detto: non ci possiamo fare niente, questa è la situazione, bisogna accettarla, dobbiamo tagliare tutto, dovete capire che non c’è la possibilità di pagare sussidi di disoccupazio-ne o pensioni; c’è una crisi economica in tutto il mondo, dovete assolutamente accettare che il vostro tenore di vita non è più re-

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alistico, non ascoltate ciò che vi dice il Partito socialdemocratico sul fatto che potreste avere una vita migliore, perché non hanno alcuna base solida, alcun motivo per dirlo. È stato un discorso molto cinico e pessimista. Il Presidente finge un po’, persino il Fondo monetario lo considera di destra. Ha detto che la popo-lazione deve accettare questo stato di cose e non deve ascoltare i partiti di sinistra, perché non è vero che noi possiamo tutelare i nostri diritti e il nostro welfare. Qual è, allora, la sfida reale per noi? Ovviamente siamo in una situazione in cui la popolazione è scettica e i giovani dicono di non avere un futuro in Romania, e che è meglio andar via, in Spagna o in Italia. Qual è la nostra debolezza? La destra, non solo nel mio paese, è riuscita a convincere una buona parte della popolazione che ora bisogna in qualche modo subire e soffrire, e che i partiti di sinistra si battono per valori vecchi, non più sostenibili. La nostra sfida principale, quindi, è quella di dimostrare che ciò che noi rap-presentiamo e difendiamo è qualcosa di realistico, perché le perso-ne dicono: anche se voi tornerete al governo non sarete in grado di creare un vero welfare, non sarete in grado di darci dei salari, degli stipendi, delle pensioni, non potrete tutelare i nostri diritti sociali. È evidente che i politici e i ministri della destra stanno cercando di avvalorare l’idea che noi stiamo soltanto infondendo speranze immotivate. Direi, allora, che dovremmo cercare di combattere, di difendere le nostre idee e dire alla gente che non si tratta soltan-to di discorsi politici. Ho apprezzato molto quello che ha detto il nostro collega britannico, e cioè che noi crediamo nei nostri valori ma non siamo prigionieri del passato. Perché quel che è passato, quando c’è stata una crescita economica sostenibile, non sarà più possibile nei termini in cui l’abbiamo conosciuto: c’è la crisi a li-vello globale, e dobbiamo sapere che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. La prima grande sfida è insomma quella di convincere la gente non solo della necessità delle nostre idee, ma anche della possibilità di metterle in pratica.

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La seconda è a mio avviso una sfida ancora maggiore, ed è quella di convincere le nuove generazioni che è nel loro interesse battersi per dei valori fondamentali. Se parlo alla generazione che adesso è all’università, a quelli che hanno meno di trent’anni, e chiedo loro qual è la situazione delle pensioni, è molto probabile che mi sentirò rispondere: beh, alla pensione mancano trentacinque anni, non ci voglio neanche pensare, non mi interessa. Ma se il governo dovesse dire che non ci saranno più pensioni? E poi se parlo del di-ritto all’istruzione, altrettanto probabilmente mi diranno: noi non abbiamo figli, non possiamo permetterceli e quindi non vogliamo pagare tasse per garantire questo diritto. E ancora, se parlo della sanità mi verrà detto: se sono ricco, se ho un buon stipendio, posso andare in un ospedale privato, in una clinica, e quindi non mi inte-ressa avere un servizio sanitario nazionale efficiente. Io credo che i politici di destra, nel mio paese ma credo ovunque, siano riusciti a far aumentare l’individualismo delle nuove genera-zioni. È questo il motivo per cui i nostri voti vengono dalle persone di mezza età o dalle persone più anziane. E sono d’accordo con quanto ha detto Carolina Toha, perché noi dobbiamo trovare una soluzione a questo stato di cose. Volevo anche porre delle questioni pratiche, riassumibili nella domanda: come fare a non rimanere prigionieri del passato, dei successi del passato? Adesso c’è una realtà diversa, quindi come possiamo essere credibili affermando che una volta al governo sa-remo in grado di attuare tutte quelle che sono le nostre promesse fondamentali? Io credo che dobbiamo trovare il modo di collabo-rare con altre forze progressiste che potrebbero non appartenere alla famiglia classica del centrosinistra, e anche con quella parte della società che non crede che la politica serva a qualcosa. In Romania, noi abbiamo realizzato un accordo con una forza di centro, il Partito liberale, per combattere questo Presidente e questo governo di destra e anche per dare a vari strati della popolazione la speranza che una volta al governo saremo in grado di attuare le no-

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stre promesse. Naturalmente io spero che questo nuovo approccio non sia una “terza via” ma la nostra via, la via socialdemocratica, socialista. Dovrà però, questa via, dimostrarsi efficace e realistica agli occhi delle persone, e io devo dire che sono ottimista.

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Il dibattito

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Tobias PillerVictor Ponta ci ha dato una lezione su come bisogna guardare al futuro, senza soffermarsi troppo sui meriti del passato. In questo senso suggerirei di riprendere, nel tempo che ci rimane, un tema su cui il dibattito si è soffermato più volte, e cioè: qual è il modo per in-serire nella nostra agenda la voglia, l’urgenza e l’abilità di “cogliere i sogni”, come ha detto Carolina Toha? La parola a Matt Browne.

Matt BrowneVorrei sollevare una questione sul fatto di essere “pro imprese”. Ab-biamo messo al centro del nostro dibattito varie cose, abbiamo af-frontato il tema della crisi economica, abbiamo parlato di banche e delle grandi multinazionali italiane. Ogni tanto, però, a me pare si rischi di perdere di vista le cose importanti, e penso ad esem-pio al ruolo delle imprese. Non voglio dire, con questo, che noi dobbiamo essere il partito delle imprese. Ma dobbiamo comunque sostenerle, e questo abbiamo cercato di farlo con la “terza via”, che aveva dentro di sé l’idea di un’agenda pro business. Un’agenda che ha spostato l’accento in questa direzione, anche se io credo che ora si tratti di proseguire in tal senso avendo però, al tempo stesso, un atteggiamento più “progressista”. Cosa che si può fare, penso, con nuove politiche per l’istruzione e per gli investimenti. Sapendo che è sempre il settore privato a creare la maggior parte dei posti di la-voro, e che se non lavoreremo con le imprese ci troveremo nei guai. Naturalmente tanti dei nostri elettori lavorano nel settore privato, e quindi non possiamo agire contro di loro, pena il rischio di perderli. Molti lavoratori si vedono come dei piccoli imprenditori, e quindi hanno una percezione diversa di ciò che fanno e di ciò che sono: vogliono far crescere la propria attività. Dobbiamo sostenerli, dob-biamo essere credibili, non vogliamo certamente essere visti come sostenitori di alcuni interessi dei sindacati del settore pubblico.

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Quindi è vero, dobbiamo capire i loro sogni, dobbiamo capire come dare loro una maggiore rilevanza, dobbiamo essere pro busi-ness perché senza il sostegno alle imprese non potremo sperare di vincere le elezioni. Tony Blair era molto forte e credibile anche fuori dal Regno Unito, perché parlava di una società diversa, parlava appunto di una “ter-za via”. Come lo ha fatto? Agendo in modo pragmatico, pratico, ma anche offrendo un sogno. E perché ha avuto tanto successo in Gran Bretagna? Intanto bisogna dire, secondo me, che abbiamo trovato una buona situazione economica. All’inizio degli anni ‘90 è iniziato un periodo di espansione economica, e con la crescita è molto più facile dare alla gente delle cose. Da questo punto di vista, naturalmente siamo partiti anche da un gradino molto basso. La Thatcher e John Major avevano distrutto i servizi pubblici, l’infra-struttura pubblica, i sindacati e i diritti sindacali, quindi noi pote-vamo restituire tutto questo alla gente. È stato facile, la situazione non poteva che migliorare. Nell’elezione del 1997 era questo il tema ricorrente, ed era vero: l’economia cresceva e i conservatori erano in grandissima difficoltà. Abbiamo avuto una grande fortuna in questo senso. Però è altret-tanto vero che abbiamo anche attuato delle politiche importan-ti quando siamo arrivati al potere. Abbiamo detto che avremmo avuto una crescita economica molto più stabile e nel primo fine settimana al governo abbiamo reso indipendente la Banca di In-ghilterra: un messaggio per dire a tutti che non avremmo più ma-novrato l’economia e questa cosa, per fare un solo esempio, ha dato dei frutti immediati.

Tony LloydPerché non sembri un dibattito incentrato sulla Gran Bretagna, vorrei provare ad inserire nel dibattito altri elementi. Matt dice bene quando osserva che nessun partito, a sinistra, deve essere “an-

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ti-imprese”. Non possiamo permettercelo, dobbiamo favorire sia il settore privato sia il settore pubblico. Anzi: non dobbiamo neanche dire che il settore privato e il settore pubblico sono due cose diver-se. Devono invece lavorare insieme, l’uno di fianco all’altro, per far crescere la società. Essere pro business non ha oggi lo stesso significato, in Gran Bre-tagna, di essere “pro banche”, e mi riferisco naturalmente a quelle banche che hanno distrutto l’economia. Una certa generazione di banchieri, ovviamente, ha portato a questo disastro. Possiamo però essere pro business, pro imprese, senza appoggiare questi eccessi che portano alle crisi. Si cercano delle soluzioni di mercato, e que-sto si è fatto in alcuni settori del Partito laburista, ma non va sem-pre bene, perché non possiamo essere troppo ideologici, rischiando di essere poco realistici. Era giusto, come è stato fatto, far capire che volevamo comunque sostenere le imprese e che volevamo dare al sindacato un giusto ruolo.

Carolina TohaNoi, in Cile, siamo stati pro business, assolutamente pro business e questo è stata una cosa molto buona per il nostro paese. Ma adesso, a questo punto, la domanda non è se siamo pro business o anti business, ma se possiamo fare una politica più evoluta in rap-porto con il business. Che business vogliamo si faccia? E come, in quali condizioni? Faccio alcuni esempi riguardanti il Cile. Il Cile è cresciuto sulla base dell’esportazione di risorse naturali sen-za molto valore aggiunto, e questo ha reso possibile una grande crescita economica ma non la creazione di molti posti di lavoro, e nemmeno la creazione di posti di lavoro di buona qualità. Che riforme possiamo fare perché ci sia un business in grado di creare più lavori e di maggiore qualità? Seconda domanda: in Cile tutto lo sviluppo dell’energia è basato su un sistema in cui i privati propongono progetti e lo Stato dice sì

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o no. Possiamo avere una politica in cui noi, come paese, vogliamo tale tipo di energia e cerchiamo progetti per quel tipo di energia e generiamo le condizioni perché essi siano possibili. Ma come pos-siamo fare in Cile, nel mondo, per trovare una regolamentazione del lavoro che sia nello stesso tempo positiva e capace di creare occupazione? Siamo tutti preoccupati, in Europa la più grande preoccupazione è la disoccupazione. Ma ci sono stati dei momenti, in Cile ad esempio, in cui l’occupazione era buona, ma non lo era la qualità dei posti di lavoro. Lo sappiamo: in questi anni tutta la discussione intorno alla qualità e alle regole del lavoro è stata im-possibile, perché se vuoi trovare delle regole per elevare la qualità del lavoro c’è il rischio di una maggiore disoccupazione. Questo è un discorso globale, perché ha anche a che vedere con la competitività dei paesi. Penso che in questo senso non è che dobbiamo essere contro gli affari, ma dobbiamo cercare un’agenda che si faccia carico di tutti questi problemi che sono più complessi. Sono le generazioni di riforme più difficili da fare. Più difficile del-la semplice creazione delle condizioni per l’investimento. In Cile cresciamo molto, ma c’è una diseguaglianza molto grande, ci sono posti di lavoro di cattiva qualità, c’è poco spazio per l’innovazio-ne. La situazione allora non è più come qualche tempo fa, quando parlavamo di mercato o Stato. Non è più questa la domanda. La domanda non è: più affari sì o no, ma che affari? Come li facciamo? Che politiche ci servono?

Nick ReeceVolevo riprendere un punto che ho sentito in questi due giorni sui giovani votanti e vorrei capire se l’esperienza australiana ha qual-che parallelo negli altri paesi qui rappresentati. In Australia, negli ultimi trent’anni, le persone più giovani si sono orientate verso i progressisti e i laburisti direi in modo significativo. Recentemente abbiamo visto il voto dei giovani spostarsi verso un nuovo partito

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politico, quello dei Verdi, e questo presenta una notevole sfida per noi. I Verdi, in Australia, fondamentalmente non vogliono andare al governo, nel senso che fanno delle grandi promesse alle elezioni che poi sanno di non poter mantenere. Esercitano comunque un fascino sui giovani con le loro promesse, con i loro ideali, tanto che due terzi del calo dei nostri voti si spiega proprio con questa capa-cità di attrazione dei Verdi verso i votanti più giovani. Mi piacerebbe sapere qual è la situazione nei vostri paesi rispetto al voto dei giovani, anche se forse la questione porterebbe via tutta la giornata. Il vantaggio, comunque, è che i partiti tradizionali co-minciano ad avere un loro programma ambientale, per far vedere che si interessano dell’ambiente.

Justin TrudeauLa situazione in Canada è molto simile all’Australia. I Verdi non hanno seggi nella Camera dei Comuni, ma in questi anni hanno costantemente incrementato il consenso. È principalmente un voto di protesta, è un modo di “parcheggiare” il voto in un luogo che ti fa sentire bene, ma che non prevede la partecipazione alle difficili scelte della politica. Un recente studio fatto solo sui votanti cana-desi di età compresa tra 18-25 anni consegnerebbe quarantatre de-putati verdi al parlamento. Sì, c’è un aumento del voto di protesta e la sfida, il vantaggio, è che tutti i principali partiti hanno adottato un profilo ambientalista, mentre i conservatori non fanno nulla al riguardo; tuttavia l’ambiente è diventato una tematica grazie al fat-to che i verdi esistono. Adesso la sfida è togliere i voti dalla protesta e convogliarli verso un voto costruttivo e responsabile. Questo è il compito che abbiamo davanti.

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Stavros LambrinidisDirò alcune cose molto brevemente. A volte, è vero, i socialisti vin-cono le elezioni. Ma il problema, piuttosto evidente, è che i conser-vatori hanno dominato l’Europa per tanto tempo e che la situazio-ne resta molto difficile. C’è la mancanza di visione di cui molto si è detto anche nel corso di questo nostro dibattito. E il problema è che noi non possiamo aspettare semplicemente che il frutto maturi e cada: noi dobbiamo intervenire, dobbiamo avere un ruolo attivo. I conservatori stanno rubando la nostra retorica, ma è anche vero che noi abbiamo rubato quella dei Verdi, e questa è una cosa che in qualche misura doveva avvenire. La questione è che quando ci siamo candidati, noi credevamo in quello che dicevamo. Uno dei nostri pilastri era la trasformazione ambientale della Grecia in re-lazione all’energia e alle altre tematiche ambientali. Forse non è giusto presentare i Verdi come persone totalmente irrealistiche: il problema è che le tematiche ambientali devono far parte dei nostri programmi perché noi dobbiamo concentrarci sulla tutela dell’am-biente anche per la creazione di nuovi posti di lavoro, e questo vale soprattutto per alcuni paesi. La seconda cosa che volevo dire è che sì, certamente dobbiamo essere a favore delle imprese e sostenerle. Però questa intera discus-sione non ha colto una questione: i partiti progressisti sono partiti di sinistra, se ciò ci imbarazza possiamo anche andarcene a casa. Noi abbiamo un’ideologia che è progressista. Volete chiamarla di centrosinistra? Va bene, ma comunque c’è la sinistra. Non può es-sere una cosa confusa, non è che noi prendiamo un’idea dei conser-vatori e una dei socialisti e con un misto delle due convinciamo gli elettori. No, gli elettori li convinco soltanto se credo veramente in quello che faccio e se non penso solo a conquistare i voti di nicchia, perché così non andrei avanti. Terzo punto: a me pare che occorra fare quello che abbiamo fatto in Grecia, facendo sedere tutti i partiti di sinistra attorno a un ta-

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volo per vedere di riuscire a proporre un principio guida in grado di orientare il cammino. Noi abbiamo dimostrato di essere disposti a parlare con gli altri e abbiamo fatto sinceramente del tema am-bientale, ad esempio, uno dei nostri pilastri programmatici. Non ci siamo limitati a “rubare” idee ai Verdi a fini elettorali. E possiamo anche discutere di cosa significhi essere di sinistra, però io non sono imbarazzato, non mi crea problemi dire che sono progressista e di sinistra. Credo infine che Matt abbia detto qualcosa di molto importante: non si tratta solo di essere a favore dell’impresa, perché noi siamo anche a favore del settore pubblico. Mi rendo conto che è facile per la destra sfruttare questo argomento, dando di noi una rappre-sentazione sbagliata e fuorviante. Ma noi dobbiamo difendere il settore pubblico come soggetto che eroga servizi, che è la cosa più importante, e al tempo stesso non possiamo apparire come un par-tito che è contrario all’impresa. Un ultimo commento sulle nuove generazioni: è fondamentale trovare una soluzione, impegnarsi per attrarle, portarle ad interessarsi alla politica.

Raymond JohansenIl punto non è se si è pro o contro le imprese, ma impedire alla destra di etichettare i socialdemocratici come anti business perché noi saremmo a favore del settore pubblico in un modo che vede il pubblico contrapposto al settore privato. E per i partiti di destra è facile sfruttare questo se noi non definiamo i nostri valori. Pertanto noi dobbiamo essere contro gli alti stipendi per i manager e a favore della regolamentazione del mercato, perché questa è una parte im-portante del movimento laburista. Per utilizzare dei valori li devi prima creare. E prima dei tuoi diritti vengono i tuoi doveri, non il contrario. Questo è il giusto conflitto in cui dobbiamo entrare, altrimenti i partiti di destra ci spingono su un terreno sbagliato. E noi diventeremmo il partito conservatore che difende solo il settore

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pubblico. Settore che noi dobbiamo sostenere in quanto produttore di servizi: prendersi cura degli anziani, dare sicurezza nei campi della salute e della scuola. Questa è l’agenda giusta. Così non po-tremmo mai essere etichettati come anti-impresa, anche se la de-stra cerca di spingerci in quell’angolo. Noi dobbiamo avere fiducia in noi stessi, nella nostra capacità di creare valori.

Girija VyasUn ulteriore commento perché stiamo parlando del voto delle nuove generazioni che esprimono un voto di protesta. In India i giovani hanno combattuto anche per la nostra indipendenza. In India abbiamo un buon numero di giovani interessati alla politi-ca, ma quando c’è un problema loro sono interessati a soluzioni immediate al di fuori dalla politica e questo non va bene. Noi abbiamo trovato una soluzione, lavorando sodo e portandoli verso il voto, ma allo stesso momento dobbiamo pensare a come avvici-nare i giovani alla politica.

Tobias PillerGrazie per questo breve ma così spontaneo dibattito. Vorrei ri-volgere una domanda a Nagatsuma. Il suo partito è stato all’op-posizione per quarant’anni, e io le chiedo: come siete riusciti a suscitare la fiducia che vi ha permesso di arrivare al governo dopo così tanto tempo?

Akira NagatsumaFaccio un paragone molto semplice, anzi due: se non si continua a pedalare la bicicletta cade, così come se un pugile non conti-nua a combattere finisce per diventare sempre più debole. Dunque,

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quando noi eravamo all’opposizione, non abbiamo fatto altro che criticare, anche in modo molto duro, tutti i punti che secondo il nostro parere non andavano nell’agenda del governo. A cominciare dal punto cruciale delle tasse, non abbiamo fatto altro che criticare, criticare e criticare. Il problema è che quando dall’opposizione si cambia il proprio ruolo, e si arriva al governo, la cosa più difficile è che non si ha più un nemico da combattere. Oggi, invece di un nemico, abbiamo un grande obiettivo: cambiare il vecchio sistema politico, cambiare la vecchia struttura dei funzionari pubblici e di tutto il sistema pubblico. Credo che questa sia la priorità assoluta della nostra agenda.

Tobias PillerUn’ultima domanda per Tony Llyod. In Gran Bretagna c’è un det-to: «l’opposizione è un governo in attesa, e abbiamo un governo ombra». Come possiamo dire alla gente, qui in Italia, che bisogna essere preparati, che bisogna essere pronti?

Tony LlyodSi, dovete essere pronti. Forse è un motto da boy scout, ma credo possa andar bene anche nell’attuale contesto. La realtà è questa: l’opposizione ha dei vantaggi nei confronti del governo, ma c’è an-che un grande svantaggio, rappresentato dal fatto che è il governo a controllare sempre la vera agenda. L’opposizione deve cominciare quindi a pensare a cosa farà quando tornerà al potere. Certo non si può pensare di essere al governo, sarebbe una follia, ma dobbia-mo certamente delineare le priorità, senza perdersi nei dettagli. Si tratta, piuttosto, di concentrarsi su tre o quattro grandi tematiche, fissare le vere priorità e dire che esse costituiranno l’agenda del futuro.

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Dario Franceschini

ConclusioniCome proseguire questo lavoroForse ci sarebbe da chiedersi perché un incontro come questo è ar-rivato così tardi. La velocità della globalizzazione ha trovato la po-litica impreparata. Il dato più rilevante è costituito dall’assenza di una sede come questa per discutere, mentre le sedi esistenti, come quelle internazionali, sono ormai strumenti antichi. Alla base del ritardo della politica c’è una presunzione sbagliata: ossia che no-nostante la globalizzazione la politica potesse restare all’interno dei confini nazionali. Come si può pensare che questo oggi possa avvenire? La globalizzazione ha travolto tutto: le distanze, le frontiere, la stessa sovranità nazionale. Basti pensare a come Internet abbia tra-volto tutto con riferimento a eventi quali la crisi economica mon-diale o la rivolta tunisina. In un mondo così è possibile immaginare che il nostro impegno politico si esplichi solo in un ambito nazio-nale? Questo è frutto dell’imprinting imposto dalla stessa destra: la politica doveva farsi da parte e tutto il resto lo avrebbe fatto il libero mercato, che, libero di agire, avrebbe spontaneamente por-tato crescita economica, benessere e democrazia per tutti. Questa concezione ha tolto alla politica il ruolo di protagonista nel gestire la globalizzazione. Una concezione che si è infranta con la crisi finanziaria ed economica del 2008.Il tema che si pone oggi è se i problemi posti dalla globalizza-zione possano essere affrontati con risposte politiche meramente nazionali. Pensiamo alle politiche ambientali, al tema del terrori-smo internazionale, all’immigrazione, alla finanza, all’economia. Tutti temi che necessitano di essere affrontati in una logica sovra-nazionale. Pensiamo ancora al tema della delocalizzazione delle imprese, che scelgono il luogo dove il lavoro costa meno o dove ci

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sono meno garanzie per i lavoratori. Possibile che la politica accetti questa logica senza pensare di poterla in qualche modo modificare, ad esempio, imponendo nuovi standard internazionali in materia di lavoro?Questi temi ci spingono ad incontrarci per discutere e riscrivere le regole del futuro. In questo momento, infatti, noi poniamo grande attenzione al tema della democrazia all’interno degli Stati, mentre accettiamo che i rapporti tra Stati siano regolati da regole ancora molto primitive. Ancora oggi il peso all’interno del G8 e del G20 è determinato dalla potenza economica e/o da quella militare dei singoli Stati.Quale futuro ci aspetta? Quali saranno le basi del diritto interna-zionale? Si discute nel dibattito internazionale dell’opportunità di rivedere il Pil quale principale indicatore del benessere di un paese. Possiamo, allora, pensare che sia una Commissione esclusivamente nazionale a riscrivere i criteri per la definizione del Pil?La crisi finanziaria ed economica del 2008 e la nuova presiden-za americana inaugurata con l’elezione di Obama hanno aperto una fase nuova, nella quale i governi degli Stati hanno accettato di cedere un pezzettino della loro sovranità. Tuttavia, anche questa apertura è a sua volta frutto solo di incontri tra Capi di Governo e Capi di Stato. Si può allora pensare che anche le scelte effettuate dai Capi di Governo siano precedute solamente da riflessioni po-litiche che ciascuno Stato fa per conto suo? Occorre riflettere sul fatto che oggi non esistono luoghi nei quali le persone che stanno dalla stessa parte politica si possano incontrare per preparare a li-vello transnazionale le scelte globali dei Governi.Il Partito democratico è nato per questo: per mettere assieme pro-gressisti e democratici e lo stesso gruppo parlamentare europeo al quale apparteniamo non è più e solo il gruppo socialista europeo, ma grazie al contributo del Partito democratico è diventato il grup-po dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici al Par-lamento europeo.

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Questa è dunque la prima sfida che abbiamo davanti: offrire una risposta alla destra che si caratterizza per cavalcare le paure del nostro tempo, utilizzandole per dare risposte semplici ai fini della raccolta di consenso. Noi invece dobbiamo trasformare queste pau-re del nostro tempo in opportunità di cambiamento, indicando una via riformista. Where do we go from here? Occorre dunque fare un passo in avanti nella direzione della costruzione di un luogo comune a livello in-ternazionale in cui si possano incontrare i progressisti di tutto il mondo. Come dimostra la presenza oggi qui di parlamentari di paesi di tutto il mondo, non esiste attualmente un network per i gruppi parlamentari progressisti. Occorrerebbe, allora, creare un gruppo di lavoro che preparasse gli incontri futuri, auspicabilmen-te tematici, vertenti cioè su specifici temi in agenda. I mezzi delle nuove tecnologie ci consentono oggi di pensare a forme di coordi-namento e di scambio di idee, documenti, esperienze continue e complete, capaci di integrare i momenti assembleari come questo, indispensabili ma certo più complessi da organizzare.Quando nei singoli parlamenti nazionali compiremo scelte su specifici temi, sapremo che altri parlamentari, in istituzioni geo-graficamente lontanissime, staranno compiendo scelte nella stessa direzione. Mi piacerebbe che un giorno potessimo dire che questo lavoro ha avuto origine a Roma, il 14 gennaio del 2011.

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AppendiceBiografie

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Pier Luigi BersaniNato a Bettola (Piacenza), è sposato con Daniela e ha due figlie. Laureato in Filosofia con una tesi su San Gregorio Magno, con Vincenzo Visco ha fondato il think tank Nens (Nuova economia nuova società). Nel 1993 è stato eletto Presidente della Regione Emilia Romagna, poi riconfermato nel 1995. Si è dimesso da que-sto incarico nel maggio del 1996 quando è stato nominato Mi-nistro dell’Industria dal Presidente del Consiglio Romano Prodi. Dal 23 dicembre 1999 al giugno 2001 ha ricoperto la carica di Mi-nistro dei Trasporti. Alle elezioni politiche del 2001 è stato eletto deputato per la prima volta e nel 2004 è stato eletto parlamentare europeo. Dopo la vittoria dell’Unione nel maggio 2006, è nomi-nato Ministro per lo Sviluppo economico. È stato tra i protagoni-sti della nascita del Partito democratico, e dal novembre 2007 è membro del Coordinamento nazionale e Responsabile economico. Candidato alla leadership del Pd, ha vinto il Congresso e dal 25 ottobre 2009 è il Segretario nazionale.

Rosy BindiVicepresidente della Camera dei deputati e Presidente dell’Assem-blea nazionale del Partito democratico, Rosy nasce a Sinalunga in provincia di Siena. Laureata in Scienze politiche, è docente di di-ritto amministrativo. Dopo una lunga militanza nell’Azione catto-lica ne diviene, tra l’84 e l’89, Vicepresidente nazionale. Nel 1989 è eletta europarlamentare. In poco meno di un decennio s’impone come una delle figure di spicco della nuova politica italiana ed è tra i promotori dell’Ulivo. Eletta alla Camera dei deputati nel ’94, diventa Ministro della Sanità nel primo Governo Prodi (1996), in-carico confermato fino alla primavera del 2000 e grazie al quale realizza la riforma del Servizio sanitario nazionale. Rieletta sem-pre dal 2001 ad oggi alla Camera dei deputati, si schiera contro la guerra in Iraq, si batte contro i tentativi di stravolgere la Costitu-

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zione e di limitare i diritti di cittadinanza così come contro le leggi ad personam. Nel 2006, nominata Ministro delle Politiche per la famiglia nel nuovo Governo Prodi, organizza a Firenze la prima Conferenza nazionale della famiglia. Tra le voci più autorevoli e convinte della nascita del Partito democratico, si candida alle pri-marie del 2007 per la segreteria del partito, arrivando seconda con quasi mezzo milione di voti.

Matt BrowneSenior Fellow al Center for American Progress a Washington, è impe-gnato nella costruzione di una rete progressista transatlantica e in-ternazionale e nello studio dei temi politici transatlantici. In prece-denza è stato Direttore dell’ufficio di Londra di APCO Worldwide e Direttore di Policy Network, il network internazionale fondato da Tony Blair, Gerhard Schroeder, Goran Persson e Giuliano Amato. Browne ha anche gestito la stampa internazionale durante le cam-pagne elettorale del New Labour nel 2001 e 2005.

Massimo D’AlemaPresidente della FEPS (Foundation for European Progressive Stu-dies) e della Fondazione Italianieuropei, è membro della Camera dei deputati e, da gennaio 2010, è Presidente della Commissio-ne parlamentare per la Sicurezza della Repubblica (Copasir). Nel 2006, dopo essere stato rieletto alla Camera dei deputati, è nomi-nato Vice primo ministro e Ministro degli Affari Esteri nel secon-do Governo Prodi. Dal 2003 è Vicepresidente dell’Internazionale socialista, carica nella quale è stato riconfermato durante il Con-gresso di Atene del 2008. Nel 2004 è eletto al Parlamento europeo. Nel 2000 viene eletto Presidente dei Democratici di sinistra. Nel 1994 diviene Segretario nazionale del Partito democratico della si-nistra. È giornalista e autore di numerosi libri.

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Antonio EstellaLaureato in Legge all’Università Autonoma di Madrid, ha conse-guito un master in Diritto comunitario all’Università di Bruxelles e un PhD in Diritto all’Istituto Universitario Europeo di Firenze. È professore ordinario all’Università Carlos III e professore “Jean Monnet” in integrazione europea. I suoi ambiti di ricerca e spe-cializzazione sono il diritto, la politica dell’Unione europea e le relazioni transatlantiche. Le sue esperienze professionali e politi-che includono l’attività di coordinatore accademico per il Centro studi della Fundación Alternativas, la consulenza per il Diparti-mento Esteri del Psoe e quella per il Ministero della Giustizia. Ha coordinato il programma elettorale del PSOE nel 2008 per la parte relativa alle relazioni transatlantiche.

Piero FassinoNato ad Avigliana (Torino), sposato con Anna Serafini, è laureato in Scienze Politiche. Nel 1994 è eletto alla Camera dei deputati per la prima volta, e viene rieletto nel 1996, 2001 e 2006. Nel 1996 diventa Sottosegretario di Stato per gli Affari esteri e le politiche europee e dal 1998 al 2000 Ministro per il Commercio con l’e-stero. Dal 2000 al 2001 è nominato Ministro della Giustizia. Nel 2001 è eletto Segretario dei Democratici di sinistra (fino al 2007). Nel 2008 è rieletto deputato, membro della Commissione Esteri, Rapporteur per il Medio Oriente e per i Balcani della Delegazione italiana presso il Consiglio d’Europa, membro della Delegazione parlamentare italiana presso l’assemblea dell’Unione dell’Europa occidentale, membro della Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare della Nato. È Presidente del Comitato dell’Interna-zionale Socialista per il Medio Oriente e Inviato speciale dell’U-nione europea per la Birmania. Nel Pd, è membro della Direzione Nazionale e Presidente del Forum per la politica estera.

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Dario FranceschiniNato a Ferrara, è laureato in Giurisprudenza. Sposato con Silvia, ha due figlie. La sua attività politica inizia da studente quando fon-da l’Associazione degli studenti democratici, un’organizzazione di ispirazione cattolica e centrista. Entra nel secondo Governo D’Ale-ma come Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle Riforme Istituzionali, incarico confermatogli dal successivo Governo Amato. Alle elezioni politiche del 2001 è eletto deputato per la prima volta. Tra i fondatori della Margherita, nel luglio 2001 diventa Coordinatore dell’esecutivo nazionale, incarico conferma-to nel 2002 e nel 2004. Rieletto deputato alle elezioni politiche del 2006, diventa Presidente del gruppo parlamentare dell’Ulivo alla Camera dei deputati. Con la nascita del Partito democratico il 14 ottobre 2007 e l’elezione a Segretario di Walter Veltroni, diviene Vicesegretario. Rieletto deputato alle elezioni politiche del 2008, il 21 febbraio 2009, dopo le dimissioni di Walter Veltroni, è eletto Segretario del Partito democratico. Il 25 ottobre 2009 alle prima-rie del Pd, ottiene il 34% dei consensi, e lascia a Bersani la segre-teria del Pd. Il 17 novembre viene eletto Presidente del Gruppo parlamentare del Pd alla Camera dei deputati.

Raymond JohansenSegretario generale del Partito laburista norvegese dal 2009. È stato in precedenza Segretario di Stato al Ministero degli Affari Esteri norvegese (2005-2009 e 2000-2001) e nel 2001 Respon-sabile del Comitato di valutazione della Campagna elettorale del Partito laburista. Johansen è stato Capo del Dipartimento per la Cooperazione culturale, Norad (l’Agenzia Norvegese per la coo-perazione allo sviluppo), Commissario ai trasporti e all’ambiente per la città di Oslo e membro del Consiglio comunale della stessa città. Raymond Johansen è nato il 14 Febbraio 1961.

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Stavros LambrinidisParlamentare europeo del Pasok e Vicepresidente del Partito del socialismo europeo. Vicepresidente del Parlamento europeo e Ca-pogruppo della delegazione del Pasok, è l’autore del Rapporto parlamentare su “L’integrazione degli immigrati nell’Unione eu-ropea” e su “La promozione della sicurezza e dei diritti fondamen-tali nell’era dell’elettronica”. Laureato all’Amherst College e alla Yale University Law School , ha lavorato come avvocato a Washington e ha il grado di Ambasciatore della Grecia

Enrico LettaVice segretario del Partito democratico. Dopo la laurea in Scienze Politiche, indirizzo politico internazionale, si è specializzato in Di-ritto delle comunità europee presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Nel 1993 diventa Segretario generale dell’Arel, agenzia di ricerche e legislazione fondata da Beniamino Andreatta. Nel 1998, a 32 anni, diventa ministro delle Politiche comunitarie del I Governo D’Alema, il più giovane ministro della storia repubblica-na. Dal 2001 è parlamentare della Repubblica italiana. Nel 2004 diventa parlamentare europeo. Nel 2006 è sottosegretario alla Pre-sidenza del Consiglio nel II governo Prodi.

Tony LloydTony Lloyd, nato a Manchester, è parlamentare laburista dal 1983, eletto prima nel collegio di Stretford e poi, dal1997, in quello di Manchester Central. Presidente del Gruppo del Partito laburi-sta, capo della delegazione britannica all’Osce, si occupa di una vasta gamma di questioni legate alla sicurezza, ai processi di de-mocratizzazione, al monitoraggio delle elezioni politiche, ai diritti umani, al controllo degli armamenti. Dopo aver ricoperto dalla

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seconda metà degli anni Ottanta alla metà del decennio successivo diversi incarichi nei governi ombra laburisti, dal 1997 al 1999 è stato Sottosegretario agli Esteri nel primo governo Blair.

Maria MurilloMaria Ascension Murillo, dal 9 marzo 2008 è senatrice e por-tavoce aggiunta del Gruppo parlamentare socialista al Parlamen-to spagnolo. È stata deputata dell’Assemblea della regione della Estremadura dal 1999 al 2003. Dal 2003 al 2007 è stata Primo se-gretario del gruppo parlamentare della Estremadura. Nel periodo 2007-2008 è stata Vicesindaco del Comune di Mérida (Badajoz). Ha svolto attività di docente presso l’Istituto tecnico superiore di Mérida dal 1986 al 2008.

Akira NagatsumaAkira Nagatsuma è Vice segretario del Partito democratico giap-ponese. È nato a Nerima, Tokyo, ed è laureato alla Keio University. È stato eletto al Parlamento (Dieta bassa) per la prima volta nel 2000. Riconosciuto come uno dei politici giapponesi che più com-battono la corruzione nelle istituzioni, è diventato noto per le sue inchieste sui piani pensionistici per il settore pubblico. Dal 2009 al 2010 è stato Ministro della Sanità, del Lavoro e del Welfare.

Jennifer PalmieriVicepresidente Senior per le Comunicazioni al Center for Ameri-can Progress di Washington. Ha lavorato per numerose campagne presidenziali americane come addetta stampa e portavoce. È stata Capo Ufficio stampa del Democratic National Committee durante le elezioni del 2002. È una veterana della Casa Bianca di Clinton,

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dove è stata Vice addetto stampa dal 1998 al 2001. Ha lavorato alla Casa Bianca anche come consigliere speciale del Capo dello staff, Leon Panetta, e come Vicedirettrice dell’organizzazione. La sua carriera politica è iniziata nell’ufficio del deputato Leon Panetta.

Tobias PillerNato nel 1962 a Straubing sul Danubio, è cresciuto ai margini della Foresta Bavarese. La passione per il giornalismo è cominciata fin da giovane, facendo praticantato in un giornale regionale bavarese, in due stazioni radio, e, per un breve periodo, anche in un quoti-diano inglese. Ha studiato economia all’Università di Ratisbona e alla London School of Economics. Nel 1989 ha cominciato a lavora-re alla redazione economica della Frankfurter Allgemeine Zeitung e dalla primavera del 1992 riveste il ruolo di corrispondente della FAZ in Italia. È stato Presidente dell’Associazione della stampa estera in Italia.

Lapo PistelliNato a Firenze nel 1964. Sposato, ha tre figli. Laureato in Scien-ze Politiche indirizzo relazioni internazionali, è senior lecturer alla Stanford University e all’Università di Firenze. È membro del Parlamento (Camera dei deputati), e siede in Commissione Affa-ri esteri, incarichi che ha peraltro ricoperto anche tra il 1996 e il 2004 quando era membro della Delegazione parlamentare Ocse. Nel Pd è il responsabile per le relazioni internazionali. Tra il 2004 e il 2008 è stato Parlamentare europeo, Capogruppo della delega-zione parlamentare dell’ALDE.

Victor PontaNato nel 1972, è Presidente del Partito socialdemocratico romeno dal 2010. È stato deputato per la regione di Gorj sin dal 2004 e

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Vicepresidente dell’Ufficio permanente. Rieletto nel 2008, durante il Governo di Emil Boc ha ricoperto l’incarico di Ministro con delega ai rapporti con il Parlamento dal 2008 al 2009. Membro del partito dal 2002, è stato dal luglio al novembre dello stesso anno Presidente del Consiglio romeno dei giovani socialdemocratici. In ottobre è divenuto membro del Consiglio nazionale del partito e il mese seguente è entrato a far parte dell’esecutivo diventando con-temporaneamente Presidente dei giovani, incarico mantenuto per quattro anni. Nel 2005 è diventato Vicepresidente dell’Ecosy e da dicembre 2006 Vicepresidente del partito. Dal 1998 al 2001 è stato Procuratore della Corte Suprema di Giustizia nella divisione dedi-cata alla lotta alla corruzione, interessandosi in particolare dei casi riguardanti i crimini economici e finanziari. Dal 2000 al 2001 ha coordinato l’Ufficio contro il riciclaggio di denaro.

Nick ReeceMembro del Segretariato generale del Partito laburista australiano, è diventato Segretario generale e Direttore della campagna elet-torale del Partito laburista nello stato del Victoria nel Settembre 2009. Prima dell’elezione a Segretario generale, è stato Responsa-bile per le politiche e la strategia nell’ufficio del Premier del Victo-ria, John Brumby. È stato anche Direttore per le questioni econo-miche dell’ex Premier Steve Bracks e Consigliere del Ministro del Tesoro Brumby. Nelle elezioni federali del 2007 ha lavorato nello staff del primo ministro Kevin Rudd.

David SassoliNato a Firenze, giornalista ed europarlamentare dal giugno del 2009, eletto con oltre 406 mila preferenze, è il Presidente della De-legazione del Partito democratico al Parlamento europeo e mem-

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bro delle Commissioni parlamentari Trasporti, Affari esteri e della Delegazione Ue-Israele. Fa parte della Direzione e del Coordina-mento del Partito democratico. È stato fra i fondatori dell’Associa-zione “Articolo 21”, movimento in difesa della libertà di stampa.

Carolina TohaNata a Santiago del Cile, due figli, è la Presidente del Partido por la Democrácia (Ppd) da giugno del 2010. Laureata in Legge all’U-niversità del Cile, ha un postgrado in Scienze Politiche conseguito presso l’Università di Milano. Figlia di José Tohá, politico del Par-tito socialista, Vicepresidente e Ministro di Salvador Allende, co-mincia il suo impegno politico nel 1984 come leader della Federa-zione degli studenti nell’Università del Cile. Durante il governo di Ricardo Lagos è Viceministro Segretario Generale del Governo. Nel 1999 diventa Vicepresidente del Ppd e nel 2001 viene eletta per la prima volta alla Camera dei deputati per il Collegio elettora-le di Santiago. È rieletta nel 2005. Nel marzo del 2009, durante il governo della Presidente Michelle Bachelet, sostituisce Francisco Vidal nella carica di Ministro Se-gretario generale della Presidenza, prima donna politica cilena a occupare quel ruolo nella storia del paese. Nel dicembre dello stes-so anno lascia il governo per divenire il Coordinatore politico del-la campagna elettorale del candidato della Concertación, Eduardo Frei Ruiz-Tagle.

Frans TimmermansParlamentare olandese del Partito laburista (PvdA) sin dal 1998. Nel 2007 è nominato Ministro per gli Affari europei del quarto governo Balkenende. Dal 1994 al 1995 ha lavorato per il Commis-sario europeo Hans van den Broek. Fino al 1998 è stato consigliere e segretario personale di Max van der Stoel, Alto Commissario per

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le minoranze nazionali dell’Ocse. Ha rappresentato il Parlamento danese alla Convenzione europea. È stato lecture ospite dell’Isti-tuto olandese per le relazioni internazionali “Clingendael” e del Collegio olandese di Difesa, così come membro del Comitato ese-cutivo del Movimento europeo.

Justin TrudeauEletto deputato per il collegio di Papineau il 14 ottobre 2008, è an-che Ministro ombra per la gioventù, la cittadinanza e l’immigra-zione per il Partito liberale. Da quando è stato eletto in Parlamen-to, si è battuto con passione per una maggiore partecipazione in politica dei giovani, e allo stesso tempo per un maggiore impegno del Governo nell’aiutare i giovani canadesi a diventare più prepa-rati in un mondo sempre più globalizzato e competitivo. Trudeau è anche membro della Commissione ambiente e sostenibilità. Figlio maggiore dell’ex Premier canadese Pierre Trudeau, è nato il 25 Dicembre 1971.

Girija VyasÈ membro del Parlamento indiano (15° Lok Saba) per il collegio di Chittorgarh e Presidente della Commissione nazionale per le donne del Governo indiano. Nel 1985 è stata eletta nel Parlamento dello Stato del Rajastan per il collegio di Udaipur, Rajastan, ed è stata Ministro nel governo provinciale. Nel 1991 è stata eletta al Parlamento nazionale per Udaipur, ed è stata Viceministro. Nel febbraio 2005, il Governo di Manmohan Singh la nomina Presi-dente della Commissione nazionale femminile, posizione che tut-tora ricopre.

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A cura del Gruppo parlamentare del Partito Democratico della Camera dei deputatiDipartimento InternazionaleUfficio Studi e DocumentazioneUfficio Comunicazione