CONCEDI LA PACE AI NOSTRI GIORNI - WebDiocesi · CONCEDI LA PACE AI NOSTRI GIORNI La parola pace...

21
CONCEDI LA PACE AI NOSTRI GIORNI La parola pace governa tutta la liturgia prima della comunione. La preghiera che viene subito dopo il Padre nostro: “Concedi la pace ai nostri giorni, e con l’aiuto della tua misericordia vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro salvatore Gesù Cristo”, è una magnifica analisi della pace come conseguenza visibile della fede. Pace vuol dire che il peccato non ci frena e questo è possibile solo con il soccorso della misericordia di Dio e solo così si è sicuri da ogni turbamento, da ogni angoscia perché ci si poggia sull’unica base solida. L’attesa poi determina la chiarezza dell’orizzonte e del fine, senza la quale la pace non può essere completa. La Sacra Bibbia definisce Dio: mia misericordia. Dio per l’uomo è misericordia e la pace in noi ha un solo nome: la misericordia di Dio. Solo sulla pace si edifica, nella guerra si altera e si distrugge. La parola più comprensiva e definitiva di ciò che Dio è per l’uomo è il perdono: io ti perdono, dice Dio al popolo d’Israele; farete sempre male, voi vi ribellerete ma io vi perdono perché sono Dio e non uomo. Per l’uomo è impossibile il vero perdono perché questa parola vuol dire far rinascere da capo. Il rapporto con Dio invece rinnova. “ Se i tuoi peccati fossero rossi come coccino io ti purificherò rendendoti candido come la neve”. La nostra realtà mondana è legata, condizionata da quello che uno fa. Mentre l’uomo è libero perché Dio lo libera. La vita passata diventa novità e tutto coopera al bene, anche il male. È terribile come noi cristiani possiamo passare settimane, anni, senza sentire l’abbandono profondo nella misericordia di Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per noi. Vivo, non io, ma è Cristo che vive in me; perciò io vivendo nella carne vivo nella fede del Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2, 20). Se Dio è con me chi mi può condannare? Così dice S. Paolo nella lettera ai Romani. Noi non abbiamo questo senso della pace perché non abbiamo il senso della vera contrizione. Solo nella misura della contrizione può determinarsi la capacità della pace. Tutte le volte, infatti, che Dio parla all’uomo inizia il suo discorso così: non si turbi il vostro cuore, non abbiate paura. Tutto questo non è un pietismo irresponsabile, è una responsabilità vissuta. Nel seguito della liturgia, il sacerdote dice: “ La pace del Signore sia sempre con voi. Scambiatevi un segno di pace. Vale a dire invita alla pace tra noi. La pace tra uomini socialmente magari estranei è certamente un altro miracolo-sfida al mondo perché è impossibile al di fuori della mentalità cristiana.

Transcript of CONCEDI LA PACE AI NOSTRI GIORNI - WebDiocesi · CONCEDI LA PACE AI NOSTRI GIORNI La parola pace...

CONCEDI LA PACE AI NOSTRI GIORNI

La parola pace governa tutta la liturgia prima della comunione. La preghiera che viene

subito dopo il Padre nostro: “Concedi la pace ai nostri giorni, e con l’aiuto della tua misericordia

vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento nell’attesa che si compia la beata

speranza e venga il nostro salvatore Gesù Cristo”, è una magnifica analisi della pace come

conseguenza visibile della fede. Pace vuol dire che il peccato non ci frena e questo è possibile solo

con il soccorso della misericordia di Dio e solo così si è sicuri da ogni turbamento, da ogni angoscia

perché ci si poggia sull’unica base solida. L’attesa poi determina la chiarezza dell’orizzonte e del

fine, senza la quale la pace non può essere completa.

La Sacra Bibbia definisce Dio: mia misericordia. Dio per l’uomo è misericordia e la pace

in noi ha un solo nome: la misericordia di Dio. Solo sulla pace si edifica, nella guerra si altera e si

distrugge. La parola più comprensiva e definitiva di ciò che Dio è per l’uomo è il perdono: io ti

perdono, dice Dio al popolo d’Israele; farete sempre male, voi vi ribellerete ma io vi perdono perché

sono Dio e non uomo. Per l’uomo è impossibile il vero perdono perché questa parola vuol dire far

rinascere da capo. Il rapporto con Dio invece rinnova. “ Se i tuoi peccati fossero rossi come coccino

io ti purificherò rendendoti candido come la neve”.

La nostra realtà mondana è legata, condizionata da quello che uno fa. Mentre l’uomo è

libero perché Dio lo libera. La vita passata diventa novità e tutto coopera al bene, anche il male. È

terribile come noi cristiani possiamo passare settimane, anni, senza sentire l’abbandono profondo

nella misericordia di Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per noi.

Vivo, non io, ma è Cristo che vive in me; perciò io vivendo nella carne vivo nella fede del

Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2, 20). Se Dio è con me chi mi può

condannare? Così dice S. Paolo nella lettera ai Romani. Noi non abbiamo questo senso della pace

perché non abbiamo il senso della vera contrizione. Solo nella misura della contrizione può

determinarsi la capacità della pace. Tutte le volte, infatti, che Dio parla all’uomo inizia il suo

discorso così: non si turbi il vostro cuore, non abbiate paura.

Tutto questo non è un pietismo irresponsabile, è una responsabilità vissuta. Nel seguito della

liturgia, il sacerdote dice: “ La pace del Signore sia sempre con voi. Scambiatevi un segno di pace”.

Vale a dire invita alla pace tra noi. La pace tra uomini socialmente magari estranei è certamente un

altro miracolo-sfida al mondo perché è impossibile al di fuori della mentalità cristiana.

Sottolineo alcuni fattori di questa pace fraterna:

La non mormorazione

Non è possibile, innanzitutto, andare abbracciati dalla misericordia resa Corpo di Dio,

che è la comunione, avendo mormorato del fratello. Questa è l’opera di satana:

diffondere il male. La mormorazione, dico mormorazione perché la calunnia è anche

bestemmia contro la verità, è un allargare il male del mondo. Chi mormora ha il gusto

del male. Quando un nostro fratello che ha un difetto e che ha sbagliato, ben memore dei

miei difetti, troverò specchiato l’orrore dei miei nel suo delitto.

La non ira

S. Paolo dice: “non adiratevi”, ma dice anche: “il sole non cada sopra la vostra ira”.

L’ira è una piccola pazzia che è in noi. La non-ira si chiama pazienza. La pazienza è

proprio come la figura di Atlante, l’uomo che porta sulle spalle il mondo. La pazienza è

Cristo. “Nella vostra pazienza possiederete la vita”. Il contrario dell’ira – la quale

pretende che le cose cambino subito o siano diverse.

La non chiusura del cuore

Infine chiediamoci:

come fa ad esserci tra noi un bisogno senza che non si ripercuota in tutti? Attraverso il

realizzarsi di questa fraternità pratica, reale, cambia il nostro individualismo nel vivere.

Solo Cristo distrugge il modo individualistico di concepire l’uomo e le cose.

Occorre tempo, ma attraverso questa fraternità il mondo è sfidato con il miracolo che

esso non può compiere: l’unità tra gli uomini. “Scambiatevi un segno di pace”. È un

simbolo di abbraccio molto più grande, profondo, reale. Il processo di realizzazione è

l’inverso del processo di conoscenza: alla conoscenza ci accostiamo quando ci

raduniamo insieme, quando la Chiesa che ci chiama è Cristo che chiama tutti, ma le cose

vere che impariamo incominciano a realizzarsi nel piccolo.

Questa pace con noi, tra di noi si oggettiva dunque in strutture di vita, in convivenza, e

così si potenzia il gusto, l’intelligenza, l’energia nell’interesse al mondo. La nostra pace

non è un fuggire nel deserto; la nostra fraternità, la nostra unità non è il fare una

roccaforte da cui non si esca mai. Genera una passione per il mondo, per il lavoro e i

suoi problemi, per la vita sociale, passione per il mondo secondo il temperamento, la

vocazione e la situazione.

Radunandoci e dicendo la Messa noi non risolviamo i problemi del lavoro secondo le

loro esigenze tecniche. Ma dicendo la Messa noi impariamo la posizione esatta per

affrontare i problemi del lavoro. Sappiamo quello su cui non dobbiamo cedere e l’idea

sintetica in base alla quale condurre tutte le nostre attività. La Messa imposta il soggetto

dell’azione che siamo noi. Imposta l’attore nel grande dramma del mondo.

COMUNIONE

Così la liturgia della Messa ci prepara a compiere coscientemente il gesto della

comunione sacramentale. Allora diventa chiaro il significato di ciò che la Liturgia pronuncia in

quella bellissima invocazione: “ Ti preghiamo umilmente per la comunione al corpo e sangue di

Cristo, lo Spirito ci riunisca in un solo corpo”. Questo è l’ideale della felicità del mondo: dare

unità al mondo. E attraverso la nostra comunione al corpo e al sangue di Cristo, attraverso la

comunione delle nostre azioni con Cristo attraverso la consacrazione della nostra vita, lo Spirito

realizzerà la comunione degli uomini in un solo corpo. Questa è la nostra fede: la fede scavata

nel volto carnale, superficiale delle cose, la consapevolezza di quell’azione misteriosa dello

Spirito. Per questo diciamo che il primo contributo dei cristiani alla liberazione anche politica,

sociale, umana del mondo è vivere la fede, cioè la comunione, intesa come gesto singolo della

Messa, ma fattore e dimensione della vita.

Il linguaggio simbolico della Liturgia

Il linguaggio liturgico, il dialogo sacramentale fra Dio e l’uomo, è fondamentalmente

simbolico. Sovente con il temine simbolo noi facciamo riferimento a qualsiasi segno. Per la verità, il

simbolo è qualcosa di più e di ben preciso che la filologia riporta nel contesto originario dell’antica

Grecia, quando con questo termine si intendeva la parte spezzata di un coccio o di un altro oggetto

che combaciava perfettamente con l’altra metà e che quindi permetteva il riconoscimento di un

inviato, di un messaggero.

Il termine simbolo infatti deriva dal greco συμβάλλω (metto insieme). Il simbolo si

distingue dalla semplice metafora, dall’allegoria o da ogni altro strumento di comunicazione, perché

non mira a dare una semplice e precisa informazione, come per esempio il segnale stradale, né si

limita a richiamare una storia o avvenimenti già noti, come la metafora o l’allegoria. Il simbolo va

molto più in là: riassume una serie inesauribile di valori che non possono essere comunicati nella

loro completezza alla mente come una semplice informazione, ma possono essere comunicati al

cuore soltanto attraverso l’esperienza. Per questo l’oggetto o il gesto simbolico non può essere

convenzionale, arbitrario, ma deve contenere in se stesso, in qualche modo, un’immagine, una

presenza del mistero che si vuole comunicare, almeno in parte percepibile da tutti.

Ad esempio, l’acqua, indipendentemente dalle parole che possono essere pronunciate su di

essa nel corso di una celebrazione, con chiaro riferimento alla storia della salvezza, contiene già in

se stessa un messaggio di morte e di vita. Così il fuoco, come pure il mangiare e il bere insieme, il

cantare insieme, alzare le mani, prostrasi a terra. . .Sono tutti gesti simbolici che contengono già in

se stessi un messaggio sufficientemente chiaro per qualsiasi uomo. Non per niente i veri simboli

risultano, poi, comuni a tutte le religioni. Per questo i veri e i principali simboli si radicano nelle

cose e negli atteggiamenti più naturali.

Il linguaggio liturgico, che pure si circonda di altri linguaggi complementari, è, lo ripeto,

fondamentalmente simbolico. Guai a dimenticare questa sua caratteristica specifica ! Le

conseguenze sarebbero molto devianti. Nel corso della storia, infatti, quando per mancanza di

cultura biblica da parte della grande massa, come pure a causa dell’ostacolo rappresentato dalla

lingua latina, i nuovi popoli barbari si trovarono di fronte ai gesti della messa, Amalario, vescovo di

Metz, vissuto nel IX secolo, con tutte le buone intenzioni pastorali, applicò alla celebrazione

dell’Eucaristia una discutibile interpretazione allegorica. Cioè, come si è tentato di spiegare prima,

prese in considerazione ogni gesto della Messa per dire tutt’altro, indipendentemente dal significato

autentico del gesto. Così tutti i riti della messa, anche i gesti più funzionali, ricevettero

un’interpretazione alla luce della passione e morte del Signore, verso la quale nasceva allora una

particolare sensibilità devozionale. Pertanto la messa da grandioso ed organico corpo di simboli

pasquali finì per slittare sovente a semplice rappresentazione teatrale o quasi.

Ad esempio, si finì per dire che lavanda delle mani rappresentava il gesto di Pilato; che il

voltarsi per cinque volte verso il popolo da parte del sacerdote corrispondeva alle cinque apparizioni

del Risorto; che i tre segni della croce sulle offerte dopo il Te igitur, nell’antico canone romano,

corrispondevano alla triplice derisione di Gesù da parte del sommo sacerdote, di Erode, di Pilato! E

così via di questo passo!

E’ chiaro che si tratta di una meditazione sulla passione di Gesù, per alcuni versi anche

lodevole, ma riduttiva come interpretazione dell’eucaristia, in alcuni casi deformante, e, certamente,

un’operazione che conduce alla frantumazione della celebrazione, che è memoria globale di tutto il

mistero cristiano.

LA LITURGIA NON E’ UN MIMO, MA EVOCAZIONE DEL MISTERO

CRISTIANO

L’allegorismo fu una modalità interpretativa della messa che, nonostante le condanne

ufficiali da parte della Chiesa, ebbe larga diffusione, le cui conseguenze si sentono in parte anche

oggi.

Quante volte, ad esempio, si tende a fare della lavanda dei piedi del Giovedì santo, non tanto

un gesto simbolico, quanto piuttosto una rappresentazione teatrale, magari con ragazzini vestiti da

apostoli.! E pensare che le norme stesse del Messale evitano appositamente di definire anche il

numero delle persone per le quali si può compiere questo gesto evocativo proprio per impedire di

cadere nel mimo! Non si tratta di “rappresentare” teatralmente il collegio degli apostoli, ma quel

servizio di carità che la Chiesa deve compiere oggi sull’esempio del Maestro.

Così, quante volte si pensa in buona fede di fare bene quando in occasione della prima

comunione, si allestisce una specie di mimo dell’ultima cena, piazzando un tavoli imbandito nella

navata centrale, diverso quindi dall’unico altare, dell’unica mensa. E così il forte e fondamentale

simbolismo dell’unico altare ( già tanto compromesso nelle vecchie chiese dalla mensa posticcia

davanti al precedente altare!) viene così totalmente soppresso. Può essere difficile comprendere

l’importanza di questo linguaggio simbolico fino a quando non ci si convince che la liturgia non è

affatto la stessa cosa di una scenetta catechistica.

Così, allo stesso modo ci sono persone che pensano di fare bene celebrando la Pasqua con

un mimo dell’antica cena pasquale ebraica, radunandosi attorno ad un tavolo con tanto di agnello e

di erbe amare. Può essere emozionante e anche istruttivo per la conoscenza delle radici ebraiche

della preghiera cristiana, ma non si deve confondere con la liturgia, con la celebrazione della

Pasqua cristiana.

La liturgia cristiana non è un mimo, non si riduce a sacra rappresentazione, a semplice

memoria visiva, ma è linguaggio simbolico, fatto di segni che volutamente non intendono fermarsi

all’occhio, ma vogliono colmare il cuore, trasportare oltre, a un dialogo interiore con l’ineffabile e

infinito mistero di Dio.

Per questo la vera ed originale liturgia cristiana è sobria e ricca di silenzi. La Liturgia, che

pure deve informare attraverso le parole e soprattutto mediante la Parola, ha come scopo

fondamentale quello di comunicare una presenza, una salvezza, per mezzo di gesti simbolici la cui

ricchezza non è semplicemente descrittiva, ma evocativa. . .Un discorso questo che nel contesto del

cammino post-conciliare è quasi tutto da riprendere per evitare tanti equivoci, incomprensioni, tante

soluzioni liturgico-pastorali che, salva la buona fede, finiscono per essere dannose e coinvolgere poi

in un giudizio negativo tutta la riforma liturgica. E’ con questo intento di chiarificazione che

prenderò in esame alcuni elementi simbolici della celebrazione cristiana per comprenderli e viverli

meglio nel contesto globale del linguaggio liturgico.

IN PIEDI E IN GINOCCHIO

Non molto tempo fa una persona, attraverso le colonne di una rivista, esprimeva il suo

rammarico per il fatto che, secondo lei, oggi nella liturgia c’è poca devozione. I fedeli infatti o

stanno in piedi o stanno seduti; quasi mai in ginocchio. Anzi, in certe chiese non è più possibili

inginocchiarsi in quanto le sedie hanno sovente sostituito i tradizionali banchi con inginocchiatoio.

A me personalmente poi è capitato di assistere a tanto sincere quanto inopportune

compensazioni a questo riguardo; persone cioè che, credendo forse di fare opera di riparazione e di

dare anche un salutare buon esempio, restano in ginocchio mentre l’assemblea sta in piedi o seduta.

Altre persone, incuranti del comportamento comune, fanno una genuflessione davanti al

sacerdote o ministro prima di ricevere l’eucaristia sul palmo della mano o sulla lingua. . .

RISCOPRIRE IL GUSTO DELLA PREGHIERA LITURGICA

Che c’è dunque dietro questo atteggiamento “anticonformista”, ma indubbiamente fuori

luogo? C’è prima di tutto una grande scusante. Basta prendere in mano un vecchio messalino e ci si

accorge che durante la messa, eccezione fatta per la lettura del Vangelo (in piedi) e per l’eventuale

omelia o predica (seduti), l’atteggiamento proposto ai fedeli è sempre quello di restare in ginocchio.

Si trattava di una logica conseguenza di quella particolare spiritualità che aveva fatto della

celebrazione eucaristica una semplice occasione per fare le proprie devozioni. Infatti, a ogni

specifico momento della messa veniva proposta ai singoli individui una preghiera privata che

avrebbe dovuto accompagnare, affiancare l’azione e la preghiera del sacerdote sull’altare. Il filo

conduttore di questo itinerario devozionale parallelo era la passione e morte del Signore. Dopo

molti secoli di questa prassi devozionale e individualistica, è del tutto normale che oggi si trovi

tanta difficoltà a reintrodurre il gusto e la consapevolezza della preghiera liturgica che, per sua

natura, si esprime con atteggiamenti simbolici comunitari. Anzi, la partecipazione attiva viene da

molti sentita come motivo di distrazione!

Preso atto di questa scusante, è altrettanto onesto riconoscere che c’è ancora molto da fare

per ritrovare le dimensioni di un’autentica spiritualità liturgica, che è poi quella fondamentale per

ogni cristiano; cioè quella che dovrebbe diventare ispiratrice di ogni altra forma di preghiera.

La spiritualità liturgica infatti non è un semplice sfogo dell’anima, ma, attraverso i gesti e le

parole, esprime la fede di tutta la Chiesa.

Può anche darsi che non gratifichi sempre le esigenze individuali, ma offre certamente un

alimento solido, talvolta forse anche una medicina non proprio conforme al nostro gusto del

momento, ma senza dubbio salutare per la nostra vita spirituale. E’ con questa consapevolezza che

la riforma liturgica del Vaticano II ha dato così grande importanza alle azioni simboliche: “ I riti

splendano per nobile semplicità; siano chiari per brevità ed evitano inutili ripetizioni; siano adatti

alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno di molte spiegazioni.” (SC 34)

Ora lo stare in piedi o in ginocchio, l’assumere un atteggiamento o un altro durante la

preghiera liturgica non è indifferente.

Ogni gesto rientra in qualche modo in quella dimensione di annuncio e di istruzione che è

parte integrante dell’azione liturgica e pertanto non può essere lasciato al gusto momentaneo di

ciascuno. “ Benché la sacra liturgia sia principalmente culto della maestà divina, contiene tuttavia

anche una ricca istruzione per il popolo fedele”(SC 33).

Gli atteggiamenti da assumersi durante l’azione liturgica non sono né casuali, né ordinati

all’efficienza o all’ordine esteriore. In altri termini non servono a cambiare posizione per evitare la

noia e la stanchezza, né per fare meglio e più bello! Essi sono delle vere e proprie azioni

simboliche.

Fra queste lo stare in piedi è senz’altro una delle più importanti e significative

IN PIEDI PERCHÉ FIGLI DI DIO RISORTI CON CRISTO

E’ sintomatico che l’iconografia delle catacombe ci presenti sempre la figura dell’orante in

piedi. Come del resto è sintomatico che il prete sull’altare, fin dagl’inizi, reciti tutte le preghiere

presidenziali e anche le poche private in piedi. Le poche genuflessioni presenti nel rito della messa

sono molto tardive e legate al culto eucaristico fuori della messa

E’ poi molto significativo che nella Chiesa antica, dall’Asia minore all’Africa, da Roma a

Milano – come testimoniano Tertulliano, San Giovanni Crisostomo, Clemente Romano e

sant’Ambrogio e come sancì il canone 20 del Concilio di Nicea (325) – fosse addirittura proibito

inginocchiarsi in domenica e durante i cinquanta giorni della Pasqua. Sant’Ireneo († 202), vescovo

di Lione, ne dà la spiegazione:”L’uso di non piegare le ginocchia nel giorno del Signore è un

simbolo della risurrezione attraverso la quale, grazie a Cristo, noi siamo stati liberati dai peccati e

dalla morte, che da Lui è stata messa a morte”.1

Lo stare in piedi dunque è l’atteggiamento normale del cristiano che, anche se peccatore, è

consapevole della sua dignità di figlio di Dio, grazie alla morte e alla risurrezione di quel Gesù che

ha riscattato per tutti quella dignità. E’ questo l’annuncio che vuole dare la preghiera liturgica. In

privato uno può assumere l’atteggiamento che vuole! La riforma conciliare non ha pertanto

laicizzato la liturgia, ma le ha restituito la sua carica simbolica e anche la sua funzione di annuncio

al mondo.

1 Sant’Ireneo, Frammento 7 da un trattato sulla Pasqua, in PG 6, 1346-1365

Nell’attuale normativa, per quanto riguarda in particolare la celebrazione eucaristica, è

previsto, ma non è tassativo, di poter restare in ginocchio “dall’inizio dell’epiclesi preconsacratoria

(gesto dell’imposizione delle mani) fino all’elevazione del calice inclusa”2. Una disposizione che

rivela un saggio compromesso con la radicata prassi precedente.

Lo stare in piedi durante la preghiera liturgica ha pure un più ampio significato, sempre

radicato nell’annuncio del mistero pasquale. Si tratta cioè dell’annuncio escatologico, della viata

cristiana come attesa dell’ultima venuta del Cristo. Non solo l’Eucaristia, ma tutta quanta la

preghiera cristiana si radica nel significato globale e nel rituale della cena pasquale ebraica che

prevedeva per tutti i commensali l’atteggiamento in piedi (cfr. Es 12,11).

Gesù stesso con chiaro riferimento al rituale della Pasqua, invita i suoi discepoli a essere

come quei servi che in piedi, pronti con la cintura ai fianchi e le lucerne accese, attendono il loro

padrone quando torna dalle nozze per aprirgli subito appena arriva e bussa (cfr. Lc 12, 35).

Con questa consapevolezza è bello e commovente pregare in piedi. Come è bello e

commovente camminare insieme e in piedi ad accogliere il Corpo di Cristo, vera manna, pane

disceso dal cielo, per sostenere il nostro cammino verso l’eternità, verso quei cieli nuovi e quella

terra nuova dove coloro che con Cristo hanno vinto la bestia (Satana – il peccato – la morte) in piedi

cantano in eterno davanti a Dio il cantico di Mosè e il cantico dell’Agnello (cfr Ap 15, 2 –3).

Lo stare in ginocchio è pure un significativo atteggiamento, che però trova origine e spazio

soprattutto nella preghiera privata. Esprime infatti la consapevolezza della propria povertà, del

proprio peccato. Per questo l’atteggiamento dell’inginocchiarsi è entrato nella liturgia molto

lentamente e con una certa parsimonia, a pari passo con il diffondersi dei riti penitenziali, legati

soprattutto alla celebrazione della penitenza pubblica.

Ora, come nella liturgia lo stare in piedi è l’atteggiamento principale, così lo stare in

ginocchio è l’atteggiamento proprio e più significativo della preghiera privata. E non senza ragione.

Infatti, quando siamo soli davanti a Dio, a titolo personale, prevale la nostra povertà, il nostro

peccato. Quando, invece, preghiamo liturgicamente, con e a nome di tutta la Chiesa, prevalgono i

meriti di Cristo. Ed è proprio questo il messaggio che la liturgia intende proclamare attraverso le

azioni simboliche.

Con tutto ciò neppure il linguaggio simbolico deve essere esasperato. Anche la liturgia,

infatti, prevede alcuni momenti in cui lo stare in ginocchio esprime un atteggiamento e un

messaggio di tutta la Chiesa.

2 Messale Romano, Precisazioni CEI, p.XLIX,n.1

Pensiamo all’antica prostrazione con la quale si dà inizio alla liturgia del Venerdì Santo.

Pensiamo alla significativa genuflessione durante il racconto della passione, quando si arriva alla

descrizione della morte di Gesù. Sono rari momenti liturgici, che danno spazio allo stare in

ginocchio; momenti che opportunamente esprimono l’umile adorazione e la supplica di tutto un

popolo che si sente schiacciato non tanto dal peccato quanto piuttosto dall’infinito amore di Dio.

Ma proprio grazie a quell’amore così grande l’uomo può e deve rialzarsi per camminare

speditamente verso quell’incontro nuziale che ci farà pienamente partecipi di quella vita divina che

è già in noi e ci dà l’onore di stare in piedi davanti a Dio come figli … Proprio per questo davanti al

tabernacolo, di fronte al segno massimo di quell’amore che ha pagato per la nostra dignità, nella

preghiera privata dell’adorazione, l’atteggiamento normale che ci viene spontaneo è di buttarsi in

ginocchio.

SEDUTI PER ASCOLTARE

Prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II lo stare seduti in Chiesa era

semplicemente funzionale. Ci si sedeva in fatti per ascoltare la predica e, nel corso delle messe

cantate, anche durante il Gloria ed il Credo a causa della lunghezza di questi canti in polifonia.

Per i ministri ordinati e vari ministranti all’interno del presbiterio lo stare seduti era

diventato una specie di cerimonia regolata da meticolosi dettagli coreografici: corpo eretto, le mani

sulle ginocchia, piedi uniti, beretta, inchini,. . .Nel contesto della liturgia riformata del Concilio

Vaticano II, cioè riportata alla sua originaria sobrietà di segno eloquente insieme a tanti altri gesti

ed atteggiamenti del corpo, anche lo stare seduti è ritornato ad avere una preponderante funzione

simbolica. Niente nella liturgia è semplicemente funzionale, coreografico e cerimoniale! Per questo

è importante conoscere il significato di questi gesti per accettarli e compierli con la gioia di chi è

consapevole di diventare in qualche modo, con la sua persona, strumento sacramentale di annuncio

per il mondo.

Può certamente capitare di passare per caso in una chiesa e di sedersi perché si è stanchi. E

anche da seduti si può pregare molto bene. Ma all’interno di una celebrazione liturgica lo stare

seduti ha alcuni significati precisi, fuori da ogni ambiguità e per questo tale atteggiamento non è

lasciato al gusto individuale del momento. In primo luogo lo stare seduti è segno dell’ascolto

confidenziale interiore, rispettoso e meditativo. Un ascolto che pertanto matura i sentimenti

profondi e le decisioni coraggiose. Non è certamente un caso che anche nei rapporti umani, quando

si vuole dare veramente spazio all’ascolto dell’altro, ci si siede uno di fronte all’altro.

Fra i tanti episodi biblici che qualificano questi atteggiamenti basti ricordare Maria, la

sorella di Lazzaro, che “sedutasi ai piedi di Gesù ascoltava”(Lc 10,39).

E quando la Vergine Maria andò alla ricerca di Gesù che stava predicando alle folle, il

Vangelo descrive così la scena: “. . .tutto attorno era seduta la folla. . .”(Mc 3,32).

E’ proprio questo sentimento di devoto ascolto che la liturgia vuole soprattutto esprimere,

quando prescrive l’atteggiamento dello stare seduti.

Così infatti le norme del Messale Romano: “Terminata l’orazione, il lettore si reca

all’ambone e proclama la prima lettura; tutti l’ascoltano seduti” (PNMR 89). La norma è chiara:

non dice che tutti leggono per conto loro. Per questo, pur riconoscendo i servizi positivi resi dai

foglietti che riportano tutti i brani scritturistici di una determinata celebrazione, resta sempre lecito e

doveroso chiedersi se il prezzo che si paga non sia troppo alto. Infatti, se tutti, o quasi, leggono per

conto loro, viene vanificato l’atteggiamento simbolico che sta all’origine dello stare seduti!

Ma questo atteggiamento è proprio così importante nel contesto dell’azione liturgica? In

fondo non è sufficiente che ognuno si legga attentamente quella Parola di Dio e si sforzi di metterla

in pratica? Purtroppo la prassi spirituale devozionale che ci sta immediatamente alle spalle ci ha resi

poco sensibili alla dimensione liturgica, per cui abbiamo sempre in agguato la tentazione di valutare

le cose soltanto in chiave individuale e di efficienza morale!

In tale contesto dimentichiamo anche che la Scrittura non è in primo luogo un libro di

meditazione, ma una parola che Dio rivolge al suo popolo, una parola che mira soprattutto a fare la

Chiesa.

Ecco, dunque, che quando ci si siede durante l’assemblea liturgica non significa che

sopravvenga una specie di intervallo e che si svolga qualcosa di meno importante. Né deve trarre in

inganno che per la lettura del Vangelo ci si alzi in piedi. Questo gesto non è in contrapposizione allo

stare seduti. Infatti il libro del Vangelo, fin dai primi tempi, era accolto con una processione e con

un’acclamazione nella consapevolezza di accogliere in quella Parola la persona stessa di Cristo

morto e risorto. E’ quindi ovvio che per tale rito l’atteggiamento in piedi, in posizione eretta, fosse

più che naturale, indispensabile. Atteggiamento che ancora oggi intende esprimere l’accoglienza di

Colui che viene nel nome del Signore, cioè la Parola fatta carne,l’ultima e la più completa Parola di

Dio, di fronte alla quale anche l’ascolto diventa anche un andare incontro.

Durante la celebrazione liturgica vi sono anche altri spazi dove lo stare seduti assume un

significato diverso, ma derivato da quello fondamentale spora descritto. Stare seduti insieme

esprime anche raccoglimento meditativo, come è prescritto durante il canto del salmo responsoriale,

durante la presentazione dei doni e durante l’eventuale silenzio dopo la comunione. Concludendo,

ciò che non si deve mai dimenticare è che questo atteggiamento dello stare seduti, ritenuto sovente

secondario e magari solo funzionale alla comodità, è invece un importante atteggiamento simbolico:

ci si ricorda come l’ascolto attento della Parola di Dio segni l’inizio della storia della salvezza ed

esprima l’atteggiamento interiore di tutto l’itinerario cristiano. Il Cristiano è l’uomo che si pone in

ascolto della Parola di Dio.

PREGARE CON LE BRACCIA ALLARGATE

Si sta diffondendo l’abitudine di recitare il “Padre nostro” tenendosi per mano. . .Un

atteggiamento senza dubbio amichevole, fraterno, ma che forse rischia di banalizzare la liturgia

cristiana portandola ad un livello di semplice cameratismo.

Non fa quindi meraviglia se, da questo modo di fare, si sia passati anche alla processione per

la comunione composta come se fosse un. . .trenino vivente di bambini della scuola materna, dove

chi si accosta alla mensa eucaristica è invitato a mettere una mano sulla spalla di chi lo precede.

Non si mette in dubbio la buona fede e le ottime intenzioni, ma prima di modificare il

simbolismo liturgico o aggiungervi qualcosa bisogna essere molto prudenti, fare umile

riferimento alla competenza, non senza avere analizzato in profondità il senso delle norme. Non

dimentichiamo infatti che il simbolo, come tutte le cose preziose, è uno strumento tanto

pregnante quanto delicato e facile a cadere nel ridicolo.

Si tenga poi presente che ciò che è valido per uno scopo catechistico non è detto che

debba trovare spazio nel contesto liturgico, dove il linguaggio della comunicazione è del tutto

diverso.. Il linguaggio liturgico non è rappresentativo e analitico, ma allusivo e globale, cioè

simbolico!

Ancora una volta è forse opportuno ribadire che la dimensione pedagogica della liturgia

si realizza per mezzo di segni che si radicano contemporaneamente sia nella profondità della

natura umana sia nella tradizione biblica (cfr. SC 24)

È comunque certo che il gesto di prendersi per mano, per quanto ricco di significato in

certi determinati contesti della vita umana, non possiede la forza simbolica di altri gesti dell’

antica tradizione liturgica, radicati in un simbolismo fondamentalmente comune a tutti gli

uomini. A questa dimensione appartiene certamente il gesto di allargare ed elevare le braccia al

cielo.

E’ quindi logico che le norme riguardanti la recita della preghiera che il Signore stesso

ha voluto porre sulle nostre labbra e nel nostro cuore non prevedano altro gesto se non quello

antico e solenne, ricco di reminiscenze bibliche e pregnante di umani significati che è quello

appunto di allargare le braccia e di innalzarle verso il cielo. Non c’è altro gesto più significativo

in tutte le culture di tutti i tempi!

Non fa meraviglia affatto che fin dai primissimi tempi dell’era cristiana questo

atteggiamento sia attestato per la recita del “Padre nostro” sia da parte di colui che presiede sia

da parte dei fedeli, nella preghiera liturgica e persino in quella privata.

Per questo motivo, giustamente, il Messale Romano del 1983 ha ripristinato anche per i

fedeli la possibilità di tale atteggiamento durante la preghiera del Signore.

Questa è la saggia indicazione del Messale Romano L’esortazione non si fonda su

un’epidermica ricerca, per quanto sincera e in buona fede, per favorire comunque la

partecipazione attiva e la consapevolezza della fraterna comunione attorno all’altare. Essa si

fonda sul primordiale linguaggio simbolico dell’uomo e sulla tradizione biblica e liturgica della

Chiesa, con tutto quel patrimonio “genetico” di storia e di sensazioni, più o meno consapevoli

che questo gesto comporta.. Tant’è vero che è un gesto che sgorga spontaneo dal nostro

subconscio per esprimere gioia,dolore, attesa, speranza. . .una ricchezza quasi infinita di

sentimenti.

Il gesto di elevare le braccia al cielo è infatti comune a tutte le tradizioni religiose. Le

Lamentazioni, attribuite a Geremia, accennano a questo antichissimo e comune modo di

pregare: “Preghiamo con tutto il nostro cuore alzando le nostre mani a Dio che è nel cielo”(

Lam 3,41).

Tertulliano, verso la fine del II secolo, si preoccupa che tale gesto abituale della

preghiera cristiana non venga interpretato in chiave pagana: “Noi quando preghiamo non

eleviamo soltanto le braccia, ma allarghiamo raffigurando e annunciando così la passione di

nostro Signore Gesù Cristo”.

L’atteggiamento con le braccia aperte ed elevate al cielo era quindi il gesto normale

durante la preghiera di tutti i cristiani. Atteggiamento del resto diffusamente attestato

dall’iconografia catacombale e paleocristiana. Questo modo di pregare, largamente attestato dai

salmi e sollecitato anche dall’apostolo Paolo, trova senza dubbio spazio e massima espressione

durante la celebrazione eucaristica, sia da parte di colui che presiede sia da parte dei fedeli.

E’ verso la fine del Medioevo, nella misura in cui la messa perde lentamente la sua

originaria dimensione comunitaria per diventare sempre di più una devozione privata, che

l’atteggiamento delle braccia allargate da parte dei fedeli cede il passo a quello delle mani

giunte. Questa usanza con il suo simbolismo evidente di devozione, di dedizione della propria

forza al superiore, deriva dalla tradizione culturale germanica, ed è strettamente legata a quella

per la quale i vassalli rendevano omaggio al signore feudale, ponendo le proprie mani in quelle

di lui.. L’atteggiamento delle braccia allargate resta invece invariato per colui che presiede

durante quelle preghiere che costituiscono il ceppo originario della celebrazione eucaristica. E’

soltanto durante il XIII secolo che questo atteggiamento solenne da parte del prete viene

stilizzato e in qualche modo mortificato attraverso quella norma che poi è giunta fino al

Vaticano II e che prevedeva l’apertura delle braccia all’altezza del petto, in modo da non

superare le spalle, né oltrepassare la lunghezza del corpo!

La riforma del Messale Romano del 1970 non determina più meticolosamente la

posizione delle mani, ma si limita a prescrivere per le orazioni presidenziali e per le preghiera

eucaristica le “braccia allargate”. Ma anche la libertà in liturgia ha i suoi vantaggi e i suoi rischi.

Il recupero di questo antico e originario atteggiamento può facilmente cadere nella sciatteria

come nella teatralità. C’è chi tiene le mano come se sorreggesse un cocomero e c’è chi le allarga

con affettata ostentazione! Non esiste più ovviamente una prescrizione al riguardo . . .o meglio:

c’è e pervade tutta la riforma liturgica: essere veri! E questo vale non solo per chi presiede, ma

anche per tutti i fedeli, per ogni atteggiamento che assumono durante la preghiera, compreso

quello delle mani alzate durante il “Padre nostro”. Una possibilità quest’ultima che non deve

essere ignorata a priori o sorpassata da altri atteggiamenti che sul momento sembrano essere più

gratificanti, ma a lungo andare sono più facilmente logorabili perché meno ricchi dal punto di

vista simbolico e talvolta persino un po’ infantili!

L’assemblea cristiana è composta da persone mature, responsabili, con i piedi sulla terra,

non in fuga dal mondo e alla ricerca di surrogati . . . E come tale deve apparire agli occhi del

mondo!

Allargare ed elevare le mani, senza esaltata ostentazione, ma con la sobrietà e la dignità

della liturgia e soprattutto con la spontaneità che proviene dalla verità di ciò che si crede e si fa,

richiama l’atteggiamento di Cristo sulla croce. Atteggiamento che, comune a tutte le tradizione

religiose, riassume in qualche modo l’invocazione di salvezza e la speranza di redenzione da

parte di tutti gli uomini.

Tratto da J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Ed. San Paolo 2001 –

Parte seconda, capitolo terzo.

“L’altare e l’orientamento della preghiera nella liturgia”

… Al di là di tutti i cambiamenti, una cosa è rimasta chiara per tutta la cristianità, fino al secondo

millennio avanzato: la preghiera rivolta a oriente è una tradizione che risale alle origini ed è

espressione fondamentale della sintesi cristiana di cosmo e storia, di attaccamento alla unicità della

storia della salvezza e di cammino verso il Signore che viene. La fedeltà a ciò che ci è stato già

donato così come la dinamica del progredire in avanti trovano in essa pari espressione.

L’uomo contemporaneo comprende poco tale “orientamento”. Mentre per l’ebraismo e per l’islam

continua a essere ovvio che si deve pregare rivolti verso il luogo centrale della Rivelazione – verso

Dio che si è mostrato a noi, dove e come egli si è mostrato a noi –, nel mondo occidentale è

divenuto dominante un pensiero astratto che, per qualche aspetto, è persino frutto della stessa

evoluzione della cultura cristiana. Dio è spirito, e Dio è dappertutto. Ciò non significa forse che la

preghiera non è legata a nessun luogo e a nessuna direzione? In effetti, noi possiamo pregare

dovunque, e Dio è per noi raggiungibile dovunque. Questa universalità del pensare a Dio è

conseguenza dell’universalità cristiana, dello sguardo cristiano al Dio che è al di sopra di tutti gli

dei, che abbraccia il cosmo e che è più intimo a noi di noi stessi. Ma la consapevolezza di questa

universalità è frutto della Rivelazione: Dio si è mostrato a noi. Solo per questo lo conosciamo, solo

per questo possiamo abbandonarci con fiducia a lui nella preghiera in ogni luogo. E proprio per

questo continua a essere appropriato il fatto che nella preghiera cristiana trovi espressione la

dedizione fiduciosa al Dio che si è rivelato a noi. E come Dio stesso ha preso un corpo, è entrato

nello spazio e nel tempo della terra, così è giusto – almeno nella preghiera liturgica comunitaria –

che il nostro parlare con Dio sia “incarnato”, cristologico, si volga al Dio trinitario attraverso la

mediazione del Verbo incarnato. Il simbolo cosmico del sole che sorge esprime ad un tempo

l’universalità al di sopra di tutti i luoghi e mantiene comunque la concretezza della rivelazione di

Dio. La nostra preghiera si colloca così nella processione dei popoli verso Dio.

Come stanno però le cose con l’altare? In quale direzione preghiamo nella liturgia eucaristica?

Mentre nella costruzione delle chiese bizantine la struttura ora descritta veniva sostanzialmente

mantenuta, a Roma si è andata sviluppando una diversa disposizione. Il seggio episcopale viene

spostato al centro dell’abside; di conseguenza, anche l’altare viene portato nella navata centrale.

Pare che nella Basilica Lateranense e in Santa Maria Maggiore le cose siano state così fino al secolo

nono. Nella Basilica di San Pietro, invece, sotto il pontificato di Gregorio Magno (590-604) l’altare

fu collocato vicino al seggio episcopale, probabilmente perché così veniva a trovarsi sopra la tomba

di san Pietro. Trovava così espressione concreta il fatto che noi celebriamo il sacrificio del Signore

nella comunione dei santi, che abbraccia ogni tempo. L’usanza di edificare l’altare sopra le tombe

dei martiri risale molto indietro nel tempo ed esprime sempre lo stesso concetto: i martiri

continuano lungo tutto il corso della storia il sacrificio di Cristo; essi sono, per così dire, l’altare

vivente della Chiesa, che non è fatto di pietra, ma di persone che sono divenute membra del corpo

di Cristo e che esprimono così il nuovo culto: il sacrificio è l’umanità che con Cristo si trasforma in

amore. Sembra, poi, che la disposizione adottata nella Basilica di San Pietro sia stata imitata anche

in molte altre chiese romane.

I singoli particolari di questi sviluppi sono oggetto di discussioni che, per le nostre riflessioni,

rivestono scarsa importanza. Nel nostro secolo il dibattito è stato piuttosto acceso da altre

innovazioni. Le indagini topografiche hanno infatti rivelato che la Basilica di San Pietro guardava

verso occidente. Se, dunque, il sacerdote celebrante voleva guardare verso oriente – così come esige

la tradizione liturgica cristiana –, allora egli doveva trovarsi dietro il popolo e, di conseguenza,

guardava verso il popolo. In ogni caso, per influsso diretto della Basilica di San Pietro, si può

ritrovare questa disposizione in tutta una serie di altre chiese. Il rinnovamento liturgico del nostro

secolo si è rifatto a questa presunta posizione del celebrante, per sviluppare sulla sua base una

nuova idea di forma liturgica: l’Eucaristia deve essere celebrata versus populum (in direzione del

popolo); l’altare – come si può dedurre dalla configurazione di San Pietro, ritenuta normativa, deve

essere disposto in maniera tale che il sacerdote e il popolo possano guardarsi a vicenda e costituire

così nel loro insieme il cerchio dei celebranti. Solo questa forma corrisponderebbe al senso della

liturgia cristiana, all’impegno della partecipazione attiva. Solo così si corrisponderebbe, inoltre,

all’immagine originaria dell’Ultima Cena. Queste conclusioni appaiono poi tanto convincenti che

dopo il Concilio (che, di per sé, non parla di “disposizione verso il popolo”) da tutte le parti si sono

eretti nuovi altari; la celebrazione orientata versus populum appare oggi come il vero frutto del

rinnovamento liturgico operato dal Concilio Vaticano II. In effetti essa è la conseguenza più visibile

di una nuova forma che non significa solo una diversa disposizione esteriore degli spazi liturgici,

ma implica anche una nuova idea dell’essenza della liturgia come pasto comunitario.

È evidente che in questo modo si è frainteso il senso della Basilica romana e della disposizione

dell’altare al suo interno. Quanto meno approssimativa è poi anche l’immagine dell’Ultima Cena di

Gesù. Ascoltiamo in proposito ciò che scrive Louis Bouyer: «L’idea che la celebrazione versus

populum sia stata la celebrazione originaria, e soprattutto quella dell’Ultima Cena, non ha altro

fondamento se non un’errata concezione di ciò che poteva essere un pasto, cristiano o meno,

nell’antichità. In nessun pasto dell’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea di

commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, e distesi, sul lato

convesso di una tavola a forma di sigma o a ferro di cavallo. Mai, dunque, nell’antichità cristiana,

sarebbe potuta venire l’idea di mettersi versus populum per presiedere un pasto. Anzi, il carattere

comunitario del pasto era messo in risalto proprio dalla disposizione contraria, cioè dal fatto che

tutti i partecipanti si trovassero dallo stesso lato della tavola» (p. 38).

A questa analisi della “forma del convito” si deve comunque aggiungere che l’Eucaristia non può

certamente essere descritta adeguatamente dai termini “pasto” o “convito”. Il Signore, infatti, ha

indubbiamente istituito la novità del culto cristiano nell’ambito di un banchetto pasquale ebraico,

ma ci ha comandato di ripetere questa novità, non il banchetto come tale. Proprio per questo la

novità si è molto presto liberata dal suo antico contesto e ha trovato una forma a lei propria, che era

già stata anticipata dal fatto che l’Eucaristia rinvia alla croce e, quindi, alla trasformazione del

sacrificio del tempio nel culto spirituale. Altra conseguenza è che la liturgia sinagogale della Parola,

rinnovata e approfondita cristianamente, si fuse con la memoria della morte e resurrezione di Cristo,

divenendo “Eucarestia” e, proprio in questo modo, si restò fedeli all’incarico del «fate questo».

Questa nuova immagine complessiva non poteva, in quanto tale, essere desunta semplicemente dal

pasto, ma dall’insieme di tempio e di sinagoga, di Parola e di sacramento, di dimensione cosmica e

storica. Essa si esprime appunto nella forma che abbiamo ritrovato nella struttura liturgica delle

prime chiese della cristianità semitica. Essa è rimasta ovviamente fondamentale anche per Roma.

Cito, in proposito, ancora una volta Bouyer: «Prima di quella data (cioè prima del secolo XVI) non

abbiamo mai e da nessuna parte la benché minima indicazione che si sia attribuita qualche

importanza o anche solo qualche attenzione al fatto che il presbitero celebrasse con il popolo

davanti a sé oppure dietro a sé. Come ha dimostrato Cyrille Vogel, l’unica cosa su cui si sia

veramente insistito e di cui sia fatta menzione è che egli doveva dire la preghiera eucaristica, al pari

di tutte le altre preghiere, rivolto verso oriente… Anche quando l’orientamento della Chiesa

permetteva al celebrante di pregare rivolto verso il popolo allorché era all’altare, non era solo il

presbitero a doversi volgere verso oriente; era l’assemblea intera che lo faceva insieme a lui» (p.

39).

La consapevolezza di questo stato di cose si andò certamente oscurando nel corso della modernità o,

addirittura, andò del tutto perso, tanto nel modo di costruire le chiese che in quello di celebrare la

liturgia. Solo così si può spiegare il fatto che l’orientamento comune del sacerdote e del popolo sia

stato etichettato come “celebrazione verso la parete” o come “un mostrare le spalle al popolo” e

che, quindi, sia apparso come qualcosa di assurdo e completamente inaccettabile. Solo così si può

spiegare che l’idea del “convito” – ulteriormente ripresa nelle raffigurazioni artistiche moderne –

sia divenuta ora normativa per la celebrazione liturgica dei cristiani. In verità si è così introdotta una

clericalizzazione quale non si era mai data in precedenza. Ora, infatti, il sacerdote – o, il

“presidente”, come si preferisce chiamarlo – diventa il vero e proprio punto di riferimento di tutta la

celebrazione. Tutto termina su di lui. È lui cui bisogna guardare, è alla sua azione che si prende

parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l’insieme della celebrazione.

È altresì comprensibile che si cerchi poi di ridurre questo ruolo attribuitogli, distribuendo numerose

attività e affidandosi alla “creatività” dei gruppi che preparano la liturgia, i quali vogliono e devono

anzitutto “portare se stessi”. L’attenzione è sempre meno rivolta a Dio ed è sempre più importante

quello che fanno le persone che qui si incontrano e che non vogliono affatto sottomettersi a uno

“schema predisposto”. Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in

se stesso. Essa non è più – nella sua forma – aperta in avanti e verso l’alto, ma si chiude su se

stessa. L’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era “celebrazione verso la parete”, non

significava che il sacerdote “volgeva le spalle al popolo”: egli non era poi considerato così

importante. Difatti, come nella sinagoga si guardava tutti insieme verso Gerusalemme, così qui ci si

rivolgeva insieme “verso il Signore”. Per usare l’espressione di uno dei padri della costituzione

liturgica del Concilio Vaticano II, Joseph A. Jungmann, si tratta piuttosto di uno stesso

orientamento del sacerdote e del popolo, che sapevano di camminare insieme verso il Signore. Essi

non si chiudono in cerchio, non si guardano reciprocamente, ma, come popolo di Dio in cammino,

sono in partenza verso l’oriente, verso il Cristo che avanza e ci viene incontro.

Ma tutto questo non è forse romanticismo e nostalgia per il passato? La forma originaria della

preghiera cristiana può dirci ancor oggi qualcosa o dobbiamo semplicemente cercare la nostra

forma, la forma per il nostro tempo? Naturalmente non si può voler semplicemente imitare il

passato. Ogni età deve ritrovare ed esprimere l’essenziale. Quel che importa è, quindi, scoprire

questo essenziale attraverso i cambiamenti. Sarebbe certamente errato rifiutare in blocco le nuove

forme del nostro secolo. Era giusto avvicinare al popolo l’altare spesso troppo lontano dai fedeli,

anche se, nelle chiese cattedrali ci si poteva comunque richiamare alla tradizione dell’altare del

Crocifisso, che aveva trovato posto nel passaggio dal presbiterio alla navata. Era anche importante

tornare a distinguere con chiarezza il luogo della liturgia della Parola rispetto alla liturgia

eucaristica vera e propria, dal momento che qui si tratta effettivamente di un discorso e di una

risposta e, quindi, ha anche senso che stiano l’uno di fronte all’altro colui che annuncia e coloro che

ascoltano, i quali rielaborano nel salmo ciò che hanno ascoltato, lo riprendono interiormente e lo

trasformano in preghiera, così che diventi risposta. Resta, invece, essenziale il comune orientamento

verso est durante la preghiera eucaristica. Qui non si tratta di qualcosa di casuale, ma

dell’essenziale. Non è importante lo sguardo rivolto al sacerdote, ma lo sguardo al Signore. Non si

tratta qui di un dialogo, ma di una adorazione comune, l’andare incontro a Colui che viene. Non il

cerchio chiuso in se stesso esprime l’essenza dell’evento, ma il comune andare incontro, che si

esprime nell’orientamento comune.

Contro queste idee, da me già esposte in altra occasione, A. Häußling ha avanzato diverse obiezioni.

Ho già toccato la prima di esse: queste idee sarebbero ricerca romantica dell’antico, erronea

nostalgia del passato. Inoltre sarebbe strano il fatto che io mi richiami solo al cristianesimo antico,

prescindendo da tutti i secoli seguenti. Da parte di uno specialista di liturgia si tratta di un’obiezione

notevole, dato che a me sembra che il punto problematico di gran parte della moderna scienza

liturgica consiste proprio nella pretesa di riconoscere soltanto l’antico come corrispondente

all’originale e quindi autorevole, considerando tutto ciò che è successivo, che è stato elaborato in

seguito, nel Medioevo e dopo Trento, come spazzatura. Si arriva così a delle discutibili ricostruzioni

di ciò che è più antico, a dei criteri mutevoli e, quindi, a delle continue proposte di forme sempre

nuove che, alla fine, finiscono per dissolvere la liturgia cresciuta con la vita. Contro tutto ciò è

importante e necessario riconoscere che non è l’antico a poter essere in sé e per sé un tale criterio e

che ciò che è venuto in seguito non può essere automaticamente etichettato come estraneo alle

origini. Ci può essere senz’altro un’evoluzione viva in cui il seme dell’origine giunge a maturazione

e porta frutto. Dovremo ritornare su questo pensiero. Nel nostro caso, però, come si è già mostrato,

non si tratta affatto di una fuga romantica nell’antico, ma della riscoperta dell’essenziale, in cui la

liturgia cristiana esprime il suo orientamento permanente. Häußling, evidentemente ritiene che oggi

non si può più cercare di riproporre nella liturgia l’orientamento ad est, verso il sole che sorge.

Davvero ciò non è possibile? Il cosmo non ci riguarda più? Oggi siamo davvero chiusi senza

speranza nel nostro cerchio? O non è forse proprio oggi importante pregare insieme con tutta la

creazione? Non è forse proprio oggi importante dare spazio alla dimensione del futuro, della

speranza nel Signore che tornerà? Riconoscere, quindi, e vivere la dinamica della nuova creazione

come forma essenziale della liturgia?

Un’ulteriore obiezione è che non vi è bisogno di guardare verso oriente e verso la croce, dal

momento che quando il sacerdote e i fedeli si guardano reciprocamente, essi vedono nell’uomo

l’immagine di Dio; di conseguenza, il giusto orientamento della preghiera è quello in cui ci si

rivolge gli uni verso gli altri. Mi risulta difficile credere che il noto recensore abbia potuto sostenere

seriamente una tesi di questo genere, dal momento che l’immagine di Dio nell’uomo non la si vede

poi così facilmente. “Immagine di Dio” non è nell’uomo ciò che si può fotografare o che si può

scorgere con uno sguardo puramente fotografico. La si può certamente vedere, ma soltanto con il

nuovo vedere della fede. Si può vedere così come si può vedere in un uomo la bontà, la sincerità, la

verità interiore, l’umiltà, l’amore – ciò che lo rende simile a Dio. Ma proprio per questo si deve

apprendere il vedere nuovo, e anche per questo esiste l’Eucaristia.

Più importante è un’obiezione pratica. Si dovrebbe allora di nuovo cambiare tutto? Niente è più

dannoso per la liturgia che il mettere continuamente tutto sottosopra, anche se apparentemente non

si tratta di vere novità. Mi sembra che una via d’uscita possa venire dalla osservazione cui ho

accennato all’inizio richiamandomi a delle osservazioni di Erik Peterson. La direzione verso

oriente, si trovava in stretto rapporto con il «segno del Figlio dell’uomo», con la croce, che

annuncia il ritorno del Signore. L’Oriente fu quindi posto molto presto in relazione con il segno

della croce. Dove non è possibile rivolgersi insieme verso oriente in maniera esplicita, la croce può

servire come l’oriente interiore della fede. Essa dovrebbe trovarsi al centro dell’altare ed essere il

punto cui rivolgono lo sguardo tanto il sacerdote che la comunità orante. In tal modo seguiamo

l’antica invocazione pronunciata all’inizio dell’Eucaristia: «Conversi ad Dominum» – Rivolgetevi

al Signore. Guardiamo insieme a colui la cui morte ha squarciato il velo del tempio, a colui che sta

presso il Padre in nostro favore e ci stringe nelle sue braccia, a colui che fa di noi un nuovo tempio

vivente. Tra i fenomeni veramente assurdi degli ultimi decenni io annovero il fatto che la croce

venga collocata su un lato per lasciare libero lo sguardo sul sacerdote. Ma la croce, durante

l’Eucaristia, rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante del Signore? Questo errore

dovrebbe essere corretto il più presto possibile e questo può avvenire senza nuovi interventi

architettonici. Il Signore è il punto di riferimento. È lui il sole nascente della storia. Può trattarsi

tanto della croce della passione, che rappresenta Gesù sofferente che lascia trafiggere il suo fianco

per noi, da cui scaturiscono sangue ed acqua – l’Eucaristia e il Battesimo –, come pure di una croce

trionfale, che esprime l’idea del ritorno e attira l’attenzione su di esso. Perché è lui, comunque,

l’unico Signore: Cristo ieri, oggi e in eterno (Eb 13, 8).