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Con le parole giuste Vittime Per non dimenticare

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Con le parole giuste

VittimePer non dimenticare

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Noi ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremo vinto noi. Ray Bradbury, Fahrenheit 451.

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Per non dimenti care

FRANCESCO COCO. Il primo a cadere.

Genova, lunedì 8 giugno 1976.

I terroristi attendono Francesco Coco all’imbocco della salita di Santa Brigida, una stradina angusta della città antica, che il magistrato, tornando a casa, deve percorrere a piedi. Coco scende dall’auto, che si è fermata in via Balbi, alle 13.38. Il brigadiere di pubblica sicurezza Giuseppe SAPONARA lo segue. Insieme si avviano per la salita. I terroristi sparano da pochi passi, alle spalle. Coco e il brigadiere muoiono all’istante. L’appuntato dei carabinieri Antioco DEJANA è rimasto nell’auto, al volante. Un colpo lo uccide prima che possa fare un solo gesto.

Francesco Coco, procuratore generale di Genova, era stato condannato a morte due anni prima, quando nell’esercizio delle sue funzioni aveva impugnato il provvedimento della Corte di Appello di Genova che scarcerava otto militanti del gruppo XXII Ottobre, impedendo in tal modo che i terroristi già condannati tornassero in libertà. Quella scarcerazione era la condizione richiesta dalla Brigate Rosse per la liberazione di un altro magistrato, Mario Sossi, sequestrato dai terroristi il 18 aprile 1974.

Nessuna trattativa, con i terroristi.

Martedì 9 giugno 1976, Tribunale di Torino.

E’ in corso il primo processo alle Brigate Rosse. Dietro le sbarre: Renato Curcio, Alberto Franceschini e altri nove appartenenti al nucleo storico brigatista, catturati dopo il sequestro Sossi.

Uno di loro, Prospero GALLINARI, comincia a leggere: “Ieri i nuclei delle Brigate Rosse hanno giustiziato il boia Francesco Coco e i due mercenari che lo dovevano proteggere (…). Oggi, insieme a Coco, siete stati giustiziati anche voi, egregie eccellenze”.

Francesco Coco è l’obiettivo simbolo di una nuova strategia terroristica, che dalla propaganda armata passa all’attacco al cuore della Stato.

Tratto da “La notte della Repubblica” di Sergio Zavoli

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Per non dimenti care

VITTORIO OCCORSIO. Una raffica di mitra.

Alle ore 8.30 del 10 luglio 1976 il sostituto procuratore Vittorio Occorsio esce di casa a Roma e prende la sua 125 per andare in ufficio .

Non ha la scorta. Lo uccide una raffica di mitra.

L’attentato è rivendicato da Ordine Nuovo.

“Quando arrivano notizie come quella della liberazione dell’assassino di tuo padre, nella mente si scatena un turbine di emozioni spesso difficilmente controllabili e che solo l’esperienza degli anni permette di affrontare.

Come dimenticare quella sciagurata mattina in cui ho sentito gli spari e sono sceso precipitosamente dalle scale per vedere mio padre morirmi sotto gli occhi.

Allora il dolore si ripropone lancinante e intollerabile. E può sfociare nella rabbia. Una reazione altrettanto irrazionale come il comportamento che l’ha generata.

Così succede che mio figlio, Vittorio come il nonno, 23 anni, si abbandoni sulla scia dello sconcerto ad espressioni improvvide e insensate, come addirittura l’invocazione della pena di morte per l’assassino di suo nonno, Pierluigi Concutelli.

E invece proprio qui deve emergere la differenza fra chi è membro di una società civile, ed è orgoglioso di esserlo, e chi invece ha scelto di starne ai margini come i terroristi.

Bisogna sempre impostare la risposta ai crimini anche più odiosi e assurdi entro i limiti della Costituzione, delle leggi, delle norme, che se fatte rispettare sono più che sufficienti a comminare punizioni giuste e mai eccessive, nulla che sappia di vendetta. Il tutto in un cammino di civiltà che non deve conoscere deviazioni.

Nel nostro caso, non siamo stati abbandonati dallo Stato, non gli si poteva chiedere di più. Dal primo momento, da quella sciagurata mattina del 10 luglio 1976, la magistratura e le forze di polizia hanno preso in mano la situazione con decisione puntiglio e coraggio, sono arrivati al colpevole.

Detto questo, un pentimento più convinto e articolato sarebbe stato dovuto. Non basta esprimere un generico rimorso se a questo non si accompagna una revisione vera della propria “attività politica”, come la chiama “lui”, Pierluigi Concutelli.

Nulla è trapelato, né tantomeno è emersa la collaborazione nel ricostruire più in profondità il contesto diabolico in cui il delitto di mio padre è maturato, i sordidi legami intrecciati su cui stava indagando e che gli sono costati la vita.

E questo acuisce il dolore, e giustifica anche qualche volta la rabbia come quella di Vittorio, mio figlio.

Tratto dall’articolo dal titolo “Figlio mio, non dimenticare ma abbandona odio e vendetta”, scritto da Eugenio Occorsio, figlio del magistrato ucciso, e pubblicato sul quotidiano La Repubblica il 20 aprile 2011.

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FULVIO CROCE. “Avvocato!”.

Era nato a Castelnuovo Nigra (TO) il 6 giugno 1901. Laureatosi in giurisprudenza nel 1924, era titolare di uno dei più noti studi legali di Torino.

Dopo essere stato consigliere e segretario del Consiglio dell’Ordine Avvocati e Procuratori di Torino, nel 1968 ne venne eletto Presidente.

Nel 1976 ebbe inizio a Torino il processo ad alcuni membri delle Brigate Rosse, tra cui Renato Curcio, Alberto Franceschini, Paolo Maurizio Ferrari e Prospero Gallinari.

All’udienza si verificò un fatto mai accaduto in precedenza in Italia: allo scopo di rendere impossibile la prosecuzione del processo, tutti gli imputati revocarono il mandato ai loro difensori di fiducia e minacciarono di morte i legali che avessero accettato la nomina come difensori di ufficio.

Il Presidente della Corte d’Assise, Guido Barbaro, dopo aver richiesto al Consiglio dell’Ordine Avvocati di indicare un elenco di difensori d’ufficio da attribuire agli imputati ed averne fatto le nomine, si trovò nella situazione che i nominati – a seguito di un comunicato di minaccia degli imputati – rimisero il mandato. A questo punto il Presidente, constatata la difficoltà di pervenire alla nomina di difensori, incaricò della difesa d’ufficio il Presidente del Consiglio dell’Ordine Avvocati, ai sensi dell’art. 130 del codice di procedura penale dell’epoca.

Fulvio Croce, pur consapevole dei gravissimi rischi a cui si esponeva, accettò l’incarico e scelse gli altri difensori tra i Consiglieri dell’Ordine, sicchè il processo potè avere corso.

Il 28 aprile 1977, cinque giorni prima della data fissata per un’udienza, mentre rientrava in studio in via Perrone, Croce si sentì chiamare “Avvocato!” e fu assassinato da un commando composto da due uomini e una donna, L’omicidio fu rivendicato dalle Brigate Rosse.

Il 5 dicembre 1977 alla memoria di Fulvio Croce fu conferita dal Presidente della Repubblica la medaglia d’oro al valor civile, con la seguente motivazione:

“Presidente del Consiglio dell’Ordine Avvocati e Procuratori di Torino, si distingueva, nell’assolvimento dell’incarico, per il profondo impegno, l’appassionata dedizione e l’alto senso morale. In un momento particolarmente delicato per l’integrità delle istituzioni repubblicane, noncurante delle minacce di morte ricevute, procedeva egualmente, onde non rallentare il corso di un processo, alla nomina dei legali d’ufficio per gli appartenenti ad una pericolosa organizzazione eversiva, dimostrando grande coraggio e assoluta fiducia nella forza della legge. Cadeva vittima di un vile attentato, sacrificando la vita in difesa dello Stato democratico. Torino, 28 aprile 1977”.

Ricordo scritto dall’avvocato Dante Notaristefano, Presidente della Associazione Italiana Vittime del terrorismo

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EMILIO ALESSANDRINI. Di ritorno dalla scuola di Marco.

Milano – Lunedì mattina, 29 gennaio 1979, i magistrati escono dal palazzo di giustizia, e poi avvocati, cancellieri. Tutti insieme sotto la pioggia, improvvisano un corteo muto e dolente, che traversa le vie del centro, scorre sotto gli occhi stupiti della gente che non sa ancora “la notizia”; e finisce per sciogliersi nel rondò di viale Umbria, dove il partito della morte ha teso l’agguato ad EMILIO ALESSANDRINI, 39 anni, sostituto procuratore della Repubblica a Milano.

E’ la prima volta che uccidono un magistrato a Milano. Ma il fatto che la vittima sia proprio Alessandrini sembra raddoppiare il dolore. Non è retorica, né spirito di casta: è la reazione umana di chi ha conosciuto questo sostituto procuratore e vede in lui il personaggio –emblema del giudice milanese: serio, rigoroso, attento allo spessore sociale di ogni indagine.

Alessandrini applicava le sue “categorie” logiche, che s’era costruito nel fuoco della cronaca milanese di quegli anni. Anni terribili per un magistrato che aveva la fortuna (o la sfortuna?) di essere “bravo”, caparbio, efficiente.

Nelle biografie scarne, si legge che arrivò a Milano undici anni fa, da Pescara. L’impiego in magistratura era il suo primo lavoro: si era laureato a Napoli, poi aveva vinto subito il concorso.

Magistrato per vocazione ? questo no. Ma una volta entrato nella macchina del palazzo di giustizia, Alessandrini non tarda a diventare un dei personaggi-chiave. È giovane, non si tira indietro. Il mestiere di magistrato è fatto anche di gesti di coraggio, di minacce che non arrivano sulle pagine dei giornali.

Alessandrini interpreta questo ruolo.

Desiderio di potere ? piuttosto senso del dovere, dicono i suoi colleghi: la coscienza che la società si cambia solo con l’impegno continuo, quotidiano; e gli estremismi non servono, nella magistratura come nella società.

E vien da chiedersi: perché i killer di Prima linea hanno voluto colpire proprio lui, Alessandrini ?

Le risposte dei magistrati sono concordi: era un personaggio-simbolo, rappresentava quella fascia di giudici progressisti ma intransigenti, né falchi chiacchieroni, né colombe arrendevoli.

Di tutto questo, Alessandrini aveva coscienza.

Si può citare come un testamento ideale la sua ultima intervista che, tre giorni fa, comparve sull’Avanti!: “non è un caso che le azioni dei brigatisti siano rivolte non tanto a uomini di destra, ma ai progressisti. Il loro obiettivo è intuibilissimo: arrivare allo scontro nel più breve tempo possibile, togliendo di mezzo quel cuscinetto riformista che, in qualche misura, garantisce la sopravvivenza di questo tipo di società”.

Tratto dall’articolo scritto da Walter Tobagi e pubblicato sul quotidiano Il Corriere Della Sera del 30 gennaio 1979

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GUIDO GALLI. Il codice in mano.

Guido Galli ha tentato di sfuggire ai suoi assassini: è stato crivellato di colpi il 19 marzo 1980, sulla soglia dell’aula nella quale doveva tenere lezione alla Statale di Milano.

Guido è sempre lì nella sua stanzetta al secondo piano del palazzo di Giustizia, con la scrivania che scompare tra le carte, con una segretaria assolutamente incapace ma devota: e lui non si lamenta mai. Tradisce appena un po’ di stanchezza solo quando, più frequentemente del solito, sposta il ciuffo dalla fronte.

E intanto mi parla delle sue amate montagne, del quinto figlio adottato, della sua fede.

Guido sorride e basta quando gli parlo del Consigliere Istruttore dell’epoca o del procuratore capo.

Non sorride, un giorno, quando gli comunico che le BR hanno ucciso il collega Girolamo Tartaglione.

Era un suo amico e Guido ne rimane molto colpito. Oggi dico che forse fu per lui un presentimento.

Né sorride quando mi racconta che in un’assemblea dell’Ufficio Istruzione alcuni colleghi hanno sostenuto l’inaccettabilità della specializzazione nella materia del terrorismo dei Giudici Istruttori: amareggiato, chiede il trasferimento in Procura.

Il Procuratore lo chiama e gli dice di essere entusiasta del suo imminente arrivo, ma di essere pure mortificato: non potrà esentarlo dai servizi come la sua anzianità e la sua fama potrebbero indurlo a pretendere perché c’è troppo lavoro in Procura. Galli gli risponde che è venuto in Procura per essere un sostituto come gli altri, purché possa lavorare con il gruppo che si occupa di terrorismo.

Il 19 marzo 1980, lui mi dice che deve andare a casa perché è San Giuseppe e deve festeggiare suo figlio, Giuseppe, appunto.

Lo aspetto in ufficio, è ormai pomeriggio. Mi telefona il capo della Digos: “Armando, è successo….in Università, la Statale”.

Non lo lascio finire, corro alla Statale, a poca distanza dal Tribunale.

È steso per terra, con il codice aperto, a meno di mezzo metro da lui.

Tratto dall’articolo “In memoria di Guido Galli” scritto da Armando Spataro.

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MARIO AMATO. Sono stato un magistrato.

Sono nato a Palermo il 24 novembre 1937.

Il 30 giugno 1977 ho iniziato a lavorare alla Procura della Repubblica di Roma.

Appena arrivato, mi fu affidato l’incarico di proseguire e sviluppare le indagini che aveva avviato il collega Vittorio Occorsio che era stato ucciso la mattina del 10/7/1976 da Pierluigi Concutelli mentre si stava recando in ufficio, cioè alla Procura di Roma, dove lavorava.

Vittorio era stato lasciato solo ed era stato ostacolato, mentre indagava sulla strage di Piazza Fontana e sulle organizzazioni di estrema destra, Forza Nuova e Avanguardia Nazionale accusate di ricostituzione del partito fascista.

Sin da subito capii che Vittorio stava indagando nella direzione giusta.

Quelli erano anni difficili perché solamente nel 1977, in tutta Italia, si erano verificati ben 2.128 attentati.

Nei mesi di aprile e di maggio 1979 a Roma è stato un susseguirsi di esplosioni: a Regina Coeli, in Campidoglio, al Ministero degli esteri; addirittura venne collocato un ordigno contenente 55 candelotti di dinamite davanti al Consiglio Superiore della Magistratura, che non esplose solo per un difetto del timer.

Le mie indagini nel frattempo incominciarono a portarmi verso alcuni risultati: il 28/5/1979 riuscii ad arrestare Sergio Calore ed, in seguito, Paolo Signorelli che ritenevo il regista occulto del terrorismo nero: proprio questo arresto determinò una reazione contro di me sia della stampa che dell’Ordine degli Avvocati di Roma.

Poi accadde che nel corso di un’indagine un testimone oculare di un evento criminoso riconobbe nella fotografia di Alessandro Alibrandi, figlio di un magistrato che lavorava in Tribunale a Roma, uno degli autori del fatto: il teste aveva riferito di essere certo al cento per cento dell’identificazione!

Al quel punto sostenni che bisognava fermare Alibrandi, ma la Polizia disse che non era possibile perché in passato il giovane era già stato fermato ed aveva ricevuto trattamenti di favore da parte della Procura di Roma.

Io tuttavia decisi di emettere il mandato di cattura di Alessandro Alibrandi ed informai il Procuratore, il quale non volle firmare l’atto: si trattava di quello stesso Procuratore Capo Giovanni De Matteo, che, dopo avere pubblicamente affermato che avrebbe costituito un gruppo di lavoro di almeno tre magistrati per la trattazione dei processi riguardanti il terrorismo nero, non fece assolutamente nulla, determinando il mio isolamento.

“Sono stato lasciato completamente solo a fare questo lavoro. Nessuno mi ha mai chiesto cosa stesse succedendo. Non ce la faccio più, e nonostante le mie reiterate richieste di aiuto, a tutt’oggi, tale aiuto non mi è stato dato. Non esiste la benché minima organizzazione e la dirigenza dell'ufficio fa acqua sotto tutti i punti di vista. Che mi risulti per tutta la Procura di Roma vi è una sola auto blindata. Credo che la magistratura non possa da sola risolvere i grandi problemi del terrorismo, ma credo che, se ben diretta e organizzata, può contribuire a risolverli”.

Nell’aprile del 1980 convocai Marco Mario Massimi, autore di una lettera anonima pervenutami il 17 di quel mese. Massimi mi illustrò la struttura dei N.A.R., indicò il nome del capo (quel Paolo Signorelli che avevo fatto arrestare suscitando un’indignata reazione

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contro di me) e degli altri associati tra cui il noto criminologo Aldo Semerari che tanto credito aveva presso gli uffici giudiziari romani.

Mi raccontò anche che molti appartenenti alle Forze dell’Ordine erano “simpatizzanti”, se non addirittura appartenenti ai N.A.R.

Massimi non volle verbalizzare tali dichiarazioni e mi disse, anzi, che avrei dovuto “eliminare” l’esposto anonimo.

Alla fine mi diede l’annuncio della mia morte, anticipandomi che i N.A.R. avevano in programma di ammazzarmi.

Io riferì tutto al Procuratore della Repubblica che non solo rimase inerte, ma mi negò persino la tutela.

Il 23 giugno 1980 sono stato ucciso.

Avevo chiamato in ufficio per essere accompagnato da una autovettura di servizio, perché la mia era guasta, mi fu riposto che, siccome gli autisti erano disponibili solo dalle ore 9.00 ed io volevo essere in ufficio alle 8.00, non era possibile organizzare il servizio.

Mi hanno sparato mentre, da solo, a piedi, mi stavo recando alla fermata dell’autobus per andare al lavoro: erano le 7.30.

La mia uccisione è stata rivendicata dai N.A.R.: “Oggi 23 giugno 1980 alle ore 8.05, abbiamo eseguito la sentenza di morte emanata contro il sostituto procuratore Mario Amato, per le cui mani passavano tutti i processi a carico dei camerati. Oggi egli ha chiuso la sua squallida esistenza imbottito di piombo. Altri, ancora, pagheranno.”.

Alla notizia dell’avvenuto omicidio, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, poi ritenuti responsabili del mio omicidio, in quanto concorrenti morali, condannati all’ergastolo ed ora in semilibertà, festeggiarono, secondo le loro stesse dichiarazioni, consumando ostriche e brindando con champagne.

Estratto da “La storia siamo noi”, programma in onda su Rai educational, direttore Giovanni Minoli.

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Noi ricordiamo

Emilio Alessandrini, Milano 29 gennaio 1979

Mario Amato, Roma 23 giugno 1980

Fedele Calvosa, Patrica (Frosinone) 8 novembre 1978

Francesco Coco, Genova 8 giugno 1976

Fulvio Croce, Torino 28 aprile 1977

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Guido Galli, Milano 19 marzo 1980

Nicola Giacumbi, Salerno 16 marzo 1980

Girolamo Minervini, Roma 18 marzo 1980

Vittorio Occorsio, Roma 10 luglio 1076

Riccardo Palma, Roma 14 febbraio 1978

Girolamo Tartaglione, Roma 10 ottobre 1978

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8 maggio 2012 Memo Mediateca Montanari Vittime. Per non dimenticare in collaborazione con Associazione Nazionale Magistrati Pesaro