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Comunità Magnificat CAMMINO 2015-2016 un Padre col cuore di Madre

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Comunità MagnificatCAMMINO 2015-2016

un Padre col cuore di Madre

PRO-MANUSCRIPTOAD USO INTERNO E RISERVATO DELLA COMUNITÀ MAGNIFICAT

I testi del presente sussidio, opportunamente adattati per il Cammino formativo della Comunità Magnificat, sono tratti principalmente dai seguenti libri: – Mauro orsatti, Un Padre dal cuore di madre. Meditazioni, Àncora, Milano 1998– DaviDe CalDirola, La compassione di Gesù. Meditazioni bibliche, Milano 2007.

In prima di copertina il particolare dell’abbraccio e in quarta l’intera immagine del Ritorno del figliol prodigo (1668), di Harmenszoon van Rijn Rembrandt (1606-1669), che si trova nel Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo.

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PRESENTAZIONE

IL VOLTO DELLA MISERICORDIA

«Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre». Con que-ste parole papa Francesco apre la Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia, ricordandoci che nella misericordia la fede cristiana trova la sua sintesi. «Essa è divenuta viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazareth [...] [che] con la sua parola, con i suoi gesti e con tutta la sua persona rivela la misericordia di Dio» (n. 1).

Noi, afferma papa Francesco, «abbiamo sempre bisogno di con-templare il mistero della misericordia. È fonte di gioia, di serenità e di pace. È condizione della nostra salvezza» (n. 2). Questo anno giubilare vuole allora ricordarci che «la misericordia sarà sempre più grande di ogni peccato, e nessuno può porre un limite all’amore di Dio che perdona» (n. 3). Infatti «“è proprio di Dio usare misericordia e specialmente in questo si manifesta la sua onnipotenza”1. Le parole di san Tommaso d’Aquino mostrano quanto la misericordia divina non sia affatto un segno di debolezza, ma piuttosto la qua-lità dell’onnipotenza di Dio2 [...] Dio sarà per sempre nella storia dell’umanità come Colui che è presente, vicino, provvidente, santo e misericordioso» (n. 6).

Il papa ricorda poi che, attraverso la misericordia, Dio «rivela il suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuo-vono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio. È veramente il caso di dire che è un amore «viscerale». Proviene dall’intimo come un sentimento profondo, naturale, fatto di tenerezza e di compassione, di indulgenza e di perdono» (n. 7).

1 toMMaso D’aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 30, a. 4.2 Sempre san Tommaso d’Aquino in un altro passo afferma: «Il rigore della giustizia

divina è sempre subordinato alla sua carità, da cui procede».

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La risposta a tutto questo, ci ricorda ancora il papa, è: «l’amore misericordioso dei cristiani. Come ama il Padre così amano i figli. Come è misericordioso Lui, così siamo chiamati ad essere mise-ricordiosi noi, gli uni verso gli altri» (n. 9). Per giungere a questo siamo invitati a riflettere sulle opere di misericordia corporale e spirituale. «Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli [...] Non possiamo sfuggire alle parole del Signore e in base ad esse saremo giudicati: se avremo dato da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete. Se avremo accolto il forestiero e vestito chi è nudo. Se avremo avuto tempo per stare con chi è malato e prigioniero3. Ugualmente, ci sarà chiesto se avremo aiutato ad uscire dal dubbio che fa cadere nella paura e che spesso è fonte di solitudine; se saremo stati capaci di vincere l’ignoranza in cui vivono milioni di persone, soprattutto i bambini privati dell’aiuto necessario per essere riscattati dalla povertà; se saremo stati vicini a chi è solo e afflitto; se avremo perdonato chi ci offende e respinto ogni forma di rancore e di odio che porta alla violenza; se avremo avuto pazienza sull’esempio di Dio che è tanto paziente con noi; se, infine, avremo affidato al Signore nella preghiera i nostri fratelli e sorelle. In ognuno di questi «più piccoli» è presente Cristo stesso. La sua carne diventa di nuovo visibile come corpo martoriato, piagato, flagellato, denutrito, in fuga... per essere da noi riconosciuto, toccato e assistito con cura. Non dimentichiamo le parole di san Giovanni della Croce: “Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore”» (n. 15).

Il papa ci ricorda che questo «è un programma di vita tanto impegnativo» e «per essere capaci di misericordia dobbiamo in primo luogo porci in ascolto della Parola di Dio» (n. 13).

3 Cfr. Matteo 25, 31-45.

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Per rispondere a questo invito del papa, il nostro cammino di quest’anno percorrerà il tema della misericordia attraverso alcuni brani biblici tratti dal Vangelo di Luca4.

Partiremo con tre parabole che narrano aspetti diversi della mi-sericordia di Dio. La prima è la parabola del padre misericordioso, la più bella che Gesù abbia regalato alla letteratura universale. Con essa rifletteremo sulla caratteristica fondamentale della misericordia, quella di essere amore che supera la giustizia. Poi passeremo alla parabola del buon Samaritano, in cui saremo portati a considerare l’aspetto più concreto della misericordia: le opere corporali. Infine affronteremo il tema della misericordia e del giudizio attraverso la parabola del fariseo e del pubblicano che salgono al tempio a pregare.

Lasciando la sponda delle parabole, faremo poi la conoscenza di uomini veri, in carne e ossa, che sperimentano la paternità e maternità di Dio incontrando Gesù di Nazareth. Fisseremo dap-prima l’attenzione sulla figura di Zaccheo, capace di ribaltare la propria esistenza dopo aver ottenuto misericordia, stima e fiducia da Gesù che lo ha «promosso» a vita nuova. Passeremo poi ai due discepoli di Emmaus: essi diventano oggetto di tutta una serie di azioni da parte del misterioso viandante, loro compagno di cammino, azioni che sono esattamente quelle che la Chiesa chiama opere di misericordia spirituali. Infine incontreremo i dieci lebbrosi, anzi, uno in particolare, un Samaritano: egli ci farà riflettere sulla necessità di passare dall’esperienza della bontà misericordiosa di Gesù, al bisogno di dire grazie a prima di tutto a Dio, poi anche ai fratelli.

Come scriveva Giovanni Paolo ii, la misericordia «è la dimensione indispensabile dell’amore, è come il suo secondo nome»5. Il segreto del cuore di Dio è questa misericordia, ed «essere credenti significa

4 «L’evangelista che tratta particolarmente questi temi nell’insegnamento di Cristo è Luca, il cui Vangelo ha meritato di essere chiamato “il Vangelo della misericordia”» (Giovanni Paolo ii, Dives in misericordia, 3).

5 Giovanni Paolo ii, Dives in misericordia, 7.

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essere sicuri che l’amore esiste e che ha il volto della misericordia»6. Solo esponendoci alla luce e al calore della misericordia divina ci sentiamo compresi, amati, perdonati, rinnovati.

Gli apostoli stessi sono diventati annunciatori del vangelo della misericordia, dopo essere stati essi stessi oggetto delle viscere di misericordia di Gesù.

L’augurio che ci facciamo, all’inizio del cammino di quest’anno, è che possiamo anche noi, come gli apostoli, sperimentare l’amore misericordioso del Padre, questo amore sovrabbondante, esagera-to che travolge ogni logica di razionalità e di giuste proporzioni, per diventare a nostra volta annunciatori credibili del «volto della misericordia del Padre».

I responsabili generali

6 J.-P. van sChoote, J.-C. saGne, Miseria e misericordia, Qiqajon, Bose 1992, p. 46.

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NOTA PREVIA

PER BEN USARE IL LIBRO

Il libro del cammino si presenta particolarmente ricco. Non è assolutamente necessario percorrerlo in tutte le sue parti, ma – oltre al testo delle catechesi – viene dato materiale per l’ap-profondimento e la meditazione, che può essere letto e meditato liberamente anche al di là delle tappe del cammino. Ecco alcune indicazioni per poterne fare un buon utilizzo.

TESTI INTRODUTTIVITutti i testi introduttivi, oltre che per la lettura personale,

possono essere utili per presentare il cammino nelle Fraternità.Presentazione La presentazione dei responsabili generali dà le motivazioni per cui è stato scelto il tema del cammino. Nota introduttivaQuesta nota è una breve spiegazione dei termini che la Bibbia adopera per definire la misericordia. La copertinaQuesto breve testo, tratto da L’abbraccio benedicente di Henri J. Nouwen, commenta l’immagine di copertina, introducendo in maniera efficace il tema della misericordia.

CATECHESI CON IL LORO APPARATOCatechesiLe singole catechesi sono pensate in due parti: la prima è una lectio meditata sul brano evangelico da cui è tratto il tema alla catechesi, la seconda contiene qualche spunto per attualizzarla.

Nota previa8

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NoteTutte le catechesi sono arricchite da note a piè di pagina. Esse contengono, oltre ai riferimenti biblici, altre notizie importanti, ma non strettamente necessarie. Questo aiuterà a rendere più scorrevole il testo per tutti, e darà, a chi lo desidera, la possibilità di approfondire il discorso.ApprofondimentiAbbinati ad ogni catechesi si trovano due testi che possono essere letti liberamente per la riflessione personale o venire utilizzati – come approfondimento – per un incontro di fraternità.a) La compassione di GesùIl primo testo riguarda una serie di pagine evangeliche che mo-strano aspetti diversi della compassione di Gesù. Esse sono un fil rouge che, di tappa in tappa, richiama questo tema. Ogni brano è accompagnato da qualche semplice considerazione esegetica e da qualche spunto per viverlo nella nostra vita. Questi approfon-dimenti costituiscono un percorso non legato direttamente alla catechesi.b) Ci hanno lasciato un esempioIl secondo testo è costituito dalla vita di un testimone attinente al tema della tappa.Spazi per gli appuntiGli spazi per appuntare riflessioni sulla catechesi, proposito, revi-sione di vita, rendono il libro un prezioso strumento per verificare il cammino fatto, farne memoria e rendere grazie a Dio per questo.

ACCORDO FINALEA conclusione delle catechesi, un’ultima pagina evangelica,

quella del buon ladrone, icona per eccellenza della misericordia. Anche questo testo può essere utile per la presentazione del cammino nelle Fraternità.

Nota previa 9

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APPENDICIStruttura del cammino a tappeIn cenacolo è bene che l’animatore ricordi, almeno per gli incontri della prima tappa, la modalità con cui vivere i vari momenti (ri-sonanza, condivisione, revisione di vita). Potrà fare questo anche rileggendo assieme ai fratelli queste note. Tale confronto aiuterà a migliorare la qualità degli incontri e a correggere abitudini sbagliate.Per gli stessi motivi, è bene che anche i responsabili di Fraternità, al loro interno, rileggano all’inizio dell’anno le note che li riguardano, prima dell’inizio del cammino.La Revisione di vitaOgni anno viene riportato questo testo di padre Andrea Gasparino. È bene rileggerlo per evitare di cadere nella routine e per rivedere il proprio modo di approcciarsi alla revisione di vita.

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NOTA INTRODUTTIVA

LE PAROLE DELLA MISERICORDIA

Nel definire la misericordia la Bibbia adopera soprattutto due termini, ciascuno dei quali ha una sfumatura diversa. Anche se il tema della misericordia non può essere ridotto ai testi

nei quali ricorrono esplicitamente queste parole sarà tuttavia utile partire dalla precisazione di tali termini.

Hesed – ÉleosAnzitutto, c’è il termine ebraico hesed, che indica un profondo

atteggiamento di bontà. Scrive Giovanni Paolo ii nella sua enciclica Dives in misericordia: «Nell’antico Testamento hesed viene riferito al Signore [...] sempre in rapporto all’alleanza, che Dio ha concluso con Israele. Tale alleanza fu, da parte di Dio, un dono e una grazia per Israele»7. Continua poi dicendo che Dio si era impegnato a rispettarla con un impegno formale, «giuridico», ma tale impegno cessava di obbligarlo, quando Israele infrangeva l’alleanza e non ne rispettava le condizioni. «Ma proprio allora hesed, cessando di essere obbligo giuridico, svelava il suo aspetto più profondo: si manifestava ciò che era al principio, cioè come amore che dona, amore più potente del tradimento, grazia più forte del peccato»8. Hesed è allora la fedeltà amorosa di Dio alla propria alleanza: Dio resta fedele anche quando il popolo tradisce, perché è il «Dio mi-sericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà»9.

Nel Nuovo Testamento il termine greco corrispondente all’e-braico hesed è éleos. «Con Gesù si rivela pienamente la misericordia divina che ci salva. Gesù è la misericordia divina incarnata. Infatti è venuto a prendersi cura di noi, facendosi “in tutto simile ai fratelli,

7 Giovanni Paolo ii, Dives in misericordia, nota 32.8 Ivi.9 Esodo 34, 6.

Nota introduttiva12

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per diventare un sommo sacerdote misericordioso (eleémon) [...] allo scopo di espiare i peccati del popolo”10»11. E Paolo ci ricorda che Dio «ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia (éleos)»12. Questo amore misericordioso è infatti gratuito: «Dio, ricco di misericordia (éleos), per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati»13. Chiedendo a Dio misericordia, l’uomo si richiama, allora alla fe-deltà di Dio. «All’uomo che grida: “Abbi pietà, Signore!”14, Gesù risponde offrendo misericordiosamente il suo aiuto, beneficando tutti»15. E questo è quello che accade ogni volta che ripetiamo: «Kyrie eleison».

Rachamìm – SplànchnaScrive Giovanni Paolo ii: «Il secondo vocabolo, che nella ter-

minologia dell’Antico Testamento serve a definire la misericordia, è rachamìm. Esso ha una sfumatura diversa dal termine hesed. Mentre questo pone in evidenza i caratteri della fedeltà verso se stesso e della responsabilità del proprio amore (che sono caratteri in certo senso maschili), rachamìm, già nella sua radice, denota l’amore della madre (rehem = grembo materno). Dal più profondo e originario vincolo, anzi dall’unità che lega la madre al bambino, scaturisce un particolare rapporto con lui, un particolare amore. Di questo amore si può dire che è totalmente gratuito, non frutto di merito, e che sotto questo aspetto costituisce una necessità interiore: è un’esigenza del cuore. È una variante quasi femminile della fedeltà maschile a se stesso, espressa dalla hesed. Su questo sfondo psicologico, rachamìm genera una gamma di sentimenti,

10 Ebrei 2, 17.11 DoMeniCo CanCian, Il Vangelo della misericordia, in AA.VV, Misericordia, volto di

Dio e dell’umanità nuova, Paoline, Milano 1999, p. 39.12 Tito 2, 11.13 Efesini 2, 11.14 Cfr. Matteo 9, 27; 15, 22; 17, 15; 20, 30; Luca 17,13.15 DoMeniCo CanCian, op. cit., ivi.

Nota introduttiva 13

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tra i quali la bontà e la tenerezza, la pazienza e la comprensione, cioè la prontezza a perdonare. L’antico Testamento attribuisce al Signore appunto tali caratteri, quando parla di lui servendosi del termine rachamìm. Leggiamo in Isaia: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai”16»17.

Nel Nuovo Testamento il termine corrispondente a rachamìm è splànchna. Esso «vuol dire l’amore viscerale o sviscerato della madre, ma anche del padre18, del fratello19. Si tratta del legame di sangue che unisce i parenti stretti con la forza dell’istinto vitale e affettivo, non con trollato dalla ragione. È la misericordia colta nel suo fondamento biologico che la configura come non-razionale, esagerata, fuori dal senso comune, addirittura pazza, secondo le espressioni dei mistici. Quando i santi parlano di Dio che perde la testa, ragiona col cuore e perdona tutto, impazzisce d’amore per l’uomo peccatore, forse si riferi scono proprio a questo istinto dell’a-more paterno, materno, fraterno, sponsale, amicale... che proviene dalla natura stessa di Dio padre, madre, sposo, amico... In ogni caso, questo amore misericordioso è la nota che più caratteriz za Gesù e il suo Vangelo, è il cuore della conversione cristiana. L’uomo è chia mato a diventare misericordioso come Gesù, come Dio20. Il verbo [corrispondente] splanchnìzomai indica avere viscere di com-passione, provare commozione viscerale, misericordia e tenerezza; è lo stringersi del cuore alla vista di qualche miseria umana [...]. È interessante notare che questo verbo si riferisce quasi sempre a Gesù o al Padre: esso caratterizza la misericordia messianica dinanzi all’uomo malato e peccatore, al popolo disperso senza pastore. Nelle parabole il verbo è al centro del racconto ed imprime

16 Isaia 49, 15.17 Giovanni Paolo ii, Dives in misericordia, nota 32.18 Cfr. Isaia 63, 7.15.19 Cfr. Genesi 43, 30.20 Cfr. Luca 6, 36.

Nota introduttiva14

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la svolta principale alla vicenda. Il padre del figlio prodigo, solo mosso dalla misericordia, aspetta il figlio ribelle, gli va incontro, lo abbraccia, lo perdo na e gli fa festa, e ciò in perfetto contrasto con il com portamento del fratello maggiore21. Solo mosso dalla compassione, il padrone condona tutto il debito, mentre il servo condonato non ha pietà del proprio compagno22, attirandosi con ciò la propria condanna. Solo dopo aver sentito compassione nelle proprie viscere, il buon Samaritano presta soccorso all’uomo ferito, evitato da chi invece aveva mantenuto il cuore duro23»24.

* * *Da questo breve excursus possiamo trarre alcune conside razioni.

«Le parole evocano spesso immagini che vanno messe insieme come tessere di un mosaico per com porre in qualche modo il volto di Dio. Ci troviamo davanti a Dio padre, madre, sposo, medico, buon Samaritano, buon pastore, amico... È chiaro che nessuna singola immagine e nemmeno tutte insieme esaurisco no la descri-zione di Dio. Forse proprio le viscere di misericordia costituiscono l’attributo più misterioso e qualificante della sua natura. In verità, scegliendo misericordiosamente Israele e rinnovando continua-mente le alleanze fino a stabilire quella definitiva in Cristo, Dio si rivela Amore misericordioso: “Dio infat ti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unige nito, perché chiunque crede in lui non muoia ma ab bia la vita eterna”25»26.

21 Cfr. Luca 15, 20.28.22 Cfr. Matteo 18, 27.33.23 Cfr. Luca 10, 33.24 DoMeniCo CanCian, op. cit, p. 42-43.25 Giovanni 3, 16.26 DoMeniCo CanCian, op. cit, p. 44.

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LA COPERTINA

UN PADRE COL CUORE DI MADRE27

Il vero centro del dipinto di Rembrandt è costituito dalla mani del padre. Su di esse si concentra tutta la luce; su di esse si foca-lizzano gli occhi degli astanti; in esse si incarna la misericordia; in esse confluiscono perdono, riconciliazione e guarigione e con esse sia il figlio esausto che il padre sfinito trovano riposo.

[...] Sembra che le mani che toccano le spalle del figlio che ha fatto ritorno siano gli strumenti dell’occhio interiore del padre.

[...] Tutto prende ispirazione delle sue mani. Esse sono molto diverse tra loro. La mano sinistra, posata sulla schiena del figlio, è forte e muscolosa. Le dita sono aperte e coprono gran parte della destra del figlio prodigo. Posso intuire una certa pressione, special-27 Tratto da: henri J. nouwen, L’abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del fi-

glio prodigo, Queriniana, Brescia 2006.

La copertina16

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mente del pollice. Quella mano sembra non soltanto toccare, ma anche, con la sua forza, sorreggere. Anche se la mano sinistra del padre si posa sul figlio con delicatezza, è una mano che stringe con energia. Come è diversa, invece, la mano destra! Essa non sorregge né afferra. È una mano raffinata, delicata e molto tenera. Le dita sono ravvicinate e hanno un aspetto elegante. La mano è posata dolcemente sulla spalla del figlio. Vuole accarezzare, calmare, offrire conforto e consolazione. È una mano di madre.

[...] Appena mi sono reso conto della differenza tra le due mani del padre, mi si è dischiuso un nuovo mondo di significati. Il Padre non è semplicemente un grande patriarca. È sia madre che padre. Tocca il figlio con una mano maschile e con una femminile. Lui, sorregge, lei accarezza. Lui rafforza e lei consola.

È dunque Dio, nel quale sono pienamente presenti l’essere-uomo e l’esser-donna, la paternità e la maternità. Quella mano destra delicata che accarezza, evoca, secondo me, le parole del profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani»28.

28 Isaia 49,15-16.

i taPPa

LA PARABOLA DEL PADRE MISERICORDIOSO

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LA PARABOLA DEL PADRE MISERICORDIOSO

MISERICORDIA E GIUSTIZIA

Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli

divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più gio-vane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compas-sione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai ser-vi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva

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entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»29.

PER LEGGERE IL VANGELO30

«Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascol-tarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Ed egli disse loro questa parabola»31. Così si apre il capitolo quindicesimo del vangelo di Luca che con-tiene le tre parabole della misericordia. L’atteggiamento abituale di Gesù di lasciarsi avvicinare da quelli che avevano un comporta-mento pubblicamente peccaminoso e osare addirittura condividere con loro la tavola accendeva gli animi di scribi e farisei, incapaci di comprendere il suo agire con i peccatori, così lontano e contrario alle buone regole di un maestro ebreo32. «Gesù deve dunque spiegare il suo comportamento, e lo fa [...] con una parabola, suddivisa in 29 Luca 15, 11-32.30 «Nelle parabole dedicate alla misericordia, Gesù rivela la natura di Dio come quella

di un Padre che non si dà mai per vinto fino a quando non ha dissolto il peccato e vinto il rifiuto, con la compassione e la misericordia. Conosciamo queste parabole, tre in particolare: quelle della pecora smarrita e della moneta perduta, e quella del padre e i due figli (cfr. Luca 15, 1-32). In queste parabole, Dio viene sempre presentato come colmo di gioia, soprattutto quando perdona. In esse troviamo il nucleo del Vangelo e della nostra fede, perché la misericordia è presentata come la forza che tutto vince, che riempie il cuore di amore e che consola con il perdono» (FranCesCo, Misericordiae vultus, 9).

31 Luca 15, 1-3.32 «Per i farisei e gli uomini religiosi prima era necessaria la conversione, la riconci-

liazione con Dio, e solo dopo si poteva stare insieme a tavola. Per Gesù invece la conversione non è una condizione previa al mangiare insieme: basta voler vivere l’amicizia con lui, e da questa amicizia può nascere il cammino di conversione,

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tre parti: la similitudine della pecora perduta, quella della moneta perduta e infine l’ampia parabola del padre misericordioso e i due figli»33. Rispondendo così Gesù lascia capire che il suo compor-tamento è il fedele riflesso dell’amore di Dio, il Padre buono. Nei confronti di tutti, buoni e cattivi (effettivi o presunti), Dio manifesta la sua paterna comprensione, sempre accompagnata dal pressante invito al ravvedimento e alla conversione.

Il padre e due figli«Un uomo aveva due figli». Con un inizio sobrio ed essenziale

sono presentati i personaggi che animeranno la parabola: il padre e i due figli.

«Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patri-monio che mi spetta». Il minore si affaccia sulla scena con i tratti dell’arrogante e del prepotente, esigendo ciò che un giorno potrà essere suo, ma che ora appartiene ancora al padre34. Questi avrebbe potuto reagire in molti modi: rifiutare, adducendo la giustizia e il suo diritto vigente contro il diritto del figlio ancora lontano a venire; convincere il figlio dell’inutilità o della pericolosità di tale richiesta, prevedendo un poco oculato uso di tanta ricchezza affidata a mano inesperta; rispondere duramente all’insolenza e tracotanza della richiesta del figlio minore.

«Il padre divise tra loro le sostanze». Il padre sceglie una strada lontana dalla logica comune, la strada di una sconcertante arren-devolezza: non un’obiezione, non una parola, non un estremo tentativo di impedire questo dissennato progetto del figlio più giovane35.

come mostra anche il suo incontro con il pubblicano Zaccheo» (enzo BianChi, Rac-contare l’amore, Rizzoli, Bergamo 2015, p. 67).

33 enzo BianChi, op. cit., p. 69. 34 «L’azione del figlio minore verso il padre è certamente sfrontata. È come se ne

avesse chiesto la morte, come se gli avesse detto: “Non ho tempo di aspettare che tu muoia. Dammi la parte che mi spetta, perché voglio essere autonomo e libero”» (enzo BianChi, op. cit., p. 76).

35 «Il padre non parla, non risponde, non reagisce non segue neppure il consiglio della sapienza d’Israele raccolto nel libro del Siracide: «Finché vivi e in te c’è respiro, non

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Cerchiamo di metterci dalla parte del padre e di capirlo. Trat-tenere in casa uno che trova pesante l’aria che respira, equivale a rompere un rapporto che la permanenza forzata non potrebbe più riparare. Il padre che volesse a ogni costo tenere il figlio in casa, sarebbe forse mosso da amore, ma educare significa rispettare la libertà dell’altro, soprattutto quando l’altro è un adulto, anche se si può prevedere un uso non corretto di tale libertà. Il seguito del racconto mostrerà che il suo agire non nasce dall’indifferenza o dalla leggerezza, bensì dalla capacità di rischiare e di sperare nel valore del bene.

Il minore si allontana e ritorna dal padre«Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose,

partì per un paese lontano». La scelta di un paese lontano vuole significare la distanza fisica dal padre, ma più ancora il desiderio di sottrarsi a una sua possibile influenza36. La partenza avviene all’in-segna delle più lusinghiere prospettive, perché il figlio minore pos-siede quegli elementi che in tutti i tempi sono considerati come gli ingredienti indispensabili della felicità: giovinezza, ricchezza e libertà.

«Là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto». Il nostro giovane appartiene alla lunga schiera di persone che nel gioco, nel vizio e nei bagordi, hanno dilapidato in breve tempo una fortuna accumulata da altri con impegno e sacrificio.

«Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno». Nella logica del racconto la carestia rappresenta l’imprevisto da considerare sempre nella vita.

abbandonarti al potere di nessuno. È meglio che i figli chiedano a te, piuttosto che tu debba volgere lo sguardo alle loro mani […] Quando finiranno i giorni della tua vita, al momento della morte, assegna la tua eredità» (Siracide 33, 21-22.24). Questo pa-dre invece divide l’eredità, pur non essendo obbligato dalla Legge, ma lo fa secondo la Legge: due terzi al figlio maggiore, un terzo al figlio minore (Cfr. Deuteronomio 21, 17), sicché i due fratelli entrano in possesso dell’intero patrimonio paterno» (enzo BianChi, op. cit., p. 75).

36 Come ricorderà più avanti la parabola, questo «lontano» equivale al superamento della frontiera del paese, perché si parlerà di allevamento di porci, animali che gli ebrei non potevano mangiare e che quindi non allevavano.

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Le persone sagge, in qualche modo, si premuniscono per affron-tare l’imprevisto; le persone insipienti, invece, vivono all’insegna della spensieratezza, come se la vita dovesse sempre obbedire alla logica dei loro sogni.

«Allora si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione che lo mandò nei campi a pascolare i porci». Lavorare non è degradante per un ebreo, ma non tutti i lavori sono accettabili nella mentalità ebraica: tra questi, la custodia dei porci, animali immondi la cui carne non si poteva mangiare né toccare.

«Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava». All’umiliazione di tale lavoro si aggiunge quella del disinteresse degli altri per la sua persona: ovviamente il padrone era più interessato a ingrassare i suoi porci che non a sfamare questo avventuriero di passaggio.

«Allora rientrò in se stesso». Questa situazione incresciosa fa scattare un meccanismo di ripensamento. Perché questo «rientrò»? Che cosa significa? Rientrare in se stesso significa che prima era uscito da se stesso; si credeva libero, e invece si riconosce in uno che aveva inseguito una chimera come se si trattasse della realtà.

«Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!». Il bisogno fisico, cioè la fame, spinge il giovane al ritorno sia morale che materiale.

Il ritorno morale è il riconoscimento del proprio errore e la co-scienza di aver perso il rapporto padre-figlio: «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni». Qui troviamo la grandezza morale di chi è capace di riconoscere e di ammettere il proprio sbaglio, con lucidità e senza reticenze; è lo slancio sincero e umile del giovane che si assume tutta la sua responsabilità, è l’umile ammissione del suo errore.

Il ritorno materiale («Partì e si incamminò verso suo padre»), consi-ste in una risoluta decisione, maturata alla luce di una seria riflessione.

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Come sono diversi la partenza e il ritorno37! Il figlio ha perso tutto, però ha riscoperto la capacità di riflettere e di apprezzare qualcosa della casa del padre (il cibo) e la segreta speranza di una possibile accoglienza: spera di trovare accoglienza come domestico, certamente non come figlio. Pur con tutto il bagaglio di esperienze negative e di sbagli che il giovane porta con sé, di-mostra un aspetto non consueto che lo rende grande, in quanto è disposto a riconoscere il proprio errore e ad assumersene tutte le conseguenze, prima fra tutte la perdita del suo rapporto di figlio. Con questi sentimenti il giovane viene liberato dal grande peccato dell’uomo: credere alla propria autosufficienza.

L’incontro tra il padre e il figlio minore«Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli

corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». La figura di un padre apparentemente indifferente e insensibile, che lascia partire il figlio senza una parola o un estremo tentativo per trattenerlo, rivela ora la sua infondatezza, perché il testo mostra tutta la solleci-tudine di questo padre. Egli era in attesa, segno che l’amore non si arrende mai e crede nella vittoria del bene sul male. Il ritorno del figlio è la risposta all’arte educativa del padre: egli non aveva mai abbattuto il ponte di fiducia che lo legava al figlio, anche se la fiducia era stata momentaneamente tradita. Il padre raccoglie i frutti del suo rischiare, avvenuto in un contesto di amore e di speranza, viene premiata dal ritorno del figlio alla casa paterna. L’amore si concretizza in una serie di gesti che del padre verso il figlio: gli corre incontro, lo bacia, lo accoglie. Solo ora il testo parla dei sentimenti del padre e lo fa con una parola efficace:

37 Accade esattamente l’opposto di ciò che dice il salmo 126, 6: «Nell’andare, se ne va piangendo […] ma nel tornare, viene con gioia». Era partito ricco e ritorna pove-ro, era partito baldanzoso e sicuro di sé e ritorna umiliato e con tutte le sue sicurezze infrante; era partito giovane e ritorna invecchiato dal lavoro e dalle esperienze; era partito figlio e ritorna non figlio; era partito libero dal padre, ritorna libero da sé, dalla sua sprezzante autosufficienza.

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«commosso»38, a indicare una commozione profonda che interessa tutta la persona, quasi uno sconvolgimento interiore.

«Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”». Il padre lascia parlare il figlio, perché, la confessione che esprime il pentimento, fa bene, ha un benefico effetto liberatorio. Non accetta però le conclusioni proposte dal figlio e non gli lascia terminare con: «Trattami come uno dei tuoi garzoni»; questo è veramente impen-sabile per il padre. Egli non rimprovera, non richiama il passato, perché sarebbe l’inutile riacutizzazione di una ferita non ancora rimarginata39. La punizione più grave e il rimprovero più severo se li è dati il figlio che accetta di essere non figlio.

«Portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammaz-zatelo, mangiamo e facciamo festa». Alle parole del figlio, il padre risponde con una serie di gesti che valgono assai più delle parole. Si rivolge ai servi perché si prendano cura del figlio, come avveniva per il passato, anzi, ancora di più. Il vestito bello (la veste lunga, come dice il testo greco) indica la situazione di straordinarietà; i calzari, che in quel tempo portavano solo poche persone, la digni-tà; l’anello sul quale era impresso il sigillo di famiglia, l’autorità40; infine l’uccisione del vitello e lo stare insieme a mensa, la gioia della festa e della condivisione41.

«Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Il padre aveva visto partire un giovane presuntuoso 38 Il termine splangnizomai tradotto in italiano con «commosso» ricorre qui e in due

altri contesti dell’evangelista Luca: quando Gesù si commuove davanti al figlio unico defunto della vedova di Nain (Luca 7, 33) e quando il buon Samaritano ha compassione dello sventurato caduto in mano dei ladroni (Luca 10, 33).

39 Rievocare il passato sarebbe sadismo oppure un’inconscia rivincita, magari con un sarcastico «Hai voluto andar via, ora che sei nei pasticci ritorni?».

40 L’anello è il sigillo della famiglia: il padre cioè gli restituisce autorità su tutto, gli ridà fiducia, scegliendo di correre il rischio di essere nuovamente tradito.

41 Forse non del tutto comprensibile risulta il comportamento del padre, ma a lui Pascal presterebbe il suo celebre pensiero: «Il cuore ha delle ragioni che la ragione non riesce a comprendere».

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e arrogante e ora vede ritornare un uomo maturato dal dolore, dalla lontananza e dal pentimento42.

«E cominciarono a far festa». La scena appare dominata dalla commozione iniziale, che diventa prima un abbraccio e poi festa di famiglia. Colui che si professava non figlio, viene accolto e amato come «questo mio figlio»: la situazione risulta esattamente capovolta.

Il ritorno a casa del maggiore«Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu

vicino a casa, udì la musica e le danze». Anche il figlio maggiore ritorna a casa, ma il suo è un ritornare abituale e scontato, quello del rientro quotidiano dopo il lavoro nei campi. Nell’avvicinarsi sente un’insolita e imprevista festa con musica e danze; è logico, quindi, che si informi presso un servo, dal quale viene a sapere: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo».

«Egli si indignò, e non voleva entrare». La notizia, lungi dal pro-curargli gioia come era avvenuto per il padre, lo stizzisce: come è possibile che per quello scapestrato spendaccione si organizzi una festa? E inoltre, come è possibile che per lui sia stato ammaz-zato il vitello ingrassato per qualche grande occasione, in molti casi per le nozze del primogenito? Egli non solo non capisce il motivo di quella festa, ma addirittura si sente, in qualche modo, defraudato di un suo diritto e posposto al fratello minore. L’ira del maggiore contrasta con la commozione del padre nel riavere il figlio minore.

42 Il pentimento è il mezzo con il quale si cambia il passato. Mentre i greci ritenevano questo impossibile e spesso ripetevano: «Gli dèi stessi non saprebbero cambiare il passato», san Gregorio di Nissa affermava: «Quaggiù si va sempre di inizio in inizio fino all’inizio senza fine», quasi a ricordare la bellezza e la necessità di saper ricominciare.

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L’incontro tra il padre e il figlio maggiore«Suo padre allora uscì a supplicarlo». Il padre va incontro a lui

come era andato incontro al minore. È sempre il padre a prendere l’iniziativa e a muovere il primo passo per accorciare le distanze.

«Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici». Il maggiore rivendica i suoi diritti proprio come il minore quando chiedeva la parte di patrimonio per andarsene. Nelle sue parole si legge l’orgogliosa sicurezza del suo perbeni-smo, la sua incondizionata e assoluta fedeltà al padre, con un non troppo velato rimprovero al padre, considerato un padrone, come rivelato dal pesante verbo «ti servo», tipico degli schiavi. Il lavoro, più che collaborazione e compartecipazione, è vissuto come dipendenza servile43.

«Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello gras-so». Parla al padre di «questo tuo figlio», incapace di riconoscere l’altro come fratello. Mentre il padre aveva festosamente salutato il ritorno del minore e nella sua grande bontà non pensava al pas-sato, proprio perché «l’amore copre una moltitudine di peccati»44, il maggiore sembra conoscere solo l’aspetto negativo del fratello.

«Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo». Il padre riconosce le ragioni del maggiore: quanto afferma non è né falso né esagerato, perché egli ha sempre lavorato presso il padre, mentre l’altro invece ha vissuto egoisticamente all’insegna di una ripro-vevole spensieratezza che lo ha portato a dilapidare il patrimonio. Il padre ascolta il figlio maggiore e poi gli rivolge la parola chia-mandolo «figlio», ricordandogli così quella relazione di comunione

43 Nella sua dura accusa al padre, dimentica un fatto importante: il padre, nel divi-dere il patrimonio, ha dato anche a lui la parte spettante, perché si è detto che «Il padre divise tra loro le sostanze». In fondo, il minore ha fatto la figura di chiedere e il maggiore ha goduto il beneficio derivato dall’arroganza del fratello. Tutto questo, nel momento delle recriminazioni, è tralasciato e inspiegabilmente dimenticato.

44 1Pietro 4, 8.

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che il maggiore ha sempre vissuta, senza capirla pienamente. Il padre difende la posizione privilegiata del maggiore che non con-siste in una fredda logica di dare e avere – io presto la mia opera e tu mi ripaghi –, bensì in un rapporto di indissolubilità, cioè di impossibilità di separazione, di comunione interpersonale, a cui segue la comunione dei beni: «Tutto ciò che è mio è tuo». Anche il figlio maggiore, non meno del minore, ha bisogno di capire e scoprire suo padre.

«Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita». Finché il maggiore non riconoscerà e accetterà l’altro non come «questo tuo figlio», bensì come questo mio fratello, non potrà rivolgersi al padre chiamandolo padre. Non basta essere sempre rimasti nella casa del padre per partecipare al banchetto; non basta neppure non aver fatto nulla di riprovevole: occorre perdonare, accettare l’altro che ha sbagliato, ridargli fiducia e possibilità di ricominciare. Tutto questo equivale a passare dalla logica umana alla logica divina, da quello che tutti capiscono a ciò che attuano solo coloro che stanno dalla parte di Dio.

PER VIVERE IL VANGELO

La misericordia: amore che supera la giustiziaQuesta parabola ci porta al cuore stesso della misericordia di

Dio, rivelandocela come amore che supera la giustizia. Scrive Gio-vanni Paolo ii nella Dives in misericordia: «Il rapporto della giustizia con l’amore che si manifesta come misericordia viene con grande precisione inscritto nel contenuto della parabola evangelica. Di-viene più palese che l’amore si trasforma in misericordia quando occorre oltrepassare la precisa norma della giustizia: precisa e spesso troppo stretta. Il figliol prodigo, consumate le sostanze ri-cevute dal padre, merita – dopo il ritorno – di guadagnarsi da vivere lavorando nella casa paterna come mercenario, ed eventualmente, a poco a poco, di conseguire una certa provvista di beni materiali,

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forse però mai più nella quantità in cui li aveva sperperati. Tale sarebbe l’esigenza dell’ordine di giustizia, tanto più che quel figlio non soltanto aveva dissipato la parte del patrimonio spettantegli, ma inoltre aveva toccato sul vivo ed offeso il padre con la sua condotta»45. Sappiamo bene invece come il padre accoglie il figlio «gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò».

Scrive papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo Stra-ordinario della Misericordia: «La misericordia non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità per ravvedersi, convertirsi e cre-dere. L’esperienza del profeta Osea ci viene in aiuto per mostrarci il superamento della giustizia nella direzione della misericordia. L’epoca di questo profeta è tra le più drammatiche della storia del popolo ebraico. Il Regno è vicino alla distruzione; il popolo non è rimasto fedele all’alleanza, si è allontanato da Dio e ha perso la fede dei Padri. Secondo una logica umana, è giusto che Dio pensi di rifiutare il popolo infedele: non ha osservato il patto stipulato e quindi merita la dovuta pena, cioè l’esilio. Le parole del profeta lo attestano: «Non ritornerà al paese d’Egitto, ma Assur sarà il suo re, perché non hanno voluto convertirsi»46. Eppure, dopo questa reazione che si richiama alla giustizia, il profeta modifica radicalmente il suo linguaggio e rivela il vero volto di Dio: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira»47. Sant’Agostino, quasi a commentare le parole del profeta dice: «È più facile che Dio trattenga l’ira più che la misericordia»48. È proprio così. L’ira di Dio dura un istante, mentre la sua misericor-dia dura in eterno. Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il rispetto 45 Giovanni Paolo ii, Dives in misericordia, 5.46 Osea 11, 5.47 Osea 11, 8-9.48 aGostino, Enarr. in Ps. 76, 11.

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della legge. La giustizia da sola non basta, e l’esperienza insegna che appellarsi solo ad essa rischia di distruggerla. Per questo Dio va oltre la giustizia con la misericordia e il perdono»49.

«Il primato dell’amore sulla giustizia non si gnifica fuggire dalle responsabilità; al contrario, l’a more misericordioso ci spinge for-temente a imitare colui che per salvare l’uomo è salito in croce, portan do su di sé le nostre malattie e i nostri peccati»50.

* * *Anche nell’esperienza comunitaria abbiamo appreso che la

giustizia, che potremmo definire il fare le cose giuste, da sola non basta: non è sufficiente né per realizzare l’opera del Signore né per vivere sane relazioni. Dice il cardinal Kasper che «la giustizia è il minimo della misericordia, è il minimo di ciò che siamo obbligati a dare agli altri perché è un loro diritto»51.

Nella vita comunitaria accade lo stesso: la fedeltà agli impegni, il vivere santamente il cammino, il partecipare agli incontri, l’essere presenti alla preghiera comunitaria, il servizio, rappresentano la nostra «giustizia», cioè quello che il Signore ci ha indicato come il nostro stile di vita. Si tratta di una giustizia impegnativa, certo, ma questo è il minimo che dobbiamo dare ai nostri fratelli: è il loro diritto.

Tutto ciò, tuttavia, pur necessario perché la nostra sia una vita comunitaria reale e non virtuale, non basta! La misericordia presuppone questa giustizia, ma va oltre. Un mondo che è solo giustizia, può essere molto freddo, come una comunità cristiana che è solo adesione alla norma, è fredda, cioè incapace di scalda-re. Certo la giustizia è fondamentale, ma la misericordia, senza cancellarla, va oltre: prende l’uomo non soltanto come uno che ha diritto, ma come vera persona che ha bisogno di molto altro.

Tutto ciò non può non spingerci a interrogarci se noi siamo tra i giusti con la g minuscola (cioè coloro che si accontentano 49 FranCesCo, Misericordiae vultus, 21. 50 DoMeniCo CanCian, op. cit., p. 96.51 Intervista alla pagina web: http://www.famigliacristiana.it/articolo/kasper.aspx.

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del precetto) o se ci sforziamo di cercare una giustizia superiore, quella che si riveste di misericordia.

Capita a volte che il nostro sforzo per vivere il cammino cristiano diventi il metro con cui misuriamo i fratelli. Le insufficienze altrui diventano allora motivo di fastidio, perché rovinano il progetto di Dio, lo rendono imperfetto. Quanto sarebbe più bella la Comunità – o la Chiesa – se non ci fossero questi fratelli pigri, non convertiti e poco spirituali! Ma questo è esattamente il ragionamento del fratello maggiore, che non vedeva del minore altro che i difetti, incapace di uno sguardo misericordioso e paziente. Dio si china volentieri su una comunità di imperfetti, se è piena di amore e accogliente; vuole una Chiesa testimone della verità ma non occupata a distribuire giustizia, gentile anche nei confronti di chi oggettivamente sbaglia.

L’apostolo Paolo ricorda a Tito che la nostra salvezza non proviene dalle opere giuste da noi compiute, bensì dalla sua mi-sericordia52. Anche nelle nostre relazioni più dirette e vicine vige la stessa legge. Esse non possono essere salvate dalla giustizia: perché siano esse stesse capaci di donare salvezza, devono essere ricche di misericordia. Occorre spingersi oltre la giustizia nel mare della misericordia che fa leggere le situazioni con occhio diver-so. L’occhio del padre vede un figlio ritrovato; l’occhio del figlio maggiore vede una contabilità di errori di cui è ingiusto non tener conto. Il nostro fratello imperfetto è l’occasione che ci è offerta di indagare, con umiltà e attenzione, su cosa vede il nostro occhio e cosa esce dal nostro cuore.

Questo esame è vero cammino di conversione: cambia il nostro atteggiamento verso i fratelli, ci insegna ad accogliere le loro de-bolezze con pazienza e i loro successi con gratitudine, a lasciarci stupire dall’opera che il Signore compie nella loro vita, senza farci scandalizzare dalle loro povertà.

✴52 «Egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia»

(Tito 3, 5).

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APPUNTI DELLA CATECHESI:

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APPUNTI...

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IL PROPOSITO:

LA REVISIONE DI VITA:

LA PREGHIERA Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa? Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?LA PAROLA DI DIO Come mi ha parlato Dio in questo tempo? Come ho accolto la sua Parola?I RAPPORTI CON GLI ALTRI Come ho esercitato la carità nella famiglia, nella Comunità? Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di costruzione dell’amore?I NOSTRI DOVERI Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...? Sono stato fedele agli impegni comunitari? Come ho vissuto le promesse di po-vertà e di servizio?IL MIO IMPEGNO DI CONVERSIONE Come l’ho vissuto?

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LA COMPASSIONE DI GESÙ

LO SGUARDO DELLA COMPASSIONE

Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sina-goghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia

e ogni infermità. Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché era-no stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!»53.

Qualche considerazione per leggere il testo✴ «Vedendo le folle». Sembra una segnalazione inutile, eppure è possibile

camminare, entrare nelle città e nelle case della gente, salutare delle persone, perfino far loro del bene, senza vederle. È evidente che non è un problema di occhi, ma di cuore.

✴ «Ne sentì compassione». Il vedere di Gesù si trasforma immediatamente nel provare compassione, nell’avvertire nelle viscere tutta la fatica, la miseria e insieme la grandezza e la dignità di ciascuna delle persone che gli stanno di fronte. Questa compassione è dolore, è sconvolgimento viscerale. Porta con sé l’affanno di ogni uomo. È un provare, cioè uno sperimentare, un pagare di persona; è come l’aprirsi di un’inguaribile ferita dello spirito e del cuore. Per Gesù vedere è lasciarsi ferire. Nel linguaggio comune la parola compassione ha perso la sua bellezza originaria di sentire con, soffrire con che ne dicono tutta la forza e la profondità. Compatire significa trovarci di fronte a qualcuno che soffre e decidere di entrare nella sua vita, di assumerci il suo dolore come se fosse il nostro. Per Gesù è sempre stato così. Dalla sua nascita nell’as-soluta povertà, al suo battesimo in fila coi peccatori, alla sua morte in croce in mezzo a due ladri, non distinguibile da loro, il suo amore per l’uomo non è stato mai calato dall’alto come generosa concessione, ma vissuto dall’interno. Non si può consolare o compatire senza spendere troppo, senza sporcarsi le mani, senza compromettersi.

53 Matteo 9, 35-38.

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✴ «Perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore». Matteo ci dice anche il perché di questa compassione: le folle sono «stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore». Gesù non prova compassione per le folle, perché sono composte da gente bra-va, onesta, giusta, rispettosa. Non si commuove di fronte a questa gente, perché merita qualcosa, perché si è guadagnata l’affetto e la comprensione del Maestro grazie all’esercizio di chissà quali virtù, o alla fedeltà assoluta alla Legge, o all’intelligenza, o alla bontà d’animo... In realtà l’unico titolo di merito che questa gente può vantare, è quello di essere povera, di non avere nulla, di trovarsi nel bisogno. È gente stanca, che fa fatica, che sente il peso della vita. È gente sfinita: non ce la fa più. Non hanno più risorse, sono prostrati. Non sono preda di una stanchezza da cui ci si può riprendere con un po’ di riposo, non hanno modo di alleggerire la pressione. Sono, infine, senza pastore. Se anche per qualche fortuita coincidenza o per qualche improbabile miracolo dovessero riprendere forza, non ce la farebbero mai a muovere un passo, perché non saprebbero dove andare. Sono senza pastore: nessuno più ha cura di loro, nessuno più li vede. Nessuno tranne il Signore che guarda e si commuove.

✴ «Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe». E che cosa fa questo Signore che si commuove, come decide di agire? Non inventa seduta stante qualche miracolo, non compie gesti clamorosi. Semplicemente, guarda i discepoli e parla con loro. La compassione di Gesù vuole avere bisogno di loro per dispiegarsi e per esprimersi. Vuole che anche loro imparino a farsi carico della gente che attende e che soffre. La prima cosa che Gesù chiede ai discepoli, non è di darsi da fare, ma di «pregare il padrone della messe», come a ricordare loro che niente di ciò che faranno sarà fatto in nome proprio, e se dimenticheranno di pregare il padrone della messe, la loro opera sarà sterile e priva di significato, sarà polvere e cenere.

Spunti per vivere la compassione✴ Gesù mi guarda, Gesù mi vede. Nella vita molte cose dipendono

da come ci vedono e da come ci guardano gli altri. Uno sguardo d’amore cambia la vita. Ci sono persone che si sentono attraversate dagli sguardi altrui: «È come se non mi vedessero... è come se fossi trasparente». Tutto questo si traduce, a volte, in pensieri depressivi:

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non ci sentiamo apprezzati, considerati, presi sul serio. Non funziona cosi, davanti a Dio; il suo sguardo sulla nostra vita la raggiunge e la trasforma. Dio è uno che si prende cura di me. Gli sto a cuore, gli interesso, vigila sui miei passi non per punire gli sbandamenti, ma per sorreggere le cadute. E se mi guarda ogni giorno, in ogni momento, non è per tenermi sotto controllo, ma perché mi vuole talmente bene che non riesce a staccarmi gli occhi di dosso. Così mi vede Gesù.

✴ Gesù raccoglie la mia stanchezza: posso lasciarmi andare, dormire tra le sue braccia, affidare a lui ogni sbandamento e ogni insicurezza. Non raggiungo Dio con il mio sforzo. Lo raggiungo quando mi lascio raggiungere, quando mi fermo, quando accetto che il suo sguardo si posi su di me e il suo cuore si riempia di compassione. Ho bisogno di sentirmi dalla parte della folla, dei poveri, degli ultimi... e quando ho il coraggio di farlo, vengo raggiunto dalla compassione di Gesù, che mi dice: «Ti voglio bene proprio perché sei così». Una delle situazioni più tristi della vita è quando decidiamo di sottrarci a uno sguardo così, quando pensiamo di poter fare a meno dei suoi gesti, della sua compassione.

✴ Guardare il fratello con compassione non è uno sforzo di volontà, ma un moto dello Spirito che mi fa uscire da me stesso, per incontrare lo sguardo dell’altro.

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CI HANNO LASCIATO UN ESEMPIO

FAUSTINA KOWALSKA «Amate Dio, perché è buono e di grande misericordia!»

Elena Kowalska – terza di dieci figli – nasce da una famiglia contadina nel 1905 in un paesino della Polonia. La piccina ha il compito di condurre le

mucche al pascolo; qualche volta ha strani dialoghi interiori e visioni. Frequenta due classi elementari, quindi inizia a lavorare come cameriera. A quindici anni dice in casa che deve farsi religiosa, ma per il papà è un’impossibile fantasia: non ci si può fare suore senza avere una dote. Davanti al rifiuto Elena prova a «distrarsi» frequentando i balli domenicali. Un giorno, però, accade qualcosa: «Non appena cominciai a ballare, vidi improvvisamente vicino a me Gesù martoriato, spogliato dalle vesti, tutto coperto di ferite, che mi disse queste parole: «Fino a quando ti dovrò sopportare? Fino a quando mi ingannerai?»».

Fuga a VarsaviaParte senza dir nulla ai genitori, dopo essersi confidata solo con una

sorella. Ha soltanto i soldi per il treno, e una voce interiore che la guida. A Varsavia un prete la indirizza a una famiglia in cui c’è bisogno di una bambinaia. La sistemazione le permette di mettersi alla ricerca del con-vento giusto, ma nessuno vuol saperne di lei: appena si tocca il tasto della dote, le porte si chiudono. A vent’anni si presenta al convento delle Suore di Nostra Signora della Misericordia. La Superiora, dopo un breve

Ci hanno lasciato un esempioI

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dialogo, spinta da uno strano impulso interiore, le dice: «Va’ a chiedere al Padrone di casa, se ti vuole!». Elena ricorda: «Andai con grande gioia nella cappella e chiesi a Gesù: «Signore di questa casa, mi vuoi tu?», e subito udii una voce che mi diceva: «Ti voglio, sei nel mio cuore!». Tornata che fui, la Madre mi domandò: «Ebbene, ti ha ricevuto il Signore?». Risposi di sì. «Se il Signore ti ha ricevuta, ti ricevo anch’io»».

In convento, suora coadiutriceNel 1925 diviene postulante tra le suore coadiutrici, quelle che si

occupano dei lavori di casa. Elena si ritrova a lavorare in cucina e – nei momenti liberi – nell’orto e nel panificio. È sorpresa: aveva desiderato il convento per poter dare più tempo a Dio, nel silenzio e nel dialogo con Lui, e ora di tempo e silenzio non ne ha più... comincia a dubitare d’aver capito male la volontà di Dio e si mette a pregare: «La cella si illuminò e vidi sulla tenda il volto di Gesù assai addolorato: tutto il suo volto era coperto da piaghe vive, e grandi lacrime cadevano sulla sopracoperta del mio letto. Non sapendo che cosa volesse significare tutto ciò, domandai a Gesù: «Chi è stato a procurarti un simile dolore». E Gesù disse: «Tu mi procurerai tale dolore se uscirai da questa congregazione religiosa. Qui e non altrove io ti ho chiamata, e qui ho preparato per te molte grazie»». Da quell’istante, viene liberata per sempre dalla tentazione di credere che Dio possa essere amato e contemplato solo quando le condizioni sono favorevoli. Impara così ad amarlo e vederlo tra le pentole e i fornelli, quando ha la zappa in mano ed è sporca di terra, anche quando è attorniata da un continuo e logorante via vai di gente indaffarata.

Annunciare al mondo la Misericordia di DioNel noviziato assume il nome di suor Faustina e qui le si rivela il grande,

terribile disegno che Dio ha su di lei: annunciare al mondo la Misericordia di Dio. Sembra bello a dirsi, ma in un attimo Faustina intravede le indicibili sofferenze che le sono riservate. Dio chiede sempre che la sua parola si incarni, come ha fatto con suo Figlio. Se è con la misericordia che Dio risponde alla nostra perdizione, salvandoci dalla dannazione, allora solo chi è stato a un passo dalla dannazione, e si è ormai creduto dannato, potrebbe davvero parlare consapevolmente di questa misericordia.

Santa Faustina Kowalska ebbe la missione di scendere là dove poteva essere sperimentato tutto il dolore dei dannati, e tutto il disprezzo e la

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derisione del mondo, continuando a sognare, a immaginare, a dire che Dio è... soltanto misericordia.

Abbandonata da Dio...«Alla fine del primo anno di noviziato, comincia a farsi buio nella mia

anima. Non sento nessuna consolazione nelle preghiere; la meditazione mi costa grande sforzo; comincia ad afferrarmi la paura; penetro più a fondo in me stessa e non scorgo nulla, all’infuori di una grande miseria. Eppure vedo chiaramente la grande santità di Dio; non oso alzare gli occhi fino a Lui, ma mi prostro nella polvere e, ai suoi piedi, mendico misericordia... Al pensiero che dovrò pronunciare i voti, l’anima mia rabbrividisce; qualsiasi cosa io legga non la capisco; non sono in grado di meditare, mi pare che la mia preghiera non sia accetta a Dio e, quando mi accosto ai sacramenti, mi pare di offendere il Signore... A un certo momento mi venne con grande insistenza il pensiero di essere reietta da Dio, un pensiero spaventoso che mi trafisse da parte a parte... questa è una tortura che soffrono davvero i dannati... Mi recai davanti al Santissimo Sacramento e cominciai a dire a Gesù: «Gesù, tu hai detto che è più facile per una madre dimenticare il suo bambino, che per te dimenticare la sua creatura... Gesù, ascolta come geme l’anima mia...!», Non riuscii però a trovare sollievo nemmeno per un istante... La disperazione si è impadronita di tutta la mia anima...».

«Tornata dall’aldilà...», ma le prove sono solo all’inizioQuando la prova finisce è cambiata radicalmente: «Mi sembra di

essere tornata dall’aldilà...». Comincia, però, a pesare su di lei lo sguardo sospettoso di alcune consorelle. C’è anche chi la considera un’illusa, una malata di mente. Altre pensano che la ragazza sia caduta in preda al demonio; o sia stata travolta dal proprio orgoglio.

La sua vita è immersa in umili lavori: cuoca, giardiniera, venditrice di pane, portinaia. Diranno alcune testimoni: «Non si distingueva in nulla dalle altre sorelle», ma altre affermeranno: «Era molto diversa da tutte noi... Ama-va il Signore Gesù così teneramente come gli sposi... Pensava solo a Lui».

«Gesù confido in te»Nel 1931 Dio le parla: «Vidi Gesù con una veste bianca; teneva una

mano alzata per benedire e l’altra toccava sul petto la sua veste; dalla veste socchiusa sul petto uscivano due grandi raggi, uno rosso e l’altro

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bianco... Dopo un istante, Gesù mi disse: “Dipingi un quadro secondo l’immagine che vedi, con sotto la scritta: Gesù confido in te. Desidero che questo quadro venga venerato nel mondo intero...”». Riferisce la visione al confessore che le risponde: «La cosa riguarda la tua anima. È nell’anima tua che devi dipingere l’immagine di Dio». Gesù, dentro al suo cuore, ribatte subito: «La mia immagine, nell’anima tua, c’è già. Io invece desidero che vi sia una festa della mia misericordia: voglio che questo quadro, da te dipinto con un pennello, venga solennemente benedetto la prima domenica dopo Pasqua e che questa domenica diventi la festa della Misericordia... Desidero che i sacerdoti annuncino questa mia grande misericordia... Anche se l’anima fosse come un ca-davere in putrefazione, anche se umanamente non ci fosse più rimedio, non è così davanti a Dio... Nessun peccatore, fosse pure un abisso di abiezione, esaurirà mai la mia misericordia, perché più vi si attinge e più aumenta... Io sono più generoso con i peccatori che con i giusti, perché è per loro che sono sceso sulla terra. È per loro che ho versato il mio sangue... La festa della Misericordia è nata nel mio cuore per la consolazione del mondo intero...».

Dio, per annunciare al mondo intero la sua misericordia, ha scelto una suorina derisa già nel suo stesso convento. Confessori e superiori la avvertono del rischio di cedere a strane suggestioni interiori e parlano di illusioni. Lei prega: «Gesù, sei tu, il mio Dio, o sei qualche fantasma?». E Gesù sorride e la benedice. Tra le consorelle c’è chi la chiama stravagan-te, isterica e visionaria; qualcuna la spia per sorprendere qualche strano comportamento e qualcun’altra «prova piacere a tormentarla».

Nel 1933 viene inviata a Wilno, in Lituania. Qui riceve un vero Direttore spirituale che la fa visitare da uno psichiatra e, dopo aver ricevuto una diagnosi di sanità mentale, comincia a prenderla sul serio. Le impone di scrivere un diario. Gesù è d’accordo: «Scrivi sulla mia misericordia». «E se io scrivessi sulla tua misericordia cose esagerate?», chiede Faustina. «Anche se tu parlassi contemporaneamente tutte le lingue degli uomini e degli angeli, non diresti mai troppo della mia misericordia!» ribatte Gesù.

Il confessore, alla fine, fa realizzare il dipinto; a Faustina non piace affatto, ma Gesù si contenta e spiega il significato dei due raggi di luce: l’acqua e il sangue usciti dal suo costato sulla croce. Ora «Gesù esige che il nuovo quadro venga esposto nel santuario di Ostra Brama durante il

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triduo che deve chiudere il Giubileo della Redenzione, la prima domenica dopo Pasqua». Sembra impossibile, ma, contro ogni speranza, ci riescono.

Fondare una congregazione Faustina, a Wilno, svolge l’ufficio di ortolana, dalla mattina alla sera,

come una qualunque operaia. La sua missione sembra conclusa, ma Gesù le chiede ora di fondare una congregazione dedita a diffondere nel mondo il mistero della Divina Misericordia. Faustina prega: «Signore, non ne sono capace». Gesù ribatte: «Da te stessa non riusciresti a fare nulla, ma con me puoi fare ogni cosa». Il confessore, per metterla alla prova, le chiede di scrivere le regole del nuovo Istituto, convinto che Faustina non saprebbe nemmeno da dove iniziare, ma lei scrive «sotto dettatura di Gesù». Il testo che consegna è un tale capolavoro di equilibrio, armonia e saggez-za pedagogica che il sacerdote smette di dubitare. Le superiore, invece, dubitano eccome, e comincia una dolorosa lacerazione: da un lato Gesù insiste nel suo progetto, dall’altro le superiore si oppongono. Faustina sa perfino che Gesù vuole che lei obbedisca loro, e tuttavia – paradossal-mente – sente anche che egli non recede dai Suoi disegni. È Gesù che la manda ed è Gesù che la trattiene, e lei subisce l’inevitabile lacerazione.

Malata non credutaÈ malata, lo sanno solo lei e il Signore, le restano due anni appena

di vita. La inviano a Cracovia. È malata ai polmoni, spesso ha la febbre, ma le superiore – di solito piene di carità con le malate – sembrano stra-namente accecate quando si tratta di lei: le danno consigli spirituali per esortarla a «prender familiarità con la sofferenza». L’infermiera, poi, ha deciso che quella giovane suora si vezzeggia troppo: «Suor Faustina vuole essere santa», dice, «ma non lo diventerà mai, perché si crogiola come una principessa». L’idea che ella sia una privilegiata alla quale è concesso un particolare e immeritato riposo, acceca molte consorelle. Il fatto di vederla sempre dolce e sorridente le conferma nel loro sospetto. In realtà la poverina è allo stremo, ma non si accorgono nemmeno che non riesce più a mangiare, perché la tubercolosi ha cominciato ad attaccare gli intestini.

Nel dicembre del 1936, temendo il contagio, la mandano in un sana-torio. Dopo alcuni mesi, dichiarandola guarita, la rimandano in convento, il che vuol dire – pensano tutte – che finalmente può ricominciare a lavorare. A volte non ce la fa più e chiede di poter riposare. Non è raro

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che si senta dire: «Ma che fatiche ha sostenuto, sorella, che debba andare ancora a coricarsi? Vada a farsi benedire con queste smanie di coricarsi».

All’inizio del 1938, non riesce ad andare alla Messa di Capodanno. «Una festa simile e lei non va nemmeno alla messa» le dice l’infermiera con disprezzo e la lascia due giorni senza cure, prendendo l’occasione per farle predicozzi sulla virtù. La superiora le dice infastidita: «Sorella, è ora di finirla con questa malattia... Così non può durare», facendole capire che, una suora che si rispetti, ha il dovere di guarire o di morire.

Anche questi episodi fanno parte della missione di Faustina. Come le è stato comandato da Gesù, lei annota tutto nel suo «piccolo diario», «a consolazione di altre anime che saranno esposte a simili sofferenze». «Con la grazia di Dio, ho ricevuto nel cuore la disposizione di non essere mai così felice come quando soffro per Gesù che amo con ogni palpito del mio cuore». Gesù vuole associarla alla Sua passione, per la salvezza dei lontani e dei perduti. Lei prega così: «Gesù, trasformami in te perché io sia il tuo riflesso vivente... Aiutami: fa’ che i miei occhi siano miseri-cordiosi..., fa’ che il mio udito sia misericordioso..., fa’ che la mia lingua sia misericordiosa..., fa’ che le mie mani siano misericordiose..., fa’ che i miei piedi siano misericordiosi..., fa’ che il mio cuore sia misericordioso».

Muore il 5 ottobre 1938, a trentatré anni, l’età del suo Sposo Gesù. Ha lasciato scritto: «Amate Dio, perché è buono e di grande misericordia!».

* * *Giovanni Paolo ii il 3 aprile del 2000 ha canonizzato Faustina Kowalska

e il 5 maggio di quello stesso anno ha istituito la Festa della Divina Mi-sericordia, da celebrarsi ogni prima domenica dopo Pasqua.

Il 2 aprile 2005 – proprio nei primi vespri di quella festa – Papa Wojtyła stesso è nato al cielo.

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LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO

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LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO

MISERICORDIA E OPERE CORPORALI

Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chie-se: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù

gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui ri-spose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così»54.

PER LEGGERE IL VANGELO«Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Nel grande viag-

gio di Gesù verso Gerusalemme55, gli viene richiesto di indicare la

54 Luca 10, 25-37.55 «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la

ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» Luca 9, 51.

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strada che conduce alla vita eterna. «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Gesù non rifiuta di dare chiarimenti e addita la strada abituale, quella che tutti conoscono e possono percorrere, quella indicata dalla Legge. Non si devono cercare, quindi, scorciatoie e altre strade. È lo stesso dottore della Legge che aveva posto la domanda a Gesù, a citare i passi dove si parla dell’amore a Dio e al prossimo.

«Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Gesù approva la risposta, cui imprime un vistoso carattere operativo: «Fa’ questo». La doman-da iniziale verteva sul fare («che devo fare per») e di conseguenza la risposta indica come comportarsi.

«E chi è il mio prossimo?». Il dottore della Legge cerca di parare il colpo e di scansarsi dall’impegno concreto, preferendo disquisire con un’altra domanda. Gesù risponde proponendo la parabola del buon Samaritano e arrivando alla medesima conclusione: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso». La vita di fede si gioca sul terreno della concretezza dell’esistenza quotidiana56.

La parabola prende le mosse dalla domanda del dottore della Legge: «Chi è il mio prossimo?», domanda chiaramente tendenziosa, mirante a cogliere Gesù in fallo57. Il mondo giudaico non riusciva ad accordarsi serenamente sul concetto di prossimo. Certamente rientrava nel concetto ogni israelita e poi il forestiero che aveva fissato la sua dimora in Israele, come prescrive il libro del Levitico58. 56 Perché il lettore non si illuda che la vita cristiana sia solamente un fare e un fare

qualunque, l’evangelista ha sapientemente fatto seguire il brano di Marta e Maria (10, 38-42), dove si privilegia l’ascolto rispetto al fare. Quindi, sembra suggerire Luca, si deve distinguere tra fare e fare. C’è un fare doveroso e inderogabile come quello del buon Samaritano, e c’è un fare che – non urgente – può essere rimanda-to per cedere il posto all’ascolto della parola di Gesù. Questi merita la precedenza rispetto a qualsiasi attività e solo dopo un’attenzione a Lui, per essere riempiti del suo amore, si potrà operare, riversando sugli altri quell’amore che è stato pre-cedentemente ricevuto in dono. Solo così amore di Dio e amore del prossimo si integrano e portano a perfezione la vita del credente.

57 Il termine italiano prossimo deriva dalla forma superlativa del latino prope, cioè il vicinissimo.

58 «Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’a-merai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri in Egitto. Io sono il Signore vostro Dio» (Levitico 19, 34).

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E il forestiero di passaggio? Le scuole rabbiniche si dividevano su questo punto: c’era chi era favorevole a riconoscerlo come prossi-mo e chi no. Tutte, poi, erano concordi nell’escludere dal concetto di prossimo il nemico. Poiché per gli ebrei i peggiori nemici erano coloro che attentavano all’integrità e alla purezza della loro fede, gli eretici Samaritani erano sicuramente esclusi dal concetto di prossimo. Mai un giudeo avrebbe salutato o tanto meno prestato qualsiasi forma di aiuto a un Samaritano.

Origine dei SamaritaniI Samaritani sono propriamente gli abitanti di Samaria, nome

che designa sia la regione centrale della Palestina, sia la capitale della stessa regione. La loro notorietà evangelica non è legata a motivi geografici, bensì religiosi. Ecco in breve la loro storia.

Nel 721 a.C. il re assiro Sargon II pone fine al Regno del Nord e distrugge la sua capitale, Samaria. Secondo le usanze militari del tempo, parte della popolazione locale viene deportata e alcune persone straniere sono importate. A partire da questo momento, il gruppo locale, composto originariamente solo da ebrei, finisce per mescolarsi con i nuovi venuti che introducono usi e costumi diversi, e, soprattutto, favoriscono il culto di divinità straniere. La popolazione che ne risulta, si presenta ibrida dal punto di vista etnico, culturale e religioso. Gli ebrei presenti sono considerati eretici dagli altri ebrei e chiamati semplicemente Samaritani senza ulteriori specificazioni59.

Al tempo di Gesù i rapporti con i Samaritani erano molto tesi, proprio ai ferri corti. L’odio era viscerale e si evitavano al massimo i contatti. Lo stesso nome di Samaritano era in bocca a un giudeo una grave offesa: non fu risparmiata neppure a Gesù, che un giorno

59 La situazione si acuisce quando i Samaritani vedono rifiutata la loro offerta di colla-borazione agli ebrei ritornati da Babilonia e impegnati per la costruzione del tempio e delle mura di Gerusalemme. In seguito a questo rifiuto, verso il 330 a.C., costrui-scono sul monte Garizim un tempio concorrenziale a quello di Gerusalemme.

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si sentì dire: «Non diciamo noi con ragione che sei un Samaritano e hai un demonio?»60.

Con queste premesse poco lusinghiere, si comprende l’audacia di Gesù nel presentare la parabola del Samaritano che soccorre e diventa esempio per un giudeo. Una chiara provocazione!

La parabola«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico». Sebbene fittizia,

la parabola è ambientata realisticamente nella zona del deserto di Giuda, nel tratto che da Gerusalemme conduceva a Gerico. Per co-prire quella trentina di chilometri si impiegavano 5 o 6 ore passando in una zona inospitale, ricca solo di anfratti e di luoghi scoscesi: un luogo ideale per predoni, perseguitati politici e tutti coloro che avevano i conti in sospeso con la giustizia. Gesù, proponendo la parabola ai suoi ascoltatori, richiama loro un luogo tristemente famoso e permette loro di ambientarsi facilmente nel racconto.

«Cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto [...] lasciandolo mezzo morto». Il dato di partenza è la situazione di bisogno in cui versa lo sventurato che, assalito e depredato, si trova «mezzo morto» lungo la strada. Le persone che transitano sulla medesima strada sono tre, in realtà si potrebbero ridurre a due personaggi, perché sacerdote e levita sono riprodotti in fotocopia. Il sacerdote è probabilmente diretto a casa, dopo il servizio al tempio. La vista del malcapitato non lo spinge a intervenire, e prosegue. Comportamento analogo da parte del levita, membro cioè di quella categoria affine a quella sacerdotale, con compiti di custodia e di protezione del tempio. Entrambi vedono e passano oltre. Perché questo assurdo comportamento? Si è voluto parzialmente giusti-ficare i due, ricordando la loro mentalità e formazione religiosa: per non contaminarsi, era importante evitare scrupolosamente ogni contatto con i cadaveri, secondo la prescrizione del libro del

60 Giovanni 8, 48.

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Levitico61. La situazione dell’uomo «mezzo morto» poteva essere facilmente assimilabile a quella di un cadavere. Anche accettando come possibile questa interpretazione, la sostanza non cambia. Nella rappresentazione del sacerdote e del levita Gesù polemizza con il ritualismo giudaico, tanto scrupolosamente attento alle for-malità quanto consapevolmente lontano dalla carità. È riprovevole che i due preferiscano conservarsi intatti davanti a Dio, piuttosto che prestare soccorso a un disgraziato.

«Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione». Passa per la medesima strada un Sama-ritano. Lo spettacolo non lo lascia insensibile. Con tutta probabilità il disgraziato che giace a terra è un giudeo, un rivale quindi, ma ciò non impedisce l’intervento del soccorritore che agisce in nome del bisogno presente. Anche lui «vide» e da questo vedere nasce un «ebbe compassione», sentimento che mette in moto tutta una serie di interventi operativi. Prima di parlarne, occorre mettere a fuoco la causa che li ha generati. La compassione è affidata a quel ricco verbo greco (splangnizomai), attestato anche per l’interven-to del padre nella parabola del Padre misericordioso62. Il termine denota un’intima partecipazione all’evento, una compassione che non nasce dalla commiserazione, da un’istintiva solidarietà con gli sfortunati, ma proviene dalla radice più pura dell’amore, dalla sorgente stessa della vita. Viene addirittura richiamata la tenerezza materna: è questione di viscere, non di testa soltanto. Ancor più evocativo è questo termine, se teniamo presente che nella suddetta parabola era stato attribuito al padre, chiara rappresentazione di Dio stesso. Già qui si riconosce il salto qualitativo del Samaritano cui vengono attribuiti nientemeno che sentimenti divini! È tanto forte e tanto vera questa nuova commozione nata in lui alla vista dello sventurato, che nemmeno pensa a fare spazio a possibili

61 «Un sacerdote non dovrà rendersi immondo per il contatto con un morto della sua parentela, se non per un suo parente stretto» (Levitico 21, 1).

62 «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Luca 15, 20).

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risentimenti o a vecchie ruggini: non si sofferma a considerare che è un odiato giudeo, ma interviene perché c’è un urgente bisogno; nemmeno lo trattiene il pensiero del viaggio intrapreso, e quindi eventuali impegni o appuntamenti che lo potrebbero sollecitare. Il momento presente, tanto carico di sofferenza per il povero di-sgraziato, occupa totalmente l’orizzonte del suo interesse. Tutto il resto passa in seconda linea: se è un rancore, si dimentica; se è un impegno, si rimanda.

«Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui». L’espressione «ebbe compassione», che potrebbe richiamare solo un vago sentimento, produce in realtà una serie di azioni molto concrete, per questo viene affiancata e illustrata da quel «gli si fece vicino», premessa dei successivi interventi operativi. Qui si capisce bene il concetto di prossimo: si intende colui che, superando possibili e a volte anche ragionevoli ostacoli, è pronto a offrire generosa collaborazione. Prossimo si diventa: prossimo non è necessariamente colui che ha già dei rapporti di sangue, di affari con un altro. Prossimo si diventa nel momento in cui, davanti a un uomo – anche al forestiero o al nemico – si decide di compiere quel passo che avvicina. Farsi vicino è già farsi prossimo, rendersi attento e disponibile all’altro, proprio come il Samaritano che modifica i suoi progetti in funzione dell’altro: prima la persona, poi i programmi e le ideologie. Il Samaritano mette in atto una serie di interventi. Gesù si attarda fin nel dettaglio, quasi a ricordare che il vero amore fa appello all’intelligenza, alla volontà, al buon senso, alla fantasia, all’ingegnosità, insomma, a tutte le risorse della persona umana. Questo per combattere ancora una volta la semplicistica equivalenza di amore e sentimento, un’identificazione spesso reclamizzata e, altrettanto spesso, falsa. Il vero amore è una realtà complessiva, capace di attingere a tutta la ricchezza della persona. Il Samaritano incomincia con l’improvvisarsi infermiere e interviene come meglio può, con i mezzi di cui dispone: vino e olio. Poi, utilizzando la sua

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cavalcatura come autoambulanza, trasporta il poveretto a un pronto soccorso improvvisato.

«Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”». Di lui si interessa e si interesserà. Si interessa sborsando due denari – l’equivalente di due giornate lavorative – tanto più preziosi quanto più si considera che non ogni giorno si poteva trovare lavoro e, quindi, guadagnare. Rimane un poco con lo sventurato, forse quanto basta per rendersi conto che la situa-zione va migliorando, e solo «il giorno seguente» riprende il viaggio, impegnandosi a sborsare di più al ritorno, qualora fosse necessario. All’interessamento presente fa riscontro l’interessamento futuro. Non si è trattato di un aiuto sporadico, momentaneo, affrettato, di un soccorso solo perché non si poteva farne a meno. L’aiuto contiene tutte le caratteristiche dell’amore: avvicinamento, atten-zione all’altro, farsi carico dei suoi problemi, pagare di persona sia in denaro sia in tempo, interessamento presente e futuro. E notare, tutto questo senza che sia registrata una parola63. Qui si riportano solo i fatti che hanno l’eloquenza della concretezza.

La domanda finale«Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è

caduto nelle mani dei briganti?». Alla fine del suo racconto, Gesù pone la domanda al dottore della Legge. È lui che ora interroga. Gesù sposta l’asse della discussione, e non risponde alla domanda teorica, astratta su «Chi è il mio prossimo?», preferendo dimostrare con un esempio come si diventa prossimo, che cosa si deve fare per diventare prossimo, come ci si deve avvicinare all’altro, sia con i sentimenti sia con gli interventi concreti. Lo spostamento con-siste in ciò: non gli altri verso di te, ma tu verso gli altri. Il punto saliente della parabola sta nel concetto che se uno davvero ama, sa trovare da sé il suo prossimo, quello che ha bisogno. Il bisogno 63 Quante volte, purtroppo, si fa un gran parlare, piani faraonici, progettazioni plu-

riennali, discussioni e sedute-fiume... per arrivare spesso a nulla di fatto.

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è titolo sufficiente perché si debba intervenire, come si può e con i mezzi a disposizione, senza tentennamenti, rimpianti, proroghe o demandando agli altri.

«Va’ e anche tu fa’ così». Non è solo il dottore della legge ad imparare chi è il prossimo; anche il lettore della parabola evangelica, il cristiano di tutti i tempi, non potrà esimersi dai suoi impegni o sottrarsi alle sue responsabilità, nascondendosi dietro una giu-stificazione ipocrita, quale «non sapevo» o «tocca agli altri». Chi ha ascoltato la parabola, deve passare all’azione64. La parabola si chiude con una rovente battuta, un duro colpo per la presunzione farisaica. Dire a un dottore della legge e, attraverso lui, a tutto il gruppo farisaico: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso», cioè «comportati bene come ha fatto il Samaritano», equivale a una dichiarazione di guerra. Come è possibile che un esperto della legge divina impari da un eretico? La scelta di Gesù del personaggio Samaritano include pure la lezione che tutti sono potenziali maestri ed hanno qualcosa da insegnare, come pure tutti sono potenziali discepoli ed hanno qualcosa da imparare.

PER VIVERE IL VANGELO

Le opere di misericordia corporaliLa parabola non intende semplicemente proclamare un generi-

co amore verso l’uomo: sarebbe troppo poco per essere vangelo; dimostra piuttosto che chi ama il prossimo, ha accolto in sé la stessa passione di bene che Dio ha verso i suoi figli. Questo spiega la comunione intima fra il comandamento dell’amore a Dio e quello

64 Sulla necessità della prassi Gesù si era già espresso: «Perché mi chiamate: Signore, Signore e poi non fate ciò che dico?» (Luca 6, 46). Solo chi ascolta e mette in pratica è come l’uomo saggio che costruisce la sua casa sulla roccia, sicuro che nulla riu-scirà ad abbatterla (Cfr. Matteo 7,24-25).

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dell’amore al prossimo, che sono in realtà due facce dell’unica medaglia, perché non è possibile l’uno senza l’altro65.

Gesù dice: «siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso»66, ma la misericordia non è semplicemente un’e-mozione: essa nasce come acuta risonanza in me del soffrire altrui, ma diventa poi prassi, azione, amore concreto, operativo, pratico67. La misericordia la si fa: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso». Il capitolo 25 di Matteo enumera tutta una serie di opere concrete sulle quali saremo giudicati: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi»68. Proprio a partire da questo testo, nel xii secolo, venne a stabilirsi una lista convenzionale di sette opere di misericordia, quelle che chiamiamo corporali69. Ovviamente questo elenco non va inteso in senso restrittivo, quasi che solo le situazioni e le categorie di bisognosi indicate debbano essere destinatarie dell’aiuto, ma in senso indicativo della molteplicità di atti di misericordia che possono nascere dall’esperienza dell’amore di Dio e realizzano il comando dell’amore del prossimo70. Dovremmo chiederci: come rispondiamo 65 Come una medaglia a una sola faccia è falsa, così la mancanza di uno dei due

aspetti invalida l’altro. Non si può separare Dio dall’uomo e l’uomo da Dio. Per questo non si può prediligere l’uno e misconoscere l’altro. Ignorare l’uomo signi-fica non aver conosciuto Dio, e la misura dell’amore a Dio è l’uomo, che è la sua immagine più perfetta.

66 Luca 6, 36. Prima di essere un comando, queste parole sono la rivelazione di una possibilità: esse attestano la possibilità per l’uomo di partecipare alla misericordia di Dio, ovvero di dare vita, di mostrare tenerezza e amore, di fare grazia, di soffrire con chi soffre, di sentire l’unicità dell’altro e di essergli vicino.

67 Così avviene per il Samaritano della parabola, che fa tutto ciò che è in suo potere per alleviare concretamente le sofferenze dell’uomo lasciato moribondo ai lati della strada.

68 Matteo 25, 35,36.69 Le sei di Matteo 25 più la sepoltura dei morti attestata nel libro di Tobia: 1. Dare

da mangiare agli affamati; 2. Dare da bere agli assetati; 3. Vestire gli ignudi; 4. Al-loggiare i pellegrini; 5. Visitare gli infermi; 6. Visitare i carcerati; 7. Seppellire i morti.

70 Che essi non vadano compresi in senso legalistico e non costituiscano una casi-stica, lo esprime bene sant’Ambrogio mostrando che è l’altro nel suo bisogno che suscita la creatività e l’intelligenza della carità: «Sarebbe una grave colpa se un fede-le, pur essendone tu informato, versasse nel bisogno; se tu sapessi che egli è senza mezzi, patisce la fame, soffre tribolazioni, specialmente se si vergogna della sua in-

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a questa richiesta di Gesù? Nel mondo c’è tanta sofferenza alla quale non si può rispondere con le belle parole, e neppure con le sole preghiere. Quando è stata l’ultima volta che ho speso il mio tempo con un ammalato o che ho speso soldi, energie e inventiva,per venire incontro alle necessità materiali dei fratelli?

«Noi cristiani dovremmo coltivare questa sensibilità per il dolore altrui [...] Gesù ci ha chiesto di vivere un amore fattivo, concreto, reale, quell’amore che assume il nome di compassione, dopo averci preceduto lui stesso in questo cammino»71. La compassione si esprime in gesti concreti, a partire da quell’«invece» che, nella parabola, introduce l’entrata in scena del Samaritano. Non è detto che tu debba per forza, nella vita, passare oltre, non vedere, non accorgerti; non devi dare per scontata l’indifferenza. C’è un modo di vedere le cose che lascia spazio ai gesti della compassione: il tuo prossimo è colui che tu decidi di rendere prossimo.

Occorre non passare oltre, ma passare accanto, avvicinarsi, farsi prossimo. Proprio questo avvicinarsi, approssimarsi all’uomo ferito permette al Samaritano di vedere davvero, e di provare quella com-mozione che diventa il motore di tutte le sue azioni successive. La compassione di Dio non può fare a meno della concretezza dei gesti, non può fare a meno di una prossimità estrema, di una vicinanza che diviene cura.

Come il Samaritano, per accostarsi ad un uomo ferito, non si può rimanere in piedi, o a cavallo. Occorre raccoglierlo da terra, scendere con lui nella polvere. In questo gesto c’è tutta la parabola della vita di Gesù, c’è il gesto di lui chinato sui piedi dei discepoli nell’ultima cena, il suo rendere nulla se stesso di cui parla san Pa-

digenza; sarebbe grave colpa la tua se, ridotto in schiavitù dai suoi o calunniato, tu non lo aiutassi; se un giusto si trovasse in carcere per debiti, tra pene e tormenti, e non ottenesse nulla da te nella sua sofferenza; se nel momento del pericolo, quando viene condotto a morte, per te fosse di maggior valore il tuo denaro della vita di chi sta per morire» (aMBroGio Di Milano, Trattato sui doveri, I, 30, 148-150).

71 enzo BianChi, op. cit., p. 54-55.

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olo72. C’è qui da riflettere sulla difficoltà che proviamo a toccare davvero la sofferenza altrui. Il Samaritano oltrepassa di slancio quella istintiva ripulsa, quella paura di coinvolgersi troppo che, purtroppo, ci affligge spesso e diventa una barriera di vetro fra noi e il dolore degli altri.

Da qui, da terra, il Samaritano comincia la sua opera di medico paziente. E versa «olio e vino», dice la Scrittura. C’è una compas-sione dell’olio che lenisce ma non guarisce; c’è bisogno anche del linguaggio forte del vino che può anche far male, ma senza il quale la ferita non si rimargina, la piaga non si disinfetta. I gesti della compassione sanno miscelare con sapienza olio e vino, e sanno usarli al momento giusto.

Il Samaritano fascia le ferite, le copre con gesto che deve es-sere insieme delicato e preciso, tenero e quasi professionale, ci verrebbe da dire. Dove ha imparato un gesto così, quest’uomo? Senza tradire l’intenzione del testo biblico, si può dire che ha imparato a curare e guarire, perché guarito e curato lui stesso da qualcuno, nel momento in cui ne aveva avuto bisogno. È da guaritori feriti che possiamo vivere la solidarietà e la forza dei gesti della compassione.

Il Samaritano, poi, è disposto a pagare di persona: ci rimette del suo, presumibilmente a fondo perso, senza che sia sperabile qualunque tipo di risarcimento.

Nello stesso tempo, però, non si attacca alla persona che sta aiutando, non lascia i suoi affari per dedicarsi interamente a lui, non lo lega a sé con debiti di riconoscenza. Si fida dell’albergatore: è con-vinto che altri come lui, forse meglio di lui, sapranno prendersi cura dell’uomo ferito, e condurlo alla salvezza. Lo troverà ancora al suo ritorno, quando passerà per pagare la rimanenza? Probabilmente no, ma non importa. Il Samaritano ha trovato la via sapiente di chi vive la carità e la compassione senza soffocare nessuno e senza attendersi 72 «[Cristo Gesù] svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simi-

le agli uomini» (Filippesi 2, 7).

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nulla in cambio; il suo andarsene non è segno di disinteresse, ma un modo semplice per vivere la gratuità dei gesti di amore.

Il Samaritano dispiega una carità creativa, carica di gesti di attenzione. Anche a noi viene chiesto non solo di fare il bene, ma di farlo bene. La compassione è sempre pronta nell’imboccare nuovi sentieri, sempre attenta al bene del povero.

E se qualche volta quel povero sono io, siamo noi, il Signore ci dia la gioia di ringraziare per chi ci ha curato con olio e vino, ci ha caricato sulla sua cavalcatura e ci ha portato a casa.

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APPUNTI DELLA CATECHESI:

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IL PROPOSITO:

LA REVISIONE DI VITA:

LA PREGHIERA Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa? Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?LA PAROLA DI DIO Come mi ha parlato Dio in questo tempo? Come ho accolto la sua Parola?I RAPPORTI CON GLI ALTRI Come ho esercitato la carità nella famiglia, nella Comunità? Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di costruzione dell’amore?I NOSTRI DOVERI Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...? Sono stato fedele agli impegni comunitari? Come ho vissuto le promesse di po-vertà e di servizio?IL MIO IMPEGNO DI CONVERSIONE Come l’ho vissuto?

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LA COMPASSIONE DI GESÙ

LA COMPASSIONE E LE RELAZIONI FERITE

Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo

toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scompar-ve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».

Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte73.

Qualche considerazione per leggere il testo✴ «Venne da lui un lebbroso». Gesù, che era appena fuggito da chi lo

cercava e lo acclamava, non prende, invece, nessuna precauzione per evitare questo incontro scomodo, per sfuggire a questa imbarazzan-te vicinanza con un uomo da cui bisogna stare alla larga, del quale bisogna evitare la compagnia, con cui non c’è nulla da guadagnare, e c’è solo da perdere. Stavolta Gesù si rende reperibile, avvicinabile, anzi, riduce le distanze, non si trincera dietro la severità della Legge che lo separerebbe per sempre da colui che gli sta di fronte.

✴ «Lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi”». Il lebbroso non lo chiama né Maestro, né Signore, né Gesù, né Naz-zareno, né con qualunque altro nome. «Se vuoi, puoi purificarmi»: è tutto quanto riesce a dire.

✴ «Ne ebbe compassione». In tutto il primo capitolo la compassione di Gesù traspariva dai molti prodigi e miracoli operati, ma solo qui si parla esplicitamente di un Gesù che si muove a compassione, forse per la forza della supplica e la tristezza della solitudine dell’uomo lebbroso. La forza della supplica, anzitutto: una supplica diretta, per-sonale. Il lebbroso non è un malato come gli altri. È un uomo avvilito,

73 Marco 1, 40-45.

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costretto a vivere la propria storia e la propria vocazione con addosso un insopportabile senso di fallimento. È prostrato nell’atteggiamento di chi prega, ma è prostrato anche al modo di colui che non potrà mai più elevarsi allo stato della piena dignità di uomo. Perfino le sue parole, così concise, tradiscono questo sconforto senza rimedio. «Se vuoi...»; è come se dicesse: «Forse nemmeno tu vuoi, forse nemmeno tu mi vuoi bene». Il lebbroso è convinto dentro di sé che per lui sia impossibile qualunque forma di guarigione e di amore. È questa la sua lebbra più profonda, quello che lo rende inavvicinabile e appa-rentemente inguaribile. Ma c’è un secondo motivo che ci permette di capire meglio il perché della compassione di Gesù, ed è quello legato al dramma della solitudine. Le norme a cui doveva attenersi il lebbroso implicano l’assenza assoluta di possibilità di relazioni se non con i suoi pari, reietti e rifiutati come lui. Il lebbroso è un uomo che non solo è privo di relazioni, ma – quel che è peggio – ha perduto le relazioni che aveva. Il suo, probabilmente, era lo stesso mondo di tutti, fatto di traffici, di incontri, di scambi, di parole dette e ascoltate, magari perfino di gesti di affetto e di amore. Tutto questo non c’è più, tutto questo è perduto per sempre. Resta solo una solitudine senza fine, disperata, nella quale, poco alla volta, si spegne la speranza di essere amati.

✴ «Tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato”». Di per sé Gesù non ha bisogno di toccare qualcuno per guarirlo. Se tocca il lebbroso, è perché lo vuole fare. E, nel farlo, va contro ogni forma di convenienza, e perfino di legalità. Toccando un lebbroso rischia di contrarre la sua malattia, o quanto meno la sua impurità, diventa lebbroso lui stesso, si fa lebbroso lui stesso per poterlo guarire. La compassione di Gesù diviene un farsi carico della miseria e della pena dell’altro. Questo toccare di Gesù è il gesto della sua compassione, quello che guarisce la disperazione legata a una vita, a un affetto, a un amore, a una relazione che si credevano perduti e traditi per sempre.

✴ «E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato». Perché questo «subito»? Perché in realtà il lebbroso è già guarito dentro. Prima ancora della lebbra è stata guarita la sua capacità e possibilità di incontrare di nuovo qualcuno. Se uno non ha avuto paura o schifo di lui, allora vuol dire che c’è spazio per una vita diversa. Basta un tocco per far uscire

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dalla solitudine, anche se poi è lungo il cammino di purificazione e di ripresa.

Spunti per vivere la compassione✴ Capita di incontrare persone impermeabili a qualunque tipo di parola,

di discorso, di gesto di affetto. Troviamo la strada della compassione sbarrata da un dolore che si rende inconsolabile, insensibile e sordo a qualunque gesto di vicinanza e di attenzione. Questo ci fa capire la complessità dell’atteggiamento della compassione, che da una parte richiede un’enorme finezza (quante volte a fin di bene, per consolare o aiutare qualcuno si creano disastri peggiori!), ma dall’altra non esclu-de una certa forza, una costanza che non si spaventa di fronte alle resistenze. Provare compassione, consolare qualcuno, non significa fare qualche carezza, entrare in un sentimentalismo a buon mercato. Significa scontrarsi a volte con una volontà negativa che ci mette spesso nella dolorosa condizione di scacco, di non poter aiutare, di riconoscere anche un fallimento. Provare compassione significa rico-noscere e accogliere anche questa parte di male che l’altro infligge a se stesso, e non restarne scandalizzati.

✴ A volte la cosa che ci sconcerta di più è l’implacabile volontà di per-dono da parte del Signore. Non ce ne sentiamo degni. Ci sembrerebbe più giusto essere puniti, ma Dio non vuole vincere la partita con noi attraverso la punizione. La vuole vincere con l’amore.

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CI HANNO LASCIATO UN ESEMPIO

VINCENZO DE’ PAOLI «I poveri sono le membra di Cristo»

Vincent de Paul cresce con la voglia di uscire dalla miseria del villaggio, nel sud-est della Francia, dove è nato nel 1581, da una famiglia di

contadini, dove fin dai 6 anni ha il compito di guardare i porci. Un signo-rotto locale, osservata la sua intelligenza, convince il padre a farlo studiare presso un prete nella città più vicina. Fuggito dalla povertà, Vincenzo vive dell’ambizione di costruirsi una carriera e, a diciotto anni, proprio per questo, si fa ordinare prete. Qualche anno dopo si trova al seguito del Legato pontificio che lo conduce con sé a Roma. Lì conosce l’ambasciatore di Francia e con lui torna a Parigi, dove ottiene un’udienza dal re. Si fa assegnare un beneficio ecclesiastico ed entra tra i cappellani della regina.

Un gesto di generosità gli apre una strada nuovaUn giorno qualcuno deposita nelle sue mani la favolosa somma di

15 mila lire-oro. L’indomani va all’Ospedale e lascia l’intera somma. Ecco ciò che Dio si attendeva da lui. Ora vuol diventare prete sul serio, impegnandosi generosamente nel ministero sacerdotale, nella parrocchia della periferia di Parigi, assegnatagli. Si sente felice: «Sono felice perché ho attorno a me un popolo tanto buono, tanto obbediente a quello che gli dico... Neppure il Papa è felice quanto me!». Il direttore spirituale però convince Vincenzo ad abbandonare la parrocchia per diventare precettore

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Ci hanno lasciato un esempio 79

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della nobile famiglia dei Gondi, una tra le più illustri e potenti. A trentadue anni, trovandosi a fare una vita comoda, non tralascia tuttavia di occuparsi dei poveri contadini delle tenute dei suoi signori e, vinto dal bisogno dei poveri, segretamente fugge dal castello, per farsi parroco d’una misera e abbandonata comunità.

Organizzare la CaritàUn giorno sta per iniziare la Messa domenicale, quando vengono a

dirgli che, in un casolare sperduto, un’intera famiglia muore nella più assoluta indigenza: si sono ammalati tutti gravemente e nessuno riesce a dare aiuto all’altro. Vincenzo sale sul pulpito e racconta, affidando al cuore dei suoi cristiani quella famiglia abbandonata. Tutta la parrocchia si muove e tanti vanno ad aiutare la famiglia bisognosa. Vincenzo, tuttavia si irrita; la carità è sì grande, ma non è organizzata: a tutta l’abbondanza di quel giorno sarebbero succeduti ben presto giorni di trascuratezza e di privazioni. Così decide di riunire tutte le «signore» in associazione, dando loro una regola nella quale tutto è previsto: come accostare la famiglia bisognosa, come e con quale ordine garantire un servizio a rotazione, come procurarsi gli aiuti necessari e tenerne la contabilità, come servire gli ammalati per amore di Gesù, come dar loro da mangiare, come utilizzare intelligentemente il tempo disponibile... Chiama l’associazione «Carità». In breve la Francia è disseminata di gruppi chiamati «le Carità».

Intanto i de’ Gondi vogliono riavere il loro precettore e, dopo l’in-tervento dell’arcivescovo di Parigi e di altre personalità, Vincenzo cede: vuol stare coi poveri e deve abitare coi ricchi. Proprio da qui passa la sua missione: nella casa dei ricchi, imparerà a diventare responsabile dei poveri.

A più di quarant’anni, volendo fare la volontà di Dio, non ha più impa-zienze: «Le opere di Dio non si fanno quando lo desideriamo noi – scrive – ma quando piace a Lui. Non bisogna saltate avanti alla provvidenza... Bisogna donarsi a Lui in modo che Egli si possa servire di noi». Più tardi, ai suoi ormai molti collaboratori, dirà: «Quando sarete vuoti di voi stessi, allora Dio vi riempirà».

Le missioni parrocchialiLa Francia, in quel momento, può dirsi scristianizzata; c’è da fare

tutto daccapo. Comincia a immaginare un nuovo stile d’azione pastorale: in maniera organica, insieme ad altri tre preti, percorre i villaggi privi di

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Ci hanno lasciato un esempio80

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assistenza religiosa, si fermano due settimane, e predicano «le missioni». Avvengono conversioni commoventi, a volte in massa; la gente, disabi-tuata alla Parola di Dio, ne riascolta l’eco con nostalgia umile e intensa: hanno l’impressione di rivedere gli apostoli in quei preti poveri, decisi e appassionati... Alla morte di Vincenzo saranno state predicate 840 missioni e il santo avrà a disposizione 25 case, 131 preti, 44 chierici e 52 coadiutori.

Le Dame della CaritàLe figlie di san Vincenzo sono signore nobili e borghesi; le chiama

Dame della carità. Vincenzo ne aggrega attorno a sé un numero no-tevolissimo ricevendone gli aiuti economici di cui ha bisogno. Ad esse chiede la carità – anche operativa – di cui sono capaci. Tra le dame che imboccano i poveri negli ospedali, ci sono duchesse, principesse, la Regina Anna d’Austria e la principessa Maria di Gonzaga, futura regina di Polonia.

Le Figlie della CaritàIl 14 giugno 1623, una giovane vedova di famiglia nobile, depressa,

viene spedita controvoglia a parlare con Vincenzo. Madamigella de Ma-rillac viene inserita da Vincenzo tra le Dame della carità ed egli si mette a osservarla: quella donna piena di angosce, dal sistema nervoso scosso, a contatto coi poveri diventa dolce, tenera come una madre. Vincenzo le insegna a «dilatare il cuore prendendo su di sé il fardello degli altri». Luisa de Marillac (oggi santa) diviene, così, la sua più stretta collaboratrice e a lei Vincenzo si rivolge per attuare la più sorprendente invenzione: le suore di vita attiva. Fino a quel tempo, nella Chiesa, una donna che voleva con-sacrarsi a Dio aveva una sola strada: la vita monastica e relativa clausura.

Vincenzo raduna alcune ragazze che intendono consacrarsi al Signore, restando nel mondo, a completo servizio dei poveri: nascono le Figlie della carità. «Esse avranno per monastero le case degli ammalati... Per cella, una camera d’affitto. Per cappella, la chiesa parrocchiale. Per chiostro, le strade della città. Per clausura, l’obbedienza. Per grata, il timor di Dio. Per velo, la santa modestia. Per professione, la confidenza costante nella divina Provvidenza e l’offerta di tutto il loro essere». Il popolo le chiama le suore grigie e Vincenzo e Luisa le mandano là dove più grandi sono la sofferenza e l’orrore.

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Opere diverse e difficiliCominciano con l’enorme Ospedale di Parigi, un luogo orribile. Vincen-

zo dapprima vi invia centinaia di Dame della carità (fino a 620, compresa la Regina) per un servizio organizzato a turni, ma temporaneo; poi aggrega stabilmente all’ospedale le sue Figlie della carità che cominciarono a ge-stirlo totalmente dal di dentro. Dà contemporaneamente inizio all’Opera dei bambini trovatelli. L’istituzione ufficiale che gestisce il servizio, fino a quel momento lo fa in modo abominevole: non li curano e, quelli che non muoiono, vengono venduti. Scrive Vincenzo: «Li vendevano per otto soldi ai mendicanti che rompevano loro le braccia e le gambe per eccitare la gente alla pietà e li lasciavano poi morire di fame». Nel 1638 le suore grigie ne raccolgono 12; nel 1647 saranno 820. Non si tratta solo di accoglierli in fasce, ma di farli crescere fino all’autonomia. Vincenzo dice alle suore: «Somiglierete alla Madonna, perché sarete madri e vergini al tempo stesso. Vedete figlie mie quel che ha fatto Dio per voi e per loro? Sin dalla eternità ha stabilito questo tempo per ispirare ad alcune signore il desiderio di prendersi cura di questi piccini che Egli considera suoi: sin dall’eternità ha scelto voi, figlie mie, per servirli. Che onore è questo per voi! Se le persone del mondo si tengono onorate di servire i figli dei grandi, quanto più dovete sentirvi onorate di servire i figli di Dio!».

Dopo i trovatelli ci sono i carcerati e i galeotti. Le carceri sono antri pericolosi e maleodoranti dove i prigionieri marciscono vivi, attendendosi ogni giorno la sorte più crudele, quando, raggiunto il numero sufficiente per formare una catena (cioè una fila di prigionieri incatenati l’uno all’altro) vengono diretti al porto dove diventano galeotti: inchiodati con una catena ai banchi di legno fissati lungo i corridoi della nave, «ridotti a bielle viventi, per far correre la nave al ritmo cadenzato della frusta a nodi di ferro».

Vincenzo diventa, dunque, cappellano capo di tutte le galere del Re-gno e vi invia le sue Figlie della carità. «Avendo noi preso le carità delle parrocchie, Dio ci ha ricompensato con l’Ospedale, allora, contento di noi, per ricompensarci ci ha affidato l’opera dei trovatelli poi, avendo visto che noi abbiamo accettato tutto con tanta carità, ha detto: “voglio dar loro un altro incarico!”. Sì, sorelle mie, è stato Dio a darcelo senza che noi ci pensassimo, neanche Madamigella de Marillac, né tanto meno io. Ma qual è questo incarico? È l’assistenza dei poveri forzati! Oh, sorelle mie, che felicità servire quei poveri forzati abbandonati in mani senza

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Ci hanno lasciato un esempio82

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pietà! Io ho visto quei poveretti trattati come bestie, per questo Dio ne ha avuto compassione!». Si tratta di un servizio difficile in un contesto – com’è immaginabile con delle ragazze in mezzo a galeotti e soldati – difficilissimo. In una parola – egli dice loro – dovete «essere come i raggi del sole che si posano continuamente sopra l’immondizia, e nonostante questo non si sporcano».

Alla cura dei galeotti si aggiunge quella dei soldati, durante le peri-odiche guerre, quando le suore sono mandate sui campi di battaglia «a riparare in qualche modo quello che gli uomini han voluto distruggere».

Nelle terre e nei villaggi devastati, Vincenzo stabilisce centri di soc-corso, di raccolta e smistamento di generi alimentari e di sussistenza. Ma ancora non basta. Alla periferia di Parigi si raccoglievano stuoli di vecchi malvissuti, asociali, storpi, colpiti da mal caduco, alienati: in-somma tutti coloro che in quel tempo venivano definiti «pazzi». Scrive alle suore: «Ah, sorelle mie, ve lo dico ancora una volta, non c’è stata mai una compagnia che debba lodare Dio più della nostra! Ce n’è forse qualcuna che si occupa dei poveri pazzi? No, non ce n’è nessuna. Ed ecco che questa fortuna tocca a voi! Oh, figlie mie, quanto dovete essere grate a Dio!».

Davanti a quella massa di disgraziati, Vincenzo sceglie venti uomini e venti donne, tra quelli che avevano avuto un mestiere, e li affida a degli operai che li aiutino a riprendere il mestiere, a ritrovare il gusto del lavoro dal quale possano trarre un guadagno. Nascono così delle case che sono veri «centri di riabilitazione al lavoro». Con lo stesso criterio soccorre quelle persone anziane che, benché mendicanti, mantengono legami familiari e che sarebbero stati separati a forza, smistati per legge in differenti reparti (maschili e femminili). Vincenzo organizza per loro l’Opera delle piccole case in cui mendicanti, marito e moglie, hanno diritto a vivere assieme.

«Padre della Patria», difensore della fede cattolicaMonsieur Vincent diviene di fatto quasi un ministro del regno che

interloquisce con re e regine, con Richelieu e Mazarino, coi responsabili delle province e delle città, e che organizza dovunque associazioni di uomini e donne destinati a ogni tipo di interventi e urgenze. Cominciano a chiamarlo «il Padre della Patria».

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Quando il Re Luigi xiii è sul letto di morte nel 1643, lo fa chiamare e gli dice: «Ah, Monsieur Vincent, se ritorno in salute, voglio che tutti i vescovi stiano tre anni in casa vostra».

Alla morte del Re, la Regina Anna d’Austria lo sceglie come Consigliere e così Vincenzo diviene un potente personaggio pubblico, una specie di Ministro per l’assistenza sociale, ed egli se ne serve senza pudori per rafforzare tutte le sue opere: moltiplicare le missioni, fondare i seminari, dotare ospedali e opere caritative.

Difende anche la Verità cattolica dall’eresia allora dilagante: il gianse-nismo. La condanna di questa deviazione da parte di papa Innocenzo x fu opera sua. Vincenzo, tutto immerso nelle questioni della carità, considera ancor più decisive le questioni dell’ortodossia: «Fin da quando ero piccolo – scrive – ho sempre avuto un segreto timore nell’anima mia e niente mi ha tanto spaventato come potermi trovare per disgrazia impigliato in qualche eresia che mi trascinasse via e mi facesse fare naufragio nella fede».

Ha scritto di lui lo storico francese Henri Brémond: «Non è stata la carità di Vincenzo de’ Paoli a fare di lui un santo, ma è stata la sua san-tità che lo ha reso veramente caritatevole». E santità vuol dire appunto appartenenza a Cristo e alla Chiesa. Si diffonde spesso tra i cristiani l’idea che quel che importa è fare del bene al prossimo e che questo, in ultima analisi, lo può fare chiunque, anche chi non crede in Cristo e chi non appartiene alla Chiesa... Diceva però Vincenzo: «Il fine principale per il quale Dio ci ha chiamati è per amare Nostro Signore Gesù Cristo... Se ci allontaniamo anche di poco dal pensiero che i poveri sono le membra di Gesù Cristo, infallibilmente diminuiranno in noi la dolcezza e la carità».

«Gesù!», ci racconta il biografo, è l’ultima parola che Vincenzo pro-nuncia prima di morire.

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LA PARABOLA DEL FARISEO E DEL PUBBLICANO

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LA PARABOLA DEL FARISEO E DEL PUBBLICANO

MISERICORDIA E GIUDIZIO

Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due

uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pub-blicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno al-zare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umi-liato, chi invece si umilia sarà esaltato74.

PER LEGGERE IL VANGELOQuesta parabola è stata collocata da Luca all’interno di una

breve catechesi sulla preghiera. Quando pregare? «Sempre, e con intensità», risponde la parabola del giudice iniquo e della vedova insistente75. Come pregare? «Come il pubblicano e non come il fari-seo», risponde la nostra parabola. Ma «in questa seconda parabola è in gioco qualcosa di più della preghiera. O meglio, Gesù tratta sì di due atteggiamenti diversi nella preghiera, ma in realtà attraverso di essi allarga di molto l’orizzonte: ci insegna che la preghiera rivela qualcosa che va oltre se stessa, riguarda il nostro modo di vivere, la nostra relazione con Dio, con noi e con il prossimo»76. È la pre-ghiera dei due uomini che filtra i loro sentimenti e mette a nudo il

74 Luca 18, 9-14.75 Luca 18, 1-8.76 enzo BianChi, op. cit., p. 137.

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loro animo. Ai farisei, poco prima, Gesù aveva rimproverato: «Voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato tra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio»77. Da qui il suo intervento: «Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». È chiara allora la volontà di Gesù di impartire un preciso insegnamento a chi distribuisce giudizi privi di misericordia.

Due uomini al tempio«Due uomini salirono al tempio a pregare». La situazione di par-

tenza dovrebbe essere simile: due uomini si trovano nello stesso luogo di culto, per mettersi di fronte a Dio e per confrontare con lui la loro vita. Questo li dovrebbe spingere a sentirsi figli dello stesso Padre e, quindi, ad essere solidali e rispettosi. Entrambi dovrebbero far risuonare la preghiera del salmista: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua. Così nel santua-rio ti ho cercato, per contemplare la tua potenza e la tua gloria»78. Nel tempio, oltre che sperimentare la sua presenza, dovrebbero ringraziarlo per il bene compiuto e chiedere perdono per il male commesso o per il bene tralasciato.

«Uno era fariseo e l’altro pubblicano». Di fatto il racconto non accomuna i due uomini e il lettore è già preparato a una diversità fin dal primo momento, quando sente che si tratta di un fariseo e di un pubblicano. I due, infatti, appartengono a op-posti gruppi sociali e religiosi: il fariseo, al gruppo di élite dedito all’osservanza integrale e scrupolosa della legge79; il pubblicano, 77 Luca 16, 15.78 Salmo 63, 2-3.79 I farisei erano membri di un movimento laico, composto di mercanti, artigiani,

contadini, che sotto la guida di maestri della Legge (rabbini), si impegnavano ad osservare scrupolosamente i 613 precetti che questi individuavano nella Legge orale e scritta di Mosè. Si trattava di persone serie, impegnate. I farisei erano uo-mini spesso esemplari e stimati. Con questa parabola Gesù non intende affatto de-nigrare l’intera categoria, ma stigmatizzare l’orgoglio spirituale che caratterizzava alcuni di essi e li rendeva intolleranti.

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alla classe più bassa della società giudaica, ben lontana da ideali etici e religiosi80.

La preghiera del fariseo«Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé». Prima delle

parole, abbiamo una fotografia che ritrae il fariseo in piedi e nella parte anteriore del luogo sacro. Il fatto che stia in piedi, rientra nel normale rituale della preghiera giudaica, ma l’essersi collocato davanti può tradire un segreto desiderio di farsi notare81.

«O Dio, ti ringrazio». Apparentemente la sua preghiera è ma-gnifica, pura: non chiede nulla per sé, rende solo grazie a Dio. D’altronde, che cosa dovrebbe chiedere? Nulla gli manca, è colmo di beni, vive alla presenza di Dio, non ha peccati (non è ladro, né ingiusto, né adultero), moltiplica le sue buone opere e non solo quelle obbligatorie82. Ma quali siano i suoi veri sentimenti, lo sappiamo dalle parole che seguono.

«Non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano». Nemmeno lo sfiora il dubbio che ci possa essere qualche ombra a turbare la sua condotta e il suo rapporto con Dio e con gli altri. Gli altri esistono e sono ricordati solo per fare risaltare la loro malvagità, condensata nei tre peccati tipici di

80 I pubblicani erano appaltatori dei dazi, dei pedaggi e degli affitti demaniali per con-to dello Stato. Erano odiati e disprezzati, perché ritenuti collaboratori dei romani che occupavano la Palestina, inoltre perché erano esosi nell’esigere le gabelle nel loro stesso interesse e tentavano di arricchirsi anche con mezzi illeciti. Insomma, oltre che collaborazionisti, erano considerati avari e ladri irrecuperabili. Erano per-ciò scomunicati, cioè privati dei diritti civili e religiosi: erano inabili a testimoniare in tribunale, non potevano ricoprire cariche pubbliche, non si dovevano accettare da loro prestiti o doni. Erano evitati da tutti e ritenuti incapaci di pentimento e di perdono. Erano ritenuti insomma peccatori pubblici e lo sapevano.

81 Da altri testi conosciamo la mania di protagonismo che animava non pochi farisei; risuona minaccioso l’avvertimento di Gesù: «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando diritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini» (Matteo 6, 5).

82 Annota con finezza sant’Agostino: «Era salito al tempio per pregare; ma non volle pregare Dio, bensì lodare se stesso» (Discorso 115, 2).

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furto, ingiustizia e adulterio83. Rappresentante classico di questa genia di persone è l’esattore delle tasse che si trova in fondo al tempio a pregare. Costui è la personificazione vivente dei peccati degli uomini. Il fariseo, oltre che sentirsi esente da qualsiasi colpa, si permette di ergersi a giudice degli altri, usurpando un diritto che appartiene unicamente a Dio, il quale, solo, conosce il cuore degli uomini.

«Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». All’apice della sua preghiera, il fariseo si riconosce creditore nei confronti di Dio. La sua, pare di cogliere dalle parole, è una vita integerrima, radicata in una fede inossidabile e con una generosità da manuale. Dio non può che riconoscerlo giusto e accreditargli alcune opere sul suo conto corrente di galantuomo irreprensibile, perché digiuna due volte alla settimana – anche se era obbligatorio solo nel giorno dell’Espiazione e in momenti di grave calamità84 – e paga le decime di tutti i prodotti, anche di quelli non tassabili85. Di fatto questa preghiera rivela il peccato originale del fariseo, che si rende evidente in due crepe.

La prima crepa consiste nel fatto che tutta la sua preghiera gira come un ballo di valzer sulla stessa mattonella senza superare il perimetro dell’io: io ti ringrazio, io non sono come gli altri, io digiuno, io pago. «La preghiera di quest’uomo potrebbe essere pa-rafrasata in tal modo: “O Dio, io ti rendo grazie non per quello che tu hai fatto per me e in me, ma per quello che io ho fatto e faccio per te”. Il problema è che egli si sente sano e non ha bisogno del 83 «Come gli altri» vuol dire: tutti eccetto lui. «Io – diceva – sono giusto, tutti gli altri

sono peccatori». 84 Esistevano poi varie forme di digiuno privato, praticato unicamente da alcuni fari-

sei, i più zelanti, che lo consideravano un modo per espiare le colpe dei peccatori, degli altri ovviamente! Anche nel digiuno il nostro fariseo si dispensa dal sentirsi peccatore e lo pratica solo per gli altri.

85 La decima era una tassa consistente nel consegnare la decima parte di alcuni pro-dotti della terra (soprattutto frumento, olio e vino) e del bestiame, da parte dei produttori al padrone del terreno che è Dio stesso, unico padrone della terra di Israele. Il fariseo che sembra essere un consumatore, non avrebbe questo obbligo; in ogni caso non ha certamente l’obbligo di versare le decime su tutto.

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medico, si sente giusto e non ha bisogno della santità di Dio, si sente senza peccato e non ha bisogno della sua misericordia»86. In questa luce, tutto quello che dice, dà l’immagine di uno che agisce nei riguardi di Dio come nei riguardi di un banchiere: presenta il conto delle sue ricchezze e si sente soddisfatto. Con Dio ha un conto aperto che documenta una specie di scambio commerciale: in cambio del digiuno, della decima e della sua integerrima osser-vanza della Legge, il fariseo si attende la vita eterna.

La seconda crepa della sua preghiera è rappresentata dal fatto che tutte le azioni enumerate sono pratiche di pietà e ascetiche, individuali, le quali non riguardano il prossimo. Nulla di quello che fa sta nello spazio dell’amore e del bene a favore degli altri. Gli altri – come già ricordato – compaiono nella sua preghiera solo come «ladri, ingiusti, adulteri», per non parlare del pubblicano che è con lui nel tempio. La seconda crepa è, allora, l’assenza degli altri e lo spietato giudizio di condanna nei loro confronti87. Il fariseo non si trova sicuramente in sintonia con quel Dio che, come insegna Gesù in Luca, è tutto misericordia, della quale devono accendersi coloro che gli sono figli88.

Il suo monologo dichiara lontananza dagli uomini, verso i quali non ha misericordia, e lontananza da Dio, della cui misericordia non sente la necessità.

La preghiera del pubblicano«Il pubblicano, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare

gli occhi al cielo, ma si batteva il petto». Anche il pubblicano, il peccatore pubblico89, è salito al tempio. Se il fariseo è venuto per 86 enzo BianChi, op. cit., p. 145.87 Percepiamo qui l’acuto stridore con la vera preghiera che è comunione con Dio e,

per suo tramite, comunione con gli altri.88 «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Luca 6, 36).89 «Tutti siamo peccatori – e pecchiamo finché ci è possibile, in modo nascosto – ma

Gesù aveva compreso una cosa semplice: quelli che sono peccatori pubblici sono esposti al giudizio e al biasimo altrui, e perciò sono più facilmente indotti al desi-derio di cambiare la loro condizione; essi possono cioè vivere l’umiltà quale frutto delle umiliazioni patite, e di conseguenza possono avere in sé quel cuore contrito

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ringraziare, lui è venuto per confessarsi. Si prepara stando in fondo al tempio («fermatosi a distanza»), segno evidente di indegnità a procedere oltre, con gli occhi rivolti verso il basso e battendosi il petto. Così fotografato nella sua preparazione a confessare la sua indegnità, egli, poi, dichiara i suoi peccati.

«O Dio, abbi pietà di me peccatore». Il pubblicano pronuncia solo questa frase. È una preghiera rivolta a Dio e che ha Dio come soggetto. Lui e Dio: il suo stato di consapevolezza e la fiducia nel Dio misericordioso. Gli altri esistono nella sua preghiera come vittime del suo peccato, perché, dicendosi peccatore, im-plicitamente accoglie gli altri come vittime del suo peccato. Egli pensa alla sua colpa, l’unica realtà che cita, e si batte il petto per denunciare la propria colpevolezza anche con un gesto esteriore che gli altri possono notare.

Per quale motivo Dio dovrebbe perdonarlo? Il testo non dà un’esplicita motivazione; la tradizione biblica fornisce il motivo che è sempre unico: «per amore del tuo nome»90. Il motivo del perdono non si trova mai nell’uomo, nei suoi meriti o nelle penitenze con cui vorrebbe riparare il suo peccato. Nessuno ha la capacità di riparare il male fatto. L’unica àncora di salvataggio è l’umile richiesta di perdono, gettandosi nelle braccia misericordiose di Colui che ha dichiarato per mezzo del suo profeta: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio e non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?»91. E Dio, perdonando, dimostra di essere il Santo, perché vince il male, riabilita l’uomo, lo rimette in una giusta relazione con sé. La tragedia del peccato sta proprio nell’interrompere la relazione con Dio, come ricorda con finezza teologica il giovane della parabola del Padre misericordioso: «Ho peccato contro il cielo e contro di te»92.

e spezzato in grado di spingerli a cambiare vita sia nel rapporto con Dio sia nel rapporto con gli altri e con se stessi» (enzo BianChi, op. cit., p. 149).

90 Salmo 79, 9.91 Ezechiele 18, 23.92 Luca 15, 18.

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Il pubblicano è il modello del povero: non possiede nulla in se stesso che gli possa dare fiducia in Dio; può solo affidarsi totalmente in lui. Nella sua preghiera c’è un vero confronto con Dio: mettendosi alla sua presenza, si sente interpellato da lui e vede con chiarezza quello che è. La sua è una vera risposta a Dio: «Sì, sono peccatore; ma abbi misericordia di me». E questo è l’unico modo corretto di porsi di fronte al Signore, nella preghiera e nella vita: quello di sentirsi costantemente bisognosi del suo perdono e del suo amore.

Il giudizio di Gesù«Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giusti-

ficato». Si badi bene che qui non si dice giusto, ma «giustificato», cioè graziato, messo in una giusta relazione con Dio.

Il giudizio di Gesù è introdotto da un solenne e autorevole: «Io vi dico». Gesù vuole insegnare quali siano le condizioni per essere in una giusta relazione con Dio, per essere oggetto del suo favore, per ricevere il perdono dei propri peccati, per essere sicuri di essere in grazia con lui. L’errore del fariseo è di considerare le sue opere come causa della salvezza, mentre sono soltanto una conseguenza dell’essere già in una situazione di salvezza. Il pubblicano invece si rimette alla misericordia divina. Questa è la conversione a cui Dio ci chiama in Gesù.

Il cristiano non è un uomo giusto, bensì un giustificato, non è un essere grazioso, bensì un peccatore graziato. Gesù dimo-stra di avere una conoscenza profonda del cuore dell’uomo: egli garantisce che il pubblicano torna a casa perdonato, grazie al suo atteggiamento di umile riconoscimento di se stesso (in fondo, non ha fatto altro che essere sincero). Come egli «a Dio si è affidato, si è abbandonato, invocando come unico dono di cui aveva veramente bisogno la sua misericordia [...] [così noi] non dobbiamo perdere tempo a guardare fuori di noi, scrutando

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gli altri con occhio cattivo e spiando i loro peccati»93. Gesù fa pure sapere che il fariseo torna a casa con la propria colpa, anzi con una in più, e non solo perché ancora una volta è stato tan-to miope da non accorgersi che anche lui è peccatore e la sua onestà non può salvarlo se non interviene la misericordia di Dio, ma anche perché non è stato misericordioso con il pubblicano, e così non ha trovato misericordia: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia»94.

PER VIVERE IL VANGELO

La misericordia ha sempre la meglio nel giudizioPer vivere questo insegnamento ci vengono in aiuto la lettera

di Giacomo e la Bolla di indizione del Giubileo della Misericordia. Scrive san Giacomo: «Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia. La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio»95. E Papa Francesco aggiunge: «Gesù afferma che la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli. Insomma, siamo chiamati a vivere di misericordia, perché a noi per primi è stata usata misericordia»96. Aver avuto misericordia è, quindi, il criterio base per ottenerla dal Padre nel giudizio che ci attende. Consideriamo, dunque, i nostri atteggiamenti per conformarli, con sempre maggior decisione, ai sentimenti che furono di Cristo Gesù97.

Gli ambiti nei quali il nostro giudizio corre il grave rischio di mancare di misericordia, sono essenzialmente due: quando giu-

93 enzo BianChi, op. cit., p. 155.94 Matteo 5, 7.95 Giacomo 2, 12-13.96 FranCesCo, Misericordiae vultus, 9.97 Cfr. Filippesi 2, 5.

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dichiamo la nostra vita e quando giudichiamo il comportamento degli altri.

Usare misericordia con se stessiPer quanto riguarda la nostra vita, non di rado, quando ci

riconosciamo – dolorosamente e con verità – peccatori, dentro di noi si scatena una lotta: da una parte sentiamo il desiderio di essere perdonati, dall’altra sorge la voce dell’accusatore98: «Non sei degno del perdono, non puoi stare alla presenza di Dio, per un po’ stagli lontano...». Questa voce, qualora trovi spazio, ha il potere di separarci dall’unica fonte di giustificazione che può darci il perdono e la pace. In un frangente simile, sforzarsi per ricorrere alla misericordia di Dio nel sacramento della Riconciliazione, è avere misericordia verso se stessi. Infatti: «La misericordia di Dio non conosce limiti, ma chi deliberatamente rifiuta di accoglierla attraverso il pentimento respinge il perdono dei propri peccati e la salvezza offerta dallo Spirito Santo»99.

Nel Dialogo della Divina Provvidenza Gesù dice a Santa Caterina da Siena: «Nella disperazione l’infelice spregia la mia misericordia, stimando il suo difetto, maggiore della misericordia e bontà mia [...] La mia misericordia è maggiore di tutti i peccati che potesse commettere qualunque creatura. Perciò mi dispiace molto che essi stimino maggiori i loro difetti. Questo è quel peccato che non è per-donato né di qua né di là»100. Un primo atto di misericordia, allora, lo dobbiamo a noi stessi, imparando ad accettarci con tutti i nostri limiti e fragilità, e ricorrendo con fiducia all’amore misericordioso del Padre. Tra l’atto di umiltà e di confidenza e il superbo induri-mento nel giudicarci passa la differenza tra l’inferno e il paradiso.

98 Cfr. Apocalisse 12, 10.99 Catechismo della Chiesa Cattolica, § 1864.100 Caterina Da siena, Dialogo della Divina Provvidenza, cap. 132.

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Usare misericordia verso gli altriPer quanto riguarda il giudizio verso gli altri torna prepotente

alla memoria la parabola del re misericordioso e del servo spietato: «Il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chia-mare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello»101. Perdonare di cuore significa propriamente essere misericordiosi.

Non c’è dubbio che il re di questa parabola è Dio stesso, mentre il primo debitore simboleggia ogni persona umana oggetto del suo perdono e della sua misericordia. Che miracolo accade quando, al posto della meritatissima punizione, riceviamo un abbraccio di

101 Matteo 18, 23-35. È questo un insegnamento che il Vangelo ha in comune con il Talmud. Dice, infatti, Rabbi Gamliel Berabbì: «Chi ha misericordia del proprio prossimo, di costui si ha misericordia in cielo, e chi non ha misericordia del proprio prossimo, di costui non si ha misericordia in cielo» (Talmud ba bilonese, Shabbàt, 151b).

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misericordioso perdono! A noi il Padre lo riserva sempre, quando come il pubblicano della parabola ci battiamo il petto riconoscen-doci per quel che siamo, e sappiamo bene quale sollievo ci reca tanto amore.

Gesù lo ha ripetuto tante volte come per esser certo che lo avremmo capito almeno per quante volte questo principio è ripe-tuto: la misericordia deve avere sempre l’ultima parola. Infatti, chi ha ricevuto il perdono per i propri peccati come potrebbe avere un comportamento diverso nei confronti di chi, come lui stesso, è peccatore? Vorremo forse negare a chi, al pari di noi è segnato dal peccato, una simile consolazione?

Scrive papa Francesco: «Se non si vuole incorrere nel giudizio di Dio, nessuno può diventare giudice del proprio fratello [...] Non giudicare e non condannare significa, in positivo, saper cogliere ciò che di buono c’è in ogni persona e non permettere che abbia a soffrire per il nostro giudizio parziale e la nostra presunzione di sapere tutto. Ma questo non è ancora sufficiente per esprimere la misericordia. Gesù chiede anche di perdonare e di donare. Essere strumenti del perdono, perché noi per primi lo abbiamo ottenuto da Dio. Essere generosi nei confronti di tutti, sapendo che anche Dio elargisce la sua benevolenza su di noi con grande magnanimità»102.

Dare l’ultima parola alla misericordia ci provoca anche a ricon-siderare il nostro atteggiamento verso coloro che vivono immersi nel mondo. Non c’è dubbio che intorno a noi fiorisca un ambiente corrotto e orgoglioso di peccare, una vera Babilonia: ma essa è composta comunque di persone che la misericordia ci obbliga a considerare sempre per il bene che c’è in loro, senza nulla togliere alla condanna del peccato. Il confronto con il mondo fa, invece, facilmente apparire il fariseo che è in noi, sotto forma di giudizi trancianti, dito puntato e talvolta anche violenza verbale. Per chi fra noi frequenta i social network su Internet (che notoriamente facilitano l’emergere del lato peggiore delle persone), è sorpren-102 FranCesCo, Misericordiae vultus, 14.

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dente constatare quanti post dichiaratamente cristiani sembrino usciti dritti dritti dalla bocca del fariseo.

A conclusione di questa riflessione, torna ancora opportuno soffermarci sulla raccomandazione dell’apostolo Giacomo che esorta a vivere la concretezza della vita tenendo presente questa regola aurea: parlare e agire come persone che sanno che tutto verrà misu-rato con il metro della misericordia. Dobbiamo vivere sapendo che la misericordia ha sempre la meglio nel giudizio, cambia la nostra prospettiva e ci dona un valido criterio di discernimento per capire cosa è bene fare o non fare, cosa è meglio dire e, specialmente, non dire.

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APPUNTI DELLA CATECHESI:

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IL PROPOSITO:

LA REVISIONE DI VITA:

LA PREGHIERA Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa? Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?LA PAROLA DI DIO Come mi ha parlato Dio in questo tempo? Come ho accolto la sua Parola?I RAPPORTI CON GLI ALTRI Come ho esercitato la carità nella famiglia, nella Comunità? Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di costruzione dell’amore?I NOSTRI DOVERI Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...? Sono stato fedele agli impegni comunitari? Come ho vissuto le promesse di po-vertà e di servizio?IL MIO IMPEGNO DI CONVERSIONE Come l’ho vissuto?

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LA COMPASSIONE DI GESÙ

LA COMPASSIONE E L’ABISSO DEL CUORE DELL’UOMO

Giunsero all’altra riva del mare, nel paese dei Geraseni. Sceso dalla barca, subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da

uno spirito impuro. Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. Continuamente, notte e gior-no, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi e, urlando a gran voce, disse: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!». Gli diceva infatti: «Esci, spirito im-puro, da quest’uomo!». E gli domandò: «Qual è il tuo nome?». «Il mio nome è Legione – gli rispose – perché siamo in molti». E lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese.

C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. E lo scongiurarono: «Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi». Glielo permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affo-garono nel mare. I loro mandriani allora fuggirono, portarono la notizia nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere che cosa fosse accaduto.

Giunsero da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di men-te, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. Quelli che avevano visto, spiegarono loro che cosa era accaduto all’indemoniato e il fatto dei porci. Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio. Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo suppli-cava di poter restare con lui. Non glielo permise, ma gli disse: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te». Egli se ne andò e si mise a procla-mare per la Decapoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati103.103 Marco 5, 1-20.

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La compassione di Gesù108

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Qualche considerazione per leggere il testo✴ «Giunsero all’altra riva del mare, nel paese dei Geraseni». È un azzardo,

una sfida. Varcare il confine e andare in territorio pagano, è andare a combattere il nemico in casa sua. Nel confronto con l’indemoniato Gesù varcherà un’altra linea di confine, arriverà dove nessun altro è mai arrivato, in una profondità che nessuno ha mai raggiunto.

✴ «Sceso dalla barca». Giunsero all’altra riva, ma solo di lui si dice che scese dalla barca: Gesù rimane solo in questa sua visita nel cuore infernale dell’uomo, i discepoli restano sullo sfondo, probabilmente ancora impreparati alla durezza e al rischio di questa sfida.

✴ «Subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da uno spirito impuro». Gesù deve affrontare subito l’impatto duro con l’uomo che esce dai sepolcri, che arriva da una regione dove c’è solo morte, da una regione senza speranza, dove l’indemoniato abita. Egli non vive una condizione di solitudine e di morte in qualche modo passeggera, ma abita nel sepolcro, in uno stato oscuro e inaccessibile, dove nessuno osa addentrarsi, dove è impossibile rimanere se non con un grande coraggio, dove c’è bisogno di pazienza e di compassione. Quest’uomo è posseduto. È un uomo che non è più se stesso, non è più padrone di sé: è espropriato, in preda a forze ostili, privato di qualsiasi traccia di umanità.

✴ «Nessuno riusciva a tenerlo legato [...]. Continuamente, notte e giorno [...] gridava». Gesù capovolge la prassi che normalmente viene adot-tata nei confronti di quest’uomo. La gente lo fugge; lui non si sottrae all’incontro. La gente prova inutilmente a legarlo; lui lo scioglie. La gente è abituata a sentirlo gridare; lui gli rivolge la parola. Queste differenze chiedono di essere guardate più da vicino.

✴ La gente è abituata a fuggire l’indemoniato, eppure è proprio l’uomo posseduto ad andare incontro a Gesù, esprimendo una sete e un de-siderio di relazione e di vita anche se è ancora scomposto, disturbato da innumerevoli ombre. Eppure questo desiderio c’è, e Gesù sembra l’unico disposto a prenderlo sul serio. Ecco una prima forma della compassione di Gesù, nel suo incontro con l’indemoniato. Il Signore sa interpretare con pazienza e senza paura un desiderio di relazione ancora incapace di trovare un’espressione adeguata, che può essere

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confuso con una seria minaccia alla propria incolumità. Gesù non si ritrae di fronte a un approccio tutt’altro che invitante e consolante; non si ferma alle difficoltà della soglia: sa che c’è molto di più, oltre l’impatto duro, incomprensibile, apparentemente senza speranza.

✴ La gente ha provato a lungo, inutilmente, a tenere legato quest’uo-mo, e ha ottenuto l’effetto contrario a quello desiderato. Ha provato a renderlo inoffensivo con la forza e ne ha accresciuto la malattia e il senso di ribellione. Diverso è l’approccio di Gesù, che si avvicina non per incatenarlo, ma per scioglierlo, per liberarlo. Ecco un secondo passo concreto attraverso cui il Signore esprime tutta la propria com-passione; non si avvicina con l’intenzione di renderlo inoffensivo, ma per liberarlo dal suo male; accetta l’azzardo di entrare nei suoi segreti, di farsi strada nel suo male.

✴ La gente è abituata a sentire gridare quest’uomo. È l’unica forma rela-zionale che gli è concessa: può solo gridare il proprio dolore. Anche quando si rivolge a Gesù, lo fa gridando, buttandogli quasi addosso tutta la sofferenza e il dolore che si porta dentro. Gesù fa ciò che forse non ha mai provato a fare nessuno: gli rivolge la parola, e lo fa chiedendogli il nome. «Qual è il tuo nome?». Gesù spende tempo ed energie con quest’uomo, ascolta, accoglie, presenta se stesso come farmaco e fa dell’incontro lo spazio di trasformazione della persona.

Spunti per vivere la compassione✴ A volte incrociamo storie dove ci viene da dire: «qui non c’è proprio più

nulla da fare, nulla da sperare». Malati mentali con patologie gravissime, personalità segnate da lacerazioni inguaribili e profonde, situazioni sociali e morali al di là dell’immaginabile, deviazioni o perversioni che hanno fatto sprofondare in un baratro di miseria insostenibile... C’è un’umanità intera che grida dai sepolcri. Che cosa significa entrare in un mondo così, valicare la linea oscura del cuore dell’uomo? Che cosa significa entrarvi chiedendo un nome, cioè provando a ridare dignità a un dolore, a una malattia, a una sofferenza, a un comportamento violento, spesso segno di fragilità e di insicurezze enormi, di lacerazioni e ferite dolorosissime e segrete? Per Gesù la malattia non espropria la persona dalla propria identità: il malato non è ad esempio un Alzheimer, ma una persona con un nome proprio, con un volto, con una storia.

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✴ Alla fine del racconto l’uomo è «seduto, vestito e sano di mente». Ma non sempre è così, a volte i margini di miglioramento o di cambia-mento sono davvero risicati. Ma là dove c’è traccia della compassione di Gesù e di un’opera concreta di chi si fa carico di regalarla e offrirla, si ritrova una dignità che pareva smarrita, una compostezza anche nel dolore e nella sofferenza che commuove e stupisce, una bellezza nascosta che viene gioiosamente alla luce.

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CI HANNO LASCIATO UN ESEMPIO

GIUSEPPE MOSCATI «Il mio pensiero è contentare Dio»

Giuseppe Moscati nasce nel 1880. Cresce con la famiglia a Napoli, dove, nel 1903, si laurea in medicina e vince il concorso per Aiuto

straordinario agli Ospedali Riuniti di Napoli. Nel 1908 è Assistente ordi-nario nell’Istituto di Clinica Fisiologica. Nel 1911 diventa Aiuto ordinario; è nominato socio della Regia Accademia Medico-chirurgica; ottiene la Libera Docenza in Chimica Fisiologica. Nel 1919 è nominato Primario della Sala degli Incurabili. Nel 1922 una Commissione nominata dal ministero della Pubblica Istruzione gli conferisce la Libera Docenza per titoli in Cli-nica Medica Generale. Nel 1923 è rappresentante del Governo Italiano al Consesso internazionale di fisiologia, a Edimburgo. Di gran valore sono le sue pubblicazioni scientifiche. È medico e scienziato di riconosciuta e indiscussa fama, in un tempo in cui si fa di tutto per far credere che scienza e fede devono stare su piani opposti.

Disinteressato al denaroCelebre è, tra i colleghi di Moscati, il suo assoluto disinteresse per

il denaro: «Egli che amava vedere negli ammalati la dolorosa figura di Cristo, non voleva ricevere denaro e di ogni offerta soffriva visibilmente. Se visitava dei ricchi o dei benestanti, certo accettava il denaro dovuto, ma la sua preoccupazione restava tuttavia quella di non essere mai un approfittatore».

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Ci hanno lasciato un esempio112

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Ecco una sua lettera indirizzata alla moglie di un paziente: «Egregia Signora, vi restituisco parte dell’onorario perché mi sembra che mi abbiate dato troppo. Certo, da altri, che fossero pescecani, io prenderei di più, ma da uomini di lavoro, no. Spero che Dio vi doni la gioia della guarigione di vostro marito. E fate che costui non si allontani da Dio e frequenti la fonte della salute (la S. Comunione). Vi saluto. G. Moscati».

Un giorno viene chiamato ripetutamente al capezzale di un ragazzo quindicenne di cui egli si prende cura fino alla completa guarigione. Quando tutto è finito, riceve una busta con l’onorario. La apre mentre torna a casa, e si accorge che contiene una somma notevole: mille lire. Torna bruscamente indietro, sale agitato le scale e tende nervosamente la busta: «O voi siete pazzi o mi avete preso per un ladro». I parenti pensano che il celebre pro-fessore sia scontento d’aver ricevuto troppo poco e il padre del ragazzo, impacciato, gli tende un altro biglietto da mille, ma il professore non solo scarta con impazienza la nuova offerta, anzi, aprendo il portafoglio, resti-tuisce ottocento lire, affermando che duecento erano più che sufficienti.

I ricchi se lo contendono per la sua fama di diagnostico, i poveri gli si riversano addosso perché sanno che non sarà chiesto loro nulla, o addirittura ci potrebbero guadagnare: infatti egli talvolta mette qualche banconota in mezzo alla ricetta del paziente di cui intuisce le ristrettezze, soprattutto quando s’accorge che la malattia è provocata o aggravata dalla denutrizione.

C’è un vecchietto povero e solo che un tempo era stato compositore di canzoni: le sue condizioni sono critiche anche se non disperate, e il male può aggravarsi improvvisamente. Avrebbe bisogno di controlli quotidiani, ma Moscati non glieli può garantire, assorbito com’è dal lavoro in ospedale. Si mettono d’accordo così: tutte le mattine il vecchietto si fa trovare in un caffè, lungo la strada che Moscati deve percorrere, e lì consuma (a spese del Professore, s’intende) una bella tazza di latte caldo e biscotti. Il Professore passa, mette dentro la testa, controlla che egli ci sia, gli sorride e se ne va in fretta. Se qualche mattina non lo vede, allora sa di doverlo raggiungere al più presto nel suo tugurio fuori mano, per soccorrerlo.

Un lavoro massacrante, sorretto dall’EucaristiaLa carità di Moscati non è quella di un tranquillo benefattore, ma quella

di un medico di prestigio alle prese con una professione stressante: come studioso deve aggiornarsi, fare esperimenti di laboratorio, scrivere relazioni

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scientifiche; come medico la sua presenza è necessaria sia all’ospedale, sia nelle case dei privati che gli inviano continue richieste e sollecitazioni; come libero docente deve preparare lezioni, insegnare, seguire i discepoli e c’è la sua decisione cristiana di non sottrarsi mai alle richieste dei più poveri. A chi gli chiede come faccia a resistere, risponde: «Chi fa la Comunione tutte le mattine ha con sé un’energia che non viene mai meno».

L’ininterrotto lavoro di Giuseppe Moscati ha luogo in ospedale, attorniato dai discepoli ai quali insegna mediante l’osservazione dei malati: «Vicino all’ammalato non ci sono gerarchie. Tutti veniamo qui per apprendere: direttori, coadiutori, assistenti, siamo tutti presso il letto dell’infermo perché l’ammalato rappresenta il libro della natura». I discepoli lo venerano letteralmente e molti lo accompagnano fino a casa continuando per la via a discutere con lui e a interrogarlo. E quasi tutti finiscono, dopo il giro domenicale nelle corsie, per accompagnarlo a Messa. Il professore stesso scrive: «Ho formato come una comunità religiosa di frati: i miei amici e io lavoriamo insieme con emulazione, con idealizzazione. Siamo tanto senti-mentali! Iddio ci guida (11 settembre 1923)». E aggiunge: «Ho pensato che fosse debito di coscienza istruire i giovani aborrendo dall’andazzo di tenere gelosamente misterioso il frutto della propria esperienza, ma rivelarlo loro...».

Laico in un ambiente ostileIn un tempo in cui le vocazioni si dividono in forma piuttosto netta

(o matrimonio o convento), Moscati sceglie di restare nel mondo, com-pletamente laico, ma scegliendo coscientemente la condizione verginale. Scrive: «Mio Gesù amore! Il vostro amore mi rende sublime; il vostro amore mi santifica, mi volge non verso una sola creatura, ma a tutte le creature, all’infinita bellezza di tutti gli esseri, creati a vostra immagine e somiglianza». «Amare Dio senza misura nell’amore, senza misura nel dolore»; questa è la massima che identifica assieme sia la sua missione di medico cristiano, sia lo sguardo con cui osserva i malati.

I tempi e l’ambiente non sono per nulla facili; dirà un testimone: «[Mo-scati] subiva la lotta che gli facevano tutti i medici iscritti alla massoneria per la sua aperta professione cristiana e anche di quelli che vedevano in lui un competitore valentissimo benché di giovane età». L’odio massonico contro Moscati è forte. Viene disprezzato e deriso da quelli che non vedono bene la sua franca, schietta e coraggiosa professione di fede cattolica: lo

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chiamano maniaco, isterico, esaltato, fanatico, iettatore, pazzo da ma-nicomio, medico di preti e suore. Certi testimoni parlano esplicitamente e senza mezzi termini dell’atteggiamento che la setta ha verso Moscati: «Vogliono distruggerlo, annientarlo», ma notano anche che la lotta non lo scalfisce neppure. Dice ad un amico: «Che cosa m’importa degli altri? Il mio pensiero è contentare Dio».

Curare l’anima e il corpo del malatoCiò che più da fastidio di Moscati consiste in questo: egli è assolutamen-

te convinto «che il medico non deve guardare solamente la salute del corpo dell’infermo, ma anche sopperire ai bisogni del malato e della sua famiglia, sotto qualunque aspetto si possa considerare il bisogno». Perciò egli si è imposto quell’atteggiamento caritatevole verso tutti, ma egli considera come prioritario il bisogno spirituale dei pazienti e la cura delle loro anime.

I malati sanno che per essere curati da Moscati bisogna frequentare i Sacramenti. A tutti i malati domanda se sono in grazia di Dio, se sono in regola con la loro coscienza. Insomma, cura prima l’anima e poi il corpo degli infermi che vanno da lui. Moscati sostiene che nell’ospedale la missione di tutti è collaborare alla misericordia di Dio.

Espressioni come «confessatevi», «mettetevi in grazia di Dio», «acco-statevi al Signore», «pensate all’anima immortale», «Dio è il padrone della vita e della morte» entrano o prima o poi nelle indicazioni «sanitarie» che Moscati dà ai suoi pazienti, soprattutto quando si accorge che la loro vita è in pericolo e in pericolo è il loro destino eterno.

A un illustre avvocato milanese, dopo aver fatto la diagnosi sul suo stato di malattia, consegna una lettera in cui gli indica il nome d’un prete della sua città «perché si mettesse in pace con Dio, siccome da anni se ne era allontanato, altrimenti non avrebbe potuto curargli il corpo». A un altro che, dopo un mese di cura, non sembra reagire alla terapia, dice candidamente: «Voi non vi siete confessato, perciò non guarite. Iddio così ve lo ricorda». A un giovane la cui più grave malattia sembra l’assoluta mancanza di spina dorsale, dà una ricetta su cui c’è scritto: «Cura di Eucarestia».

Bisogna considerare, però, che Moscati non fa il guaritore o il santone: fa il medico e lo fa alla perfezione: mai devia nello spiritualistico, trascurando il corpo. A una suora che lo vuol trascinare a una sacra funzione durante l’orario di lavoro, risponde brusco: «Suora, Iddio si serve lavorando». A una

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pia signora che rifiuta di curarsi, perché dice che le basta pregare ribatte: «Per la vostra anima vale più fare una sola iniezione per la vostra malattia che dire molte preghiere».

Un miracolo portentoso e significativoÈ il febbraio 1927 (due mesi prima della morte di Moscati, che nulla fa

prevedere). Viene a Napoli, per parlare a un congresso medico, il celebre prof. Leonardo Bianchi: titolare della cattedra di Psichiatria e Neurochirur-gia, prima a Palermo, poi a Napoli, poi Ministro della Pubblica Istruzione, quindi Ministro della Difesa e Vice presidente della Camera dei Deputati. Inoltre è uno tra i più noti massoni che, appena qualche anno prima, ha tenuto una pubblica conferenza contro Gesù Cristo. Il professore parla da-vanti a un’aula gremita di medici e docenti ed ecco che, mentre scrosciano gli applausi, egli si accascia al suolo. Sono presenti medici specialisti per ogni urgenza e tutti si accostano, compreso Moscati. Scriverà, in seguito, egli stesso: «Non volevo andare a quella conferenza essendomi da lungo tempo allontanato dall’ambiente dell’Università, ma quel giorno una forza sovrumana, alla quale non seppi resistere, mi ci spinse... Si avverò quello che dice la parabola del Vangelo che i chiamati alla undicesima ora avranno la stessa ricompensa di quelli chiamati alla prima ora del giorno. Sento ancora ora l’impressione di quello sguardo (del morente) che cercava me tra tanti docenti convenuti... E Leonardo Bianchi sapeva bene i miei sentimenti religiosi, conoscendomi fin da quando io ero studente. Gli corsi vicino, gli suggerii parole di pentimento e di fiducia, mentre egli mi stringeva la mano, non potendo parlare...». Un prete (fatto chiamare da Moscati) entra nell’aula con i Sacramenti e li amministra al vecchio massone morente, mentre Moscati recita a voce chiara l’Atto di dolore e il Credo.

Il motivo della santità di Moscati, GesùMoscati ha la grazia di sentire e vivere la vocazione di medico come

espressione totale del senso e dello scopo della sua esistenza, ed essa in-veste tutto il suo essere ed esistere. Considera la professione medica come una vocazione e una missione che devono «esaurirlo» anche fisicamente, perché soltanto così il progetto di Dio può compiersi. Perciò accetta sem-plicemente e totalmente quell’essere avvolto e tirato da ogni parte.

Nessuno, guardando la vita e le opere di Moscati, può dubitare che egli ami personalmente e dichiaratamente Cristo. A chi rifiuta il Signore Gesù,

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Moscati appare come un maniaco da combattere e da eliminare. Nessuno però può sbagliarsi, nemmeno per un attimo, pensando che si tratti di una fortunata naturale bontà del professore. L’impegno ascetico-caritativo è per lui il presupposto, la carta di credito, il «titolo» che gli dà occasione di annuncio integrale del suo Signore Gesù: si stacca dal denaro per poter parlare di tutto senza ambiguità, si fa tutto a tutti per poter indicare Colui che era «tutto», lascia che gli «consumino questa vita» per avere il diritto di parlare della vita eterna. Arriva fino a chiedere al malato che invece dei soldi, gli faccia il regalo di accostarsi all’Eucarestia, di tornare alla fede perduta.

La relazione con Cristo dona all’attività medica di Moscati, specie in campo diagnostico, un acume straordinario. Scrive: «È tale l’intuito chiaro che mi concede il Signore che non mi sembra possibile trattenerlo, e non rare volte vedo anche le deformità delle loro anime». Un giorno torna a casa turbato e racconta alla sorella: «Sai cosa mi è accaduto oggi? È venuta da me una signora con la figlia. La signorina poteva avere ventiquattro o venticinque anni. Guardandola le ho detto: “Signorina, lei non ha ancora fatto la prima Comunione!”. Da alcune lacrime mi sono accorto che la cosa era vera. Poi ho fissato la signora e le ho detto: “Signora, lei convive con un sacerdote apostata”. Sai, era tutto vero e non riesco a spiegarmi come ho fatto!».

Scrive a Benedetto Croce sulla riforma sanitaria di Gentile: «Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un’anima a cui un altro fratello, il medico, accorre con l’ardenza dell’amore, la carità».

Muore, improvvisamente il 12 aprile del 1927, appena terminata una visita, senza nemmeno poter avere per sé un attimo di conforto e di aiuto. Mentre il corteo funebre si snoda per le vie di Napoli, un vecchietto, sul registro delle condoglianze, scrive con mano tremante: «Noi lo piangiamo perché il mondo ha perduto un santo, Napoli un esemplare di ogni virtù, e i malati poveri hanno perso tutto».

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ZACCHEO

MISERICORDIA E CONVERSIONE

Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cerca-

va di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là. Quan-do giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia.

Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un pec-catore!». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qual-cuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

PER LEGGERE IL VANGELOIl racconto è collocato alla conclusione del grande viaggio che

porta Gesù a Gerusalemme, la città santa dove morirà e risorgerà. Questo episodio è preceduto dal racconto del cieco di Gerico104 che chiede a Gesù di poter recuperare la vista, e proprio in forza della sua fede ottiene la guarigione. Questi due episodi, ambedue avvenuti a Gerico, sono affini soprattutto per il comune itinerario, dalle tenebre alla luce, dalla lontananza da Cristo alla comunione con lui.

Entrò nella città di Gerico«Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando». Gesù passa

attraverso Gerico. Sicuramente è transitato da qui tante volte,

104 Luca 18, 35-43.

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quando doveva salire a Gerusalemme. Egli è, quindi, conosciuto, tanto più che siamo verso la conclusione della sua vita pubblica, e di sé avrà fatto parlare sia per i suoi interventi prodigiosi sia per i suoi discorsi di ben altro spessore rispetto a quelli dei maestri abituali.

«Un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco». A Ge-rico vive un uomo, chiamato Zaccheo. Il suo nome, abbreviazione di Zaccaria, significa il giusto, il puro: una vera beffa del destino, perché egli è capo dei pubblicani e ricco, due qualifiche che gravano sulla sua reputazione. In quanto pubblicano, era un peccatore per i giudei; in quanto ricco, era un caso difficile anche per Gesù che aveva detto: «Quant’è difficile per coloro che possiedono ricchezze entrare nel Regno di Dio»105. Che la sua ricchezza non sia pulita, lo si apprenderà in seguito dalla pubblica confessione dell’inte-ressato. Gliela garantiva la sua professione, che poteva esercitare con profitto a Gerico, città di esportazione del balsamo, e perciò serbatoio di facili affari dei pubblicani.

Il mestiere di pubblicanoPubblicano è un nome comune che designa genericamente un

esattore di tasse. Per maggior precisione occorre distinguere tra impresari doganali e semplici impiegati doganali. Gli impresari concludevano con l’amministrazione romana degli accordi per la riscossione delle tasse: pagavano anticipatamente l’appalto e durante i dodici mesi che seguivano – tanto durava l’appalto – cercavano di trarre il massimo profitto. Probabilmente Zaccheo appartiene a questo gruppo, perché di lui si dice che era «capo dei pubblicani» e l’aggiunta «ricco» denota che aveva fatto fortuna.

L’impresario affidava, poi, il lavoro vero e proprio di dogana ad altri che lo svolgevano come impiegati. Il loro lavoro consisteva essenzialmente nella riscossione del dazio, tassa che si pagava per l’introduzione di merci in una città o in un particolare territorio, per l’esportazione, per pedaggi ecc.

105 Luca 18, 24.

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È superfluo ricordare il disprezzo che suscitava questo mestiere già detestato, perché visto come collaborazione con l’occupante romano, e poi, soprattutto, perché si trattava di un autentico strozzinaggio. Ecco perché il nome di pubblicano, etimologica-mente colui che riscuote il denaro pubblico, da nome designante una professione finì per classificare una categoria disprezzata di persone che tutti temevano. Da parte loro i farisei, cultori della purità legale, nutrivano nei loro confronti una vera antipatia e li tenevano lontano da sé.

L’incontro con GesùCon queste premesse c’è poco di buono da sperare da quest’uo-

mo che può essere etichettato facilmente. Il seguito del racconto di Luca documenterà invece proprio il contrario.

«Cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura». Zaccheo offre con il suo comportamento una prima nota positiva perché «cercava di vedere chi fosse Gesù», voleva cioè vederlo in faccia, non accontentandosi del sentito dire. Il suo desiderio non si può dire estemporaneo o fugace perché il testo dice che «cercava», verbo all’imperfetto che denota un’azione prolungata nel tempo. Lo dimostrano le difficoltà della bassa statura e della numerosa folla che vengono superate con l’ingegno e la ricerca di mezzi idonei. Quando si vuole, molte difficoltà cessano di essere tali perché vinte con la tenacia, con l’intuito e l’aguzzare l’ingegno.

«Corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là». Zaccheo corre avanti per precedere il cor-teo che sta attraversando la città e trova rifugio su un albero. In quel momento non pensa alla sua dignità, alla ridicolaggine cui si espone davanti a quelli che lo conoscono. A Gerico egli è di casa, perché qui lavora e, con tutta probabilità, qui abita. Non pensa a questo, e sale come un ragazzino su un sicomoro. Si tratta di una

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pianta che permette una facile ascesa, perché ha un tronco basso; inoltre le foglie larghe garantiscono a Zaccheo un rifugio sicuro. La postazione è quindi ottima per vedere senza essere visto. Questo atteggiamento è un punto a sfavore di Zaccheo. Non è corretto l’atteggiamento del guardone: chi vuol vedere, deve anche lasciarsi vedere, solo così si pongono i fondamenti del dialogo. Zaccheo vuole vedere Gesù, senza compromettersi, vuole soddisfare la sua curiosità, forse anche rispondere a un desiderio profondo, senza offrire però la controparte. Con la complicità involontaria delle foglie pensa di riuscire facilmente nel suo intento. Lascia che Gesù si avvicini, senza avvicinarsi lui stesso. In questo caso il movimento è solo da una parte, quella di Gesù. Si riflette qui la logica umana, quando si pretende la vicinanza di Dio, la gioia del cuore, l’armonia della vita, senza contemporaneamente offrire a Dio la disponibilità nell’andare a lui con l’obbedienza del cuore e della vita: un gioco egoistico che non può durare a lungo.

«Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo». Gesù passa sotto l’albero, è visto da Zaccheo e soddisfa il suo desiderio. Contemporaneamente gli rivolge la parola e lo invita a compiere quel movimento che Zaccheo non voleva o non poteva fare. Non voleva, perché occorreva rinunciare a una vita che, tutto somma-to, aveva rivestito come un abito; o non poteva, perché impedito dal giudizio dei benpensanti che spesso blocca molto più di una catena. Gesù lo invita in due modi, prima con lo sguardo e poi con la parola. Il guardare si differenzia dal semplice vedere: vedere è un fatto esterno, meccanico, tipico di tutti gli animali. Guardare invece coinvolge anche la volontà ed è proprio della persona. Per questo lo sguardo possiede spesso una carica tale da sostituire bene un fiume di parole. Lo sguardo è il primo elemento di comu-nicazione usato da Gesù per Zaccheo, il primo segno per dirgli che si interessa a lui; poi arriva la parola che, preparata dallo sguardo, non giunge più forestiera.

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La parola di Gesù«Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa

tua»106. La prima parola che risuona è Zaccheo, il nome proprio, quello che identifica una persona e la distingue da un’altra. Zaccheo si sente chiamato per nome, conosciuto personalmente nella sua identità più vera e profonda. Forse gli altri lo chiamano «pubblicano, strozzino, quello là» o anche peggio. Gesù, un estraneo, uno di passaggio, lo conosce e lo chiama per nome. Chiamato per nome, Zaccheo è posto nella condizione di rispondere e, ancora di più, di entrare in dialogo con Gesù, da persona a persona, da eguali.

La seconda parola è un imperativo: «Scendi subito». Gesù invi-ta Zaccheo a lasciare il suo rifugio per mettersi allo scoperto, lo spinge a compiere quel passo che prima non voleva o non poteva fare. Se prima Gesù si era avvicinato a Zaccheo, tocca ora a Zac-cheo avvicinarsi a Gesù. È la logica del dialogo: guardare in faccia, parlarsi, compiere ciascuno un passo verso l’altro. I farisei e tutti i benpensanti rifuggivano dalla compagnia dei pubblicani e dei peccatori in genere, perché era gente sporca che contaminava. Con il suo imperativo Gesù dichiara che non teme nessun contagio, che non mantiene le distanze dell’indifferenza o del disprezzo. Questo imperativo viene accompagnato, quasi rinforzato, dall’avverbio «subito» per aiutare Zaccheo a rompere ogni indugio, a superare eventuali perplessità che possono insorgere. Proprio perché l’im-perativo non suoni come violenza sull’altro, Gesù aggiunge la motivazione che vale quanto un concentrato di teologia: «Oggi devo fermarmi a casa tua».

«Oggi»: l’avverbio può essere letto come una semplice pre-cisazione temporale, nel senso di oggi, e non di domani. Luca,

106 «Gesù non comincia mai con l’accusare l’uomo peccatore. Piuttosto lo accoglie senza giudicarlo, sen za pretendere nulla; con i gesti e le parole gli rivela la mise-ricordia del Padre. In questa inaspettata e festo sa accoglienza l’uomo confessa il proprio peccato e si sente fortemente provocato a cambiare vita, cioè a vi vere anche lui nell’amore e nella misericordia» (DoMeniCo CanCian, op. cit., p. 96).

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però, usa spesso questo termine dandogli un valore teologico107, collocandolo in un contesto di salvezza e soprattutto di salvezza che si realizza. Anche qui l’oggi viene collegato con la salvezza, come confermato dalle successive parole di Gesù: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa».

«Devo»: il verbo esprime la volontà divina, il piano salvifico e la sua urgenza. Gesù intende arrivare a tutti, nessuno escluso, soprattutto agli emarginati. Il modo più completo per arrivare a tutti sarà il dono della sua vita. Intanto si manifesta nell’annuncio a tutti del vangelo, che è la rivelazione dell’amore di Dio per l’uomo.

«Fermarmi»: non è il salutino fatto in fretta, e poi via di corsa perché c’è molto da fare. È un verbo che esprime la calma, l’indu-gio, il tempo prolungato, tanto che in greco ha spesso il valore di dimorare, abitare. È il verbo della residenza108.

«A casa tua»: voler entrare in casa è una manifesta provocazione, uno strappo irrimediabile nel tessuto della teologia farisaica, che disdegnava ogni contatto con i peccatori. Soggiornare in casa di uno di questi era il colmo della vergogna. Come sempre accade fra Gesù e i farisei, questi considerano la persona da una posizione di fissità: ciò che è stata, rimane e sempre sarà. Gesù, al contrario, la considera da una posizione di movimento, almeno possibile: nono-stante un passato rovinoso, si può, anzi, si deve cambiare, progredire e migliorare. La persona può diventare diversa da quello che è stata.

107 Ecco alcuni testi, tutti teologicamente significativi. «Ecco, vi annunzio una grande gioia [...] oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore» (Luca 2, 10-11). È il momento in cui la salvezza, a lungo profetizzata e attesa, prende corpo con la nascita di Gesù. «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi» (Luca 4, 21). Luca fa diventare questo discorso tenuto a Nazareth l’inizio pubblico e ufficiale dell’attività di Gesù che si presenta come il profeta atteso. «Tutti rimasero stupiti e levavano lode a Dio; pieni di timore dicevano: Oggi abbiamo visto cose prodigiose» (Luca 5, 26). Dopo le parole, ecco i fatti prodigiosi. Gesù con-ferma con essi la salvezza annunciata e promessa e si qualifica come il vero inviato di Dio. «In verità ti dico: Oggi sarai con me in paradiso» (Luca 23, 43). Il crocifisso Gesù garantisce al crocifisso ladrone l’accesso alla salvezza.

108 Nel vangelo di Giovanni questo verbo si colora ancor più teologicamente ed esprime la comunione interpersonale, il legame intimo e profondo fra due persone che si amano.

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«Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia»: Zaccheo raccoglie la felice provocazione, reagisce facendo quanto Gesù ha richiesto e scende in fretta. Il desiderio di vedere Gesù è finalmente appagato. Non sa che cosa l’aspetta, non aveva preventivato – e non poteva certo preventivarlo – ciò che ora prova e decide. Accoglie Gesù con una gioia che nasce, tra l’altro, dalla possibilità offertagli di compiere quel passo che prima non voleva o non poteva compiere. La parola di Gesù lo ha messo in condizione di effettuarlo; ora però deve giocare a carte scoperte, e non gli è più consentito di mimetizzarsi, sia pure dietro le foglie di un albero.

«Vedendo ciò, tutti mormoravano: “È entrato in casa di un pec-catore!”». In stridente contrasto con la gioia di Zaccheo si colloca la mormorazione prolungata (ancora il tempo all’imperfetto) degli altri, riuniti in quel significativo «tutti». Si tratta dell’altra parte, quella diversa e in opposizione a Gesù. È la parte che non conosce il dinamismo innescato da Gesù nel cuore di Zaccheo, di cui non capisce e non apprezza la gioia. Prova esattamente il sentimento opposto, una specie di disgusto, di irritazione nei confronti di un comportamento che l’ortodossia giudaica non poteva che biasimare: «È andato ad alloggiare da un peccatore». Inaudito! Uno scandalo! Questo dicono loro109. Certo, nella loro logica il comportamento di Gesù risulta del tutto anomalo, ad-dirittura offensivo nei confronti della teologia dominante, tanto da diventare causa scatenante di quella valanga di critiche che si riversano come un fiume in piena su Gesù e sul povero Zaccheo. Anche questo è un dato abbastanza comune: la volontà salvifica di Dio inciampa nella fredda incomprensione e nella critica. Gesù si era premunito ricordando ai suoi discepoli e a tutti: «Beato è chiunque non sarà scandalizzato da me»110. Chi rimane fermo nel passato perde il treno della vita. La naftalina può proteggere, ma, 109 «I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: “Come mai man-

giate e bevete insieme ai pubblicani e ai peccatori?”» (Luca 5, 30); «I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”» (Luca 15, 2).

110 Luca 7, 23.

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se non usata bene, finisce per avvelenare. In tale condizione sono i farisei che non accolgono il messaggio e lo stile nuovo di Gesù.

Zaccheo, alzatosi, dice al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Le critiche dei benpensanti non raggiungono Gesù, e neppure sfiorano Zaccheo. Questi si alza in piedi, quasi a rendere più solenni le sue parole, e fa una promessa. Quello che dice, dimostra la sua intima contrizione e blocca la reazione della gente: alle parole vuote e denigratorie egli oppone dei fatti sostanziosi che documentano la sincerità della sua conversione e la serietà del suo distacco dal denaro. Un atteggiamento giusto, genuino, coraggioso: Zaccheo si riconosce semplicemente colpe-vole e tenta di riparare.

Segue due vie. La prima è quella di dare la metà dei propri beni ai poveri111. Molti di coloro che sono stati defraudati da Zaccheo, non sono più rintracciabili, altri non sono neppure identificabili: dare la metà dei propri beni ai poveri, a fondo perduto, ha il valore di una restituzione. Egli si tiene l’altra metà per riparare il danno a persone conosciute. In che misura? La legge contemplava la restituzione dell’intero valore, più un quinto per indennizzo112, percentuale che, secondo i rabbini, doveva essere aumentata a un quarto. Zaccheo decide di restituire il quadruplo e in questo si allinea o con la legge romana o con la legge dell’Esodo113. Al-111 Già la predicazione del Battista aveva orientato in tal senso: «Chi ha due tuniche ne

dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare faccia altrettanto» (Luca 3, 11). 112 «Il Signore parlò a Mosè dicendo: “Quando qualcuno peccherà e commetterà un’in-

fedeltà verso il Signore, perché inganna il suo prossimo riguardo a depositi, a pegni o a oggetti rubati, oppure perché ricatta il suo prossimo, o perché, trovando una cosa smarrita, mente in proposito e giura il falso riguardo a una cosa in cui uno commette peccato, se avrà così peccato, si troverà in condizione di colpa. Dovrà restituire la cosa rubata o ottenuta con ricatto o il deposito che gli era stato affidato o l’oggetto smarrito che aveva trovato o qualunque cosa per cui abbia giurato il falso. Farà la restituzione per intero, aggiungendovi un quinto, e renderà ciò al proprietario nel giorno in cui farà la riparazione”» (Levitico 5, 20-24).

113 «Quando un uomo ruba un bue o un montone e poi lo scanna o lo vende, darà come indennizzo cinque capi di grosso bestiame per il bue e quattro capi di bestiame minu-to per il montone» (Esodo 21, 37).

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lineandosi con la legge più severa, con il caso estremo, Zaccheo dimostra di essere diventato un altro. Assistiamo con questo al salto di qualità dal nulla al tutto, dalla vita grigia di una professione disprezzata all’esultanza dell’incontro con Gesù, dall’attaccamento schiavistico al denaro alla gioiosa liberazione da esso.

«Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo». La parola conclusiva di Gesù è: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa». Salvezza è una parola che implica l’idea di vittoria, di salvataggio da una condizione negativa e la restitu-zione della pienezza o dell’integrità. Parlando di Dio, la salvezza è la liberazione dal peccato e, positivamente, novità di rapporto con Dio. È, in fondo, il dono di poter partecipare alla stessa vita divina. D’ora in poi Zaccheo può essere autorevolmente annoverato tra i figli di Abramo, quelli veri, destinatari delle promesse di salvezza, anzi, già parzialmente possessori di tale salvezza.

«Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto». Alla fine, con un detto che esprime il senso della sua missione, Gesù ricorda che in Zaccheo si realizza pienamente l’imperativo di andare in cerca di ciò che è perduto per salvarlo114.

PER VIVERE IL VANGELO

Dalla misericordia ricevuta alla conversioneIn Zaccheo abbiamo il percorso della conversione. Gesù passa e

suscita in Zaccheo il desiderio di vederlo, desiderio che si traduce in una serie di azioni orientate a raggiungere l’obiettivo, ma a senso unico: vedere senza essere visto, ricevere senza dare. Gesù fa compiere a questo desiderio un salto di qualità e, incontrando Zaccheo, gli permette di trovare in se stesso le energie di bontà che ogni uomo conserva nel profondo del proprio essere. La gioia 114 «Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò

quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia» (Ezechiele 34, 16); «Egli rispose: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”» (Matteo 15, 24).

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di Zaccheo è grande, la sua riconoscenza senza limiti. Con la sua promessa egli testimonia l’avvenuto cambiamento e si presenta come uno che ama perché pensa agli altri, rompendo il circuito dell’egoismo. Non è semplice giustizia, restituzione di un bene rubato, è piuttosto l’inizio di una vita nuova, radice di vita eter-na115: questa è la salvezza di Gesù.

Se Gesù si avvicina all’uomo e questi si lascia avvicinare da Gesù, da questo incontro nasce una comunione che è condizione di vita, comunione che è già vita eterna. Se l’uomo è peccatore, bisogna dirgli che sbaglia, ma questo non deve intaccare l’accoglienza, il perdono, la fiducia, anzi, favorirla, affinché possa ripartire da capo. Occorre aiutarlo a sentirsi accolto da Dio come Padre, a scoprire il suo volto luminoso che risplende nella persona di Gesù. Grazie a lui è restituita quell’immagine che il peccato aveva deturpato.

Scrive Giovanni Paolo II nella Dives in misericordia: «[La con-versione] è la più concreta espressione dell’opera dell’amore e della presenza della misericordia nel mondo umano. Il significato vero e proprio della misericordia non consiste soltanto nello sguardo, fosse pure il più penetrante e compassionevole, rivolto verso il male morale, fisico o materiale: la misericordia si mani-festa nel suo aspetto vero e proprio quando rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di male esistenti nel mondo e nell’uomo»116.

«Se Dio è misericordioso, l’uomo è chiamato a ricevere con gratitudine la misericordia di cui ha profondamente bisogno perché limitato, malato, peccatore; ma è allo stesso tempo interpellato a diventare misericordioso col prossimo, col fratello, col nemico.

115 Scrive papa Francesco nella bolla d’indizione del giubileo straordinario della mi-sericordia: «Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono» (Miseri-cordiae vultus, 21).

116 Giovanni Paolo ii, Dives in misericordia, 6.

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Altrimenti non può entrare nel regno di questo Dio. La misericordia sollecita la profonda conversione dell’uomo»117.

L’incontro con Gesù ha prodotto cambiamenti reali nella vita di ciascuno di noi, così come era avvenuto per Zaccheo. Ma, a distanza di anni dalla nostra discesa dal sicomoro, quanto è rima-sto del quattro volte tanto promesso al Signore? Quanto il nostro cambiamento di vita si è consolidato e stabilito col passare del tempo? Quanto, invece, ci siamo ripresi mano a mano che il tempo passava e la nostra riconoscenza si affievoliva?

E non è solo al passato che ci dobbiamo rivolgere, ma anche al presente. Infatti ogni giorno noi veniamo sommersi nell’abisso del suo amore e della sua misericordia a causa della disgrazia che ab-biamo di offenderlo ogni giorno tante volte118 con il nostro peccato.

Chiediamoci allora: come rispondo al suo amore e alla sua mi-sericordia che perdona le mie colpe e mi spinge a cambiare la mia condotta e a testimoniare la mia fede con le opere e ad ardere nel fuoco della sua carità119.

Se la misericordia ottenuta non saprà portare frutti di con-versione vera e duratura, se non mi farà crescere nello zelo per il regno di Dio infiammando le mie giornate col desiderio di mo-strare a tutti quanto è stato buono il Signore con me, se non sarò pronto a restituire quadruplicato tutto ciò che con il mio peccato ho sottratto alla costruzione del Regno di Dio, se non andrò con nuovo slancio verso il prossimo... allora nonostante l’esperienza dell’amore misericordioso di Gesù che mi ha perdonato senza giudicarmi e, come un amico, si è invitato a casa mia... non potrò sentirmi dire: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza».

Occorre che la misericordia che ogni giorno ricevo nella mia vita susciti la conversione, e che essa a sua volta si esprima in scelte concrete di vita. È illusorio credere di vivere una vera esperienza 117 DoMeniCo CanCian, op. cit., p. 44.118 Cfr. MaDre sPeranza Di Gesù, Novena all’amore misericordioso.119 Cfr. idem.

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dell’amore di Dio, se questa non provoca scelte concrete di con-versione nel mio cammino di fede quotidiano.

Dalla conversione alla misericordiaSe il segno della conversione di Zaccheo è la restituzione

sovrabbondante del maltolto, il segno della nostra conversione è anch’esso una restituzione senza riserve: quella della miseri-cordia che abbiamo ricevuto da Gesù. È facile incontrare persone tutt’altro che raccomandabili, con storie personali rovinose per sé e per altri. È in questi contatti che possiamo restituire con la maggiore abbondanza. Toccando i vari Zaccheo che incontriamo, fermandoci a casa loro (non solo in senso metaforico), impariamo a sporcarci le mani, respingiamo la tentazione di non voler aver nulla a che fare con loro.

Prendere questa attitudine richiede però un onesto lavoro su noi stessi e sulla nostra coerenza di vita e, naturalmente, il ricorso alla grazia.

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APPUNTI DELLA CATECHESI:

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APPUNTI...

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APPUNTI...

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IL PROPOSITO:

LA REVISIONE DI VITA:

LA PREGHIERA Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa? Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?LA PAROLA DI DIO Come mi ha parlato Dio in questo tempo? Come ho accolto la sua Parola?I RAPPORTI CON GLI ALTRI Come ho esercitato la carità nella famiglia, nella Comunità? Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di costruzione dell’amore?I NOSTRI DOVERI Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...? Sono stato fedele agli impegni comunitari? Come ho vissuto le promesse di po-vertà e di servizio?IL MIO IMPEGNO DI CONVERSIONE Come l’ho vissuto?

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LA COMPASSIONE DI GESÙ

LA COMPASSIONE E IL PERDONO DEI PECCATI

Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e

si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Mae-stro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tut-tavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.

Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più»120.

Qualche considerazione per leggere il testo✴ «Gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo...».

Ai farisei e agli scribi non sembra vero: hanno trovato un’occasione d’oro, un pretesto (e che pretesto!) per mettere in difficoltà Gesù. La donna che è stata sorpresa in flagrante adulterio, è posta al centro dell’attenzione, gettata nel mezzo, sotto lo sguardo di tutti. Non sappiamo nulla di lei. Forse c’è del rimorso per quanto compiuto, ma sicuramente c’è una grande paura per l’imminente giudizio e la vergogna nel trovarsi in mezzo alla folla, svergognata pubblicamen-te, senza possibilità di difendersi, senza averne il diritto, visto che il peccato è stato scoperto, è sotto gli occhi di tutti. Non è trattata da persona, ma è soltanto una figura anonima, in attesa di un giudizio

120 Giovanni 8, 1-11.

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La compassione di Gesù

inappellabile, senza nessuna speranza di giustificazione. E che cosa fa Gesù, di fronte a questa donna? Chinatosi, scrive, e, così facendo, a poco a poco costringe i presenti a distogliere lo sguardo dalla donna e a volgerlo su di lui.

✴ «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». Il brano del Vangelo ci fa passare in un istante da parole scritte a terra, di cui non sapremo mai nulla, a parole che colpiscono al cuore gli astanti e rimangono incise per sempre nella storia. «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E di nuovo Gesù si china verso terra, quasi estraneo a quanto succede intorno. Ha pronunciato, a suo modo, una sentenza di giudizio, che costringe gli astanti a distogliere di nuovo lo sguardo dalla donna, per provare a guardarsi dentro.

✴ «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». Gesù rimane solo con la donna, dopo che tutti se ne sono andati. Sciolto anche l’ultimo dubbio della donna («Neanch’io ti condanno», e avrebbe potuto farlo...), la lascia andare con parole che a noi appaiono fin trop-po leggere: «Va’ e non peccare più». Davvero il Signore è così ingenuo da pensare che basti una raccomandazione così ovvia, così generica, così poco spirituale ci verrebbe da dire, inutilmente esortativa, come quando diciamo: «Fa’ il bravo» ai nostri bambini, sapendo che non lo faranno di sicuro... Possibile che non le chieda qualcosa in più, che non le domandi se è pentita, che non le chieda precise assicurazioni e solenni promesse riguardo al suo futuro? In questo momento le po-trebbe chiedere tutto: questa donna gli deve la vita, ma la misericordia del Signore non si basa né sul pentimento del peccatore né sulla sua reale capacità di cambiamento. Essa è implacabilmente gratuita, è scandalosamente priva di qualsiasi forma di interesse o di scambio. È umile e, forse per questo, è così impegnativa.

Spunti per vivere la compassione✴ La domanda che si fa Gesù non è «qual è la punizione giusta per que-

sto peccato», ma qual è la strada per cui questa donna possa ritrovare se stessa, al di là del male compiuto. Il Signore non è preoccupato di emettere un verdetto, ma di incontrare una persona. La compassione di Gesù si esprime in questa incrollabile fiducia in me. Mi viene data fiducia nel momento in cui io stesso sono consapevole di non meritarla, e non

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La compassione di Gesù

ho alcun argomento per domandarla e richiederla. Mi viene data fiducia nel momento in cui mi vergogno di me stesso e il peso del mio peccato è insostenibile. Mi viene data fiducia dal Signore nel momento in cui nessuno me la darebbe, perché tutti possono vedere il mio peccato. Il Signore mi considera degno di fiducia nel momento in cui io ho tradito la fiducia, sono venuto meno alla parola data, ho lacerato un rapporto prezioso, mi sono mostrato assolutamente inaffidabile, anche agli occhi di me stesso.

✴ La compassione di Gesù invita a distogliere lo sguardo. Non si tratta di far finta di non vedere, come se il peccato non esistesse. Si tratta di imparare a guardare altro. Quando l’adultera è sotto lo sguardo di tutti, Gesù attira l’attenzione su di sé con il gesto misterioso dello scrivere per terra. È come se dicesse: «Guardate me, non guardate lei. Guardate me che sono l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, che mi porto addosso il peccato di ogni uomo, quello di questa donna e anche il vostro, di voi che la giudicate e condannate». Non esiste solo il mio peccato, per quanto grande possa essere; esiste la sua misericordia, la sua compassione, che è infinitamente più grande. E quando uno si sente così amato, così consolato, così accolto, almeno prova a vivere nella logica della compassione, a entrare nella ferita dell’altro, a portare su di sé almeno un poco del suo male e della sua umiliazione.

✴ La compassione di Gesù non dipende dal nostro pentimento e nem-meno dalla nostra capacità di non ricadere nel peccato. Niente lascia supporre che l’adultera sia realmente pentita: il Vangelo non dice nulla in proposito, non parla di una sua conversione, e neppure l’annovera tra le donne che hanno seguito Gesù fino alla Pasqua. Magari ha cambiato vita davvero, magari è ricaduta nello stesso peccato, o in molti altri... Noi non lo possiamo sapere, resta chiaro solo che la compassione di Gesù non è abituata a fare calcoli, a fare scommesse: è dono allo stato puro.

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CI HANNO LASCIATO UN ESEMPIO

MARGHERITA DA CORTONA «Voglio te, mio Signore, nient’altro che te»

Margherita nasce a Laviano, tra Umbria e Toscana, nel 1247. Suo padre coltiva terreni affittati dal Comune di Perugia. I suoi primi anni sono

sereni e felici, ma la felicità è breve perché, quando ha solo otto anni, le muore la madre. Il padre si risposa, ma, la donna portata in casa dal padre le è doppiamente matrigna.

Fuga da casaA quindici anni le si presenta il primo – e anche ultimo – amore della

sua vita: Arsenio, un giovane nobile e ricco di Montepulciano. Margherita è bella e ha anche notevoli qualità di carattere, così da non sfigurare in ambienti sociali diversi dal proprio. Da una parte respinta da una famiglia che non sente più come sua, dall’altra attirata da un affetto che le pare promettente, decide di correre il rischio e di accogliere l’invito di Arsenio a fuggire, per andare a vivere a casa sua. Fugge, dunque, da sola e di notte, a sedici anni. Discende da Laviano verso il fondo acquitrinoso della Val di Chiana, dove corre il rischio di rimanere impigliata fra i canneti o addi-rittura di affogare, essendosi la barchetta, guidata con mano malsicura, capovolta. Il Signore la protegge dall’«antico avversario», e la libera dal pericolo, anche se la strada avventurosa, da lei iniziata, conduce a un lungo periodo d’inquietudine.

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Ci hanno lasciato un esempio

A Montepulciano crede di entrare in una casa nella quale guadagnerà un grado di rispettabilità sociale: sarà salutata da nobili e popolani come una signora; attraverserà la città sul cavallo bardato, orgogliosa del suo giovane uomo, e la sua fama giungerà fino ai contadini di Laviano curvi sulle biolche...

La realtà si rivela ben diversa. La famiglia di Arsenio si oppone alle nozze: troppa la differenza sociale. Così, dopo esser fuggita di casa per trovare una famiglia, si trova a non averne alcuna. Margherita alterna la residenza in città con quella in campagna, dove sempre più viene relegata da Arsenio, con la vana promessa che le cose cambieranno: in realtà è ormai solo la sua concubina. Dopo alcuni anni nasce anche un bambino e Margherita spera, inutilmente, che finalmente si possa riparare a quella convivenza peccaminosa col sacramento del matrimonio. La situazione si protrae, immutata, per nove anni.

L’assassinio di ArsenioMargherita, dopo aver tanto atteso una soluzione che non arriva mai,

si trova ora davanti a un passo ben più arduo, per la piega drammatica degli eventi. Arsenio muore assassinato durante una partita di caccia, a pochi chilometri da Palazzi dove Margherita attende il suo ritorno. Vi arriva invece, abbaiando disperatamente, il cane, che afferra Margherita per la veste e la trascina al luogo dove l’uomo giace cadavere insangui-nato, sotto una quercia.

Oltre che alla morte del giovane, al quale è stato legato il destino della sua esistenza, Margherita non può sfuggire agli interrogativi ch’essa lascia in sospeso: è un castigo di Dio? E in tal caso non è rivolto anche a lei? Quale sarà ora il suo futuro? Il senso di colpa le esplode nel cuore e si sente persa.

Viene cacciata dalla casa di colui che doveva essere suo marito; anzi proprio coloro sui quali ricadeva la responsabilità d’averne impedite le nozze, si ergono a suoi giudici per un soprassalto di moralismo. Lei si trova all’improvviso come una mendicante col suo bambino ancor pic-colo ad affrontare la via del ritorno, come il figliol prodigo della parabola, sperando nella bontà di suo padre, dopo nove anni di assenza. È un’altra cocente delusione: la matrigna non le ha perdonato la fuga, tanto meno la sbandierata prosperità; il padre si rifiuta di riceverla in casa. Sconfortata

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e smarrita, si dirige verso la chiesetta delle sue preghiere di bambina, si getta a sedere per terra, in preda a mille pensieri contrastanti.

La svoltaNella disperazione di quel momento, Margherita ha ancora un sussulto

d’orgoglio e di rabbia: è l’«antico serpente» che la tenta. Una ragazza an-cora bella come lei può avere tanti modi per guadagnarsi il pane: potrebbe rifarsi una vita. Dopotutto non le sono mancati gli ammiratori nel tempo della fortuna, e, con un po’ d’audacia, potrebbe ricercarne qualcuno. E poi, dal momento ch’è stata respinta dal padre, di fronte alla propria coscienza, se non una giustificazione, ha certo una scusa.

Ma si tratta solo di qualche momento d’oscurità, dettato dalla dispe-razione. Una luce, un’ispirazione improvvisa, le attraversa l’anima nel profondo: capisce che la bellezza del corpo con la quale avrebbe potuto ricostruire una fugace fortuna, non è destinata a durare, e neppure a darle l’amore. Comincia a sentire dentro di sé una voce, riprende coraggio, si alza in piedi, prende per mano il suo piccolo, e si mette in viaggio per Cortona.

La voce le ha suggerito di andare a mettersi sotto la protezione dei frati di san Francesco: più che un suggerimento, era stato un comando al quale bisognava obbedire senza indugio e con fiducioso abbandono. Proprio questa forza irresistibile, questa soave violenza ch’è il contras-segno della presenza dello Spirito, è la grazia della conversione.

«Che cosa vuoi, poverella?»Margherita sale alla città sul colle, entra da una porta e si ferma in

attesa. La provvidenza di Dio non si fa attendere: due nobili signore che hanno il loro palazzo lì vicino, notano la ragazza col bambino e l’accolgono offrendole ospitalità, protezione, mettendola in condizione di lavorare. La presentano ai frati del Convento di san Francesco e lì, Margherita comincia una nuova vita.

Nella grande chiesa c’è un crocifisso di legno che diverrà il fulcro della sua attenzione; lei comincia a prostrarsi, tra le lacrime per i peccati commessi, davanti a Gesù sofferente, desiderosa della sua misericordia. Sente l’irrefrenabile desiderio di confessarsi e, dopo una prima confessione generale, lo farà ogni giorno. Desidera espiare e la sua nuova vita prende una ritmo regolare: fervida penitenza, carità verso i poveri, assistenza

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alle ore canoniche e alle celebrazioni liturgiche. Le pie signore le hanno predisposto una celletta che le consente una discreta solitudine, dove vive col figlio, riceve i poveri e i malati; da qui si reca nelle loro abitazioni per servirli e curarli. Per guadagnare di che vivere assiste le partorienti e prepara da mangiare «vivande saporite», cercando, per quanto possibile, di continuare anche in casa altrui, l’austera vita di penitenza e di preghiera già iniziata. Il Signore le fa capire che deve andare nella chiesa dei frati, perché lì riceverà il necessario per lei e i suoi poveri.

Frattanto, cresce sempre più il suo bisogno di solitudine e di totale dedizione alla contemplazione. Vorrebbe dare il suo tempo, la vita e tutte le sue cose ai poveri e malati, ma nello stesso tempo – per l’amore a Cristo che diventa sempre più impellente – desidera stare il più a lungo possibile a parlare solo con lui. Per conciliare le due esigenze, ha bisogno di una assoluta autonomia spirituale e materiale, e anche di una cella più isolata.

Ottiene la prima cosa dopo tre anni del suo arrivo a Cortona, entrando nel Terz’Ordine Francescano della Penitenza. Le occorre insistere, perché i frati dubitano della sua perseveranza e anche perché è «troppo giovane e bella» e l’ammissione al Terz’Ordine è cosa di grande impegno e rigore. A vincere ogni perplessità giova il suo straordinario fervore nella preghiera e nell’amore di Dio, che i frati possono direttamente osservare nelle molte ore da lei passate in contemplazione estatica, nell’oratorio. Un giorno prostrata davanti al grande crocifisso, ne ode – per la prima volta – la voce: «Cosa vuoi, poverella?». «Voglio te, mio Signore, nient’altro che te!».

Tutta per Gesù, nella preghiera e nei poveriOra è «una donna nuova». Colloca il figlio presso un precettore, quindi

le diviene possibile abbandonarsi a lacrime, austere penitenze, amorosi colloqui con Cristo in solitudine, e all’assistenza dei poveri. Per questi ultimi si accorge che occorre qualcosa di più stabile per aiutarli efficacemente. Persuade, perciò, un «generoso signore» ad appoggiarla; convince, quindi, una nobile signora a mettere a disposizione la sua casa e a collaborare, dotandola di ogni bene «mobile ed immobile», perché nulla manchi ai bisognosi. È questo l’inizio dell’Ospedale di Santa Maria della misericordia per il cui sostegno fonda una Confraternita.

La Casa di misericordia è l’opera del cuore di Margherita; vuole che non si risparmi nulla perché i poveri vi siano soccorsi con larghezza. Per lei la

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povertà è una scelta volontaria, liberatrice ed espiatrice; ma non sopporta che gli altri, i poveri, i sofferenti, specialmente le mamme e i bambini, soffrano senza trovare in lei una mamma e una sorella, per amore di Dio.

Penitenza incessante e umiltà straordinariaMargherita continua a lottare con la percezione del proprio peccato

dinanzi all’infinita misericordia di Dio che l’ha perdonata. L’umiltà ecce-zionale con cui denuncia pubblicamente – con grandi grida di dolore – il proprio passato, sconcerta e fa piangere la gente che l’ascolta; inizialmente considerata pazza, ora diviene credibile proprio per la penitenza che pratica, espiando i propri e gli altrui peccati (lei ne soffre come per i suoi, nel mo-mento in cui li denuncia o li scopre, nei secolari o nei sacerdoti e persino nei vescovi). Il Signore l’ha costituita come specchio e luce delle anime.

Alle opere di carità Margherita aggiunge, con un crescendo spaventoso, una penitenza incessante. Vorrebbe persino deformare il proprio volto, se l’insano proposito non le fosse fermamente proibito dal confessore. Vorrebbe recarsi a Montepulciano col volto bendato come una cieca, trascinata per mano e vituperata da una donna: ma anche questo le viene vietato. Riesce a ottenere di recarsi almeno a Laviano, suo paese natale, un giorno di domenica, dove chiede pubblicamente perdono per lo scandalo arrecato, durante la Messa nella chiesa parrocchiale. Forse questo le pesa di più perché deve comparire davanti ai suoi parenti e a coloro che da giovane l’avevano conosciuta, condannata e respinta.

«Figlia»Il tormentoso ripensare al passato può tuttavia divenire paralizzante,

perciò, il Signore, la eleva a un confidente abbandono. Un giorno il Croci-fisso, davanti al quale suole fermarsi in contemplazione amorosa, risponde al suo desiderio chiamandola «Figlia», ed è per lei subito un’estasi di gioia. Da quel momento il pensiero dell’amore di Cristo, il desiderio di parlare con lui, la contemplazione della sua passione ripercorsa mentalmente ogni giorno, sono il tormento e, insieme, il gaudio della sua anima.

Un mattino, prima che spunti il sole, Margherita si reca, per invito del Signore, alla chiesa dei frati, per esservi «mentalmente crocifissa». Così avviene: dall’ora di Terza fino al tramonto, resta assorta, in mezzo alla folla commossa, soffrendo visibilmente ad uno ad uno i dolori del Crocifisso, fino alla morte: «All’ora Nona, in cui il Signore aveva esalato lo

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Ci hanno lasciato un esempio

spirito, ella piegò il suo capo obliquamente sul petto, tanto che noi – dice il testimone – la credevamo morta, avendo pure perduto ogni sensibilità e movimento». Un’altra volta, di Venerdì Santo, la si vede uscire dalla cella e correre per le vie della città e per le Chiese, gridando «come una madre che abbia perduto il suo figlio». Se è follia, è follia d’amore.

«Amarti sempre»Quando i fenomeni mistici diventano così frequenti da non potersi occul-

tare, Margherita sente il bisogno di salire più in alto, verso la rocca, in una celletta vicino ad una chiesetta in rovina che lei stessa restaurerà. Nei nove anni che vi trascorre, come «del tutto reclusa», ci sono la contemplazione e il combattimento. Il silenzio è rotto frequentemente da sospiri e da gemiti, o da esclamazioni gioiose nei rapimenti mistici, e anche dai colloqui che intrattiene con Gesù, la Vergine, e con i santi. Un giorno, Gesù le mostra come il trono lasciato vuoto da Lucifero, sia stato assegnato a san Francesco.

A volte il silenzio si riempie di incubi infernali: l’«antico nemico» com-pare a Margherita in forme grottesche e spaventose, le rinfaccia le sue penitenze suicide, le presunte apparizioni, le insinua la disperazione. Lei invoca l’angelo Dio e non smette di implorare: «Signore, tu sai che dove sei tu, là è vera e perfetta letizia! Io non chiedo altro che d’amarti sempre e di servire alla tua maestà!».

Gesù rivela a Margherita l’ora e il giorno in cui verrà a prenderla, e lei vi si dispone con allegrezza. Per diciassette giorni le vengono meno le forze, tanto da non poter né mangiare né bere. Finalmente, il 22 Febbraio 1297, festa della cattedra di san Pietro, poco prima che spunti il sole, il volto le si illumina di gioia e di bellezza; poi spira, mentre i presenti avvertono una misteriosa dolcezza e un soave profumo, segno dei tanti doni di grazia e di santità di cui Margherita era stata ricolmata dalla misericordia divina.

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MISERICORDIA E OPERE SPIRITUALI

Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri

da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermaro-no, col volto triste; uno di loro, di nome Cleopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacer-doti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condan-nare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto».

Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si rife-riva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro.

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Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedi-zione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali di-cevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane121.

PER LEGGERE IL VANGELOI due discepoli di Emmaus non compiono solo un cammino

materiale, da un luogo ad un altro, ma maturano un nuovo modo di rapportarsi a Cristo. Essi passano dalla presunta conoscenza di Cristo a una conoscenza autentica che si costruisce in loro progressivamente, grazie all’intervento personale di Gesù.

Personaggi e circostanze«Quello stesso giorno due di loro erano in cammino [...] e conver-

savano tra loro di tutto quello che era accaduto». Siamo nel pome-riggio del giorno di Pasqua. «Due di loro», cioè due del gruppo dei discepoli, lasciano Gerusalemme per recarsi a Emmaus, un villaggio distante circa unici chilometri dalla città santa, probabilmente loro paese d’origine. Questo allontanamento ha il sapore amaro di una sconfitta, l’atroce delusione del tutto finito, il crollo rovinoso di una speranza coltivata con passione per qualche tempo. Eppure essi non possono troncare nettamente con il passato, che non si cancella dalla propria vita con un colpo di spugna: infatti «conver-savano di tutto quello che era accaduto».

Tutto è finito, ma Cristo continua a suscitare il loro interesse: per questo conversano e il loro dialogo è animato, tanto che la 121 Luca 24, 13-35.

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conversazione si trasforma in discussione, con opinioni divergenti e dubbi insoluti.

«Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro». Gesù si unisce a loro, perché il cammino materiale diventi un cammino di fede; cammina insieme a loro per aiutarli a crescere, ad aprirsi ad orizzonti nuovi e a dare senso pieno alla loro esistenza. È lì, vicino ai due, «ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo». I due non possono riconoscere Gesù, perché i loro occhi umani non sono in grado di riconoscere il corpo trasfigurato di Cristo risorto. Questo è possibile solo per grazia, che è dono di Dio. Solo chi riceve questo dono, può riconoscere Gesù, e il dono è dato a chi cammina nella fede. Gesù con la sua presenza aiuta a progredire i due discepoli, che devono passare da una conoscenza carnale di Gesù a una conoscenza di fede.

Quello che noi pensavamo e speravamo in luiÈ facile, e quasi normale, costruirsi un Cristo su misura, capace

di entrare senza troppi sforzi nei nostri schemi e programmi: a questa tentazione hanno ceduto anche i due discepoli. Il dialogo inizia con una provocazione di Gesù, orientata proprio a demolire l’idolo che i due si sono fatti. Gesù prende l’iniziativa per entrare in dialogo con loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». La prima risposta, immediata e istintiva, rivela una meraviglia stizzosa: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?».

«Domandò loro: “Che cosa?”. Gli risposero: “Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno...”». Con il «Che cosa?» di Gesù viene posta la premessa perché i due si aprano allo sconosciuto viandante, ma-nifestando i loro sentimenti e l’idolo che si erano fatta di Gesù. I due conservano per Gesù un’ammirazione ormai diventata nostalgia; essi delineano sinteticamente l’immagine di Gesù che si sono costruiti nel tempo. Nei confronti di Gesù nutrono una grande stima: la sua grandezza era legata sia alla sua parola sia

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ai suoi miracoli; la sua opera era mirabile e lo accreditava tanto presso Dio quanto presso il popolo. Tuttavia la morte, e tanto più la morte in croce, ha gettato un’ombra sulla persona di Gesù e ha incrinato – se non proprio spezzato – la ferrea fiducia riposta in lui. Nessun ebreo poteva dimenticare la severa condanna della legge: «Colui che è appeso è una maledizione di Dio»122.

«Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele». È questa la frase chiave, indizio della mentalità dei due, per i quali Gesù doveva essere il Messia politico, il liberatore in senso umano, quello che tutti potevano vedere e capire, quello che tutti attende-vano, per restituire a Israele il prestigio di un tempo, liberandolo dall’assoggettamento ai Romani123.

«Alcune donne sono venute a dirci di aver avuto una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo». Quanto queste idee fossero profondamente radicate, lo dimostra il fatto che la novità non viene accolta, e tanto meno vissuta: il sepolcro vuoto, la te-stimonianza delle donne, la conferma dei discepoli, tutto accade senza incidere minimamente. Il loro atteggiamento di chiusura, di non disponibilità a una realtà che pure orienta verso qualcosa di nuovo, ha come conseguenza la desolazione interiore che si riflette nella tristezza del loro volto.

Quello che Gesù aiuta a pensare e a sperare«Stolti e lenti di cuore a credere». Ora non sono più i due disce-

poli a parlare, a dire ciò che pensano di Gesù, ma è lui a rivelare quello che devono pensare, per mettersi in cammino e accogliere il messaggio e la novità della risurrezione. L’inizio è duro: si è «stolti» (incapaci di comprendere) e «lenti di cuore» (ostinati e riluttanti davanti alla testimonianza) quando, davanti alla parola dei profeti,

122 Deuteronomio 21, 23.123 A questo si aggiunge l’inconciliabilità per la mentalità ebraica dell’idea di sof-

ferenza-morte con l’idea di potenza-vita di Dio: se Gesù fosse stato l’inviato di Dio, avrebbe dovuto necessariamente partecipare della sua potenza e, quindi, non avrebbe potuto né soffrire, né morire.

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non ci si mette in viaggio alla ricerca di un orizzonte nuovo. Si è «stolti e lenti di cuore» quando, ostinatamente, non si vogliono leggere i segni dei tempi – parola di Dio scritta negli avvenimenti – e si rimane prigionieri dei propri schemi.

«Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». Gesù inizia per i due e con i due un entusia-smante viaggio attraverso la parola profetica: viene annunciata la croce come strumento di redenzione e di salvezza, viene presentata la morte come germe di vita124.

Quali brani della Legge o dei profeti ha citato Gesù? Il testo evangelico non si esprime, e a noi non resta che fare congetture. Forse ha ricordato il Salmo 22, da lui stesso gridato sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»125. La prima parte del salmo è tenebrosa, carica di abbandono e di morte, la secon-da parte, invece, si apre a una speranza piena di attesa, ardente di vita. Non è il grido strozzato di un morente disperato, bensì l’anelito sofferto di colui che rimette tutto all’imperscrutabile volontà divina.

Molto probabilmente Gesù ha citato i canti del servo di JHWH, soprattutto il quarto, dove si esalta l’amore gratuito di un solo uomo che muore per gli altri. Isaia afferma per la prima volta, in modo inequivocabile, che la sofferenza può avere valore redenti-vo: «Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti»126.

Poiché era proprio la sofferenza, inclusa la morte intesa come suprema sofferenza, a creare difficoltà, dobbiamo supporre che Gesù abbia insistito su questo punto. Si trattava di far vedere come 124 Scrive Giovanni Paolo ii nella sua enciclica Dives in misericordia: «La croce è il più

profondo chinarsi della Divinità sull’uomo e su ciò che l’uomo chiama il suo infe-lice destino. La croce è come un tocco dell’eterno amore sulle ferite più dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo».

125 Matteo 27, 46.126 Isaia 53, 5.

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la sofferenza non fosse necessariamente segno della lontananza di Dio e marchio di infamia, ma potesse assurgere a impensato strumento di salvezza. Gesù non è venuto a spiegare la sofferenza in forma astratta, né a sopprimerla, ma a riempirla con la realtà della sua croce, e, da allora, «tutta la sofferenza che c’è nel mondo non è la sofferenza dell’agonia, ma il dolore del parto» (Paul Clau-del). Con un improvvisato mini-corso esegetico, Gesù ha cercato di spiegare questa sublime verità ai due discepoli.

Gesù insegna a capire il mistero della vita (risurrezione) parten-do dalla sofferenza e dalla morte. Fa questo aprendo la loro intel-ligenza alla comprensione delle Scritture e camminando con loro; li aiuta a compiere il passo decisivo che porta al di là del semplice fatto della morte, per scorgere la luce della vita. Gesù esegeta ha inaugurato un modo nuovo di fare scuola: è la scuola della vita, la scuola del maestro che cammina con i discepoli.

«Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano». Hanno compreso i due la lezione? Il tentativo di Gesù di andare più lontano, ha la funzione di un mini-esame, appendice del mini-corso biblico che si è appena concluso. Spontaneo e logico arriva il: «Resta con noi». La presenza di Gesù non solo non dà fastidio, ma piace. Il misterioso viandante ha aperto prospettive nuove, ha aiutato a leggere la realtà in pro-fondità e con occhi nuovi. Come d’incanto, tutto ha acquistato un senso, e perfino la sofferenza e la morte sono valorizzate nel piano di Dio. Il desiderio di trattenere l’ospite significa che le sue parole sono state comprese e accolte. L’esame è brillantemente superato.

«Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro». Gesù accetta l’invito a restare, perché la sua missione non si è ancora conclusa: vuole ricordare che il cammino inizia con la Scrittura e termina, anzi culmina, nell’azione sacramentale dello spezzare il pane. A questo punto «si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dallo loro vista». Prima

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lo vedevano e non lo riconoscevano, ora lo riconoscono, ma non lo vedono più.

«Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Emmaus, luogo iniziale di destinazione e tomba delle speranze, si colora di fiducia: il cammino non termina, ma a Emmaus si è rischiarato l’orizzonte e la vita ha ripreso a pulsare. Il battito del cuore che torna a sperare è stato avvertito, quando si leggevano e compren-devano le Scritture in modo nuovo. Se, prima, dubbi e incertezze si dipingevano sul loro volto con i tratti della tristezza, ora, al contrario, è di casa la gioia ardente e incontenibile, la compren-sione luminosa che permette di integrare tutto nel piano di Dio, realizzato dal Messia Gesù e preannunciato dalle Scritture. Ora sono uomini con il cuore traboccante di gioia: il loro cammino ha toccato un traguardo importante, ma non ha raggiunto ancora la meta definitiva.

Il risultato del cammino«Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme». La

scoperta di Cristo li rende necessariamente annunciatori, mis-sionari. Non valgono le motivazioni, pur vere, della stanchezza e dell’ora tarda: ripartono per compiere, con il cuore colmo, quel cammino che poche ore prima avevano percorso tristi. Ritornano a Gerusalemme ad annunciare che il loro cammino verso Emmaus non è stato tanto e solo il passare da un luogo a un altro, quan-to piuttosto il cammino da una visione miope del Messia a una visione profonda, serena e completa della realtà da loro vissuta. Tutto questo è stato reso possibile dal misterioso pellegrino che, unitosi al loro cammino verso Emmaus, li ha aiutati ad accettare come indispensabile il passaggio attraverso la sofferenza e la do-nazione totale, perché così insegnano le Scritture e in ciò consiste il pane spezzato.

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I due ritornano da coloro che condividevano la stessa fiducia in Gesù, da coloro che avevano vissuto la tragedia del Venerdì e il conseguente crollo delle speranze e, al loro arrivo, sono accolti dagli amici che, a loro volta, testimoniano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone». Come i due discepoli, tutti gli uomini che leggono questa pagina del vangelo, sono invitati a ripercorrere la stessa strada che porta a una conoscenza sempre più profonda e personale di Cristo, per annunciarlo e testimoniarlo, facendosi a loro volta compagni di cammino, affiancandosi ai fratelli, così come Gesù ha fatto con loro.

PER VIVERE IL VANGELO

Le opere di misericordia spiritualiCome abbiamo già ricordato, l’elenco normativo delle opere di

misericordia corporali, ha origine dal famoso racconto del giudizio universale del vangelo secondo Matteo127, in cui il Figlio dell’uomo ricompensa i buoni per la misericordia usata verso il prossimo. Si tratta di una misericordia che, d’altronde, dice carità semplice, spicciola: non occorrono, infatti, grandi studi per comprendere il senso di queste opere (dar da mangiare a chi ha fame, dar da bere a chi ha sete...)128.

Ma accanto all’elenco delle opere di misericordia corporale, la Chiesa ci propone un altro settenario che riguarda lo spirito, proprio perché l’uomo non è solo corpo, e la misericordia non riguarda solo la materia. Esiste, infatti, una misericordia ugualmente seria e salvifica attinente lo spirito dell’uomo, alle sue necessità profonde e irrinunciabili, che lo costituiscono ben oltre la sua fisicità. Queste opere sono: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammo-

127 Matteo 25, 31-46.128 Potremmo dire che si tratta di quella misericordia essenziale che l’essere umano

non può non conoscere a motivo della sua stessa vita.

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nire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti.

Nella pagina di vangelo che meditiamo in questa tappa, notiamo che Gesù stesso compie queste opere di misericordia consiglian-do, insegnando, ammonendo, consolando i due discepoli: e forse potremmo aggiungere che ha anche perdonato la loro incredulità, ha sopportato la loro durezza di cuore e ha pregato per loro... mettendole così in pratica tutte e sette le opere...

Proviamo anche noi a confrontarci con questo modo di agire di Gesù, con queste opere spirituali. Ogni giornata che ci viene data da vivere è ricca di possibilità di bene che noi possiamo operare facendoci vicini ai nostri fratelli e loro compagni di viaggio.

Qui di seguito sono riportate con brevi commenti tutte e sette le opere di misericordia spirituali. Non sarà necessario fermarsi a riflettere su tutte, ma solo su quelle che interpellano di più la nostra vita.

Consigliare i dubbiosiÈ la prima dell’elenco. Questa scelta potrebbe stupirci. È così

importante? Certo non stiamo parlando del dubbio davanti alla scelta della cravatta da abbinare a un vestito; il dubbio a cui ci riferiamo, riguarda la felicità vera, cioè la qualità della nostra vita e, quindi, per il cristiano, la ricerca della volontà di Dio129. Non si fa fatica a trovare consiglieri nella vita: sembra che tutti sappia-no, tutti vedano e siano capaci di risolvere (sulla pelle degli altri, ovviamente). A volte Gesù sembra divertirsi a mettere in ridicolo tanti consiglieri improbabili: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?»130 e, poco più avanti 129 Tanti davanti alle scelte importanti della vita rimangono paralizzati. Specialmente i

giovani oggi rinunciano a prendere delle decisioni per la propria vita, bloccati come sono da tante insicurezze

130 Luca 6, 39.

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aggiunge: «Come puoi dire al tuo fratello: Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio?»131. Per occuparsi degli altri, bisogna sgombrare gli occhi da tutto ciò che li acceca. Chi non ha ancora capito cosa fare della propria vita, come potrà essere un buon consigliere per gli altri? E chi non è capace di vedere il male nella sua vita, come potrà occuparsi degli altri per indirizzarli al bene? Ciò non signi-fica che bisogna essere perfetti, e impeccabili per poter dare un consiglio, altrimenti chi potrebbe farlo? È necessario, però, saper discernere almeno il bene dal male!

Pensiamo a quale importanza possa avere per una donna incinta in difficoltà, avere a fianco una persona che abbia il senso sacro della vita. Ecco allora i tratti del buon consigliere: abbia occhi limpidi, sia sapiente di quella sapienza che è dono dello Spirito Santo, sia amante e cercatore della verità, non sia guidato da altri interessi se non il vero bene della persona.

Questo è l’ambito tipico dell’accompagnamento spirituale. Esso «può essere un luogo importante per dare consigli, avendo presente che non si tratta di dire all’altro ciò che deve fare, ma di aiutarlo a trovare la risposta a ciò che già abita in lui e che egli non sa o non osa far emergere, oppure di suggerirgli delle possibilità a cui lui non aveva ancora pensato»132.

Insegnare agli ignorantiQuesta seconda opera, che potrebbe suonare presuntuosa

per gli uni e avvilente per gli altri, in realtà non implica l’idea di ritenersi superiori a qualcuno. È così che da sempre funziona il nostro mondo: il più esperto istruisce il meno esperto. Pensiamo alla schiera dei santi educatori, fondatori di istituti dediti all’edu-cazione dei ragazzi, perché «avevano capito che l’ignoranza è la forma più grave di povertà e dedicarono tutta la loro vita e la loro 131 Luca 6, 42.132 luCiano ManiCarDi, La fatica della carità: le opere di misericordia, Qiqajon, Torino

2010, p. 143.

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missione per cercare di «costruire uomini» istruendoli, affinché avessero in mano la propria vita in modo responsabile»133.

È chiaro che non è tanto la cultura universitaria che il mondo deve attendersi dai cristiani, quanto la sapienza di Cristo e della croce. Insegnare agli ignoranti è unirsi allo stesso compito di Gesù Maestro, ed è un compito urgentissimo «oggi che c’è quasi bisogno di alfabetizzazione della fede»134. Si tratta, quindi, non tanto del kerygma, il primo annuncio, ma del problema fondamentale della trasmissione della fede, attraverso la catechesi e l’insegnamento. Il primo e importantissimo ambito di educazione e istruzione è la famiglia. I genitori hanno un compito fondamentale, e non demandabile a nessun altro, nella trasmissione della fede: è un loro preciso dovere, derivante dal sacramento del matrimonio. È triste, oggi, dover constatare che spesso abdicano a questo ruolo, perché trovano più facile accontentare che educare. Ma non dimentichiamo un altro ambito importantissimo: quello dei catechisti, chiamati ad educare i bambini alla fede. Quale grande dono poter orientare ad una visione cristiana della vita e aiutare i piccoli a vedere il volto di Dio135. Quanto sentiamo nostra questa responsabilità?

Ammonire i peccatoriIn questa epoca di relativismo, in cui ognuno crede di poter

decidere ciò che è bene e ciò che è male, diventa davvero difficile praticare questa opera di misericordia, ma quello di essere sentinelle gli uni per gli altri è un ruolo profetico non demandabile136.

Ammonire il peccatore rientra in quel delicato compito che è la correzione fraterna. Essa non significa giudicare o condannare il mio prossimo, né dà il diritto di dire sempre quello che si pensa,

133 roCCo CaMillò, Posseduti dall’amore, Fede & Cultura, 2013, p. 23. 134 roCCo CaMillò, op. cit., p. 36. 135 E non solo ai bambini, ma anche a tutti quei battezzati che sono ignoranti del

proprio cristianesimo.136 Cfr. Ezechiele 33, 1.

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ma l’unica sua motivazione – la dà Gesù stesso – è guadagnare il proprio fratello137. «La correzione è valida e può essere ben accol-ta se avviene all’interno di un rapporto d’amore reale e sincero, altrimenti può diventare un giudizio gratuito. [...] Prima di fare una correzione, bisogna essere sicuri che abbiamo nel cuore una fondamentale disposizione di accoglienza verso la persona, che siamo animati da un amore sincero, dal dolore vero di vedere lo sbaglio, non da stizza, rabbia, o superiorità [...] Prima di arrivare a dire una parola bisogna aver pregato e sofferto per lo sbaglio di quel fratello. Solo l’amore mi suggerirà se è il caso o no di in-tervenire, se è il momento opportuno o no di dirgli una parola, e mi darà anche le parole giuste da dire»138. Ma non dimentichiamo che ammonire i peccatori comporta anche il dovere di denunciare al mondo cosa è secondo Dio e cosa non lo è. Non si può tacere davanti a leggi e ideologie che sono palesemente contro l’uomo e la verità: la carità, perché sia autentica, esige che il bene sia indicato come tale e il male sia denunciato come tale.

Consolare gli afflittiQuesta è l’opera di misericordia che ci fa accorgere del dolore

degli altri e ci offre, allo stesso tempo, una via d’uscita dal nostro egoismo. I motivi dell’afflizione possono essere diversi: una grave malattia, nostra o di una persona cara, un lutto, l’abbandono di chi ti amava, l’incomprensione, i fallimenti. Vedere l’afflizione di chi ci sta accanto, in ogni caso, non deve lasciarci indifferenti. San Pietro raccomanda ai cristiani che siano «tutti concordi, par-tecipi delle gioie e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili»139. Sono indicazioni preziose che ci fanno comprendere cosa voglia dire consolare chi è nell’afflizione. L’arte di consolare consiste in una presenza, per condividere gioie e

137 «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello» (Matteo 18, 15).

138 roCCo CaMillò, op. cit., p. 44.139 1Pietro 3, 8.

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dolori140. La consolazione, dunque, non deve tanto preoccuparsi di discorsi o di gesti, ma va nella direzione del far sentire una prossimità, di esserci come presenza fraterna.

Occorre, però, ricordare sempre che Gesù Cristo è la consola-zione donata da Dio al mondo. «Dio ti consola mostrandoti che lui ha sofferto per liberarti dalle tue afflizioni, per liberarti dalla morte e offrirti la pienezza della vita [...] Consolare gli afflitti vuol dire entrare in questa consolazione: offrirsi perché le persone si-ano alleggerite nel loro dolore, perché vogliamo portarlo insieme a loro; consolare è darsi per diventare segno della consolazione di Dio»141.

Perdonare le offeseDavanti al riconoscimento umile delle proprie colpe e alla ri-

chiesta sincera di perdono, difficilmente si nega il perdono... ma non sempre è così facile nella vita. Il problema è che nei nostri rapporti ci sono spesso muri di orgoglio che si ergono uno contro l’altro, ragioni personali che non vogliono essere messe da parte, dolori e delusioni grandi che generano desideri di rifarsi del male ricevuto, di superarlo in intensità, per far provare agli altri quanto abbiamo sofferto a causa loro.

Nella vita possono capitare cose terribili per le quali perdonare non è per nulla facile. Eppure Gesù, su questo tema, è quanto mai chiaro. Quante volte dovrò perdonare mia moglie o mio marito che mi manca gravemente? Quante volte dovrò perdonare mio padre o mia madre? Quante volte dovrò perdonare il mio collega di lavoro dal quale subisco un’ingiustizia? Quante volte dovrò perdonare i tradimenti, le slealtà, le ferite? Devi perdonare settanta volte set-te. Vale a dire che devi perdere il conto. Vuol dire che non esiste nessun caso in cui sia sbagliato perdonare, non esiste una volta in cui sia colma la misura. Perdonare significa avere un amore più 140 Il verbo che indica l’atto di consolare è parakalein (da cui l’attributo dello Spirito

Santo: paraclito) che si traduce con chiamare accanto, far venire a sé.141 roCCo CaMillò, op. cit., p. 64.

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grande del male ricevuto. «Nessuno è perdonato perché lo merita, ma perché il perdono parte da Dio che è buono, e tutti, in quanto salvati, dobbiamo diffondere questa sua misericordia»142.

Sopportare pazientemente le persone molesteC’è un’iniziale sorpresa nel ritrovarsi davanti a quest’opera di

misericordia spirituale, ma, a pensarci bene, che cosa c’è di più concreto? Esiste forse qualcuno che non abbia a che fare con perso-ne moleste nella sua vita143? Quest’opera di misericordia ci spinge ad andare oltre il negativo che appare in superficie, e ci costringe a riflettere sul fatto che forse, un giorno, dovremo addirittura ringraziare queste persone, perché magari ci avranno permesso di santificarci. Sì, santificarci, perché praticare quest’opera ha in sé qualcosa di veramente meritevole: un amore puro con una motivazione alta, lontana dall’egoismo; un amore gratuito che costruisce pace e ponti dove umanamente si alzerebbero muri.

Valga per tutti l’esempio di santa Teresa di Gesù Bambino: «C’è in comunità una consorella la quale ha il talento di dispiacermi in tutte le cose, le sue maniere, le sue parole, il suo carattere mi sembrano molto sgradevoli. Tuttavia è una santa religiosa che deve essere graditissima al Signore, perciò io, non volendo cedere all’antipatia naturale che provavo, mi son detta che la carità non deve consistere nei sentimenti, bensì nelle ope re; allora mi sono dedicata a fare per questa consorella ciò che avrei fatto per la persona più cara. Ogni volta che la incontravo, pregavo il buon Dio per lei, offrendogli tutte le sue virtù e i suoi meriti. Sentivo che ciò era bene accetto a Gesù, perché non c’è artista al quale non piaccia ricevere lodi per le sue opere, e Gesù, l’artista delle anime, è felice quando non ci si ferma all’esterno, e invece, pene-

142 roCCo CaMillò, op. cit., p. 79.143 Le persone moleste, fastidiose, noiose, opprimenti, assillanti o insopportabili sono

una categoria diversa dai nemici, per i quali tuttavia è prevista una forma d’amore nel Cristianesimo. Ma i nemici sono coloro che si possono tenere lontani, al con-trario, le persone moleste sono molto spesso proprio quelle più vicine. Esse fanno parte di quel prossimo che Gesù mi chiede di amare come me stesso.

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trando fino al santuario intimo che egli si è scelto come dimora, se ne ammira la bellezza. Non mi contentavo di pregar molto per la sorella che mi suscitava tanti conflitti interni, cercavo di farle tutti i favori possibili, e quando avevo la tentazione di risponderle sgarbatamente, mi limitavo a farle il più amabile dei miei sorrisi, e cercavo di stornare la conversazione perché è detto nell’Imitazione: “E meglio lasciar ciascuno nel suo sentimento piuttosto che fermarsi a contestare”. Spesso anche, quando non ero in ricreazione (voglio dire durante le ore di lavoro), avendo a che fare per ufficio con que sta consorella, quando i miei contrasti intimi erano troppo vio lenti, fuggivo come un disertore. Poiché ignorava assolutamen te quello che sentivo per lei, mai ha sup-posto i motivi della mia condotta, e rimane persuasa che il suo carattere mi è pia cevole. Un giorno in ricreazione mi ha detto pressappoco que ste parole, tutta contenta: “Mi potrebbe dire, suor Teresa di Gesù Bambino, che cosa l’attira verso me, perché ogni volta che mi guarda, la vedo sorridere?”. Ah, quello che mi attirava, era Gesù nascosto in fondo all’anima di lei... Gesù che rende dolce quello che c’è di più amaro. Le risposi che le sorridevo perché ero contenta di vederla (beninteso non aggiunsi che era dal punto di vista spirituale)»144.

Pregare Dio per i vivi e per i mortiL’ultima opera di misericordia spirituale riguarda la preghiera. La

preghiera di intercessione è la prima forma concreta di dedizione per i fratelli. La consolazione più grande che posso offrire ad un fratello, è la preghiera per lui e per le sue necessità: intercedo presso Dio per ottenergli le grazie di cui il fratello ha bisogno, e non lo lascio solo nelle sue difficoltà; perciò egli sente che qual-cuno lo ama, condivide con lui i suoi sentimenti e intercede per lui presso Dio.

144 teresa Di Gesù BaMBino e Del volto santo. Storia di un’anima, manoscritto C, 292.

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Gesù ci ha comandato di pregare addirittura per i nostri nemici. Attraverso la preghiera per i nemici i sentimenti verso di loro cer-tamente cambiano: si comincerà a guardarli con più benevolenza, a placare la rabbia, a sentire la compassione, a lasciare che il cuore sia purificato dal risentimento.

Anche la preghiera per i defunti è annoverata tra le opere di misericordia: dopo la morte, noi non vediamo più i nostri fratelli, ma la comunione vissuta in vita non è spezzata. Coloro che vi-vono in Cristo i loro giorni sulla terra, restano uniti a coloro che sono morti in Cristo, nella realtà misteriosa della comunione dei santi. L’intercessione per i vivi e per i defunti è un mistero che sarà rivelato pienamente solo alla fine dei tempi, quando vedremo la realtà e il valore delle nostre azioni nella loro totalità.

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APPUNTI DELLA CATECHESI:

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IL PROPOSITO:

LA REVISIONE DI VITA:

LA PREGHIERA Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa? Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?LA PAROLA DI DIO Come mi ha parlato Dio in questo tempo? Come ho accolto la sua Parola?I RAPPORTI CON GLI ALTRI Come ho esercitato la carità nella famiglia, nella Comunità? Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di costruzione dell’amore?I NOSTRI DOVERI Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...? Sono stato fedele agli impegni comunitari? Come ho vissuto le promesse di po-vertà e di servizio?IL MIO IMPEGNO DI CONVERSIONE Come l’ho vissuto?

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LA COMPASSIONE DI GESÙ

I DISCEPOLI E LA COMPASSIONE

Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse

loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte.

Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare». Ma egli rispose loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». Ma egli disse loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». Si informarono e dis-sero: «Cinque, e due pesci». E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde. E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta. Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti. Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini145.

Qualche considerazione per leggere il testo✴ «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». La

prima parola di compassione di Gesù è rivolta al gruppo degli apostoli. Prima ancora della folla affamata, allora, siamo portati a rispecchiarci nella stanchezza e nell’affanno dei Dodici, una stanchezza che non esiteremmo a definire sana, ma pur sempre una stanchezza seria, con cui imparare a fare i conti. Partendo da questo, il Signore fa compiere

145 Marco 6, 30-44

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La compassione di Gesù

ai discepoli, attraverso quattro passaggi, un percorso per educarli alla compassione.

✴ «Non avevano neanche il tempo di mangiare». Gli apostoli sono tanto impegnati nelle cose da fare che dimenticano, quasi per un eccesso di zelo, la propria fame, si sottraggono in qualche modo al loro essere uomini tra gli uomini, affamati e assetati come la gente comune, desi-derosi di quiete e di riposo come lo è ogni uomo. Ma anche loro, come la folla, hanno bisogno di fermarsi ad ascoltare la parola del Signore, di essere guariti, di essere saziati. Il loro commuoversi per la gente non li esime da una sana cura di sé. Il Signore darà da mangiare a tutti: tra i cinquemila sfamati ci saranno anche loro Dodici. La compassione di Gesù non dimentica la fame del discepolo, anche quando il discepolo stesso rischia di perderla di vista e di ritrovarsi senza energia e senza forze.

✴ «Congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei din-torni, possano comprarsi da mangiare». I discepoli si avvicinano a Gesù presentando il loro progetto sano, logico, razionale. Non è una cattiva idea: è frutto di un ragionamento prudente, avveduto, fatto da gente pratica non priva di senso organizzativo, ma incontra l’opposizione di Gesù. Ecco allora il secondo passaggio con cui Gesù si prende cura dei Dodici: insegna loro a ragionare secondo il suo cuore, secondo il suo progetto, secondo la sua compassione. Insegna loro che cosa significhi essere il pastore che cura il gregge, il padre che sfama i figli, il padrone di casa che invita al banchetto. E i discepoli capiscono che entrare nel mistero della compassione significa fare i conti con un progetto che è altro rispetto al loro, così pieno di buon senso ma così povero di fantasia, così logico, ma così poco evangelico.

✴ «Quanti pani avete? Andate a vedere». Questo progetto imprevedibile – ed è il terzo passaggio – fa i conti con i limiti delle risorse dei Dodici. Parlare di limiti non significa parlare di assenza, si parla di spropor-zione, senz’altro, ma non di assenza. Per questo Gesù insiste in una domanda apparentemente inutile: «Quanti pani avete?». È come se dicesse: «Andate a vedere quali sono le vostre risorse, tutte le vostre risorse. Non ho bisogno di molto per fare grandi cose, ma voi datemi tutto quello che avete, poco o tanto che sia». In altre parole, Gesù porta gli apostoli a prendere coscienza di due realtà: i limiti delle loro risorse e la necessità di deporre tutto quanto si ha, nelle sue mani.

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La compassione di Gesù

✴ «Voi stessi date loro da mangiare». Più volte è stata fatta notare l’ambiguità di questa frase: se da una parte può significare «datevi da fare per procurare voi qualcosa da mangiare per loro», dall’altra può significare «date voi stessi, cioè tutta la vostra vita, in cibo a loro». È come se Gesù dicesse: «Questa gente non ha soltanto bisogno di un po’ di pane che potete dar loro. Vuole voi, la vostra vita, la vostra dedizione, il vostro tempo, tutto quanto avete». Gesù invita gli apo-stoli a entrare in una logica eucaristica, la stessa dell’Ultima Cena, quando darà se stesso da mangiare. La compassione del cuore porta alla totale consegna di sé, come Gesù ha fatto per noi.

Spunti per vivere la compassione✴ Anzitutto, Gesù mi aiuta a prendere consapevolezza della mia fame.

Non possiamo dimenticare la nostra fame, il nostro bisogno di man-giare. Non possiamo scordare la nostra pochezza, la nostra povertà, mentre proviamo a correre a destra e a sinistra per fare un po’ di bene. La compassione di Gesù guarisce questo nostro affanno: essa ci propone la bellezza della sosta e la forza del cibo contro la pretesa di salvare tutti con la nostra opera, mentre ci stiamo svuotando, perché privi di nutrimento vitale e di riposo nella pace del Signore.

✴ Gesù che ha compassione di me, mi insegnando a ragionare secondo il suo cuore. Mi dimostra la sua compassione, quando mi aiuta ad aprirmi alla sorpresa, a cambiare registro, quando mi educa a non decidere mai niente che non sia secondo il suo cuore.

✴ Gesù mi insegna a valutare le mie risorse e ad affidare a lui la mia povertà per farla divenire ricchezza. La compassione di Gesù regala una dignità tutta particolare alla mia miseria, al mio essere povero, al mio avere così poco. Al Signore può bastare, purché io impari a farne dono.

✴ Infine, Gesù mi insegna a fare quello che posso, senza tirarmi indietro. Non sarò in grado di fare miracoli, ma posso sempre far sedere la folla, posso distribuire il pane e i pesci, posso raccogliere gli avanzi nelle ceste. lo vivo il dono totale di me stesso giorno per giorno, nella concretezza dei gesti semplici, un passo alla volta. E se mi capitasse di non riuscire a fare più niente, posso sedermi tra la gente e aspettare che il Signore mi nutra. Il Signore si siederà al mio fianco e mangerà con me, come avrà di certo fatto al termine di quella memorabile giornata.

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TESTIMONI DELLA FEDE

GIOVANNI BOSCO «Noi andiamo diritti ai poveri»

Per parlare di don Bosco, bisogna parlare anzitutto della madre: una povera contadina che non sapeva né leggere né scrivere, rimasta vedova quando

Giovanni ha ancora due anni. Mamma Margherita conosce alcuni brani del Vecchio Testamento a memoria e gli episodi del Vangelo; i principi fonda-mentali della vita cristiana: il paradiso e l’inferno; il valore redentivo della sofferenza; uno sguardo fiducioso alla Provvidenza; i Sacramenti e il Rosario.

Dice di lei don Bosco stesso: «Ricordo che fu lei a prepararmi alla prima confessione. Mi accompagnò in Chiesa, si confessò per prima, mi raccomandò al confessore e dopo mi aiutò a fare il ringraziamento. Continuò ad aiutarmi fino a quando mi credette capace di fare da solo una degna confessione». Ancora: «Nel giorno della prima Comunione, in mezzo a quella folla di ragazzi e di gente, era quasi impossibile conser-vare il raccoglimento. Mia madre, al mattino, non mi lasciò parlare con nessuno. Mi accompagnò alla Sacra Mensa. Fece con me la preparazione e il ringraziamento. Quel giorno non volle che mi occupassi di lavori materiali. Occupai il tempo nel leggere e nel pregare. Mi ripeté più volte queste parole: “Figlio mio, per te è stato un grande giorno. Sono sicura che Dio è diventato il padrone del tuo cuore. Promettigli che ti impegnerai per conservarti buono per tutta la vita...”».

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Quando Giovanni le parla di una possibile vocazione, gli dice: «Se ti facessi prete e per disgrazia diventassi ricco, non metterò mai piede in casa tua». E il giorno dell’ordinazione sacerdotale: «Ora sei prete, e sei più vicino a Gesù. Io non ho letto i tuoi libri, ma ricordati che cominciare a dir messa vuol dire cominciare a soffrire. D’ora in poi pensa solo alla salvezza delle anime e non prenderti nessuna preoccupazione di me». Quando avrà appena incominciato a far la nonna dei nipotini dell’altro figlio, Giovanni va da lei e le dice: «Un giorno avete detto che se diven-tavo ricco non sareste mai venuta a casa mia. Ora invece sono povero e carico di debiti. Non verreste a fare da mamma ai miei ragazzi?». Mamma Margherita risponde: «Se credi che questa sia la volontà di Dio... ». E passa gli ultimi dieci anni della sua vita (1845-1856) a fare da mamma a decine e centinaia di figli non suoi fino a sfinirsi, prendendo forza – quando non ne può più – da uno sguardo umile e paziente rivolto al crocifisso. I santi nascono e crescono così.

Un sogno guida tutta la vitaFin da bambino Giovanni Bosco ha fatto un sogno che, perfino durante

il sonno, gli sembra «impossibile»: cambiare delle piccole «belve» in figli di Dio; da allora un impulso interiore lo spinge a dedicarsi alla gioventù abban-donata. Per loro vuole, a ogni costo, diventar prete superando umiliazioni e fatiche di ogni genere. Negli anni di studio – per mantenersi o per pas-sione – fa il pastore, il giocoliere e il saltimbanco, il sarto, il fabbro ferraio, il barista e il pasticciere, il segnapunti al tavolo del biliardo, il suonatore di organo e di spinetta. Più avanti farà anche lo scrittore e il compositore di canzoni... ma preoccuparsi degli altri ragazzi privi di pane, di istruzione e di fede, gli sembra «l’unica cosa che devo fare sulla terra».

A Torino, la prima industrializzazione, ha portato decine di migliaia di immigrati. La città è invasa da orde di ragazzi che si offrono per tutti i lavori possibili (ambulanti, lustrascarpe, fiammiferai, spazzacamini, mozzi di stalla, garzoni...) e non sono protetti da nessuno. Si formano vere e proprie bande che infestano i sobborghi, soprattutto nei giorni festivi in cui non si lavora. Molti si danno al furto e finiscono, prima o poi, nelle carceri della città.

L’oratorio, meraviglioso e contrastatoDon Bosco ne avvicina più che può e li raccoglie in un oratorio, continua-

mente a cercare un luogo abbastanza ampio per poterne ospitare un numero

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sempre crescente. I politici sono preoccupati del potenziale rivoluzionario di quelle bande che obbediscono a un solo cenno di don Bosco; la polizia li sorveglia. Alcuni pensano che l’oratorio sia una fucina di immoralità. I parroci della città lo criticano: «L’oratorio bisogna farlo nelle parrocchie!». Ma gli oratori parrocchiali – quando ci sono – sono solo nei giorni festivi e don Bosco li immagina quotidiani, con una compromissione totale del prete; inoltre quelli che ne hanno più bisogno, sono ragazzi che non si avvicinerebbero mai a una parrocchia. L’oratorio istituito da don Bosco è... don Bosco stesso, la sua energia, il suo stile, il suo metodo educativo: e questo non può essere trasportato da una parrocchia all’altra.

L’Arcivescovo decide di visitare personalmente l’Oratorio. Passa una giornata piena d’allegria e si diverte di gusto. Dà la Comunione a più di trecento ragazzi, e poi la Cresima. Per sua decisione tutti i verbali delle cresime vengono raccolti dalla Curia e inviati successivamente ai rispettivi parroci: così l’Oratorio è praticamente accettato come «la parrocchia dei ragazzi che non hanno parrocchia».

Don Bosco subisce anche la lotta da parte delle persone convinte che lui è veramente e irrimediabilmente impazzito. Mentre con i suoi ragazzi trasloca ripetutamente da un misero luogo all’altro, don Bosco parla loro con assoluta convinzione di vasti oratori, chiese, case, scuole, laboratori, ragazzi a migliaia, preti numerosissimi a disposizione. I ragazzi gli credono. Al contrario, perfino i più affezionati amici dicono: «Povero don Bosco, si è tanto infatuato dei giovani che gli ha dato di volta il cervello».

A chi gli obietta che la realtà è infinitamente lontana dalle sue descrizioni (case, scuole, chiese ecc...), lui risponde: «Lo so, ma esistono, perché io le vedo». Questo è il fatto più sconvolgente.

Amato dai ragazziIntanto i ragazzi crescono e preoccupano sempre di più. «Devo rico-

noscere – scrive don Bosco – che l’affetto e l’obbedienza dei miei ragazzi toccavano vertici incredibili». Bisogna, dunque, capire chi era don Bosco per loro. Un episodio lo rivela sufficientemente. Nel luglio del 1846, ha uno sbocco di sangue e sviene; in breve è in fin di vita e riceve unzione degli infermi e il viatico. Resta otto giorni tra la vita e la morte. In quegli otto giorni ci sono ragazzi che lavorando sulle impalcature sotto il sole rovente, non toccano una goccia d’acqua, per chiedere a Dio la sua guarigione. Si

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danno il cambio notte e giorno al Santuario della Consolata, per pregare per lui, dopo le consuete dodici ore di lavoro. Alcuni promettono di recitare il rosario per tutta la vita, altri di restare a pane e acqua per mesi, per un anno, qualcuno per sempre. I medici dicono che quel sabato don Bosco certamente morirà, gli sbocchi di sangue sono ormai continui, ma don Bosco guarisce. Li ritrova tutti – pallidissimo e senza forze – in una cappella. Dice solo: «La mia vita la devo a voi. D’ora in poi la spenderò tutta per voi». Lo fa davvero ed è impossibile raccontarla. Possiamo solo elencare alcuni dati.

Un’attività impressionanteNel 1847, quando già centinaia di ragazzi frequentano l’Oratorio, alcuni

tra loro che non sanno dove andare, perché non hanno casa, cominciano a vivere stabilmente con don Bosco e mamma Margherita. Sono sei alla fine dell’anno, trentacinque nel 1852; centoquindici nel 1854; quattrocentoses-santa nel 1860; seicento nel 1862, fino ad un tetto di ottocento.

Nel 1845 don Bosco fonda la scuola serale, con una media di trecento alunni ogni sera. Nel 1847 fonda un secondo oratorio. Nel 1850 una so-cietà di mutuo soccorso per operai, nel 1853 un laboratorio per calzolai e sarti, nel 1854 un laboratorio di legatoria di libri, nel 1856 un laboratorio di falegnameria, nel 1861 una tipografia, nel 1862 una officina di fabbro ferraio. Intanto nel 1850 è aperto anche un convitto per studenti, con dodici studenti che diventano centoventuno nel 1857. Nel 1862, dunque, l’oratorio conta seicento ragazzi interni e altrettanti esterni. Oltre i sei laboratori, ci sono scuole domenicali, scuole serali, due scuole di musica vocale e strumentale, e 39 salesiani che con don Bosco hanno dato inizio a una congregazione religiosa. Nel frattempo – a seminario diocesano chiuso – egli ha curato anche le vocazioni sacerdotali. Al termine della sua vita (1888), saranno diverse centinaia i preti usciti da Valdocco. Nel frattempo – sempre per i suoi ragazzi – don Bosco è diventato scrittore: scrive una storia sacra ad uso delle scuole, una storia ecclesiastica, una storia d’Italia, molte biografie e opere educative: in tutto una cinquantina di titoli.

Abbiamo seguito don Bosco fino agli inizi degli anni ’60: manca ancora un quarto di secolo alla sua morte. Fino ad allora apre i primi cinque col-legi, fonda una congregazione femminile, costruisce il Santuario di Maria Ausiliatrice e la Chiesa del Sacro Cuore a Roma, fonda 64 case salesiane in sei nazioni, e missioni in America Latina, conta 768 salesiani. Compie

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viaggi apostolici trionfali in Francia e Spagna, paesi in cui tutti vorranno conoscere «l’uomo della fede».

«Pensare e credere, come pensa e crede il Papa»Davanti a don Bosco qualcuno storce il naso perché in politica – in

quella situazione politica – da un lato preferisce astenersi (gli bastava, come diceva, «la politica del Pater noster»); dall’altro fa la scelta, apparentemente facile, di stare col Papa. Egli è attaccato al pontefice «più che il polipo allo scoglio»: «Io sono col Papa, sono cattolico, obbedisco al Papa ciecamente. Se il Papa dicesse ai piemontesi: «venite a Roma», allora io pure direi: «an-date». Se il Papa dice che l’andata dei piemontesi a Roma è un furto, allora io dico lo stesso. Se vogliamo essere cattolici, dobbiamo pensare e credere, come pensa e crede il Papa».

«Diritti ai poveri»Davanti a don Bosco si storce il naso perché egli non contesta l’assetto

sociale del suo tempo e le divisioni in classi, ma aiuta i poveri, restando dentro quel sistema, cioè chiedendo l’elemosina ai ricchi. Egli rifiuta di fare il «prete sociale» e il politico, perché sente che la sua vocazione è l’intervento immediato, l’amore che subito si rimbocca le maniche e si mette al lavoro. «Lasciamo agli altri ordini religiosi più formati di noi – dice – le denunce, l’azione politica. Noi andiamo diritti ai poveri».

Il sistema preventivo dell’educazione della gioventùNel 1877 don Bosco dà alle stampe un libretto rivoluzionario: Il sistema

preventivo dell’educazione della gioventù. La prima prevenzione è la persona stessa dell’educatore: «Ho promesso a Dio che fino l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani. Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo, per voi sono anche disposto a dare la vita». I direttori delle sue case devono stare in mezzo ai ragazzi in tutti i momenti, anche ricreativi: devono essere visibili, percepibili, presenti, familiari. La disciplina non deve essere ottenuta col castigo ma con la persuasione. L’ideale è che non ci siano file ben ordinate, ma l’assembramento intorno all’educatore. L’allegria deve essere la molla naturale che aggancia il soprannaturale: «Devi sapere – spiega il piccolo Domenico Savio a un compagno appena arrivato – che qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri».

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L’imposizione è abolita in un tempo in cui ogni ambiente educativo la confessione e la comunione sono obbligatorie. Don Bosco confessa e comunica tutti i ragazzi, ma nessuno è tenuto a farlo, anzi raccomanda sempre di non annoiarli con gli obblighi, ma solo di incoraggiarli.

D’altra parte, don Bosco è profondamente convinto che senza familiarità con Dio, senza «religione», non è possibile educare. «L’educazione è cosa del cuore e Dio solo ne è il padrone e non potremo riuscire a niente se Dio non ci dà in mano la chiave di questi cuori». E aggiunge: «Soltanto il cattolico può con successo applicare un metodo preventivo». «Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi sappiano di essere amati». Questa è la genialità di don Bosco: non basta amare, bisogna far vedere che si ama, renderlo percepibile: «un amore che si esterna in parole, atti e perfino nella espressione degli occhi e del volto». Questo esige un’ascesi profonda, un coinvolgimento totale e quotidiano.

Nel 1883 va a trovarlo un pretino che diventerà Papa Pio xi, colui che proclamerà «santo» don Bosco. Egli, divenuto ormai Papa, raccontava così quell’incontro: «C’era gente che veniva da tutte le parti, chi con una diffi-coltà, chi con un’altra. Ed egli in piedi come se fosse cosa di un momento, sentiva tutto, afferrava tutto, rispondeva a tutto. Un uomo che era attento a tutto quello che accadeva attorno a lui e nello stesso tempo si sarebbe detto che non badava a niente, che il suo pensiero fosse altrove. Ed era veramente così: era altrove, era con Dio. E aveva la parola esatta per tutti, così da meravigliare. Questa la vita di santità, di assidua preghiera che don Bosco conduceva tra le occupazioni continue e implacabili».

Negli ultimi mesi si trascina a fatica: «Dove andiamo don Bosco?» gli dicono. Risponde: «Andiamo in Paradiso!».

È proclamato santo alla chiusura dell’anno della Redenzione, il giorno di Pasqua del 1934, ed è il primo santo della storia per il quale, il giorno dopo la canonizzazione, anche lo Stato tiene una celebrazione in Campidoglio, con un discorso del Ministro della Pubblica Istruzione.

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I DIECI LEBBROSI

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I DIECI LEBBROSI

MISERICORDIA E GRATITUDINE

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Sa-maria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro

dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi pie-di, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!»146.

PER LEGGERE IL VANGELOAlla fine del nostro cammino, meditiamo su un episodio che

presenta ancora i segni tangibili della misericordia divina. Esso con-tiene una modalità di risposta, quasi a sottolineare che l’incontro tra Dio e l’uomo avviene sempre in contesto di rapporto dialogico, personale, amoroso. Dio tende la mano amica attraverso la persona del suo Figlio, l’uomo deve rispondere. Una giusta risposta è il suo atteggiamento di grata accoglienza del dono.

In genere, il ringraziamento non è spontaneo: quante volte bisogna richiamare un bambino a dire «grazie!», prima che in lui diventi una civile abitudine! E una volta divenuto adulto, non è detto che l’abitudine si conservi. La capacità di ringraziare e, di conseguenza, la virtù della riconoscenza (o gratitudine), è una espressione di affetto, come ricorda un proverbio africano: «La ri-conoscenza è la memoria del cuore». Essa è la capacità di ricordare 146 Luca 17, 11-19.

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e, pertanto, di amare. La connessione tra ricordo e amore diventa evidente con un semplice richiamo etimologico: l’italiano ricordare viene dal latino re-cordari che significa, alla lettera, far ritornare (re) nel cuore (cor). Non è perciò solo un’attività dell’intelligenza, ma anche della volontà e del cuore. Ricordare è pensare con amore.

Il Samaritano del racconto, una volta guarito dalla lebbra, con-serva memoria dell’autore della sua guarigione e torna a ringraziare. Quel grazie è all’origine di un miracolo ancora più sorprendente del primo.

Tutti guariti«Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che

si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Gesù, in cammino verso Gerusalemme attraversa le due regioni della Galilea e della Samaria. Al suo ingresso in un villaggio, dieci lebbrosi lo supplicano di guarirli. Essi si tengono a debita distanza, secondo le rigide prescrizioni del tempo. Queste, più che circoscrivere il male, impedendone il contagio avevano una valenza cultuale: la lebbra, secondo il pensiero religioso ebraico, rende impuri, e colui che ne è colpito, trasmette l’impurità non solo alle persone e agli oggetti che tocca, ma anche alla casa in cui entra. Perciò egli deve vivere segregato, portare vesti strappate e il capo scoperto, coprirsi la barba e gridare: «Impuro! Impuro!»147. I lebbrosi portavano i segni del lutto e, oltre alla pena della malattia, dovevano subire quella della emarginazione: erano abbandonati inesorabilmente al loro destino di morte. Il lebbroso è un conta-minato che contamina, solo Dio può guarirlo con un prodigio che equivale alla risurrezione.

Non è la prima volta che Gesù guarisce la lebbra; un suo prece-dente incontro con un lebbroso aveva provato che egli è Signore e può comandare anche alla malattia: «Lo voglio, sii guarito»148. Cer-147 «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al

labbro superiore, andrà gridando: «Impuro! Impuro!»« (Levitico 13, 45).148 Luca 5, 13.

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tamente i dieci lebbrosi si rivolgono a lui con la speranza di essere guariti ed esprimono il loro desiderio con una preghiera: «Gesù mae-stro, abbi pietà di noi!». È l’invocazione che si eleva dal profondo del cuore di chi ha un impellente bisogno reso pubblico con un grido.

«Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati». Gesù non è sordo al grido di aiuto e risponde con un intervento immediato, appena ha visto i dieci e sentito la loro richiesta.

Il Signore, anziché dire una parola risanatrice, come di solito avviene in situazioni analoghe, o andare incontro agli ammalati superando certi tabù, stranamente comanda loro di recarsi dai sacerdoti. Tra gli uffici sacerdotali c’era pure quello di verificare la presenza o meno della lebbra, e quindi di dichiarare immonda o no la persona149. Era necessario avere il riconoscimento di guarigione per la riammissione dell’ex malato nella comunità. La parola di Gesù potrebbe essere disattesa, e perfino irrisa: non è troppo poco per procurare una guarigione? Invece no, riceve subito credito e i dieci si avviano per recarsi dai sacerdoti. Durante il tragitto avviene il miracolo di guarigione: «furono purificati». Il verbo greco non richiama primariamente l’ambito medico o clinico, bensì quello morale e religioso. La lebbra, infatti, comportava una esclusione che la rendeva molto simile al peccato.

A questo punto, a miracolo avvenuto, ci aspetteremmo la rea-zione osannante degli interessati o della folla, come avviene spesso a conclusione di racconti analoghi perché, ancora una volta, la mi-sericordia di Gesù si è concretizzata in modo potente. L’obiettivo, invece, si sposta, dal gruppo in quanto tale, a un individuo. Su di 149 «Se la lebbra si propaga sulla pelle in modo da coprire tutta la pelle di colui che ha

la piaga, dal capo ai piedi, dovunque il sacerdote guardi, questi lo esaminerà e, se vedrà che la lebbra copre tutto il corpo, dichiarerà puro l’individuo affetto dal mor-bo: essendo tutto bianco, è puro. Ma quando apparirà in lui carne viva, allora sarà impuro. Il sacerdote, vista la carne viva, lo dichiarerà impuro: la carne viva è impura; è lebbra. Ma se la carne viva ridiventa bianca, egli vada dal sacerdote e il sacerdote lo esaminerà: se vedrà che la piaga è ridiventata bianca, il sacerdote dichiarerà puro colui che ha la piaga; è puro» (Levitico 13, 12-17).

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lui si accendono i riflettori dell’interesse, imprimendo al miracolo un elemento di novità.

Un solo salvato«Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a

gran voce». Il cammino verso i sacerdoti subisce un arresto. Sa-rebbe logico pensare a una corsa per ottenere il certificato medico di sanità che permette il ritorno al consorzio degli uomini, la fine della segregazione e dell’umiliazione. Il gruppo segue questa linea logica. Tutti e dieci hanno obbedito prontamente al comando di Gesù, hanno superato la prova della fede. Solo uno è in grado di superare la prova della gratitudine, ben più difficile. Egli, in cam-mino con gli altri, interrompe la corsa e inverte la marcia. La sua guarigione non lo porta a pensare al dopo, ma al prima; non a che cosa può succedere a lui, ora che è come gli altri, ma a chi gli ha permesso di diventare come gli altri. Insomma, non pensa a sé, ma a Gesù che con la sua parola lo ha risanato. Egli ricorda (fa passare dal cuore), e da qui nasce la sua riconoscenza. La voce che prima gridava per invocare e ottenere l’intervento di Gesù, è ora impiegata per lodare Dio. La glorificazione di Dio, risposta abituale in Luca davanti al miracolo150, attesta da parte del miracolato la sua percezione dell’intervento divino nella persona di Gesù.

«Si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano». Gettarsi ai piedi di Gesù è un gesto che prepara la parola di ringraziamento. Solo ora Luca dà l’identità di quell’uomo che si è distinto dal gruppo. «Era un Samaritano». La precisazione, tenuta in serbo fino alla fine quasi a creare suspense, diventa una voluta provocazione: significa che gli altri non erano Samaritani, ma Giudei. Luca ama rappresentare con simpatia gli odiati Sa-maritani, pur conoscendone anche i limiti, che, all’occorrenza, non tace: «i Samaritani non vollero riceverlo perché era diretto a Gerusalemme»151. Infatti, era successo che alcuni discepoli, mandati 150 Luca 5, 25-26; 7, 16; 13, 13.151 Luca 9, 52.

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in avanscoperta in un villaggio Samaritano per fare i preparativi, incontrassero un secco rifiuto. L’episodio resta poco più di una parentesi, perché subito dopo il gruppo Samaritano si riscatta con la stupenda parabola del buon Samaritano, che Gesù addita come esempio perfino a un dottore della Legge! E ora, non più una para-bola, ma una vicenda storica mostra la squisita finezza spirituale di un Samaritano, capace di ringraziare. Prima che il grazie fiorisca sulle labbra, esso attecchisce nel cuore.

«Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono?». La reazione di Gesù è un misto di disappunto e di approvazione. Il disappunto nasce dall’amara constatazione che la maggioranza è stata ingrata. Si badi bene che Gesù non richiede un grazie per sé, ma un atto di lode a Dio, il riconoscimento che Dio è all’opera nella sua persona. Rendere gloria a Dio è il modo semitico di esprimere il proprio grazie, tanto più se teniamo conto che la lingua ebraica non ha un vocabolario specifico per esprimere il ringraziamento e la riconoscenza, e per questo utilizza l’espressione della lode a Dio. Gesù deve constatare amaramente che nessuno è tornato all’infuori di questo «straniero».

«Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». Di salvezza si parla nel versetto conclusivo. Il ritorno dona al Samaritano la salvezza spi-rituale, dopo quella corporale, una salvezza integrale che richiama quella del paralitico152. «Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato!». Sono le parole della nuova nascita, del rinnovamento del cuore, grazie al miracolo dell’amore che si chiama perdono. La salvezza, anche se offerta a tutti, diventa efficace solo quando è accettata dalla fede che consiste nell’accorgersi del dono e nel rivolgere il cuore al donatore. Il miracolo, più che per il benessere che produce, vale per la trasformazione dei sentimenti e per il cambiamento morale a cui dà origine: dieci sono stati guariti, ma uno solo salvato. Ancora una volta un Samaritano è proposto a modello. Il senti-mento della gratitudine ha appianato la strada e gli ha meritato 152 Luca 5, 17-26.

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di ricevere in dono la salvezza. Così dalla misericordia iniziale di Gesù che compie il miracolo si passa alla gratitudine che genera una misericordia ancora più grande: il dono della salvezza integrale dell’uomo, guarito nel corpo dalla lebbra e nell’anima dal peccato.

PER LEGGERE IL VANGELO

Dalla misericordia alla gratitudineLa misericordia ricevuta ci porta alla gratitudine, che è il sen-

timento di chi riconosce di essere debitore e non ha la pretesa di estinguere il debito con una parola, né con una manciata di denaro. La gratitudine è una restituzione che continua, un contraccambiare, senza la pretesa di raggiungere il pareggio. È accettare, gioiosamente, che la vita sia legata a un Altro e a tanti altri. Perciò, tra le poche parole veramente necessarie che devono sempre fiorire sulle nostre labbra, si deve annoverare un maiuscolo Grazie a Dio e agli uomini.

Ricordava papa Francesco che «sembra facile pronunciare que-sta parola, ma sappiamo che non è così... Però è importante! La insegniamo ai bambini, ma poi la dimentichiamo! La gratitudine è un sentimento importante! Un’anziana, una volta, mi diceva a Buenos Aires: “La gratitudine è un fiore che cresce in terra nobi-le”. È necessaria la nobiltà dell’anima perché cresca questo fiore. Ricordate il Vangelo di Luca? Gesù guarisce dieci malati di lebbra e poi solo uno torna indietro a dire grazie a Gesù. E il Signore dice: “E gli altri nove dove sono?”. Questo vale anche per noi: sappia-mo ringraziare?»153. «La gratitudine per un credente, è nel cuore stesso della fede: un cristiano che non sa ringraziare è uno che ha dimenticato la lingua di Dio»154.

Guardiamo allora alcuni ambiti in cui dobbiamo imparare ad esercitare la gratitudine.

153 FranCesCo, Incontro con i fidanzati, 14 febbraio 2014.154 FranCesCo, Udienza generale, 13 maggio 2015.

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Imparare a dire grazie a Dio nella preghieraCosì Padre Andrea Gasparino introduce il capitolo sulla pre-

ghiera di ringraziamento, nella sua scuola di preghiera.«Gesù ha denunciato l’uomo che non ringrazia. Nel Vangelo di

Luca quando vide che dei dieci leb brosi guariti ne era tornato uno solo a dire grazie, escla mò: “Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri no ve dove sono?”.

“E gli altri nove dove sono?”. È pesante questa de nuncia di Cristo. La percentuale di chi pensa e ringra zia sarà sempre così ridotta? L’uomo è proprio ingua ribile nel suo egoismo? Abbiamo addosso la lebbra dell’ingratitudine. Il Signore aspetta il nostro ringraziamento come lo gica dei fatti; se abbiamo ricevuto da Dio è logico che lo riconosciamo, se lo riconosciamo è logico che ci apria mo alla gratitudine. Il Signore non ha dato ai nove leb brosi guariti un ordine, ma si attendeva che i nove gua riti dessero un ordine a se stessi. La gratitudine è la logica dell’intelligenza e del cuo re retto. Chi capisce e ha il cuore retto non può fare a meno di ringraziare. Per questo non esiste un comando specifico per il ringraziamento, perché il comandamento deve partire dall’uomo; avrebbe senso la riconoscenza imposta?

“E gli altri nove dove sono?”. In quei nove ci sia mo tutti, perché sono innumerevoli le nostre negligen ze verso la bontà di Dio. Purtroppo in quei nove sia mo presenti tutti, perché tutti siamo colpevoli di ingra titudine a Dio. L’uomo non riuscirà mai a stare al pas so coi doni di Dio. I benefici di Dio sono più numerosi dell’arena del mare, sono innumerevoli come le gocce d’acqua dell’oceano. Ma l’uomo deve almeno aprirsi al problema! Non lo risolverà, ma deve almeno capire che c’è!

“E gli altri nove dove sono?”. La denuncia amara di Cristo deve spingermi a rappresentare gli assenti. Quando avremo capito e saremo guariti dalla lebbra dell’ingratitudine, dovremo presen-tarci a Dio anche per i nostri fratelli che non capiranno mai e rappresentar li: Signore, perdonali, perché non sanno quello che

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fanno; io sono qui a ringraziare anche per loro, dam mi la capacità di poterli rappresentare sostituendomi ad essi...»155.

Imparare a dire grazie in famigliaPapa Francesco più volte è tornato a ribadire la necessità della

gratitudine all’interno delle famiglie, tanto da farne uno dei suoi cavalli di battaglia: «Certe volte viene da pensare che stiamo di-ventando una civiltà delle cattive maniere e delle cattive parole, come se fossero un segno di emancipazione. Le sentiamo dire tante volte anche pubblicamente. La gentilezza e la capacità di ringraziare vengono viste come un segno di debolezza, a volte suscitano addirittura diffidenza. Questa tendenza va contrastata nel grembo stesso della famiglia. Dobbiamo diventare intransigenti sull’educazione alla gratitudine, alla riconoscenza: la dignità della persona e la giustizia sociale passano entrambe da qui. Se la vita famigliare trascura questo stile, anche la vita sociale lo perderà»156. E parlando ai fidanzati ha detto: «Nella vostra relazione, e domani nella vita matrimoniale, è importante tenere viva la coscienza che l’altra persona è un dono di Dio, e ai doni di Dio si dice grazie! E in questo atteggiamento interiore dirsi grazie a vicenda, per ogni cosa. Non è una parola gentile da usare con gli estranei, per essere educati. Bisogna sapersi dire grazie, per andare avanti bene insieme nella vita matrimoniale»157.

Imparare a vivere la Messa come un’eucaristia Se la nostra vuole essere una comunità eucaristica, dobbiamo

allora diventare più eucaristici (eucaristia = rendimento di grazie). Questa dimensione deve essere vissuta come uno stile di vita facendo nostra l’esortazione dell’Apostolo: «In ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di

155 anDrea GasParino, Maestro, insegnaci a pregare, ElleDiCi, Leumann (Torino) 1999, 45-46.

156 FranCesCo, Udienza generale, 13 maggio 2015.157 FranCesCo, Incontro con i fidanzati, 14 febbraio 2014.

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voi»158. Ciò vale in modo particolare per le nostre celebrazioni eu-caristiche che per definizione sono rendimento di grazie al Signore. Esse devono diventare il luogo privilegiato per esprimere la nostra gratitudine a Dio. L’eucaristia mi porta a questo attraverso i riti e le preghiere, in particolare con la grande preghiera eucaristica che partendo dall’invito a elevare i cuori e rendere grazie al Signore nostro Dio, culmina con la grande acclamazione di lode al Padre «per Cristo, con Cristo e in Cristo».

Scrive padre Andrea Gasparino: «Ringraziare è aprire gli occhi su un dono ricevu to, è aprirci alla riconoscenza [...] [è] accorgerci dell’amore d’una persona per noi. La morte di Cristo non è il più grande segno d’a more di Cristo e del Padre per noi? [...] Chi rin-grazia con l’Eucaristia si impegna a unirsi così totalmente a Cristo da fondere la sua vita con lui, si impegna cioè ad affrontare la vita con la mente di Cristo, col cuore di Cristo!»159. Dobbiamo perciò crescere nel dare alle nostre celebrazioni eucaristiche questa di-mensione di gratitudine unendo alla rinnovata offerta della nostra vita il ringraziamento per l’opera della nostra salvezza.

Dalla gratitudine alla lodeNon va trascurata, infine, la dimensione del ringraziamento

nell’ambito della preghiera carismatica. Abbiamo ascoltato che per il popolo ebraico la lode rappresenta il modo di ringraziare Dio perché con la lode si esalta la maestà di Dio e si riconosce che tutto viene da lui, datore di ogni dono. In questa ottica la lode e il ringraziamento rappresentano un’attività privilegiata all’interno della nostra Comunità, specie nelle preghiere comunitarie.

Anche Giovanni Paolo ii ci ha ricordato la bellezza della preghiera di lode e come questo sia un carisma che il Rinnovamento cari-smatico non deve mai abbandonare: «In modo speciale continuate ad amare e far amare la preghiera di lode, forma di orazione che 158 1Tessalonicesi 5, 18.159 anDrea GasParino, La Messa, cena del Signore, ElleDiCi, Leumann (Torino) 1999,

passim.

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più immediatamente riconosce che Dio è: lo canta per se stesso, gli rende gloria perché Egli è prima ancora che per ciò che fa»160 .

Eppure frequentemente nelle nostre assemblee vediamo una crescente difficoltà a lodare e ringraziare il Signore, perché si tende a spostare l’attenzione verso noi stessi e i nostri problemi, quasi che il Signore non li conoscesse già. Viviamo, dunque, la lode e il ringraziamento come atteggiamento costante nella nostra preghie-ra comunitaria, perché è partendo da questo che il Signore apre i cuori ad un ascolto più profondo della sua Parola e a manifestazioni della sua potenza.

160 Giovanni Paolo ii, Udienza alla delegazione del Rinnovamento nello Spirito Santo, 14 marzo 2002.

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APPUNTI DELLA CATECHESI:

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IL PROPOSITO:

LA REVISIONE DI VITA:

LA PREGHIERA Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa? Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?LA PAROLA DI DIO Come mi ha parlato Dio in questo tempo? Come ho accolto la sua Parola?I RAPPORTI CON GLI ALTRI Come ho esercitato la carità nella famiglia, nella Comunità? Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di costruzione dell’amore?I NOSTRI DOVERI Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...? Sono stato fedele agli impegni comunitari? Come ho vissuto le promesse di po-vertà e di servizio?IL MIO IMPEGNO DI CONVERSIONE Come l’ho vissuto?

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LA COMPASSIONE DI GESÙ

LA COMPASSIONE E LA MISSIONE

Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore,

tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovan-ni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi»161.

Qualche considerazione per leggere il testo✴ Pietro è stato chiamato tra i primi, ha potuto restare vicino al Signore

nei momenti più importanti, ha potuto assistere da vicino ai suoi miracoli più grandi, è salito con lui sul monte della Trasfigurazione. Il Maestro gli ha assegnato un ruolo di rilievo nella comunità dei Do-dici e più volte è stato istruito a parte, con una cura speciale. Pietro ha ricevuto illuminazioni dallo Spirito, ha ricevuto la promessa delle chiavi del regno dei cieli, ha potuto camminare sulle acque... Non si può certo dire che Gesù si sia risparmiato nel prendersi cura di lui. Ma come ha saputo rispondere Pietro a tutta questa premura? Ha osato rimproverare Gesù pubblicamente di fronte all’annuncio della passione, è rimasto ottusamente chiuso di fronte ai progetti del Maestro, ha fatto grandiose promesse senza mai mantenerne una, è fuggito dal Getsemani dopo aver reagito malamente usando la spada contro uno dei servitori, ha rinnegato vergognosamente il Maestro, non ha saputo usare della sua autorità quando – forse – si sarebbe ancora potuto far

161 Giovanni 21, 15-19.

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La compassione di Gesù

qualcosa per Gesù che subiva il processo finale. Ma, di fronte a un quadro così desolante, si rivela in maniera inaspettata tutta la forza della compassione di Gesù.

✴ «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Innanzitutto Gesù restitu-isce fiducia a Pietro che si vede riportato alla stima di sé, alla capacità di essere di nuovo qualcuno. E la cosa sorprendente è che Gesù fa tutto questo non con un interrogatorio sui fatti, ma con un interrogatorio sull’amore: non gli chiede se ha capito la lezione, se è diventato più forte, più astuto, più prudente, più santo, ma gli chiede soltanto se ha imparato ad amare. Quando Gesù chiede a Pietro: «Mi vuoi bene?», Pietro pensa: «Ma questa è la domanda che avevo in mente io per lui. Avrei voluto chiedergli: “Dopo quello che è successo, mi vuoi ancora bene?”». L’apostolo resta completamente spiazzato da questa doman-da. Gesù gli dice: «Io desidero la tua amicizia, la tua comunione con me». È come se gli dicesse: «Io non posso smettere di amarti, ma non posso obbligarti a seguirmi. Cosa desideri fare, cosa decidi di fare? Mi vuoi ancora bene?». Il Signore, come un mendicante, domanda amicizia a colui che se ne è dimostrato incapace. Sembra quasi che sia stato lui, il Signore, a rinnegare e a tradire, a fuggire lontano, a sciupare le mille occasioni di bene.

✴ «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Di fronte a una domanda così, anche la durezza di Pietro si scioglie, e trova la risposta giusta, quando finalmente riesce a dire: «Tu lo sai, tu sai tutto». Non prova a dire: «Forse sì, forse sono cresciuto, sono maturato, non farò più quello che ho fatto». Semplicemente, si arrende a questo amore invincibile. Capisce che con tutta la sua pochezza, la sua fragilità, la sua testardaggine, perfino la sua cattiva volontà, non riuscirà mai a vincerlo. Capisce che la sua conversione e la sua stessa missione non potranno essere altro che una resa alla bontà del Signore.

✴ «Pasci le mie pecore». Allora questo comando significherà aiutare gli uomini a convertirsi all’immagine di un Dio che è «pietà e tenerezza», a incontrare un Dio mendicante che tende la mano in cerca di amicizia e di amore, che desidera soltanto che tu impari a voler bene e a lasciarti voler bene. Significherà aiutare a incontrare la compassione di Gesù, così come Pietro stesso l’ha incontrata.

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La compassione di Gesù

✴ «Seguimi». Non ci poteva essere commiato migliore. È soltanto ora che Pietro può cominciare davvero a seguire Gesù: dopo aver attraversato l’amarezza del peccato, dopo aver tradito, dopo aver visto franare tutte le illusioni che si era fatto su di sé. E dopo essere stato confermato, dopo aver ritrovato la fiducia attraverso la domanda sull’amore. Fi-nalmente Pietro è pronto a partire. Ma partire significherà riscoprirsi discepolo, rinunciare a mettersi davanti al Signore, seguire i suoi passi, dovunque essi conducano.

Spunti per vivere la compassione✴ Dal momento che c’è nella mia esistenza questo punto fermo che è

l’amore di Gesù per me, in che modo decido di vivere? Questa è una domanda molto diversa da quella che spesso mi faccio, che suona più in questo modo: «Che cosa devo fare per conquistarmi l’amore di Gesù?». Non devo fare nulla per conquistarmelo: c’è già. Ma quando scopro che c’è, che non è mai venuto meno, che cosa decido di fare della mia vita?

✴ Non è sempre semplice lasciarsi amare. È difficile stare di fronte a que-sto sguardo di implacabile misericordia, di perdono assoluto, di attesa infinitamente paziente. Ma il Signore non vuole usare altri mezzi per raggiungerci. E proprio perché amato e accolto dalla compassione del Signore io posso essere annunciatore della sua compassione.

✴ Ho bisogno di gesti, di sguardi, di un altro che mi voglia bene davvero, di perdono, di pace, del senso della sproporzione tra la mia chiamata e le mie capacità. Ho bisogno di sentirmi accolto dal Crocifisso che muore per me e restituito alla vita dal Risorto che mi chiama a seguirlo. Ho bisogno di qualcuno che guarisca le mie ferite, di infiniti legami d’amo-re... Ho bisogno di tutto, insomma. Forse sono abbastanza povero per incominciare.

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CI HANNO LASCIATO UN ESEMPIO

DAMIANO DE VEUSTER «Mi sono fatto lebbroso tra i lebbrosi

per conquistarli tutti a Cristo»

Damiano de Veuster nasce nel 1840. Ancora non si ha una conoscenza accurata, dal punto di vista medico, della lebbra; è un male che non si

può curare e non se ne conoscono le vie di trasmissione. Dal 1850 la malattia comincia a diffondersi in maniera rapida e terrificante nell’arcipelago delle Hawaii, dopo un secolo di altre epidemie. Da duecentocinquantamila abi-tanti la popolazione è scesa a cinquantamila. Gli indigeni considerano tutte quelle sventure come una maledizione portata dagli stranieri; gli stranieri incolpano di tutto i nativi, noti per l’ostentata promiscuità sessuale. Come arginare l’epidemia? I collaboratori occidentali della casa regnante premono per un’assoluta e rigida segregazione di tutti i malati e dei casi sospetti; i nativi, invece, considerano i legami familiari e di sangue più importanti della stessa malattia. Così scienziati, politici e autorità religiose (quelle calviniste) predicano la segregazione come un alto dovere morale. Gli insegnamenti dell’Antico Testamento, al riguardo, vengono ripresi alla lettera: la lebbra è una maledizione divina, e come tale va trattata.

MolokaiViene dunque realizzato l’insediamento di Kalawao, nell’isola di Mo-

lokai, scelta proprio perché inaccessibile. A partire dal 1866, ogni mese,

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Ci hanno lasciato un esempio

da Honolulu, la capitale, parte una nave carica di lebbrosi requisiti a forza. «Lo spettacolo è terribile: i parenti e gli amici degli infelici lebbrosi non possono separarsi dagli amati partenti. Senza il minimo timore di contrarre la lebbra, essi se li tengono fortemente stretti tra le braccia e li ricoprono di interminabili baci. E ogni volta che uno degli esiliati si allontana dalla folla per andare a prendere posto nell’imbarcazione... è un’improvvisa esplosione di grida di disperazione, lamenti e gemiti».

La polizia preleva a forza uomini e donne sospetti di lebbra e li invia a Molokai, ma tutto avviene tra la ribellione dei parenti: i malati vengono occultati; i nuclei familiari fuggono nei villaggi più sperduti; alla polizia ci si oppone anche con le armi. Non è infrequente il caso di amici e parenti che si fingono malati per accompagnare i loro cari. Si giunge a permettere a qualche congiunto di partire coi malati.

La colonia dei lebbrosi viene aperta nel 1865. Fino al 1873 – quando giunge padre Damiano – nessun bianco vi ha mai soggiornato. Gli hawa-iani sospettano che ai bianchi interessi piuttosto il loro sterminio e che le loro cure e le loro medicine siano un inganno. A Molokai si vedono i malati versare per terra, ridendo, i flaconi di medicinali: non possono essere veramente interessati a loro quei bianchi che fuggono via pieni di orrore al solo vederli! Ogni lebbroso custodisce con cura soprattutto due oggetti: uno specchio in cui spiare giorno per giorno i progressi del male sul proprio viso, e un coltello di legno per pareggiare le punte delle dita, man mano che diventano insensibili.

Alla rovina fisica, si aggiungono quella psicologica e morale. Il governo ha previsto che la colonia diventi autosufficiente col lavoro della terra e la pastorizia, ma i lebbrosi non se ne curano affatto. Li hanno imprigio-nati? Che almeno li mantengano! Ma nulla è stato predisposto per loro: abitazioni, ospedali, dispensari, uffici amministrativi, chiese, cimiteri.

L’unico biancoQuando Padre Damiano de Veuster, trentatreenne religioso della Con-

gregazione dei Sacri Cuori, vi giunge nel 1873, vi sono già stati portati a forza 797 lebbrosi, dei quali più di trecento sono deceduti. Ma in quel solo anno ne vengono trasferiti sull’isola più di quanti ne erano stati portati in tutto il periodo precedente. Al momento del suo arrivo ci sono seicento malati. È l’unico bianco. Giunge solo col breviario e un piccolo crocifisso.

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TAPPA

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Le prime settimane vive all’aperto, dormendo sotto un albero e man-giando su una roccia, sceglie subito di immergersi volontariamente in quel mondo in putrefazione. Ciò che più lo sconvolge è il fetore persistente che, quando i malati gli si stringono attorno, lo prende alla gola; ed egli lo percepisce come una specie di bruciore. Dopo qualche settimana dall’arrivo scrive ai confratelli: «Tutta la mia ripugnanza verso i lebbrosi è scomparsa». Non è così vero, ma il rifiuto di ammettere quella ripugnanza anche a se stesso è il metodo scelto per donarsi senza riserve. Capisce subito che i malati non lo accetterebbero se egli cominciasse a preservarsi, a usare precauzioni, a evitare i contatti. Fin dalla prima predica, invece di rivolgersi loro col tradizionale «fratelli miei», dice semplicemente: «noi lebbrosi».

Non si preoccupa di poter essere contagiato. Dice «d’aver affidato la questione a Nostro Signore, alla Vergine Santa e a san Giuseppe». È difficile per un prete «rifiutarsi di toccare», quando bisogna deporre l’ostia consacrata su lingue rose dal male, o ungere con l’olio santo mani e piedi cancrenosi, o curare le piaghe. Egli non agisce così solo per rispettare la sensibilità dei malati, vuole rispettare «la sensibilità della Chiesa». Essa è «corpo di Cristo»; tutti i suoi sacramenti e le sue opere sono segni di un «contatto fisico», salvifico, tra l’Umanità di Cristo e la nostra sofferente umanità. Perciò a tavola mangia intingendo le mani, assieme ai lebbrosi, nel piatto comune; beve nelle tazze che gli offrono; passa la sua pipa se gliela chiedono; gioca coi bambini che gli si gettano addosso a grappoli.

Preparare alla morte per vivereAlla fine del suo secondo anno di permanenza scrive: «Con le lacrime

agli occhi semino la Buona Novella tra i miei poveri lebbrosi, e dalla mattina alla sera sono immerso in una miseria fisica e morale che spezza il cuore, ma cerco di sembrare sempre allegro, per stimolare il coraggio nei miei pazienti; presento loro la morte come la fine dei loro mali, se si convertono sinceramente. Molti vedono arrivare la loro ultima ora con rassegnazione, altri con gioia e, durante quest’anno, ne ho visti un centinaio morire in ottime disposizioni di cuore». La preparazione alla morte diventa il senso della sua missione e del suo apostolato. Non c’è altro da fare; impossibili e inutili le cure, certa la morte. L’ovvio iter pedagogico, «insegnare a ben vivere per insegnare a ben morire» a Molokai non è più possibile. Bisogna capovolgere l’itinerario: insegnare a morire bene, perché possa acquistare senso e dignità (e perfino «gioia»), quella parvenza di vita che ancora resta.

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Ci hanno lasciato un esempio

Se in tutto il resto del mondo la morte è l’ultimo atto del dramma dell’esistenza, a Molokai la morte è l’atto continuamente rappresentato. Padre Damiano sa che quella morte lo riguarda: egli non è e non vuole essere uno spettatore; comincia, dunque, a «celebrare la morte», nel senso di darle dignità umana. Se si pensa che, al suo arrivo, i cadaveri venivano abbandonati all’aperto e dati in pasto ai maiali, si può comprendere la dignità di chi si mette a costruire un cimitero. «Uno steccato bianco, una grande croce, terra consacrata... ». Il senso di dignità emerso grazie a questo sem-plice fatto (nessuno vuol più morire come una bestia) suscita un’incredibile polemica da parte dei protestanti hawaiani contro quella iniziativa che, a loro dire, permette a padre Damiano di aumentare il numero dei convertiti. Non è «un cimitero per soli cattolici», ma è chiaro che tutti finiscono per affidare anche l’anima a colui che con tanta tenerezza si cura dei loro corpi.

Damiano fonda la Confraternita dei funerali, che prepara le bare di legno, e accompagna, pregando, il defunto al cimitero, al suono della musica e al ritmo dei tamburi. Le vesti dei membri della confraternita sono partico-larmente dignitose. Padre Damiano ha scelto per sé, nel cimitero, il posto vicino alla grande croce. Scrive in una lettera: «Mi piace andare lì a dire il Rosario, a meditare sulla felicità eterna che molti di loro già godono, sulla infelicità eterna di alcuni che in nulla vollero obbedire... Ti giuro, fratello mio, che il cimitero e il letto dei moribondi sono i più bei libri di meditazione che ho, sia per nutrire il mio corpo che per preparare la catechesi». Dopo sette anni di permanenza a Molokai, tutti i lebbrosi che ha conosciuto al suo arrivo, sono morti e la colonia si è interamente ripopolata.

Aiutare a vivereDopo la liturgia della morte, viene quella dei Sacramenti che ancorano

alla vita. La festa più grande nell’isola diviene quella del Corpus Domini. Padre Damiano ha perfino introdotto la pratica dell’adorazione perpetua. Ciò che massimamente commuove, durante le cerimonie sacre, è il coro. Gli hawaiani hanno una spiccata sensibilità per la musica; ma è cosa unica al mondo vedere eseguire una Messa di Mozart, anche se il pianista deve suonare con un pezzo di legno attaccato alla mano, anche se il coro deve spesso cambiare i cantori quando la malattia arriva alla gola. C’è poi la Confraternita della sant’infanzia, per i bambini abbandonati; quella di san Giuseppe, per le visite ai malati a domicilio; quella della Madonna, per l’educazione delle ragazze.

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Damiano costruisce chiese, cappelle, un porticciolo, realizza la strada di collegamento tra il porto e il villaggio, due acquedotti e i relativi serbatoi d’acqua, una serie di magazzini, uno spaccio, un edificio di raccolta per i nuovi arrivati, due dispensari, due orfanotrofi, un centro di formazione per ragazze; e inizia la costruzione di un ospedale. Queste sono le sue occupazioni nel tempo libero dalla cura dei malati... Ripete: «Mi sono fatto lebbroso tra i lebbrosi per conquistarli tutti a Cristo».

Quando la Commissione Ministeriale di Igiene gli offre la carica di Sovrintendente di Molokai, con una paga annua di diecimila dollari ri-sponde: «Se accettassi una paga per il mio lavoro, mia madre non mi riconoscerebbe più per suo figlio».

Fin dagli inizi ha domandato ai superiori un confratello, soprattutto per confessarsi. Non lo vogliono ascoltare. Le leggi sono ferree: chi entra a Molokai non ne deve più uscire. Una volta impediscono di sbarcare a un confratello che si è recato a fargli visita, e padre Damiano – giunto vicino alla nave con una barchetta – si confessa gridandogli i peccati da lontano. Qualche altro più intraprendente trasgredisce gli ordini e va a trovarlo. Infine i superiori gli mandano un aiuto, un confratello che però gli rende la vita ancora più amara: non è d’accordo con lui su nulla. Ne scrive ai superiori, ma riceve critiche. Il Provinciale fa pressione sul ve-scovo e questi scrive a padre Damiano di smetterla di «fare tanta poesia sui lebbrosi... ». Egli risponde: «Dagli stranieri oro e incenso, dai superiori la mirra». Il vescovo si offende: «Dopo l’oro e l’incenso, la mirra non è stata di vostro gradimento e me l’avete gettata in faccia...». Il Provinciale scrive a Roma che padre Damiano s’è montato la testa, si è «intossicato di lodi» e sta diventando «pericoloso». Padre Damiano, invece, da qualche anno, è diventato soltanto lebbroso.

LebbrosoSe ne è accorto per caso, una sera che ha immerso i piedi in una baci-

nella d’acqua calda; ha visto immediatamente arrossarsi la pelle e formarsi delle vesciche. Stupito ha toccato l’acqua con la mano: era bollente e non se n’era accorto! Ha perso la sensibilità agli arti inferiori e capisce così inequivocabilmente d’aver contratto la lebbra. Scrive ai superiori: «Non avendo alcun dubbio sul vero carattere della mia malattia, io resto calmo, rassegnato e felicissimo in mezzo al mio popolo. Il Buon Dio sa bene ciò che vi è di meglio per la mia santificazione, e ogni volta ripeto con tutto

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il cuore: Sia fatta la tua volontà!». Gli risponde il Provinciale: «Vi sono due luoghi dove potete andare: alla Missione o all’ospedale. Alla missione voi sarete rinchiuso in una camera che non potrete abbandonare fino alla vostra partenza [...] Se invece volete andare all’ospedale, voi andrete nella cappella dei lebbrosi senza potervi celebrare la Messa, perché né padre Clemente né io consentiremmo di celebrare la Messa con lo stesso calice e con gli stessi paramenti usati da voi».

Si reca all’ospedale di Honolulu, per confessarsi col vescovo che, dopo averlo ascoltato, – contagio o non contagio – l’abbraccia piangendo, convinto d’aver ascoltato un santo. All’Ospedale viene personalmente il Re delle Hawaii a ringraziarlo di tutto quello che egli fa per i suoi sudditi lebbrosi. Ma a Damiano resta in cuore la pena profonda di quelle incom-prensioni. Scrive nel diario: «Prega per ottenere lo spirito di umiltà, in modo da desiderare il disprezzo. Se vieni schernito, devi gioirne. Non lasciamoci incantare dalle lodi degli uomini, non siamo soddisfatti di noi stessi, siamo grati a chi ci causa dolore o ci tratta con disprezzo e pre-ghiamo Dio per loro. Per fare questo c’è bisogno, oltre che della grazia, di una grande abnegazione e di una costante mortificazione, grazie alla quale veniamo trasformati in Cristo Crocifisso».

Qualche mese prima di morire, lo colpisce la triste notizia che stanno tentando di infangare lui e la sua missione. Alcuni protestanti – gelosi della fama del prete cattolico – hanno approfittato della teoria che attribuisce il contagio alla promiscuità sessuale. Se padre Damiano si è ammalato di lebbra, è una prova chiara che il suo comportamento nell’isola non è stato irreprensibile. Ne ha il cuore spezzato e tuttavia trova la forza di scrivere: «Io procuro di salire molto dolcemente la via della Croce, e spero di trovarmi presto alla sommità del mio Golgota».

Al termine della Quaresima del 1889, padre Damiano s’accorge che la fine è ormai prossima. È contento di andare a celebrare la Pasqua in cielo. Quando muore, il lunedì santo, ha quarantanove anni, e ne ha passati sedici tra i suoi lebbrosi.

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ACCORDO FINALE

LADRONI GRAZIATI

Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava

dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso»162.

L’immagine dei due ladroni è ormai parte integrante dell’icona cristiana del Crocifisso. Tutti e quattro gli evangelisti ne ricordano

162 Luca 23,39-43.

Accordo finale218

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la presenza, e la tradizione ha sempre dato un grande rilievo a questo fatto, giungendo perfino ad attribuire un nome a ciascuno dei malfattori. Gesù, il benefattore, è annoverato fra i malfatto ri, è assimilato ai pec catori che lui aveva amato in modo preferenziale. Questa icona evangelica è l’emblema stesso della misericordia.

La gente che passa di là, probabilmente non distingue nemmeno Gesù dagli altri due. Si ferma un attimo e magari pensa: «Finalmente ne hanno presi tre, meno male che ogni tanto ne prendono qual-cuno». Soltanto Luca, però, parla di un ladrone pentito, o di un buon ladrone, come viene normalmente chiamato nella tradizione cristiana; anche se buono, a rigor di termini non lo era affatto. Lui stesso dice di sé che sta ricevendo il giusto per le sue azioni. E non è certo facendo appello all’integrità della propria fede o della propria morale che strappa al Signore la promessa del paradiso.

Gesù invoca il perdono per gli uomini suoi crocifissori. Condan-nato, giudicato, disprezzato, crocifisso, non solo non maledi ce, ma invoca il perdono, mettendo in atto, lui per primo e in modo straordinario, l’amore misericordioso per i suoi nemici. Gesù vede ignoranza e debolezza dove noi vediamo cattiveria.

Solo un anonimo ladrone, colpito dalle parole di perdono di Gesù e dal suo regale comportamento, apre il cuore al suo mistero d’amore. Ricono scendo l’Amore crocifisso che perdona, riconosce il proprio peccato: «Noi abbiamo fatto male, lui no; la croce di Gesù è ingiusta perché lui ha vissuto facen do solo del bene; lui, innocente, è qui con noi che sia mo malfattori!». E poi, sempre guidato da questo Amore, rivolge a Gesù la sua semplice e accorata pre ghiera: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».

Il ladrone è l’unico che chiama amichevolmente Gesù per nome, senza aggiungere altro. Gesù signifi ca Dio salva. Non usa nessun altro titolo per ottenere la sua misericordia, lo chiama con il nome più familiare, quello di battesimo, diremmo noi. Questo è l’ultimo furto della vita del ladrone, quello che gli è venuto meglio: ha aperto la porta del Regno dei cieli, e il grimaldello per far saltare

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la serratura è stata l’invocazione del nome, dell’unico che ti può dare salvezza.

Il ladrone chiede di essere ricordato, non dice: «Ricordati del bene che ho fatto, delle mie opere, dei miei sacrifici, delle mie of-ferte»; non dice: «Ricordati che ne abbiamo passate tante insieme, abbiamo mangiato e bevuto insieme, abbiamo studiato insieme, siamo parenti...». Non dice nulla di tutto questo per il semplice fatto che non può vantare nulla nei riguardi di Gesù, né una storia di amicizia o di complicità che possa giustificare in extremis uno strappo alla regola, un favore contro le leggi, né una presunta giustizia o una bontà d’animo e di comportamento che possa rivendicare un premio meritato.

«Ricordati di me» significa: «Ricordati di chi sono, dei miei pec-cati, del fallimento che è stata la mia vita, degli errori che l’hanno fatta finire male, delle occasioni di bene che ho perduto, della mia fragilità. Tu mi conosci, sai chi sono; proprio per questo ti chiedo di ricordarti di me, perché non ti posso nascondere nulla, perché davanti a te sono scoperto, non posso fingere; e il mio essere così disarmato e così perduto è motivo sufficiente ai tuoi occhi per volermi bene, per darmi come regalo ciò che non mi merito».

La risposta di Gesù è immediata: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel pa radiso». È questa l’ultima parola di Gesù, secondo il van gelo di Luca, rivolta all’umanità prima di morire. È il suo te-stamento. È la parola della misericordia più impensata. Si noti la solennità e la sicurezza con cui Gesù gli promette infinitamente più di quel che gli aveva chie sto.

«In verità...». La verità della sua vita è questa: è la misericordia, è il dono gratuito del Regno a chi non ha fatto nulla per meritarselo, è la parola scandalosa della croce la quale dice che Gesù muore per i peccatori.

«Oggi», dice Gesù. Il tempo della misericordia di Gesù è un oggi che non ha mai fine. L’ora della salvezza non è quella appena

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passata o quella che verrà in futuro, ma è l’oggi in cui il Signore ti incontra.

«Con me sarai nel paradiso». Al ladrone il Signore offre molto di più. Non gli dice: «Sarai accolto in paradiso», ma: «Sarai con me in paradiso». «Tu sarai con me, perché io, l’Emmanuele, sono con te. Tu non sei stato con me, sei fuggito lontano. E io sono venu to lontano, fin qui sulla croce. Voglio stare con te, perché tu possa stare con me. Ora concludo con te un’alleanza. È nuova, come la nostra amicizia che co mincia oggi. È eterna, come la mia fedeltà che è più forte della morte».

Qui si compiono le parabole della misericordia. Gesù è il buon pastore che è andato in cerca della pe cora perduta, l’ha trovata e ora tutto contento la por ta alla festa del Regno. Gesù è venuto a cercare i suoi fratelli perduti e li accompagna alla casa del Padre che li sta aspettando per la grande festa. Che cosa sarebbe il regno di questo re crocifisso senza il malfattore pentito? A un regno così, dove hanno diritto di cittadinanza i derelitti della terra, non può mancare questo povero: la compassione di Gesù ha bisogno di lui. Il Signore non può immaginare un paradiso senza portarsi dietro questa umanità alla deriva.

Questo è il marchio di fabbrica di Dio. Questo è il volto della misericordia del Padre che ci ha rivelato Gesù. Questo è il culmi ne della misericordia. Qui appare in tutta la sua grandezza la regalità di Gesù che sul trono della croce offre il perdono e il Regno. La sua è la regalità dell’amore misericordioso di Dio che ha mandato il Figlio non per giudicare e condannare, ma per salvare; e Gesù ci salva morendo al posto no stro sulla croce, carico delle nostre malattie e dei no stri peccati.

Gesù, a braccetto con un ladro, va in paradiso e ci ricorda che noi tutti siamo ladroni graziati.

APPUNTI...

APPUNTI...

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STRUTTURA DEL CAMMINO A TAPPE

Perché queste tappe di cammino portino frutto occorre viverle con impegno. La puntualità è importante ed è segno di carità: che si stabilisca e si rispetti l’ora precisa dell’inizio e del termine degli incontri. Nei cenacoli, è bene favorire momenti di festa e di fraternità, ma al di fuori dell’incontro: o dopo l’incontro (come naturale prolungamento) o in altri momenti.

1. STRUTTURA GENERALE DEL CAMMINOOgni tappa del cammino è strutturata in sei incontri.

a) Incontri in Fraternità: I Catechesi IV Incontro degli AlleatiVI Incontro della Fraternità− Sono guidati dai Responsabili di Fraternità.− Sono finalizzati globalmente a far crescere la Fraternità, e a farla

crescere come un solo corpo.

b) Incontri in Cenacolo:II Risonanza III Condivisione V Revisione di vita − Sono guidati dall’animatore di Cenacolo.− Gli incontri in Cenacolo hanno lo scopo di permettere una

condivisione più profonda che non sarebbe altrimenti possibile all’interno di tutta la Fraternità

− Per questo motivo il Cenacolo: – deve essere costituito da un numero ristretto di fratelli per

dare a tutti la possibilità di intervenire ad ogni incontro;– non deve essere un gruppo fisso (senza per questo dover

variare ogni anno) per dare la possibilità a tutti di vivere questa condivisione col maggior numero di persone all’interno della Fraternità.

Struttura del cammino a tappe224

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2. RESPONSABILI DI FRATERNITÀ E ANIMATORE DI CENACOLO

Le figure di riferimento per il cammino a tappe sono due:

a) Responsabili di Fraternità− Essi devono fare proprio il cammino per poterlo far vivere bene a

tutta la Comunità.− Sono loro che lo guidano, intervenendo anche, ogni volta che

vedono calare la tensione della Comunità.

b) Animatore di Cenacolo− È estremamente opportuno che le persone incaricate a questo

ministero siano anziani di Comunità, cioè fratelli e sorelle che:– abbiano tutta l’autorevolezza per poter presiedere i momenti

di Cenacolo;– sappiano trasmettere con il cuore il progetto di Dio sulla

Comunità.

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I INCONTRO

CATECHESI Fraternità

a) Struttura dell’incontro− L’incontro si apre con un momento di preghiera di lode. Circa

la durata di questo primo momento, occorre considerare bene l’orario nel quale si tiene l’incontro: se infatti l’incontro è dopo cena, la preghiera non potrà essere troppo lunga perché se si prega per un’ora e poi c’è una catechesi da accogliere, l’attenzione delle persone non potrà più essere alta.

− Dopo l’insegnamento si faccia ancora un breve momento di pre-ghiera (è sufficiente anche un canto) per non disperdere subito quanto detto e anche per ricordarci che il tutto deve essere ora meditato nella preghiera.

− Prima di concludere, i Responsabili di Fraternità comunichino le notizie riguardanti la vita della Fraternità.

− A questo incontro partecipano gli Alleati e coloro che fanno parte dei Gruppi di condivisione.

b) Finalità dell’incontro− La finalità di questo primo incontro è quello di far vivere a tutti

un momento di ascolto della Parola che sia poi di nutrimento per tutto il tempo della tappa.

c) Ruolo dei Responsabili di Fraternità− Spetta a loro preparare e guidare questo incontro.

– introducendo e animando i momenti di preghiera; – tenendo la catechesi (o affidandola a qualcuno con cui hanno

però condiviso il contenuto e il taglio da dargli);– ricordando di meditare durante la settimana sull’insegnamen-

to ascoltato e sulla catechesi letta nel libro, per preparare la risonanza;

– comunicando, alla fine dell’incontro, le notizie riguardanti la vita della Comunità.

Struttura del cammino a tappe226

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− Per la preparazione della catechesi i Responsabili di Fraternità devono mettersi in ascolto del Signore per comprendere come il tema dovrà essere affrontato, quali sottolineature dare, quali attualizzazioni concrete proporre per la Fraternità. Per questo risulta estremamente importante che le catechesi siano tenute, per quanto possibile, dagli stessi Responsabili che hanno la visione di Dio sulla loro Fraternità. Se si decide di affidare ad altri la catechesi, non basta che questi siano bravi catechisti, ma occorre che siano persone che abbiano chiaro il disegno di Dio sulla Comunità e ancora di più che abbiano compreso come il Signore voglia par-lare a quella Fraternità a questo punto del cammino. Per questo, coloro che terranno queste catechesi dovranno aver condiviso ampiamente il contenuto e il taglio da dare con i Responsabili di Fraternità. È quindi inopportuno incaricare persone esterne alla Comunità per tenere queste catechesi. Inoltre, se non è necessario che nelle catechesi si dica tutto quello che è scritto nel libro, è però necessario che siano fatte tenendo conto, in maniera stretta del testo riportato in esso.

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II INCONTRO

RISONANZA Cenacolo

a) Struttura dell’incontro− Dopo un momento di preghiera segue la risonanza personale dove

ciascuno condivide qualche aspetto della sua meditazione sulla catechesi.

− Alla fine del proprio intervento ciascuno indicherà l’impegno di conversione che ha scelto.

− Circa l’impegno di conversione:– dovrà essere semplice e concreto in modo che si possa real-

mente verificare al momento della revisione di vita;– non ha senso prendersi impegni già contemplati nell’impegno

di Alleanza (messa quotidiana, adorazione settimanale...);– non ha senso assumersi più volte lo stesso impegno: quando

possibile, dovrebbe normalmente continuare ad essere adempiuto.− Circa la meditazione:

– La Chiesa l’ha sempre raccomandata come necessaria alla vita cristiana, ma essa richiede impegno e tempo per ruminare la catechesi.

– Uno dei segni che non si è meditato è quando, invece che condividere le proprie riflessioni nate dalla catechesi, si scivola nella revisione di vita, o verso la sterile ripetizione pedissequa di quanto scritto nel libro, senza alcun arricchimento personale.

– Il Catechismo degli adulti ricorda che «ha grande importanza» (n. 939) e che «consiste nel riflettere su qualche verità della fede, per crederla con più convinzione, amarla come un valore attraente e concreto, praticarla con l’aiuto dello Spirito Santo. Implica riflessione, amore e proposito pratico. Di solito ci si aiuta con la lettura di un passo biblico, di un testo liturgico o di un libro di spiritualità» (n. 996)

– Anche il Catechismo della Chiesa cattolica dedica molto spazio all’argomento dicendo che: «la meditazione è soprattutto una

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ricerca» (n. 2705); «un cristiano deve meditare regolarmente, altrimenti rassomiglia ai tre primi terreni della parabola del seminatore» (n. 2707); «la meditazione è necessaria per ap-profondire le convinzioni di fede, suscitare la conversione del cuore e rafforzare la volontà di seguire Cristo» (n. 2708).

b) Finalità dell’incontroScopi principali di questo incontro sono: − assimilare con maggior profondità l’insegnamento (tramite la

risonanza che ha avuto nella meditazione dei fratelli);− stimolarne la sua attuazione nella quotidianità della vita (tra-

mite l’impegno di conversione che si assume).Per questo è necessario che l’incontro sia ben preparato durante la

settimana: attraverso la propria meditazione e la scelta di un proposito.

c) Ruolo dell’animatore di Cenacolo− È l’animatore di cenacolo che introduce il momento di risonanza

personale dopo la preghiera iniziale.− È suo compito vigilare anche affinché sia una vera condivisione

della propria meditazione, cioè della riflessioni personali nate dalla catechesi.

− L’animatore di Cenacolo dovrà essere particolarmente attento alla reale verificabilità dell’impegno di conversione che ogni fratello sceglierà di assumersi.

− Nel caso in cui qualcuno non abbia ancora formulato in maniera seria (cioè, dopo averci riflettuto in settimana e non improvvi-sandolo lì per lì) l’impegno di conversione, lo si richieda durante la settimana, in modo che nell’incontro successivo tutti possano conoscerlo: non si deve lasciare cadere la cosa come se fosse un fatto strettamente personale.

− È utile richiamare alla mente questi impegni durante la tappa.

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III INCONTRO

CONDIVISIONE Cenacolo

a) Struttura dell’incontro− È un momento che non ha uno schema preciso da seguire, ma

non per questo deve essere meno ordinato. − In questo incontro si deve dare spazio alla condivisione dei fratelli

sulla propria vita.− Se lo si ritiene opportuno si può anche pregare per i fratelli che

hanno fatto la loro condivisione.

b) Finalità dell’incontro− È un momento per crescere nella comunione attraverso una pro-

fonda condivisione dove si apre il cuore ai fratelli.

c) Ruolo dell’animatore di Cenacolo− Alla fine dell’incontro di Risonanza (o prima di iniziare questo

incontro), l’animatore inviterà chi desidera condividere qualche aspetto della propria vita con gli altri a farsi avanti.

− Dovrà anche fare in modo che a turno, nell’arco dell’anno, tutti (compreso se stesso) abbiano il loro momento di condivisione.

− Alla fine dell’incontro darà inizio alla preghiera per chi ha fatto la sua condivisione.

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IV INCONTRO

INCONTRO DEGLI ALLEATI Cenacoli riuniti

a) Struttura dell’incontro− I responsabili di Fraternità possono utilizzare secondo le necessità

questo incontro per: comunicare qualche Parola alla Fraternità, mettersi in ascolto del Signore assieme a tutti gli alleati, vivere un momento di condivisione su alcuni aspetti particolari della vita della Fraternità, ...

b) Finalità dell’incontro− Lo scopo principale dell’incontro è quello di fare corpo tra gli

alleati e crescere insieme nella propria identità di Fraternità che vive in un territorio.

c) Ruolo dei Responsabili di Fraternità− Spetta a loro organizzare e guidare l’incontro.

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V INCONTRO

REVISIONE DI VITA Cenacolo

a) Struttura dell’incontroTutto l’incontro deve svolgersi in un clima di preghiera: non si deve

scivolare nella battuta, nei commenti inutili o in altro, ma l’atteggiamento da tenere è quello dell’ascolto.

− La revisione di vita va annotata per iscritto.− Si inizia con l’invocazione dello Spirito Santo.− Normalmente ci si esamina nei seguenti ambiti:

– LA PREGHIERA Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa? Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?– LA PAROLA DI DIO Come mi ha parlato Dio in questo tempo? Come ho accolto la sua Parola?– I RAPPORTI CON GLI ALTRI Come ho esercitato la carità nella famiglia, nella Comunità? Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di

costruzione dell’amore?– I NOSTRI DOVERI Ho vissuto da cristiano nella scuola, nel lavoro...? Sono stato fedele agli impegni comunitari? Come ho vissuto le promesse di povertà e di servizio?– L’IMPEGNO DI CONVERSIONE Come l’ho vissuto durante la tappa?

− Occorre concludere la revisione con un breve momento di pre-ghiera nel quale invocare la guarigione per le nostre debolezze e ringraziare il Signore per quanto operato, facendo calare così la presenza di Dio su tutto.

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b) Finalità dell’incontro− È il momento più importante della tappa perché tende a comunicare

qualcosa di me stesso, vissuto durante la tappa, prendendo in consi-derazione sia gli aspetti negativi (quanto ho da migliorare) sia quelli positivi (testimoniando quello che il Signore ha compiuto in ciascuno).

− Per raggiungere questo obbiettivo si deve perciò scendere in profondità. Soprattutto si deve sempre guardare alle proprie responsabilità, non a quelle degli altri.

c) Ruolo dell’animatore di Cenacolo− Dopo l’invocazione dello Spirito Santo l’animatore di Cenacolo

introduce il momento di revisione di vita e quando tutti hanno parlato conclude l’incontro introducendo un breve momento di preghiera.

− I pericoli più comuni e verso i quali l’animatore deve sempre vigilare sono diversi:– l’improvvisazione, che fa scadere tutto nella banalità;– il voler far scuola agli altri con la propria revisione di vita;– una revisione di vita che va per le lunghe (in quel caso vuol

dire che non è stata preparata bene o che ci si nasconde dietro alle parole);

– l’essere pessimisti (la nostra revisione di vita deve avere sempre il marchio della speranza);

– l’intervenire a sproposito e il rispondersi gli uni gli altri;– un clima di distrazione;

− Solo dopo la preghiera conclusiva l’animatore dia gli avvisi necessari. − Si ricordi anche di identificare delle testimonianze da riportare

nell’incontro seguente.

Struttura del cammino a tappe 233

Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016

VI INCONTRO

INCONTRO DELLA FRATERNITÀ Fraternità

a) Struttura dell’incontro− È il momento gioioso di «unione fraterna» (Atti 2, 42) nel quale la

Comunità intera è chiamata a esprimere «quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme» (Salmi 133, 1).

− Due sono gli elementi portanti di questo incontro conclusivo della tappa, che si rifanno direttamente all’esperienza della comunità di Gerusalemme:– le testimonianze (sul cammino fatto nella tappa o su altro)

che, rispondendo al comando «ogni cosa era fra loro comune», fanno crescere la comunità sempre più come «un cuore solo e un’anima sola» (Atti 4, 32);

– un momento di convivialità fraterna nello stile della prima comunità cristiana che si adunava «prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (Atti 2, 46).

− A questo incontro partecipano tutti coloro che vivono la vita della Fraternità

b) Finalità dell’incontro− È il momento nel quale maggiormente si esprime la Fraternità,

qui riunita al completo. Attraverso di esso si vuole vivere la gioia della comunione fraterna, facendo festa assieme e dare gloria al Signore per il cammino compiuto in questa tappa, attraverso le testimonianze dei fratelli.

c) Ruolo dei Responsabili di FraternitàSpetta a loro:− organizzare e guidare l’incontro;− individuare per tempo le testimonianze da fare;− incaricare qualcuno perché il momento di fraternità sia bello e

gioioso

235

Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016

LA REVISIONE DI VITA

La revisione di vita è uno dei più grandi doni di Dio per crescere nella vita cristiana generosa e profonda. Occorre subito dire che la revisione

di vita è un impegno esigente; lo è come ogni dono che ci fa veramente crescere, perché crescere costa. Ma è solo crescendo che noi maturiamo, diversamente la nostra vita si fossilizza.

Cerchiamo allora di capire alcuni meccanismi fondamentali della re-visione di vita; praticandola poi, capiremo molto meglio ciò che adesso può apparire un po’ teorico e non sufficientemente chiaro.

CHE COSA ÈNon è un momento di discussione, né di scambio di riflessioni, né

tanto meno un incontro organizzativo. La revisione di vita interpella la nostra più profonda capacità di comunicare. Possiamo definirla così: È comunicare qualcosa di noi stessi, in un clima di sincerità, amicizia e fede, con lo scopo di crescere nello spirito del Vangelo.

Clima di sincerità, amicizia e fede− Sincerità: la schiettezza è la base di ogni rapporto tra persone; è

un dato di esperienza che la sincerità fa vivere i rapporti e quindi l’amicizia; la falsità mina alla radice anche i rapporti più belli. La revisione di vita ci è data dunque, non per nasconderci, ma per venire allo scoperto, manifestarci. Ci sono diversi modi per nascondersi: chiudersi, chiacchierare, dare spettacolo, deviare l’attenzione su cose di poca importanza. Se ognuno si impegna a uscire dai propri nascondigli mette il presupposto per la buona riuscita della revisione di vita.

− Amicizia: è per questo che ci dividiamo in piccoli gruppi, per favorire un clima di conoscenza reciproca e di vera amicizia. Cer-to, l’amicizia non si improvvisa, ma poco a poco, si sviluppa e ognuno di noi compirà una meravigliosa esperienza di quello che è l’amicizia profonda e costruttiva. Ecco cosa dobbiamo prefiggerci: la stima profonda per ogni persona del gruppo e la disponibilità ad accogliere ognuno come fratello, come sorella.

La revisione di vita236

Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016

− Fede: non sono sufficienti la sincerità e la disponibilità all’amicizia, perché non dobbiamo dimenticare che centro e anima del gruppo è il Signore. Desideriamo prendere molto sul serio e sperimentare la parola di Gesù: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro». (Matteo 18, 20). Per questo preghiamo prima e/o dopo la revisione di vita, appunto per consegnarla a lui e viverla alla sua presenza.

La revisione di vita non è quindi una semplice terapia di gruppo, ma un momento di fede, in cui il Signore passa per ricreare le menti, i cuori e le volontà di ciascuno. I responsabili del gruppo hanno la funzione specifica di vigilare perché il clima della revisione di vita non scada nella superficia-lità, ma si mantenga sul piano della vera amicizia, con al centro il Signore.

Comunicare qualcosa di noi stessiLa revisione di vita non deve essere semplice cronaca o scambio di

qualche idea. È comunicare qualcosa di me stesso, vissuto durante la tappa.Si deve scendere in profondità perché la revisione di vita sia costruttiva,

soprattutto si deve sempre guardare alle proprie responsabilità, non a quelle degli altri. Se per esempio ho avuto uno scontro con mio padre, non rientra nella mia revisione di vita parlare dei difetti di mio padre e delle sue colpe in quel frangente: a me è richiesto di riferire, con sincerità, delle mie colpe in quell’occasione e come ho cercato di superare quella difficoltà.

Comunicare qualcosa di sé, non solo in negativo, ma anche in positivo. La nostra vita è intessuta di cadute e di vittorie, di momenti difficili e di altri gioiosi: la revisione di vita deve rispecchiare questa realtà.

È importante impostare con chiarezza il tema della revisione. Normalmente ci si esamina nei seguenti ambiti:LA PREGHIERA− Come ho vissuto la mia preghiera personale in questa tappa?− Sono stato fedele al mio tempo di preghiera?LA PAROLA DI DIO− Come mi ha parlato Dio in questo tempo?− Come ho accolto la sua Parola?I RAPPORTI CON GLI ALTRI− Come ho esercitato la carità nella famiglia, nella Comunità?

La revisione di vita 237

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− Come ho vissuto le promesse di perdono permanente e di costru-zione dell’amore?

I NOSTRI DOVERI− Ho vissuto da cristiano nella scuola, nella femiglia, nel lavoro...?

Sono stato fedele agli impegni comunitari?− Come ho vissuto le promesse di povertà e di servizio?L’IMPEGNO DI CONVERSIONE− Come l’ho vissuto durante la tappa?

Crescere nello spirito del Vangelo Non possiamo accontentarci di fare delle analisi, sia pure sincere,

della nostra vita. Sarebbe troppo poco. La revisione di vita ci è data per aiutarci a crescere, a modificarci, a convertirci. Se vogliamo immaginare la nostra vita come una salita con tante rampe di scale, la revisione di vita rappresenta i diversi pianerottoli che ci permettono una breve pausa per riprendere fiato e continuare a salire. È essenziale aver chiaro che la revisione di vita non è fine a se stessa, ma è ordinata a vivere, quindi a cambiare, a crescere. Se una revisione di vita non mi modifica in nulla, ha fallito il suo scopo, non è stata una autentica revisione di vita, ma un semplice sfogo psicologico.

COME PREPARARSIIntanto è il caso di precisare che è essenziale prepararsi alla revisione

di vita! Senza preparazione c’è superficialità, non c’è comunicazione nella verità. Ci vuole tempo e sforzo per spezzare il muro della superficialità che ci avvolge e per poter entrare nel profondo di noi stessi. Perciò ci vo-gliono riflessione e molta preghiera; preghiera per ognuno del mio gruppo e preghiera per me; attraverso la preghiera tutto diventa più semplice e vero e il comunicare si riveste di umiltà e di schiettezza.

Due consigli pratici:− È bene spendere tutto il momento di preghiera del giorno in cui

facciamo revisione di vita per prepararla davanti a Dio;− È necessario annotare per iscritto le cose che intendiamo co-

municare. È un mezzo pratico per essere essenziali e per non dimenticare le cose; non leggeremo la revisione di vita, ma l’avere il foglio sotto gli occhi può aiutarci a esporla meglio.

La revisione di vita238

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COME PARTECIPAREL’atteggiamento essenziale è l’ascolto. Esso è tra le attitudini umane

più impegnative ed esige molta formazione. L’ascolto è qualcosa di molto diverso dal semplice sentire; io posso sentire la musica mentre faccio un lavoro manuale, ma non posso ascoltare una persona se non sono lì pre-sente con tutta la mia attenzione. L’ascolto esige una notevole capacità di rinuncia nei confronti del nostro io che vuole essere sempre al centro. Ascoltare significa far tacere il proprio io per accogliere il fratello. Alla base dell’ascolto c’è la convinzione che ogni persona, quando comunica qualcosa di sé, è un frammento della Parola di Dio che mi raggiunge per istruirmi, richiamarmi e rafforzarmi. Se io mi metto nell’atteggiamento giusto, quel frammento crea sempre qualcosa di nuovo in me. Per questo possiamo definire l’ascolto anche come la sete di imparare da ciascuno. E facciamo attenzione perché normalmente Dio parla attraverso le persone meno brillanti.

La voce di Dio cammina per le vie dell’umiltà e della semplicità. Ecco dunque un test per capire se c’è ascolto in un gruppo: se anche il più timido si trova a suo agio per esprimersi. Se questo non succede, la colpa non è della timidezza di quel fratello, ma del gruppo, o di qualcuno nel gruppo che non sa ancora vivere l’ascolto.

Nell’ascolto, dunque, sono impegnati più il cuore e la mente che le orecchie. Teniamo presente, però, che il nostro atteggiamento esteriore, mentre un fratello parla, dice se il nostro è ascoltare o è solo sentire. Se, durante la revisione di vita di un fratello, io guardo in giro, giocherello con una penna, parlo con il mio vicino o dormo quello è segno che non ascolto. Io non posso ricevere nulla e in più paralizzo il comunicare di quel fratello, facendo danno a tutto il gruppo.

I PERICOLI DA EVITAREI pericoli più comuni e verso i quali occorre sempre vigilare sono diversi:− L’improvvisazione della revisione di vita. È forse il male più

grave che fa scadere tutto nella banalità. E quando si improvvisa, cioè non si viene preparati alla revisione di vita, la cosa salta su-bito all’occhio di chi ha un minimo di esperienza. Si chiacchiera, si gira a vuoto, si va per le lunghe, non si comunica qualcosa di vero di se stessi. Quando, per qualche grave motivo, non siamo

La revisione di vita 239

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riusciti a preparare bene la revisione di vita, è molto semplice: lo diciamo e ascoltiamo gli altri, oppure ci limitiamo a dire qualcosa di vero che sentiamo in quel momento.

− Il voler far scuola agli altri con la mia revisione di vita. Questa non è più revisione di vita la cui finalità è prima di tutto la mia conversione. Guardiamoci da questa insidia! È ovvio, a maggior ragione, che la revisione di vita non è mai un accusare gli altri. La revisione mette in questione me, soltanto me.

− L’andare per le lunghe riferendo cose secondarie per la revisione di vita e togliendo così lo spazio agli altri. Un buon incontro di revisione di vita non dovrebbe superare l’ora e mezza: è già molto. È impegnativo l’ascolto profondo per un’ora e mezza. Se dunque il gruppo è di dieci persone e uno parla per venti minuti, ruba tutto lo spazio di un altro fratello. Allo stesso modo bisogna evitare di intervenire per suggerire soluzioni a difficoltà di un fratello, a meno che non sia il responsabile stesso a invitare qualcuno a farlo. Il motivo è sempre lo stesso: la prima preoccupazione della revisione di vita è il comunicare qualcosa di me nella verità. Non dimentichiamo poi che l’ascolto autentico offre più soluzioni di tante parole.

− Il pessimismo. Non possiamo mai essere pessimisti, anche se in quella determinata settimana avessimo avuto continui fallimenti. Esiste il perdono di Dio e la sua presenza è qui per sostenere e guidare la mia ripresa. Attraverso quelle cadute qualche grammo di presunzione si è staccato dal mio cuore, dunque sto crescendo. Vigiliamo perché la nostra revisione di vita porti sempre il mar-chio della speranza: lo avrà se siamo in atteggiamento di lotta per crescere. Possiamo allora aggiungere che dobbiamo essere attenti perché la revisione di vita non si limiti ad essere uno sfogo psicologico, ma sia un momento attraverso il quale cresciamo in qualcosa.

Di tanto in tanto qualche persona un po’ timida ci dice: «io non so parlare bene, come farò a fare bene la revisione di vita?». Non deve preoccupare questo. Non è chi è più brillante nel parlare che fa meglio la revisione di vita, anzi questo a volte può essere di impaccio, perché chi parla bene ha più facilità a nascondersi. La revisione di vita consiste

La revisione di vita240

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non nel parlare ma nel comunicare, e le due cose sono diverse, possono coincidere o non coincidere affatto.

I FRUTTI PIÙ BELLI DELLA REVISIONE DI VITA− Porta ad una conoscenza sempre più profonda di sé stessi, cono-

scenza non solo delle debolezze, ma anche della luce che il Signore coltiva in noi;

− educa alla verità e semplicità dei rapporti con ogni persona;− il confronto con gli altri, il sentire la schiettezza degli altri, fa nascere

in noi il bisogno vivissimo di abolire ogni maschera;− è imparare a diventare più forti attraverso la forza degli altri;− fa sperimentare l’amicizia, la comunione, il comunicare e l’ascoltare;− si gusta la gioia di sentirsi accolti e stimati così come siamo, e la

gioia di accogliere e stimare ogni fratello come qualcosa di sacro;− tiene vivo in noi il problema della conversione continua;− abitua ad una vita spirituale ordinata e concreta: non c’è più posto

per le illusioni;− la generosità degli altri sarà sempre una grazia per non accontentarci

di un cristianesimo meschino;− ci fa sperimentare la verità della Parola di Gesù «Dove sono due o tre

riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Matteo 18, 20).La revisione di vita è l’esperienza viva che il Signore è passato a guarire,

perdonare e ricolmare della sua pace.

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INFORMAZIONI COMUNITARIE

La Comunità Magnificat si compone di 34 fraternità di cui: 27 in Italia, 5 in Romania, 1 in Turchia e 1 in Argentina; 12 di esse sono ancora in

formazione. Esistono tre Zone: Perugia, Romania, Toscana. Gli incontri di preghiera comunitaria settimanale che la Comunità anima sono com-plessivamente 40 e di seguito se ne indicano i luoghi, il nome e l’e-mail del relativo moderatore o referente.

FRATERNITÀ NELLA ZONA DI PERUGIA

APIRO (mc) (in formazione)Parrocchia dei Santi Urbano e Michele Arcangelo Aldo Mancini ~ mancini,[email protected]

CITTÀ DI CASTELLO (pg)Parrocchia di San Giuseppe alle GraticoleValter Berliocchi ~ [email protected]

FOLIGNO (pg)Chiesa di San FelicianoEmilia Ricci ~ [email protected]

MARSCIANO (pg)Oratorio di Santa Maria AssuntaMaria Gabriella Corradi ~ [email protected]

PILA (pg) (in formazione)Parrocchia di San Giovanni BattistaDaniele Ruggeri ~ [email protected]

SAN BARNABA in PERUGIAParrocchia di San BarnabaFrancesca Tura Menghini ~ [email protected]

SAN DONATO ALL’ELCE in PERUGIAParrocchia di San Donato all’ElceCattedrale S. Gervasio e S. Protasio (Città della Pieve - pg)Susanna Garofanini ~ [email protected]

BETANIA in PONTE FELCINO (pg)Chiesa di San Pietro - Lidarno (pg)Stefano Ragnacci ~ [email protected]

Informazioni comunitarie242

Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016

TERNIParrocchia di San PaoloNunzio Sorrentino ~ [email protected]

FRATERNITÀ NELLA ZONA DI ROMANIAALBA IULIA (in formazione)

Parrocchia Romano-Cattolica Santa CroceToth Maria ~ [email protected]

SHALOM in BACAU (in formazione)Parrocchia Romano-Cattolica Sf. NicolaeRosu Cristina ~ [email protected]

MISERICORDIA in BUCARESTCappella della Cattedrale Romano-Cattolica «San Giuseppe» di BucarestAngela Catau ~ [email protected]

POPESTI-LEORDENI (in formazione)Parrocchia Romano-Cattolica Regina del S. RosarioMolnar Ovidiu Dacian ~ [email protected]

RÂMNICU-VÂLCEA (in formazione)Parrocchia Greco-Cattolica Sf. RitaHodea Ana ~ [email protected]

FRATERNITÀ NELLA ZONA DELLA TOSCANABIBBIENA (ar)

Convento dei Cappuccini, Ponte a PoppiLucia Bartolini ~ [email protected]

CORTONA (ar)Parrochia di Cristo Re in CamuciaCasa del Sacro Cuore in TerontolaGiuseppe Piegai ~ [email protected]

GENOVA (in formazione)Parrocchia di Santa Caterina da GenovaMaria Rosaria Di Donato ~ [email protected]

S. MARIA DELLA MISERICORDIA in MAGIONE - AGELLO (pg)Chiesa di Santa Maria delle Grazie, Magione (pg)Rita Sateriale ~ [email protected]

Informazioni comunitarie 243

Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016

MARTI (pi)Parrocchia di Santa Maria NovellaFederico Luisi ~ [email protected]

FRATERNITÀ FUORI DALLE ZONEAGRIGENTO (in formazione)

Parrocchia di San Gregorio - Contrada CannatelloFrancesco Guarasci ~ [email protected]

CAMPOBASSOChiesa di San Pietro apostoloMarinella Pattavina ~ [email protected]

CASSANO ALLO IONIO (cs)Chiesa di Santa Maria di LoretoCarla Selvaggi ~ [email protected]

FOGGIA (in formazione)Chiesa di Gesù e MariaTeresa Ciociola ~ [email protected]

ISTANBUL - Turchia (in formazione)Parrocchia di Sant’Antonio2 incontri di preghiera (uno in lingua turca e uno in lingua inglese)Anton Bulai ~ [email protected]

MAGUZZANO (bs)Parrocchia di Santa Maria AssuntaGiacomo Lancini ~ [email protected]

MILANOCappella dell’Ospedale «Città di Sesto» - Sesto San Giovanni (mi)Enrico Cattaneo ~ [email protected]

PARANÀ - argenTina (in formazione)Parrocchia di Nuestra Señora de La PiedadAlejandra Cecilia Lujan Omar Rostom ~ [email protected]

PIACENZAParrocchia Nostra Signora di LourdesSergio Seravalle ~ [email protected]

Informazioni comunitarie244

Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016

POMPEI - NAPOLI - SALERNO (in formazione)Parrocchia di San Giuseppe - Pompei (na)Parrocchia di San Francesco al Vomero - NapoliParrocchia di Maria SS.ma Immacolata - SalernoOreste Pesare ~ [email protected]

ROMAParrocchia di San Giuseppe al TrionfaleMaria Annunziata Nazzaro ~ [email protected]

SAN SEVERO (fg) (in formazione)Chiesa di San Giuseppe ArtigianoDaniele Mezzetti ~ [email protected]

SIRACUSAParrocchia Madre di DioMaria Villaruel ~ [email protected]

TORINOChiesa di Maria AusiliatriceCappella del Santissimo Sacramento - Montanaro (to)Graziella Vaudagna ~ [email protected]

TREVISOChiesa Beata Vergine ImmacolataGianni Carlesso ~ [email protected]

Informazioni comunitarie 245

Comunità Magnificat - Cammino 2015-2016

INFORMAZIONI GENERALI

RESPONSABILI [email protected] OrsiniDaniele Mezzetti (MoDeratore)Francesco FressoiaMichele RossettiPaolo Bartoccini

SEGRETERIA GENERALEVia Fra Giovanni da Pian di Carpine, 63c/o Complesso di San Manno – 06127 – PerugiaTel: 075 5057190E-mail: [email protected]

SITI INTERNET DELLA COMUNITÀwww. comunitamagnificat.orghttp://www.comunitateamagnificat.rohttp://www.facebook.com/group.php?gid=47765906067http://www.facebook.com/comunitamagnificathttp://www.operazionefratellino.ithttp://comunitamagnificat.org/venite-e-vedrete/

INDICEPresentazioneIL VOLTO DELLA MISERICORDIA ....................................................... pag. 3nota PreviaPER BEN USARE IL LIBRO .......................................................................... 7nota introDuttivaLE PAROLE DELLA MISERICORDIA ........................................................... 11la CoPertinaUN PADRE DAL CUORE DI MADRE ......................................................... 15i taPPaLA PARABOLA DEL PADRE MISERICORDIOSO

Misericordia e giustizia ................................................................................... 21Lo sguardo della compassione ......................................................................... 42Faustina Kowalska .............................................................................. 45

ii taPPaLA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO

Misericordia e opere corporali ......................................................................... 55La compassione e le relazioni ferite ................................................................. 75Vincenzo de’ Paoli .............................................................................. 78

iii taPPaLA PARABOLA DEL FARISEO E DEL PUBBLICANO

Misericordia e giudizio .................................................................................... 87La compassione e l’abisso del cuore dell’uomo .............................................. 107Giuseppe Moscati ............................................................................. 111

iv taPPaZACCHEO

Misericordia e conversione ............................................................................ 121La compassione e il perdono dei peccati ........................................................ 140Margherita da Cortona ..................................................................... 143

v taPPaI DISCEPOLI DI EMMAUS

Misericordia e opere spirituali ....................................................................... 153I discepoli e la compassione .......................................................................... 177Giovanni Bosco ................................................................................ 180

vi taPPaI DIECI LEBBROSI

Misericordia e gratitudine ............................................................................. 189La compassione e la missione ....................................................................... 207Damiano de Veuster ......................................................................... 210

aCCorDo FinaleLADRONI GRAZIATI .............................................................................. 217STRUTTURA DEL CAMMINO A TAPPE ................................................... 223LA REVISIONE DI VITA .......................................................................... 235INFORMAZIONI COMUNITARIE ............................................................ 241

Finito di stampare, a lode di Dio, nel settembre 2015