Comunità Mamre- San Fru- menzio Maggio 2014 · Avendo la passione per la lingua italiana, mi misi...

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Comunità Mamre- San Frumenzio Maggio 2014

Comunità Mamre- San Fru-menzio Maggio 2014

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RaccontarsiRaccontando:

cosa significa, per noi, essere raccoglitrici volontarie di testimonianze e narrazioni personali e sociali

Abbiamo scelto di diventare raccoglitrici volontarie di testimonianze e nar-razioni, dopo diverse esperienze sul campo, accompagnate da una rigoroso e corretto utilizzo dello strumento autobiografico, Più andiamo avanti in questo appassionante lavoro volontario, più ci rendiamo conto che ci appartiene quale vocazione profonda, che richiede di mettere in gioco la nostra capacità empati-ca e la nostra consapevolezza del delicato equilibrio relazionale, insito in quello spazio/non spazio che si crea tra colui/colei che narra la propria storia e colui/colei che la raccoglie.

Percorrere i sentieri, non sempre lineari della memoria personale e colletti-va, è come affacciarsi, in punta di piedi, su spaccati di vita e di spazi temporali sia ritrovati che sconosciuti sino a quel momento, nei quali risonanze interiori e collegamenti con l’ambiente, ove la storia si è svolta o si sta svolgendo, ren-dono unica ed irripetibile ogni narrazione. E’ in questo percorso che abbiamo sperimentato appieno la serendipity, ovvero la magia di scovare sentieri non previsti dal nostro progetto ma legati alla memoria collettiva, mentre si sta lavorando su quella individuale. Rivivendo l’esperienza di questo laboratorio presso la Comunità di Mamre-San Frumenzio, ci rendiamo conto di quanto ne stiamo uscendo arricchite di emozioni, affetti e legami, che possono rendere ancor più ricco e sfaccettato il lavoro volontario che abbiamo scelto di fare. Perché nei nostri laboratori del venerdì ci siamo donati, a vicenda e senza re-mora alcuna, immagini mentali, canti non del tutto dimenticati, modi di dire, timori speranze e delusioni, sapori e profumi, vivi nel ricordo di ciascuna di noi, che finalmente abbiamo potuto liberamente far emergere e condividere. Abbiamo potuto ritrovare la freschezza del nostro io bambino, la sapienza del nostro io adulto e l’accoglienza del nostro io genitore, fratello, sorella, padre, nonno e nonna. Abbiamo sperimentato quanto, in età non più verde, si possa essere capaci di narrare agli altri, traendone gioia e voglia di esserci, quello che nessuno potrà mai rubarci: i personali, unici, irripetibili ricordi della nostra vita, dei nostri luoghi e del nostro tempo.

AnnaMaria e Loredana(raccoglitrici volontarie di testimonianze e narrazioni sociali)

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“In guerra, qualunque parte possa vantarsi di aver vinto, non ci sono vincitori, tutti sono perdenti”

(Neville Chamberlain)

Noi bambini al tempo della guerra

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UNA FAMIGLIA DI 48 FAMIGLIE ELDA RACCONTA

La casa di San Lorenzo oggi, dove abitava Elda

Tra noi e l’inferno o tra noi e il cielo non c’è che la vita, che è la cosa più fragile del mondo

Blaise Pascal (1623-1662)

Mi chiamo Elda, sono del 1929 ed ho 84 anni. Sono nata il 20 luglio e nel 1943 avrei compiuto tredici anni. Il gior-

no prima, il 19 luglio, giorno del bombardamento di San Lorenzo, dove abitavo con la mia famiglia vicino alla Chiesa dell’Immacolata, ero ri-masta a casa con papà. Mamma era andata a far la spesa con gli altri tre fratellini, dalle parti di Piazza Vittorio.

Quella mattina mi ero svegliata presto, perché dovevo organizzare la festa del mio compleanno: mi ero lavata i capelli, avevo messo i bigoudì e stavo preparando un piccolo rinfresco, perché nel mio palazzo, quan-do c’era qualche cosa da festeggiare, come pure quando si verificava un

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evento doloroso, si partecipava tutti. Era un palazzo di cinque piani, senza ascensore, uno di quei palazzi

con le loggette/ballatoio che si affacciavano nel cortile interno, come quelle che Vittorio De Sica ha rappresentato nei suoi film. Si stava sem-pre lungo le loggette per un sorriso, un saluto, una chiacchiera … e questo creava un’unione vera tra la gente. Nel palazzo c’erano famiglie di estrazioni diverse: dal grande giornalista al ladro, dal povero al ricco, quarantotto famiglie in tutto.

Eravamo tutti molto uniti con rapporti di autentico buon vicinato. Quando qualcuno si sposava, era bello sentire la serenata prima del ma-trimonio. Noi eravamo una famiglia agiata: mamma aveva quattro figli e lavorava con papà, avevamo la tata e la nonna abitava nell’appartamento vicino.

Quella mattina, sotto casa, c’erano i preparativi per uno sposalizio e lungo la strada, tra via dei Sabelli, via degli Equi e via dei Latini c’erano posteggiate tante carrozze e tanti landau a cavalli. Era un momento di grande festa e confusione. Io stavo al secondo piano e sentivo tutti i rumori della strada.

Verso le 11 principiò a suonare la sirena e poi s’iniziò a sentire la con-traerea. Il rifugio era stato ricavato nelle cantine del nostro palazzo, ma papà non poteva scendere in cantina perché camminava male con una gamba e nonna, che era molto grossa, non c’entrava con le spalle. Perciò ci fermammo tutti e tre nella guardiola del portiere. Il bombardamento fu una cosa terribile: si sentivano le urla delle persone e gli scoppi delle bombe.

Una bomba fece cadere metà del fabbricato dove eravamo, un’altra cadde di fronte e le altre molto vicino: cinque bombe in tutto. Nel mio palazzo ci sono stati 160 morti, e tutti sono morti dentro quelle cantine dove pensavano di essere al sicuro.....ricordo che sentii la voce di una mia amica che gridava aiuto.......... e quelle grida non l’ho più dimenti-cate!

Quando siamo usciti dalla guardiola del portiere, trovammo il por-tone di casa bloccato dallo scoppio delle bombe. Poi un’altra bomba squarciò il portone e potemmo uscire all’aria aperta. Nonna, che era una donna svelta, mi disse: “Corri, vai a vedere come stanno tutti gli altri”. Perché i nostri parenti abitavano tutti nelle strade vicino ed io, allora, ho iniziato a correre per tutte le vie dove sapevo che avrei potuto trovare i

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miei parenti che, per fortuna, poi trovai tutti spaventati ma vivi.A terra c’erano i cavalli, quelli delle carrozze preparate per il ma-

trimonio, feriti o già morti per le mitragliate e mentre correvo verso il cinema Palazzo a Piazza dei Sanniti, e per le altre strade del quartiere, trovavo persone morte o ferite, per terra tra tanto sangue, che gridavano ed imploravano aiuto.

Quanto sangue ho visto mentre i miei piedi, chiusi dentro le scarpe, mi portavano per le strade del quartiere... e correvo …. correvo.... corre-vo..... queste sono cose che si ricordano per sempre......

Nel frattempo mamma aveva trovato riparo a piazza Dante, dove c’e-ra il rifugio antiaereo. Sulla strada del ritorno passò sotto l’arco di Santa Bibiana, con i tre miei fratellini per mano, tutti più piccoli di me e con la tata. Camminando vedevano solo macerie, morti e feriti. Dispera-ta, pensava “Cosa troverò?”..... quando girò l’angolo del caseggiato, vide metà del nostro palazzo caduto giù e pensò che fossimo tutti morti. In-vece io stavo con nonna e con papà vicino al portone.

Ci fu, allora, un grande abbraccio, un grandissimo abbraccio colletti-vo, disperato ed incredulo nello stesso tempo, quello di una famiglia che si ritrovava viva ed unita! Poi risalimmo dentro la nostra casa miraco-losamente in piedi anche se fortemente danneggiata ed io ricordo che, lentamente, mi tolsi le scarpe dai piedi e i bigodini dalla testa.

Sono andata a raccontare questa storia alla scuola elementare “Ma-iorana”, frequentata da mia nipote, perché l’insegnante stava spiegando i fatti dell’ultima guerra e ha voluto che dessi una testimonianza a tutta la classe del terribile bombardamento di San Lorenzo.

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ELISA E LA NEVE

La neve e il suo magnifico silenzio. Non ce n’è un altro che valga il nome di silenzio, oltre quello della neve sul tetto e sulla terra.

Erri De Luca, da Il peso della farfalla

Anche se quello che dico può far sorridere, io mi considero un “resi-duato bellico”; mio padre era polacco, un soldato polacco che combatte-va a Cassino nell’ultimo conflitto mondiale. Era un concertista e proprio dopo un suo concerto ebbe un infarto e morì. Quando ero piccola, lui mi voleva portare con sé in Inghilterra, dove ho altri fratelli, ma mia madre non ha voluto e così, quando lei si è risposata, io chiamavo papà il suo secondo marito.

Mamma doveva lavorare ed allora, quando avevo più o meno sei anni, sono andata in un collegio italo polacco, dove ho studiato e sono vissuta per molti anni. Quando avevo 14 anni, nacque mio fratello, con il quale ho un buonissimo rapporto.

Mi sono sposata a 18 anni, nella Chiesa di Sant’Anna in Vaticano e

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ho fatto il viaggio di nozze, verso la Svezia, insieme a mia suocera ed il suo compagno, dentro una Fiat 600. Andavamo in Svezia, perché mia suocera era interprete e conosceva tante lingue soprattutto dell’est. La Svezia aveva la necessità di attirare persone di altri paesi europei “per mischiare il sangue”, o almeno così sentivo dire. Per questo la famiglia di mio marito, originaria di Belgrado, era venuta in Svezia per prenderne la cittadinanza, cosa che in Italia non erano riusciti a fare malgrado ci vivessero da più di sette anni.

Io non ero mai stata in Svezia e vi sono rimasta per sei anni. Mio marito, per motivi legati al suo lavoro, che era nel campo cinematogra-fico, viaggiava sempre, mentre io rimanevo in Svezia. Ero quindi sola a crescere mio figlio e, dopo quattro anni e avrei potuto vivere dei sussidi, perché lo stato svedese aiuta a crescere i figli, ma il mio orgoglio perso-nale non me lo consentì.

Avendo la passione per la lingua italiana, mi misi ad insegnare nelle scuole serali e privatamente nella cittadina dove abitavo. Quando finì il corso di studi, invitai tutti a casa mia e cucinai la pizza: fui la prima ad insegnare come si prepara la pizza in Svezia, ed i miei allievi furono tutti molto carini e riconoscenti con me. In Svezia non c’è l’abitudine di fare regali, a loro basta il pensiero… invece in quell’occasione si presentaro-no con una bellissima cartolina e dei soldi dentro. Fu un gesto che mi fece veramente tanto piacere.

Dopo sei anni lontani dall’Italia, mi prese una grande nostalgia dei miei affetti, avrei voluto che mio figlio conoscesse i nonni e ritornai a Roma, però me ne sono pentita quasi subito. Per mio figlio, invece, la scelta di tornare in Patria è stata una buona, perché gli ha dato opportu-nità che in Svezia non avrebbe avuto in campo lavorativo.

Nel 1991 mio figlio, a 26 anni, espresse il desiderio di ritornare nei posti dove aveva trascorso la sua infanzia. Avevamo ancora tanti amici, nella cittadina dove avevamo vissuto e mio figlio ricordava una bambina con la quale giocava, Eva, che quando veniva a casa nostra mangiava, con gusto, il minestrone che facevo io. Alex, mio figlio, ed Eva, andava-no in triciclo insieme.

Ritornammo così in Svezia durante le feste natalizie e la notte di Capodanno fummo invitati ad una festa in un albergo. La sala della festa era divisa da un pannello, i giovani da una parte e i meno giovani dall’al-tra; mio figlio naturalmente stava con i giovani. A mezzanotte univano

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le due sale e mio figlio mi venne incontro con due ragazze. Una di que-ste due ragazze mi disse che da piccola giocava con un bambino che si chiamava Alex. Era Eva! E’ stato come tornare improvvisamente indie-tro nel tempo e quel momento così straordinario è rimasto fissato nella mia memoria dall’immagine della neve che vedevo cadere al di là della cornice della finestra; la neve… quante ne cadeva! Mi sembra ancora oggi di vederla. Eva aveva un bambino piccolo e non usciva mai perché il bimbo aveva qualche problema di salute; quella sera dietro insistenza delle amiche, si trovò per caso in quella festa dove incontrò, sempre per caso, il suo amico di giochi infantili, mio figlio Alex!, un ricordo mera-viglioso, come se qualcosa o qualcuno li avesse fatti ritrovare per magia.

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CRONACHE DI GUERRA

AnnaMaria Racconta zio Gilberto

Gilberto bambino e Gilberto anziano

Gilberto era un giovane ragazzo nell’agosto del 1943. Suo fratel-lo Francesco, che sarebbe poi diventato mio padre, era partito per la guerra come aviatore ed era stato fatto prigioniero dagli inglesi durante un’azione bellica. Il suo aereo militare era stato colpito ed obbligato ad un atterraggio di fortuna tra le sabbie del deserto egiziano nel quale era stato dichiarato, in un primo momento disperso. Francesco aveva una ragazza di Milano di nome Lidia,che sarebbe poi diventata mia madre. Lidia attendeva trepidante la fine di quella brutta guerra e manteneva rapporti di corrispondenza con la famiglia di lui: La mamma Elena, il fratello Gilberto ed il fratello più piccolo di nome Arduino. Le loro let-tere, oltre alle comunicazionisui vari campi di prigionia dell’Egitto, del Sud Africa e dell’Inghilterra nei quali veniva trasferito il loro caro, sono vere e proprie cronache di guerra e degli orrori che questa porta sempre con se. Di seguito la lettera che Gilberto scrisse a Lidia nel giorno del bombardamento del quartiere San Lorenzo di Roma.

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Roma, 30 agosto 1943Cara Lidia,

ho ricevuto le tue lettere del 22 e 25 corrente, dalle quali ho appreso il tuo dolore per la di-struzione che il nemico ha bar-baramente portato a Milano. Anche i nostri giornali si sono dilungati a parlarne e han pub-blicato molte foto della città, col-pita in ogni quartiere e via.

Roma invece è relativamente poco danneggiata perché solo dei quartieri periferici sono stati colpiti.Eppure dopo i due bom-bardamenti, avvenuti ambedue di giorno, lo strazio che ho pro-vato è indescrivibile.

Mi trovano nel centro dove non si riuscivano a ben distinguere i col-pi delle batterie da quelli delle bombe, e si stava a guardare il cielo solca-to da squadriglie nemiche che altissime erano inseguite dai colpi delle artiglierie, quando una enorme nuvola di fumo si alzò dai quartieri S.Lorenzo e Prenestino. Allora mi avvicinai verso il fumo perché un ter-ribile sospetto mi si era affacciato alla mente. Raggiunsi Porta Mag-giore che ancora durava l’allarme però avevan finito di sparare, e vidi uno spettacolo terribile: un pastificio era in fiamme e un calo-re insopportabile si propagava in-torno dalla stazione di S.Lorenzo si alzavano fiamme e fumo.

L’attraversai di corsa e raggiun-si Via Prenestina dove lo strazio fu peggiore: case distrutte, spezza-te, frantumate, un enorme polvere di calcinaccio, e strilli, urli, madri

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che chiamavano i figli, figli le ma-dri, fratelli le sorelle. Girai sulla Via Casilina e lo stesso spettacolo mi si presentò agli occhi. I binari del nostro povero tranvettoeran tutti per aria.

Ormai credevo di trovare lo stesso spettacolo anche a Torpi-gnattara e mi misi a correre come un forsennato. Incontrai delle per-sone che venivano verso il centro e con il cuore in gola. Incontrai delle persone che venivano verso il centro e con il cuore in gola gli domandai notizie. Torpignattara

non era stata toccata. Che sollievo! In quei momenti si diventa egoisti, mi parve che tutto fosse tornato normale e corsi a casa ad assicurare la mamma che mi attendeva con le lacrime ali occhi.

Se Milano è tutto ridotto come qui S.Lorenzo lo strazio deve essere assai più grande e il dolore infrenabile. Però non bisogna mai disperare e vedrai che un giorno anche la Scala e la Galleria saranno ritornate belle e celebri come prima. La mamma è ancora fuori, e credo che ritornerà domani o dopodomani.

Saluti a tutti Gilberto

Nelle immagini gli originali della lettera.

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LA CHIAVE DI CASA MARILENA RACCONTA

Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno.

Martin Luther King

Mia madre era orfana di guerra, nessuno si ricordava di mio nonno, un bel giovane partito per la prima guerra mondiale che venne ucciso con un colpo di fucile alla testa. Nonna era giovane e si era risposata; mamma, ancora piccola, andò a vivere con una zia che abitava a Te-staccio. Proprio lì da ragazza conobbe mio padre e a 18 anni erano già fidanzati. Si sposarono nella chiesa più bella di Roma, Santa Croce in Gerusalemme, dove sono stata anche battezzata. Durante gli anni della seconda guerra mondiale mio padre fu chiamato alle armi e ci stette per tutta la durata della guerra. Mamma si arrangiava come poteva, aveva me piccolina e mio fratello più piccolo di due anni e mezzo, non ave-vamo molto da mangiare allora lei si organizzava e andava per i paesi intorno a vendere la biancheria e quel poco d’oro che aveva, alla borsa nera. Una volta, al ritorno da quei viaggi, prese tanta acqua e si ammalò gravemente: ebbe la febbre alta, la broncopolmonite e il tifo nero. Stette malissimo, perse i capelli e le diedero persino l’estrema unzione.

La curavano con gli impacchi di semi di lino sulle spalle, quegli im-

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pacchi così bollenti da far venire le piaghe … Mentre stava in ospedale io, che avevo solo cinque anni, e mio fratello Pino stavamo con una mia zia e le nostre cugine, Marisa di quattro anni più grande di me e Franca. La zia lavorava al Poligrafico dello Stato e faceva anche i turni di notte, ricordo che dovevamo stare buoni tutti e quattro, perché lei spesso ripo-sava durante il giorno. Eravamo quattro bambini e ricordo la sensazione di solitudine che provavo: non ero ancora capace di pensare a me stessa e già dovevo pensare a mio fratello.

La guerra, la famiglia, la mia grande famiglia. Abitavamo tutti vicini, la zia, le mie cugine Marisa e Franca; ognuno entrava nella casa dell’al-tro, non si disturbava, non si chiedeva il permesso, perché la famiglia era tutta la famiglia.

Anche se ero molto piccola, aiutavo come potevo nelle difficoltà che la guerra ci poneva quotidianamente davanti.

Facevo la fila alla fontana per riempire le bottiglie d’acqua, poi le mettevo dentro a delle borse grandi e riprendevo la strada di casa con queste pesanti sporte. Ricordo che l’acqua usciva dalle bottiglie, eppure le borse continuavano a essere pesanti. Ancora mi domando come fa-cessi a portare a quattro anni tutto quel peso, superiore alle mie piccole forze.

La chiave del portone di casa era grande e importante: ognuno aveva la propria chiave, ma ogni chiave era capace di aprire tutti i portoncini delle nostre case.

Una mattina ero al parco di Villa Fiorelli insieme a mio fratello e alle mie cugine quando sentimmo le sirene. Iniziammo a correre, quattro bambini piccoli, già così responsabili di noi stessi… , andammo verso la chiesa di San Fabiano e Venanzio, dove, sotto ad una specie di colli-na, avevano costruito un rifugio. La gente era accalcata nel rifugio, chi strillava, chi non voleva morire, chi gridava che non voleva fare la fine del topo… erano tutti vestiti con solo quello che avevano indosso… Io, bambina, pensavo che fosse meglio farla finita subito, purché mi por-tassero in terrazza per poter morire sotto il cielo… Quanto tempo ho impiegato per capire che anche se fossi stata in terrazza, la casa sarebbe crollata e non sarei potuta morire sotto al cielo…

Dentro al rifugio ci accorgemmo che non avevamo più la chiave di casa, uno di quei chiavoni lunghi che sembravano d’argento. Mi venne

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istintivo correre fuori dal rifugio per ritrovare quella chiave che, non solo apriva la mia casa, ma era la chiave di tutti i miei affetti più impor-tanti.

Ricordo le persone nel rifugio che cercavano di trattenermi, ma io mi divincolai e uscii dal rifugio, rifacendo la strada in salita. Ero terro-rizzata a ripercorrere la strada di corsa, da sola, così piccola, la paura mi sconvolgeva, ma dovevo tornare indietro correndo, correndo, corren-do... e, finalmente, ritrovai la chiave per terra.

Il mio ricordo è fissato su quella chiave perché, se non fossi tornata indietro a prenderla, ero sicura che avrei smarrito il senso dei miei affet-ti e della mia famiglia.

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AUGUSTO RACCONTA: “HO VISTO I TEDESCHI IN FUGA”

Sono nato nel 1937 e, l’anno dopo, il Governo Mussolini promulgava le leggi razziali. Ero molto piccolo quando l’Italia entrò in guerra e, dai due anni sino ai sette, ho vissuto al limite della Città di Roma in una zona allora di campagna, tra la Via Aurelia e Via di Bravetta.

Vivevo presso una famiglia che abitava in una fattoria in mezzo al verde dei campi, con il giardino, la casa e la vista su di una piccola valle dove serpeggiava la strada che portava verso la Via Aurelia.

Ricordo poco del periodo bellico. Mia madre mi aveva fatto acco-gliere da questa famiglia, perché lei lavorava tutto il giorno. Quando io sono nato, mamma era una valente pianista, poi ha lavorato presso una società cinematografica ma, durante il periodo della guerra, è stata assunta in Banca, al posto degli uomini che erano andati al fronte. Un posto sicuro in un periodo difficile.

Forse mia madre, affidandomi a questa famiglia, pensava che in que-sto modo sarei stato protetto. Non so dirlo, perché non abbiamo mai parlato di questo. So soltanto che mio nonno materno era di famiglia ebraica, che era un violista e che aveva subito persecuzioni per la sua origine religiosa.

Nella fattoria vivevo sereno, andavo a scuola insieme ai figli della coppia che mi ospitava e tutto sommato, per me la guerra era una cosa

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lontana. Una mattina della metà di luglio, mi sveglio con un terribile mal di

pancia, febbre e brividi in tutto il corpo. Dapprima in casa pensarono che avessi mangiato qualcosa che mi aveva fatto male, ma con le ore che passavano, la situazione peggiorava sempre di più. Chiamare un medico in tempo di guerra ed in una fattoria tra i campi non era cosa semplice, ma ebbi fortuna. Un medico, che stava girando per alcune visite nei pa-raggi utilizzando la sua auto, fu rintracciato e venne al mio capezzale. La diagnosi fu peritonite acuta, con necessità immediata di ricovero.

Mi portarono così all’ospedale “Bambin Gesù” al Gianicolo, mi ope-rarono con urgenza e mi misero in un lettino, con le braccine legate con della garza alle paratie del letto, per impedirmi di toccare la ferita.

Fu così che vidi il bombardamento di San Lorenzo. Di fronte al mio lettino c’era un grande finestrone che affacciava, dal Colle Gianicolo, verso la Città di Roma, la quale appariva tutta raccolta sino all’orizzonte, oltre il quale si intravedevano dei monti. Sentii un gran trambusto e del-le voci provenire dal corridoio della camerata nella quale stavo. Arriva-rono un medico ed un’infermiera che si precipitarono verso il finestrone per vedere cosa stesse accadendo.

Da dietro le loro figure chinate sul davanzale, vedevo fuochi nel cielo e sulla terra, boati, rumore di bombardieri fumo e scoppi terrificanti. Non mi potevo muovere per via delle bende di garza che tenevano im-prigionate le mie braccia e quella scena del bombardamento, con me prigioniero delle bende, non la dimenticherò mai.

Tornai a casa salvato dalla peritonite e la mia vita di bambino rico-minciò come sempre, con i miei fratelli acquisiti, nella famiglia che mi ospitava.

Nell’estate dell’anno successivo, un giorno di giugno, vedemmo dalla nostra casa che guardava verso la valle, dove passava la strada che por-tava verso la Via Aurelia, una lunga fila di camionette tedesche in fuga. Procedevano lentamente ma inesorabilmente verso il nord, cercando di sfuggire all’arrivo degli alleati.

Avevo sette anni, ma capii che la guerra stava per finire e che quel-le scene terrificanti degli aerei che bombardavano il cielo e la terra di Roma, forse, non le avrei più riviste.

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Dal libro di memorie sulla seconda guerra mondiale UNA BAMBINA IN TEMPO DI GUERRA

scritto da Alberta Montanari per i suoi nipoti

Sono nata nella primavera del 1938 e quando l’Italia entrò in guerra, vivevo a Roma con mia madre, mio padre e mio fratello più piccolo, Arrigo.

Mio padre partì per l’Africa e mia madre, rimasta sola, portò me e mio fratello da suo padre, ad Ancona. Nella casa del nonno vivevano anche la sorella di mia madre Egle con i suoi bambini, Pietro e Isabella. Il marito di zia Egle era stato fatto prigioniero dagli inglesi in Egitto (allora possedimento inglese) dove lavorava come ingegnere portuale in un’impresa italiana.

Purtroppo Ancona fu tra le città più bombardate d’Italia.Per metterci al sicuro mamma e zia presero una casetta a Mar-

zocca (frazione di Senigallia). Davanti a casa c’era una spiaggia

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di sassi con cui noi bambini facevamo le costruzioni perché in tempo di guerra non si trovavano giochi. Un pomeriggio inoltrato uscimmo da soli per andare a prendere dei ciottoli sulla spiaggia. Faceva freddo ma il tempo era bellissimo, il mare calmo e tra-sparente, il cielo azzurro azzurro. Era il tramonto e lontano sulla spiaggia vedevamo i pescatori che tiravano a terra le reti con i pesci. Stavamo scegliendo i sassi quando sentimmo il rumore di un aereo. Era piccolo e brillava e mentre si abbassava sentimmo una serie di spari secchi e ravvicinati e i sassi saltavano per aria tutt’intorno: dall’aereo stavano sparando proprio su di noi con la mitragliatrice.

Corremmo come disperati verso il mare tuffandoci sott’acqua. Trattenevo il fiato quanto più potevo perché avevo paura che se

fossi uscita troppo presto mi avrebbero sparato ancora. A un certo punto non ce la feci più e tirai un po’ fuori la testa,

solo gli occhi e il naso per respirare. Era il tramonto, in basso si vedeva una striscia rosa di cielo. E

contro quel rosa si stagliavano le figurine blu dei pescatori che ti-ravano la rete. Vidi l’aereo abbassarsi verso di loro e quelle figurine cadere lentamente una a una.

Poi l’aeroplanino si alzò verso il cielo, diventò un punto lumi-noso e scomparve. Tutto nel più assoluto silenzio perché avevo le orecchie dentro l’acqua. Urlai e la bocca mi si riempì di acqua gelata. Mi sembra ancora di sentire quel silenzio terribile e la sen-sazione di gelo nella gola. Dopo di allora non riuscii più a urlare di paura perché mi si ghiacciava la gola e la voce non usciva.

Poi davanti a me uscì dall’acqua Isabella, ci guardammo e senza parlare tutte e due ci mettemmo in cerca di Arrigo. Funzionava così tra me e Isabella, ci capivamo con una sola occhiata e faceva-mo tutt’e due la stessa cosa.

Isabella si guardava intorno e lo chiamava a voce sempre più alta. A me si era bloccata la voce. Sapevo che avrei dovuto but-tarmi sott’acqua per ritrovare Arrigo ma avevo paura di quella sensazione terribile di gelo e di silenzio che avevo provato prima.

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Dovevo ritrovarlo, toccava a me pensare ad Arrigo che era piccolo perché mamma doveva occuparsi anche di tutti gli altri.

Mi sentivo così vigliacca e colpevole per non avere la forza di tuffarmi e mi misi a tastare il fondo del mare con le braccia, spe-ravo di trovarlo e di riportarlo a galla, poi di colpo, come spinto da una molla, Arrigo saltò su dall’acqua, senza ansimare e senza l’aria spaventata.

Lui era così, niente gli faceva paura. Aveva gli occhi spalancati e un’espressione buffa mezza arrabbiata e mezza sbalordita come a dire «ma che diavolo è successo?»

Mi si allargò il cuore mi venne quasi da ridere, ritrovai la voce e anche le orecchie tornarono a funzionare. Solo allora sentii mam-ma e zia Egle che correvano verso di noi chiamandoci tante e tante volte a voce sempre più alta. Dietro di loro veniva anche Elide. Ci presero e ci abbracciarono stretti, poi mamma vide quelle figurine azzurre dei pescatori buttate come stracci sulla spiaggia. Affidò me e Arrigo a zia Egle che ci consolava sempre e si mise a correre verso di loro.

Poi non si parlò più di quello che era successo ma io conti-nuavo a chiedermi perché quel piccolo aereo era sceso apposta per mitragliare noi bambini. Era chiaro che voleva colpirci, le pal-lottole della mitragliatrice avevano fatto schizzare in frammenti i sassi intorno ai nostri piedi e si erano fermate solo quando ci eravamo buttati sott’acqua.

Molti anni dopo seppi che un certo ammiraglio inglese, aveva studiato un piano chiamato di ‘dissuasione psicologica’ che consi-steva nel mitragliare non i militari, ma i bambini e le persone per strada e buttare bombe incendiarie su città d’arte come Dresda in Germania.

Il generale pensava che i governi italiano e tedesco per salvare la loro popolazione avrebbero smesso di bombardare le città in-glesi. Ma Hitler e Mussolini non si curavano della popolazione. Le persone per loro non contavano, erano come carte da gioco.

L’Inghilterra era stata costretta dalla Germania a entrare in

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guerra e lottava per la libertà sua e di tutti noi. Era bombardata notte e giorno, ospitava profughi da tutta l’Europa salvandoli dalla persecuzione nazista, non aveva aerei, bombe e soldati sufficienti a far fronte alla Germania. Solo la disperazione e la rabbia l’aveva-no portata ad accettare il piano dell’ammiraglio inglese.

Il brutto della guerra è che spinge persone normali a fare cose terribili come decidere di sparare sui bambini. Solo le persone comandate dalla coscienza come nonno Socrate, non si facevano cambiare dalla guerra.

Poi bombardarono la ferrovia dietro la nostra casa di Marzocca. Le ferrovie venivano continuamente bombardate perché portavano soldati, armi e cibo per il fronte.

Così tornammo ad Ancona che subiva più bombardamenti al giorno e dove non si trovava da mangiare.

In quel periodo i tedeschi davano la caccia agli ebrei e li deportavano nei campi di sterminio. Deportavano anche chi li aiutava e li nasconde-va.

Mamma e zia Egle erano amiche, dai tempi della scuola, di una fa-miglia ebrea, gli Ascoli, che aveva una villa a Montemarciano e cercava qualcuno che nascondesse dei loro parenti: una giovane madre Ester e il suo bambino Davide.

Così mamma propose un patto agli Ascoli.Lei avrebbe fatto finta di prendere in affitto la loro villa di Monte-

marciano che risultava disabitata, e avrebbe tenuto con sé nascosti Ester e Davide.

Così andammo nella grande villa degli Ascoli.

«Era bellissima con un gran cancello di ferro battuto che si apriva su un lungo viale che portava a una grande villa circondata da un giardino.

Lì ci aspettava Ester con Davide in braccio, ci abbracciò a tutti. Ci avevano assegnato delle belle stanze e noi bambini potevamo gio-

care dappertutto con la sola eccezione del salone che era grande e con tanti tappeti, quadri e divani eleganti.

Dietro la villa dopo il giardino, c’erano le case coloniche dove abita-vano i contadini.

Andavamo spesso a giocare con i bambini che vivevano lì che erano

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però dispettosi. Infatti il mio nome li faceva ridere e, ogni volta che mi vedevano, cantavano in coro «Alberta bertuccia butta la banana e man-gia la buccia!». Non potevo neanche picchiarli perché erano più grossi di me. Qualche volta giocavamo con loro e qualche volta ci litigavamo.

Non ricordo se Pietro giocasse con i ragazzi più grandi ma di sicuro non ci litigava. Lui andava d’accordo con tutti e non faceva mai storie.

Stavamo bene a Montemarciano, non bombardavano, c’era abbastan-za da mangiare, tanti posti per giocare e mamma e zia Egle erano con-tente per la compagnia di Ester e Davide era un bambino molto carino.

Una mattina, ci eravamo appena svegliati quando mamma arrivò di corsa e ci portò in camera sua.

Era la camera con il letto matrimoniale dove dormiva con zia Egle; c’era un tavolino con lo specchio, i rossetti e le ciprie. Mamma cominciò a spazzolarsi e truccarsi e intanto parlava con la sua voce bassa e deter-minata.

Ci spiegò che stavano arrivando i tedeschi e che se sentivano il nome di Sara o di Davide diventavano pazzi e li portavano via in Germania.

Noi dallo spavento ci infilammo sotto il letto e io chiesi «Ma i nostri nomi vanno bene?».

«Certo» rispose mamma «se sentono i nostri nomi stanno tranquilli». Ma se diventavano pazzi solo a sentire un nome, come facevamo a fidarci?

Intanto mamma finito di truccarsi, si infilò un vestito elegante e si mise le perle. Da sotto si sentì il rumore del portone che veniva spalan-cato e delle voci che parlavano in tedesco.

Mamma si alzò e si avviò verso la scala che portava a pianterreno, noi a gattoni la seguimmo e ci sdraiammo sul ballatoio, guardando attraver-so la ringhiera. Mamma scese lentamente con la schiena dritta e a testa alta. In basso alcuni soldati tedeschi si erano fermati e la guardavano. Mamma si fermò a metà della scala e con la sua voce calma e decisa disse: «Sono la moglie di un ufficiale italiano che è in guerra per la sua patria come lo siete voi e per questo vi chiedo di trattare me e i miei figli con rispetto comportandovi come soldati che hanno il senso dell’onore. Così come vorreste che si comportassero i russi se riuscissero ad arriva-re in Germania».

Ci fu silenzio. Il tedesco piccolo con gli occhiali si strinse nelle brac-cia e chinò la testa. Poi disse in italiano «Sarete trattati con rispetto. Vi

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lasceremo le camere e la cucina e occuperemo solo il pianterreno».Iniziò a dare ordini e i soldati portarono molti sacchi di sabbia per

sbarrare la scala. Mamma ringraziò e tornò in camera e noi dietro di lei.Poi sentimmo arrivare dei cavalli al galoppo, corremmo alla finestra

e vedemmo dei soldati a cavallo entrare dalle portefinestre nel salone della villa, quello in cui non potevamo giocare. Quei soldati a cavallo, avevano la pelle gialla, gli occhi allungati all’insù e dei baffi lunghi, lun-ghi e sottili che gli arrivavano al bavero della giacca. «Sono i tartari» disse mamma, noi non sapevamo neanche che esistessero, e aggiunse «Non nominate mai più Sara e Davide Ascoli».

Noi bambini uscimmo usando la scala esterna e in cucina facemmo colazione poi andammo a giocare alle case coloniche.

Lì sul ballatoio di una delle case c’era Sara vestita con un grembiule e un fazzolettone che le copriva i capelli e teneva Davide in braccio av-volto in una specie di pezza. Rimasi sbalordita perché Sara era sottile e sempre elegante e sembrava assurdo vederla con quel fazzolettone.

Il giorno dopo Sara e Davide non erano più alle case coloniche. Quel giorno continuavo a chiedermi: se questi tedeschi diventano pazzi per nomi così comuni come Davide e Sara cosa possono fare quando sento-no i nomi della nostra famiglia Socrate, Spartaco, Zaira? E il mio nome che anche gli abitanti delle case coloniche non sopportano? Allora decisi che non avrei mai detto il mio nome.

Ma c’era un soldato tedesco tanto gentile che mi fece vedere le foto-grafie dei suoi bambini e mi disse di chiamarsi Albert, allora gli confidai di chiamarmi Alberta e lui si mise a ridere. Mi prendeva in braccio, mi metteva in alto sui sacchi di sabbia e poi diceva «Eine, swein, stukas!». Io mi buttavo con le braccia aperte, lui mi prendeva al volo e mi faceva girare come fossi stata un aereo.

Quando giocavamo in giardino e c’erano anche mamma e zia Egle, il comandante tedesco, quello con gli occhiali che si chiamava Rudolf e parlava italiano perché aveva studiato arte a Firenze, veniva a sedersi e parlava con noi bambini. Mamma e zia Egle, infatti, non volevano dare confidenza ai militari.

Rudolf ci diceva, in modo che mamma e zia Egle sentissero, che lui veniva da una famiglia di soldati e che combatteva solo contro altri sol-dati non contro donne e bambini.

Adesso capisco che intendeva rassicurarle sulla sorte di Ester e Da-

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vide e sulla nostra. Ma allora io lo prendevo alla lettera, lui non com-batteva contro i bambini ma sapeva che gli altri lo facevano, così capii perché l’aereo ci aveva mitragliato e perché lanciavano sempre bombe dove stavamo.

La guerra era contro i bambini.Quando lo dissi a mamma lei si preoccupò. Pensava che per una

bambina era terribile pensare che eserciti in armi si muovessero contro di lei e, naturalmente, mi diceva che non era vero. E io ribattevo: «Ah sì? Ci tolgono i papà, ci bombardano, ci mitragliano, vogliono portare un bambino in Germania solo perché si chiama Davide e la guerra non è contro i bambini? La guerra è contro i bambini».

Ora so che la guerra non era contro i bambini però i bambini sono sempre le prime vittime di una guerra. So anche che Rudolf da soldato con il senso dell’onore, salvò la vita a tutti noi e così voi nipoti siete po-tuti nascere dai nostri figli.

Alberta Montanari

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STORIE DI ORDINARIA BUROCRAZIA

Ci sono tre tipi di intelligenza: l’intelligenza umana, l’intelligenza animale

e l’intelligenza militare. (Aldous Huxley)

Antonietta raccontaIntorno ai miei 18 anni mi è arrivata la cartolina per presentarmi a

fare il militare; io non c’ho creduto, non gli ho dato importanza… Dopo un po’ di tempo me n’è arrivata un’altra, ma io stavo tranquilla, non ero Antonio, mi chiamo Antonietta.

La terza cartolina me la portarono direttamente i carabinieri, i quali mi avrebbero arrestato se non mi fossi presentata in caserma. Con l’aiuto di mia sorella sono andata in Via Paolina, a fare la visita medica. Io ero una studentessa di stenodattilo e contabilità e in quel posto erano tutti più grandi di me. Non vi dico le battute e l’ironia che hanno fatto i mili-tari presenti, quando mi hanno visto arrivare! Poi, però, mi hanno detto di andare a casa, che ci avrebbero pensato loro a sistemare la faccenda.

Dopo aver verificato che non ero un uomo, mi hanno cancellato dal-la lista di leva e così per un certo lasso di tempo, durato molti anni, risultavo morta. Me ne accorsi parecchio tempo dopo, quando andai a chiedere un certificato, un estratto di nascita e mi sentii rispondere: “Signora, lei non esiste!” Mi sono così arrabbiata! Sono ritornata alla

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parrocchia di Sant’Assunta, dove sono stata battezzata, e ho chiesto al vecchio parroco Don Parisio il registro con i miei dati. Grazie a lui ho potuto fare il certificato di stato in vita.

Ma non finisce qui! Dopo un po’ di tempo è risultato che io giocavo ai cavalli e che avevo perso una intera tipografia…insomma comincia-rono a succedermi cose di tutti i colori. Mi veniva ingiunto di pagare le tasse di case in Sardegna e quisquiglie di questo genere. Insomma, alla fine ho dovuto cambiare la data di nascita. Quando mi sono sposata, mio padre ha dato in Vicariato una mancetta ad un impiegato,e quello mi ha cambiato la data di nascita. Così si è risolto il problema. Tutto questo perché quando sono stata registrata all’anagrafe si era rovesciata una bottiglietta d’inchiostro sporcando la mia posizione e chi mi ha re-gistrato è stato costretto ad indovinare. Dopo questa “correzione” ana-grafica, tutto è proseguito serenamente... fino a quando sono andata in pensione. Infatti All’INPS risultava che avevo 100 anni, avevano scam-biato la mia data di nascita con quella di mio padre!

Annamaria racconta…anche io non esistevo perché avevo il nome attaccato invece che

staccato… quando gliel’hanno detto a mio padre lui ha risposto: “Come non esiste? Io je sto a da’ da mangià da vent’anni…”.

Nicolina raccontaAnche a me hanno mandato la cartolina due volte fino a quando non

sono venuti anche i carabinieri. Allora mio padre mi ha accompagnato in Via Paolina, ha dovuto fare una dichiarazione e abbiamo dovuto fir-mare che mi chiamavo Nicolina…

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CESARE, BAMBINO IN TEMPO DI GUERRA, RACCONTA (testimonianza raccolta da AnnaMaria Calore)

Il carretto ghiacciaia della Peroni

Sono l’unico maschio nato dopo tre sorelle femmine, Wilma, Ger-mana ed Antonella. E’ nato anche un altro figlio maschio 15 anni dopo di me di nome Fabrizio, quando mia madre aveva ormai 46 anni.

Mi hanno chiamato Cesare su suggerimento di un cliente di mio pa-dre e dopo che già due maschietti, erano morti da piccolissimi. Mio pa-dre aveva un negozio di barbiere al numero civico 65 di Via Alessandria e, quando sono nato, voleva mettermi il nome di mio nonno, come aveva fatto con i due precedenti nati maschi e morti prematuramente. Questo cliente ed amico di mio padre, che aveva fatto la guerra ‘15/18 ed aveva subito la disfatta di Caporetto, gli disse: “chiamalo Cesare quest’ultimo nato. E’ un nome forte, importante e vedrai che questo maschietto sarà robusto e sopravvive”. E così è stato. Ecco il perché di questo mio nome.

Quel negozio di barbiere e l’attività di mio padre è poi passata a me che ne ho fatto un salone di parrucchiere per donna. Ora, che mi sono ritirato a vita privata, lo gestisce mio figlio Corrado, continuando la tra-dizione di famiglia.

Mio padre era molto preciso nel suo lavoro e non voleva che noi

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bambini toccassimo nulla nel negozio. Quando il negozio era gestito da mio padre, il civico 63 di Via Alessandria non era come è adesso. Mio padre aveva aperto il suo negozio nel 1929 e vi si accedeva anche dal portone del 63 dopo le scale che portavano alla portineria. Se si riuscisse a togliere lo sportello inchiodato sulla porta a lato delle scale, si legge-rebbe ancora la scritta “parrucchiere per signora”.

Il negozio era piccolo e nel cortile, che ancora oggi esiste anche se tutto diverso, non affacciavano le case di Via Mantova come ora, ed era un cortile molto grande. C’era un locale con dentro una vacca dove mungevano il latte e lo vendevano ai clienti. Poi con il tempo, è diventa-to una vera e propria latteria.

Il cortile confinava, sul fondo, con la fabbrica del ghiaccio della Bir-ra Peroni. Dalla fabbrica uscivano delle colonne di ghiaccio avvolte in grandi teli di juta che venivano caricati su carretti ghiacciaia trainati da cavalli con delle zampe molto robuste.

Quando il ghiaccio veniva consegnato ai negozi che ne avevano biso-gno (macellerie, latterie etc. etc.) le colonne di ghiaccio venivano spez-zate a colpi di accetta dall’operaio della Peroni addetto alla consegna. Noi ragazzini, allora, ci mettevamo tutti intorno all’uomo che tagliava il ghiaccio perché, con il colpo, saltavano intorno tutti frammenti di ghiaccio che, noi ragazzini, ci precipitavamo a raccogliere, leccandoli avidamente come se fossero gelati.

La Peroni è stata l’ultima fabbrica ad abbandonare questa zona del quartiere, perché sulla parete dello stabilimento, c’erano diverse boc-chette d’acqua proveniente dalla sorgente sotto lo stabilimento. L’acqua era fresca e buona e la gente veniva per riempire bottiglie e damigiane. La Fabbrica dei biscotti Gentilini era già dovuta andare in periferia per via del divieto di inquinare dentro la città, mentre la Birra Peroni conti-nuava ad avere continue deroghe per il fatto che era difficile trovare un luogo in periferia dove ci fosse tutta l’acqua necessaria per la sua attività. Ma dopo tante deroghe, la fabbrica dovette chiudere i battenti e trasfe-rirsi nella periferia di Roma.

Tornando al negozio di mio padre, ricordo di come io e mia sorella, giocavamo ad “acchiapparella” tra l’ingresso del portone e quello della strada, rincorrendoci lungo le scale, il negozio e l’androne del palazzo. Giocavamo così, divertendoci come matti per interi pomeriggi. Dopo le elementari, ho iniziato a fare le scuole commerciali che erano in via

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Alessandria, dove adesso c’è un Hotel, all’angolo con Via Reggio Emilia. Non ero bravissimo a scuola e, non appena sono stato rimandato in al-cune materie, mio padre ha deciso di mettermi a negozio per lavorare insieme a lui.

Papà era un uomo molto elegante, amava gli abiti di classe e le belle camicie. Era così elegante che lo chiamavano “il Conte”. Tutti questi abiti e camicie su misura, però, se li era comperati prima di sposarsi e, dopo aver sposato mia madre che faceva la camiciaia, non si è comperato più nulla. Solo in occasione del matrimonio di mia sorella, lo abbiamo visto acquistare un abito nuovo per sé! Comperava, però gli strumenti per fare bene il proprio lavoro e li teneva con molta cura, pulendoli ed asciu-gandoli continuamente.

Mio figlio Corrado, ce l’ha con me perché ho buttato tutti gli ar-nesi di mio padre, che erano oggetti d’epoca e molto belli: arricciabaffi strumentazione antica da negozio di barbiere, a me sembravano oggetti superati, ma forse ho sbagliato a liberarmene quando ho rinnovato il negozio.

Papà amava molto il suo lavoro, andava anche a casa dei clienti per fare barba e capelli e pure presso alcuni ospedali dove tagliava i capelli ai ricoverati. Però il sogno suo era diventare parrucchiere per signora, perché era molto bravo a fare tagli alla garçonne. Non l’ha potuto fare lui e lo sono diventato io parrucchiere per signora. Per fare questo taglio alla garçonne, che doveva essere molto preciso, mio padre si recava sino a Via dei Villini dove, se non erro, abitava una sua cliente, la scrittrice Grazia Deledda, mentre io con il negozio per signora, sono state le clien-ti a venire da me.

Durante il periodo della guerra, abitavo a Corso Trieste, all’angolo con Via Corsica e giravo con i pattini per le strade del quartiere, pur sa-pendo che se mi incontravano i vigili urbani, mi avrebbero sequestrato i pattini. Mi ricordo molto bene del bombardamento di San Lorenzo, anche se ero solo una ragazzino. Ho un ricordo legato ad un odore ter-ribile che aleggiava nell’aria di quel torrido Agosto quando, per diversi giorni i volontari, con un fazzoletto legato su naso e bocca, scavavano tra le macerie per recuperare i cadaveri. Faceva caldo ed i corpi delle persone uccise dal bombardamento, erano ormai in decomposizione a causa del caldo e rendevano l’aria irrespirabile impregnata di un forte odore di morte. Quell’odore mi restò nelle narici per giorni e giorni e

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non l’ho più dimenticato. Ricordo anche che trovai nel cortile del palazzo dove abitavo quattro

spezzoni di bombe, perché una bomba era caduta a via Pola, vicinissi-ma a casa mia. Un’altra bomba era caduta a Via Messina, vicinissima al negozio di mio padre. Quest’ultima aveva sfondato un palazzo ma non è esplosa. Queste bombe, tutte sganciate sopra San Lorenzo, mi fece-ro comprendere quanto, civili inermi, potessero pagare il prezzo del-la guerra. La scuola che frequentavo, era chiusa e quindi stavo a casa. Ricordo pure che, una mattina girando per il quartiere, vidi in alto nel cielo sopra il parco Nemorense aerei militari che cercavano di colpirsi a vicenda. Avevo paura di quel duello aereo e sapevo che qualcuno di quegli aerei impegnati nel combattimento sarebbe potuto cadere, ma non riuscivo a staccare gli occhi da quella scena. Della guerra ricordo tanta paura ….. e tanta fame. C’era un fornaio vicino a dove abitavo che esponeva roba da mangiare da far venire l’acquolina in bocca. Io guarda-vo la vetrina insieme a mia sorella che era più grande di me e piuttosto cicciottella. Ma non osavo chiedere mai cibo. Lei no, lei chiedeva e qual-che volta rimediava pure qualcosa.

Quando arrivavano gli aerei da bombardamento, scappavamo nel ricovero antiaereo sotto il palazzo dei gerarchi fascisti a Piazza Trento. Sotto quel palazzo c’era un rifugio che passava oltre Corso Trieste, tutto scavato sottoterra. Se invece i bombardieri arrivavano mentre stavamo a negozio, ci rifugiavamo nelle cantine di Via Alessandria 63, molto più vicine al negozio di papà.

Nel parco Nemorense c’era un campo militare di tedeschi, un loro comando e, dopo la liberazione di Roma, nello stesso posto, c’era un comando militare di Americani. La guerra era fatta così! Un altro co-mando tedesco era all’interno del Liceo Giulio Cesare e, dopo la caduta di Mussolini vi si era insediato un comando di soldati italiani sbandati. Una mattina vidi il “Giulio Cesare” circondato da camionette e da solda-ti con i fucili puntati. Fecero uscire tutti quei militari sbandati, li fecero salire sulle camionette e finirono tutti in un campo di concentramento.

Quando arrivarono gli americani, per noi ragazzini fu tutta una fe-sta. Ci arrampicavamo sui loro blindati e li accoglievamo con gridi di gioia perché loro ci gettavano, a piene mani, delle strane caramelle colo-rate con il buco, che noi non avevamo mai visto. Noi ragazzini capimmo che qualcosa era cambiato e che la vita poteva ricominciare, da queste

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caramelle con il buco e dall’aria gioiosa che si sentiva intorno; c’era vo-glia di ricominciare a costruire una vita normale.

Con più tranquillità, noi ragazzini, riprendemmo a giocare dentro il canneto, lungo il fosso di Sant’Agnese dove ora c’è il Quartiere Africano. Allora non c’erano tutte le costruzioni che ci sono adesso e non c’era neppure il ponte delle Valli. Noi andavano a giocare “agli esploratori” lungo il fosso sino al fiume Aniene. Non era raro che qualche persona morisse affogata nel fiume, perché lungo la scarpata che portava all’A-niene, c’erano tutti orti coltivati e l’acqua per annaffiare si prendeva dal fiume. Anche un ragazzo, un nostro amico poco più grande di noi, morì affogato. Adesso quel fosso è scomparso, coperto per costruire grandi palazzi.

Quando eravamo stanchi di giocare agli esploratori, andavamo nei giardini a rubare la frutta. Io non mi ricordo di aver mai rubato e man-giato frutta matura perché la rubavamo ancora acerba, e quella frutta non arrivava a maturarsi mai. Ma aveva il sapore speciale del rischio e quello di una “azione” fatta insieme ai compagni di giochi, perché erava-mo un gruppo di amici affiatati, e perché, se ci prendevano i proprietari dei giardini ci davano un sacco di botte. E dopo che averle prese, ce ne stavamo zitti zittii! Tornavamo a casa facendo finta di niente e se i nostri genitori vedevano segni e lividi, dicevamo che eravamo caduti. Se no, ti prendevi un altro supplemento di ceffoni. Però, vuoi mettere il sapore speciale di quelle nespole verdi, di quelle albicocche che non arrivavano mai ad essere mature e vuoi mettere il piacere di condividere il bottino con i tuoi compagni di giochi!

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LA PRIMA COMUNIONE DI MARIA, IN TEMPO DI GUERRA

Rosaria, la sorellina di Maria L’abito che indossi lo devi sentire come una seconda pelle.

Allora sì che diventa uno dei modi per comunicare i tuoi sentimenti agli altri.

Sono nata nel 1938 a Castel di Tora, un piccolo paese sul lago del Tu-rano, in provincia di Rieti, e ho fatto la prima comunione nell’immedia-to dopoguerra. Non c’era ricchezza in quel periodo e ricordo che mam-ma mi aveva fatto il vestito con la stoffa di un paracadute, perché mio zio, che abitava a Monterotondo, era un paracadutista. La stoffa era di seta e bellissima, ma era sempre stoffa di un paracadute! Allora mamma, per impreziosirlo un po’, fece delle rose con l’uncinetto applicandole, tutte intorno sul bordo in fondo all’abito bianco della prima comunione.

Da sotto il vestitino bianco, si vedevano le scarpe di pezza, bianche anche loro come si usava allora. Al paese mio, le scarpe di pezza, veni-vano cucite dalla signora Anita, una bravissima donna che sapeva fare miracoli con l’ago. Io non ho un ricordo preciso di quel giorno, avevo solo sette anni, però mi ricordo il disagio di sapere che il mio vestito era diverso da quello di tutte le altre bambine.

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Ero la terza di cinque fratelli, e mia sorella più piccola, Rosaria che ha dodici anni meno di me, non era ancora nata quando io feci la prima comunione! Quando questo giorno così importante per una bambina toccò a lei, io già lavoravo perché facevo l’assistente presso uno stu-dio dentistico a Roma. Con i primi soldi che guadagnai decisi di fare un regalo speciale a Rosaria: quello di comprarle un vestito per la sua prima comunione. Per acquistarlo, andai al centro di Roma, vicino al Campidoglio, in via della Botteghe Oscure. Regalarle quel vestito, ric-co di tulle e merletto, è stato come se lo avessi regalato a me stessa … le confezionai una bellissima scatola, ci misi dentro anche le scarpette bianche di pelle vera e persino una piccola borsa per il fazzolettino ed il libricino da messa.

Mentre inserivo, con tutta la delicatezza possibile l’abitino per la pri-ma comunione di Rosaria nella scatola, provai una grande gioia anch’io, come se potessi festeggiare di nuovo, ma in modo diverso e migliore di come mia madre, poverina, aveva potuto fare. Ero talmente orgogliosa di averle potuto comprare quel vestito, che è stato come se l’avessi indos-sato anch’io insieme con lei. Dallo sguardo di mia madre si capiva che era molto soddisfatta di quel regalo che stavo facendo alla mia sorellina più piccola, perché era un regalo quasi di lusso. Questo fatto, però, non le impedì di sottolineare, più volte, che anche il vestito della mia prima comunione era stato tanto, tanto carino!

Chissà che fine ha fatto quel vestito cucito con la seta del paracadute, forse è stato scorciato, forse è stato tinto … forse mamma l’avrà regalato generosamente a qualche bambina che ne avrà avuto necessità, e mentre sto raccontando queste cose, mi sembra di stare lì, in paese, a rivivere quelle sensazioni ed emozioni.

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LA GUERRA A POGGIO FILIPPO GIUSEPPINA RACCONTA

…I vostri figli non sono i vostri figli. Sono i figli e le figlie della brama che la Vita ha di sé. Essi non provengono da voi, ma per tramite vostro, e

benché stiano con voi non vi appartengono. Kahlil Gibran,

Era il 1942, c’era la guerra ed io avevo 6 anni. A Poggio Filippo, c’e-ra un uomo che si chiamava “il sor Giuseppe” e che stava in politica. Quest’uomo addestrava i ragazzi che dovevano partire per la guerra, non solo i ragazzi del mio paese ma anche quelli che abitavano a Col-le San Giacomo. Mia madre in quel periodo era ansiosa e spaventata perché era passato solo qualche mese da una tragedia accaduta nella mia famiglia dove, in brevissimo tempo, erano morti tre fratellini. Aveva paura che accadesse qualcosa anche a me, ed allora mi impediva di met-termi sull’uscio di casa per vedere questi ragazzi che passavano, cantan-do, per andare a fare le esercitazioni di guerra. Mi faceva sedere vicino al camino, dentro casa e ben protetta, impedendomi di andare fuori.

Mi dava tra le mani la “rocca” per filare, così ero distratta da questo lavoro e me ne stavo tranquilla. La “rocca” l’aveva costruita mia padre

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con le sue mani. Per costruirla prendeva una canna abbastanza grossa, poi con un ferro la chiudeva da una parte dall’altra ed apriva 4 bracci che poi fermava sopra ricavandone una di ciotola dove si metteva la lana grezza. Dalle scannellature della “rocca” si tirava giù la lana con le dita, sputandoci sopra e tirandola, sempre con le dita umide, per farne un filo di lana di pecora, pecora che mio padre aveva tosato.

E così, filando filando arrivò il terzo anno di guerra, il 1943, quando sono arrivati i tedeschi ed hanno requisito le case migliori che c’erano a Poggio Filippo, compresa quella del fratello di mio padre. Si posizio-narono anche a Colle Fiaschi, sopra il paese, in uno spiazzo dal quale si dominava la valle sottostante e la via Cingolana e, a San Filippo comin-ciarono ad essere presenti i carri armati che, per arrivare a Colle Fiaschi, dovevano necessariamente passare per il paese che sembrava sempre di più un campo militare.

La strada che passava per Poggio San Filippo era piena di pietre e solo i carri armati cisi potevano inoltrare. Io, con gli altri ragazzini del paese, stavo sempre intorno a questi mezzi militari perché i soldati re-galavano caramelle. Mi ricordo in particolare di un comandate tedesco con una grande mantella a ruota, anche lui ci dava caramelle ed a me bambina non sembrava poi così cattivo. Sempre nel 1943 c’è stato un brutto bombardamento su Poggio Filippo, Magliano dei Marsi ed altri paesi della valle e mi ricordo che tagliarono anche il filo del telegrafo per impedire le operazioni militari.

Durante la guerra, vennero a stare in paese gli sfollati provenienti anche da luoghi lontani come la Calabria. Arrivarono famiglie intere, ma anche madri con bambini piccoli. Qualcuna di queste famiglie stava in paese altre a circa tre kilometri di distanza.

Il fratello di mio padre, al quale era morta la moglie da poco, si era affezionato ad una di queste bambine sfollate insieme alla madre. Tutte le sere si faceva tre kilometri ad andare e tre a tornare, per andare a tro-vare la bambina che si chiamava Jolanda e sua madre che si chiamava Teresa. Finita la guerra, gli sfollati piano piano ritornarono ai loro luoghi di origine e questo fratello di mio padre, prima che lei partisse, chiese alla mamma della bambina se volesse sposarsi con lui. Questa donna era molto più giovane di mio zio, ma acconsentì volentieri al matrimonio.

Chiese solo di poter tornare prima al suo paese, che era in Calabria, per prendere le sue cose ed il corredo da portare in dote. Stette via un

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po’ di tempo e cominciavamo a pensare che non sarebbe più tornata. Ma un bel giorno, lei riprese il treno dalla Calabria per arrivare a Roma, poi da Roma, a piedi lungo tutta la via Tiburtina, sino a Tagliacozzo ed infine tutta la strada in salita in montagna sino a Poggio Filippo.Tutto il tragitto con la sua bambina per mano, che aveva più o meno la mia età, e tutto il suo corredo di biancheria poggiato sulla testa!

Vedere tornare Jolanda e Teresa è stata una cosa bellissima…. Nes-suno in paese credeva che sarebbe successo! Mio zio ha così sposato Te-resa ed ha dato il suo cognome a Jolanda, quindi Jolanda è stata per me come una cugina carnale ed eravamo molto affezionate l’una all’altra.

A Poggio Filippo, quando moriva un bambino in una famiglia, i genitori andavano ad un brefotrofio di Roma dove venivano ospitati bambini abbandonati oppure orfani di entrambi i genitori . Non aveva importanza se in famiglia c’erano già altri figli, anche o sei o sette, il bambino preso in brefotrofio veniva trattato come i figli naturali. Anche un fratello di mia madre aveva preso in casa una bambina, figlia di una ragazza madre che lui cresceva come se fosse stata sua figlia ma, dopo diversi anni, la mamma naturale è venuta a riprendersela.

Accadde in questo modo: la casa della mia famiglia era proprio all’i-nizio del paese, sulla strada che veniva da Tagliacozzo. Mia madre non andava a lavorare in campagna come le altre donne e quindi stava, di solito in casa e da casa poteva vedere tutto quello che accadeva sulla strada. Vide questa donna che saliva verso Poggio Filippo e che si fermò davanti alla nostra porta come per chiedere informazioni. Infatti, voleva sapere dove abitava stava una bambina di nome Maria che era ospitata presso una famiglia dal cognome Pendenza. Mia madre e mio padre avevano lo stesso cognome Pendenza e mamma capì la donna cercava suo fratello Nino che, appunto, aveva preso la piccola Maria al brefo-trofio. Dette quindi le indicazioni richieste e la donna tornò indietro sulla strada perché la casa che cercava era vicino alla fontana in basso prima del paese. L’arrivo di questa madre fu un dramma nella famiglia di mio zio… perché Maria voleva restare con la gente che l’aveva accolta e non voleva saperne di andare via con la madre naturale. Piangeva, gridava….. anche mio zio, la moglie ed i loro quattro figli maschi, erano disperati perché si erano molto affezionati alla bambina. Non ci fu nulla da fare e Maria se ne dovette andare con la madre che era venuta a ri-prendersela dopo tanti anni!

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CECILIA, E IL SUO “ALBUM DI FAMIGLIE”

Quando la lingua vuole parlare, deve al cuore domandare (proverbio contadino)

Sono un’insegnante che ha lavorato in tante scuole della valle dell’A-niene come Tivoli, Roviano, Guidonia arrivando a lambire la periferia romana nella zona di “Settecamini”.

Ho avuto, prevalentemente, classi composte da ragazze perché inse-gnavo in scuole professionali per la moda. In tutta la mia carriera, ho avuto solo due allievi maschi! Con alcune delle mie allieve abbiamo-composto l’albero genealogico delle loro famiglie e ricostruito storie di vita di paese, sia in dialetto che in italiano.

E’ stata una esperienza bellissima perché molte delle storie rico-struite dalle mie allieve sono legate emotivamente a me, alla mia infan-zia ed alla mia giovinezza.Riportano ad abitudini e tradizioni alimentari che ho vissuto nella famiglia di mio padre, nel piccolo paese di Vivaro Romano, a 10 km da Castel di Tora (Rieti). Oggi sono rimasti solo 120 abitanti, in quel paese.

Nelle famiglie di Vivaro, esistono tante storie che sono state raccolte dalla viva voce degli abitanti, e io stessa ho vissuto quelle nar-razioni attraverso i racconti di mio padre. Ricordo la storia diuna fami-glia di undici figli che, a causa della mortalità infantile (l’epidemia della “spagnola” aveva decimato intere famiglie), erano rimasti solo in cinque.

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Alcune delle storie che ho ascoltato,le amo in modo particolare. Per esempio, quando accadeva che un piccino era molto ammalato

e non c’era più speranza che potesse salvarsi, la mamma in preda alla disperazione, iniziava a gridare ad alta voce, come in una nenia antica, come in un poema tragico senza tempo la parola “Vita, vita”, con l’il-lusione e la speranza che la vita, che stava uscendo dal corpo del suo piccino, tornasse indietro, dentro di lui per salvarlo e farlo guarire. Nel gridare questa speranza, inveiva contro Mussolini e contro il Re, che avevano portato via i figli suoi e quelli delle altre donne del paese a mo-rire da soldati, in una brutta guerra che aveva trascinato le loro famiglie nella miseria.

Ecco alcuni di quei versi in strofa

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Altri bellissimi versi in strofa, sono quelli della descrizione di come si fa la polenta; nel leggerla sembra sentire il profumo della farina di granturco e mentre si gira con lo stenterello, nello stesso verso senza fermarsi, bisogna essere bravi a non formare i “frati”, quelle palline dure di farina che rimbalzano come sassolini, scorno delle donne che stanno faticando in quel momento a cuocere la polenta.

Quand’ero più giovane al paese di mio padre, Vivaro, ci andavo più spesso, specialmente da bambina e soprattutto durante le vacanze sco-lastiche.

Certe volte avevo voglia di fuggire da Roma, e allora andavo da sola al paese… adesso non ci vado più volentieri come prima, sento troppo il freddo della montagna.

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ANTONIETTA E LE ALTRE

Un dolore condiviso è un dolore dimezzato. Una gioia condivisa è una gioia raddoppiata.

(Proverbio svedese)

Questa narrazione che abbiamo raccolto, ci è stata donata da Anto-nietta, bambina durante la guerra in una delle prime borgate dell’Agro Romano: Val Melaina. I suoi ricordi, frammentari perché Antonietta era molto piccina all’epoca, sono stati messi in comune nel gruppo “Noi, bam-bini in tempo di guerra – Comunità Mamre” con molta partecipazione emotiva perché, nelle case popolari di Val Melaina vi era una grande ca-pacità di condivisione fra coinquilini, un ambiente di rara umanità e soli-darietà, ben evidenziata nel film “Ladri di biciclette” di De Sica.

Al racconto di Antonietta, si sono agganciate le testimonianze delle altre partecipanti al gruppo, anche loro “bambine della guerra” ed il ri-sultato è stato un toccante mosaico di testimonianze diverse viste da occhi di bambine in un periodo terribile dove era possibile, comunque, avere squarci di autentica profonda umanità.

Abbiamo lasciato le inflessioni dialettali, quali espressioni spontanee di una vicenda personale raccontata ad altre amiche.

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Antonietta inizia a raccontare:… mentre festeggiavamo la nascita di mio nipote Enrico, figlio di

mia sorella, che ha frequentato anche questo circolo di lettura a Mamre, fuori cadevano le bombe. Noi festeggiavamo con quel poco che c’era, ricordo una bottiglia di vermouth e du’ biscottini risicati, ma a me sem-brava comunque una grande festa. Un’altra mia sorella, Gina, che era una brava sarta, da ‘na coperta grigia m’aveva tirato fuori un bel cap-pottino molto carino ed io, che ero una fanatica da piccoletta, avevo, finalmente, un vero cappottino tipo militare, con le taschette, il bavero e tutto il resto…ed era proprio bello.

Mia madre aveva avuto undici figli, dieci femmine e un maschio, il maggiore di tutti, che era partito per la guerra, era stato dato per disper-so e non avevamo avuto più notizie.

Tornando alla festa di mio nipote Enrico, ecco che mentre festeg-giavamo, suona l’allarme. Dovevamo scappare al ricovero ma io, con questo cappottino nuovo, manco potevo correre bene…… ed ecco che casco dentro ‘na pozzanghera de fango… e me se impiastra tutto ‘sto cappotto! Questa è un ricordo di quella giornata che mi è rimasto molto impresso………..

Le altre: ah… poverina…..Antonietta: .. e gli altri mi facevano…. “Corri, non ti fermare, corri!”.

Perché dovevo andare al rifugio, c’era il bombardamento. Come cerco di entrare nel rifugio, e il bombardamento non era ancora finito, ho visto una scena terribile che mi ha colpito profondamente, alla quale ancora mi capita di pensare: una signora anziana, una vecchietta, nella fuga era caduta per terra e, nella fretta di scappare nel ricovero, le passavano tutti sopra ...

Marilena: anche a me, durante la fuga per raggiungere il rifugio, mi hanno passato sopra, ero per le scale, a San Giovanni, Via Taranto, mi s’era slacciata una scarpa...

Antonietta: … Dentro al ricovero di Val Melaina per sederci aveva-mo dei sassi e cerchevamo di ridere per superare la paura che era tan-ta!… c’era chi faceva il teatro, chi cantava ‘na canzone… ognuno s’inven-tava qualcosa, soprattutto i giovani; poi mi ricordo ancora che, quando arrivavano i tedeschi, io che ero piccoletta e non insospettivo, andavo a bussare a tutte le porte per far scappare i ragazzi che, con una corda, s’arrampicavano sul terrazzo e se nascondevano dentro i cassoni dell’ac-

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qua. Oppure scappaveno sul monte sopra Val Melaina, vicino la Chiesa, e noi non sapevamo che fine facevano, perché scappavano tutti insieme, perché se li prendevano li fucilavano. C’era un signore, una bravissima persona, che abitava all’interno uno e faceva il sarto, che, rischiando la propria vita, andava ad avvisarli tutti ed ha salvato tantissimi ragazzi.

Un rifugio antiaereo del 1940

Antonietta: … Dentro al ricovero di Val Melaina per sederci aveva-mo dei sassi e cerchevamo di ridere per superare la paura che era tan-ta!… c’era chi faceva il teatro, chi cantava ‘na canzone… ognuno s’inven-tava qualcosa, soprattutto i giovani; poi mi ricordo ancora che, quando arrivavano i tedeschi, io che ero piccoletta e non insospettivo, andavo a bussare a tutte le porte per far scappare i ragazzi che, con una corda, s’arrampicavano sul terrazzo e se nascondevano dentro i cassoni dell’ac-qua. Oppure scappaveno sul monte sopra Val Melaina, vicino la Chiesa, e noi non sapevamo che fine facevano, perché scappavano tutti insieme, perché se li prendevano li fucilavano. C’era un signore, una bravissima persona, che abitava all’interno uno e faceva il sarto, che, rischiando la propria vita, andava ad avvisarli tutti ed ha salvato tantissimi ragazzi.

Io ero piccolina e andavo a scuola vicino casa, a Montesacro; c’ave-

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vano insegnato che quando sentivamo la mitraglia, ce dovevamo buttà per terra. Noi ragazzine che andavamo a scuola tutte insieme c’erava-mo ormai abituate a tutto quello che c’accadeva intorno. Avevo cinque anni e facevo l’asilo. Sentivamo la mitraglia e ci buttavamo per terra, poi quando la mitraglia taceva, ci rialzavamo e arrivavamo a scuola. Era diventata una cosa normale per noi, se viveva anche in quella maniera.

Mio padre in quel periodo non c’era perché aveva un’impresa di co-struzioni ed era fuori per lavoro, mio fratello Biagio era prigioniero ad Addis Abeba e non sapevamo niente di lui…..ma poi è tornato e adesso frequenta il laboratorio di lettura anche lui e scrive poesie in dialetto romanesco..

Le altre: Biagio, st’altr’anno fa cent’anni!Antonietta: si, adesso mio fratello Biagio c’ha novantanove anni…

Lui racconta che ha salvato la pelle dalla guerra in Africa per miracolo, stava su una nave con gli altri militari italiani …. sono dovuti scappà via…. E racconta pure che ce l’ha fatta a sopravvivere e a fa’ la traversata grazie ad un pezzo di legno, … ha raccontato che bagnavano i lenzuoli per sopravvivere, perché lì faceva caldo. E allora con i lenzuoli bagnati addosso lui è stato uno dei pochi che ce l’ha fatta a ritornare a casa. Io ero troppo piccola per sapere tutti i particolari, lui lavorava all’aeroporto dell’Urbe.

Annamaria: questo fatto dei lenzuoli…mi ricordo che una mia pro-fessoressa di educazione domestica… sì, economia domestica.. Ci rac-contava di essere stata ad Addis Abeba e quando doveva uscire di casa, per andare ad un’altra casa, doveva mettere queste lenzuola bagnate so-pra e quando arrivava là queste lenzuola erano asciutte. Me lo hai rifatto venire in mente….

Antonietta: Quando ci hanno avvisato che mio fratello era tornato a casa e le mie sorelle sono andate alla stazione per prenderlo, mamma era diventata quasi matta ……….. non capiva più niente, più niente!!!

Ho solo questi ricordi del ritorno di mio fratello dalla guerra, e quel-lo di una filastrocca di persone che venivano dentro casa e lui, Biagio, con la barba lunga, vestito con i pantaloni a metà gamba… Poi un’altra cosa che adesso mi viene in mente del periodo della guerra e che mi aveva colpito è che dovevamo tenere i vetri delle finestre con le coperte, tutte chiuse non se doveva vede’ la luce fuori…

Le altre: copriluce… no, coprifuoco

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Antonietta: si, coprifuoco, le finestre non si potevano proprio aprire. Mi ricordo che mamma riusciva a preparare dei buoni pranzetti, però non potevamo mangiarli a casa, perché suonavano le sirene; allora ci portavamo tutta questa roba al ricovero. Era una festa, per noi: peperoni col pomodoro, il pane… ognuno por-tava qualcosa e si mangiava là dentro. Ancora sento l’odore della muffa di quei sassi, un odore strano…

Marilena: … io sento l’odore degli scantinati, di quei ricove-ri… uhh io non ci volevo andare perché non volevo morire sotto terra. Io non avevo né mamma né padre con me nel rifugio….

Antonietta: un’altra cosa strana: il palazzo era fatto tutto di cemento armato, quindi era forte come palazzo, e mio padre ci di-ceva …. “Mettetevi sotto le colonne di cemento”. Allora faceva-mo venire tutte le persone della scala e le facevamo mettere sotto alle colonne di cemento, bene al sicuro, e noi invece, ragazzini, ce ne stavamo fuori…….questi sono i ricordi che mi vengono in mente… insieme a quelle della vita dentro il rifugio, dove i ragazzi organizzavano spettacoli, cantavano, ballavano, facevano l’imitazione di Totò, oppure… (canta) “E Ciccio ciccio, non lo sa…”

Le altre: Pippo pippo….. non Ciccio!

Antonietta: si, Pippo pippo… ci divertivamo, ballavamo, e quasi, quasi non si sentiva nulla della guerra, però ogni tanto certi botti.. bum bum … le bombe ci cascavano proprio intorno, era tremendo, mamma mia… poi la paura, perché i marocchini passavano per le case: bussavano, io mi ricordo queste facce brut-te…le ragazze avevano paura perché i marocchini combinavano macelli, dovevano sparire tutte, le ragazze. Non me li scorderò mai, infatti quando adesso guardo un marocchino dico: chissà, forse questo poraccio non c’entra niente, però…

Le altre: …una tensione, perché tante ragazze sono state vio-lentate

Antonietta: le ragazze dovevano scappare via, un macello.

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Ero io, la più piccola, che cercavo di andare al forno vicino casa a prendere la roba da mangiare, le ragazze dovevano uscire il meno possibile…. non sapevamo niente, lui, tornando avrà mandato una cartolina.. penso io… ma ero troppo piccola per ricordare…., però lo voglio chiedere alle mie sorelle…..…

Una delle mie sorelle, Luigia era sposata e viveva in casa con noi, allora si stava tutti insieme, non è che c’era la camera per quello e la camera per l’altro… io me ricordo certi calci nel se-dere con mia sorella Iole… …perché dormivamo in due su di una brandina, una da capo una da piedi….. Quando sono nata io, pesavo 5 chili e 8, e mio fratello Biagio, l’unico maschio di casa, non me voleva vedè, perché s’era stancato: dieci femmine e un maschio, lui era il primo. Quando sono arrivata io non ne poteva più di avere sorelle femmine…

Adesso siamo rimasti solo in sei in vita, gli altri non li ho ne-anche conosciuti perché sono morti piccoli: adesso siamo rimasti Gina, Maria, Iole, Biagio, Antonietta e Rita, ne sono morti cin-que. Quando ero piccola oltre a noi fratelli, c’erano anche i miei genitori e i nonni: una bella famiglia!

Mi ricordo quando mamma metteva.. quella pentola di pasta e patate a tavola… Mamma mia! … Ci chiamaveno per mangiare e noi, che stavamo giù a giocare, chi c’andava a mangià pasta e patate… che schifo!

Elda: Ti posso dire un altro particolare? Noi eravamo quattro figli, mamma si riforniva da una infermiera del Policlinico che ci portava il mangiare che levava dai comodini dei morti al Policli-nico.

Bianca: Mio padre andava con la bicicletta sull’Appia Antica e comprava la roba alla borsa nera; noi abitavamo a piazza Tu-scolo e avevamo una stanzetta piccolina con tutte le provviste. Quando c’era il bombardamento mia madre preparava una grande zuppiera, con i cannolicchi e con il sugo e andavamo a mangiare giù nel rifugio. Mi ricordo che una volta sentimmo un odore di gallina in brodo;…….. a una signora era sparita una gallina e il

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portiere l’aveva presa e c’aveva fatto il brodo. Almeno è una cosa allegra, questa….

Elda: Invece ve ne dico un’altra. Quando siamo sfollati in To-scana, io avevo quattordici anni e, ad Orbetello erano sbarcati gli americani. C’erano i marocchini, che passavano lungo la Marem-ma per andare verso l’entroterra. Io avevo quattordici anni ma ne dimostravo di più, a noi avevano dato come tetto, un’aula della scuola sulla curva della strada principale dove passavano questi marocchini……poi vi porterò una fotografia…

Una volta passò la ritirata dei tedeschi; ed ecco che entrò in casa un tedesco, un ufficiale , un bellissimo ragazzo, vide per aria attaccati dei salamini. Avevano fame e lui entrò e disse: “Fame.” Mamma gli disse: “Ti prendo questo”, riferendosi al salamino ap-peso. Lei aveva tanta paura, perché c’ero io davanti. Lui invece andò via, senza molestarmi, proprio da galantuomo.

La casa era divisa in due locali che poi erano due aule scola-stiche, una a noi e una agli sfollati di Livorno. In questa aula era stato fatto un armadio per i libri che comunicava con due spor-telli, da una parte e dall’altra. Quando passavano i marocchini e noi li vedevamo arrivare, io mi infilavo dentro a quest’armadio, in modo che potevo scappare dall’altra parte…. facevo su e giù, dentro quest’armadio… per la paura dei marocchini!

Annamaria: il ricordo che ho io è una cosa più allegra. C’era un tedesco che si era innamorato di mia zia. Mia zia aveva il fi-danzato prigioniero da loro… Il tedesco la corteggiava e, per arri-vare a lei, era gentilissimo con me. E’ l’unico ricordo che ho della guerra, io ero piccola avrò avuto due-tre anni e questo tedesco mi ha portato nella stanza di una casa dove mi ha regalato fiori e ca-ramelle. Lo raccontai alla mamma e lei mi disse che lì i tedeschi avevano la loro sede. Non avevo paura ….. noi stavamo in un paese, a Percile…..

Bianca: Noi da Roma andavamo a Velletri, a casa di nonna che aveva la vigna. Io ero piccolina e quando venivano gli aeroplani ci sdraiavamo nella vigna, per terra. C’era mia sorella, che aveva sei anni più di me, lei aveva molta paura e piangeva a tutto spiano… la bocca le arrivava

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sino alle orecchie per quanto era impaurita……… mi è rimasto questo ricordo .

Elda: Sempre in Toscana, papà era in comunicazione con Radio Londra insieme al parroco del paese. Una volta arrivarono da Orbetello alcuni tedeschi che cercavano un sacerdote ed un “uomo zoppo”. L’uo-mo zoppo era mio padre che non poteva camminare bene. Noi li abbia-mo dovuti nascondere! Come avevano saputo che mio padre era zoppo e che ascoltava radio Londra con il sacerdote, non lo so! Io mi ricordo la musica di Radio Londra. Era una cosa che mi stordiva, perché loro capivano i messaggi attraverso i tocchi della musica, perché non erano messaggi veri, sembrava solo musica. …

Il paese, Pereta, e la prossima volta vi porto la fotografia… è dentro un castello, mille abitanti in tutto, con una torre enorme e molto alta. I tedeschi dissero che a Orbetello c’era un cannone puntato sulla torre e se avessero continuato a sentire Radio Londra, avrebbero buttato giù la torre del paese.

Un’altra storia riguarda il 25 aprile, quando c’è la festa del paese, per-ché S. Marco è il protettore del paese. Io ero diventata amica di tre ragaz-ze, una era molto ricca, aveva anche i cavalli e il calesse. Nella festa del paese, tutte le ragazze rinnovavano il vestito e io principiavo ad essere una signorinella. Mamma, per non farmi sentire a disagio, prese una coperta militare e la portò da una cugina, perché mamma non sapeva cucire, per farmi cucire una giacca per quel giorno di festa,. Così ho rinnovato anch’io il guardaroba!..

Ci lasciamo con l’impegno di portare, la prossima volta delle foto da condividere per attivare sia i bei ricordi che quelli dolorosi, perché condi-videre la memoria tra più persone è un balsamo per l’anima.

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ZIA OLGA E LE SUORE CAPPELLONE (ricordo di Gianfranco, raccolto da Loredana Simonetti)

Zia Olga a sinistra, con alcune anziane dell’ospizio (1942)

La vecchiaia è un privilegio di alberi e pietre. (Wislawa Szymborska, Premio Nobel per la Letteratura nel 1996)

A Santa Maria in Cappella, c’era un ospizio solo femminile, gestito da suore che noi bambini chiamavamo “cappellone”. Erano talmente grossi questi cappelloni che passavano con difficoltà attraverso le porte. Con i miei fratelli pensavamo che portassero le cappellone, perché la Chiesa si chiamava Santa Maria in Cappella… Poi da adulto ho capito che è stato tutto un insieme di malintesi, non c’entrava niente e anche la Chiesa di Santa Maria era erroneamente chiamata in Cappella, perché c’è una lapi-de all’ingresso dove si legge, in latino, “que appell” che tradotto significa “che si chiama”.

Nell’ospizio vivevano persone anziane, assistite anche da infermiere. La sorella di papà, Zia Olga, era un’infermiera e lavorava là dentro. Zia aveva un problema alla spina dorsale ed era un po’ gobba, però lavora-va sempre, anche prestandosi per i lavori più umili; non era sposata e quell’ospizio è stata la sua casa e anche la sua famiglia. Mio padre, che

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era più piccolo della sorella, portava me e i miei tre fratelli ogni tanto a salutare la zia. Eravamo nati a poca distanza l’uno dall’altro, ed essendo in piena crescita, avevamo sempre fame…

L’ospizio aveva le finestre che affacciavano sul lungotevere e la suora cappellona che ci accoglieva festosamente ci chiamava tutti per nome. Poi, una volta entrati, eravamo assaliti da una puzza di muffa terribile…

Zia Olga ci dava il pane, che gli anziani, per problemi di masticazio-ne, non potevano mangiare. Noi siamo cresciuti anche grazie al pane che ci dava zia Olga e nel periodo della guerra, è stata una vera benedizione.

Oltre al pane, la zia ci teneva da parte le scatolette vuote dei fiam-miferi, perché potessimo utilizzarle come piccoli giochi. Infatti, sulla strada del ritorno – noi abitavamo alla Garbatella – passavamo su Ponte Palatino e gettavamo quelle scatolette da una sponda del Tevere e poi attraversavamo di corsa il ponte per vedere quale scatoletta arrivava per prima alla sponda opposta. La corsa accelerava la fame, ma avevamo la preziosa scorta di pane.

Quando siamo cresciuti, andavamo da soli a trovare la zia, allora ci mettevamo sotto i finestroni sul lungotevere e la chiamavamo a squar-ciagola… si affacciava qualche vecchietta che ci riconosceva e ci diceva: “ Mo’ te la mando, zia Olga…”. Ha trascorso tutta la sua esistenza ad assistere le vecchiette di quell’ospizio e sono state proprio loro a tenerle compagnia negli ultimi istanti della sua vita.

Della sua storia non si troverà traccia da nessuna parte: per questo mi fa piacere ricordarla e lasciare un ricordo di questa donna, che ha dedicato la sua vita a tante persone anziane, le quali grazie a lei non si sono mai sentite sole.

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LA PASQUA DI MARIA

La mamma di Maria con i suoi figli

Andiamocene in viaggio, senza muoverci, per vedere la sera di sempre

con altro sguardo, per vedere lo sguardo di sempre

con diversa sera. Andiamocene in viaggio, anche senza muoverci.

( Xavier Villaurrutia, Messicano 1903 – 1950)

Quando ho raccontato a mio nipote come trascorrevamo le festività pasquali tanti anni addietro, nel mio piccolo paese affacciato sul Lago del Turano non lontano da Rieti, lui mi ha risposto: “Quant’è bella que-

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sta storia”…. forse è così bella perché si stava tutti insieme e le famiglie del paese erano come un’unica grande famiglia!”

Infatti era vero, ci sentivamo come un’unica grande famiglia e, nelle festività c’erano una serie di ritualità alle quali si partecipava tutti insie-me. Il venerdì santo si “legavano le campane” come si diceva in paese. Si legavano le campane perché tutte le chiese erano a lutto per la morte di Gesù. Sempre la sera del Venerdì Santo, passavano i ragazzi con il “ticchetau”, un pezzo di legno che batteva su un altro e richiamavano le persone alla messa. Il Sabato Santo, in ogni casa si addobbavano le tavole con le tovaglie più belle, dopo che le case erano state ripulite da cima a fondo, per accogliere degnamente la benedizione che il prete portava in ogni abitazione. Venivano benedette anche le uova sode, che noi bambini ci divertivamo a pittare con coloretti allegri e luminosi e che mettevano nei cestini pasquali accanto al pane di pasqua, la pizza pasquale e tutti i cibi che si preparavano per festeggiare la Pasqua di Resurrezione.

Appena il prete bussava alla porte, tutta la famiglia si radunava intor-no alla tavola per ricevere, in silenzio e perfettamente composti, la San-ta Benedizione. Appena il prete usciva per andare in un’altra famiglia, si raccoglieva tutto il cibo benedetto nella sottostante tovaglia bianca che si riponeva, con molta attenzione, nella scansia che nessuno doveva aprire, perché non si poteva toccare nulla sino alla domenica mattina, Festa di Pasqua!

Finalmente, arrivava quella mattina di Domenica di Pasqua e allo-ra si poteva fare una bella e ricca colazione, insieme a tutti i familiari: coratella, uovo sodo, frittata con gli asparagi ….. ma prima dovevamo aspettare che suonassero le campane! Entravano allora in casa anche gli altri paesani, per bere insieme“un goccetto” ed io ero felice, perché la mamma mi aveva stirato il vestitino più bello.

A dire il vero, quando ero bambina di“bello” non ve ne era poi molto ed i miei vestitini erano quello che erano perché in famiglia eravamo poveri. Di veramente bello era quello che si sentiva nell’aria in quei gior-ni di festa: gioia, voglia di stare insieme e condividere quel cibo semplice che a noi sembrava speciale perché condito da affetto e senso di appar-tenenza.

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Quello che ti voglio raccontare, non si legge sui libri. Ma la storia che ti voglio raccontare è vera... io ero là e me lo ricordo. Mi ricordo il sole, il cielo ed il vento che

mi chiamava per nome

(versi della canzone tratta dal film Spirit Cavallo Selvaggio)

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ANGELA E I SUOI RICORDI DELL’UMBRIA

Con le buone maniere si muovono le montagne (antico proverbio)

Mi ricordo di quando bisognava fare i compiti con la penna stilogra-fica, io non l’ho mai posseduta, mi veniva prestata in classe.

E’ un ricordo preciso della mia infanzia; mamma non stava tanto bene e aveva un po’ di problemi con la salute e io e mia sorella siamo andate in un collegio delle orsoline, in un paese dell’Umbria. In quel pe-riodo ho frequentato la scuola elementare, avevo dei compagni di classe che abitavano in campagna e non avevano la luce elettrica. Venivano a scuola con i compiti pieni di macchie d’olio, perché forse li facevano nel-la cucina. C’era un bambino che era il più bravo della classe, di una in-telligenza superiore eppure nella vita ha fatto il netturbino, perché non ha avuto la possibilità di studiare. Le suore ci facevano una volta alla settimana le lezioni di galateo, però non ci hanno mai insegnato a stare in ordine a tavola e a tagliare la frutta. Una volta, d’estate, la suora ci por-tò a cena a casa del dentista e venne servito il prosciutto e melone. Noi abbiamo preso le fette di prosciutto e ci siamo fatte la pagnottelle a tavo-la. La suora ci riempiva di calcetti sotto il tavolo, ma noi non capivamo.

Io ricordo il pennino con cui scrivevo e ripensando agli episodi del libro “Cuore”, posso dire che quelle storie le ho vissute e trovo bellissi-mo il privilegio di aver vissuto in quei tempi, anzi non li cambierei con

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quelli di oggi, erano tempi più semplici. Io sono felice di aver trascorso quel periodo in collegio, anche se la mamma se lo rimprovera per tutta la vita, ma non poteva fare diversamente.

Da adulta mi sono trovata, in ufficio, in un ambiente dove c’era molta maleducazione e allora ripensavo a quelle lezioni delle suore, ma alla maleducazione non mi sono mai abituata.

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LA SAGGEZZA DELL’ETA’ Angela racconta

Chi si nasconde nella tenerezza non conosce il fuoco della passione

(Alda Merini)

Io vengo da una cultura cattolica piuttosto rigida: dai cinque ai dieci anni sono stata allevata in un collegio di suore (le Orsoline, note per il rigore con cui allevano le educande) e questo ha prodotto in me una personalità alquanto ribelle agli schemi continui e priva di effusioni affettive. Infatti, nell’adolescenza mi sentivo una ragazza complessata e facevo tanta fatica a studiare, perché avevo tanti pensieri negativi per la testa. L’unica materia per cui provavo interesse era il disegno; mia madre, lungimirante, preferì iscrivermi a una scuola di lingue e ancora la ringrazio per questo, perché proiettata nel mondo del lavoro, avrei potuto realizzarmi. Così è stato.

Trascorsa l’adolescenza, da ragazza non mi sentivo affatto bella, e non lo ero, almeno quanto mia sorella che tutti ammiravano, anche per il suo carattere estroverso e amante della vita, molto simile a quello di mio padre, mentre io ero introversa e pessimista. Nonostante tutto, però, sentivo di avere un certo sex appeal e mi accorgevo quanto i ragazzi fos-sero attratti dalla mia persona e cercavo in tutti i modi di sottolineare questa qualità, truccandomi eccessivamente (senza essere mai volgare) e vestendomi con abiti attillati, calze nere a rete e tacchi alti a spillo. Il successo nella conquista dei ragazzi mi dava quella pseudo sicurezza di cui avevo bisogno e che ostentavo. In fondo avevo vissuto un’infanzia molto diversa da quella delle mie coetanee, avevo frequentato scuole private, dove di maschi non se ne vedeva traccia!

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Nell’approccio con i ragazzi, però, non avevo difficoltà: ero spiglia-ta e m’interessava soltanto conoscere la personalità maschile da cui ero molto attratta. Poi, però, quando si toccavano certi argomenti, quelle mie strane idee, molto controcorrente (io non ero favorevole al matri-monio), davano un’idea falsata di me, forse di una donna spregiudicata, quasi una hippy, quindi non in grado di avere una relazione seria. Così ho avuto soltanto brevi storie amorose, piene di contraddizione e litigi.

Infatti, quando con le mie coetanee il discorso andava sull’argomen-to matrimonio e figli, io mi dissociavo completamente: sentivo di non aver nulla in comune con loro.

Ero indecisa tra il voler diventare missionaria laica o suora di clausu-ra, o addirittura rimanere “zitella”, come all’epoca si definiva una ragazza che non si sposava, o per sua scelta o perché non aveva trovato marito. La parola “single” che si usa oggi è molto più appropriata, perché fa par-te di una scelta di vita.

Quando, però, vidi per la prima volta l’uomo che sarebbe poi diven-tato mio marito, sentii un tuffo al cuore: non ho dubbi, l’attrazione fatale è un fatto puramente chimico!

Il mio ragazzo non era né alto, né bello, né simpatico, anzi, era gras-so, basso, ma non aveva alcun complesso d’inferiorità e forse era pro-prio quello che mi attirava di più della sua personalità. Mi sentivo forte accanto a lui, sicura di essere accettata per quella che ero e vicina a un compagno di vita di cui essere fiera, non tanto per il suo aspetto esterio-re, ma per le sue qualità morali: l’onestà, la serietà di vita, l’alto concet-to della famiglia, molto diverso da quelli che conoscevo… non avrebbe mai tradito sua moglie (cosa in cui ho sempre creduto e così è stato). La sua sicurezza per me era tutto: aveva ciò che a me mancava!

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Angela, nel giorno del suo matrimonio

La mia vita matrimoniale, però, non è stata tutta rose e fiori e pur-troppo mi sono dovuta reinventare continuamente commettendo una quantità di errori e pagandone amare conseguenze. Sono tuttavia con-vinta di essere oggi sulla buona strada, di cambiare atteggiamento alle avversità della vita, di essere ottimista anche quando tutto dimostra il contrario. La fede mia aiuta tantissimo, il Signore è sovrano anche nelle circostanze più avverse, la sua misericordia verso i nostri fallimenti è grande e ci dà il coraggio necessario per andare avanti, perché Lui ha il controllo di tutto ciò che accade nel mondo, anche nell’intimo dei nostri sentimenti. Prova ne è che, oltre a star meglio con me stessa, sto molto bene anche con gli altri e sono in grado persino di dare dei saggi consigli a chi, frastornato da difficoltà, mi chiede aiuto su come relazionarsi con le persone più vicine.

Sono riuscita ad aiutare un’amica che attraversava momenti difficilis-simi con suo marito; non era rispettata da lui e si straziava, trascurando persino l’affetto per le sue figlie. Ho cercato molte volte di convincerla di cambiare atteggiamento, finché è riuscita a chiedere la separazione. Le scrivevo di godersi le sue ragazze di non fare come avevo fatto io in passato quando, nel periodo dell’adolescenza, frequentando cattive compagnie, ho alzato un muro con le mie figlie rovinando un rapporto idilliaco: era cessato il dialogo con loro, pur essendo state fino a quel momento la luce dei miei occhi! Tutto l’amore e la dedizione nel crescer-le erano andati in fumo. E’ stato un grosso errore di cui sento ancora il

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peso. Sono felice che almeno la mia amica abbia ascoltato il mio consiglio

e si stia adoperando per avere un comportamento consono a una madre che dimostra tutto l’amore e la comprensione per le proprie figlie, so-prattutto nel momento più critico della loro vita: l’adolescenza.

Con la saggezza che ho acquisito negli anni e con la fede nel Signore, ho iniziato un nuovo cammino e non ho dubbi che porterà a qualche buon risultato. All’età di 69 anni, credo di aver raggiunto una saggezza che mai mi sarei sognata di poter avere.

Lo dico in tutta sincerità: “… rimettermi in gioco continuamente, facendo leva su quanto di più importante ho nella vita, gettando dietro le spalle i miei fallimenti; se fossi un uomo, non esiterei a sposare una donna come me perché, a dispetto di tutto e di tutti, sarebbe come toc-care il cielo con un dito!”.

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Le prime conquiste familiari di Annamaria

Un cassetto di calze di lana: questo è sicurezza! (Linus in Peanuts di Charles M. Schultz)

Da bambina abitavo di fronte al cinema Orione, che oggi viene uti-lizzato come teatro; c’erano due nonnetti, moglie e marito, che si met-tevano vicino al cinema per vendere i bruscolini. Io mi mettevo sempre vicino alla vecchietta, perché aspettavo che lei andasse al gabinetto e mi chiedesse “Me rimani a guarda’?”. Io non le prendevo niente né chiede-vo niente, però quando la nonnina ritornava mi dava sempre qualcosa. Non c’erano soldi, erano i tempi subito dopo la guerra, e anche quando chiedevo una lira a mamma, speravo di muoverla a compassione e di ricevere almeno cinque lire. “E che ci devi fare con una liretta?”, mi chie-deva mamma, perché una lira non era proprio niente… Io le rispodevo: “Mi compro due caccolette”…

Le caccolette erano dei pezzettini di liquirizia duri e di forma rettan-golare e costavano mezza lira l’una.

Non è stato facile per i nostri genitori farci crescere. Io sono stata la

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prima di due sorelle e con me mamma e papà hanno sperimentato le prime concessioni. Ricordo che avevo tredici anni e andavo alla prima classe delle superiori ancora con i calzini e mi vergognavo. Qualcuno disse a mia madre che era ora che usassi le calze di nylon e finalmente le comprò. Nel darmele mi disse: “Attenta, che se le rompi ti rimetti i cal-zini!”. Tutte le sere, allora, mi mettevo davanti all’abaschur e controllavo punto per punto se c’era qualche piccolo foro o un filo tirato e le ramma-gliavo con l’ago e il filo di nylon di un paio di calze vecchie di mamma. Quel primo paio di calze mi sono durate sei mesi!

Con mia sorella, più piccola di me di quattro anni, le cose sono state più facili, naturalmente, io le avevo spianato la strada…

Anche mia madre, da giovane, aveva le sue difficoltà nelle conces-sioni familiari: quando mio padre l’andava a trovare e trascorreva la serata con lei e tutta la famiglia, mamma veniva redarguita da nonna: le ginocchia tue vicine alle sue non ci devono stare!

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UN RICORDO SPECIALE DI ANNAMARIA

“La pochette dei miei 18 anni”

Ci sono bellissime storie d’amore nel fondo delle borse, tra i pacchetti di sigarette e le chiavi; per questo a volte si fa fatica a trovarle, semplice-

mente perché tentano di nascondersi per poter rimanere lì. Fabio Volo da Un posto nel mondo, 2006

Questa pochette che vedete, la conservo gelosamente. E’ il ricordo dei miei 18 anni, quando alla fine dell’anno scolastico facemmo una cena con tutti i professori e il preside della scuola. Adesso i ragazzi fan-no una pizza con gli insegnanti, per noi, invece, era un rito atteso per settimane e mesi. Preparavamo quella serata con molta cura: la scelta del ristorante, il vestito nuovo… era come diventare grandi. Ai miei tempi si raggiungeva la maturità a 21 anni, ma quando si compivano 18 anni, si viveva l’ingresso nella società. In questa pochette tenevo i guanti, il rossetto e lo specchietto. Io non mi truccavo, però il rossetto non man-cava mai.

La cena si organizzava prima degli esami, per un momento di saluto collettivo tra professori e allievi. In quell’occasione anche i pro-fessori si lasciavano andare, perché in aula ci davano del lei. Vivevamo quell’evento con ansia nei momenti della preparazione, e poi, nei giorni

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successivi alla cena se ne parlava tanto, con le compagne di classe. Era il 1961.

La cena con la classe del quinto anno

Fu una serata molto chic, il ristorante era dentro Villa Chigi. Il mio vestito era verde acqua, leggero, con la cinta di raso nero. Non ricordo che cosa si mangiò quella sera, ma la sensazione di quell’atmosfera ma-gica ancora mi vibra dentro. Si chiudeva un capitolo della mia vita ed ero diventata grande, anche se con il cuore semplice di una ragazza.

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IL DIVERTENTE PREPARATIVO DEL MATRIMONIO DI ANNAMARIA

Chi cadde e si rialzò, è spesso più fermo in sui piè di chi non cadde mai.

(Arturo Graf)

Per il pranzo dell’imminente matrimonio, avevamo contattato, at-traverso un mio zio, un ristorante sull’Appia Antica. I gestori del locale, amici di famiglia, vollero a tutti i costi invitarci a cena per darci una prova della loro buona cucina e ci fecero accomodare in una saletta ri-servata. Ad un certo punto della cena, ho avuto la necessità di andare in bagno. Entrata che fui, rimasi colpita dal lusso e dalla ricercatezza di quel bagno.

Tornata al tavolo dei miei genitori, raccontai a mia madre l’arreda-mento lussuoso che avevo visto e lei, a sua volta, mi chiese di accompa-gnarla in bagno. Mentre percorrevamo insieme il tragitto per giungere alla toilette tenendoci per mano, io le descrivevo quanto le meraviglie

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che avevo visto. Accendendo la luce, abbiamo fatto questa considerazio-ne:”E questo è solo il bagno di servizio, chissà quanto sarà bello il bagno padronale!”. Ci addentrammo verso quello che pensavo fosse l’interno del bagno, con l’intenzione di accendere la luce invece……………i miei piedi trovarono delle ripide scale! Ho cominciato a cadere lungo quelle scale, trascinandomi appresso anche mia madre… Ci siamo fatte una rampa di scale che non finiva mai gridando, perché io non riuscivo a frenare la caduta e, quindi,non poteva fermarsi neanche lei, visto che la tenevo per la mano…

Finalmente le scale finirono e ci siamo ritrovate per terra: allora ab-biamo iniziato a ridere come matte. La padrona del ristorante ha capito subito di che cosa si potesse trattare: la porta della cantina, vicino a quel-la del bagno, era stata dimenticata aperta! Allora è corsa ad accendere la luce e a chiamarci per sapere se ci eravamo fatte male, ma noi ridevamo talmente tanto che non riuscivamo neanche a rispondere. Insomma, lei ci chiamava dal paradiso, mentre noi pensavamo di essere precipitate nell’inferno!

Per fortuna mi sono sposata dopo sei mesi, perché per tanto tempo sono stata con i dolori dappertutto e piena di lividi. Forse sarà stato per quell’episodio, ma in quel ristorante non ci abbiamo messo più piede, soprattutto per il pranzo del matrimonio!

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MARIA RACCONTA IL SUO MATRIMONIO

Il matrimonio di Maria a Castel di Tora

Amare non significa stare a guardarsi negli occhi, ma guardare insieme verso la stessa meta.

(A.Saint Exupéry)

Il giorno del mio matrimonio, mentre mi recavo in Chiesa per la cerimonia, avevo tutto il paese che ci seguiva, anche se non erano tutti invitati. Mi sono sposata il 24 aprile del 1960 a Castel di Tora, il mio pae-se, vicino al lago del Turano. E’ stato un bel matrimonio per quell’epoca, anche perché non tutti si potevano permettere un vestito bello come il mio. L’avevo comprato da Procaccia a Piazza Vittorio.

Mio marito l’avevo conosciuto nel suo ristorante a Roma, “Le ma-schere”, in Via Massaciuccoli. Io lavoravo da un dentista ed ero ospite di una signora che abitava proprio in Via Massaciuccoli, ci siamo cono-sciuti così. E’ stato come un colpo di fulmine. A quell’epoca il fidanza-mento era molto casto, non è che potevamo fare dimostrazioni d’amore troppo spinte e bisognava anche stare attenti alle chiacchiere della gente. Quando abbiamo fatto la festa per il fidanzamento ufficiale, i miei geni-tori mi hanno imposto di tornare in paese, con la corriera, la sera prima

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mentre, il mio fidanzato, che guidava la macchina, è venuto il giorno dopo.

Erano gli ultimi giorni delle vacanze natalizie e a Castel di Tora aveva nevicato. La notte ero agitata perché sapevo che il mio fidanzato doveva venire con la neve e mio padre, che aveva capito la mia agitazione, mi diceva: “Non lo far venire, che sennò si scapicolla!”. Ma lui era pratico di guida ed è venuto lo stesso. Però quando finalmente è arrivato mi disse subito: “E’ vero che mi ami, ma mi volevi vedere morto, con tutta questa neve…” Alla fine della festa il mio fidanzato è stato costretto, sempre dalla neve, a rimanere a dormire a Castel di Tora, in una pensione na-turalmente…

Anche quando ci siamo sposati, io sono andata con la corriera in paese e lui è venuto con la sua macchina. Al mio paese il matrimonio si usava così: il rinfresco lo preparavano i genitori della sposa, con sette portate di dolci e sette liquori diversi. I liquori li avevo preparati tutti io, con le essenze e l’alcool. Il pranzo lo offriva lo sposo, ma noi abbiamo scelto di fare il pranzo al ristorante, anzi io sono stata la prima sposa a infrangere questa tradizione. Abbiamo speso, nel 1960, 1.800 lire a persona.

Erano molto emozionanti le cerimonie di matrimonio a Castel di Tora, perché partecipavano tutti gli abitanti ed era una festa che coin-volgeva tutti, giovani, anziani e bambini.

Ricordo che il letto della prima notte, nella nostra casa di sposi a Roma, era venuto a farlo mia madre, che era partita dal paese accompa-gnata da una vergine. Doveva essere così, anche se non c’erano gineco-logi che potevano garantire che fosse vergine sul serio. Comunque que-sto non evitò che mi facessero il “sacco” nel letto, uno scherzo classico riservato agli sposi novelli.

Finalmente, dopo sposati, ci hanno dato il permesso di poter andare in macchina insieme, a casa nostra, in viale Etiopia. Io ero una ragaz-zina, avevo solo vent’anni, pudica e immacolata! Quando arrivammo a casa, mio marito andò in camera da letto e io mi preparai in bagno. Ero pensierosa… come dovevo fare? Avevo indossato la biancheria nuova, una camicia da notte ricamata e lunga fino ai piedi e una vestaglia di raso rosa, scampanata sino ai piedi e con i polsini ricamati… entrata in camera da letto, mio marito mi guardò e disse: ” e tu ti saresti spogliata? Mi sembri più vestita di prima…”.

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Pochi giorni dopo siamo partiti per il viaggio di nozze, che abbiamo fatto a Napoli e a Capri; io ero proprio tanto felice, perché mi sentivo veramente una signora. Il ritorno è stato traumatico, perché la tradizio-ne voleva che al rientro dal viaggio di nozze si passasse dai suoceri, che dovevano “controllare” che fosse tutto a posto, diciamo così... l’ingenuità era veramente tanta e non ci pensavo proprio a quanto fosse invadente il comportamento familiare di indagare in una faccenda privata e del tutto naturale. E’ stato così che diventata grande, senza neanche accor-germene.

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ANTONIETTA RACCONTA

Antonietta e la sua famiglia

La mano laboriosa fa sempre qualche cosa… ( antico proverbio contadino)

Il giorno prima del mio matrimonio, per pulire una macchia, ho combinato un pasticcio: ho usato l’acido muriatico mischiato con la va-recchina. Mi si sono gonfiate le mani spaventosamente… Così alla ceri-monia non ho potuto mettere neanche la fede. Siamo partiti per il viag-gio di nozze, siamo andati a Milano, ma in albergo non volevano darmi la stanza, perché ero piccola e sembravo una ragazzina e non sembravo neanche sposata. Dopo aver mostrato il certificato di matrimonio ci hanno dato una camera, però a due letti! Così quando siamo entrati ci siamo dovuti mettere a spostare i comodini, ad avvicinare i letti…io, con quelle mani gonfie sembravo una pupazza… Abbiamo trascorso la

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serata sul balconcino della nostra stanza, a chiacchierare.Il giorno dopo abbiamo chiamato un dottore che mi ha medicato le

mani, però mi ha consigliato di non muovermi per tre giorni per con-trollare le ferite, così abbiamo ritardato la partenza per Palma di Ma-iorca.

Quando finalmente siamo partiti per il nostro faticoso viaggio di nozze, mi sembrava di riprendere un po’ di fiato. A Palma di Maiorca si mangiava benissimo e i piatti erano una squisitezza, ma io con quelle mani non riuscivo neanche a tagliare un pezzetto di carne. Mio marito mangiava, e neanche si preoccupava di aiutarmi a mangiare. Un giorno mi avevano portato una bellissima bistecca, me la stavo sognando…, il cameriere vedendo che il piatto rimaneva pieno si era avvicinato per portarmelo via. In quel momento ho cacciato un urlo alla “romana” per fargliela riportare subito!

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I cappelli di Zia Flora Bianca racconta

… le donne sono le artiste più grandi di questo mondo: esse modellano la vita quotidiana dell’uomo,

degradata dall’avidità, e la trasformano con il loro amore. da “La Duchessa di Padova” (con cappello…) di Oscar Wilde

Per portare il cappello ci vuole disinvoltura… Flora era la sorella di mia suocera, e mio marito Peppino mi raccontava che il marito di lei diceva, prendendola in giro: “Dove vai, piccola donna con quel grande cappello?” Perché Zia Flora, fisicamente, non era propriamente longili-nea e neppure alta di statura, ma curava moltissimo il proprio aspetto e si vede anche dai cappelli che portava! Il marito, invece, che pure aveva un’attività importante ed era spesso all’estero, sapeva essere anche una persona umile e in casa sua faceva tanti lavori: accudiva alle galline, fa-ceva il falegname. Mio marito Peppino, che era suo nipote, mi raccon-tava che si metteva un giornale in testa e nel tempo libero faceva anche i lavori per casa. Il marito di Flora è morto di vecchiaia, aveva quindici anni più di sua moglie, e la figlia è morta giovane per colpa della tbc, ereditata dal padre, che negli anni ‘20 non si poteva curare. Oggi la figlia

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di Flora avrebbe 85 anni.Zia Flora aveva un villino in via Latina, uno di quei villini dei ferro-

vieri, ma in tempo di guerra, rimasta sola, lo vendette e andò a vivere in via Labicana, in un appartamento senza balconi e all’ultimo piano; lo scelse lì perché era vicino al mercato di Piazza Vittorio e perché tutti i sabati, puntualmente, andava al Teatro dell’Opera. Le donne di quell’e-poca non guidavano e quindi per comodità sua aveva scelto questa casa.

Sua sorella, invece, che era mia suocera, era tutto un altro tipo! Per fortuna non abbiamo vissuto insieme… purtroppo era rimasta vedova giovanissima con il figlio, a causa di un incidente, accaduto proprio nel villino di Zia Flora; Infatti mio suocero, che era dottore in agraria, si era arrampicato su di un albero per raccogliere i fichi; avrebbe dovuto sapere che il legno del fico è fragile….e che lui era di corporatura mas-siccia…. Non ci ha pensato ed è morto cadendo da quell’albero.

Non ho conosciuto mio suocero, ma so che era un uomo che godeva di grande considerazione nell’epoca fascista, un vero idealista. Alla mor-te di lui mia suocera, si è trovata da sola con suo figlio, e lo ha cresciuto con molta apprensione!

Madre e figlio vivevano a Poggio Mirteto e, lei, gli aveva messo addi-rittura il nome e cognome sulla maglietta, per paura che si perdesse. La sua apprensione arrivava al punto che, in un paese piccolo come Poggio Mirteto lei, in preda all’ansia di riportarlo al sicuro a casa, lo andava a cercare per tutto il paese, dove il figlio andava a giocare a carte con ami-ci e compaesani. Con una madre di questo genere, si può immaginare come quest’uomo sia cresciuto.

Ho conosciuto mio marito tramite alcuni parenti, a 22 anni. Vera-mente avevo altri progetti per la mia vita, mi ero diplomata ed avrei voluto insegnare. Quando mi hanno fatto conoscere mio marito, che aveva dieci anni più di me, non sapevo neanche io se mi piacesse o no… non avevo conosciuto altri uomini. Ricordo che, dopo il primo incontro, mia madre mi chiese: “ Ma ti è piaciuto?” ed io non sapevo cosa rispon-dere. E’ stato così che sono diventata una moglie, e diventando moglie di quest’uomo ho abbracciato la croce di lui e della mamma di lui. Mia madre, per il matrimonio, aveva fatto cucire dalla sarta un bellissimo vestito, ho voluto sposarmi a San Gregorio al Celio, una chiesa tra le più belle di Roma e, su quella grande scalinata, io nel mio vestito da sposa sembravo proprio una principessa.

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Bianca il giorno del suo matrimonio

Del rapporto con gli uomini non avevo esperienza alcuna, perché ai miei tempi i genitori non ti raccontavano niente. Mio marito era più grande e diceva che per i primi tempi era meglio non avere figli, perché lui lavorava in giro per l’Italia: invece sono rimasta subito incinta, al primo colpo, e mia figlia è nata dopo 8 mesi e mezzo dal matrimonio.

Appena sposati, mio marito è stato trasferito a Sondalo, al confine svizzero, ed io ho trascorso tutta la gravidanza lassù, in una casa ammo-biliata, in quel paese che sembrava un presepe. Di giorno stavo da sola e mio marito mi raggiungeva la sera. Per fortuna avevo anche due amiche, che mi chiamavano Biancaneve, e poiché ero l’unica a possedere una macchina, giravamo per i paesi intorno, facevamo la spesa a Livigno… ma i soldi finivano subito, perché la Valtellina era cara. Una volta siamo andate in un bar, ognuna di noi pensava che l’altra pagasse la consuma-

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zione, invece nessuna aveva una lira! Quante risate!Poi al nono mese mio marito mi ha riportato a Roma da mia madre,

in Via Britannia ed è ritornato su a Sondalo, confidando in un veloce trasferimento nella capitale. Invece i tempi si sono allungati. Intanto era nata mia figlia Laura, ed io faticavo a convivere con i miei. Ricordo che mio fratello quando mi vedeva con la bimba in braccio diceva: “Ecco la sacra famiglia!”. Ma a me la mia famiglia mancava perché mio marito era lontano!

Un giorno mi sono decisa: sono andata dal parrucchiere, ho lasciato mia figlia ai miei genitori e mi sono fatta accompagnare alla stazione da mio fratello, perché volevo tornare da Peppino, a Sondalo. Mio marito, però, aveva lasciato la casa e viveva in una camera ammobiliata. Quando mi ha visto, invece di venirmi incontro e abbracciarmi si è arrabbiato moltissimo, perché temeva che la mia presenza compromettesse il suo trasferimento. Quell’abbraccio mancato ancora mi pesa tanto, ma rien-trava nei suoi comportamenti dovuti alla presenza di una madre che era stata troppo invadente nei suoi confronti.

Non mi sono persa d’animo e mi sono messa a cercare una casa per noi a Sondalo. Ho trovato una stanza sopra una vaccheria, non aveva neanche il pavimento, solo la terra, e c’era una culla e un fornello, ma io ero contenta perché così riunivo la famigliola. Dopo poco è arrivato il trasferimento, si vede che ho portato fortuna a mio marito, e ci siamo trasferiti a Pisa, per un lungo periodo, poi è nata un’altra figlia, Elena.

Mio marito era buonissimo d’animo e mi adorava, ma qualche volta s’innervosiva senza motivo. Se in una discussione dicevamo le stesse cose, lui voleva la supremazia su tutto ed io non mi sentivo libera di ma-nifestare le mie idee. A ripensarci mi viene da sorridere, perché alcune volte discutevamo così vivacemente che lui se ne andava da casa, ma rimaneva davanti al portone e dopo un po’ ritornava su. Per mio marito sono stata il suo grande amore. Io, invece, mi sento di aver rinunciato alla mia gioventù, perché mi sono completamente dedicata a lui ed alla sua mamma, fino alla fine.

Ogni fine settimana andavamo a Poggio Mirteto, dove abitava mia suocera, insieme a mio marito e le bambine. Lei si alzava alla sei di mat-tina e iniziava a camminare con delle scarpe rumorose per tutta casa: era una brava sarta e per questa ragione non si curava della pulizia della casa. Io, per l’igiene delle bambine, portavo il mangiare da casa mia e,

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quando arrivavo, mi mettevo a pulire tutto. Mia madre mi aveva con-sigliato di portare una mia credenza per la cucina, dove riporre le mie pentole e stoviglie sempre pulite, ma mia suocera si lamentava se le spo-stavo qualcosa. Quando andavo a Poggio Mirteto, non riuscivo neanche ad andare in piazza, perché trascorrevo tutto il sabato a pulire.

Tante volte mi veniva il mal di pancia, come vengono ai bambini a scuola quando le maestre non funzionano…, ma io, per amore di mio marito, sopportavo l’insopportabile, nuocendo anche alla mia salute. Mia suocera era molto gelosa del figlio e quando mio marito mi regalava qualcosa, io dovevo inventarmi che era stata mia madre a regalarmela. Ero giovanissima, mentre lei, molto più grande di me, poteva essere mia nonna. Quando veniva a trovarci a Roma, mi occupavo anche della sua igiene personale a cominciare dal lavarle i capelli con molta energia, perché ne aveva veramente bisogno.

Però era una bravissima sarta. Ricordo che avevo un vestito di mio padre, molto bello, era blu con la righina bianca. Le chiesi se poteva trasformarlo in tailleur. Impiegò un mese intero per lavorarlo ed io pen-sai a cucinare per tutto quel periodo: colazione, seconda colazione…. Aveva un appetito formidabile mia suocera! Alla fine le ho preparato un pranzo sontuoso, per riconoscenza, dall’antipasto fino al dolce. L’abito che mi aveva cucito era un bel tailleur, con la giacca in doppio petto e ancora lo conservo. Mia suocera aveva tanta considerazione di me, e prima di morire ha voluto che fossi io ad allacciarle le scarpe; mi ha voluto veramente bene.

Poi è venuto, finalmente, il mio momento e, quando le mie figlie sono cresciute, ho finalmente realizzato il mio sogno di insegnare. Gi-ravo per tante scuole facendo supplenze e quando c’è stata l’occasione di partecipare a un concorso interno, l’ho vinto. Ho anche fatto dei corsi per insegnare agli handicappati e ho lavorato in alcune scuole speciali all’aperto, a Monte Mario. Le scuole “speciali” mi piacevano tanto! Era-no una struttura con tante casette bianche e si mangiava tutti insieme. Il Direttore mi stimava molto.

E allora, finalmente, ho potuto vedere nello sguardo di mio marito, tutto l’orgoglio che provava nell’avere una moglie come me.

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CARLA E IL RICORDO DELLA SUA “RICCHEZZA”

Una furtiva lagrima negli occhi suoi spuntò:

quelle festose giovani invidiar sembrò….

Mia nonna ha mantenuto la sua famiglia facendo la portiera in uno stabile popolare a Testaccio, non guadagnava molto e noi eravamo ve-ramente poveri. Oggi, Testaccio, è un quartiere bellissimo, ma a quell’e-poca non lo era affatto, anche se aveva comunque le sue bellezze… Noi abitavamo in quattro in una stanza e a scuola andavo dalle suore della Divina Provvidenza. Lo stipendio di nonna era veramente magro, ma ci tenne tantissimo a comprare la stoffa di pizzo francese, per la mia prima Comunione. Mi cucì il vestito una sartina di Monterotondo, che abitava in un casa con una sola grande stanza, con il letto matrimoniale e due lettini. La finestra di quella stanza dava su una grande vallata, e quando era il tempo della vendemmia si vedevano arrivare gli asini carichi di bigonci con l’uva. Anche la macchina da cucire era in quella stanza.

Quando finì di cucire il vestito, lo appese su una stampella, esposto in modo che tutti lo potessero vedere.

Mio padre, che era stato militare di carriera, conosceva un cappella-no militare, che tutti chiamavano, ma non ricordo il perché, “Padre Fan-ghiglia”, al quale chiese di farmi fare la prima comunione a San Pietro in carcere, sotto il Campidoglio. C’eravamo solo noi alla funzione, per-

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ché eravamo riusciti ad avere una cerimonia tutta privata. Un collega di papà di nomeLuigi, che aveva una bella voce da tenore, venne in chiesa a cantare l’Ave Maria di Gounod.

Io mi ero preparata, con tutta me stessa, studiando dottrina per tre mesi dalle suore. Il giorno della prima comunione ero tutta compre-sa dall’evento ma, quando sentii il bel canto di Luigi mi sono distratta, non riuscivo più a concentrarmi sulla messa in latino. Ho cercato di seguire le preghiere sul mio libriccino che era bianco, di madreperla, con le scritte in oro, ma ero proprio frastornata. Quando mi diedero l’o-stia, iniziai a piangere e, commossa ed emozionata, andai ad abbracciare mamma. Il pomeriggio, a casa dell’altra nonna, ci fu il rinfresco e venne anche il tenore Luigi, che cantò ancora una volta. Il pezzo che intonò era “Una furtiva lagrima” ed io piansi dall’emozione.

Dalla povertà in cui vivevamo, affiora questo ricordo bellissimo di una giornata di grande lusso e “ricchezza” e, ancora oggi dopo tanti anni, mi emoziono nel ricordarla.

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CARLA E STEFANO, ANCORA INNAMORATI

Siamo qui io e te in questo mondo senza pensare a quello che succederà.

Siamo qui io e te come in un sogno senza pensare a quando ci si sveglierà.

Io e Stefano ci siamo conosciuti nel 1968, in quel periodo di gran-di cambiamenti: la guerra del Vietnam, i primi scontri a Valle Giulia tra gli studenti e la polizia, la rivoluzione sessuale … Erano anni molto politicizzati. Avevo preso il pulman per andare sulla neve, ad Ovindoli e occorrevano più di quattr’ore di viaggio. Guardavo questo ragazzetto che era carino da morire, abbiamo iniziato a chiacchierare e ho subito detto una bugia sull’età, perchè mi sono sempre sentita più vecchia degli anni che avevo. Anche oggi, che ho 69 anni, mi vergogno della mia età, mi sento più anziana di quello che effettivamente sono.

Malgrado un padre rigido ed una mamma con un carattere un po’ instabile, ho tanta nostalgia di quei tempi, eravamo così innamorati, con tanto slancio e poesia… Siamo stati insieme per quattro anni e poi ci siamo sposati. I primi tempi che ci frequentavamo, esitavamo ad avere rapporti e ci ha molto aiutato un sacerdote, (si vede che un angelo ce l’ha messo sulla nostra strada), che ci ha fatto capire che Dio, se ha creato l’uomo e la donna, desidera che l’amore sia una cosa naturale.

Dopo due anni che ci frequentavamo, abbiamo fatto una vacanza insieme a mia sorella e al suo ragazzo, ogni coppia con la sua tenda, in

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campeggio. Ci chiamavano “I fidanzatini di Peynet” . Ne ho un ricordo veramente dolce e tenero, ma la cosa bella è che ancora oggi siamo così, dopo 46 anni di matrimonio, ancora ci teniamo mano nella mano.

Quando Stefano iniziò a lavorare a Milano, provammo a vivere insie-me, in una camera ammobiliata di un pensionato; una sua zia ci trovò questa stanza che aveva un bagno in comune con tanta altra gente. Non ero capace di fare una cosa del genere, non mi sentivo a mio agio e provai un senso di abbandono da parte di entrambe le nostre famiglie. Mi presi l’esaurimento nervoso e ad un certo punto s’impose mio padre: mi rivolle a casa per farmi curare,mentre Stefano avrebbe fatto avanti e indietro da Milano. Ricordo che diceva di prendere il treno “Bombay – Lahore”, un treno che impiegava circa otto ore da Milano a Roma e fermava a tutte le stazioni.

Io temevo di lasciare la mia famiglia e assumermi la responsabilità di un’altra persona, che era Stefano, a Milano, lontano da casa mia. Passai un periodo di crisi molto profondo. La mia famiglia non condivideva il mio stato d’animo, anzi, insistevano che non potevo lasciare quel ragaz-zo dopo quattro anni… “gli puoi far fare quello che ti pare…”, dicevano. Ma non era così: lui aveva la sua ferma volontà: mi aveva scelto proprio perché sapeva che con me non avrebbe fatto il “pacco postale”, non mi sarei imposta sul suo modo di fare.

I miei vedevano in Stefano un bravo ragazzo, un’occasione da non perdere… ma anche io avevo trovato lavoro a Roma. Un altro conflitto da gestire… Anche Stefano convenne che non potevamo andare avanti così e mi propose di sposarci durante l’estate, periodo in cui poteva usu-fruire delle ferie. Ho pensato che anche io non potevo vivere tutta la mia vita con questo stato di indeterminatezza, così accettai.

Organizzai la cerimonia in maniera molto tradizionale, con le bom-boniere e il vestito da sposa. Quando Stefano vide il vestito si arrabbiò moltissimo e trascorse tutta la giornata di pessimo umore: non avevo capito che lui aveva fatto uno grande sforzo nell’accontentarmi a spo-sare in Chiesa e vedermi con il vestito bianco fu un vero colpo. Non ne avevamo parlato prima e non ho pensato che avesse questo reazione: io invece, ero entrata nella parte come una perfetta sposina e quell’episodio non lo abbiamo più affrontato.

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Stefano e Carla, nel giorno del matrimonio

Ci siamo sposati nel 1972, ma io non mi sentivo pronta; l’indipen-denza è una cosa che non ho mai capito fino in fondo, anche andare a lavorare non l’ho vissuta come una forma di indipendenza, ma un do-vere da assolvere verso i genitori che erano in ansia per il mio carattere un po’ indifeso.Abbiamo vissuto a Milano, per un periodo, in una casa molto carina e ne ho un dolce ricordo. Avevamo fatto anche amicizia con una coppia deliziosa, Stella e Aldo, e per quei due anni abbiamo vissuto molto serenamente il nostro matrimonio godendoci la libertà di uscire la sera, trovarci a casa di amici, essere indipendenti.

Con il trasferimento a Roma, abbiamo abbandonato queste belle abi-tudini e con la nascita del nostro bambino abbiamo dovuto affrontare nuovi problemi, ma il ricordo di quei due anni da sposetti è ancora vivo e tenero.

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IL NATALE DI CARMELINA

Vieni vieni Bambino Gesù Vieni vieni non tardar più

Vieni a nascere nel mio cuore Caro mio bambino d’amore…

Sono solo tre anni che vivo a Roma, dove già abitano le mie figlie e adesso sono contenta. Però il mio paese è Montefalcone in provincia di Benevento, un paese diroccato a 850 metri sul livello del mare e dove d’inverno nevica.

Mio padre faceva il sarto, era un bravissimo sarto da uomo e lavorava in casa. In una stanza di casa c’erano il bancone e la macchina da cucire e papà lavorava là dentro, dove, come consuetudine, si faceva il presepe ad ogni Natale.

Io ricordo, quando nell’aria già si incominciava a sentire l’odore del Natale, quanta fretta avevamo di fare quel presepe! Ma papà lavorava proprio in quella stanza. Allora, noi bambini chiedevamo alla mamma di sollecitare papà, perché si sbrigasse a finire il suo lavoro. Perché il de-siderio e la gioia di fare quel presepe era incontenibile per noi bambini.

La preparazione del presepe era l’evento più bello di tutto l’anno. Ri-cordo un’atmosfera dolcissima: papà faceva le pecorelle con la pasta ap-positamente preparata e costruiva le capanne con il cartone. Poi, tutti insieme e portando con noi delle ceste, andavamo a raccogliere il mu-schio. Una volta terminato il presepe, tutte le sere si recitava il rosario. La mia gioia era chiamare tutte le vecchiette che abitavano vicino a noi,

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la più anziana recitava il rosario, davanti al presepio, e poi si cantavano tutti i canti natalizi. Ne ricordo uno, che si cantava prima della notte di Natale

Vieni vieni Bambino GesùVieni vieni non tardar più

Vieni a nascere nel mio cuoreCaro mio bambino d’amore…

Poi quando Gesù era nato, si cantavano altre strofe, me le ricordo anche nel nostro dialetto.

Che bel bambino è nateNdrè ‘na Vergine incarnate

Uommo factus estVerbum carum factum est

In quelle serate, fredde e buie, mamma offriva un bicchiere di vino a tutti e ci sentivamo felici, nell’attesa della notte nella quale si sarebbe ripetuto il miracolo della nascita. Anche se fuori nevicava ed era tutto gelato, Il presepe ci teneva caldo e tutti uniti. Per me adesso il Natale è troppo consumistico, perché nel mio ricordo ci sono sempre quelle vecchiette tanto contente di venire in casa nostra e quell’atmosfera che vivevamo condividendo, tutti insieme, la gioia dell’attesa del Natale!

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CARMELINA RACCONTA

Spesso ragiona meglio il cappello che la testa (antico proverbio italiano)

Mi sono sposata il 25 luglio del 1970, dopo dieci anni di fidanzamento. C’eravamo lasciati per un periodo e poi, quando ci siamo ritrovati, ci siamo sposati quasi subito. Io avevo 25 anni. Il matrimonio è stato un momento molto atteso, perché mio marito aveva perso la mamma a 12 anni e aveva tre sorelle suore.

Ci siamo sposati nel mio paese, a Montefalcone, in provincia di Be-nevento, e la mia emozione è stata tanta, anche perché non avevamo mai avuto momenti d’intimità prima del matrimonio. Oggi non è più così: se ci sentissero i giovani d’oggi non ci crederebbero e si metterebbero a ri-dere… Non c’era possibilità di conoscersi in altri modi, perché la cultura e l’educazione cattolica frenavano il bisogno di maggiore intimità fisica.

Arrivavi a quel giorno tanto atteso, con molto pudore e inesperienza. Il mio vestito da sposa era di pizzo spagnolo ed era stato cucito da mia cugina, che faceva la sarta.

Ricordo un fatto accaduto il giorno del mio matrimonio, che oggi mi fa ridere di gusto, ma in quel giorno… Avevo scelto come testimone mia zia Olga, che mi aveva anche tenuta a battesimo. Lei abitava a Benevento e mi raccomandai che arrivasse puntuale alle 10,30, perché il parroco

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celebrante era molto rigido e rispettoso dell’orario.Le campane suonarono a festa annunciando il matrimonio e mia zia

arrivò in orario… ma quando scese dalla macchina, in testa aveva un cappello elegante a falde larghe e indosso un vecchio abito che usava in casa. Il vestito per la cerimonia era rimasto a Benevento in una busta! Tutti c’innervosimmo: mio papà le disse che poteva indossare uno dei vestiti di mia madre. Mia zia Olga, invece, voleva a tutti i costi indossare il vestito scelto con tanta cura.

Per farla breve: mio zio tornò a Benevento a prendere l’abito e il ri-gido parroco aspettò per più di due ore per celebrare la cerimonia, ma aspettarono anche gli sposi, i parenti, gli invitati e tutti i paesani …. Il grande e profumato tiglio antistante la chiesa, accolse tutti paziente-mente sotto la sua ombra, in attesa che, la zia distratta, potesse indossare l’abito intonato all’elegante cappello a falde larghe.

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UN VESTITO IMPORTANTE CONSILIA RACCONTA

I genitori di Consilia

…..Ricordo un vestito bellissimo di mia madre, era di velluto con bordure ricamate e perline; era orgogliosa di quel vestito e lo indossò, con le scarpette di vitello fatte su misura, per andare in Comune in oc-casione del giorno delle promessa del matrimonio.

Lei lo raccontava con una luce particolare che si accendeva nei suoi, orgogliosa di quel vestito e per l’evento che rappresentava. Nessuno si poteva permettere un vestito del genere e, forse proprio per questo, quando ne parlava, assumeva un’aria molto fiera.

Questa foto di mia madre con il suo vestito di velluto a bordure rica-mate e perline, è capitata tra le mani di mia figlia e del suo fidanzato che ha commentato: “A quell’epoca chi se lo poteva permettere un vestito così?”……

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IL VESTITO DA SPOSA DI CONSILIA

Ogni matrimonio riuscito è territorio segreto… Stephen King

Era il mese di settembre, nel 1953 quando mi sono sposata ed avevo 19 anni. Mi sono sposata con un abito molto audace perché “décolleté”. A quell’epoca non si poteva entrare in chiesa vestiti così ed allora ho do-vuto tenere sempre il giacchino addosso. Il vestito era tutto rameggiato e il pannello davanti era di organza bianca semplice e, quando cammina-vo, il vestito si apriva davanti. Avevo i guanti bianchi, lunghi fino al go-mito e un giacchettino della stessa stoffa del vestito per coprire le spalle.

Il giorno del matrimonio io e mio marito abbiamo fatto la “sfilata” per le vie del centro di Latina. Sono passata nella piazza della cittadi-na per raggiungere il corso, dove c’era la chiesa. La mia amica Nennè mi guardava dalla finestra e siccome si sarebbe sposata quindici giorni dopo, voleva rubarmi qualche idea, perché avevo anche una bellissima acconciatura che scendeva con il velo dietro le spalle

Ancora oggi mia figlia mi chiede di quel vestito, perché avrebbe vo-

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luto vedere la parte di sotto del vestito, che si apriva mentre camminavo. Il décolleté era dritto e io ero talmente magra che al bustino avevamo dovuto mettere le stecche di balena, per tenerlo dritto.

Le scarpe erano bianche di pelle e le ho utilizzate anche in viaggio di nozze, a Venezia. Ognuna di noi ha avuto un vestito di nozze bellissimo, perché il ricordo di quel momento della nostra vita, così importante, in cui si era giovani e si avevano tante speranze è legato anche alla prezio-sità ed unicità dell’abito.

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CONSILIA RACCONTA: MIA COGNATA, SUORA NON PER SCELTA

Suor Margherita Ricci

Siediti ai bordi del silenzio, Dio ti parlerà. (Swami Vivekananda)

I miei suoceri sono morti giovani lasciando due figli, uno di otto anni, che sarebbe diventato mio marito e la sorellina che ne aveva sei.

Gli zii di questi due bambini, che stavano piuttosto bene perché era-no artigiani del rame, li hanno cresciuti fino all’età adulta, mettendo da parte per loro anche un po’ di risparmi. Entrambi i ragazzi sono andati in collegio a studiare, mio marito al collegio dei marinaretti a Sabaudia e mia cognata Margherita in un collegio femminile.

Quando Margherita è uscita dal collegio, i suoi zii volevano farla spo-sare, ma le avevano messo vicino un ragazzo che proprio non le piaceva. Margherita era una ragazza che ha sempre accettato la volontà dei suoi parenti, anche se non ha mai potuto disporre della sua vita liberamente, ma in quella occasione non c’è stato niente da fare: sarebbe stato troppo sposare un uomo che non amava e tenerselo vicino per tutta l’esistenza. Così ha fatto quello che si sentiva di fare ed è diventata suora.

Suor Rita questo è il nome che ha scelto. Una volta mi ha raccontato in convento, parlando con le altre suore confessò a loro che, se fossero rimasti in vita i suoi genitori, forse non avrebbe preso i voti. Una con-sorella, un po’ cattiva, riportò questa confidenza alla madre superiore e Suor Rita, addolorata per questa chiacchiera, voleva spogliarsi. Il fratel-

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lo, di fronte a questo gesto, avrebbe accolto volentieri in casa sua Mar-gherita. Io a quell’epoca avevo quindici anni ed ero fidanzata con mio lui, ma ancora non eravamo sposati perché troppo giovani. Margherita, però, non voleva ritornare tra le persone che la conoscevano e sapeva la sua storia, perché per lei sarebbe stato sarebbe imbarazzante. Così rimase in convento.

Io penso spesso a lei, con una vita cucita addosso da altri e senza sen-tirsi libera di scegliere. Mi compenetro nella sofferenza di mio cognata che non ha potuto disporre liberamente della propria vita. Comunque, alla fine, è stata veramente una brava suora, amata e rispettata da tutti.

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IL VESTITO DELLA PRIMA COMUNIONE MARILENA RACCONTA

Marilena con il fratellino, il giorno della Prima Comunione

“Che ci fanno queste figlie a ricamare e cucire, queste macchie di lutto rinunciate all’amore,

Fra di loro si nasconde una speranza smarrita, che il nemico la vuole, che la vuol restituita”

(Fabrizio De Andrè da “Disamistade”)

Mia madre lavorava nel laboratorio dell’istituto Principessa Maria Pia di Savoia, in Via Giovanni Branca a Testaccio; era gestito dalle suore “cappellone” di San Vincenzo, una specie di collegio femminile fino ai 18 anni. Mamma era la responsabile della maglieria e oltre a cucire, in-segnava alle ragazze del collegio. Mio fratello pensava che quelle ragazze fossero le figlie delle monache e mi chiedeva sempre: “Mi porti a vedere le “figlie” delle monache?”.

Il laboratorio aveva tante specialità e ogni ragazza si specializzava in qualcosa: lingerie, pizzo, merletto... ricamavano dei corredi bellissimi.

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Con gli avanzi dei lavori, mamma ci vestiva, e così qualche volta i nostri pigiami erano cuciti con le stoffe dell’alta nobiltà di Roma…

Quando andavo a trovare la mamma al laboratorio, ero tanto feli-ce, perché le ragazze, mentre lavoravano, mi raccontavano delle favole bellissime, mi sembrava un mondo magico. Forse perché era finita la guerra, forse perché il desiderio di ricominciare una nuova vita rendeva tutti più sorridenti, non saprei… ma ricordo la serenità che quel luogo mi procurava.

Il ritiro della Prima Comunione lo facemmo là dentro. Le suore ci diedero un libriccino, dove dovevamo scrivere i fioretti. Che proble-ma… io non sapevo proprio che scrivere e mio fratello era peggio di me. Pino mi disse che li avrebbe inventati e scrisse: “ Non mi piace la marmellata, ma per il cuore di Gesù ho mangiato pane e marmellata”. Io gli dicevo, che Gesù sapeva tutto, non poteva scrivere bugie e lui mi rispondeva “Ma che ne sa…”.

Per la mia Prima Comunione, le “figlie” delle suore cucirono un bel-lissimo vestito di pizzo per me e uno da cadetto con i bottoni dorati, per mio fratello; mi ricordo il momento in cui lo indossavo, mi giravo da una parte e dall’altra, muovendo i capelli biondi e lunghi; mio fratello, invece, lo vestirono da cadetto, con i bottoni dorati. La difficoltà più grossa fu quella di rimediare le scarpe: mamma ne comprò una per vol-ta, forse per non dare nell’occhio… le prese alla borsa nera.

Nella cappella del collegio le “figlie” delle monache organizzarono un piccolo altare come se fossimo due sposetti e con la presenza di un vescovo. Alla cerimonia era presente anche la sorella del vescovo, che mi regalò un bellissimo medaglione d’argento con dentro la coroncina. Io avevo una borsetta di pizzo rotonda e misi in tasca quel medaglione.

Dopo la funzione, andammo a San Pietro, perché, a quei tempi, lo stesso giorno della Prima Comunione si faceva anche la cresima. Ho un dispiacere enorme di quel giorno, perché dalla borsetta scivolò il meda-glione e lo persi. Era una cosa veramente preziosa.

Il mio vestito di pizzo fu arricchito con tanti fiocchetti e fu indossato da mia cugina, nel giorno della sua Prima Comunione. Io, invitata alla cerimonia, lo riconobbi subito e dissi: “Uh, come somiglia al mio vesti-to!”. Venne subito mia zia a zittirmi… “Non lo dire, altrimenti la gente crede che sia tuo…”. Non mi avevano detto niente, io sono sincera e l’ho detto subito…

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Poi quel vestitino è stato modificato in un bel vestito corto, ma men-tre camminavo per via Taranto, mi sono avvicinata ad un albero e mi si è strappato. Non finisce qui: mia madre pur di non buttarlo, ne ha ricavato una bella camicetta per sé!

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UNA DICHIARAZIONE D’AMORE PARTICOLARE NICOLINA RACCONTA

Nicolina, nel giorno del suo matrimonio

“Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”

(Lao Tzu, filosofo cinese del 500 a.c.)

Sono la più grande di tre sorelle e mi sono sempre sentita la più brut-ta delle tre.

La sorella dopo di me invece era bella e coccolata e insieme alla terza sorella era ricoperta di un sacco di complimenti dai vicini… Quann’è bella Nannuzza (mia sorella Anna)… Quann’è bella Mariuccia (mia so-rella Maria)… e mia madre dondolava mia sorella dicendole: “Mammà chi tiene? ‘A pupatiella mariuola! (la bambola ladra..)”.

Da ragazza mi guardavano solo gli uomini anziani e quando salivo

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sull’autobus, la gente diceva: “Guarda gli americani come hanno ridotto questa povera ragazza…”, perché ero grassa e sembravo incinta.

Un episodio mi convinse che ero veramente brutta.Una sera, alla scuola serale a Piazza Indipendenza di Roma, arrivò

Ennio, un nuovo studente, veramente bello e si mise seduto vicino a me, ero così contenta…

Dopo tre sere mi ha chiesto di uscire insieme, non mi sembrava vero! Io, che avevo paura ad uscire da sola con lui, chiesi a Lidia, un’amica, di uscire con noi. Lei era un po’ più bruttina di me… La sera dopo, a le-zione, Ennio mi disse che doveva parlarmi. Aspettavo ansiosamente che cosa mi dovesse dire e quando rimanemmo soli mi disse:

“Non portare mai le amiche con te, perché mi sono innamorato di Lidia.”. Che delusione, da quel momento ho cominciato a sentirmi ve-ramente brutta.

Da ragazza provavo sempre vergogna, quando mi presentavo agli uffici e facevo le prove stenografiche per essere assunta. Mi presentavo sempre con mia sorella: a me dicevano che mi avrebbero chiamato e poi s’interessavano di mia sorella, ma lei non aveva studiato… Adesso c’ho una faccia che potrei recitare su diecimila persone senza provare vergogna!

Avevo tre sorelle molto belle, una in particolare, Anna, era talmente bella che il regista Zavattini la voleva far recitare. C’era un giovanotto che mi dava i biglietti da portare a mia sorella. Quando glieli davo, lei mi diceva: “Questo è scemo, io voglio sposare bene, questo c’ha grilli per la testa…”.

Un giorno ho detto a questo giovanotto: “Senta, mia sorella non la vuole, perché non si fidanza con me?” e lui mi ha risposto: “Ma a me piace Anna!”

“Se si fidanza con me, sta pure vicino a mia sorella…”. Che scema che ero!

Così ho fatto io la dichiarazione e all’epoca mia, 72 anni fa, era un vero scandalo.

Mi sono fidanzata a 17 anni ma è stato un fidanzamento particolare.Dopo qualche giorno, mi diede un appuntamento con suo fratello,

che in tutta onestà era anche più bello di lui. Forse non voleva fidanzarsi con me e così mi ha fatto conoscere il fratello… Passeggiavamo insieme e suo fratello, fra un complimento e l’altro che mi faceva, guardava le

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altre ragazze … Non mi potevo fidanzare con quello lì e il giorno dopo andai al suo negozio di frutta e gli dissi: “Io voglio lei, se mi vuole…”.

Mia sorella andò a riferire a mia madre che mi ero fidanzata con lui. Il mio futuro marito aveva solo la prima elementare, mentre io avevo studiato. Mia madre allora andò in frutteria e lo affrontò molto seria-mente:

“Lei s’è fidanzato con mia figlia?”Lui rispose: “E chi è sua figlia?”E mamma disse: “Lina è mia figlia e lei la deve lasciare!”Allora lui replicò: ” Signora, glielo dica lei a sua figlia, è lei che viene

dietro a me…”Le botte, le botte…. Io prendevo le botte, ma gridavo: “Tanto a 18

anni me lo sposo lo stesso!”Allora mia madre fu durissima: “Te lo vuoi sposare? Allora te lo spo-

si subito”. Io e mio marito siamo stati fidanzati solo sei mesi, noi… per modo di dire! Mio padre è stato fidanzato con lui per sei mesi, tutte le sere stavano a casa a chiacchierare della guerra; io spesso rimanevo zitta in un angolo e mio marito che capiva che mi avevano menato mi diceva: “Ce le hai prese?”.

Quelle volte che uscivamo insieme veniva sempre una sorella con me, come se dovesse fare la guardia.

Quando ci siamo sposati mia madre per dispetto non mi ha fatto l’abito bianco e questo non l’ho mandato giù, perché io lo meritavo. Mamma provò a dire che era per non far sentire a disagio gli invitati e costringerli a vestire eleganti.

Ma che c’entravano gli invitati? Era il giorno del mio matrimonio. I regali che avevo ricevuto erano ceci, fagioli, la farina… era il 1944.

Malgrado tutto ero così felice quel giorno, che non ho mangiato ne-anche un biscottino. Poi nel pomeriggio abbiamo lasciato gli invitati a casa e mio marito è voluto andare al cimitero, al Verano. Siamo arrivati davanti alla tomba di sua mamma, come se mi volesse presentare a lei… e ha iniziato a piangere e io appresso a lui… Mamma mia, ho pensato, che malinconia la giornata del nostro matrimonio… Quando siamo ri-tornati a casa, non vedevo l’ora che se ne andassero tutti, perché avevo fame e volevo mangiare. Invece arrivò sua sorella, che non era potuta venire al nostro matrimonio e si mangiò il piatto mio.

Io non sapevo cucinare, perché da ragazza ero impiegata da Zingone

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e la sera andavo a scuola per computista commerciale, non avevo molto tempo anche perché abitavamo in quattro famiglie in una casa, noi era-vamo in sei in una stanza, il bagno era uno solo e in comune con tutti. Così lo dissi a mio marito e lui è stato buono e ha detto di non preoccu-parmi che a cucinare c’avrebbe pensato lui.

Il giorno dopo del matrimonio mio maritò uscì la mattina insieme a suo fratello e mi chiese di cuocere i fagioli. Io li misi con acqua e sale, mi sembrava che fosse giusto così.

Quando tornò e assaggiò i fagioli, salati e crudi, prese la pentola di coccio e la buttò per terra, rovinando il pavimento oltre a rompere la pentola. Ho un ricordo terribile di quella giornata.

Un giorno in cui andammo a mangiare da mia madre, mi chiusi in bagno e guardai, al di là delle persiane, le mie compagne che giocavano a corda. Mi venne un groppo in gola e improvvisamente mi resi conto di quanto fossero fortunate a godere ancora della loro giovinezza, mi sentii improvvisamente triste. Piangevo e pensavo: “Beate voi, beate voi…”.

Mio marito aveva una frutteria e mi aveva detto di essere il padrone del locale, invece era della sorella. Dopo quindici giorni venne questa sorella per conoscermi e appena mi vide, disse:” Quella è tua moglie? Pensavo che fosse una bella donna!”. Lui mi avrebbe dovuto difendere, invece…

In tutti gli anni che abbiamo vissuto insieme, non ha mai apprezzato che buona moglie fossi e quanto mi sacrificavo per lui e la nostra fami-glia. Facevo anche tanti lavori extra, riparavo le cerniere lampo, portavo i clienti a mio fratello che aveva una gioielleria, andavo a raccogliere la camomilla per le suore, pulivo la cappella al generalato delle Orsoline, persino la borsa nera delle sigarette e della cioccolata, quella a forma di “cassa da morto”…

Ho messo da parte un soldo per volta e quando raggiungevo una ci-fra consistente acquistavo un appartamentino e lo affittavo. Per fortuna che ho fatto così, oggi vivo nella mia casa piccola e non devo chiedere niente a nessuno!

Le mie figlie le ho dovute mettere in collegio, perché noi lavoravamo tutto il giorno, però le ho mandate in un buon collegio, dalle Orsoline, vicino Terni e sono cresciute brave ed educate. Io avevo solo la dome-nica pomeriggio libera e approfittavo per lavare i panni e poi andavo a trovare mia madre. Così dalle mie figlie ci andava solo mio marito. Lui

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non voleva che le nostre figlie studiassero, perché tanto avrebbero fatto il mestiere nostro. Ma quale mestiere?

Se avessero avuto un negozio di frutta come sarebbero andate avanti? Da quel dì che ho dovuto vendere il negozio…

Oggi, con la maturità degli anni e ripensando alle immagini della mia fanciullezza, mi vedo sempre alla ricerca dell’affetto di mia mam-ma, forse perché non mi ha potuto allattare. Cercavo l’affetto di mamma, sentivo che ne avevo tanto bisogno, anche i primi soldi che guadagnavo li portavo tutti a lei, per sentirmi dire grazie… Forse ero un po’ gelosa, mi sentivo trascurata… Ricordo che una volta ho indossato una cami-cetta di mia sorella, dovevo fare gli esami da computista commerciale e volevo vestire carina; poi dopo l’esame l’ho rimessa a posto. Eppure quella volta mia madre si è arrabbiata molto.

Malgrado questo comportamento non ho creato distanze con mia madre e le sono stata vicina fino all’ultimo giorno. Ho sofferto, è vero, ma ho avuto occasioni diverse anche per diventare una persona diversa e oggi mi sento serena e bella per quello che sono.

‘A speranza Ogne semmana faccio na schedina: mm a levo ‘a vocca chella ciento lire,

e corro quanno è ‘o sabbato a mmatina ‘o Totocalcio pe mm’ ‘a ji a ghiucà .

Cuccato quanno è a notte, dinto ‘o lietto, faccio castielle ‘e n’aria a centenare;

piglio ‘a schedina ‘a dinto ‘a culunnetta, ‘a voto, ‘a giro, e mm’ ‘a torn’ ‘a stipà

Io campo bbuono tutta na semmana, sultanto ‘o lluneri stongo abbacchiato, ma ‘o sabbato cu ‘a ciento lire mmano

io torno n’ata vota a gghi a ghiucà .Nun piglio niente, ‘o ssaccio... e che mme ‘mporta?

io campo solamente cu ‘a speranza. Cu chi mm’aggia piglià si chesta è ‘a sciorta, chisto è ‘o destino mio... che nce aggia fà ?

‘A quanno aggio truvato stu sistema io songo milionario tutto ll’anno.

‘A ggente mme pò ddi: - Ma tu si scemo?

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Ma allora tu nun ghiuoche pe piglià ? -Si avesse già pigliato ‘e meliune

a st’ora ‘e mo starrie già disperato. Invece io sto cu ‘a capa dinto ‘a luna, tengo sempe ‘a speranza d’ ‘e ppiglià .

Totò – Antonio de Curtis

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IL CINEMA PARROCCHIALE NILDE RACCONTA

Nilde durante le scuole elementari

Il cinema è la vita con le parti noiose tagliate. (Alfred Hitchcock)

Quando ero bambina, abitavo dalle parti di Villa Fiorelli, e frequen-tavo la parrocchia di SS. Fabiano e Venanzio, dove ho fatto la prima

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comunione. Mi ricordo che la domenica pomeriggio, noi ragazzini della Parrocchia, andavamo al cinema parrocchiale dove facevano dei film adatti a noi adolescenti. Nel palazzo eravamo in tanti ragazzetti ad anda-re al cinema e mamma mi preparava, per merenda, le polpette di carne infilate dentro uno sfilatino di pane che a Roma si chiamava ciriola. Ho ancora il sapore in bocca di quelle polpette, legato all’attesa del film che avrei visto insieme ai miei compagni di giochi del quartiere.

Il cinema era nella parte retrostante la chiesa e, per arrivarci, biso-gnava salire una bella scalinat. Don Carlo, che ci accompagnava al cine-ma, prima ci faceva dire una preghiera e solo dopo, in silenzio, avrem-mo visto il film. Per noi ragazzi era impossibile non fare commenti e stare zitti fino alla fine del film, e quindi sottovoce, chiacchieravamo tra di noi. Allora Don Carlo, che aveva tra le mani un bastone lunghissimo, ci colpiva per ricordarci che dovevamo tacere. Ci colpiva senza neppure spostarsi dal suo posto di controllo, e non ho mai capito come facesse a sentire le nostre vocine basse basse, Durante l’intervallo del film, però, ci scatenavamo a far rumore e a fare la merenda.

Alla fine del film si faceva anche un breve commento insieme a Don Carlo. C’è un film che mi è rimasto impresso nitidamente perché mi fece commuovere molto; si intitolava “Il Giardino segreto” e le emozioni che scatenò in me, allora adolescente, non le ho più dimenticate.

La locandina del film

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La parrocchia non avevo un oratorio vero e proprio, però potevamo fare tante cose: c’erano i vespri con le vecchiette e, noi ragazzi, con la nostra piccola comitiva andavamo tutte le sere. Anche alla preghiera collettiva andavamo insieme, tutte le sere, m debbo confessare che era scusa, perchè tra noi ragazzi iniziavano già le prime occhiate amoro-se… anche se eravamo ancora poco più che bambini.

Poi si usciva dalla chiesa tutti insieme e andavamo a piazza Ragusa a mangiare il gelato, a passeggiare. Se chiudo un momento gli occhi rive-do tutto come allora.

Vicino a Piazza Lodi c’era un banchetto dove vendevano la gratta checca, avevano un blocco di ghiaccio e lo grattavano dentro un bic-chiere, poi aggiungevano il succo di limone, di arancia mentre, A Villa Fiorelli in primavera, i muretti si riempivano di glicini profumati e noi, con gli altri amici, ci arrampicavamo per prendere dei fiorellini chiamati “le scarpette della madonna” e ce li mangiavamo golosamente. Erano dolcissimi, come i ricordi che mi vengono in mente dei miei primi 23 anni di vita vissuti tutti in quella zona di Roma.

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IL PERIODO DI VITA MIGLIORE ORNELLA RACCONTA

Io ho avuto la fortuna di nascere nel 1942 e quelli della mia genera-zione non ricordano nulla della guerra: posso affermare, senza timore, di essere vissuta e di vivere questo scampolo di vita che mi rimane nel periodo migliore. Avevamo l’entusiasmo, c’era umanità tra le persone, mentre oggi si riscontra una disumanizzazione che ha sconvolto la no-stra società. Ho vissuto gli anni sessanta con gioia, usufruendo dei pro-gressi della scienza e delle nuove conoscenze.

Mi sento fortunata così e non m’interessa se scopriranno come arri-vare a 120 anni…

Un nostro amico quest’anno compie 100 anni, si sente solo perché il cerchio intorno a lui si restringe sempre di più: ha scritto una poesia, in cui il treno della vita si avvicina sempre di più alla stazione. Io cerco sempre di trovare un altro lato per alleggerire lo stato d’animo… sicco-me sono le ferrovie italiane, non sono quelle svizzere, possiamo stare tranquilli che quella stazione arriverà in ritardo.

Lo diceva anche la seconda moglie di mio padre, che aveva 90 anni: ogni età comporta i suoi problemi.

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Biagio Casale, che sta per compiere 100 anni.

Biagio viene da una numerosa famiglia ed altre sue sorelle, oltre a lui, frequentano i laboratori e le iniziative culturali della Comunità Mamre-San Frumenzio. Nonostante sia quasi centenario, Biagio scrive ancora bellissime poesie e partecipa al laboratorio di lettura.

Se incontri il suo sguardo, riesci a vedere, nonostante gli anni e le prove che la vita riserva a ciascuno di noi, il bambino che ancora al-berga nel suo cuore. Biagio, nella seconda guerra mondiale, fu dato per disperso e si salvò dal naufragio rimanendo attaccato ad un pezzo di legno galleggiante…. Ma questa è una storia che già ci ha raccontato sua sorella Antonietta ed è una storia inserita in questa raccolta.

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DUE POESIE DI BIAGIO

La stazione della vitaIl treno corre veloce,

tu non lo vorresti, tu vorresti che andasse pianovorresti sempre più tempo,per assaporare la bellezza

dei paesaggi, vorresti più tempoma il treno va veloce

ti specchi nel vetro delfinestrino, e a quella figura,

le chiedi chi sei, dove vaima il treno corre veloce

e la stazionela stazione è sempre più vicina.

La FedeHo scalato montagne

Ho attraversato tanti mariCercavo quello che non si vede

Non si vede, ma si senteNon ha odori, ma profumaNon ha luce, ma è luminosaNon ha colori, ma è un’iride.

Ero desolato, sfiduciatoMa all’improvviso

Mi è apparso un globo dai mille coloriChe mi avvolgevano

Formandomi una seconda pelle:era Lei, quella che cercavo:

la fede.

Il tempo ha portato via tutti i miei ricordiLe mie aspirazioniLe mie delusioni

I miei amoriI miei timoriI miei rancori

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La mia gelosiaLa mia nostalgia

Le mie bugieLa mia gioiaLa mia noia

La mia pauraLa mia bravuraLa mia bontà

La mia cattiveriaI miei tradimentiI miei pentimentiI miei sentimentiLe mie antipatie

Mi è rimasta solo la mia solitudine.

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SCRIVERE INSIEME UNA LETTERA

Durante la raccolta di testimonianze e narrazioni presso la Comu-nità di Mamre-San Frumenzio, la Libera Università di Anghiari si fece coordinatrice del Progetto Europeo “Scrivere Oltre Il Silenzio”, messo in piedi nella giornata del 25 novembre 2013 con l’iniziativa “Scrittura Similtanea Contro la Violenza sulle Donne”.

Accettare di scrive la sottostante lettera ad una donna scono-sciuta che vive l’oltre confine dell’amore, è stato un momento molto commovente nel gruppo.

Allegare nella pagina successiva, in fondo a tutti i racconti rac-colti nel laboratorio Mamre-San Frumenzio tra i partecipanti al proget-to “RaccontarsiRaccontandonoi bambini al tempo della guerra”, ha il significato di speranza verso il futuro, perché sempre più donne trovino il coraggio di denunziare le violenze subite, anche tra le mura domesti-che.

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A chiusura di questa esperienza autiobiografica collettiva, un dialo-go: quello tra Loredana ed Elda.

Leggendolo, comprenderete il perché lo abbiamo collocato in que-sto punto della nostra raccolta, quale suggello emotivo alle ore passate insieme.

Elda e Loredana

Elda mi ha accolto ad ottobre 2013 con un sorriso e mi ha invitato subito ad accomodarmi sulla sedia del salotto.

“Ti ho preparato qualche fotografia”, mi dice indicandomi il tavolo da pranzo. E inizia a raccontare alcuni episodi di sé, come fossero altret-tante fotografie da ascoltare.

“Aspetta a registrare: prima ti devo raccontare di quando…”. Non registro, sto ad ascoltarla, le sue prime confidenze, forse le più intime, quelle donate a me, come regalo d’accoglienza.

“C’hai tempo?”, mi domanda.“Ho l’intera mattinata da dedicarti”, le rispondo.“Bene, allora ti preparo un caffè.”

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E si alzava, con agilità malgrado i suoi 84 ani, per prepararmi il caffè di quella marca che non conoscevo, forte e buono da assaporare con le sue parole. Ascoltavo con la maggior delicatezza possibile, senza intro-mettermi nei suoi racconti, per non calpestare parole ed emozioni. E’ iniziata così la sua storia, prendendomi per mano e portandomi tra i suoi ricordi di bambina, tra le macerie del bombardamento di San Lo-renzo, la sua fanciullezza da sfollata, i suoi primi sentimenti.

Il nostro appuntamento settimanale era atteso con gioia da parte di entrambe.

“C’hai tempo?”, mi chiedeva sempre, perché aveva già in mente quel-lo che voleva raccontare. Era la prima domanda che mi faceva. Siamo andate avanti per tre mesi, con i nostri appuntamenti, poi la sua voce ha iniziato a incrinarsi.

“Elda – le ho detto un giorno – non affaticarti a raccontare, prova a scrivere quello che ti viene in mente, io vengo lo stesso e leggiamo insieme quello che scrivi, poi ti aiuto a sistemare i tuoi appunti.” Ogni volta, così, trovavo tante nuove storie, che lei si affrettava a scrivere, man mano che le tornavano in mente. I fogli non erano uniti dai comuni fer-magli metallici, ma cuciti con ago e filo.

La voce scemava e il respiro si affaticava, ma lei continuava il suo lavoro di scrittura con serenità e impegno.

Poi a gennaio una sua telefonata. “Ti devo dare una brutta notizia: ho un tumore, dobbiamo sbrigar-

ci.”Determinata, come lo è stata in tutta la sua vita, con il pensiero più

importante da realizzare, completare la sua storia.Il ricovero non ha fermato Elda, il nostro lavoro sarebbe dovuto con-

tinuare, lo desiderava a tutti i costi. Andavo in Ospedale San Pietro sulla via Cassia, a trovarla e anche lì, tra fogli sparsi sul letto, appunti presi al volo e il piccolo registratore, continuavamo a lavorare, fino a quando le infermiere mi mandavano via.

“Aspetta, devo ancora raccontarti di Sofia…”, mi diceva, io non vole-vo andare via, mi sentivo coinvolta dall’emotività e dall’affetto per quella piccola donna, vorace della vita.

Un sabato di maggio abbiamo completato il libro insieme, le ho fatto vedere la bozza confessandole la mia evidente commozione per avermi fatto il regalo meraviglioso della sua storia.

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Elda con la sua fierezza e dignità mi ha detto: “Tu mi hai ridato la vita!”, quando la sua vita si stava esaurendo in pochi giorni.

La mattina di mercoledì 7 maggio Elda non c’era più. A me è rima-sta la sua vita, in stampa presso l’editore, un’esperienza dolorosa ma di grande crescita. Elda ha voluto scegliermi per quest’ultima avventura e non ne so esattamente il perché. Le alchimie per le quali una persona ti sceglie quale raccoglitrice della sua storia, restano spesso al di sopra dell’umana comprensione. Ma è accaduto e, nell’incontro con Elda, nel-la sofferenza inevitabile di questa vicenda, lei mi ha aperto le pagine segrete del suo cuore, riversando nel mio la sua essenza di vita.

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“La farfalla non conta i mesi ma i momenti. Ed ha tempo a sufficienza.”

(Rabindranath Tagore)

...uno sguardo al futuro

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LETTERA AI BAMBINI CHE NASCERANNO NEL FUTURO

Cari bambini che nascerete nel futuro,Noi, nonne e nonni del presente possiamo solo cercare di immagi-

nare come sarà questo pianeta negli anni a venire e come voi, piccoli abitanti del futuro Pianeta Terra, giocherete, studierete, amerete e di-venterete, a vostra volta, adulti, mamme, papà e nonni …….Il mondo del futuro sarà vostro e del nostro passaggio resterà, forse, qualche foto sbiadita e qualche ricordo narratovi dai vostri genitori. Sappiate, però, che anche noi siamo stati bambini fiduciosi, giovani speranzosi ed adulti consapevoli. Abbiamo vissuto, nel bene e nel male, la nostra epoca con lo sguardo proteso verso un futuro che ci siamo sempre augurati miglio-re per voi.E’ per questo che, nonostante l’avanzare della scienza e della tecnologia,

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vi regaliamo questa piccola arcaica valigetta che vi preghiamo di aprire con cautela e rispetto. Contiene tutto quello che per noi è stato prezioso e che ci ha aiutato a star bene con noi stessi e con gli altri. Speriamo che queste piccoli accorgimenti di vita vi pos-sano essere utili anche a voi, per noi lo sono stati.

IL CONTENUTO DELLA VALIGETTA:

TENERSI PER MANO

abbiamo imparato da bambini che tenersi per mano è un atto di fiducia verso gli altri e verso il mondo. Tenersi per mano quando si attraversa la strada da bambini, tenersi per mano quando bi-sogna affrontare il primo giorno di scuola, tenersi per mano quando si ama qualcuno, tenersi per mano quando si ha paura e tenersi per mano quando si ci incammina verso l’ultimo tratto di strada della propria esi-stenza. “Tenersi per mano” è nella valigetta che vi doniamo.

SORRIDERE

Imparare a sorridere e cercare di vedere il lato mi-gliore delle cose: questo è il nostro piccolo dono, perché per risollevarsi dal disagio e dal malumore, basta il sorriso di chi ci vuole bene. Tanti rapporti, tanti dialoghi, tante incomprensioni si alleggeriscono con un sorriso. E’ un semplice segreto e quando lo metterete in pratica, non potrà che portarvi serenità. Ad un sorriso avrete per risposta un altro sorriso.

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AMORE PER IL PROSSIMO

Per me è la cosa più importante, da mettere nella va-ligia, è l’amore per il prossimo. Credo che sia la cosa più importante, perché amare se stessi ed amare gli altri permette di godere di tutti i doni che la vita possa offrire a ciascuno di noi.

IMPARARE DAGLI ALTRI

Tante cose vorrei mettere in valigia, ma ascoltare gli altri ed imparare quello che le persone possono insegnarci, è molto importante. Bisogna tenere più in conto le persone chi ci stanno vicino, perché ogni incontro è un dono e la persona che oggi puoi incontrare sulla tua strada, potresti non incontrarla mai più.

L’UMILTA’

L’umiltà è la cosa che consiglio di portare sempre con sé nella valigia della vita. Quell’umiltà che come una timida viola, cresce nascosta nell’erba. Ho sempre tenuto presente grazie agli insegnamenti dei “Padri”, lungo tutto il sentiero della mia vita, questa piccola grande verità.

NON GIUDICARE

Vorrei donare, ai bambini del futuro, l’insegnamento di non giudicare mai e di accertare sempre di persona come stiano vera-mente le cose, tenendo bene a mente che, ogni persona, merita rispetto

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e comprensione anche quando sbaglia.

LA SEMPLICITA’

Semplicità, umiltà, ascoltare l’altro e sorridere. Queste sono le cose da portare in valigia. Prima tra tutte resta la semplicità per-ché è nella semplicità che si annida la bellezza.

LA FEDELTA’

Vorrei lasciare ai bambini che verranno, la capacità di essere fedeli innanzitutto ai propri valori come pure il saper rispettare e comprendere i valori degli altri.

COLTIVARE UN SOGNO

Anche voi, bambini del futuro, avrete una possibilità meravigliosa: quella di sognare, sapendo poi perseguire con tenacia, costanza ed entusiasmo il vostro sogno che deve essere custodito e dife-so da chiunque voglia tentare di distruggerlo.

LA CURIOSITA’ INTELLETTIVA

Vorrei lasciare a tutti i bambini del futuro la curio-sità intellettiva: i mezzi di oggi offrono poco, ma con la curiosità si può imparare a conoscere il mondo, comprenderlo, amarlo, condividerlo con altri e lasciarlo migliore di come lo si è trovato.

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LA PAROLA E L’ASCOLTO

Ai bambini che verranno, vorrei dire come sia im-portante la parola, intesa come prezioso mezzo per comunicare i propri stati d’animo e l’ascolto, intesa come prezioso mezzo per comprendere lo stato d’animo degli altri. Perché imparare a parlare con sentimento e ascoltare l’altro con interesse autentico, mantiene la comunicazione sempre viva e stimolante.

LA PACE

Mi piacerebbe comunicare ai bambini di un mondo fu-turo, che non riusciamo a immaginare come sarà, la possibilità di vivere in un mondo di pace e non crescere con la paura della guerra come è successo a me.

L’ONESTA’

Vorrei trasmettere ai nipoti che verranno, tante ma indispensabili virtù: l’onestà, la serenità, la capacità di mettere pace e fratellanza. Sono virtù che vanno coltivate durante tutto il tempo della vita e regalate, a piene mani, alle persone che incontriamo lungo la no-stra strada in questo mondo.

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LA PAZIENZA

Con pazienza ho atteso che la vita mi con-sentisse di realizzare i miei sogni. La mia famiglia edi miei figli, sono stati la consolazione migliore per il mio temperamento indipendente. Auguro ai miei futuri nipoti, di trovare un posticino nella valigia per la pazienza, una dote indispensabile per saper godere delle cose che si amano anche se, a volte, bisogna aspettare che il tempo si prenda il suo tempo.

E PER FINIRE...

Noi, bambini nati nello scorso millennio, abbiamo condiviso alcuni piccoli piaceri che vogliamo raccontarvi:

Fuori dalle nostre scuole, quando uscivano a fine lezione, c’era sem-pre un “nonnetto” oppure una “nonnetta” con il suo minuscolo carretti-no pieno di ogni possibile leccornia. Dalla scuola si usciva sempre con un leggero languorino e così ci ammassavamo tutti intorno al carretti-no dei “nonnetti” dove, per pochi spiccioli delle vecchie lire italiane, si poteva comperare qualcosa. Volete sapere cosa? Leggete qui sotto:

Il Castagnaccio (farina di castagne in bustina) le mosciarelle (casta-gne secche da rosicchiare) i ceci abbrustoliti, i lacci (lunghi tubicini di morbida liquerizia) le fusaje (lupini lessati e salati offerti in piccoli cartocci di carta paglia) le lecca-lecca, i bruscolini ( semi di zucca ab-brustoliti e salati) etc.etc

La domenica si andava alla messa dei bambini che cominciava alle 9, digiuni dalla mezzanotte per fare la comunione. Finita la messa, of-frivano un biglietto per il cinema del pomeriggio presso l’oratorio ed un biscotto doppio con dentro della marmellata e con la scritta P.O.A che

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significava “Pontificia Opera Assistenza”. Qualche volta il pomeriggio, all’oratorio, ci veniva dato anche un formaggino di surrogato di ciocco-lata (la Nutella ancora non esisteva). Quanto era buona quella ciocco-lata ……. Non potremmo mai dimenticare il suo sapore, anche perché ciascuno di noi mangiava queste squisitezze in compagnia dei propri compagni di scuola o di oratorio ……..si rideva, si giocava, si dichiarava la propria amicizia e …… questa era la gioia più grande, quella di stare insieme!

Poi si tornava a casa e, intorno alle 18 si accendeva la radio per ascoltare la sigla di una trasmissione radiofonica che andava in onda ogni giorno e che si chiamava “ballate con noi”. In più di una abitazione, in cucina oppure nel tinello, si spostava il tavolo e si ballava al suono di quelle musiche che venivano trasmesse per circa mezzora. Poi, l’uccellino della radio, ovvero il segnale di intervallo tra una tra-smissione generata in un luogo d’Italia ed una generata in un altro, ci avvertiva che era ora del notiziario serale e preannunciava la cena della famiglia al completo intorno ad un tavolo.

E qui finisce la nostra lettera di accompagnamento al dono della va-ligetta.

Vi abbracciamo con tutto l’amore possibileAnnaMaria C., Loredana, Nannarella, Nilde, Annamaria, Elisa, Ma-

rilena, Consilia, Cecilia, Carmelina, Maria, Carla, Nicolina, Elda, Ange-la, Alberta, Antonietta, Bianca, Gianfranco, Gilberto, Ornella, Cesare, Giuseppina, Biagio

Comunità Mamre / San FrumenzioMaggio 2014

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La realizzazione di un libro è un’operazione complessa che ri-chiede numerosi controlli su testo ed immagini; la nostra espe-rienza ci suggerisce che è impossibile pubblicare un volume privo di errori. Ringraziamo anticipatamente i lettori che vorranno se-gnalarceli al nostro indirizzo di posta elettronica.

AnnaMaria Calore: [email protected] Simonetti: [email protected]

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