Comunicazione prassi intervento

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LA COMUNICAZIONE DELLA PERSONA AUTISTICA: PRASSI DI INTERVENTO

Dr. Cinzia Raffin

Le persone autistiche non comunicano o non riescono a farsi capire e a

capirci?

La capacità comunicativa dell’uomo, come si è sviluppata nel corso della sua

evoluzione, sembra non essere presente nella persona autistica.

Mancano dei comportamenti che l’uomo ha imparato a decodificare come

segnali di intenzionalità comunicativa.

Ad esempio mancano capacità come quella di

- agganciare lo sguardo dell’altro

- guardare nella stessa direzione

- indicare con il dito indice

- chiedere aiuto per soddisfare un proprio bisogno

- rispondere al proprio nome

- rivolgersi verso una persona che entra nel proprio campo visivo

- mostrare qualcosa ad un’altra persona

L’assenza di questi comportamenti sembrerebbe indicare che le persone con

autismo manchino di intenzione comunicativa, della voglia di comunicare.

Eppure, l’esperienza clinica ci mostra come in molti casi le persone autistiche,

anche “non verbali”, quando sono in grado di padroneggiare uno strumento

comunicativo lo usano abbondantemente.

Vorrei fare un esempio, abbastanza eclatante. Si tratta di un bambino di 10

anni che da un paio di anni ha cominciato ad utilizzare qualche parola. Il suo

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vocabolario conterrà circa 50 parole espresse però l’uso che ne fa è

straordinario.

Questo bambino ha imparato a dire “scotta” quando sul piatto c’è qualcosa di

fumante. Afferra con la forchetta il pezzetto di cibo e ripete “scotta” e poi ci

soffia sopra. Di questo se n’erano piacevolmente accorti i genitori e gli

operatori che lo seguono durante il programma respiro. Proprio in occasione

di un week end il bambino ci sorprese dicendo “scotta” di fronte ad un piatto

di rucola. L’operatore rispose ovviamente di no, che la rucola non scotta, ma

il bambino insistette finchè l’operatore per fargli capire che non era così,

mangiò una forchettata di rucola accorgendosi che quella rucola aveva un

sapore decisamente pungente.

Il bambino aveva utilizzato l’unica parola che conosceva “scotta” dandogli un

significato più ampio “qualcosa che dà fastidio in bocca”. Evidentemente non

conosceva gli aggettivi: aspro, pungente o altri più adatti al caso.

Nella stessa giornata, al parco dopo essere sceso dall’altalena e fregandosi

insistentemente una mano, si rivolge all’operatore dicendo “scotta”.

L’operatore allertato dall’esperienza precedente, anziché considerare l’uscita

del piccolo come priva di senso, va a controllare e scopre che la mano odora

di resina e che la corda dell’altalena era tutta appiccicosa di resina caduta

dagli abeti sovrastanti.

Anche in questo caso il bambino ha comunicato un fastidio tattile con l’unica

parola a sua disposizione.

Cosa sarebbe accaduto se non lo avessimo ascoltato, se avessimo dato per

scontato che stava dicendo qualcosa di insensato e di poco contestuale come

molti altri bambini autistici?

La letteratura ci dice che la persona autistica è bizzarra, che la ripetitività fa

parte dei sintomi, che gran parte del linguaggio autistico non ha finalità

comunicative.

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Ma nell’esempio, il commento era appropriato, quello che mancava era il

lessico!

Quindi se non lo avessimo ascoltato forse avremmo perso una

occasione per rispondere alla sua comunicazione!

Riprendendo l’interrogativo iniziale: “le persone autistiche non comunicano o

non riescono a farsi capire e a capirci?”, vorrei proporre un’ipotesi di lettura

che riguarda almeno un gruppo di comportamenti di persone con diagnosi di

autismo.

Il disturbo della comunicazione può non essere legato, come molti

sostengono, a un prioritario disturbo dell’interazione, ma alla mancanza

delle facoltà comunicative, non dunque alla mancanza di intenzionalità

comunicativa e relazionale.

Alla luce di questa ipotesi potrebbero essere riviste, almeno in parte, anche le

altre due categorie sintomatologiche che formano la triade autistica: la

difficoltà nell’interazione sociale reciproca e la presenza di comportamenti

ripetitivi, di interessi ristretti e stereotipati.

A ben pensarci infatti che cos’è l’interazione sociale se non uno scambio

continuo e circolare di messaggi (verbali o non verbali che siano).

E non è forse ipotizzabile che la ripetitività della persona autistica sia una

forma bizzarra di ridondanza che anche noi utilizziamo nel momento in cui ci

accorgiamo che non siamo stati capiti?

E qualora il nostro essere sociale venga continuamente frustrato

dall’impossibilità di comprendere e di esprimerci, ad esempio in un paese

straniero di cui non conosciamo nè lingua, né costumi, non ci ritireremmo

anche noi in albergo o ci concentreremmo su qualcosa che ci interessa ma

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che non abbia a che fare con la relazione: la visita solitaria ai monumenti,

piuttosto che l’escursione in luoghi naturalistici?

A questo proposito vorrei raccontarvi un altro esempio significativo che ha a

che fare proprio con la ripetitività.

Si tratta di Giovanni un bambino che seguiamo e che ora ha 12 anni. All’inizio

della V elementare, questo bambino che ha un linguaggio fluente, continuava

a ossessionare tutti con questa domanda: “io divento grande come il nonno?

E poi? Divento grande come il campanile? E poi, come divento grande, come

il grattacielo? E poi?”

Nonostante le ripetute risposte più o meno tutte uguali, da parte dei genitori,

delle insegnanti, degli operatori, Giovanni continuava imperterrito a sfinirci

con la solita domanda.

Ora c’è da dire che Giovanni ha un Q.I. di 92, e quindi è immaginabile che

comprendesse anche cognitivamente la risposta, inoltre l’esperienza gli

permetteva di verificare che non esistono persone alte come i campanili o i

grattacieli. D’altro canto, quando gli si chiedeva di rispondere lui stesso alla

domanda, sapeva dire che le persone crescono fino ad una certa altezza, ma

poi si fermano.

Evidentemente eravamo in presenza di una domanda che non era quella che

le sue parole enunciavano. Quest’altra domanda rimaneva sempre senza

risposta e lui continuava a ripeterla, perché non aveva altro modo per

esprimerla.

Il problema qui era trattarla come una domanda priva di senso, una

stereotipia? o trattarla come una comunicazione e quindi agire di

conseguenza cercando di comprendere che cosa chiedesse in realtà con

quella insistenza.

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In questo caso abbiamo abbracciato la nostra ipotesi che tradotta in termini

più semplice non è altro che la risposta al quesito iniziale: le persone

autistiche comunicano ma non riescono a farsi capire e a capirci.

Più avanti torneremo su questo esempio e parleremo di cosa abbiamo fatto in

questo caso.

Ma prima di fare questo vorrei soffermarmi a considerare perché proporre

questa ipotesi?

Innanzitutto, fermo restando che le sindromi autistiche sono diverse e molto

varie anche dal punto di vista sintomatologico, credo sia scientificamente

interessante circoscrivere un ambito di ricerca.

Come diceva Karl Popper, non è vero che la scienza nasce dall’osservazione,

altrimenti potremmo osservare tutto e niente. La scienza parte da una ipotesi

che ci indica cosa osservare. Penso che ricercare le basi neurofisiologiche

della comunicazione umana, capire quali sono i processi che regolano la

comunicazione, possa essere di estremo interesse per chi si occupa di

ricerca.

Ma c’è anche un altro motivo di interesse nel proporre questa ipotesi ed è

lagato alla prassi. Abbiamo notato che è pragmaticamente utile considerare la

persona autistica come persona “comunicativa”. Vale a dire che questa

ipotesi ci ha aiutato spesso a definire con successo il comportamento da

adottare di fronte alle difficoltà della sfera autistica.

Tornando quindi alle prassi di comportamento che deriviamo da questa

ipotesi riprenderei proprio l’ultimo esempio fatto per dirvi come abbiamo agito.

La domanda di Giovanni, benché bizzarra non era neanche così difficile da

interpretare. Abbiamo ipotizzato che si trattasse di una domanda esistenziale:

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come si evolve la vita? Cosa significa crescere? Cosa mi devo aspettare nel

futuro?

Nel formulare questa ipotesi ci hanno aiutato le informazioni contenute nella

domanda, gli eventi accaduti nella vita del bambino negli ultimi tempi, l’età.

La domanda indicava un interesse verso cosa accade dopo, che si trattasse

di crescita era esplicito anche se il bambino per indicare la crescita non

riusciva a trovare una parola astratta ma era vincolato all’idea fisica della

crescita come altezza. Nella sua famiglia era da poco nato un fratellino che

Giovanni vedeva crescere sotto gli occhi sia fisicamente sia nelle modalità di

relazione a lui riservate da parte degli altri. Inoltre Il bambino aveva

cominciato ad avvisare i primi segni della crescita puberale.

Seguendo la nostra ipotesi abbiamo costruito una linea del tempo visiva in cui

abbiamo evidenziato con delle immagini, disegnate piuttosto precisamente, le

tappe della crescita: dalla gravidanza, alla nascita e poi via via il bebè, il

bambino, il ragazzino in fase di sviluppo, l’adolescente, fino ad arrivare al

vecchio e alla morte.

A Giovanni è stata mostrata la linea del tempo e per ogni tappa gli sono state

spiegate con parole concrete e semplici alcune caratteristiche.

Ha funzionato! Giovanni non ha più ripetuto la domanda.

Il processo che è avvenuto non lo sappiamo spiegare, forse il bambino ora

aveva una serie di immagini su cui fissare i concetti relativi alle tappe dello

sviluppo e, come dice Temple Grandin, il pensare per immagini all’esistenza

lo avevano aiutato a trovare la sua risposta.

Altre volte capita che le persone autistiche vogliano comunicare qualcosa,

vogliano chiederci qualcosa, ma lo facciano in forma estremamente bizzarra.

Matteo, 13 anni, con un linguaggio discreto, anche se all’epoca molto

silenzioso, lo abbiamo conosciuto intento a disegnare una bara. Durante la

prima valutazione, quando gli abbiamo chiesto di disegnare un bambino, ha

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disegnato una cassa da morto. I genitori dietro lo specchio ci hanno detto che

da più di un anno questo era il soggetto unico della sua espressione autistica.

“Nessuno riesce a fargli disegnare qualcosa di diverso”, ci dissero.

Anche qui sarebbe stato facile concludere che si trattava della classica

ristrettezza di interessi, della ossessività per un unico argomento, della

modalità stereotipata di espressione della persona autistica.

Tuttavia abbiamo voluto considerare questa stereotipia come una

comunicazione e con l’aiuto dei genitori abbiamo raccolto informazioni sugli

ultimi due anni della vita familiare. Era morto qualcuno in famiglia?, come

avevano reagito, cosa avevano detto a Matteo, lo avevano portato al

funerale?

Siamo venuti a sapere che erano morti due nonni a cui Matteo era affezionato

e uno zio. A Matteo avevano detto che erano andati in cielo, e non volendolo

scioccare non lo avevano portato a nessun funerale.

Improvvisamente nella vita di questo ragazzo tre persone scompaiono e

nessuno gli dice cosa è successo. Sono andati in cielo?, come, in aereo?, ma

perché allora tutti piangono?, perché non mi parlate di queste cose che ben

ho visto, che immagino, le bare le conosco, ma dove vanno a finire?

Abbiamo ipotizzato che queste fossero le considerazioni e le domande che il

ragazzo si poneva e poneva con questo insistente disegno delle bare.

Ai genitori, persone molto credenti, abbiamo spiegato che per un ragazzo

autistico è molto difficile comprendere le metafore che avevano usato.

Dovevano dargli una risposta più concreta. Gli abbiamo suggerito di portare

Matteo in una cella mortuaria in ospedale, di fargli vedere un cadavere, di

farglielo toccare, di spiegare perché era freddo, di accompagnarlo al funerale

e di spiegare che il corpo morto, dentro la bara, rimane in cimitero. Poi

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essendo credenti avrebbero potuto raccontare dell’anima, ma come qualcosa

di concreto di visualizzabile. Così hanno fatto. L’anima è diventata un vapore

che gli uomini non possono vedere, ma che se vedessero sarebbe simile ad

un fumo che si distacca dal corpo quando la persona muore. L’anima va in

cielo e contiene tutte le azioni buone che la persona ha fatto durante la sua

vita.

Per questo il cielo è così bello!, avrei aggiunto io. Questa metafora mi fa

ancora emozionare.

I genitori ci hanno raccontato che Matteo è stato sereno durante tutto il

tragitto e nessuno lo ha più visto disegnare bare.

Finora ho fatto degli esempi della difficoltà che le persone autistiche hanno

nel farsi capire. Ora vorrei parlarvi della difficoltà a capire la nostra

comunicazione.

Le persone con autismo hanno difficoltà con tutto ciò che è comunicazione.

Dunque anche con la gestualità, o con altra simbolizzazione. Perciò, a

differenza dei sordi, non imparano facilmente il linguaggio dei segni.

Mancando di comprensione rispetto alla comunicazione, non possono

usufruire di tutti quei messaggi che l’uomo ha imparato a scambiarsi nel corso

della sua evoluzione: sguardi, espressioni del volto, toni della voce, ecc. Non

solo, ma non potendoli decodificare, questi messaggi rappresentano

“rumore”.

Ciò va ricordato sempre, perché per noi accompagnare i discorsi con tutto

questo bagaglio di espressioni è naturale e bisogna fare uno sforzo di

autocontrollo per non essere “rumorosi”.

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A questo proposito vi potrei raccontare diversi aneddoti. Un ragazzo di 18

anni, durante alcune sedute educative si rivolgeva inaspettatamente

all’operatore chiedendo “perché sei arrabbiato?”. Dal momento che

l’operatore non era arrabbiato e non pensava di aver fatto nulla di particolare

per indurre questa domanda, rispondeva “No, Gianluca, non sono arrabbiato”

La domanda veniva ripetuta costantemente con due soli operatori, con gli altri

con cui aveva a che fare non succedeva.

Abbiamo attentamente considerato la domanda come una domanda legittima.

Dunque ci siamo chiesti cosa induceva Gianluca a farla. Abbiamo analizzato i

video delle sedute con i due operatori che erano bersaglio di questa domanda

e abbiamo osservato che cosa facevano nei secondi precedenti alla domanda

stessa. Abbiamo scoperto una cosa incredibile. I due operatori portavano

entrambi gli occhiali e subito prima della famosa domanda entrambi facevano

un gesto assolutamente automatico e privo di significato comunicativo che

era quello di aggiustarsi la posizione degli occhiali.

A quel punto nella seduta successiva abbiamo chiesto a Gianluca che cosa

significasse per lui quel gesto, mostrandoglielo, e lui ha risposto che voleva

dire essere arrabbiati.

Una volta spiegato che quel gesto non aveva quel significato, la domanda

non c’è più stata. Non solo ma da lì abbiamo definito un programma che

prendeva in considerazione diversi gesti che lui riteneva significativi e li

abbiamo spiegati. Metà di questi per noi erano gesti assolutamente privi di

significato, come il tirarsi indietro i capelli, accavallare le gambe, ecc.

Dunque riassumendo, la difficoltà di comprensione della comunicazione

gestuale deve indurci a misurare la vivacità del nostro eloquio, a non

gesticolare in maniera eccessiva, a non usare toni di voce con modulazioni

enfatizzate e soprattutto a non usare gesti convenzionali ma prediligere gesti

analogici.

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La difficoltà nella comprensione della comunicazione fa sì che anche persone

autistiche ad alto funzionamento siano spesso legate all’interpretazione

letterale del linguaggio. E’ come se la persona con autismo muovendosi in un

terreno così insicuro rispetto all’interpretazione della comunicazione si

affidasse in maniera “scientifica” al dizionario per essere certa di non

sbagliare.

Questa caratteristica rende piuttosto difficoltosa la comunicazione anche con

persone che apparentemente hanno un linguaggio fluente.

Recentemente seguo un ragazzo di 25 anni che pur risultando autistico, non

solo secondo i criteri diagnostici del DSM IV, ma anche dai risultati di test

diagnostici quali ADOS, ADI-R, non aveva mai ricevuto questa diagnosi. Era

stato diagnosticato psicotico e solo dopo un rifiuto categorico da parte sua di

continuare una terapia farmacologia con neurolettici, la famiglia che già aveva

considerato la possibilità che non si trattasse di psicosi ma di autismo, lo ha

portato presso i nostri centri.

Il ragazzo è ad alto funzionamento per cui stiamo cercando di lavorare

sull’autoconsapevolezza rispetto alla diagnosi perché possa aiutarsi a capire

tutte le sue stranezze.

La prima volta che abbiamo parlato della possibilità che lui fosse autistico,

dopo aver elencato tutta una serie di caratteristiche della persona autistica

che lui riconosceva di avere, la reazione è stata brutale. Si è alzato

bruscamente e ha detto che era assolutamente da escludere che lui fosse

autistico perché la parola autismo deriva dal greco “autos” e significa stare da

solo, mentre lui è socievole e gli piace la compagnia degli altri.

Non ho avuto difficoltà a credergli, non penso che il suo problema sia quello

di non stare con gli altri, ma di non sapere assolutamente come si comunica

con gli altri.

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Gli ho detto che era attaccato al significato greco, ma che il significato

etimologico non conteneva tutte quelle caratteristiche che descrivono

l’autismo.

C’è spesso una discrepanza tra significato etimologico e significato concreto.

Quella seduta si è conclusa con un impegno da parte mia di non parlare più

di lui come di una persona autistica.

Dopo tre settimane (ci eravamo visti due volte nel frattempo), mi dice che

poteva essere autistico, perché quello che contava non era il significato

greco. Mi ha detto che lo aveva capito analizzando il termine pedofilia che nel

significato etimologico riguarda l’amore verso un bambino, ma nella

concretezza vuol dire abuso del bambino.

Le implicazioni di questa comunicazione così compromessa sono tante. Chi

deve curarsi delle persone con autismo deve stare sempre molto attento ai

messaggi che invia. Devono essere chiari, non lasciare nulla di sottointeso.

Non solo ma devono tener conto delle idiosincrasie della persona.

Si tratta a volte di evitare certi termini così come certi gesti.

Un bambino di IV elementare ha una crisi ogni volta che la maestra grida

“Basta!” per far stare zitti i bambini, non dimostra fastidio se grida “Silenzio!”

con lo stesso tono di voce.

E’ evidente il perché “Basta!” potrebbe riferirsi al volergli far interrompere una

attività che magari sta facendo composto. “Silenzio!” non si riferisce certo a

lui che non parla. E’ una buona idea in questo caso non usare mai la parola

“Basta”.

Anche i bambini che non ci danno alcun segno di comprensione del

linguaggio verbale, possono essere carichi di bisogni comunicativi.

Lo scambio di informazioni necessario per la loro sopravvivenza, avviene

soprattutto mediante i sensi che possono essere ipersviluppati. Ad esempio,

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l’olfatto può non far loro assumere una bevanda in cui è stato mischiato un

farmaco inodore che è impercettibile per i più.

Alle domande che noi tutti ci facciamo e a cui solitamente rispondiamo con la

comunicazione, le persone autistiche si rispondono con la memoria visiva,

l’attenzione ai dettagli, le routines, ecc.

Non è che non si pongano domande, è che non comprendono le nostre

risposte.

Quando prendiamo un bambino autistico e lo carichiamo in macchina

dicendogli, magari parlando rapidamente, che stiamo andando a casa della

nonna, il bambino si chiede dove lo stiamo portando, ma è probabile che

quello che gli diciamo rimanga incomprensibile e dunque si dia un sua

risposta fondata su diversi dettagli visivi e sulle routine che ha imparato.

Può ad esempio aver memorizzato la strada che stiamo percorrendo e

trovare così la sua risposta.

Il problema si pone quando la risposta che si è dato gli ha creato

un’aspettativa che poi viene disattesa, perché siamo costretti a cambiare

strada per lavori in corso. Allora improvvisamente il bambino può avere una

crisi comportamentale o autolesionista. Ma questa non è altro che una

domanda: “Dove stiamo andando? Ero convinto che andavamo dalla nonna,

perchè cambi strada?

Da qui la necessità di trovare forme diverse di comunicazione che siano più

congeniali al suo modo di essere.

In molti anni di sperimentazione si è visto che le persone con autismo hanno

una particolare attitudine a ricevere informazioni visive, cioè informazioni che

non sono mediate dalla convenzione linguistica ma che aderiscono

immediatamente al significato.

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L’utilizzo di comunicazioni visive riveste per molte persone con autismo la

stessa importanza che ha per un paraplegico l’uso della sedia a rotelle. Gli

cambiano completamente la qualità della vita!

Nell’esempio citato, l’utilizzo di una immagine che indichi la casa della nonna

e un’educazione coerente alla decodifica di questa immagine può risolvere il

problema.

Concludendo vorrei dire che ci sono molti modi per migliorare sia la capacità

di comunicare della persona autistica sia quella di capire cosa gli altri le

comunicano, ma è essenziale restituire, perlomeno a un folto gruppo di

persone con autismo, la fiducia nelle loro intenzioni comunicative. Non c’è

nulla di più brutto e questo lo possiamo sperimentare anche noi, che sentire

che l’altro non ti capisce o non ti ascolta perché pensa che tu non abbia

niente da dire.

Grazie

Intervento presentato al Congresso sull’autismo tenuto a Brescia nel 2003