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Elisa Azzimondi STORIA DELLA VITE E DEL VINO A BOLOGNA NEI DOCUMENTI DELLA ACCADEMIA NAZIONALE DI AGRICOLTURA BOLOGNA, 2008 COMITATO CELEBRATIVO NAZIONALE PER IL BICENTENARIO DELL’ACCADEMIA NAZIONALE DI AGRICOLTURA Con il patrocinio del Ministero per i beni e le attività culturali Direzione Generale per i beni librari e gli istituti culturali

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1PRESENTAZIONE

Elisa Azzimondi

STORIA DELLA VITE E DEL VINOA BOLOGNA

NEI DOCUMENTIDELLA

ACCADEMIA NAZIONALE DI AGRICOLTURA

BOLOGNA, 2008

COMITATO CELEBRATIVO NAZIONALE

PER IL BICENTENARIO DELL’ACCADEMIA NAZIONALE DI AGRICOLTURA

Con il patrocinio del Ministero per i beni e le attività culturaliDirezione Generale per i beni librari e gli istituti culturali

2 PRESENTAZIONE

Elisa Azzimondi“STORIA DELLA VITE E DEL VINO A BOLOGNA ATTRAVERSO I DOCUMENTI DELL’ACCADEMIA NAZIONALE DI AGRICOLTURA”Supplemento agli Annali CXXVIII, 2008

Elisa Azzimondi, laureata in Lettere moderne presso l’Università di Bolo-gna, ha conseguito un diploma di master in Storia e Cultura dell’Alimentazione presso lo stesso Ateneo. Si occupa da anni di ricerca sulla storia alimentare ed enologica del territorio emiliano-romagnolo. Collabora a riviste e pubblicazioni specializzate nel settore.

ACCADEMIA NAZIONALE DI AGRICOLTURA

Uffi ci e Biblioteca: Via Castiglione, 11 - 40124 Bologna Tel. 051-268809 - Fax 051-263736 E.mail: [email protected]

3PRESENTAZIONE

Sommario

1. Presentazione .....................................................................................pag. 5

2. Introduzione ....................................................................................... » 7

3. Bologna e il suo territorio ................................................................. » 25

3.1. Come si beveva a Bologna? ...................................................... » 25

3.2. Il ruolo dell’Accademia nella protezione e nella promozione del mondo agricolo ................................... » 36

4. Il XIX secolo: chiaroscuro di un’epoca ............................................ » 55

4.1. Rifl essioni prefi llosseriche ........................................................ » 56

4.2. L’Oidio. Una malattia antica? ................................................... » 79

4.3. Una formidabile macchina da guerra: la Fillossera .................. » 96

4.4. Molti nemici, molto onore. L’arrivo della Peronospora ........... » 112

4.5. Un nuovo concetto di moderna viticoltura ............................... » 118

5. La prima esposizione nazionale delle uve a Bologna: cronaca di un evento fantasma .......................................................... » 139

5.1. Il Consorzio dei viticoltori bolognesi ....................................... » 139

5.2. L’evento mancato ...................................................................... » 141

5.3. Le cause del fallimento ............................................................. » 158

6. Conclusioni ........................................................................................ » 163

7. Bibliografi a e fonti inedite ................................................................ » 171

Ringraziamenti ................................................................................... » 174

4 PRESENTAZIONE

5PRESENTAZIONE

1. Presentazione

La travagliata storia della viticoltura bolognese è ricostruita in questo saggio della dr.ssa Elisa Azzimondi che si è abilmente destreggiata tra i documenti, editi e inediti, dell’Accademia Nazionale di Agricoltura – già Società agraria del Dipartimento del Reno – nei duecento anni della sua esistenza.

Il saggio lumeggia aspetti importanti di questo processo storico: la dibat-tuta questione della tipologia colturale, specializzata o promiscua; i sistemi di allevamento della vite, dalle alberate alle forme basse palifi cate; la pletora dei vitigni autoctoni e stranieri e l’incertezza della loro scelta; i complessi rapporti contrattuali tra proprietà e classe lavoratrice; l’evoluzione della tecnologia eno-logica, dalla cura dei vasi vinari alla felice introduzione dei lieviti selezionati; la qualità di un prodotto per lo più scadente fi no ai tempi moderni; i problemi fi tosanitari culminati nelle insidie di perniciose crittogame e, soprattutto, nel dramma dell’invasione fi llosserica.

Ne emergono i tentativi, ora vani, ora coronati da successo, ripetutamente messi in atto del sodalizio bolognese impegnato a ricercare valide soluzioni da proporre ai viticoltori della provincia e al governo nazionale per sottrarre al diffuso disinteresse degli aventi causa una produzione arborea fondamentale per l’economia di un territorio eterogeneo dal punto di vista pedologico, cli-matico, idrologico, strutturale, umano, quale è stato, ed ancora è oggi, quello bolognese.

Il saggio si conclude con una puntuale ricostruzione della quasi ignota disav-ventura della “Esposizione delle uve” che la Società agraria aveva caldeggiato e programmato nel 1875 e che, per vari motivi, era purtroppo terminata con un colossale fallimento, pietosamente coperto da un velo di imbarazzato silenzio.

Nella felice ricostruzione storica prodotta dalla dr.ssa Azzimondi si trovano però anche le testimonianze dell’opera provvidenziale dell’Accademia bolognese grazie alla quale la viticoltura felsinea potè sopravvivere e anzi raggiungere i traguardi che oggi la qualifi cano.

Alla valorosa autrice di questo saggio un sincero apprezzamento per il suo paziente lavoro di indagine, per l’obbiettività della sua ricostruzione storica e per il suo signifi cativo contributo alle celebrazioni del bicentenario dell’Accademia Nazionale di Agricoltura.

Bologna, 15 aprile 2008Enrico Baldini

6 PRESENTAZIONE

7INTRODUZIONE

2. Introduzione

Lo scopo di questo studio è quello di tracciare un cammino che percorra la storia della vitivinicoltura bolognese in un momento particolarmente signifi cativo per l’evoluzione della cultura enologica europea, condotto attraverso le testimonianze legate a questa specifi ca realtà territoriale, grazie alla documentazione conservata presso l’archivio dell’Accademia Nazionale di Agricoltura di Bologna.(1)

La ricerca deve però necessariamente partire da lontano per illustrare con la massima precisione possibile, concessa al piccolo spazio di una introduzione, come si arrivò alle condizioni che si andranno ad analizzare e, soprattutto, quale sia stata la parabola compiuta da questo alimento che rivestì sempre un ruolo da protagonista nella vita sociale umana. I documenti accademici sono preziosissime testimonianze non solo sugli equilibri politici e sociali che giravano intorno al bene-vino, ma anche sul valore storico che la stessa istituzione rivestì negli equilibri nazionali dell’Italia appena formata, ponendosi come punto di riferimento e mediatore fra gli interessi nazionali e quelli particolari delle singole realtà rappresentate. La struttura alveolare dell’Accademia permise una presenza capillare sul territorio: ogni parte della provincia era suddivisa in 42 deputazioni sezionali, tutte a loro volta referenti al nucleo centrale cittadino. Attraverso i rappresentanti di ognuna di esse, l’amministrazione centrale poteva ricomporre, durante le adunanze, un mosaico preciso, tale da dare piena voce a tutte le problematiche presenti. No-nostante una strutturazione tanto composita, i rapporti con il territorio e con gli agricoltori non furono sempre facili. L’Accademia restò pur sempre un’istituzione e, come tale, attirò la diffi denza di chi ogni giorno doveva affrontare le incomben-ze che il lavoro della terra imponeva. La condizione privilegiata del Bolognese, dovuta alla naturale fertilità dei terreni e alle condizioni climatiche favorevoli alla coltivazione agricola, si trasformò presto in un deterrente alla coltivazione

(1) L’Ente negli anni si fregiò di numerose denominazioni. Alla sua costituzione, nel 1807, l’attuale Accademia portava il nome di Società Agraria del Dipartimento del Reno, tramutato poi in Società Agraria della Provincia di Bologna alla caduta del Regime Napoleonico. Nel 1938, a seguito del nuovo assetto fascista, l’Ente fu rinominato Accademia di Agricoltura e in breve ottenne anche il titolo di Reale. L’attuale denominazione di Accademia Nazionale di Agricoltura risale al 1960. Per maggiore chiarezza, la scelta stilistica operata è quella di riferirsi all’Istituzione adoperando da subito il nome che porta attualmente, perciò riferendosi ad esso si userà soltanto il nome di Accademia Nazionale di Agricoltura. Accademia Nazionale di Agricoltura, Inventario dell’Archivio storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura (già Società Agraria di Bologna). 1807 – 1944, a cura di A. Campanini, Bologna, 2001, p 7.

8 INTRODUZIONE

intensiva della vite, aumentando il ritardo rispetto ad altre realtà italiane. Prima di procedere nel racconto di questa storia è utile fornire un inquadramento storico sulla diversa importanza che la viticoltura rivestì nella crescita di questa regione, fi no alla sua rinascita in chiave moderna.

Antonio Ivan Pini,(2) studioso che diffusamente si occupò della viticoltura nel Bolognese, racconta come nelle cronache di Plinio il Giovane si parlasse di fi umi di vino che da queste terre venivano convogliate nelle più remote province imperiali,(3) testimoniando così, oltre che la grande produttività di queste terre, anche la loro fama nel mondo antico. Testimonianze confermate dall’interesse che gli studiosi e gli agronomi in tempi posteriori continuarono a dare alla viticoltura considerata una delle principali attività agricole del territorio.

Nel XIV secolo Pier de’ Crescenzi, uno degli studiosi più accreditati, tornato in patria dopo un lungo esilio, dedicò parte della propria attività all’analisi delle questioni economiche della zona, dando alle stampe un’opera, il Liber ruralium commodorum, in gran parte dedicato alla coltivazione della vite (Fig. 1). L’im-pianto dell’opera, che risente notevolmente della trattatistica classica, non eccelle per l’originalità delle teorie espresse, con notevoli refusi dalle precedenti opere latine e macroscopici errori di fanta-botanica, ma testimonia il vivo interesse che la coltivazione della vite continuava a suscitare nella scienza coeva. Crescenzi dedica il quarto libro della sua opera alla «coltivazione della vite e le diversità delle vigne»(4) fornendoci così uno dei primi studi ampelografi ci condotti sul ter-ritorio, testimoniando come il concetto di vitigno autoctono, che negli ultimi anni occupa le principali vetrine internazionali, non è affatto una conquista moderna, ma il frutto di una selezione, solo in parte volontaria, che si impose naturalmente sul territorio. Tuttavia le indicazioni fornite testimoniano come, al crollo impe-riale, le procedure per la coltivazione della vite avessero subito una forte battuta di arresto, e l’arbusto avesse abbandonato gli spazi a lui propri per arrampicarsi sugli alberi (Fig. 2). L’esigenza di allevare la vite sugli alberi nasce, secondo il Crescenzi, dalla nuova necessità di disporre di tutto lo spazio territoriale possibile per la coltivazione mista di tutti i generi primari che, dopo la perdita di un controllo governativo accentrato, dovevano essere prodotti in spazi sempre più ristretti.

(2) Si fa riferimento principalmente ai lavori dello stesso autore: A. I. Pini, Campagne bolognesi. Le radici agrarie di una metropoli medioevale, Bologna, 1993; Il vino a Bologna nel Medio Evo, in: La Compagnia dell’Arte dei Brentatori, Bologna, 1976, pp. 163-175; Vite e vino nel Medioevo, Bologna, 1989.

(3) Pini, Il vino a Bologna, cit. p. 164.(4) Crescenzi, Trattato di Agricoltura, in: A. Molinari Pradelli, Osterie e locande di Bologna la

«grassa» e la «dotta» in gloria della tavola: folclore, arte, musica e poesia nelle tradizioni contadine e gastronomiche della città felsinea, Roma, 1980, p. 18.

9INTRODUZIONE

L’organizzazione di singoli appezzamenti, coltivati con la varietà di broli, congiunta alla nuova esigenza di allevamenti bovini stabili, portò al mutamento degli equilibri economici, creando la necessità di disporre di sempre maggiori quantità di foraggio, per cui gli alberi posti a tutori della vite rappresentarono una preziosa risorsa.(5)

(5) Ibidem.

Fig. 1 - Frontespizio del De Agricultura di Piero de’ Crescenzi (edizione 1553).

10 INTRODUZIONE

Nelle sue rifl essioni ampelografi che l’autore conferma il grande uso che si faceva di vino in Emilia e di come vitigni locali, come l’Albana, dessero vita a un «vino forte», confermando l’eccellenza e la preferenza della zona per le uve bianche. I sistemi di vinifi cazione mostrano però evidenti falle che, in breve, cominciarono a costruire e giustifi care la cattiva fama dei vini emiliani.

Il momento più delicato della produzione vinaria, quello della fermentazione alcolica, era affi dato a pratiche scaramantiche, suggestive più che effi caci. Una delle più raccomandate era quella di segnare le botti in cui riposava il vino no-vello con una croce tracciata col gesso sulle doghe, affi nché il vino non «desse la volta», cioè non fosse colpito dal “girato”, una delle alterazioni enologiche più diffuse. Il contributo dell’autore, d’altra parte, non si discosta molto dalle pratiche coeve, limitandosi a consigliare di inserire nella botte una mela, o solo la sua buccia, con incise sopra le parole «gustate et videte quoniam Christus sua vis est Dominus».(6) Questo genere di superstizioni sopravvisse a lungo, tanto che il trattato di Crescenzi, scritto fra il 1304 e il 1309, rimase all’avanguardia fi no al XIX secolo, condizionando profondamente gli scritti successivi.

Al fi anco di una trattatistica uffi ciale, che risente chiaramente di alcuni dictat formali, esiste tuttavia una fl orida pratica campestre che raramente, fatte le de-bite eccezioni, lasciò tracce di sé; proprio a una di queste dobbiamo l’utilissimo

(6) Molinari Pradelli, Osterie, cit. 19.

Fig. 2 - La potatura delle viti. In: Piero de Crescenzi, De Agricultura (edizione 1495).

11INTRODUZIONE

poemetto di Paganino Bonafede, il Tesoro dei Rustici. L’opera riveste un ruolo fondamentale nella comprensione delle dinamiche agricole del tempo e testimo-nia la grande importanza che la viticoltura ancora rivestiva nella vita agricola di allora. Bonafede dispensa consigli pratici, lontani dall’erudizione dei trattati uffi ciali, curando l’intera fi liera della produzione vinicola,(7) dalla potatura, da effettuarsi durante l’equinozio di primavera - «quando il dì cum la notte è pare» - fi no alle concimazioni, da eseguire in vigna, che Paganino consiglia numerose e abbondanti a base di letame.

Grande spazio viene concesso anche alle tecniche di innesto della vite, tredici in tutto, da eseguire con l’impiego di un buon mastice a base di «vischio, cera e olio», sostenendo l’arbusto preferibilmente con un palo secco. Se ne deduce quindi che il passaggio dal vigneto di stampo romano all’alberata non si fosse completamente concluso nel XVI secolo, conservando forme di promiscuità che continuarono a convivere per lungo tempo.

Anche in cantina i consigli dell’autore si rivelano attenti e intrisi di senso pratico, con istruzioni meticolose per eseguire, ad esempio, una corretta chiari-fi cazione del vino con albume d’uovo, come a lungo si continuerà a fare nelle produzioni artigianali, o ancora, con il riscaldamento «in una caldara che sia ben stagnata» per contravvenire ai difetti del vino, precorrendo le teorie poi confer-mate scientifi camente da Pasteur. Il contributo è utile per capire come il mondo agricolo si muovesse al di là degli studi uffi ciali, confermando l’ipotesi di una forbice sempre esistente fra la pratica agraria e la sua teoria, che continuò a bat-tere a lungo sentieri sempre molto lontani dai sinceri insegnamenti di Bonafede, che rimase inascoltato.

Nel Seicento la scena scientifi ca bolognese ospitò un’altra spiccata persona-lità, monsignor Innocenzo Malvasia, uno dei pochi studiosi in materia agricola, nel panorama regionale, attivi fra la seconda metà del XVI e il XVII secolo. Il Rinascimento conobbe infatti una forte battuta di arresto in campo agricolo, tanto che nel capoluogo emiliano non si riscontrò nessuno di quei progressi tecnici che animarono altrove la ricerca scientifi ca. L’idea che le terre “grasse” e fertili del Bolognese fossero adatte a vini “pesanti”, di scarsa serbevolezza, spinse gli agricoltori a non curarsi eccessivamente di questa coltivazione, a non studiarla con attenzione, lasciando alla buona natura dei luoghi il compito di fare il proprio dovere. Per queste ragioni gli scritti dell’autore rimasero a lungo inediti, tanto

(7) Ben 345 endecasillabi sono dedicati da Bonafede alle pratiche di cantina e di vigna. Il poe-metto didascalico non tratta tutte le pratiche agrarie, ma presumibilmente solo quelle di cui l’autore aveva esperienza diretta attraverso i propri possedimenti, esperienza e scelta che assumono, a questa luce, ancora più valore. A tal proposito di veda quanto detto da Pini, Le campagne bolognesi, cit., pp. 257-263.

12 INTRODUZIONE

da trovare una loro prima pubblicazione solo nel 1871,(8) a più di duecento anni dalla morte dello studioso. L’erudizione spinge il trattato a indugiare su impro-babili tecniche di innesto della vite come, per esempio, sul noce o sul ciliegio, testimoniando così lo stretto legame con gli studi precedenti, ma ampio spazio è concesso anche a utili tecniche di potatura, sempre consigliata sia in annate abbondanti che in stagioni sterili. Malvasia ripete il consiglio di privilegiare la coltura delle uve bianche, «perché in Bologna hanno più facile esito che le nere» e, testimonia anche una chiara preferenza per il vino bianco sul nero, tanto da dare chiare disposizioni «per fare con uva nera vino bianco».(9) Viene infatti spiegato: «si metta sopra il tino una cassetta col fondo bucato, come fosse un crivello, con uno sportello da un lato; così si usa generalmente in Roma per ammostare le uve, e si faccia metter di mano in mano uva nera in essa cassetta e spremerla coi piedi; come il mosto è caduto nel tino si apra lo sportello, e la vinaccia si mandi con un piede in un altro tino che gli sia accanto, e così di seguito: quando si è fi nito di ammostare l’uva nera, si ripigli il mosto caduto nel tino e si metta in un altro tino sopra la vinaccia bianca lasciandolo bollire, e proseguendo a far quello che del resto si è soliti fare negli altri vini»(10).

Numerosi sono i riferimenti ai vini consumati in altre regioni, non solo alla moda romana ma, in altri passi, anche indicazioni su come ottenere un «vino dolce e insieme piccante, all’usanza di Orvieto»,(11) testimoniando una certa apertura e circolazione delle tecniche di produzione enologica fra le varie parti dell’italianità.

A Bologna mancò tuttavia una reale cultura del vino e, pur avendo favorevoli possibilità grazie a un terreno propizio e a vitigni forti e redditizi, l’economia campestre preferì sempre rivolgere la propria attenzione verso altre colture, fi nendo per dover importare quello che poteva essere prodotto in loco. Una rifl essione amara, questa, che fu più volte sottolineata dagli studi coevi e che si ripeterà ancora, identica, nelle adunanze dell’Accademia nello scorcio del XIX secolo.

Nel corso dei secoli il sistema di allevamento della vite ad alberata si diffuse in modo capillare, sostituendo quasi completamente il vigneto romano; questo

(8) I Malvasia, Istruzioni di Agricoltura dettata da Monsignore Innocenzo Malvasia pel fattore delle sue terre a Panzano di Castel di Franco. Scritto inedito pubblicato da Antonio ed Ercole Malvasia, Bologna, 1871.

(9) Ibid, p. 182.(10) Ibidem.(11) Per ottenere questo vino generoso e più alcolico veniva prescritto di «togliere uno dei fondi a

una botte accomodandola in piedi; vi metterete un quarto di vinaccia fresca svinata e pestata poco, ma non già spremuta o torchiata, e il mosto cavato da questa vinaccia si fa bollire in una caldaia sino a che sia stato schiumato, e poi si pone sopra alla vinaccia fi nché la botte sarà riempita. Si lascia bollire, come fosse vino di ritornato (rinforzato, alcolizzato), e passati diciotto giorni si cava e si imbotta, siccome si usa con gli altri vini». (Ibid., p. 183.)

13INTRODUZIONE

sistema conobbe, però, un momento di forte crisi nel Cinquecento, quando una malattia fungina colpì gravemente gli olmi,(12) sostegno ideale della vite, rendendoli fragili e con un fogliame inutilizzabile come foraggio del bestiame. Nonostante il duro colpo, il sodalizio fra la vite e l’olmo continuò; furono anche sperimentati altri alberi-tutori, come il frassino, a lungo caldeggiato da studiosi come Agostino Gallo e il Soderini,(13) che offriva rapido accrescimento e legno pregiato, ma che male si adattava alla consociazione con la vite.

Il Seicento vide anche l’importante contributo dato da L’economia del cittadino in villa di Vincenzo Tanara (Fig. 3). L’autore si oppose decisamente al nuovo “matrimonio” della vite con alberi tutori diversi dall’olmo, sostenendo che se «vero è che la vite s’allonga felicemente con capi nuovi sopra li rami del Salce, Ceraso, Mandorlo e Frassino [...] [questo] con le sue longhe radiche vicino alla superfi cie la soffoca».(14) Il trattato indugia a lungo sull’intera fi liera della colti-vazione della vite, dalla vendemmia alla pulizia dei vasi vinari, dando preziosi consigli che hanno un duplice valore: da una parte ci confermano il perdurare dell’importanza della vite nel tessuto sociale del XVII secolo, dall’altra ci in-formano delle diffi coltà che indubbiamente persistevano nel territorio riguardo alla produzione di vini di qualità. Alcune iperboli erudite sono presenti anche in questo studio, a causa di un cumulo di superstizioni che si mescolano ai consigli, ma l’opera costituisce senza dubbio un interessante spaccato della società e del ruolo della vite in essa. Così scopriamo che spesso l’uva veniva raccolta ancora non completamente matura perché questo era l’unico sistema contro le ruberie, e come fosse necessario, per farla giungere a piena maturazione, disporla sulla terra e ricoprirla con un sottile strato, «mezzo piede», affi nché il contatto con il terreno, protetto dalle piogge con stuoie, migliorasse la qualità dei frutti. Per perfezionare poi il vendemmiato, sostiene Tanara, sarà cura dell’agricoltore «ogni sera per quanto starà l’Uva in massa la farai sbroffare con mosto dolce, overo leggermente con una scopetta, o ramo di frondi piccole intinte in mosto la bagnerai».(15)

L’attenzione spiccata alla pulizia dei vasi vinari è una dei più importanti contributi dati dall’opera, precorrendo gli studi successivi che dimostrarono l’im-portanza dell’igiene in cantina, la cui mancanza rappresenterà a lungo uno dei

(12) La malattia, il Graphium ulmi Schwarz, fu isolato per la prima volta in Europa nel 1920, e in Italia nel 1930.

(13) Entrambi gli autori si occuparono, fra il XVI e il XVII secolo, di trattati di agronomia; si veda A. Gallo, Le dieci giornate della vera agricoltura e i piaceri in villa, Venezia, 1564, e G.V. Soderini, Trattato della coltivazione delle viti e del frutto che se ne può ricavare, Firenze, 1600.

(14) V. Tanara, L’economia del cittadino in villa, Bologna, 1644 (ristampa anastatica, Bologna, 1987), Libro II, pp. 87-88.

(15) Ibid, Libro I, p. 39

14 INTRODUZIONE

massimi problemi nella produzione enologica bolognese. La scarsa serbevolezza dei vini era spesso legata a problemi di tipo batterico e fungino, buona parte delle malattie del vino erano causate da infezioni favorite dalle scarse condizioni igieniche dei vasi vinari dove la bevanda veniva conservata, spesso sporchi e di legno deteriorato.

L’importanza che rivestono questi trattati per i lettori moderni va oltre lo studio delle indicazioni agricole del tempo e si lega profondamente al concetto stesso di territorio o, meglio, a cosa fosse il territorio per gli uomini dei secoli scorsi.

Fig. 3 - Frontespizio de L’economia del cittadino in villa di Vincenzo Tanara (edizione. 1644).

15INTRODUZIONE

Importanti, in questo senso, i recenti studi di Elide Casali,(16) che si muovono sostanzialmente lungo due direttrici: un’analisi verticale, che analizza la forbice costituita dall’alimentazione dei ricchi e quella dei popolani, e quella orizzontale, che esamina il rapporto fra il territorio e tutto ciò che ne è al di fuori.(17) Campagna e città vengono saldati in una unità, dove la campagna, spesso enfatizzata come luogo privilegiato per i cittadini possidenti, diventa un giardino delle delizie al servizio dell’economia dei mercati cittadini. La città, d’altro lato, rappresente-rebbe il luogo dove l’identità territoriale viene fortifi cata attraverso lo scambio che giunge a confermare il senso di appartenenza alla regione, anche attraverso il confronto diretto con merci “straniere” che fi niscono, attraverso la loro diversità, per rafforzare l’unità del terroir. La campagna diviene quindi detentrice di modelli semplici e basilari, che vengono poi rivalutati e riqualifi cati dalla città «come luogo di sofi sticate consumazioni»,(18) creando così un unico fi lo conduttore che porta dall’una all’altra «in un unico itinerario geografi co umano».(19) Da questo tipo di rapporto, che giustifi ca una preminenza della città su una campagna che diventa sede applicativa delle teorie agronomiche in essa elaborate, nascono questi trattati eruditi, a tratti lontani da una conoscenza attiva sul campo, ma importanti spie del tessuto sociale e della considerazione agricola del territorio nei secoli precedenti alla modernità. C’è una certa ripetitività negli studi citati, esclusi i rari trattati che sfuggirono alle convenzioni di cui quello del Bonafede è esempio; non per questo il loro valore si attenua nell’analisi di un rapporto tanto complesso come quello dell’uomo con il territorio e le sue modifi cazioni.

Il Tanara fu l’ultimo protagonista della scena colta della trattatistica bolognese, a cui fece seguito un grande silenzio. A partire dal XVIII secolo, si aprì una sta-gione di relativa sterilità della sperimentazione agronomica dovuta a varie cause: quella che più interessa ai fi ni di questa ricerca è senza dubbio un lassismo in buona parte motivato dalla ricchezza.

L’economia bolognese riuscì a superare congiunture non sempre facili, come quelle che si abbatterono in tutta Europa fra il XIV e il XVI secolo, mantenendo buoni standard economici, superiori a quelli di altre regioni italiane. Le carestie riuscirono certamente a creare situazioni diffi cili, di cui le cronache ci informa-no, ma la tavola bolognese si dimostrò capace di mantenere una certa varietà, rapportata, è ovvio, al ceto di appartenenza. La popolazione era di fatto divisa in due grandi gruppi: quello rappresentato da chi disponeva a vari livelli di frumento

(16) E. Casali, Cucina e territorio. Pratiche di coltivazione e tradizioni culinarie nella letteratura agronomica bolognese, in: Bologna grassa: la costruzione di un mito a cura di M. Montanari, Bologna, 2004, pp. 25-36.

(17) Ibidem, in particolare p. 26.(18) Ibidem.(19) Ibidem.

16 INTRODUZIONE

e farinacei, i possidenti, i loro coloni e coloro che venivano pagati in natura; e quello costituito da lavoratori a moneta che dovevano acquistare tali beni, mag-giormente sfavoriti in queste drammatiche congiunture. Secondo le ricerche di Giancarlo Roversi e Giorgio Maioli,(20) la motivazione di questa maggiore resi-stenza del capoluogo emiliano alle avversità è proprio da ricercare nella grande fertilità delle sue terre, che opponevano perciò una maggiore resistenza alle crisi alimentari. Questo non signifi ca certo che Bologna fosse il paese di Bengodi; le disparità sociali e i momenti di crisi si verifi carono qui come dappertutto, ma la grande vocazione agricola della città permise di mantenere un certo benessere. Proprio la ricchezza di queste terre può essere forse indicata come causa di una certa lentezza, di una noncuranza per la ricerca agricola e per l’innovazione che caratterizzò queste zone che dovettero poi faticare per riuscire ad ammodernare le proprie infrastrutture, trovandosi a rincorrere regioni magari meno avvantaggiate, ma tecnicamente più avanzate.

L’importanza del vino nelle terre bolognesi, lo si è detto, è storia antica, e nu-merosi sono i lasciti, l’imprinting si potrebbe dire, che questo passato lasciò nella storia di questo alimento e sulla sua percezione sociale fi no ai giorni nostri.

La prima, chiara testimonianza del ruolo del vino a Bologna nel nuovo assetto post-imperiale è legato all’epoca comunale, quando la città, adeguandosi alle leggi sulla compravendita indispensabili a una società oramai composita, sentì la necessità di istituire un organo a loro preposto, fondato nel XIII secolo col nome di Compagnia dell’Arte dei Brentatori. La Compagnia nacque in realtà come un movimento spontaneo, legato all’esigenza, chiara e riconosciuta da tutti, di avere un’unica unità di misura per l’acquisto del vino che arrivava in città, e insieme una tutela nel commercio del mosto, o del prodotto fi nito, che giungeva dalle campagne. Inizialmente, insomma, il brentatore – o brendatore – era sostanzialmente un facchino, un portatore della “brentamisura”,(21) una sorta di gerla portata a spalla, fatta di legno e ricurva nella parte alta.(22) In seguito la

(20) Il pesce arrivava “di conserva” dal vicino mare Adriatico e fresco dal fi ume Reno e dalle zone palustri che si andarono formando fra Cinquecento e Settecento per il crollo del sistema idraulico imperiale. Le carni, bovine e suine, erano presenti con una certa abbondanza sulle tavole dei ceti medi grazie agli allevamenti e alle importazioni dalle Romagne. Le coltiva-zioni cerealicole, invece, erano suffi cienti a soddisfare la richiesta interna anche in annate scarse, grazie all’introduzione del mais e del riso che fecero il loro ingresso sulle tavole dei bolognesi nel XVII secolo per il primo, e nel secolo successivo per il secondo. G. Maioli, G. Roversi, Civiltà della tavola a Bologna, Bologna, 1981, in particolare Il tempo del pane e del vino, pp. 89-100.

(21) La brenta era un contenitore la cui unità di misura era stabilita pari a uno staio, cioè mezza corba. La corba bolognese da vino corrisponde circa a 78,593 litri.

(22) Molinari Pradelli, Osterie cit., p. 79.

17INTRODUZIONE

Compagnia assunse una sempre maggiore importanza nel fornire assaggiatori uffi ciali di vino e stimatori dei prezzi di vendita, associando a questa professione anche quella di esattori incaricati della riscossione del dovuto alla Tesoreria del Dazio del vino. Nel 1410 la Compagnia un ottenne regolare riconoscimento, trovando la propria sede in via Pignattari – anticamente via S. Ambrogio – dove per legge i brentatori «dovevano stare nella loro strada che va al Salario fi no in capo alla strada dov’è il dazio della Malvasia».(23)

L’importanza alimentare del vino nel tessuto sociale anche di matrice cittadi-na, conferì ben presto al suo venditore un potere notevole che fi nì per dar luogo a numerosi episodi incresciosi di truffa a danno dell’acquirente e un notevole accumulo di ricchezze nelle casse della Compagnia stessa.

La cosa portò a una decisa battuta d’arresto disposta dagli Statuti comunali che intervennero in materia stabilendo, nel 1614, che per il brentatore perma-nesse l’obbligo di presentarsi, qualora fosse richiesta la stima di un vino o il suo trasporto, e che avesse la facoltà di indicarne il prezzo più giusto, ma gli fosse assolutamente vietata qualsiasi intrusione nella compravendita. Era inoltre vietato ai membri della Compagnia l’accaparramento di vino a titolo personale: la vendita poteva avvenire solo fra produttore e acquirente e il brentatore poteva fungere solo da intermediario non coinvolto direttamente nel commercio. A esso era poi affi dato l’incarico del trasporto, per il quale percepiva una ricompensa pari a due scudi ogni corba trasportata, di cui la metà doveva essere devoluta alla Compagnia. Durante il trasporto era altresì vietata la manipolazione del vino o il suo ulteriore assaggio, che era regolamentato a un massimo di due bicchieri per tipologia di vino. Al brentatore era proibito inoltre acquistare qualsiasi quanti-tativo di vino da rivendere, anche se marcio adatto alla distillazione, mentre per l’acquisto del vino a uso familiare era obbligato a informare il Massaro,(24) che doveva autorizzare l’acquisto al costo specifi cato sulla botte. Qualora il brenta-tore fosse stato sorpreso a commerciare vino, la pena ammontava a una multa di quattro scudi per ogni corba, ripartita «per un terzo in elemosina ai luoghi pii, un terzo alla Compagnia e un terzo all’accusatore». Per i trasgressori era anche prevista l’esclusione dall’uffi cio per un mese, più altre aggravanti decise caso per caso. Tutti i brentatori dovevano assoluta fedeltà al Tesoriere Apostolico a cui erano tenuti a devolvere il dovuto, segnalare gli illeciti, gli acquisti illegali, e rivelare casi sospetti e potenziali evasori.

Le norme, fortemente restrittive, documentano uno sforzo nel cercare di fre-nare una sempre maggiore indipendenza dell’organo in questione, che perse man mano la propria professionalità fi no a rendere necessaria l’abolizione, alla fi ne del

(23) Ibidem.(24) Il Massaro era una carica elettiva interna alla Compagnia dell’Arte, qualifi cante sostanzialmente

il proprio capo, del tutto simile alle cariche presidenziali delle associazioni moderne.

18 INTRODUZIONE

XVII secolo, dell’obbligo di consultare un brentatore per l’acquisto di vino. La Compagnia tuttavia sopravvisse, fra alterne vicende, fi no alla fi ne del XVIII secolo quando, con l’avvento della Repubblica Cisalpina, Napoleone stabilì, nel 1798, l’abolizione di tutte le associazioni di arti e mestieri,(25) confi scando tutti i beni che vennero annessi all’erario statale e solo in seguito parzialmente recuperati.

Ciononostante esiste un trait d’union che a lungo manterrà viva una tradizio-ne costituitasi proprio con la professionalizzazione della fi gura del portatore di vino e di mosto: quella di adibire alcuni specifi ci punti della città come spacci all’aperto, normalmente collocati presso le porte, per dare ai cittadini la possi-bilità di recarvisi con la certezza di trovare quanto volevano acquistare. I trebbi erano, ai tempi dei brentatori, i luoghi fi ssati in città per tale scopo,(26) ma l’idea rimase inalterata a lungo se ancora, nel secondo dopoguerra, era consuetudine a Bologna, per chi disponeva di cantine proprie, andare a prendere il vino o il mosto in precisi luoghi della città, dove gli agricoltori si fermavano, con le grandi castellate trainate dai buoi parati a festa, aspettando la clientela (Fig. 4).

L’acquisto dagli agricoltori che portavano in città il vendemmiato non era però l’unico modo in cui il vino entrava nelle tavole cittadine. Il commercio del vino ha sempre potuto contare su almeno altre due forme di commercializzazione, due istituzioni fra loro molto diverse, ma entrambe segnate dal valore intrinseco della bevanda, una di segno religioso e una fortemente laica: le cantine conventuali, dette «tuate», e le osterie.

Il vino è parte integrante del rito liturgico e, in effetti, la Chiesa si fece portatrice della civiltà del pane, dell’olio e del vino, difendendola dai nuovi apporti, anche gastronomici, delle terre e dei popoli del Nord, e diventando il suo primo interprete. Le cantine più importanti e i vigneti più antichi furono per lungo tempo quelli chiusi dentro il claustro monacale e da quelle produzioni, da quegli esperimenti, derivano buona parte dei vini e delle esperienze che oggi

(25) In realtà oggi dopo due secoli di buio, la Compagnia dei Brentatori è stata nuovamente rifon-data con un nuovo atto costitutivo nel 1976 a Bazzano, in provincia di Bologna. Gli aderenti sposano, come gli antichi, un grande amore per il vino e per il suo ruolo di convivialità e di unione sociale, ma i tempi sono cambiati, e la Compagnia non può certamente avere lo stesso ruolo e signifi cato di quella antica.

(26) Da Molinari Pradelli, Bologna cit., p. 53 si desume l’intero elenco dei trebbi; si riporta però soltanto la loro denominazione e non la loro posizione nella planimetria cittadina, per la quale si rinvia alla consultazione del volume. 1. Trebbo di San Petronio, 2. Trebbo di san Procolo, 3. Trebbo delle Muratelle, 4. Trebbo del palazzo Rannuzzi, 5. Trebbo di Strada Castiglione, 6. Trebbo di San Biagio, 7. Trebbo di San Tommaso o di Strada Maggiore, 8.Trebbo di San Vitale, 9. Trebbo di Santa Cecilia, 10. Trebbo dei Bentivogli, 11. Trebbo del Borgo di San Pietro, 12. Trebbo di Galliera, 13. Trebbo della Sega, 14. Trebbo di San Lorenzo o di Porta Stiera, 15. Trebbo dei Poveri, 16. Trebbo di Porta Ravegnana, 17. Trebbo dei Casali, 18. Trebbo degli Spada.

19INTRODUZIONE

consideriamo parte del nostro sapere. Siamo di fronte, quindi, a una coltivazione tradizionale, poi consacrata a un rituale, per diventare, infi ne, parte del generale sostentamento umano.

Nel XVII secolo Papa Innocenzo X ordinò un censimento delle sedi religiose, dei loro beni e delle loro rendite e, dalle relazioni ottenute, di cui copia è anco-ra conservata nella Basilica di Santa Maria del Monte a Cesena, si ottiene una mappatura delle congregazioni religiose sparse sul territorio emiliano-romagnolo, ivi comprese le cantine che, ci viene detto, «sono due, una per il vino, l’altra per il torchio».(27) Elogi alle cantine dei conventi sono state tramandate da testi di diversa natura; uno fra i più puntuali sul territorio che ci interessa è rappresentato dal Voyage en Espagne et en Italie di frate Labat. Il religioso ci informa di come, nel XVIII secolo, il vino bolognese godesse di un grande prestigio dovuto alla sua grande serbevolezza: al predicatore francese fu offerto un «vino di 35 anni che conservava ancora tutta la forza e il vigore di un vino nuovo, con un colore vivo e un sapore delizioso».(28) Si deve necessariamente pensare a una riserva da

(27) Molinari Pradelli, Osterie, cit. p. 88.(28) G. Roversi, Bibite fratres. Le cantine nei conventi della Bologna di un tempo, in: “I vini

dell’Emilia Romagna”, 1 (1973), pp 61 segg.

Fig. 4 - Il mosto arriva in città in botti su carri trainati da buoi.

20 INTRODUZIONE

consumare nelle grandi occasioni e che non poteva rappresentare la norma se, ci spiega l’autore, per fare «il vino alla bolognese» si procedeva normalmente alla mescola di vari vini, nuovi e vecchi, per ottenere un prodotto equilibrato e di uso immediato, miscelando la «natura calda» del primo con la «frigidità» del secondo.(29) Dalle testimonianze pervenuteci, resta chiaro che i grandi quantitativi di vino presente nelle cantine conventuali non poteva certo esaurirsi all’interno delle congregazioni religiose. Molte di esse erano anzitutto proprietarie di osterie pubbliche e di rivendite autorizzate, come nel caso della congregazione di San Salvatore e Santa Maria di Reno, proprietaria, fi n dal 1410, di una osteria storica del bolognese: quella di Casalecchio di Reno. Questa forma di commercio, come quella di preparazioni gastronomiche, normalmente dolci, a opera delle monache, era spesso fonte di grandi introiti per le comunità religiose, che intraprendevano queste attività come vere e proprie scommesse imprenditoriali su cui costruivano la propria ricchezza e, di conseguenza, la propria infl uenza, anche temporale.

Le cantine dei conventi femminili ospitavano al loro interno grandi quantità di vino,(30) il che testimonia come anche le monache partecipassero a quel commer-cio fra religiosi e attività laiche che sostenevano spesso le fi nanze dei conventi stessi. Il vino entrava quindi, più o meno moderatamente, nella vita dei ministri di Dio ben oltre le semplici celebrazioni liturgiche, rafforzando l’idea che la be-vanda avesse un ruolo importante nella vita di tutte le compagini sociali, anche dove non esistevano bisogni legati alla povertà e all’indigenza come, appunto, all’interno dei monasteri regolari.

Le osterie rappresentano il polo laico del commercio del vino in città, diversifi cato in varie mescite, spesso in competizione fra loro. Le due principali realtà sono rappresentate dalle osterie in senso proprio, con cucina e mescita, e dalle “buchette”, che contemplavano la sola mescita (Fig. 5). La nascita delle buchette è legata principalmente all’esigenza di creare, nella cerchia cittadina, dei punti di smercio del vino del contado, spesso venduto anche al di fuori degli orari imposti dalle amministrazioni locali, riuscendo a svincolarsi dal coprifuoco cittadino e continuando la vendita fi no a notte fonda.

Il curioso nome di queste rivendite deriva proprio dal loro aspetto: non solo assomigliavano a fi nestre da cui mani generose porgevano boccali di vino, ma spesso queste aperture si affacciavano su ripide scale. I locali della cantina quindi, posti al di sotto del piano stradale, dovevano assomigliare ad antri da cui gli osti

(29) Maioli, Roversi, Civiltà, cit., p. 250.(30) A tal proposito si può citare, a esempio, la planimetria disegnata dal perito Giovanni Battista

Masetti nel 1743 e attualmente conservata presso l’Archivio di Stato di Bologna. Da essa risulta che il convento femminile di Via Nosadella, rimasto attivo fi no alla fi ne del XVIII secolo, ospitava nei sotterranei ben otto vani dedicati alla conservazione del vino, con scopi differenti, per una capacità totale di quasi 759 quintali di vino e affi ni.

21INTRODUZIONE

emergevano carichi del prezioso nettare d’uva. A differenza delle osterie, lo si è detto, le buchette non offrivano nessun genere di ristoro a parte il vino, che veniva servito in boccali, damigiane, fi aschi e «gotti»,(31) funzionando come un vero e proprio smercio all’ingrosso e al minuto che affi dava la propria sopravvivenza esclusivamente alla genuinità dell’unico prodotto venduto.

La garanzia di un prodotto di buon livello e l’apertura prolungata anche a tarda notte fecero la fortuna di questi punti di vendita che, nati probabilmente come piccoli spacci “casalinghi” senza nome, ben presto si moltiplicarono, tanto da rendere necessaria una loro regolamentazione da parte del vicariato pontifi cio che governava la città. Le mescite spesso nascevano nelle cantine dei palazzi nobiliari,

(31) Portavano questo nome i recipienti da vino in vetro o in ceramica la cui origine si fa risalire tradizionalmente al Medioevo, indicando una tipologia di bicchiere utilizzato, si diceva, dal popolo dei Goti. Al di là dell’attendibilità della genesi di questo nome, sicuro è che questo tipo di boccale era particolarmente diffuso nelle osterie del XVIII e XIX secolo, tanto da divenire una vera e propria unità di misura. A. Molinari Pradelli, C. Corticelli, V. Mazzoli, La buchetta di via de’ Poeti, vino osti e avventori, Bologna, 1993.

Fig. 5 - La “buchetta” del vino in Palazzo Saraceni (oggi sede della Fondazione Cari-sbo), in via Farini 15, Bologna. La fi nestrella, attualmente murata, si apriva sul vicolo San Damiano.

22 INTRODUZIONE

ed erano vincolate, se non eccezionalmente, alla gestione e alla vita del palazzo, fungendo gli stessi proprietari da gestori di tali rivendite, dove commerciavano le eccedenze della propria produzione vinaria.

Quando il loro successo le fece aumentare a dismisura e moltiplicò la clien-tela, i nobili non poterono certo continuare a gestire le buchette a tempo pieno, così come richiedeva il commercio e le esigenze cittadine, perciò queste furono date in gestione a osti che si svincolarono sempre più dai legami con la famiglia possidente, che restò a lungo proprietaria dei locali, ma senza più voce in capi-tolo in materia di acquisto e di vendita. Le buchette si avviarono così a rivestire un proprio ruolo, rimanendo fi no agli anni Cinquanta del Novecento fedeli alla propria formula originaria, vendendo vino senza nessun accompagnamento ga-stronomico e ritagliandosi così una fetta di mercato a sé stante. L’osteria nacque, invece, come luogo di ristoro per chi era costretto a soggiornare fuori casa, anche se, per sua stessa natura di crocevia fra persone di ogni tipo e di ogni estrazione sociale, diventò presto anche un luogo dove recarsi per il piacere di socializzare e, talvolta, di lasciarsi andare al divertimento, lecito o meno. Dalla compagine benpensante della città la bettola e l’osteria vennero presto etichettate come luoghi di malaffare e, sebbene sia indiscutibile che talvolta quel genere di affari vi trovava effettivamente posto, è altrettanto vero che il ruolo ristoratore ebbe un peso importantissimo nello sviluppo economico di una città internazionale come Bologna.

La qualità dei vini proposti, per evitare truffe da parte di osti disonesti, fu stabilita dai bandi cittadini che fi ssarono i prezzi e le diverse qualità della bevan-da che poteva essere servita in osteria, generalmente presente in quattro diverse tipologie: vino «tondo», cioè puro, con un costo compreso fra i 2 bolognini e i 3 quattrini il boccale, quello «dolce»(32), considerato il più gradevole, anche per pasteggiare, al costo di 4 bolognini il boccale, il «moscatello buono e reale», il più pregiato, a 8 bolognini e quello torchiato, il meno pregiato, a 2 bolognini il boccale.

In realtà, per aumentare la propria offerta e riuscire a “impressionare” la clien-tela, gli osti trattarono sempre anche vini provenienti da altre regioni italiane; anzi, i vini piemontesi, e soprattutto i toscani, trovarono sempre grande consenso

(32) La dolcezza del vino aveva certamente il vantaggio di coprire e mitigare alcuni dissapori. Ricordiamo che la vinifi cazione avveniva sempre a contatto con raspi, vinaccioli e vinacce anche per i vini bianchi, da sempre considerati quelli più fi ni e eleganti, cosa che certamente doveva lasciare nel vino sentori di grande acidità e amaro. Il residuo zuccherino, spesso appositamente aggiunto, mitigava questi eccessi di durezza del vino che oggi sarebbe quali-fi cata come un difetto. Probabilmente non si parlava di vini dolci, simili a quelli da dessert, ma di vini amabili, simili a quelli che ancora oggi, in alcune regioni italiane, accompagnano tradizionalmente il pasto.

23INTRODUZIONE

nella città felsinea, tanto da essere espressamente indicati nei menù di molte delle strutture ricettive della città fi n dal XVIII secolo.(33) Il consumo di vini toscani era, di fatto, prova della grande internazionalità della città, che continuava, anche se forse con meno smalto, a ricevere le infl uenze sincretiche della propria anima mercantile e intellettuale. In realtà molta parte del consumo era rappresentato dai vini locali «che sono tutti buonissimi»,(34) ma l’ospitalità proverbiale di una città opulenta come Bologna non poteva certo fermarsi ai confi ni regionali. Il savoir faire dei suoi osti sapeva riconoscere, anche se con una punta d’invidia, le eccellenze altrui che potevano essere usate a proprio vantaggio, trovando perciò un posto d’onore nel cuore cittadino (Tab. 1).

In un documento risalente al 1728, rintracciato da Molinari Pradelli,(35) ritro-viamo l’elenco delle corbe di vino che, al momento della vendemmia, giungevano in città. Il numero considerevole testimonia il grande impiego che si faceva della

(33) Così in un’anonima lista dei piatti di locanda del Settecento viene espressamente citato, insieme a «latte fresco, caffè, e rosolio», il «vino di Firenze». Maioli Roversi, Civiltà, cit., p. 267.

(34) Ibidem, p. 329.(35) Molinari Pradelli, Osterie cit., p. 231. Vedi tabella 1.

Tabella 1 - Importazione delle corbe di vino, locale e forestiero, presso le porte di Bologna nel 1728 (Molinari Pradelli, Osterie e locande di Bologna, cit., p. 231).

Ingresso cittadino Terriere Forestiere

S. Felice 10.492 9.079

Pia 2.890 886

Saragozza 1.148 6

S. Mamolo 1.170 501

Castiglione 693 220

S. Stefano 185 562

Maggiore 685 257

S. Vitale 661 194

S. Donato 940 –

Mascarella 744 –

Galliera 1.776 4

Naviglio 164 19

Lame 824 –

Totale 22.376 11.729

24 INTRODUZIONE

bevanda, ma ancora di più la presenza signifi cativa, ma non preponderante, dei vini provenienti da altre province, denominate “forestiere”, con cui, secondo una radicata tradizione, anche i vini autoctoni venivano “tagliati”.

Spesso i vini del territorio non avevano la durata, la serbevolezza, dei vini di altre regioni, sia per la loro qualità intrinseca che per i metodi di vinifi cazio-ne non curati come in Toscana e in Piemonte, che avevano già impiantato, nei propri territori, vigneti specializzati, tenuti come giardini. Il vantaggio di questi territori, comune anche a quello francese, è prima di tutto di tipo concettuale: l’ammettere che il vino sia un indiscusso protagonista della tavola come il grano o qualsiasi altro prodotto e che, come tale, meriti uno spazio colturale che sia suo e non per forza accessorio di qualche cosa d’altro. È un problema, come spesso è stato osservato, di cultura e di storia di questi luoghi, di cui l’Accademia si fece mediatrice e interprete, permettendoci un’analisi puntuale della condizione vitivinicola bolognese che ci porta al nocciolo di questa ricerca.

25BOLOGNA E IL SUO TERRITORIO

3. Bologna e il suo territorio

3.1. Come si beveva a Bologna?

Le testimonianze raccolte sembrano indicare una precisa spaccatura: da una parte stanno le lodi sperticate al buon mangiare e al buon bere dei bolognesi, dall’altra le rifl essioni che sottolineano l’approssimazione delle coltivazioni della vite in questo territorio. A chi dare ascolto? Probabilmente a entrambe le parti.

Bologna rappresentava certamente un importante nodo commerciale, la sua ricchezza fu spesso motivo di orgoglio per i suoi abitanti, che amavano, soprat-tutto in materia enogastronomica, essere particolarmente attenti e generosi con i propri ospiti. Questo portò a Bologna la fama che ancora connota alcuni dei suoi più celebri epiteti, ma nell’economia domestica qualche trascuratezza certamente non mancava.

Il problema centrale, la grande carenza, era rappresentato principalmente da una scarsa cultura enologica. La cosa sembra ancora più strana se si pensa che, come, si è detto, sono originari di queste terre i principali agronomi non soltanto del periodo medioevale,(36) ma anche di quello moderno,(37) i cui scritti costituirono spesso una vera e propria pietra miliare negli studi e nelle applicazioni agricole anche di molto posteriori. La causa di questo “interesse scomposto” dei bolognesi per la vite, inteso come un diffuso consumo del prodotto, e uno scarso investi-mento nella coltivazione della vigna, può essere legata a diversi fattori, non da ultimo alla natura stessa di questi terreni. La matrice tendenzialmente argillosa del suolo bolognese costituisce un grande potenziale produttivo. Questa terra è “grassa”, generosa con le sementi e pertanto da sempre molto sfruttata per le risorse alimentari.

La natura stessa della vite, che predilige terreni aspri ma si adatta a molte-plici situazioni pedologiche, aveva favorito la nascita di una coltura promiscua che sembrava accontentare tutti. L’idea di dedicare un intero appezzamento alla vigna fu a lungo considerato uno “spreco”, un rischio sconsiderato dal momento

(36) Si fa riferimento principalmente a P. Crescenzi (1233-1321) che col suo De ruralium com-modorum, edito per la prima volta nel 1471, rese una delle più attente rifl essioni sul mondo agricolo e sul modo di coltivare la terra. La sua testimonianza rimase fondamentale per tutti i secoli a seguire, infl uenzando molte delle successive dissertazioni fi no alle soglie del XX secolo. Vedi quanto detto sull’opera dell’autore nell’Introduzione.

(37) Si fa riferimento agli scritti del Tanara, già illustrati nell’Introduzione.

26 BOLOGNA E IL SUO TERRITORIO

che lo stesso terreno poteva produrre anche cereali, leguminose o semplicemente foraggio per il bestiame.

L’idea di ottimizzare le risorse fu probabilmente alla base delle scelte degli agricoltori bolognesi, supportate, tra l’altro, dalla storia di questi luoghi. Ancora viva e vegeta in epoca post-unitaria, qui vigeva un’amministrazione fondata sul contratto di mezzadria, che puntava, invariabilmente, su una gestione di tipo auto-consumistico: si produceva un po’ di tutto per poter soddisfare, con una spesa minima aggiuntiva, le proprie esigenze basilari. Questo tipo di or-ganizzazione, se da una parte garantiva la sopravvivenza a coloni e padroni e magari, in zone particolarmente vocate, anche produzioni di tutto rispetto, certamente era molto lontana dalle rese altissime delle coltivazioni specializ-zate: una distanza spesso incolmabile perché prima di tutto provocata da una diversa mentalità.

Molti economisti e studiosi del tempo presero le distanze da una gestione agricola di questo tipo, Michele Franchini, che si occupò nella seconda metà del secolo XIX° della condizione del Riminese, indicò nel sistema mezzadrile la ragione dei ritardi della viticoltura, sottolinendo come fosse necessario uscire dalla «inveterata abitudine di coltivare nel podere tutto quanto necessitava alla famiglia del mezzadro [...] per introdurre un’innovazione fondamentale: la coltura della vite a ceppata bassa ed isolata, in modo da avere una produzione di uve meno eterogenea e meno disturbata nella crescita e nella maturazione sia dalle colture contigue, sia dalla presenza aduggiante dei tutori vivi».(38)

Nonostante i molti ragguagli, il mondo agricolo emiliano-romagnolo rimase a lungo uguale a se stesso, fatta eccezione per piccoli progressi tecnologici, lontano da spinte riformiste che avrebbero potuto portare a innovazioni colturali importanti. Il sistema amministrativo, o meglio i detentori di quel potere, non favorirono certo grosse rivoluzioni, interessati com’erano a mantenere saldi i pro-pri privilegi e a lasciare i propri dipendenti come semplici lavoratori dei campi: sostanzialmente braccianti meglio tutelati e meglio retribuiti, ma non imprenditori della terra lavorata, mai liberi di prendere autonomamente decisioni pensate alla luce dell’esperienza diretta.

Questa ricerca continua di una produzione esaustiva a trecentosessanta gradi richiedeva coltivazioni più che multiple: non soltanto campi dedicati a tre, o anche a quattro, coltivazioni simultanee, tra cui la vite sempre maritata agli alberi, ma anche coltivazioni di diverse varietà della stessa specie mescolate insieme. Così la vigna trovava mescolati ceppi di uva bianca e di uva nera e anche i vini erano

(38) G. Pedrocco, Problemi di storia delle tecniche viticole ed enologiche in Emila-Romagna (1800-1940), pp. 65-75, in particolare p. 68, in: La catalogazione della cultura materiale, il ciclo della vite e del vino, a cura di F. Foresti, M. Tozzi Fontana Bologna, 1985.

27BOLOGNA E IL SUO TERRITORIO

frutto di uvaggi improvvisati, così come descritto dal Tanara.(39) Un altro fattore contribuiva poi alla scarsa qualità della produzione enologica: la convinzione, solo in parte giustifi cata, che un buon vino si potesse fare soltanto da uve di collina, mentre la pianura potesse dar vita solamente a vini «troppo forti».(40) La verità è che senza dubbio la collina è naturalmente più vocata alla produzione di vino, ma non per questo in pianura si devono per forza ottenere vini mediocri; è indubbio che operazioni di vinifi cazione sbagliate e una coltivazione trascurata, molto più che la qualità delle uve, sono le principali cause di questo risultato. È probabile, in realtà, che la situazione nel Bolognese presentasse una forte eterogeneità, che ci fossero pertanto luoghi dove era possibile bere vino di buona qualità, e conse-guentemente cantine che operassero con un certo scrupolo, e altre che avallassero invece pratiche truffaldine o, comunque, prive di una corretta manutenzione dei vasi vinari, che lasciavano pertanto cattiva traccia di sé. Già il Tanara poneva, nel suo trattato, l’accento sull’importanza dell’igiene in cantina, ma i suoi insegna-menti rimasero a lungo inascoltati se, ancora nel 1841, i soci dell’Accademia di Agricoltura si trovavano a dover affrontare, col fervore della grande attualità, lo stesso problema. Si può quindi ipotizzare una frattura nella produzione enologica del territorio: da una parte stanno i fasti di un passato pluridecorato dalla fama e dai racconti elogiativi degli stranieri di passaggio a Bologna, dall’altra le tracce di un certo lassismo colturale, ma, soprattutto culturale. È un pezzo di storia che si incunea negli equilibri mutevoli dell’economia della città, del suo fasto e della sua importanza commerciale, che sottolinea la voglia di cambiare e, per contrario, la staticità di una realtà soggiacente alla propria ricchezza.

Bologna seppe a lungo sfruttare la natura privilegiata della sua posizione, la grande generosità dei suoi terreni, il clima mai troppo continentale. Questa grande abbondanza costituì anche uno dei principali freni verso l’innovazione, il mancato bisogno di trovare soluzioni necessarie la portò a non cercarne nessuna, a restare attaccata a sistemi che si erano sempre adottati, facendole perdere, nel corso dei secoli, buona parte della propria competitività in materia enologica.

Nel XIX secolo, quando gli spiriti risorgimentali portarono a un inevitabile confronto col resto della neo-Italia, il risveglio fu piuttosto duro.

Dagli anni Quaranta in poi furono molteplici le voci che si alzarono, imperiose, cercando di scardinare un cumulo di vecchie pratiche e credenze che si erano oramai fossilizzate nelle metodologie comuni e che ora trovavano molta resisten-za all’essere innovate. Il primo feroce rimprovero, giuntoci attraverso l’archivio storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, fu quello del Bourgeois che così parlava di una delle più radicate abitudini dei vignaioli bolognesi:

(39) «Il vino fatto di diverse sorti d’uve riesce meglio in questo paese, che il farlo di ciascheduna specie da per sé, come vogliono molti scrittori». Tanara, L’economia, cit., Libro I, p. 42.

(40) Ibid., p. 40.

28 BOLOGNA E IL SUO TERRITORIO

«il dire altrove, che a Bologna si conservano le botti col lasciarvi in fondo dell’aceto, eccita negli ascoltanti lo stupore e promuove le più severe critiche; in fatto ogni sorta di acido è dannoso al vino, e devesi tenere da questo lontano», e affonda: «il vino, non essendo qui un oggetto di commercio, pochi sono quelli che cerchino di migliorarne la qualità, i più fanno come i loro predecessori».(41) La pratica di lasciare in botte sempre un piccolo fondo del vino dell’annata pre-cedente, che presto inacidiva, per evitare gli ammuffi menti del legno durante il periodo di riposo, era una tecnica largamente diffusa nella provincia. Nel resto delle regioni vitivinicole, invece, le botti, lasciate completamente vuote, prima del nuovo uso venivano ripulite e “disinfettate” con fumigazioni di zolfo fatte bruciando, all’interno della botte, strisce di stoffa impregnate della polvere del minerale. La pratica bolognese, invece, contribuiva a compromettere la qualità del vino, in quanto la botte «sulla quale lungamente soggiornò l’aceto si trova imbevuta di quell’acido in modo da non poterne essere purgata da varie lavatu-re»,(42) facendo in modo che il vino «a capo di quindici venti giorni [...] prende un cattivo gusto volgarmente detto di fuoco, difetto che sempre più sensibile si manifesta di mano a mano che scema il vino nella botte».(43)

Parte della noncuranza degli agricoltori era, lo abbiamo detto, dovuta alla convinzione che le terre pianeggianti non fossero adatte alla produzione del buon vino, semmai alla produzione di molto vino, ma di scarsa qualità. Che fossero proprio i maldestri sistemi di produzione a rendere scadente il vino bolognese è un concetto tutto sommato relativamente nuovo, che comincia a essere diffuso solo al paragone con altre zone produttrici, dove, da zone geo-logicamente simili, nascevano prodotti di qualità ben migliore. In realtà, già gli agronomi del XVII secolo avevano evidenziato chiaramente l’importanza delle buone norme per una corretta produzione vinaria, ma, solo due secoli più tardi troviamo le stesse chiaramente ribadite. «Si è detto e ripetuto tante volte che i vini di questa provincia non sono atti ad essere trasportati per mare; ciò sarà vero in quanto ai vini male fabbricati deposti in botti [che sono] state governate con aceto, mentre per quanto si lavino non si riesce a distruggere quel fomite acetoso di cui sono imbevute le doghe inferiori; l’acidità comu-nicata da queste al vino, ancorché poco sensibile al palato, esiste in esso, ed unitamente al moto dei trasporti tende a farlo inacidire».(44)

(41) D. Bourgeois, Del cattivo modo usato per la conservazione delle botti, e proposte di migliorie, “Memorie lette nelle adunanze ordinarie della Società Agraria della Provincia di Bologna pubblicate per ordine della Società medesima”, I (1840-1842), pp. 81-86, in particolare pp. 82-83.

(42) Ibid., p. 81.(43) Ibidem.(44) Ibid., p. 83.

29BOLOGNA E IL SUO TERRITORIO

Non più colpe alla cattiva qualità delle uve o alla loro scarsa vocazione alla produzione vinaria causa l’eccessiva “forza”, ma soli e unici responsabili restano le pessime cure delle pratiche di cantina. È un’importante conquista concettuale, per lungo tempo destinata a restare, purtroppo, solo tale.

L’Accademia bolognese che sovrintendeva, nella seconda metà del XIX° se-colo alle problematiche della pratica agricola, cominciò, in quegli anni, a tentare nel territorio un timido processo di svecchiamento, cercando di correggere gli errori per non restare fanalino di coda di un Paese in via di formazione. La città cercò di adeguarsi alle altre “capitali” economiche per non essere tagliata fuori dal giro dei grandi equilibri su cui si giocavano il ruolo da protagonista della nuova Italia. Così nel ’45 l’Accademia, nella persona di Filippo Agucchi, uno dei soci ordinari più attivi in quegli anni, si fece promotrice di un’innovazione tecnica, lo strettoio, che, almeno nei suoi intenti, poteva assicurare una migliore produzione vinaria.

Emilio Loup, il primo ad adottare il macchinario, aveva così trovato il siste-ma, altrove già abbondantemente utilizzato, per scongiurare l’antica pratica della pigiatura a piedi, che non assicurava buoni risultati né qualitativi né igienici. (Fig. 6) Lo strettojo da uva, così venne chiamato l’antenato della moderna pi-giaderaspatrice, aveva anzitutto il merito di obbligare gli agricoltori a portare le uve in cantina intere e non più mezzo ammostate, scongiurando così il rischio di trascinare nei tini processi di fermentazione già iniziati che, con l’aggiunta conti-nua di nuove uve, venivano più volte fermati e fatti ripartire. Inoltre la macchina garantiva una migliore qualità della spremitura in quanto «la forza agisce da due lati uniformemente su tutti i granelli, che spinti l’un contro l’altro si spogliano dei sughi che contengono, e da questa moderata, ma uniforme pressione, su tutti i punti, il mosto pregno delle sostanze migliori dell’uva, e scevro da difetti de-rivanti da troppa compressa strettura dell’uva e dei graspi, sorte dalle apposite aperture nella parte inferiore dello strettojo».(45)

L’invenzione apportava anche un’altra importante novità per Bologna: quella di vinifi care senza l’uso dei raspi. L’usanza di vinifi care insieme mosto e raspi non era dovuta alla semplice impossibilità di separare agevolmente le varie parti del grappolo in sede di pigiatura, ma era pratica ricercata come unico modo per una corretta ammostatura.

La nuova ideologia incontrò numerose diffi coltà a essere accettata, a riprova del profondo radicamento delle antiche consuetudini, tanto che la Accademia stessa si trovò nell’imbarazzo di non sapere come dirimere la questione, risol-

(45) F. Agucchi, Rapporto intorno ad uno strettojo da uva introdotto nella provincia di Bologna dal signor Emilio Loup, “Memorie lette nelle adunanze ordinarie della Società Agraria della Provincia di Bologna pubblicate per ordine della Società medesima”, III (1845-1846), pp. 245-252, in particolare p. 248.

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Fig. 6 - Particolare dello “strettoio” da uva introdotto nella provincia di Bologna da Emilio Loup. In: F. Agucchi, Intorno ad uno strettojo, cit., “Memorie lette nelle adunanze ordinarie della Società Agraria della Provincia di Bologna pubblicate per ordine della Società medesima” III (1845), p. 245, tav. V).

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vendosi a una posizione moderata, senza esporsi direttamente. Pertanto, se da una parte asseriva che «il mosto che si ritrae [con l’uso dello strettoio] ha il vantaggio di sottoporsi alla fermentazione da sé solo senza le graspe, metodo preferito da molti enologi» dall’altra aggiungeva che «noi chiamati ad emettere la nostra opinione su la macchina, e non sulle teorie della fabbricazione dei vini, ci asterremo dall’entrare su l’argomento, e di emettere in genere una opinione qual sia il modo a preferirsi».(46)

Per l’altra annosa questione, quella cioè se i vini possano o meno divenir buoni se ottenuti con uve di pianura, lo strettoio di Loup venne defi nito fondamentale, proprio perché, riuscendo a innescare una fermentazione più uniforme e veloce, privata dal prolungato contatto delle uve con altre già in parte imputridite per l’eccessivo prolungarsi di fermentazioni discontinue, rende possibile ottenere «vini di bel colore, graditi nella vendita, con uve di terra da canapa [...] evitando che si faccia torbido con l’avanzarsi della stagione».(47)

L’innovazione meccanica ebbe una rapida diffusione, tanto che nel 1853 al-l’esposizione di Bagnacavallo troviamo ben «tre macchine per pigiare le uve».(48) Per un passo fatto in avanti, però, uno è ancora incerto e, fra i macchinari in mostra, si loda la bontà di quello che «non lascia passar granello intatto, senza schiacciare gli acini ed i raspi», così gli scarti tornano all’interno dei tini di fermentazione e, se la maggiore igiene favorisce una maggiore serbevolezza del vino, l’equilibrio del prodotto fi nito è ancora compromesso dai materiali di scarto immessi nella fermentazione.

Sulla conservazione dei vasi vinari, poi, nonostante fossero passati quasi dieci anni dalle prime rimostranze, le scelte da operare erano ancora tutte in discussio-ne, sebbene dai banchi accademici la guerra contro l’uso dell’aceto per la loro conservazione fosse stata ribadita a chiare lettere anche dal conte Bianconcini, che lamentava il perseverare nelle cantine di pratiche desuete e nocive al vino e all’economia della provincia. «Ma tali errori», asseriva l’oratore, «non possono cagionare meraviglia a noi che sappiamo come la cura dei vini sia affi data a persone incapaci di aiutarsi o della teoria o della pratica, [...] i quali seguendo le antiche usanze che ereditarono dai predecessori, non istimano miglior modo possa esister del loro per empiere di buoni vini le cantine, e son felici quando, aperto il cocchiume di una botte vuota, e fattisi a fi utarvi dentro, ne vien loro per le narici un tale odore di aceto che ne trae le lagrime dagli occhi».(49) La

(46) Ibidem.(47) Ibid., p. 249.(48) B. Bianconcini, Della vigna e del vino, “Memorie lette nelle adunanze ordinarie della So-

cietà Agraria della Provincia di Bologna pubblicate per ordine della Società medesima”, VII (1852-1853), pp. 233-245, in particolare p. 239.

(49) Ibidem.

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sfi ducia dei proprietari verso i propri collaboratori diviene un elemento costante, l’idea che l’innovazione tardasse a essere accettata per colpa di chi manteneva solide le tradizioni, spesso sbagliate, dei secoli precedenti è opinione comune fra i proprietari, sempre più spesso lamentata nelle adunanze dell’Accademia stessa. In realtà, quello che capitava nelle campagne bolognesi dell’Ottocento era un diffi cilissimo tentativo di recupero di anni di ripetizione metodologica, a cui, certamente, le stesse politiche mezzadrili, interessate a mantenere lo status quo, avevano dato il proprio contributo.

La prima tappa di questo processo di svecchiamento è l’emulazione. A Bologna comincia a fervere un interesse sempre più forte verso le altre regioni vitivinicole, e numerosi si fanno i resoconti delle esperienze fatte in regioni diverse da parte dei proprietari terrieri più progressisti, desiderosi di governare le proprie terre secondo quanto appreso dopo un viaggio o uno studio approfondito. L’Accademia diviene il luogo preposto a queste discussioni, ma la ventata di innovazione paga il pesante scotto di essere molto lontana dagli interessi e dalle questioni quoti-diane a cui gli agricoltori potevano dare ascolto. Questa è una rivoluzione che vorrebbe partire dall’alto senza curarsi dell’opinione o, meglio, senza allargare le informazioni e istruire, le persone impegnate in prima linea. È una crescita non ben strutturata e condivisa, per questo internamente debole.

I proprietari terrieri si resero conto, viaggiando o studiando, dell’arretratezza dei propri sistemi, capirono il potenziale, anche economico, che rimaneva ine-spresso, anzi compromesso, dal continuo acquisto e consumo di vini provenienti dalla Toscana o da altre regioni, e decisero di cercare di mettere a frutto le conoscenze acquisite. Fin qui nulla di strano. Il problema arriva quando, senza dare spiegazioni, si cercò di estirpare abitudini acquisite da decenni, sostenendo che tutto ciò che prima andava bene diventava di punto in bianco sbagliato. Non possediamo le parole degli agricoltori a cui furono rivolte le nuove richieste, ma dai resoconti delle adunanze accademiche, dai dibattiti che si originarono cercando soluzioni comuni che aiutassero i proprietari a ottenere quanto chiede-vano ai propri coloni, si deduce che la prima reazione dovette essere quasi un ammutinamento. I coloni erano oberati di lavoro, spesso in numero insuffi ciente per riuscire a seguire ogni coltivazione con la giusta cura, e il lavoro dei campi, come le stagioni, conosce momenti di grande impegno e momenti di stasi assoluta. La vigna era sempre stata un “lasciapassare” per questi uomini. Una coltivazione semplice, accessoria e fruttuosa, che non necessitava di nulla se non la guardia ai grappoli in maturazione, spesso facile preda di qualche indigente che si aggirava fra i campi d’estate. Ora “i ricchi” cominciavano a parlare invece di potature, di nuovi impianti, di coltivazioni selettive monovarietali, di vigneti specializzati, di conservazione e pulizia dei vasi vinari, di nuovi marchingegni per la vinifi ca-zione, di tempi e di temperature; tutto questo ai coltivatori doveva sembrare un vagheggiamento di chi non aveva molto altro da fare. Ecco perché forti furono

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le sacche di resistenza che non sempre i proprietari riuscirono a divellere se non quando anche i coltivatori cominciarono a scorgere nell’innovazione un proprio tornaconto. Nel frattempo i nuovi accorgimenti adottati altrove continuarono a circolare e a tenere banco nelle aule dell’Archiginnasio, sede deputata alle riunioni accademiche,(50) e alcuni proprietari intrapresero sperimentazioni controllate per il bene della comunità.

Entra nei giochi una nuova fi gura che assumerà con gli anni sempre maggiore importanza e potere: quella dell’enologo. La cura della vigna diventa, anche se per ora principalmente sulla carta, minuziosa. Vengono rivisti tutti i passaggi della coltivazione, dall’impianto fi no alla produzione del vino. Bianconcini fu uno dei primi a mettere i propri appezzamenti al passo con i tempi, cercando di fornire, con la propria esperienza, un “prontuario” da applicare a tutti i terreni della provincia. Così ci informa che «in quanto all’educazione della vigna è dai migliori enologi lodato, ed a mia esperienza vantaggiosissimo, l’uso di lasciar da prima ingrossar bene la vite al suo piede, e poscia con ogni mezzo studiarsi di tenerla sempre bassa, pochi tralci, ben spazieggiati, i tutori robusti e ben disposti, affi nché non sia per alcuna cosa impedito il benefi co raggio del sole».(51) Le sue sperimentazioni portarono a controbattere numerose convinzioni fallaci: uno dei suoi meriti maggiori fu quello di attaccare l’idea che solo in collina si potessero produrre vini pregevoli. Questo modo di pensare – seppur resta vero che in collina più facilmente la vigna si tempra e, soffrendo un poco, produce vini di grande piacevolezza – aveva innescato un meccanismo deleterio. La convinzione che la pianura non fosse adatta alla produzione vinicola aveva fi nito per autorizzare, implicitamente, il compiersi di qualsiasi nefandezza, anche la più bassa, con l’idea che nulla, comunque, avrebbe compromesso. Le viti, sorgendo sui campi coltivati a granaglie, ne condividevano spesso sistemi di coltivazione e concimazioni, anche se non adatte. Bianconcini identifi ca in questa pratica, cioè il «servirsi per la vite di concimi animali», un grave danno «poiché allora intorno ai vini che se ne ritraggono, non è studio o fatica che giovi per ridurli tanto limpidi e chiari, quanto esser dovrebbero a metterli con sicurezza in lunghe navigazioni»: non è, quindi, la qualità dell’uva di pianura a rendere poco serbevoli e commerciabili i vini della piana bolognese, ma sono, invece, sbagliate le tecniche di allevamento. Ad allevamenti sbagliati seguono, sempre secondo gli studi dell’autore, sbagliate tecniche di vinifi cazione che ancora perdurano immutate, come già osservato

(50) La sede delle adunanze dell’Accademia fu, fi n dalla sua fondazione, ospitata all’interno del palazzo dell’Archiginnasio, dapprima nel Cubiculum Legistarum, poi, dopo la sua distruzione in un bombardamento durante il secondo confl itto mondiale, nel Cubiculum Artistarum, dove ancora oggi i membri dell’Accademia tengono le proprie riunioni.

(51) Ibid., p. 237.

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dall’Agucchi(52) una decina di anni prima. Addirittura Bianconcini, applicando alla realtà della provincia passi biblici di Isaia e Matteo,(53) sottolinea come l’enologia a Bologna non soltanto avesse subito una profonda stasi, ma persino compiuto una parabola inversa, di fatto constatando un’arretratezza e un’ottusità tali da segnare un passo indietro persino rispetto alla tarda epoca romana. Uno smacco notevole per una città che ancora si considerava fra le più importanti del territorio nazionale. Le riforme applicate alla produzione vinaria erano tali da sconvolgere i precedenti equilibri di cantina: una rivoluzione anzitutto concettuale, che oggi ci risulta molto familiare ma all’epoca remava contro l’idea stessa di “naturalità” del vino. Il vino generoso e puro era frutto di un’alchimia da cui il contributo umano era praticamente escluso: l’uva si vendemmiava, si pestava grossolanamente in tini e bigonci spesso portati direttamente nel campo, poi il mosto veniva cari-cato sul carro e, trascinato dai buoi parati a festa per l’occasione, faceva il suo ingresso in città o nelle corti padronali, dove, dopo molte ore, venivano espletate le operazioni di cantina in vasi vinari spesso compromessi. Secondo parametri moderni, ottenere un buon risultato da queste premesse si potrebbe considerare un vero miracolo. È evidente che le aspettative intorno alla bevanda sono oggi profondamente cambiate.

Traccia di questo cambiamento si ritrova proprio in queste prime mosse, nel-le timide proposte dibattute nelle aule dell’Accademia. In queste adunanze per la prima volta, ispirandosi a una tendenza condivisa da tutte le regioni italiane produttrici di vino e imitatrici del modello francese, si cominciava a parlare di “creare” un vino: di stabilirne i contorni, se dolce o secco, se leggero o robusto. Sono tentativi che non hanno la precisione delle tecnologie moderne, ma segna-no ugualmente una svolta epocale, un diverso concetto di “naturalità”, o meglio un allargamento di tale principio. La lotta alle sofi sticazioni resta molto sentita, almeno sulla carta, ma ai vignaioli che aggiungevano limatura di ferro(54) per ir-robustire il sapore non si opponeva più il modello di un vino fatto “come natura crea” – peraltro con un evidentissimo bisticcio concettuale a cui, a quanto pare, i nostri avi non facevano molto caso – ma un vino frutto di uno studio preciso e di una precisa intenzionalità e manipolazione. È la nascita del vino moderno.

La ragione del perché risultassero vini diversi «dolce invece di secco, per

(52) Agucchi, Rapporto cit., pp. 250 sgg.(53) Si fa riferimento a Isaia cap. V, vers. 1-2: Vinea facta est dilecto meo in cornu fi lio olci. Et

sepivit eam, et lapides elegit ex illa, et plantavit eam electam, et aedifi cavit turrim in medio eius, et torcular extruxit in ea: et expectavit ut faceret uvas, et fecit labruscas; e a Matteo cap. XXI vers. 33: Homo erat pater familias qui plantavit vineam, et sepem circumdedit ei, et fodit in ea torcular, et aedifi cavit turrim.

(54) V. Tonelli, Medicina popolare romagnola, Imola, 1981, p. 55.

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quale appunto lo produssero l’anno innanzi le uve di quelle istesse viti coll’istesso metodo adoperate»,(55) fu motivo di studi chimici che portarono poi a riaffrontare, alla luce delle nuove sperimentazioni, tutte le varie fasi della vinifi cazione.

Così «perché le uve non bollissero entro tini coperti, a diversi mezzi ebber ricorso i fabbricatori. Chi diè la preferenza ai tini chiusi a condensazione, su consiglio di Madame Gervet, chi volle coprirli con panni di lana sorretti da graticciate, [...] quanto a me, fatto esperimento delle varie maniere, ho ottenuto il migliore successo ponendo sul tino un ben adatto coperchio, e lasciando tanto spazio fra questo e le uve, quanto basti al cappello delle medesime per gonfi are e alzarsi».(56) Nuove norme attendono poi alla coltivazione e concimazione dei terreni, alla costruzione dei tini, ai travasi, al rabbocco dei vini in botte man mano che queste vengono svuotate e alla loro disinfezione prima di metterle a riposo.

Per quanto riguarda la pratica di pulizia delle botti, la tecnica della solforazione tramite nastri incendiabili posti all’interno del contenitore risulta assodata nel 1853, quando anche il commercio di tali nastri già pronti si diffuse maggiormente,(57) ma i coloni, indotti dalle insistenze dei proprietari, si adattarono a questa nuova pratica con notevoli resistenze, tanto da rendere necessaria la ripetizione costante della raccomandazione anche molti anni dopo l’Unità, spia della caparbietà che i proprietari terrieri dovevano affrontare.

Alla base delle ricercate migliorie resta la volontà dei produttori bolognesi di recuperare l’antica fama e di divenire competitivi sul mercato. Per cercare di rendere maggiormente conservabili i vini locali senza dover arrivare all’addizione di alcol, che li avrebbe resi troppo alcolici per un consumo quotidiano, si pensò di applicare al vino la stessa tecnica utilizzata per annientare la carica batterica delle botti: la solforazione.

«Preparati i nastri con semplice zolfo, siccome ho detto, e bene empita la botte, chiudo questa col cocchiume, poiché nella faccia anteriore della botte evvi superiormente alla cannella un piccolo foro chiuso da uno spinello, il quale io apro nel medesimo tempo che la cannella istessa. Il vino che sgorga lasciando un voto nella botte fa sì che l’aria esterna v’entri con forza pel piccol foro so-pradetto, ed in quel tempo io vi pongo innanzi il nastro acceso, a modo che le esalazioni dell’ardente zolfo si spingono colla fi amma entro la botte, e al liquido

(55) B. Bianconcini, Della vigna cit., p. 239.(56) Ibid., p. 240.(57) Nastri solforati pronti all’uso, noti con il nome di “Nastri d’Amburgo”, erano di fatto già

presenti sul mercato fi n dalla prima introduzione della pratica della solforazione in Italia, ma secondo il Bianconcini questi avevano il difetto di lasciare nel vino un sentore spiace-vole, per cui lui stesso, nella Memoria presentata all’adunanza accademica, consiglia una fabbricazione casalinga di cui spiega la realizzazione che, sebbene più laboriosa, aveva il vantaggio di non lasciare tracce nella bevanda. Ibid., p. 243.

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si mescono. Consunto che sia il nastro io chiudo tosto il piccolo foro e la can-nella, e dopo pochi momenti rimetto nella botte il vino che ne era uscito durante la sulforazione; quindi v’introduco un bastone fesso in quattro parti all’estremità e mescolando con questo il liquido veggo allora uscir dalla botte il fumo dello zolfo; dopo di che chiusala di nuovo, la tengo a quel governo che di sopra ho detto. Così mi è riuscito di render muto(58) il mio vino, senza che prenda verun cattivo sapore; e dopo diciotto mesi, due anni al più, potrei metterlo sicuramente in commercio».(59) Questa tecnica prese piede lentamente, non tanto per la sua indubbia effi cacia, quanto per la preoccupazione che un tale trattamento potesse lasciare nel vino sentori sgradevoli, fi nendo per peggiorare il risultato. La ricerca testimonia tuttavia un preciso intento di valorizzazione territoriale ed economica che la classe dirigente operò in favore della città, dando un primo grande impulso alla revisione dell’intero settore agricolo emiliano.

Gli anni a cavallo dell’Unità, quelli in cui si concretizzarono i disegni risor-gimentali, videro una battuta di arresto in tutti i settori tranne, inevitabilmente, in quello bellico. Quella che sarebbe diventata la neo – Italia rimase sospesa, in attesa di sapere quale sorte avrebbero avuto gli sconvolgimenti di quegli anni e con essi le attività della Accademia di Agricoltura. Le adunanze e le sperimenta-zioni trovarono la loro successiva vetrina solo intorno agli anni Settanta, quando ripresero con maggiore forza e vigore affrontando tematiche e sperimentazioni enologiche a trecentosessanta gradi. Gli anni che seguirono furono di grande rincorsa e di disperazione, affrontando nemici silenti ma terribili. Così l’ultima metà del XIX secolo conoscerà un’altra guerra con vittime eccellenti: quella dei vigneti europei decimati dai fi tofagi, e quella dei vignaioli, messi in ginocchio da nemici di cui non riuscirono mai a vedere il volto.

3.2. Il ruolo dell’Accademia nella protezione e nella promozione del mondo agricolo

Un organismo come quello dell’Accademia vive all’interno di una strutturata gerarchia, ma nasce, ed è il suo intento principale, per dare un appoggio, un punto di riferimento sicuro e stabile a chi dell’agricoltura ha fatto un mestiere e una fonte di vita. Chiaramente però l’Accademia è un’associazione che com-prende nel suo interno i possidenti terrieri e non i lavoratori dei campi, che non conoscevano, nel periodo preso in esame, forme di associazionismo uffi ciali a difesa dei propri diritti. Lavorando su questa storia, quindi, è sempre necessario

(58) “Muto” è termine usato anche dai moderni enologi per indicare una sostanza resa infermete-scente, oggi ancora ottenuta tramite l’aggiunta di anidride solforosa. Tale pratica è di solito associata al trattamento dei mosti, per evitare fermentazioni anomale.

(59) Ibid., p. 244.

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tener presente l’unilateralità dei documenti, che ritraggono un panorama parti-colareggiato, ma spesso vissuto dal caldo abbraccio di una sala da the. Esiste però, ed è innegabile, una grande partecipazione dell’Accademia alle questioni più salienti del settore primario, un monitoraggio completo delle problematiche via via affrontate nelle campagne bolognesi. Complici probabilmente la matrice fortemente agricola di questa zona, il tardivo sviluppo industriale, il protagonismo che questo settore mantenne a lungo nell’economia regionale, di sicuro c’è che in campagna non si muoveva foglia senza che qualche affi liato all’Accademia non ne facesse regolare comunicazione.

Le attività principali nella Bologna ottocentesca erano quelle legate all’alleva-mento dei bachi da seta, che rappresentò a lungo una fonte importante di reddito per la città, e quella della coltivazione promiscua di piante erbacee e da frutto nei campi che ancora vedevano, per la maggior parte, contratti di tipo mezzadrile.

La mezzadria rappresentò per tutta la Regione una della forme contrattuali più longeve, ritenuta particolarmente redditizia e che incontrò molte resistenze prima di essere abbandonata. Sulla provvidenza di questo tipo di contratto molto si è discusso in ambito accademico, in risposta alle perplessità legate alle grandi disparità economiche che questo accordo rendeva possibili; ed è proprio affron-tando questo argomento che si può mettere in luce come l’associazione non fosse simbolo di un potere lontano, ma estremamente calato nella vita e nelle questioni quotidiane di chi amministrava.

Nel 1853 fu data alle stampe una Memoria del socio ordinario Domenico Mar-telli dove «la perfetta mezzadria» è defi nita «la base del contratto della colonia in tutta la provincia».(60) Il Martelli mette chiaramente in evidenza le discrepanze che tale tipologia di contratto poteva creare, e propone soluzioni pratiche per poter salvaguardare sia l’interesse del padrone, che resta chiaramente in primo piano, ma anche quello, ugualmente non sottovalutato, del mezzadro. Le osservazioni, resta questo il principale difetto, sono quelle di un economista, molto chiare ma forse non di così facile applicazione. La tutela del colono sembra essere, tutta-via, un punto di forza per il corretto funzionamento dell’accordo: «[Il contratto di mezzadria] È giusto e conveniente laddove gli interessi del proprietario e del colono si bilanciano a modo che uno ricava il frutto del suo capitale, che è il terreno ridotto a podere, l’altro, il colono, ricava dalle sue fatiche e dalla sua industria modo di vivere per se, e la sua famiglia con quella bastevole agiatezza che è propria della sua condizione. È ingiusto e lesivo ove il colono non ricava dalla sua industria e dal suo lavoro quello che può occorrere al mantenimento del suo e della famiglia; per cui è costretto a languire nell’inopia, e nella miseria,

(60) D. Martelli, Considerazioni sul contratto di Mezzadria, “Memorie lette nelle adunanze or-dinarie della Società Agraria della Provincia di Bologna pubblicate per ordine della Società medesima” VII (1852-1853), pp. 131-142, in particolare p. 133.

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carico di debiti, avvilito, ed oppresso, onde trovasi nella necessità di abbando-nare il podere per ridursi alla condizione del lavorante giornaliero, chiamato comunemente bracciante».(61) Le soluzioni proposte si affi dano chiaramente alle scelte del proprietario che deve essere in grado di riconoscere, onestamente, che tipo di rendita possa dare il proprio possedimento, e se questo sia confacente al numero dei componenti della famiglia colonica. Sarà poi possibile stabilire, in base a questo rapporto, le decime che il colono dovrà annualmente corrispondere al proprietario; l’idea, non sbagliata, è insomma quella di un’alleanza che diviene vincente solo se profi cua per entrambi i contraenti.

Questa forma “ragionata” di contratto mezzadrile venne difesa strenuamente dai membri dell’Accademia che si opposero con forza alla sua abolizione anche quando erano oramai chiari i segni della sua inadeguatezza e arretratezza.

Secondo il relatore, i tributi non dovevano essere suddivisi al 50%, così come era previsto dalla forma più consueta del contratto mezzadrile, ma stabiliti in base alla produttività e agli impianti presenti sul terreno al momento della stipula dell’accordo; così l’uva da vino, un bene molto richiesto ma estremamente co-mune nei terreni della zona, doveva essere suddivisa tenendo conto dell’altissima produttività dei vigneti bolognesi e del relativo poco sforzo che l’allevamento ad alberata(62) comportava al colono (Fig. 7). Così «nei vitati in molti casi il proprietario prende due terze parti dell’uva»,(63) se poi «avvi per esempio un podere dotato di fl oridissima arboratura vitata, la quale trovasi nel miglior stadio di vigore, e di produzione [...] potrebbe in questo caso il proprietario pretendere di sua parte due terzi, o tre quinti del prodotto, ad essere il colono abbastanza ricompensato del rimanente».(64) D’altra parte però viene anche messo in luce il caso contrario, quando cioè, nonostante le fatiche e «i sudori sparsi», al colono resti poco da raccogliere; è questo il momento in cui il padrone dimostra la sua lungimiranza non esigendo quote impossibili, che non lascino nulla al mezza-dro, ma cercando una soluzione che non impoverisca la famiglia colonica tanto da portarla a «bussare alla porta del padrone per avere sovvenzioni e sussidi», evitando così di trovarsi nella situazione in cui, «datosi il colono in balia alla disperazione, più non ha cura dei comuni interessi con notabile pregiudizio del padrone e della società». L’Accademia, conclude l’oratore, ritiene che sia

(61) Ibid., p. 137.(62) L’allevamento consociato agli olmi o ai gelsi, cosiddetto ad alberata, fu di gran lunga prefe-

rito in queste zone per tutto il XVIII, XIX, e scorcio del XX secolo, presentando, in terreni che si ritenevano generalmente votati a produzioni di quantità e non di qualità, l’indubbio vantaggio di poter produrre molto sulla stessa estensione di terreno. Queste e altre proble-matiche saranno poi diffusamente affrontate nei prossimi capitoli.

(63) Martelli, Considerazioni sul contratto cit., p. 138. (64) Ibid., p. 140.

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auspicabile, quindi, regolare il contratto «in termini di giustizia», in modo da garantire un rinnovamento nell’economia campestre che, seppur nel segno del passato, possa portare a una più equa suddivisione dei proventi. L’interesse che viene quindi dimostrato dall’associazione verso le condizioni degli agricoltori è conclamato. Questo organismo ebbe il grosso pregio di entrare nella vita di chi la terra la coltivava ogni giorno per capirne le problematiche e i limiti, non chia-ramente per scopi umanitari, ma per la convinzione, condivisibile e in certo qual modo “progressista” che la ricchezza del proprietario terriero, anche del grande proprietario senza pensare al latifondismo del Sud Italia, dipenda dal benessere dei propri lavoratori, tanto più in questa forma contrattuale.

Grazie alla capillare rete di affi liati l’Accademia riuscì sempre ad avere un grande tempismo nell’affrontare i problemi e le epidemie che potevano minacciare la raccolta agricola. Molti furono gli interventi approntati per cercare di fare fronte alle crittogame e agli afi di della fi llossera che nel XIX secolo bersaglia-rono i vigneti e, nell’emergenza, le assemblee accademiche costituirono il più importante tentativo di dare risposte rapide e rimedi effi caci. La suddivisione interna della Società in Deputazioni Sezionali rappresenta la possibilità, per l’Istituzione, di essere attivamente presente sul territorio, riportando alla sede centrale l’eco di perplessità ed errori delle campagne, e di converso, portare in campagna i risultati delle disquisizioni scientifi che che animavano i banchi dell’Archiginnasio durante le adunanze accademiche. Il mondo agrario otto-

Fig. 7 - Alberata di viti “maritate” all’olmo campestre nella pianura bolognese.

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centesco era una realtà che lasciava ancora vasto spazio all’empirismo, alle sperimentazioni superstiziose, ai tentativi basati sul “si dice”. Una realtà diffi cile da contrastare portando la “luce della Scienza”, soprattutto se, come in questi casi, la Scienza si basava ancora su conoscenze empiriche e deboli, con molti punti oscuri, che non potevano, da sole, contrastare secoli di pratica contadina, in un mondo dove, nelle classi basse in particolar modo, ancora altissimo era il tasso di analfabetismo.

Verso la metà del secolo, cominceranno ad arrivare, da varie Deputazioni, in-formazioni poco rassicuranti: «la malattia [Oidio]», si legge, «cominciò a mostrarsi alla fi ne di Giugno, progredì e si aumentò sino al 20 Luglio; [...] parte dell’uva infetta è già perita, parte vive con lenta vegetazione, ma non acquista il suo co-lore naturale».(65) La risposta locale, anche dei membri costituenti l’Accademia stessa, è ancora legata a convinzioni che risentono delle superstizioni spesso di matrice contadina, si conclude infatti la relazione con un unico segno positivo: «si ritiene dai Signori Ferretti, Torchi, Falchieri, Minelli, De Maria, Bassini, e Venturi Segretario Provvisorio, che tutti insieme composero quella seduta, che il malore non esista nella pianta, ma che invece sia prodotto da un miasma atmo-sferico».(66) L’idea che tutte queste patologie, fra nuove e vecchie,(67) dipendessero da un’interna malattia o predisposizione della pianta, fu opinione che ebbe un vasto seguito e che contribuì notevolmente a rallentare l’applicazione delle misure necessarie a contrastare il male. Gli agricoltori, già di per sé restii ad applicare rimedi lontani dalle loro pratiche abituali, e naturalmente diffi denti, di fronte al diffondersi dell’idea dell’ineluttabilità del male reagirono spesso con rassegna-zione, lasciando letteralmente le uve andare in malora. L’Accademia dovette, in molti frangenti, prima ancora di trovare o anche solo ipotizzare rimedi effi caci, convincere gli agricoltori, e anche parte dei propri membri, che qualcosa fosse possibile fare. Non appena dalle discussioni fra quanti potevano, per esperienza o per studi avere competenze in materia, si traeva qualche possibile consiglio o indicazione, subito questo veniva diramato ai territori periferici attraverso la stessa rete mediante la quale le informazioni e gli allarmi giungevano alla sede centrale. Restano registrate agli atti numerose circolari dirette alle varie Deputa-zioni Sezionali provinciali col chiaro intento di promuovere la sperimentazione

(65) Sunto dei riscontri ricevuti dalla Deputazioni Sezionali intorno la malattia delle uve e delle viti, “Nuovi Annali delle Scienze Naturali” serie 3, VI (1852), pp. 180-184, in particolare p. 181.

(66) Ibidem.(67) Era opinione comune che l’Oidio fosse in realtà una patologia già nota, sebbene ancora

senza rimedio certo, che molti studiosi ravvisarono anche negli scritti di Teofrasto, Historia Plantarum, e di Plinio, Naturalis Historia. Fillossera e Peronospora erano invece malattie chiaramente nuove, mai verifi catesi in Occidente prima dell’arrivo delle viti americane.

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dei rimedi ritenuti più effi caci o la cui forza era risultata essere, se non risolutiva, almeno di maggior impatto sul progredire del male.

Non c’è mai stata demagogia da parte dell’Accademia, non si rintracciano Memorie dove vengano promessi miracoli là dove non ci fosse sicurezza di riuscita, ma c’è stata, invece, un’attenta campagna di informazione modulata in base alle conoscenze del ricevente. Esistono linguaggi diversifi cati scelti a seconda dell’interlocutore.

Dal nucleo centrale, costituito dai soci ordinari che si potrebbero defi nire la rosa dei rappresentanti più notabili, ricchi e colti, si prendevano le decisioni più importanti e si affrontavano i problemi più pressanti con regolare stesura e pub-blicazione degli interventi e dei dibattiti conseguenti. I provvedimenti approvati venivano poi comunicati alle sedi periferiche tramite circolari che sottolineavano l’importanza di far capire bene, anche a un pubblico non erudito, la necessità delle azioni caldeggiate, e, a loro volta, i responsabili provinciali avevano il compito di diffondere le informazioni ricevute a tutti i livelli, confrontandosi de visu con gli agricoltori. Un modus operandi che avrebbe dovuto sopperire a qualsiasi empasse linguistica e comunicativa, che però non riuscì a realizzarsi appieno, lasciando spazio alla diffi denza e talvolta alla noncuranza.

L’intervento dell’Accademia di Agricoltura non riguardava soltanto i rimedi da opporre alle drammatiche congiunture fi tosanitarie, ma anche ciò che aveva a che fare con la coltivazione in sé e con tutto il mondo agricolo che vi orbitava attorno. Gli interessi dei conferenzieri e le esperienze su cui fondavano le loro indagini erano i più disparati:(68) anche soltanto analizzando, così come è lo scopo di questa ricerca, quanto fosse attinente alla viticoltura e alle pratiche enologiche, si ritrovano informazioni allargate a tutti gli aspetti legati alla pratica agraria di questo frangente. Il tentativo di migliorare e promuovere l’agricoltura si traduce in analisi particolareggiate di tutti i suoi aspetti, dal sistema di potatura, alle pra-tiche di cantina, agli strumenti da utilizzare, fi no ai provvedimenti da prendere in caso di calamità atmosferiche. Il rapporto con il territorio risulta perciò molto stretto e presente, non si discutono sterili questioni teoriche per puro sfoggio di cultura, ma si cerca sempre di affrontare temi legati a problematiche attuali o a migliorie attuabili, rispondenti a precisi stimoli economici e politici. Lo sguardo dell’Accademia al suo territorio è onnicomprensivo: dalle delegazioni più esterne e montagnose a quelle pianeggianti e fertili, l’attenzione è completa. Apprezza-bili sono anche gli sforzi per riuscire a diversifi care gli interventi studiando, per esempio, metodologie di allevamento e di potatura della vite in relazione al tipo

(68) Sono conservate, ad esempio, anche numerose Memorie che trattano dei costumi morali degli agricoltori o delle fogge degli abiti consigliati alle donne. Per queste tematiche si rinvia alla consultazione di Accademia Nazionale di Agricoltura, Indice delle Memorie e degli Annali. 1840-2004, a cura di B. Viteritti, Bologna 2005.

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di esposizione, di terreno e di altitudine del territorio preso in esame – in una parola, si direbbe oggi, in base al terroir – cercando così di praticare contestua-lizzazioni quanto più possibile precise ed esaustive.

Negli anni Cinquanta del XIX secolo l’Accademia mostra un rinnovato inte-resse proprio per il tema della viticoltura che sembra godere, forse perché parti-colarmente bersagliata dalle avversità, di una ritrovata attualità, e molte sono le tematiche che tornano a essere approfondite con grande precisione, accompagnate da rifl essioni anche a carattere più generico.

Nel 1858 Giovanni Bontà cita «fra i molti prodotti, onde va ricca la nostra provincia, uno de’ principali è quello senza dubbio che si ritrae dalla coltivazione della vite»(69) e ritiene che la nuova costruzione della ferrovia in questa zona riuscirà a portare nuovo vigore a una regione in cui la viticoltura è sempre stata ritenuta di serie B. Per ottenere però da questa congiuntura di eventi il miglior vantaggio possibile, il professore indica come necessaria una nuova attenzione per la qualità dell’uva e non soltanto per la sua abbondanza, in quanto «il possedere molta copia d’uva, quando questa non toccasse un certo grado di perfezione, sarebbe ben tenue cosa, e meno fors’anche dell’averne poca, ma di qualità eccellente». Si parla poi di una divisione del territorio bolognese in due zone principali «già marcate dalla stessa natura, cioè in territorio piano, e in territorio montano», in esse la vite prospera in modo diverso e necessita pertanto di un diverso aiuto da parte dell’uomo. Così, nel grasso territorio pianeggiante ricco di terreni ben nu-triti, sostiene il relatore, i fi lari prospereranno maggiormente coltivati in direzione Nord – Sud garantendo una perfetta maturazione dei grappoli; altrettanto, nei terreni montagnosi, la direzione da preferirsi per l’esposizione dei fi lari al sole è quella che raccoglie i primi raggi del mattino, piuttosto che quelli pomeridiani, perché, viene spiegato, in questo modo vengono maggiormente fugati i pericoli di muffe o di marciumi.

Altra annosa questione, che troverà in seguito ampia trattazione, riguarda il sistema di allevamento. Nel Bolognese, maggiormente nelle zone pianeggianti, non esistevano nel XIX secolo vigneti specializzati, cioè i vigneti così come oggi siamo abituati a vederli; la vite era di fatto una coltivazione complementa-re, che veniva portata avanti al fi anco di altre molto redditizie. Così in un solo terreno si poteva trovare una grande varietà di colture consociate: quella erbacea del frumento o della canapa con quella dei fi lari per la frutticoltura, e ancora quella arborea per l’allevamento del baco da seta e per il foraggio del bestiame, principalmente gelsi e olmi. Quest’ultima aveva la duplice funzione di fornire,

(69) G.B. Bontà, Intorno alla più conveniente direzione dei fi lari delle viti e potatura di esse, “Memorie lette nelle adunanze ordinarie della Società Agraria della Provincia di Bologna pubblicate per ordine della Società medesima”, X (1857-1858), pp. 333-342, in particolare p. 333.

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attraverso le foglie degli alberi, il nutrimento necessario agli allevamenti e, al tempo stesso, fungere anche da impianto di tutori vivi per l’allevamento della vite che veniva avviluppata al fusto del tutore in modo che fruttifi casse al di sopra dei campi coltivati. Un sistema di allevamento siffatto aveva l’indubbio tornaconto di poter ricavare facilmente dalla stessa unità colturale una duplice produzione e di non necessitare di particolari cure. Tradizione bolognese era anche quella di non lasciare semplicemente pendere i rami carichi di grappoli dallo scheletro dell’albero-tutore, ma di tendere i tralci fra un albero e l’altro creando così dei “festoni”, localmente defi niti bindane (Fig. 8).

«I festoni», continua Bontà, «non v’ha dubbio, portano seco molti inconve-nienti, che tutti più o meno intaccano l’interesse sì del colono che del padrone del fondo». L’attenzione del relatore si sposta poi a elencare tutte le diffi coltà che tale abitudine era solita creare, riassumibili in due disagi principali: le ruberie e l’ombreggiamento eccessivo delle colture. Le ruberie vengono indicate come una piaga molto diffusa nelle campagne, soprattutto a danno della frutta e, in particolare, dell’uva. Il fenomeno, che dovrebbe essere scoraggiato e arginato, è al contrario rafforzato dall’esposizione dei grappoli maturi alla vista e alla mano di chiunque si trovi a passare, divenendo quasi una deliberata provocazione.

Fig. 8 - Archeoviticoltura bolognese. Resti di una vecchia alberata in abito invernale nella zona limitrofa al quartiere del Pilastro, al margine della città.

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La questione dell’ombreggiamento eccessivo aprì, invece, una serie di rifl essioni successive: si intendeva determinare non solo di quanta ombra necessitassero i grappoli in maturazione e se davvero il rigoglio della vegetazione potesse com-portare una cattiva qualità dell’uva raccolta, ma anche se un allevamento di tal genere apportasse danni alle colture sottostanti, privandole del giusto nutrimento e della luce necessaria a una perfetta crescita. L’abitudine di lasciare i tralci troppo lunghi alimenterebbe, secondo il relatore, una “dispersione dei succhi linfatici” che provocherebbe una scarsa concentrazione nel grappolo delle sostanze zucche-rine. Per questo è consigliata dall’autore una potatura corta, con i tralci della vite lasciati penzolare dai rami della pianta-tutore, cercando di evitare il più possibile intrecci inutili e dannosi.

La possibilità di confrontarsi con altre esperienze e il legame che ben presto si venne a creare fra le varie unità regionali dell’Accademia di Agricoltura agirono comprensibilmente da forte stimolo per migliorare le proprie conoscenze e cercare di rimodernare le pratiche più arretrate; questo infl uì grandemente sulla “rinascita” dell’interesse per la viticoltura bolognese, tanto che lo stesso Bontà, all’interno del proprio intervento, fa riferimento alle pratiche viticole della Toscana e delle Marche, in più occasioni prese a modello. Senza un’attiva corrispondenza fra le varie sezioni e una libera circolazione di esperti e trattati tutto questo non sarebbe certo stato possibile. L’Accademia entrava, quindi, nel merito di questioni che toccavano vari aspetti della coltivazione: non era solo un organismo di controllo o un ente di soccorso, ma un termine di raffronto costante, per i proprietari dei terreni, per cercare di rilanciare il settore agricolo bolognese, che godeva di una grande vocazione ma di scarsa visibilità a livello nazionale. Nel ruolo di tutrice dei diritti e dell’economia agricola, l’Accademia non tardò anche a opporsi a speculazioni eccessive, come nel caso delle molte Assicurazioni che ebbero forte incremento già negli anni immediatamente precedenti l’Unità.

La grandine aveva sempre costituito un grosso pericolo per le coltivazioni e, sebbene nel Bolognese non si fosse mai verifi cata una incidenza catastrofi ca di questa calamità, fi n dalla prima metà del XIX secolo l’Accademia si occupò dell’argomento, facendosi promotrice di numerosi studi e ricerche per capire le ragioni che determinassero il formarsi del fenomeno atmosferico. Uno dei principali studiosi del periodo, Francesco Orioli, si fece portatore delle teorie che maggior-mente infi ammavano la compagine degli studiosi del tempo, che presentò nelle aule dell’Accademia in tre letture tenute fra il gennaio 1824 e il marzo 1826.(70) La principale causa dell’insorgere del fenomeno era indicata dagli scienziati del tempo nello sviluppo di una anomala attività elettrica nelle nubi, che rendeva

(70) G. Bargioni, La difesa antigrandine secondo alcuni fi sici della prima metà dell’800, in Testimonianze accademiche, Bologna, 2007, pp. 7-25, in particolare p. 10.

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necessario l’utilizzo di parafulmini per scaricare a terra l’energia elettrostatica e impedire la formazione della grandine (Fig. 9). Orioli, in occasione della sua seconda lettura all’Accademia, tenutasi il 10 marzo 1825, dettò «le 24 norme da seguire per le corretta impostazione e conduzione della difesa con i paragrandini metallici» fra cui «l’opportunità di coprire vaste superfi ci, la densità dei para-grandini sul terreno in rapporto anche all’orografi a e alle superfi ci confi nanti non protette, le caratteristiche degli stessi paragrandini e la loro durata nel tempo [...], il modo di fi ssare i fi li conduttori e ogni altro accorgimento utile a rendere

Fig. 9 - Tentativi di difesa antigrandine nel XIX secolo. A sinistra, i paragrandini, a destra, un cannone antigrandine (Da Bargioni G., La difesa antigrandine, cit., in: Accademia Nazionale di Agricoltura, Testimonianze Accademiche, p. 7, 2007).

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la difesa il più possibile effi ciente».(71) I risultati sembrarono in un primo tempo arrivare, tanto che lo studioso comunicò gli esiti positivi ottenuti in occasioni dei temporali sviluppatisi fra il Bolognese e il Ferrarese, dove la grandine caduta sui terreni armati non aveva portato danni, in quanto era «di piccola consistenza e cadeva con tanta lentezza [...] che da tutti fu riconosciuta come una spezie di neve, a cui tenne dietro al solito una lunga pioggia».(72) Il dibattito internazio-nale sull’effettiva effi cacia dei paragrandine continuò a lungo e Orioli, deciso ad analizzare tutti i risultati portati a sostegno dell’una o dell’altra tesi, fi nì per ammettere che la teoria elettrica da sola non bastava a spiegare il fenomeno della grandine e che allo stato attuale degli esperimenti non era possibile affermare con certezza l’assoluta effi cacia dei paragrandini metallici.(73) Ciononostante l’autore si mostrò fortemente amareggiato dal precipitoso abbandono della sperimentazione di questo sistema, che pure si era dimostrato capace di ottenere qualche risultato e disperando che, con una tale mancanza di costanza e di desiderio di trovare una reale soluzione, questa potesse veramente essere attuata. In questa generale confusione nacque nel 1827 a Milano la Società Italiana di Mutua Assicurazione che cominciò a svolgere presto un ruolo molto importante, tanto da allargare ben presto la propria infl uenza all’intera superfi cie nazionale. Sull’argomento e sulla reale effi cacia dei paragrandini continuarono a fronteggiarsi numerose personalità a livello internazionale; nella sfera bolognese si occuparono, nel 1854, del pro-blema sia il socio Giovanni Bontà che il professor Lorenzo della Casa, entrambi avanzando seri dubbi sull’effettiva funzionalità di questi “scaricatori di energia” che presentavano, tra gli altri, il forte handicap di non potersi elevare tanto da avvicinarsi alle nubi in modo corrispondente «all’intensione dell’elettricità delle nubi medesime; laonde se alte di molto fossero le nubi [...] l’infl uenza elettrica non si potrebbe dalle nubi estendere sino ai paragrandini, i quali, per conseguente, inutili affatto sarebbero».(74) Per le molteplici perplessità sull’argomento, in molti furono quelli che sostennero la necessità di iscriversi a un fondo assicurativo che permettesse di preservare i raccolti che la scienza umana non riusciva a garantire. Nel 1858, racconta Cesare Tubertini, molti soci bolognesi caldeggiarono l’isti-tuzione di un fondo economico anche per il territorio felsineo, ma, a causa dei moti risorgimentali che spinsero l’Accademia a seguire ben altre questioni, la richiesta rimase inevasa. Dopo la pace di Villafranca, però, l’Accademia si estese al territorio lombardo e, il 23 Aprile 1860, un’assemblea dei soci votò unanime per «estendere le operazioni sociali nel territorio presente e futuro dello Stato».(75)

(71) Ibid, p. 14. (72) Ibid, p. 15.(73) Ibid, p. 17.(74) Ibid, p. 21.(75) C. Tubertini, Rapporto sulla Mutua Assicurazione contro i danni della grandine della Società

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L’Assicurazione contro la grandine in breve tempo accumulò grandi capitali, grazie al sistema dell’autotassazione degli aderenti, tanto da poter ripartire «in cinque anni di esistenza, alla proprietà ed industria agricola, oltre otto milioni di lire».(76) Il progetto era quello di allargare la Società Italiana anche alle regioni del centro, in modo da riuscire ad avere sempre più quote associative e poter così abbassare il costo delle stesse che, si deduce, non era propriamente a buon mercato. L’adesione viene dal socio caldeggiata e promossa anche come sprone per il coltivatore che «libero, e fuori d’ogni pericolo, forzerà la sua industria per ricavare dal suo campo l’equivalente di questa spesa» cercando di ottenere «non solo la garanzia dell’intero ordinario prodotto, ma allargando le concimazioni, ed i lavori, potrà ottenere quei ricchi risultati, che non osava neppure sperare».(77) L’assicurazione era stipulata sul terreno e copriva, con premi differenziati, tutte le colture presenti, ma è interessante notare come, fra i beni assicurati nel Bolo-gnese, si parlasse molto di frumento, riso, canapa, ma poco di uva, che restava quindi, soprattutto nei terreni pianeggianti, una coltivazione secondaria, su cui non si pensava di poter realizzare grandi introiti.

Nel 1899 le cose cambiarono, i premi assicurativi si fecero insostenibili e così l’Accademia, con i suoi studiosi, mise a punto una serie di studi sperimentali sulla pratica degli spari contro la grandine, per cercare di debellare un fenomeno che, sebbene non particolarmente frequente nel territorio bolognese,(78) restava causa di perdite, disagi e, soprattutto, alte spese.

Il socio Luigi Bombicci Porta mostrò¸ in questo periodo, un grande interesse per questo fenomeno atmosferico e per i numerosi tentativi fatti per comprovare l’effi cacia delle onde d’urto delle detonazioni(79) nella prevenzione dell’odioso accidente. Secondo il progetto del Bombicci(80) dovevano essere previsti dei veri e propri plotoni scelti, col compito di «difendere tutto il territorio dei consorzi; [per] sconfi ggere collettivamente il nemico mentre si fa invadente, opponendo-

Italiana di Milano, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 2 (1862), pp. 82-88, in particolare pp. 83-84.

(76) Ibidem.(77) Ibid., p. 87.(78) Le grandinate, sempre secondo gli studi illustrati da Bombicci, sono normalmente rag-

gruppate nei mesi che vanno da Maggio a Settembre, di giorno e, preferibilmente, nelle ore pomeridiane.

(79) Noti gli esperimenti dello Stiger ai primi del Novecento, che attraverso l’uso di cannoni che posizionati verso l’alto facevano esplodere potenti cariche di polvere da sparo per interrompere il «vortice di correnti ascendenti all’interno del cumulo-nembo ed evitare così la formazione di chicchi di grandine di dimensioni pericolose». Ibid, p. 22.

(80) L. Bombicci Porta, Sulla formazione della grandine e sulla pratica degli spari per disminuire i danni recati da essa all’agricoltura, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 39 (1899), pp. 129-149, in particolare pp. 143 sgg.

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gli un corpo regolare di resistenza compatto, proporzionato».(81) Per fare questo «la scelta delle posizioni deve essere affi data ad una Commissione di persone competenti e imparziali, consapevoli delle vicende meteorologiche locali, come si affi da ad uno stato maggiore militare la scelta strategica delle posizioni per le artiglierie nella imminenza della battaglia».(82) Le posizioni di sparo vennero stabilite in base alla morfologia del territorio, reclutati gli uomini che avevano fatto regolare servizio di leva, e nominata una «Stazione Capitana cui incomberà chiamare a raccolta, dare segnali, regolare la rapidità dei tiri, far sospendere o cessare il fuoco, [Stazione che] sarà diretta o sorvegliata da persona intelligente e prudente, scelta fra i notabili del circondario”.(83) Così l’Accademia dichiarò guerra al cielo.

Lo scopo di tanto allarme è legata certamente alla diffi coltà di pagare premi che, nonostante le promesse della Società Assicurativa, non risultavano econo-micamente competitivi né sostenibili, tanto da rendere convenienti le spese di allestimento di un tale dispiegamento di forze, che lo stesso autore ci informa oscillasse fra le 115 e le 120 lire per i cannoni, più spese irrisorie per i bossoli e altre, più sostanziose, «per la realizzazione dei capanni o dei ricoveri per gli sparatori», ma, si affanna subito a specifi care, «fossero pur decuple le spese di impianto, sarebbero sempre incontrastabilmente minori che non i premi da pagarsi alle Società assicuratrici». In questa occasione la posizione presa dall’Accademia fu determinante per la difesa degli interessi locali infatti, pur mantenendo aperto un canale di mediazione con le società assicuratrici, questa portò avanti le proprie sperimentazioni sperando di poter trovare un modo per liberarsi dal pagamento dei premi. Le scelte gestionali dell’Accademia dichiarano l’intento di non voler difendere ciecamente i privilegi del nuovo potere politico ed economico nazionale ma, piuttosto, di voler compartecipare alla formazione dei nuovi equilibri; giocando al meglio la propria partita, affermando e rivendicando la propria importanza, indipendenza e i propri diritti acquisiti.

Così, nello stesso anno, un altro protagonista, Aronne Rabbeno, che si distin-guerà poi per l’interesse e la trattazione dei più scottanti temi di attualità, come gli scioperi dell’industria e gli usi civici collettivi, scriverà parole di fuoco contro i detrattori della mezzadria, quando, negli stessi anni, l’Inchiesta Jacini, patro-cinata dal novello Stato Italiano, si muoveva su binari diametralmente opposti. Jacini terminò la sua Relazione Finale indicando proprio nella mezzadria uno dei principali motivi dell’arretratezza delle regioni del Centro-Sud.(84)

Rabbeno ribalta completamente la posizione dello Stato, indicando nei contratti

(81) Ibidem.(82) Ibidem.(83) Ibidem.(84) S. Jacini, Relazione Finale, in: I Risultati della Inchiesta Agraria, Roma 1885.

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di affi tto la piaga dell’economia nazionale e la causa delle molte sofi sticazioni e truffe di cui era vittima il Paese. Nonostante l’Italia attraversasse una congiuntura economicamente favorevole grazie a «un salutare risveglio sulla coltivazione della vite e nella coltura intensiva dei cereali e dei prati»,(85) la condizione in cui si trovavano gli affi ttuari della piccola e media proprietà, secondo l’autore, li avrebbe portati ben presto alla fame. Le cause di queste diffi coltà erano principalmente da ricercarsi fra le nuove, costosissime, cure e i nuovi fertilizzanti che permet-tevano produzioni più elevate e, secondo l’opinione del tempo, maggiormente resistenti agli assalti delle crittogame. L’affi ttuario, insiste l’oratore, non può far fronte a queste spese da solo, e fi nisce invariabilmente per dover operare una scelta comunque sfavorevole: o brucia la gran parte dei propri averi indebitandosi nell’acquisto di prodotti chimici, trovandosi così nell’attesa del raccolto in totale povertà, oppure persevera in una coltivazione di tipo estensivo venendo così schiacciato dalle maglie del progresso, non favorendo né l’economia regionale né tanto meno la propria. L’unica soluzione possibile, per zone con un’altissima componente agricola come il Bolognese, è quella di mantenere attiva una «mez-zadria rinnovellata».(86) I cardini fondamentali della proposta restano sempre gli stessi: il capitale del bestiame in comune, allo stesso modo quello del latte, dei formaggi e del burro; consuete anche la ripartizione dei terreni e le norme per la rotazione agraria. Sono invece suddivise le spese per i trattamenti di concimazione: mentre lo stallatico resta di competenza del colono, quello chimico o artifi ciale ricade fra i doveri del proprietario, che ricaverà dall’aumento della produzione il proprio tornaconto. L’industrializzazione dell’agricoltura e dell’allevamento non può portare agli stessi risultati della produzione artigianale su base mezzadrile, perché – viene sottolineato – chi produce anche per sé ha interessi in campo che non possono riguardare il semplice operatore.

Il ruolo che l’Accademia mantenne fu sempre quello di “fi ltro”: una sorta di cuscinetto fra lo Stato e la politica regionale, cercando da una parte di cautelare i propri interessi e, dall’altra, di rappresentare gli interessi regionali al Governo, cercando di evitare che le esigenze particolari della zona venissero dimenticate. Per questo l’Istituzione si fece ora sostenitrice delle politiche governative, ora loro acerrima nemica.

Nel 1865 fu varato un provvedimento ministeriale volto alla diffusione della pratica della solforazione delle viti contro le crittogame. La reazione degli agri-coltori al rimedio fu tardiva e ineffi cace, tanto che nella lettera ministeriale si legge: «Dopo dodici anni che venne fatta la felice esperienza della solforazione

(85) A. Rabbeno, I patti colonici nei rapporti colla odierna coltura delle viti, della coltivazione intensiva del grano, dei prati e delle nuove industrie agricole, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 39 (1899), pp. 41-58, in particolare p. 43.

(86) Ibidem.

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sopra scala già larga in Francia, ove in poco tempo divenne generale; dopo otto in nove che cominciò a diffondersi in Italia, ove ne’ tre o quattro ultimi passati, prese pure proporzioni larghissime, non era da aspettarsi un tal fatto [la diffusione della malattia]. Tuttavolta esso sta, e se al numero de’ comuni ove è completa-mente negletta tale operazione si aggiungono quelli ove si fa male, [...] si trova che il complesso de’ luoghi dove la crittogama esercita la sua azione distruttiva è ancora assai rilevante».(87) Per cercare di porre freno alla distruzione dei vigneti italiani, il Ministero promosse l’iniziativa di far comperare dalle amministrazioni provinciali lo zolfo in pani, in modo da ottenere un prezzo conveniente, e di di-stribuirlo poi ai Comuni che ne facessero richiesta, esigendo nell’immediato solo la metà del costo, e l’altra metà a raccolto avvenuto. In questo modo, continua la lettera del Ministro all’Agricoltura, Industria e Commercio Torelli, si ottiene un duplice vantaggio: si riesce a garantire una più capillare diffusione della pratica di solforazione, e si utilizza zolfo di qualità, con maggiori garanzie sui risultati.

La risposta dell’Accademia non si fece attendere: abbracciò in toto le risoluzioni del Ministero, ponendosi come referente immediato per l’operazione e la diffusione delle decisioni ministeriali, convenendo sulla bontà del provvedimento e sulla necessità di correre al più presto ai ripari. In questo caso l’Istituzione promosse le decisioni statali facendosene carico direttamente, convenendo sull’importanza delle solforazioni di cui condivideva le ragioni, sebbene da tempo i propri consigli e disposizioni si fossero scontrati con la negligenza degli agricoltori.

I motivi che spingevano il coltivatore a non sottostare ai consigli degli agro-nomi erano principalmente di due nature: una soggettiva e l’altra oggettiva. La prima era legata alla congenita sfi ducia degli agricoltori verso tutto ciò che era nuovo, inconsueto e lontano dalla propria esperienza, tanto più se, a caldeggiare tale cambiamento, era un signore ben vestito e senza alcuna esperienza diretta. La seconda, o meglio le seconde, erano legate l’una a una diffi coltà oggettiva, cioè al costo troppo elevato dello zolfo e alla sua laboriosa applicazione, l’altra a una certa “magnanimità” della malattia in queste zone, dove il raccolto delle uve continuò, nelle sue prime battute, a essere relativamente soddisfacente. La malattia attaccava la pianta principalmente nel periodo della vegetazione, quando, con il rialzo delle temperature primaverili, la pianta si risvegliava e cominciava il suo nuovo ciclo, per raggiungere poi l’apice della sua efferatezza nei mesi estivi, quando il contadino era normalmente occupato nei lavori dei campi più impor-tanti e faticosi. Se a questo si aggiunge il fatto che la vendemmia non risultò in queste zone mai completamente compromessa e che una vera cultura del buon

(87) Società Agraria, Sulla solforazione delle viti per preservarle dall’Oidio. Discussione e risposta a proposta del Ministero, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 5 (1865), pp. 35-53, in particolare p. 37.

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vino(88) non si fosse ancora formata, si comprende facilmente il perché la malattia avanzasse indisturbata, nonostante gli appelli degli scienziati e dei proprietari terrieri. L’eliminazione di almeno una delle cause di queste diffi coltà rappresentò certamente per l’Accademia la possibilità di rilanciare un argomento che altrimenti rischiava di restare circoscritto nelle sale dell’Archiginnasio. Le dinamiche in gioco restano perciò sempre sospese a un doppio fi lo di equilibri: da una parte sta il rapporto con lo Stato e i suoi interessi, dall’altra quello con il contado, con gli agricoltori, con le loro convinzioni ed esigenze, non sempre collimanti con quelle dei proprietari. L’Accademia funzionò, quindi, come un elastico che cercava di ottimizzare il più possibile situazioni e occasioni con una solerzia che stupisce in un organismo così composito e profondamente conservatore.

Chiaramente il raccogliere fra le proprie fi la la rosa dei possidenti terrieri più importanti della zona diede all’Accademia una connotazione fortemente aristocra-tica e un potere politico ed economico di tutto riguardo, che ne fece un organismo “para-statale” di cui non si poteva non tenere conto, anche perché molti erano i suoi membri che rivestivano contemporaneamente alte cariche uffi ciali nelle amministrazioni pubbliche o nei grossi enti privati. Questa è la ragione principale per cui in molte occasioni l’Accademia non si trattenne dal prendere posizioni risolute contro alcuni provvedimenti legislativi o, di converso, dal sottolinearne i vuoti, facendo leva sul peso della propria posizione.

Così, per esempio, nel 1886 sulla questione dei dazi compensatori. Il 12 di-cembre di quell’anno, fu indetta un’adunanza dal Comizio Agrario(89) di Bologna su richiesta di oltre trecento agricoltori. Al centro della disputa stava la questione della domanda allo Stato della concessione dei «dazi compensatori» a vantaggio dell’agricoltura e dell’economia interna del Paese. Il Marchese Achille Sassoli Tomba tenne un ampio intervento nel corso dell’adunanza, nel quale in più punti lamentò la pessima condizione dell’agricoltura bolognese, suffragando le proprie opinioni con dati molto particolareggiati. Secondo la stima fatta, la coltivazione principale, quella del grano, aveva subito, nei dodici anni che vanno dal 1874 alla data della lettura della Memoria, una perdita pari a £ 6,50 per quintale e il riso una perdita di oltre £ 4 al quintale. «La prima causa» continua il Marche-

(88) Dai numerosi studi, di cui si è trovato traccia, sulla tossicità dei vini fatti con uve affette da Oidio, si comprende bene come, certamente nel Bolognese e forse anche in altre parti d’Italia, ci fosse l’abitudine, certamente dettata dalla necessità e dall’ignoranza, di consumare regolarmente, tramutate in vino o come frutto, uve malate, nonostante fosse stato più volte dimostrato che tale pratica causasse disturbi intestinali di varia gravità.

(89) I Comizi Agrari, furono fondati nel 1866 con un decreto legge che puntava a un maggior controllo governativo sull’associazionismo agrario. L’Accademia di Bologna difese la propria indipendenza e riuscì a mantenere l’organo dei comizi separato dall’associazione stessa; riuscendo perfi no a esercitare su questi la sua infl uenza, fi no a farli gravitare nella propria orbita.

52 BOLOGNA E IL SUO TERRITORIO

se «è la concorrenza straniera, e precipuamente l’asiatica e l’americana».(90) L’ingresso di derrate a basso costo perché ricavate, secondo l’oratore, da terre vergini molto produttive, schiaccia la produzione nazionale, ottenuta invece da terreni già molto sfruttati e che necessitano di generose concimazioni, che fanno lievitare i costi del prodotto. Altre cause della deplorevole situazione agraria sono da ricercare nell’«abolizione del corso forzoso; nella penuria e carezza dei capitali; nell’esagerazione dell’imposta fondiaria».(91) Il corso forzoso, soprattutto, fungeva da «vero dazio protettore» dell’economia, perché l’aggio che si ricavava sul prodotto agricolo era quello utilizzato per pagare le tasse; mentre, col cambio del sistema monetario, furono aboliti gli scarti fra il valore della moneta e quello del prodotto, portando le imposte fi scali a gravare maggiormente sulle spalle del contribuente, impoverendolo. A questo si aggiunge – continua la fi lippica – una reale defi cienza dei capitali italiani, che vengono per lo più impiegati nel settore dei grandi lavori pubblici, stornandoli da quello agricolo che fi nisce ine-vitabilmente per invischiarsi nel prestito a usura. «Ma – sottolinea – altra causa precipua della crisi agraria sta nell’esagerazione del balzello fondiario, in Italia, di fronte agli altri Paesi».

I provvedimenti che il Ministero propose per cercare di arginare la crisi furono: la trasformazione delle colture, l’istruzione, la perequazione fondiaria, la trasformazione e la diminuzione dei tributi e il credito agrario. L’Accademia prese una risoluta posizione contro queste norme, ritenendole inadeguate alle necessità, se non addirittura dannose. Sassoli considera la proposta di trasformare «i campi graniferi» in praterie e vigneti, con la promessa che questo potrà ridare all’agricoltura la remunerazione perduta: un’ipotesi inattendibile, adducendo che «in buona parte d’Italia la coltivazione esclusiva a prato, a vigna, ad ulivo è quasi impossibile o niente retributiva, per la naturale siccità del suolo, o per la natura de’ suoi componenti che esige rotazione promiscua».(92) Allo stesso modo, per quanto riguarda il secondo punto della proposta ministeriale, l’istruzione, l’Acca-demia ritenne che, sebbene ci debba essere certamente una maggiore attenzione e consapevolezza nell’utilizzo delle nuove tecnologie e nei fertilizzanti chimici, tutto ciò non possa essere che un passo successivo al momento in cui vengano messi a disposizione i capitali per acquistare i nuovi ritrovati agricoli. Il terzo punto è, probabilmente, quello più rivoluzionario.

L’idea della perequazione fondiaria era sempre stata una degli obiettivi del-l’emancipazione agraria, ma – sottolinea Sassoli – proporla come soluzione attua-

(90) A. Sassoli Tomba, Della necessità di ottenere dazi compensatori a pro dell’agricoltura, “Bullettino del Comizio Agrario del Circondario di Bologna”, VIII-IX (1886), pp. 148-168, in particolare p. 152. Il corsivo è nel testo originale.

(91) Ibid., p. 153.(92) Ibidem.

53BOLOGNA E IL SUO TERRITORIO

bile in tempi brevi equivale a fare demagogia. «La perequazione, provvedimento giustissimo a cui noi abbiamo di gran cuore applaudito, non potrà recare i suoi benefi zi che di qui a 20 anni o al più presto di qui a 8 o 9 anni e solo in parte e nella migliore delle ipotesi, nell’ipotesi cioè che le province anticipino, come la legge le facoltizza la quota parte governativa delle spese del rispettivo loro nuovo catasto».(93) Lo stesso – aggiunge il relatore – si può dire per la trasformazione dei tributi che potrebbe trovare un rimedio effi cace solo nella diminuzione delle tasse. L’Accademia non fa mistero della sua sfi ducia sull’attuabilità di queste norme, sottolineando le diffi coltà che il settore agricolo ha dovuto superare per ottenere la «soppressione progressiva dei tre decimi di guerra», e come il sospi-rato provvedimento «non ha recato quasi nessun lenimento all’agricoltura che ha visto, malgrado il disposto contrario della legge, togliersi dalle Province e dai Comuni quanto lo Stato le aveva abbuonato».(94)

Anche l’ultima proposta ministeriale viene polemicamente bocciata: «perché la nuova legge [sul credito agrario], o meglio lo schema di questa nuova legge che presto si discuterà al Parlamento, rende bensì più semplice e più facile la parte giuridica agevolando la guarentia da darsi dal mutuario, ma non risolve suffi cientemente la parte economica. Eppure questa è la parte più importante [...] di trovar modo cioè che all’agricoltura affl uiscano capitali molti, ad interesse mite, ed a lunga scadenza».(95)

Conclude pertanto il relatore che l’unico modo per far fronte ai disagi che stavano affl iggendo l’economia risiedeva nella possibilità di garantire un fi orente mercato interno attraverso l’applicazione dei dazi. L’ipotesi, contrastante con quelle fatte dal Governo, viene sostenuta e giustifi cata dall’Accademia, attra-verso il proprio rappresentante, come un provvedimento nient’affatto retrogrado o conservatore, ma come la necessaria presa di coscienza delle condizioni del Paese che resta oramai l’unico, in Europa, a non aver provveduto al proprio bene limitando la concorrenza estera. Il concetto del libero mercato, sebbene appella-to come «l’ottimo fi ne», viene considerato inadatto a un mercato, come quello vigente, dove non tutte le nazioni sono riuscite a dare sviluppo alle industrie più vocate del proprio territorio, condannando così «i deboli ad essere sopraffatti dai più forti». L’Italia, infatti, seppur terra di libero scambio, trova inesorabilmente chiusi i porti stranieri, dove il prodotto italiano è “strozzato” dagli elevati dazi degli scali, fi nendo così per accumulare giacenze. Si arriva al paradosso che le merci ferme al confi ne non possono essere rivendute neppure in patria, perché qui i prodotti stranieri si sono ormai in gran parte sostituiti a quelli locali grazie alla maggiore competitività rappresentata dai grossi quantitativi. Il modello francese

(93) Ibid., p. 157.(94) Ibidem.(95) Ibidem.

54 BOLOGNA E IL SUO TERRITORIO

dovrebbe insegnare a quello italiano che una buona politica protezionistica non aiuta soltanto il settore agricolo, bensì anche quello industriale cittadino perché «protraendosi troppo [...] le sofferenze dell’agricoltura, le braccia che le si de-dicavano, fuggono a torme i campi, ed entrano nelle nostre città, nelle nostre offi cine a fare un’insostenibile concorrenza al lavoro manifatturiero».(96) Allo stesso modo viene illustrato come anche il governo americano avesse stabito, alla fi ne della guerra di secessione, una politica di tipo protezionistica, per far fronte alla diffi coltà che il Paese doveva affrontare alla fi ne di un confl itto così dispendioso e, sebbene gli economisti politici dell’Europa di allora gridassero unanimi al suicidio economico di quella Nazione, in realtà i fatti diedero ragione ai primi, diventati oramai una delle principali potenze mondiali.

Alla fi ne di questa lunga sessione, nonostante le perplessità sollevate da al-cuni a proposito degli effetti di ricaduta di tale politica, fu votato un ordine del giorno dove venne esplicitamente sottolineato il volere unanime dell’Accademia, col chiaro intento di fare ogni possibile pressione affi nché tale volontà fosse ascoltata.

Il direttivo del Comizio, che – ricordiamo – avrebbe dovuto essere espressione statale, pertanto suo portavoce e non osteggiatore, deliberò che «Ritenuto che questi dazi compensatori non potrebbero peggiorare le condizioni del consumatore non abbiente il quale troverebbe col migliorato stato del proprietario un compenso alla maggiore sicurezza del lavoro [...] la Presidenza chieda al Governo nei modi più effi caci affi nché sieno imposti dazi di compensazione sulle importazioni del-l’industria agricola estera che valgano a sollevare le sorti della nostra agricoltura, fondamento della prosperità nazionale!»(97) La discussione molto animata prese le mosse da quello che era un fermento diffuso sul panorama nazionale, che portò nell’anno successivo, grazie al governo Crispi, all’approvazione di una attenta politica protezionistica, rispondendo a quanti sostenevano che questo fosse l’unico modo per riuscire a garantire una corretta crescita del mercato e della produzione interna.

Se tuttavia questa linea politica portò qualche vantaggio nel settore industriale e siderurgico, non altrettanto si può dire per il settore vitivinicolo, quantomeno in Emilia-Romagna. Qui la chiusura dei mercati signifi cò un forte ristagno dovuto alla mancanza di un confronto diretto col panorama internazionale, con il risultato di un congelamento dello status quo, che fi nì certamente per tutelare gli equilibri interni, ma contribuì a impedire la crescita economica.

(96) Ibid., p. 163.(97) Ibid., p. 168.

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4. Il XIX secolo: chiaroscuro di un’epoca

Il XIX secolo apre le porte alle innovazioni, dovute alla nuova attenzione data all’economia agricola e alla profonda crisi che, paradossalmente, con-trassegna questo diffi cile giro d’anni. Questo fu certamente il momento più drammatico per la coltivazione della vite, si assisté a una battuta di arresto che segnò la fi ne di un mondo che dovette dichiararsi sconfi tto, pur riuscendo a risollevarsi.

Le malattie della vite e, fra tutte, la più devastante, la Philloxera vastatrix, tecnicamente vinsero la guerra. Quello che poté l’umana scienza fu correre ai ripari aggirando il problema, ma i vigneti di allora furono distrutti per sempre e, oggi, i vitigni, anche quelli autoctoni, prosperano su piede americano tramite l’innesto di barbatelle, non potendo quindi considerarsi del tutto identici a quelli presenti sul territorio prima dell’abbattersi della malattia. Il secolo vide, intorno alla metà, un fermento sempre crescente intorno all’agricoltura in tutte le sue articolazioni; i movimenti risorgimentali diedero un forte impulso al confronto fra le varie regioni che si sentirono man mano parte di un unica nazione, e, come tali, cercarono di sommare le proprie esperienze. Anche le importanti scoperte chimiche e gli studi agronomici portarono a una nuova consapevolez-za sul perché di molti fenomeni allora inspiegabili, e questa nuova “curiosità” portò a un cambiamento radicale sul modo di intendere il rapporto dell’uomo con la terra e il suo modo di intervenire su essa. Lo squarcio nel velo di Maya portò l’uomo a conoscere parte dei segreti della natura, e questa conoscenza, dapprima timidamente accennata, mutò poi nell’idea di poter disporre della propria intelligenza per modifi care a proprio vantaggio ogni equilibrio in modo indiscriminato, stravolgendo completamente il gioco delle parti. Le scoperte scientifi che diedero all’uomo l’euforia della libertà dopo una lunga dipendenza, e diedero adito alla convinzione che oramai tutto era stato svelato e ogni cosa poteva essere studiata attraverso la lente di un microscopio e ridotta alla propria volontà. La nascita della scienza, intesa in senso moderno, coincide con quella del senso di potere e di domino dell’uomo, sebbene, in queste fasi iniziali, ipotesi ancora fantasiose superassero di molto quelle di rigore scientifi co. Sono questi anni di acuta frenesia, dello sperimentare ogni cosa, tanto da lasciare tracce chiare anche nelle adunanze accademiche, che videro sempre maggiori spazi dedicati alle più astruse sperimentazioni, prima che l’attacco di fi tofagi della vite, smobilitasse l’intera attenzione scientifi ca mondiale, tenendo in scacco il fi or fi ore degli studiosi.

56 IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

4.1. Rifl essioni pre-fi llosseriche

Il problema più grave con cui il vignaiolo si doveva spesso confrontare ogni giorno era la scarsa longevità dei propri vini, la loro tendenza a inacidire o a essere colpiti di frequente da alterazioni che, nel giro di poco tempo, li rendeva-no imbevibili. Per questo molti studi si concentrarono sulla sperimentazione di nuove tecniche enologiche per cercare di ovviare a questo problema che, primo fra tutti, rendeva i vini bolognesi poco adatti al trasporto e, generalmente, poco apprezzati al confronto con quelli di altre regioni produttrici.

Nel 1871 la questione arrivò a essere discussa anche in Accademia, tanto da rendere necessario un rendiconto delle sperimentazioni in corso, per risolvere agevolmente il problema.

In realtà la scarsa conservabilità dei vini bolognesi non era dovuta alla loro naturale tendenza ad ammalarsi più di altri, come pure erroneamente fu supposto, ma alla minore attenzione prestata al lavoro in vigna e alle pratiche di cantina; ciò nonostante sembrò allora più semplice curare un problema piuttosto che mutare abitudini e prassi che diffi cilmente potevano essere contrastate.

Il professor Selmi prese la parola in Accademia nell’adunanza del 28 Maggio 1871, riferendo i risultati dei suoi esperimenti consistenti nello scaricare potenti tensioni di corrente elettrica nel vino. La corrente elettrica, secondo quanto riferito, produceva nel liquido precipitazioni della sostanza colorante, portando mutamenti nell’equilibrio della bevanda. Secondo il relatore tali sperimentazioni «si sono fatte all’estero ed anche in Italia, e segnatamente in Sicilia, [...] per verifi care l’azione della corrente elettrica sui vini (in Sicilia si è particolarmente esperimentato sui vini bianchi); la quale corrente darebbe al vino, dopo 3 o 4 giorni d’azione, il gusto, l’abboccato,(98) del vino vecchio, lo renderebbe meno alterabile e, secondo alcuni, anche più ricco di alcool del 2%».(99)

La sperimentazione bolognese partì dall’idea, giusta, che non fosse possibile alterare la componente alcolica del vino, ma con la convinzione che alterando profondamente le condizioni di conservazione tramite forti sollecitazioni esterne, si dovessero per forza riscontrare dei cambiamenti verifi cabili.

(98) È da notare come il termine abboccato abbia evidentemente subito, negli anni, un processo di risemantizzazione. Oggi, in termini enologici, l’accezione viene a connotare vini, sia giovani che invecchiati, che abbiano un residuo zuccherino tale da essere percepibile chiaramente al gusto, in termini chimici quantifi cabile intorno ai 10-30 g/l. È probabile che il relatore intendesse invece indicare, con questo termine, una sensazione di piacevole morbidezza, maggiormente percepibile nei vini affi nati per qualche tempo in legno, e non identifi care una precisa percentuale zuccherina.

(99) F. Selmi, Comunicazione verbale intorno all’azione della corrente elettrica sul vino, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 11 (1871), pp. 153-160, in particolare pp. 157-158.

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La necessità di aprire quanti più varchi possibili alla scienza e alle prove empi-riche risponde perfettamente a quel clima di fermento, di desiderio di innovazione, che si era animato in questi anni in cui l’Italia aveva aperto i propri confi ni favo-rendo lo scambio e la circolazione delle idee. Nuova forza era rappresentata da una concorrenza spontanea, quella del mercato nazionale, che accendeva il desiderio di “arrivare primi” nella scoperta di qualcosa, di qualunque cosa si trattasse. Ecco spiegati i perché che potrebbero venire alla mente dei moderni che si confrontassero con questa fase della ricerca; le sperimentazioni avevano assunto un ruolo così importante da essere superiore anche alle tesi che si andavano a dimostrare, più importanti del risultato pratico a cui tale dispendio di risorse tendeva.

Lo scaricare potenti amperaggi di corrente elettrica, si concluse, non aumen-tava la forza alcolica del vino, ma provocava «un deposito di materia colorante» dovuta, secondo le ipotesi più accreditate, alla «decomposizione dell’acqua e conseguente sprigionamento d’ossigeno azotato, il quale attacca, ossida, dap-prima la materia colorante, rendendola insolubile, poi passa a perossidare anche l’alcool, trasformandolo in acido acetico».(100) Sostanzialmente si scopre, con un’utilità del tutto bizzarra, che la corrente elettrica produce un impoverimento del vino, portando i sali minerali naturalmente disciolti in esso, a unirsi alla materia albuminoide presente, precipitando sul fondo, alterando il sapore della bevanda privata di parte della propria sapidità. Ciò che viene così eliminato è, in sostan-za, il ventaglio delle sensazioni organolettiche che costituiscono le “durezze”, o meglio, l’ossatura stessa del vino. «Si produrrebbe nel vino, per effetto della corrente», chiosa l’autore, «in breve ciò che lentamente vi si opera col tempo. Effettivamente nei vini che invecchiano la materia colorante e l’albuminoide sono a poco a poco ossidate e rese insolubili dall’ossigeno dell’aria che penetra nella massa del vino attraverso i pori del legno delle botti».(101) Questo risultato, aggiunge il relatore, potrebbe essere di qualche impiego se applicato a vini che tendono precocemente a inacidirsi, sottoponendoli a lunghe scariche con «una corrente più lenta ma prolungata per una quindicina di giorni», sostituendo così le pile di Bunsen,(102) «costose e incomode, pei vapori nitrosi che svolgono», con «altre pile di minor costo». L’informazione è preziosa perché porta a supporre che abitualmente venissero impiegate forze elettriche in cantina, e sebbene il loro

(100) Ibid., p. 158.(101) Ibid., p. 159.(102) La pila di Bunsen (1811-1899), è una variante di quella di Grove, ma presenta fra i suoi

componenti il carbone al posto del platino. È costituita da un vaso poroso dove è posto acido nitrico concentrato. La f.e.m. (forza elettromotrice) all’inizio è di 2 V e la corrente è intensa e può raggiungere una decina di ampere. Ma la corrente non è costante, perché la pila va lentamente polarizzandosi. Questa pila, come quella di Grove, ha l’inconveniente di produrre biossido di azoto, un gas che provoca corrosione dei metalli e disturbi alla respirazione.

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utilizzo non risulti determinante per la soluzione del problema dell’inacidimento dei vini bolognesi, il ritrovato dovette godere di un certo favore, tanto da divenire una pratica d’avanguardia piuttosto diffusa.

La spinta che ricevette la ricerca in campo enologico trovò cassa di risonan-za nell’Accademia che offrì la propria sede come vetrina per l’illustrazione e discussione delle molte sperimentazioni, a lungo dibattute durante le adunanze. Il rinnovato interesse per la materia portò anzitutto alla consapevolezza che, per produrre vini adatti alla commercializzazione, si dovessero anzitutto fare scelte rigorose sul modo di scegliere i vitigni e di coltivare le viti.

«Il genio del vino è nel vitigno»(103) fu il motto che guidò le successive speri-mentazioni, diventando uno dei capisaldi per le disquisizioni teoriche. La situa-zione bolognese mostra una forte tensione di rinnovamento, tanto che le nuove teorie sull’importanza di una giusta selezione «suona [come] rimprovero anche per noi, e ci ammonisce di far presto un’accurata scelta fra le tante uve coltivate, se pur desideriamo che il nostro vino si nobiliti e porti un’impronta che faccia degna fede della sua bella origine».(104)

Uno dei punti principali di questa rivoluzione nella gestione della viticoltura parte proprio da un’accurata selezione delle piante in base alla predisposizione del terreno, del clima e alla tipologia di prodotto che si vuole ottenere; nasce, di fatto, la moderna professione del produttore di vino, che conosce e ricerca le caratteristiche fi nali del proprio prodotto nell’impianto e nella vigna prima an-cora che nel lavoro di cantina. Perciò uno dei momenti più studiati e curati nelle disquisizioni accademiche fu proprio il momento della vendemmia.

La tradizione voleva che le uve fossero vendemmiate sempre un po’ in anticipo rispetto alla piena maturazione per evitare furti e ruberie, mentre le conoscenze del tempo avrebbero invece voluto che l’uva permanesse sulla pianta a oltranza.

I nuovi studi screditano sia la pratica che le teorie di allora, affermando che «l’acino dell’uva è un organismo vero e proprio e come ogni altro organismo esso raggiunge il punto più elevato del suo sviluppo, il culmine della sua vita. Raggiunto o sorpassato che sia questo punto, l’uva, come ogni altro organismo, retrocede e colla cooperazione delle muffe parassite i suoi atomi materiali ritor-nano a poco a poco al mondo esteriore».(105)

Da questa visione dai netti contorni illuministi, vengono tagliate fuori tutte le esperienze di vinifi cazione legate, per esempio, ai processi di fermenta-zione di uve passite, che pure davano importanti risultati, in realtà già molto rinomate, come nel Sauternes.

(103) F. Marconi, Sui recenti progressi dell’enologia, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agri-coltura”, 12 (1872), pp. 126-144, in particolare p. 127. Il corsivo è originale nel testo.

(104) Ibidem.(105) Ibid., p. 128.

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Analisi di laboratorio si concentrarono sui grappoli vendemmiati, che furono più volte esaminati per verifi care come, nel tempo, il frutto mutasse la propria composizione chimica. I risultati, documentati il 12 Ottobre 1868 dal chimico tedesco Nebauer, direttore della stazione sperimentale enologica di Wiesbaden, fecero il giro d’Europa rimbalzando sugli scranni di tutte le principali Univer-sità, dimostrando come in un campione di «uva già avvizzita» si verifi casse, col passare del tempo, una considerevole perdita di tutte le sostanze solide che compongono l’acino, tanto che lo stesso campione, analizzato 11 giorni dopo, presentava una perdita di zucchero pari a 1/3 del totale. Le conclusioni furono rigorose, arrivando ad affermare che «le perdite cagionate da una vendemmia tardiva non si limitano alle sole accennate; esse sono anche maggiori pel fatto», ed è qui che troviamo il nocciolo del problema, nel fatto che«che la spremitura del mosto denso e concentrato si eseguisce molto più diffi cilmente, vale a dire, esso non può essere spremuto interamente coi torchi ordinarii».(106)

Le tecnologie del tempo non erano adeguate alla spremitura di mosti così con-centrati, per cui era molto complicato riuscire a innescare processi fermentativi. Accadeva pertanto che, se il raccolto non fosse stato già guastato dall’attacco di muffe dannose, la poca percentuale di acqua, più che quella dello zucchero, causasse rallentamenti nell’inizio e nello svolgimento della fermentazione, ren-dendo inservibile la materia prima. Grandi passiti come quello del Sauternes o del Tokjai(107) riuscirono ad arrivare alle loro grandi concentrazioni grazie ai ritrovati tecnologici che proprio da questo periodo in poi andarono perfezionan-dosi, riuscendo a estrarre materia solida – l’estratto secco del vino(108) – da uve sempre più disidratate ottenendo i risultati odierni. Secondo le idee del periodo, invece, una eccessiva maturazione delle uve rappresentava una perdita ingente, mentre fondamentale era «l’importanza di determinare con precisione per ogni uva, in date condizioni di terreno e di clima, il giusto punto di maturezza» riba-dendo una perentoria «condanna assoluta pei vini così detti santi».(109) Il sistema

(106) Ibid., p. 129.(107) A questi esempi andrebbe aggiunta anche la produzione tedesca dell’Eiswein, che tuttavia

presuppone un appassimento diverso, fatto sulla pianta, lasciando i frutti non colpiti da muffa esposti fi no alla prima notte di gelo forte (-8°C). Le uve vengono vendemmiate la notte stessa e pigiate ancora gelate ottenendo un mosto estremamente denso dove buona parte dell’acqua viene eliminata tramite la cristallizzazione dovuta alle bassissime temperature e alla pigiatura molto delicata, in modo da conservare, per la fermentazione, soltanto il mosto fi ore.

(108) Col termine di estratto secco si intendono i componenti solidi (zuccheri, acidi organici, glicerina, per citare i principali) che sono normalmente disciolti in soluzione acquosa nel vino. Propriamente l’estratto secco è la parte “nutritiva” del vino, il vero contributo del frutto, tutto ciò che resta nel bicchiere se, dopo avere bevuto, si lascia evaporare l’alcol e si osserva l’alone che rimane sul fondo.

(109) Marconi, Sui recenti progressi, cit., p. 129. Il corsivo è originale nel testo.

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più accreditato per misurare il giusto livello di maturazione delle uve era quello del glucometro, uno strumento già da tempo in uso nelle cantine d’Europa, ma le cui norme di utilizzo erano generalmente dai vignaioli bolognesi ignorate o deliberatamente trascurate. Marconi richiama l’attenzione proprio sul cattivo utilizzo che in questa zona si faceva anche delle strumentazioni più semplici e antiche che fi nivano, così trascurate, per compromettere, anziché migliorare, il risultato fi nale. Il glucometro viene indicato come lo strumento ideale per tro-vare quella uniformità qualitativa nella produzione dei vini bolognesi che tanto veniva ricercata, perché attraverso un corretto impiego, il cantiniere sarebbe stato in grado di determinare «nel 1° caso la quantità di zucchero, nel 2° caso la quantità d’acqua da aggiungere al mosto». L’aggiunta di zucchero era considerata il metodo migliore per garantire al prodotto fi nale il conseguimento di un buon livello standardizzato di alcol, non più soggiacente alle bizzarrie della stagiona-lità. L’adagio «dove manca natura, arte procura»(110) vuole essere incitamento a una produzione migliorata, non propriamente alterata, ma aiutata a superare le diffi denze di un mercato che si era mostrato scettico nei confronti della produ-zione emiliana, ma che ora, grazie all’impiego delle migliorate conoscenze, era possibile aggredire con nuova verve.

A questa nuova luce vennero rivisitate tutte le pratiche di cantina, e si arrivò a una serie di sperimentazioni meccaniche che prestarono molta attenzione ai momenti della fermentazione tumultuosa, defi nita da Marconi «alta fermenta-zione».

Osservazioni empiriche avevano fatto emergere una problematica a cui pre-cedentemente non era stata data una grande importanza, ma che, in questi anni, portò all’idea di adoperare, durante la vinifi cazione, la tecnica delle “follature”. Era stato osservato che la fermentazione del mosto e delle vinacce provocava un sobbollimento che innalzava le bucce fi no a formare un “cappello solido” sopra la massa in fermentazione.

Nonostante le ultime applicazioni tecniche prevedessero l’uso di coperchi per chiudere al meglio i tini,(111) l’aria presente all’interno di questi ossidava la parte della massa solida dell’uva che restava esposta al contatto con essa, e la fermen-tazione non riusciva ad avere un andamento omogeneo per l’intero vinifi cato. La differenza principale era rappresentata proprio dalla minore o maggiore vicinanza del mosto alle vinacce dal momento che, all’interno delle bucce, risiede la mag-gior parte dei pigmenti coloranti – gli antociani – e delle sostanze tanniche che forniscono ai vini parte del loro “scheletro”, maggiormente importanti per quei prodotti che si vogliono decisi nel gusto, alcolici e longevi. Durante il sobbolli-

(110) Ibid., p. 131, il corsivo è originale nel testo.(111) Ibid. p. 139.

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mento le vinacce conferiscono, quindi, una buona estrazione di colore e di grado alcolico alla parte del mosto con cui entrano in contatto, mentre la parte che resta sul fondo del tino, lontana dal cappello, dà risultati meno soddisfacenti.

Le “follature” avevano proprio lo scopo di eliminare questo problema, mante-nendo immersa nel liquido la parte solida, impedendo la formazione del cappello, e facendo in modo che, tramite appositi bastoni per il rimescolamento, quanta più parte possibile del mosto venisse in contatto con le vinacce, per ottenere un risultato uniforme.

Lo sporgersi sui tini in fermentazione, tanto più se chiusi da un coperchio sollevato alla bisogna, esponeva il cantiniere a grossi rischi: lo sprigionarsi di grandi quantitativi di anidride carbonica durante la fermentazione rendeva l’aria a tal punto satura di gas da diventare tossica, tanto da provocare spesso incidenti anche mortali.

Per ovviare a questo problema, vennero fatte numerose esperienze, e, tra le tante, troviamo quella di «un certo signor Michele Perret di Tullin (Isère) [che] costruisce tini internamente divisi in tante sezioni mediante appositi diafragmi, in ciascuna delle quali si pone una certa quantità di vinacce. Così, a detta dello stesso Perret, si ottiene una fermentazione completa e rapida».(112) Questi tini sono del tutto simili a quelli ancora oggi utilizzati, ma la loro diffusione nel Bolognese non fu immediata, probabilmente a causa del maggior costo e, soprattutto, della maggiore manutenzione di cui questi vasi vinari necessitavano, una volta effettuata la svinatura, per liberare dai depositi i fori dei diaframmi.

Il vino considerato oramai «non un essere chimico, fi nito, con principii fi ssi; ma liquido vivente che ha la sua giovinezza, la sua virilità, la sua vecchiaia e la sua decrepitezza»,(113) secondo quanto detto da Guyot, uno dei più celebri studiosi di enologia trovò nuovo spolvero e acquistò una nuova vetrina, ma non ovunque allo stesso modo.

Ancora una volta l’Accademia di Agricoltura ospitò sui suoi banchi l’eterno confronto con l’imprenditoria francese, tanto che mestamente il Marconi conclu-deva il proprio intervento ammettendo che «molto ci tocca demolire e moltissimo riedifi care per giungere a costruire una vera e importante industria enologica; […] perché noi stentiamo a vendere una bottiglia di vino a 2 lire, mentre Francesi, Alemanni e Ungheresi la vendono a 10, 15 e anche 20 lire».(114)

Questo rinnovamento, sebbene rallentato dall’arretratezza dell’enologia bolo-gnese, cominciò a scuotere le vecchie pratiche di cantina come quella di vinifi care le uve bianche a contatto con le bucce.

In realtà da tempo gli enologi sostenevano la migliore qualità dei vini bianchi

(112) Ibid., p. 132, il corsivo è originale nel testo.(113) Ibid., p. 133, il corsivo è originale nel testo.(114) Ibidem.

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ottenuti tramite una vinifi cazione scevra dal contatto con le vinacce, ma la paura era la principale causa della condanna di tale pratica perché, sebbene i vini risul-tassero di gusto più delicato e di maggior equilibrio, si temeva una loro minore durata e una maggiore predisposizione alle alterazioni del tempo.

Anche su questa casistica Marconi riportò la propria esperienza che premiava ancora una vinifi cazione fatta con un duraturo contatto con vinacce e raspi sia per i vini rossi sia per quelli bianchi.

A testimonianza del grande dibattito che l’enologia suscitava in quegli anni a Bologna, Bianconcini prese invece posizione in favore di una produzione enologica fi nalmente depurata da retaggi ingiustifi cati, soprattutto per quanto riguardava i vitigni che avessero, come quelli ospitati nel territorio bolognese, una buona presenza di sostanze albuminoidi che naturalmente preservano un vino ben fatto dalle insidie del tempo.

Fino ad allora nella produzione del vino, come forse di qualsiasi alimento, l’idea di scartare, di togliere un ingrediente, era sempre vissuto come una priva-zione, un impoverimento del prodotto fi nale. Esisteva come un’ansia, una frenesia di accumulo, per cui più cose si sommavano migliore doveva essere il risultato fi nale, come se si accusasse un senso di colpa nel buttare via qualcosa.

Le coeve scoperte di Pasteur diedero ragione a quanti sostenevano l’im-portanza dell’igiene in cantina per conservare quanto più possibile le qualità di un vino, e fornirono per la prima volta una risposta esaustiva sul perché il vino inacidisse e da cosa tale acidità fosse provocata.

Le teorie di questo scienziato contribuirono in modo fondamentale a compren-dere i meccanismi della fermentazione e furono preziose non solo nel cercare di bloccare i fenomeni peggiorativi, normalmente dovuti a rifermentazioni molto frequenti nell’arco del primo anno, ma anche nel dare una corretta regola nell’ese-guire le primarie operazioni di cantina durante l’ammostatura e la fermentazione tumultuosa. Pasteur insegna che ammostare uve marce o colpite da muffe diverse dalla Botrytis cinerea,(115) anche se in piccolissima parte, provoca nel tino una vera catastrofe, di fatto esponendo il vino allo sviluppo post-fermentativo di batteri che, nella maggior parte dei casi, portano all’insorgere di problemi e difetti che diffi cilmente possono essere poi risolti. Nuove applicazioni vengono date anche

(115) La Botrytis cinerea, o muffa nobile è un microrganismo del tutto simile alle muffe comuni, con la proprietà di ricoprire il chicco d’uva con un sorta di polvere color cenere, da cui il nome. L’attacco di questa muffa non fa marcire il chicco che subisce invece un precoce appassimento dovuto alla disidratazione provocata dall’assorbimento dell’acqua contenuta nell’acino senza che ne risulti alterato l’equilibrio organolettico, anzi provocando una con-centrazione degli zuccheri grazie alla disidratazione. Tale muffa, un tempo considerata un difetto, alla stregua delle altre manifestazioni simili, fu in seguito molto apprezzata per la produzione dei più celebri vini dolci del mondo come il Sauternes e il Tokjai ungherese che da questa prendono l’appellativo di “vini muffati”.

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alla pratica della solforazione ritenuta oramai fondamentale per la conservazione e disinfezione dei vasi vinari. Alle strisce imbevute di polvere minerale uno studioso dell’Accademia, Antonio Pacinotti, propose la sostituzione con un attrezzo che divenne di facile reperimento nelle cantine bolognesi: il solforatore. «Per costruire il solforatore» commenta l’autore, «scelgo uno di tali bicchieretti [si fa riferimento a bicchieri di ciottolo che si usavano comunemente per coprire i colli oliati dei fi aschi in attesa di essere utilizzati] con l’orlo in parte rotto ed assai piccolo in modo che passi molto comodamente pel cocchiume o foro superiore di tutte le botti. Con un chiodo faccio due fori nel ciottoletto e per esso passo un fi l di ferro che piego a guisa di manico di secchio, e a questo rilego altro fi l di ferro assai lungo che serve poi per sostenere il secchietto nell’interno delle botti. Questo secchietto dopo avervi posto alquanto zolfo, lo scaldo sopra una lampada ad alcol o in un fornello di carbone tanto che lo zolfo in esso fonda e si accenda; e quindi così caldo e con lo zolfo acceso lo discendo nella botte e lo lascio sostenuto in mezzo ad essa dal fi lo che serro col tappo del cocchiume».(116)

Le invenzioni in questo periodo cominciarono a rimpallarsi da una cattedra all’altra: non vi era accademico o scienziato che non mettesse a punto qualche piccolo marchingegno, anche semplice, atto a migliorare la qualità del lavoro in cantina. Così al solforatore del bolognese Pacinotti ribatté la pompa pneumatica per travasi messa a punto dal pistoiese Oliviero Bracciotti, che ottenne una pri-vativa sulla vendita del proprio congegno al prezzo di un centinaio di franchi, una cifra molto alta che tuttavia non incontrò ostacoli, a testimonianza di come forte fosse il desiderio di lanciare il vino italiano e renderlo competitivo con i vini europei.

La pompa pneumatica risolse, per chi poteva permetterselo, il problema dei travasi, permettendo, attraverso la compressione dell’aria presente dentro la botte, la fuoriuscita del vino in grossi tubi di gomma che venivano di volta in volta inseriti nei vasi destinati alla futura conservazione del prodotto.

Anche altri ritrovati furono messi a punto per risolvere la stessa pratica, tutti sfrut-tanti, tramite pompe meccaniche o soffi etti manuali,(117) la compressione dell’aria e la relativa spinta da essa esercitata sul liquido che veniva facilmente convogliato nei tubi utilizzati per il travaso, diminuendo di molto i rischi di ossidazione o di dispersione grazie al minor contatto possibile con l’ambiente esterno.

Nuovi studi sottolinearono la grande importanza dell’affi namento in botte per vini che necessitassero di ammorbidire la propria durezza, e come tale prassi

(116) A. Pacinotti, Intorno ad alcune semplici pratiche usate con profi tto per la vinifi cazione, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 12 (1872), pp. 18-34, in particolare p. 23.

(117) Tale ritrovato fu brevettato a Bordeaux per botti di piccole dimensioni, abbattendo notevol-mente i costi d’acquisto e di manutenzione rispetto alla più complessa pompa pneumatica. (Ibid., p. 24).

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fosse invece sconsigliata per vini già deboli o per periodi troppo prolungati; «le esperienze di Pasteur» commentava Pacinotti, «hanno dimostrato che da questa lenta ossigenazione [lo scambio fra vino e aria che si attua all’interno delle botti tramite i pori del legno] proviene in gran parte l’invecchiar del vino, e special-mente il suo spogliarsi, abbandonando porzione della sostanza colorante». Tale spoliazione, anche se considerata «affatto temibile nel primo anno», non deve essere eseguita «troppo a lungo» perché il mantenere le botti scolme può portare «difetti al vino».

Per ovviare alla naturale evaporazione e diminuzione della massa vinosa con-servata nelle botti viene messo a punto un altro ritrovato, molto simile a quello utilizzato ancora oggi col nome di tappo colmatore (Fig. 10).

«Piuttosto interessante è aver cura di riempire frequentemente le botti, onde non restino troppo scolme, e adoperare in ciò vino ben conservato in fi aschi, onde non mescolare a quello della botte i germi di qualche malattia» per rendere più effi cace il rabbocco – spiega l’autore – «ho adottato quest’anno per diverse [botti]

Fig. 10 - Particolare di un moderno “tappo colmatore” per botti. Si noti la grande analogia con quanto descritto da Antonio Pacinotti in data 7 gennaio 1872. In: “Memorie lette nelle adunanze ordinarie della Società Agraria della Provincia di Bologna pubblicate per ordine della Società medesima”, XXII (1872), p. 18.

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fi aschi a doppio collo, dei quali mi sembra di dovere sperare buon effetto».(118) In questo modo il fi asco stesso funziona da tappo colmatore, poiché lo «si fa entrare nella botte per un foro praticato nel tappo del cocchiume, e si fa scender poco in modo che termini presso la superfi cie inferiore del tappo. Per l’altro collo che rimane in alto, si riempie di vino completamente non solo la botte, ma ancora il fi asco che, così pieno, vien chiuso con un buon turacciolo da bottiglie».(119)

Il sistema, così pensato, permetteva di riempire il fi asco che spontaneamente, per il principio dei vasi comunicanti, avrebbe mantenuto a livello il vino dentro la botte, provvedendo a compensare le perdite dovute alla naturale evaporazione dell’acqua e dell’alcol e dal naturale assorbimento del prodotto dal legno del vaso vinario.

Alle rifl essioni di Pasteur va anche ascritta la buona norma di tenere costante la temperatura delle cantine, in modo che le fermentazioni, generate dai lieviti attivi fra i 10°- 30°C, non subissero continue interruzioni, garantendo così un risultato maggiormente omogeneo. Sfruttando poi lo stesso principio, il riscaldamento del vino fu indicato come metodo per “curare” produzioni che avessero già subito alterazioni sensibili. Pertanto, nel caso in cui il vino presenti un inacidimento, comunemente chiamato spunto(120) ancora in stato embrionale, prima cioè che la malattia si manifesti pienamente rendendo del tutto irrimediabile il danno, è possibile agire riscaldando il prodotto dentro un paiolo di rame posto sulla fi am-ma fi no a una temperatura di circa 50°C. Chiaramente un intervento di questo tipo, se da una parte ha il merito di distruggere i microrganismi responsabili e di riportare il vino a un sicuro livello di igiene, dall’altra porta a un inevitabile appiattimento del profi lo organolettico della bevanda.

Dagli anni Settanta del XIX secolo, si cominciò a diffondere lentamente in Italia una pratica già da tempo applicata Oltralpe: la vinifi cazione in bianco, cioè la produzione di vini bianchi da uve a bacca rossa, metodo defi nito comunemente come “alla francese”. Tale pratica conobbe una certa ribalta quando più forti si fecero gli attacchi dei fi tofagi della vite e molta parte dei raccolti venne com-promessa. Allora, pur di non mandare a monte l’intero vendemmiato, si tentò un salvataggio estremo facendo vino dall’uva malata «stringendo la vinaccia col torchio e ponendo il solo mosto a fermentare in una botte. Questo vino bianco [ottenuto però da uve in massima parte nere], che venne detto “francese”, riuscì

(118) Ibid., p. 25.(119) Ibidem.(120) Lo spunto, è classifi cato come una malattia del vino causata da batteri aerobi, i batteri

acetici, soprattutto del genere Acetobacter. Lo spunto rappresenta l’inizio della malattia, che si trasforma in vera e propria acescenza, del tutto irrimediabile, qualora la quantità di acido acetico, dovuta all’ossidazione dell’alcol etilico, aumenti notevolmente incrementando l’acidità volatile.

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sempre assai buono, e molto migliore e più durevole di quanto avrebbe potuto sperarsi al vedere l’uva dalla quale veniva ricavato».(121)

L’applicazione di tale metodo a uve sane, «di buona qualità tutte nere», portò a grandi risultati, producendo «un vino vivace di un gusto molto simile a quello della Champagna», ma queste sperimentazioni rimasero sempre marginali nel Bolognese, non trovando mai grande seguito.

Nello stesso periodo, anche allo studio della coltivazione della vigna fu concesso un rinnovato spazio, cominciando a riconoscere in questo arbusto rampicante una fonte di guadagno con ottime prospettive di crescita.

Così la coltivazione della vite cominciò il suo lento cammino sulla via di un proprio riconoscimento come coltura a sé stante, senza bisogno di essere per forza affi ancata ad altre coltivazioni agricole.

In un’adunanza del 1873, Filippo Bianconcini difese l’importanza di una viti-coltura che, anche nel Bolognese, godesse di una cura affatto secondaria a quella della canapa con cui spesso, e in modo molto dannoso, si trovava a condividere il terreno. Secondo l’autore, era necessario anzitutto affrontare l’erronea convinzione che la viticoltura non rappresentasse un buon investimento; al contrario, secondo le stime fatte in un terreno propizio, un vigneto ben impiantato poteva avere un ritorno economico pari, se non addirittura superiore, a quello della canapa. La chiave per ottenere questi risultati era differenziare i terreni studiandone le naturali predisposizioni e non continuare a coltivare indiscriminatamente senza cercare di fare scelte ragionate e appropriate.

Il primo passo, sottolinea il relatore, consisteva nel separare, una volta per tutte, le due coltivazioni. Mentre, infatti, la vite poteva produrre vini discreti, anche se maritata a sostegni vivi secondo l’uso locale, nei terreni a frumento asciutti e soleggiati, non altrettanto poteva dirsi per le zone umide normalmente indicate alla coltivazione della canapa. Per giunta, la coltivazione intensiva della graminacea prescriveva l’uso massiccio delle concimazioni azotate, un vero veleno per la prosperità della vite. Altro aspetto da correggere, per quanto riguarda le tecniche di coltivazione, era la dannosa abitudine di coltivare indiscriminatamente i numerosi vitigni che allignavano sullo stesso territorio. Se è pur vero, infatti, che la vite predilige la collina, a cui spetta una produzione «adatta al commercio estero», è altrettanto vero che anche i terreni di pianura potevano essere dedicati alla coltivazione di viti monovarietali per soddisfare le esigenze del consumo interno. Con dignità, quindi, la pianura poteva produrre vini sani, equilibrati e di buona serbevolezza, che nulla dovevano invidiare ai comuni vini da pasto, se solo l’agricoltore fosse stato incentivato a seguire alcune regole colturali.

Bianconcini passa a illustrare tutte le tecniche agronomiche ritenute maggior-

(121) Ibid., p. 27.

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mente valide per la coltivazione viticola, tenendo conto della matrice argillosa e silicea del territorio. Prassi fondamentale – dice – è quella di praticare un buono scasso del terreno, che deve essere mantenuto sempre pulito da erbacce o rifi uti di qualunque tipo, per evitare che le acque, in queste zone abbondanti sia nella stagione invernale che in quella estiva, ristagnino e facciano imputridire le radi-ci della vite che, per sua natura, non ama l’eccessivo contatto con l’acqua. Per questo i fi lari devono essere piantati secondo un sistema detto a cavalletto,(122) cioè sostanzialmente sul colmo di due fossi che corrono paralleli alla lunghezza dei campi (Fig. 11). I fi lari devono essere poi ben distanziati fra loro, massima-mente se vengono utilizzati sostegni vivi, preferibilmente olmi, che debbono comunque essere sempre capitozzati a un’altezza di 80-90 cm da terra, come consigliato anche da altri importanti studiosi bolognesi del calibro di Berti-Pichat, per facilitare le operazioni di vendemmia e per favorire la giusta maturazione dei grappoli.(123) L’innovazione dell’impianto coinvolge anche la vite, che deve essere mantenuta bassa perché «non ha chi non sappia come quanto più salgano i sughi, tanto meno di glucosio rechino ai grappoli», causa fi sica a cui si sposa una rifl essione empirica, «che quanto più questi [i grappoli] si trovano in alto, tanto meno godono del calore rifl esso dalla terra, il quale è utilissimo alla sollecita e completa maturazione loro».(124) Anche la potatura dei tutori vivi deve essere altrettanto rigorosa, «sopprimendo negli alberi i rami che si vanno a incrociare dall’uno all’altro, e che ombreggiano i sottoposti festoni». «Per tal modo», si giustifi ca l’autore, «si diminuisce, è vero, il raccolto della foglia degli olmi; ma se si pensa che quella maggior quantità di foglia si otteneva a prezzo della cattiva riuscita delle uve e del minor raccolto dei campi, non può essere dubbio che non s’abbia a procurare di provvedere al bestiame diversamente».(125)

A poco più di un anno di distanza dalle raccomandazioni esplicitate da Bian-concini nell’aula dell’Archiginnasio, le stesse tematiche, anche se ampliate in alcune parti, vennero nuovamente dibattute nell’intervento di Francesco Marconi,

(122) La tradizionale sistemazione “a cavalletto” si caratterizzava per la presenza di due unità colturali affi ancate, una destinata alla coltura erbacea (detta anche morello o canapina) e l’altra destinata alla coltura arborea (il cavalletto propriamente detto, occupato dal fi lare delle viti maritate all’olmo). Le unità colturali erano delimitate lungo i loro lati maggiori da scoline fi sse e, lungo le testate, da strade campestri (cavedagne). La superfi cie delle unità colturali era accuratamente modellata a pa-diglione, cioè con baulatura tanto trasversale che longitudinale. I cavalletti avevano una larghezza di 4-6 metri, i campi di 30-36 metri.

(123) F. Bianconcini, Cenni sulla coltivazione della vite nella pianura bolognese, “Annali dell’Ac-cademia Nazionale di Agricoltura”, 13 (1873), pp. 1-15, in particolare pp. 7 sgg.

(124) Ibid., p. 12.(125) Ibid., p. 13.

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che nel 1874 ricoprì la carica di vice-presidente dell’Accademia. Le sue rifl es-sioni partono dall’amara constatazione che l’Unità d’Italia da poco conquistata non aveva portato le migliorie sperate, di fatto lasciando prive del necessario sostentamento economico le regioni desiderose di rinnovamento. «L’agricoltore» commenta «vincolato da un sistema che per sua natura si muove lentamente, mentre da una parte deve prestar mano a tutte le opere di progresso, non giunge dall’altra che molto tardi a raccogliere il frutto adeguato delle sue fatiche».(126) La situazione descritta è talmente grave, da comprendere le ragioni della reticenza degli agricoltori a dare il proprio consenso ogni qual volta veniva proposto loro un cambiamento, inevitabilmente spaventati dall’idea che ogni innovazione si traducesse in un aumento del lavoro e delle spese. A queste preoccupazioni si aggiunge la confusione delle voci e delle teorie su cosa fosse meglio fare per

(126) F. Marconi, Sopra alcune controversie risguardanti la coltivazione della vite, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 14 (1874), pp. 93-109, in particolare p. 93.

Fig. 11 - Profi lo e planimetria di un terreno vitato secondo lo schema proposto da Mas-similiano Rosa per il suo Tenimento modello: arboratura e viti. In: “Annali della Società Agraria di Bologna”, 15 (1875), p. 49.

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ottenere migliori risultati, causando effetti contrastanti: per tanti agricoltori che si dedicavano con operosità a migliorare la propria capacità produttiva, altri restavano immobili, confusi sul da farsi.

Marconi sostenne fortemente la necessità di utilizzare per la coltivazione della vite soltanto talee selezionate, possibilmente di vitigni autoctoni, meglio adatti al terreno, di rispettare tempi di piantagione perché non si allunghino, come invece spesso capita nel bolognese, oltre il mese di Aprile, per evitare di accorciare i tempi «di vegetazione dei germogli, che accrescono il numero delle talee che non attecchiscono, ed obbligano a porre le talee stesse a troppo grande profondità».(127) Secondo l’autore, le talee avrebbero dovuto presentare, preferibilmente una «doppia gemmatura», per far sì che minori potessero es-sere le possibilità di «gemme cieche», mentre all’impianto del vigneto doveva essere necessariamente riservato un terreno adatto e ben soleggiato. Tecniche imprecise provocavano spesso gravi problemi anche nella produzione collina-re del territorio bolognese, generalmente considerata la più pregiata, e questa scarsa lungimiranza degli agricoltori – lamenta il relatore – provocava un grave «disinganno di coloro che acquistando alla carlona uva dei colli e, tenendola sempre come squisitissima, trovano poi ch’essa è quasi germana di quella delle canapaie!».(128)

Nel mettere a dimora la vite(129) è importante utilizzare le corrette tecniche di potatura, saper rispettare i tempi necessari alla pianta per germogliare e fruttifi -care e, ancora di più, riuscire a gestire in maniera corretta la concimazione. Su questo ultimo punto si concentravano gli studi e le raccomandazioni di Marconi, dovute alle molteplici e contrastanti opinioni che si esprimevano variamente a tale riguardo. C’era, infatti, chi sosteneva la necessità di concimare molto la vite con il letame, chi ammetteva la concimazione ma escludeva decisamente l’impiego dello stallatico, chi invece, tagliando corto, ricordava che la vite diventa più produttiva se sofferente e, quindi, non prevedeva nessun tipo di arricchimento del terreno. L’autore cerca di fornire per ogni casistica una risposta esauriente, sottolineando come ogni diverso problema che ci si trovi ad affrontare necessiti di risposte differenziate, dai risultati fra loro anche contrastanti. «Ecco adunque che invece di escludere gl’indicati concimi, non abbiamo a fare altro che saper trovare a ciascuno l’opportuno collocamento. E per uscire dalle generali dirò: vuolsi rafforzare la vite? Giovano il letame e i terricci. Si mira alla fi nezza del-

(127) Ibid., p. 94.(128) Ibid., p. 96.(129) Il termine tecnico “mettere a dimora” identifi ca propriamente l’atto dell’impianto del vigneto,

partendo dalle giovani, e ancora improduttive, piante di vite. Dopo il fl agello fi llosserico, come è noto, l’impianto dovrà essere fatto con barbatelle innestate sul piede delle viti americane, resistenti all’attacco dell’afi de.

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l’uva? Provano bene le sostanze minerali, massime se ricche di potassa, di calce e di acido solforico. In qualunque caso giova il concimar le viti costantemente e a brevi intervalli».(130)

Il sistema di allevamento delle viti vide nel corso del tempo cambiamenti che subirono una brusca impennata proprio in questo giro d’anni. Per lungo tempo la vite bolognese si era arrampicata sugli alberi, aveva resistito alle molte critiche che erano state rivolte dagli altri paesi produttori a questo tipo di allevamento, ma sostanzialmente l’economia agricola della regione era rimasta a lungo iden-tica a se stessa. Ora, grazie all’apertura verso una nuova realtà nazionale che lanciava una nuova scommessa commerciale, le cose cominciarono a cambiare: si fecero sempre più frequenti, anche nel territorio bolognese, le sperimentazioni di nuovi sistemi di allevamento, importati dalle esperienze di altre regioni. Così per esempio, «nelle province meridionali troviamo vitigni che si reggono da sé senza pali, in forma quasi di piccoli alberetti alti sino a 80 centimetri e che danno anche uve buone. E qui da noi si potrebbero, senza dubbio, con buon costrutto, coltivare viti senza sostegno, nelle nostre terre di pianura, ove più che la qualità si cerca la quantità del prodotto, per farne vino da pasto comune».(131)

Particolare attenzione alla tematica sarà prestata dai molti soci che parteciparono alla lettura di Marconi, tanto da animare un lungo elenco delle sperimentazioni che si erano fatte sul territorio.

Buoni risultati aveva ottenuto il sistema di allevamento a Guyot, costituito da un unico tralcio rinnovabile, teso parallelamente al terreno su fi li di ferro. In col-lina, dove di notevole estensione sono i terreni coltivati a vigneto, buoni risultati sono ottenibili, secondo l’esperienze fatte dall’ingegnere Belvederi, con il sistema Cazenave, simile al precedente ma più economico nel suo mantenimento, grazie alla presenza di un cordone permanente recante tralci rinnovabili (Fig. 12).

Nel «Bullettino Ampelografi co» datato 1879, «la natura dei terreni bolognesi» è defi nita come «generalmente adatta alla coltura della vite, [...] non facendovi eccezione che l’alta nostra regione montana ed i terreni palustri della nostra bassa pianura, solo atti all’umida coltura».(132)

Nell’indagine fatta dal Ministero la coltivazione della vite in provincia risulta articolata in un doppio registro: quella di pianura e quella di collina. In pianura «(fatta qualche rara eccezione) la vite è coltivata alta, a lunga potatura, disposta in fi lari ed affi data agli alberi»,(133) che sono generalmente olmi e aceri piantati alla distanza di quattro metri in alta pianura, salici e pioppi nella parte più bassa.

(130) Ibid., p. 98.(131) Ibid., p. 107.(132) Provincia di Bologna, Cenni sulla viticoltura, “Bullettino Ampelografi co”, fasc. XXII (1879),

pp. 404-428, in particolare p. 404.(133) Ibidem.

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Fig. 12 - Viti allevate secondo il sistema Guyot (sopra) e Cazenave (sotto).

I vitigni che trovavano qui maggiore spazio erano, per la parte alta della pianura, nei terreni agricoli normalmente condivisi col frumento, molte uve bianche fra cui predominavano l’Alionza, il Montuni, e la Forcella; nei terreni più bassi, cioè nelle cosiddette canapaie, facevano da padrone le varietà più resistenti e produttive: l’Uva d’oro, o Fortana, a bacca rossa, e la Pomoria, a bacca bianca. La collina rappresentava la vera riserva enologica bolognese. Qui la viticoltura restava la coltivazione principale, data la grande vocazione dei terreni per cui

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«la vite suol trovarsi fi no al limite inferiore della regione del castagno»(134) e qui «oltre ai soliti fi lari di viti all’albero [...] spesseggiano le vigne propriamente dette, cioè la vite bassa od a mezzana altezza, a corta ed a media potatura, sostenuta da palo secco».(135)

È un’affermazione importante. È la prima volta, infatti, che è riconosciuta e difesa apertamente l’idea che la produzione viticola risulti più fl orida e di qualità migliore là dove le vigne sono allevate, in impianti specializzati a loro destinati con l’impiego di pali secchi, senza l’uso di tutori vivi, che, sebbene avessero già da qualche tempo perso l’importanza che avevano all’inizio del secolo per l’alimentazione animale, ugualmente restavano un prezioso complemento. «Da qualche anno» ci informa il relatore «la coltura della vigna ha preso sui nostri colli uno sviluppo importante, investendosi a vigneti tutti quei tratti di terreno o plaghe, specialmente a forte declivio, che sarebbero poco suscettivi per altra coltura. Da qualche proprietario, attratto dal subito guadagno, si procede talvolta inconsultamente al disfacimento di boschi per formarne vigneti, donde frane e lavine che non sarebbesi verifi cate, che sono la conseguenza quasi necessaria dei lavori di scasso».(136) La varietà maggiormente presente nei terreni collinari è il Negrettino, un’uva nera, molto resistente e produttiva, autoctona di queste zone che trovava un grande apprezzamento nei mercati locali.

Il panorama ampelografi co bolognese presentava, in realtà, una enorme varia-bilità, di cui variamente si occuparono numerosi studiosi nel tentativo di fornirne un quadro preciso.

Utilissimo da questo punto di vista il lavoro condotto da Giuseppe Bertoloni che nel 1843 pubblicò una Memoria contenente un approfondito studio sulla frutticoltura bolognese, ivi compresa la viticoltura. Le numerose varietà di vitigni furono coltivate in un unico podere, per studiare così la diversa qualità delle uve e poter procedere a una scelta mirata dei vitigni utili a nuovi impianti e quelli, invece, trascurabili. Le talee furono raccolte in tutta la provincia, etichettate e trasferite nel podere di S. Silverio (Predio Bel Poggio), di proprietà dell’Ac-cademia, realizzando una collezione di 38 varietà, «distinte dai seguenti nomi vernacolari», riportate nella tabella 2:(137)

Nonostante i molti cambiamenti che si stavano verifi cando nelle modalità di coltivazione, la viticoltura a Bologna era ancora complicata da una serie di errori e promiscuità che portavano nel vigneto varietà di uve differenti, bianche e nere, precoci e tardive, tutte mescolate indiscriminatamente lungo i fi lari. Senza nes-

(134) Ibidem.(135) Ibidem.(136) Ibid., p. 405.(137) E. Baldini, I Bertoloni e la scienza dei frutti, in: Testimonianze Accademiche, Bologna, 2007,

pp. 27-50, in particolare p. 29.

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Tabella 2 - Nomi “vernacolari” dei vitigni raccolti da G. Bertoloni nella collezione del podere San Silverio dell’Accademia di Bologna.

1. - *2. - *3. - *4. Pizzuttello di Tivoli5. Trilia, ossia Galletta nera corta6. Lugliatica bianca primaticcia7. Una insigne varietà di Leonzo, nata per caso nell’orto Agrario, che produce il frutto succes-

sivamente tre volte l’anno.8. Galletta bianca nostrale.9. - *10. Uva che produce il vino scolorato come l’acqua. Questa varietà fu introdotta dal conte Filippo Re.11. Lugliatica comune.12. Moscadello comune.13. Salamanna.14. Moscadellino, impropriamente chiamato Monferato nei poderi Fornaciari di Gaibola.15. Uva Formiga o Formica.16. Aliatichetto.17. Vernaccia.18. Aleonza.19. Trebbiano o Torbiano.20. Paradisa.21. Guajarona rossa, si conserva nel verno.22. Barbarossa, uva eccellente, da me introdotta e che ne’ colli di Zola fruttifi ca a perfezione

come in Lunigiana donde la trasportai.23. Vernaccia a grano grosso.24. Sgavetta.25. Montuno.26. Malvaggia.27. Ciocca.28. Aleatico nero.29. Querciola.30. Albana rada.31. Barbesino.32. Berto rosso. Questa varietà bolognese, da un lavoro ch’io feci con il Cav. Gallesio intorno

alle nostre uve, risulta corrispondere così alla detta uva di Bertinoro che è pregevolissima. Nelle nostre colline non è molto frequente ed i coloni per lo più la serbano, come la Paradisa, per qualche tempo.

33. Albana.34. Passolina nera derivata dalle isole Jonie ed è acclimatizzata.35. Selvatica nera.36. Moscadello rosso grosso.37. - *38. Candia nera, che si coltiva ne’ beni Fagoli nell’imolese. Uva che dà molto pregio per la

fabbricazione del vino.

(*) Nel trasporto delle talee andarono smarriti i cartellini recanti i nomi delle varietà corrispondenti ai campioni n° 1-2-3-9 e 37.

74 IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

suna cura queste uve erano vinifi cate alla rinfusa «giunta l’epoca in cui credesi che la maggior parte delle uve abbia raggiunto un suffi ciente grado di maturità», comportamento dovuto in parte al desiderio di scongiurare le frequenti ruberie, ma causato anche dall’incredulità di certi vignaioli che restavano «nell’ignoranza del vino speciale che danno da sole molte delle nostre uve».(138)

Le grandi diffi coltà ad adottare sistemi di vinifi cazione adatti rimase uno dei problemi centrali nella viticoltura bolognese, tanto da essere ben presto indicato come uno dei suoi più forti limiti. Pur riuscendo, infatti, a produrre in annate favorevoli vini piacevoli, mancava ancora al vino emiliano la costanza che, sola, può permettere al prodotto di varcare i confi ni regionali e proporsi al mercato nazionale e internazionale.

Il mercato italiano del vino cominciò ad avere una crescita esponenziale in questa seconda parte del XIX secolo, dovuta proprio alla grande crisi che si abbatté sulla produzione francese a causa delle malattie crittogamiche e della Fillossera che iniziarono il loro distruttivo attacco proprio in questi territori. La richiesta del mercato fi nì per sormontare l’offerta che la produzione francese poteva garantire, e si dovette rivolgere l’attenzione verso altri paesi produttori. L’Italia si inserì in questo frangente e, sfruttando il breve lasso di tempo che il contagio fi llosserico impiegò a raggiungere queste zone, riuscì a concretizzare quasi ovunque una ricchezza improvvisa e insperata, un commercio frenetico che tollerava, senza protestare, anche le più basse alterazioni perché, in un mondo abituato a bere vino, congiunture tanto disastrose e una tale penuria della bevanda non si erano mai registrate. La condizione bolognese appare allora tanto più inadeguata se si tiene presente questo quadro generale; allora bene si comprenderanno le lamentele pressanti dei proprietari terrieri che non riuscivano a inserirsi in un circuito che aveva rapidamente trasformato e arricchito altre regioni italiane.

In questo frangente quelle che erano regioni già grandi produttrici, come la Toscana e il Piemonte, migliorarono di molto il proprio giro d’affari, ma anche altre zone, che solo allora cominciavano a essere conosciute al di fuori della propria realtà, come Puglia, Campania e maggiormente Sicilia,(139) realizzarono grandi guadagni e moltiplicarono gli spazi colturali dedicati alla vite, che fi nì per salire, con nuovi impianti, anche sulle pendici dell’Etna.

Questo atteggiamento dei vignaioli italiani, che poco si preoccuparono del fl agello che inevitabilmente, di lì a poco, si sarebbe abbattuto anche sui nostri territori, puntando invece ai facili guadagni vendendo il vino italiano ai francesi, fu una delle prove della poca lungimiranza degli imprenditori made in Italy.

(138) Ibid., p. 406. (139) F. Bevilacqua, Situazione presente della viticoltura in Italia e proposte per un migliore avvenire

(per ciò che concerne la viticoltura), “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 26 (1886), pp. 19-34, in particolare p. 22.

75IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

L’errore più grave fu quello di non creare un’affi liazione all’offerta enologica italiana. Il mercato era all’epoca talmente ricettivo da riuscire a vendere anche un prodotto di infi ma qualità, ma questo non poteva certo portare un ritorno commerciale duraturo, ancor meno se anche il vino migliore, come accadde, continuava a essere venduto sotto bandiera straniera.

Negli anni attorno al 1880, la produzione di vino in Francia si dimezzò, e questo diede agli speculatori la possibilità di approfi ttarne senza neppure lontanamente colmare il defi cit nazionale.(140) In questi anni, infatti, le vigne di Bordeaux erano state quasi completamente rase al suolo, ma la produzione, seppur con diffi coltà enormi e tagli massicci con vini di altra provenienza, non cessò mai del tutto e gli amanti di questo vino, chiudendo entrambi gli occhi sulle diversità che pure dovevano essere macroscopiche, continuarono a stappare bottiglie con le effi gi dei più prestigiosi Châteaux.

Nello stesso periodo anche le importazioni di uva passa dalla Turchia e dal-la Grecia conobbero un’improvvisa impennata, passando da poche tonnellate annue, per uso esclusivo della pasticceria, a oltre un milione di tonnellate. La “corsa all’uva passa” era accompagnata dalla pubblicazione di prontuari del tipo: «Come fare il vino con l’uva passa», opuscolo che ebbe in sei anni ben dodici ristampe.(141) Nei momenti di maggiore diffi coltà, la ricetta venne diffusa pub-blicamente: «Prendete cento chili di uva passa ben tritata, aggiungete trecento litri di acqua riscaldata a trenta gradi centigradi, e lasciate fermentare per dodici giorni. Spremete, e avrete trecento litri di “vino” a dieci – undici gradi, che dopo la chiarifi cazione e la solforazione, potrete vendere così com’è o mischiare con altro vino rosso leggero».(142)

Nonostante la quantità dei rimedi più o meno leciti approntati per supplire alla mancanza di vino, molti furono coloro che si rivolsero verso il consumo di altre bevande fermentate, come per esempio la birra, che registrò, in collimazione con la propagazione del contagio fi llosserico, un notevole balzo in avanti nei consu-mi di quei territori che erano universalmente identifi cati come “consumatori di vino”.(143) L’affermazione di questa bevanda ebbe, proprio in questa occasione, la sua più importante vetrina nei paesi mediterranei, che impararono ad apprezzarla tanto da riservarle uno spazio indipendente nei propri consumi anche dopo la fi ne dell’emergenza, trasformandola in una valida alternativa al vino. Da questa invasione pacifi ca nacque la possibilità, ancora oggi condivisa, di poter scegliere l’una o l’altra bevanda, in base al cibo o al gusto personale.

(140) T. Unwin, Storia del vino, geografi e, culture e miti dall’antichità ai giorni nostri, Roma 1993.

(141) H. Johnson, Il vino, storia, tradizioni, cultura, Roma 1991, in particolare p. 618.(142) Ibidem.(143) Unwin, Storia del vino, cit. p. 138.

76 IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

A Bologna operazioni di marketing simili a quelle messe in campo dalla Francia, e più ancora, il tentativo estremo di mantenere saldo il timone del com-mercio di vino nel mondo, era del tutto impensabile. Nonostante la presenza di «enotecnici» presenti nella provincia, ugualmente le conoscenze e gli spazi per un confronto diretto sul territorio restavano sempre minimi. Le ricerche ampe-lografi che, che pure cominciavano a essere condotte sul territorio, non portarono a risultati certi; spesso le indagini venivano affi date a semplici questionari che venivano compilati da chi non aveva competenze oggettive per ricostruire paren-tele o legami fra i vitigni, non riuscendo così a dare una corretta denominazione alle diverse tipologie varietali. L’operazione era per giunta complicata da una scarsa cultura in materia, per cui i vitigni, a seconda della singola frazione in cui venivano coltivati, presentavano nomi diversi e quasi sempre diversi dalla corretta denominazione tassonomica.

Questa varietà di iperboli fantasiose creava nei compilatori degli inventari ampelografi ci delle evidenti confusioni, che si rispecchiavano ora in palesi erro-ri, e quindi facilmente correggibili, ora in dubbi più subdoli, che non potevano essere risolti se non attraverso un controllo diretto da parte di esperti che però diffi cilmente potevano visionare ogni vigneto dell’intero territorio provinciale. Mancava, insomma, una rete educativa e un polo di organizzazione preparato alla gestione di simili problematiche. In questo l’Accademia di Agricoltura mostrò uno dei suoi più evidenti limiti. Nonostante grande fosse il merito di riuscire a dare voce alle problematiche presenti e di fornire una vetrina dove si potesse dar risalto alle conquiste tecniche internazionali, mancò, in questa fase, una primitiva operazione di indagine, una più attenta pianifi cazione territoriale. Il tentativo di avere una mappatura della coltivazione viticola della provincia fu fatto, a più riprese e con sincero impegno, ma sempre con risultati approssimativi. Come appare dalla tabella 3, molteplici sono gli errori sia fra i vitigni locali che fra quelli “importati”: la confusione fra vitigni a bacca bianca e quelli a bacca rossa è generata probabilmente dai differenti nomi con cui venivano appellati gli stessi vitigni nelle diverse zone, in alcuni casi con pericolosi casi di omonimia. Vitigni come il Sangiovese e il Marzemino avevano una tale diffusione nel territorio che non è possibile ammettere che non fossero conosciuti e sicuramente identifi cati come vitigni a bacca rossa, mentre sulla corretta identifi cazione dei vitigni minori restano molti dubbi. L’Occhio di pernice, per esempio, è presente in entrambe le elencazioni, ma il nome, che ricorda da vicino quello di un vitigno friulano ancora molto diffuso,(144) lascia spazio a molte incertezze sulla sua reale appar-tenenza ai vitigni a bacca bianca; perplessità rafforzate per altro da un già noto

(144) Si fa riferimento al vitigno Refosco occhio di pernice, che identifi ca un pregiato clone del più comune vitigno Refosco.

77IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

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78 IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

esempio che testimonia come in Emilia - Romagna ci fosse stato, durante la tarda epoca imperiale, un contatto fra i due territori. Provato lo stanziamento storico di alcuni gruppi originari del Friuli nelle zone bonifi cabili intorno alla città di Ravenna nella tarda età imperiale, è ipotizzabile, che a tale contatto fosse seguita un’importazione in questa zona di prodotti friulani. Da qui, come in un altro caso già conclamato,(145) potrebbe essere partita la diffusione di questo vitigno anche nel territorio emiliano.

Al di là del singolo esempio, una parte dei vitigni viene ripetuto pressoché identico sia nella schiera dei vitigni a bacca bianca che fra quelli a bacca rossa. Se è possibile ammettere che per alcune tipologie, come nel caso dell’Albana,(146) esistano entrambe le varietà, non è ammissibile che possa essere così per tutte le specie indicate, soprattutto in mancanza di documentazione che testimoni tale ricchezza di cultivar. È necessario supporre che questi elenchi(147) non riuscissero ad avere la precisione cercata, e, peggio, che mancasse una valida regia in fase di compilazione delle elaborazioni fi nali. Molta parte delle informazioni resta così compromessa, e la sensazione fi nale è quella di essere di fronte a una trascrizione non affi dabile. Quello che però resta rilevabile è la grande quantità di vitigni di origine francese presenti nel territorio bolognese, cosa che testimonia la grande circolazione del patrimonio ampelografi co e giustifi ca l’ancora altissima presenza odierna in molta parte dell’Emilia-Romagna di tracce di vitigni d’Oltralpe. L’adat-tamento di questi al microclima locale e la fama del paese d’origine, fecero la fortuna di queste varietà che conobbero una rapida espansione in tutte le province emiliane, con particolare affezione nelle zone del Piacentino, del Reggiano e del

(145) Il Terrano, è un vitigno di origine balcanica, molto diffuso nelle zone del Piave e naturaliz-zato in Romagna dove ha dato origine a un vino, una delle Doc della regione, molto lontano dall’antico fratello friulano. Il vitigno in Friuli dà vita a un vino molto potente e alcolico, mentre nelle grasse terre delle colline romagnole, produce un vino dolce e di pronta beva, adatto alla fi ne del pasto e conosciuto col nome di Cagnina. La storia di questa “importa-zione” si fa risalire ai tempi del trasferimento dei poteri politici dell’Impero romano d’Oc-cidente alla città di Ravenna, che richiamò molteplici maestranze per la decorazione degli spazi architettonici della città. Fra queste, numerose maestranze friulane, apprezzate per la precisione dei propri scalpellini che spesso, dopo lunghe permanenze, si stabilirono in zona importando anche parte dei propri prodotti gastronomici, fra cui le uve.

(146) Sebbene oggi sia coltivata quasi esclusivamente la varietà a bacca bianca, esiste anche una varietà di Albana a bacca rossa, detta Albana Nera. Il vitigno un tempo piuttosto diffuso nelle campagne della Regione, dopo i nuovi impianti post-fi llosserici fu quasi ovunque so-stituito dalle varietà scelte per produzioni di qualità, sopravvivendo soltanto in qualche raro appezzamento. Oggi si tenta un reinserimento produttivo del vitigno in nome dell’autoctonia, ma, per ora, con scarsi risultati.

(147) L’invio dei questionari fu in gran parte voluta dalla nuova attenzione per la rivalutazione e ricerca dei vitigni autoctoni e sostenuta dalla «Commissione Ampelografi ca», fondata nel 1875 per perseguire tale scopo.

79IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

Bolognese. Non solo vitigni francesi trovarono importanza in queste terre, ma in generale godettero di grande attenzione tutti i grandi vitigni, tutti quelli che, con la propria fama, avevano varcato la soglia della propria territorialità imponendosi sul mercato, con largo spazio concesso, quindi, a quelli piemontesi. Il vitigno Barbera, in particolar modo, seppe adattarsi molto bene al territorio sviluppando un proprio fenotipo con caratteristiche organolettiche e genetiche originali, tanto da essere annoverato oggi fra i vitigni autoctoni della zona.

4.2. L’Oidio. Una malattia antica?

Durante la prima metà del XIX secolo nelle campagne bolognesi cominciò a diffondersi un morbo che, in poco tempo, decimò il raccolto delle uve, che non soltanto fu drasticamente ridotto, ma risultò anche di scadente qualità.

Il fenomeno indusse l’Accademia di Agricoltura a occuparsi dell’accaduto per cercare di trovare una univoca risposta sulle cause. La reazione non fu però subitanea, si attese il ripresentarsi del problema per diverse annate consecutive prima di pensare di doverlo affrontare apertamente per cercare collettivamente una qualche soluzione per risolverlo una volta per tutte.

Nella relazione fatta in proposito da Gaetano Sgarzi, socio ordinario dell’Ac-cademia, la situazione appare notevolmente compromessa: «negli ultimi due anni trascorsi, per maligna infl uenza atmosferica, una fatale alterazione si manifestò nelle nostre viti, per cui dal macchiarsi all’avvizzire fu breve il passo; non pro-dussero quindi frutto, ed in quelle che ebbero il frutto, fu d’un tratto macchiato, fesso, mortifi cato; di guisa che nelle misere piante che ne furono colpite rimasero patenti le tracce di causa morbosa, di vegetazione interrotta, di tabe o di morte violenta e precoce».(148)

A Bologna, le più tempestive ricerche intorno alla crittogama, identifi cata genericamente come Oidio, furono condotte da Giuseppe Bertoloni e Paolo Predieri che, per primi, cercarono di trovare l’origine di questa malattia, inda-gando se mai, prima di allora, si fosse manifestata o se vi fossero esperienze simili a cui potersi rifare. La ricerca di precedenti manifestazioni riconducibili a ciò che stava accadendo condusse i due ricercatori molto più lontano di quanto probabilmente si sarebbero aspettati, riconoscendo, senza però una possibile riprova scientifi ca, un antenato dell’Oidio in una malattia trattata nella Historia plantarum di Teofrasto, fi losofo aristotelico del III secolo a.C. Nell’ottavo libro dell’opera è descritta una patologia chiamata Crambus, che presentava, secondo Bertoloni, molti punti di contatto col male affrontato in quegli anni dai bolognesi.

(148) G. Sgarzi, Sulla malattia dell’uva. Sunto storico ed esperienze chimico – igieniche, “Memorie lette nelle adunanze ordinarie della Società Agraria della Provincia di Bologna pubblicate per ordine della Società medesima”, VII (1852-1853), pp. 247-276, in particolare p. 247.

80 IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

«Che il Crambo o ruggine, o malume di Teofrasto sia un morbo simile a quello osservato nel decorso biennio» sostiene lo studioso, lo dimostra «la stessa voce Crambos [che] corrisponde ad arido o bruciato, tale appunto presentandosi il grappolo dell’uva, allorchè specialmente abbia percorso tutti gli stadi del morbo, e quello si osservi nell’Ottobre così nero, e secco, attaccato alla pianta dopo la vendemmia dell’uva rimasta sana».(149) Traccia della malattia era stata registrata anche da Pier de Crescenzi nel suo trattato Liber ruralium commodorum,(150) e così a seguire da molti altri, ma secondo le ricerche di Bertoloni, è solamente nel 1787, grazie alle indagini al microscopio di Giovanni Targioni Tozzetti, che si riuscì a stabilire con certezza la natura fungina dell’Oidio.

La ricerca di un rimedio venne presto contrastata dalla nascita di nuovi dubbi circa la fatalità di questa malattia, se ci si trovasse insomma davanti a una reale patologia delle viti o invece di fronte alle conseguenze di nefaste congiunture astrali. Gli scienziati non presero decisa posizione contro l’ipotesi che a provo-care la diffusione del male fosse un «putrido miasma» presente nell’aria per il verifi carsi di strani equilibri stellari, per cui la superstizione dilagò senza riparo nelle campagne.

L’ultima decisa avanzata del «mal delle viti» partì dall’Inghilterra, dai «tepi-dari» di Margate e si estese rapidamente verso la capitale, interessando anche le viti «situate in spalliere»,(151) generalmente più resistenti. Il fenomeno fu studiato ex novo dallo studioso inglese Berckeley, da cui fu, fi nalmente, provata la natura fungina del morbo che prese il nome di Oidium Tuckeri, in onore del collaboratore dello scienziato, il signor Tucker, che per primo si era accorto del contagio delle viti in serra: siamo oramai nel 1848.

Nell’estate del 1852 a Bologna la malattia fu defi nita da Bertoloni «domi-nante», tanto che, «più tardi la vendemmia fece conoscere il non piccolo danno prodotto da un tanto malore, il quale dopo raccolta l’uva nemmeno arrestossi sulle viti, perciocché viemaggiormente si diffuse nell’autunno sui tralci novelli, sulle foglie, sui viticci e parti erbacee tutte, ed al quale succedette lo annerirsi quasi totalmente della superfi cie dei primi ed anche la morte di non pochi, mentre le foglie macchiate e corrotte si annientarono».(152)

L’ondata della malattia seguì le rotte commerciali, così come fece successiva-mente la più devastante Fillossera, passando dalle coste inglesi a quelle francesi e olandesi e fi nendo per colonizzare tutta l’Europa centrale e peninsulare nel giro di pochi anni.

La velocità del contagio da Oidio creò molta confusione sul modo di contrastarlo

(149) Ibid., pp. 249-250. (150) Ibid., p. 251.(151) Ibid., p. 253.(152) Ibid., p. 260.

81IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

e fi nì per far riemergere antiche paure mai completamente sedate: riapparvero a più riprese le teorie apocalittiche sull’insalubrità nefasta dell’aria. L’area bolo-gnese fu particolarmente colpita «sentendosi da alcuni pratici campagnoli che nel decorso anno [la malattia] fosse quattro volte maggiore del precedente», tanto da alimentare negli scienziati la convinzione che il disseccamento delle viti non fosse in realtà una patologia dovuta a una aggressione esterna, quanto una causa endemica, una sorta di difetto interno alle viti che le portava ad auto-distruggersi: un altro modo per esprimere la propria convinzione di impotenza di fronte al male. Che si credesse alle teorie dei miasmi aerei o all’auto-terminazione della pianta, il risultato fu il medesimo: grande lentezza nel prendere provvedimenti effi caci, una trascuratezza che l’ineluttabilità del male sostanzialmente giustifi -cava, portando a conseguenze che contribuirono non poco al diffondersi della malattia, che in breve si allargò a macchia di leopardo coprendo pian piano tutti i territori della provincia.

Per cercare di contrastare queste pericolose bugie, che avevano il triste van-taggio di convincere gli agricoltori molto più effi cacemente delle diffi cili teorie scientifi che dal linguaggio troppo sofi sticato, i soci dell’Accademia elaborarono prontuari dove tutto ciò che si era riusciti a sapere sulla malattia veniva elencato e minuziosamente spiegato, ma il risultato ottenuto fu quello di istruire i proprietari e non i coltivatori che, lasciati nell’ignoranza, continuarono a credere a ciò che più si avvicinava alle proprie convinzioni. In una campagna povera, con grandi problemi di integrazione sociale e la presenza di braccianti agricoli che vivevano ai limiti dell’indigenza,(153) risultava più facile credere a una catastrofe segnata piuttosto che a micro-funghi, e più tardi vedremo micro-insetti, che, pur essendo più piccoli di una mosca, riuscivano a causare danni enormi. La questione non poté che essere ulteriormente complicata dal progressivo affermarsi, sostenuto da stimati professionisti, che «lo sviluppo dell’Oidium della vite sia piuttosto effetto che causa della malattia, e che perciò la vite sia internamente malata prima dello sviluppo della parassita, e che per questo morbo interno, la vite sia atta a dare sostentamento ed alimento all’Oidium».(154)

La malattia si manifestava attaccando la pianta durante la fi oritura, impeden-dole, nella maggior parte dei casi, di arrivare alla piena formazione e maturazione dei frutti, per poi passare al fogliame, ricoprendolo con una polvere biancastra da cui prese il soprannome di «mal bianco». Il morbo, secondo le teorie del tempo, non si arrestava neppure durante la stagione invernale, restava silente per i mesi più freddi continuando a indebolire la pianta per poi riaccendersi, con

(153) Si veda a tal proposito quanto detto da uno dei soci più importati dell’Accademia, Carlo Berti-Pichat, nel suo intervento Speranze dell’agricoltore nella Società Agraria, del 1 Maggio 1842, in: Poni, Fossi, cit. p. 255.

(154) G. Sgarzi, Sulla malattia dell’uva, cit., p. 264.

82 IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

rinnovata forza, ai primi rialzi della temperatura, attaccando anche i tralci che presto inaridivano e seccavano. I rimedi tentati furono molteplici e inizialmente del tutto ineffi caci.

La fortuna dell’Italia, mal gestita in realtà, fu quella di essere stata coinvolta dal contagio in ritardo rispetto ai territori inglesi e francesi, che per primi do-vettero far fronte all’emergenza e mettere a punto le difese, poi replicate anche negli altri paesi aggrediti per cercare di spegnere tutti i focolai di contagio. L’Ita-lia poté quindi sfruttare l’esperienza altrui non dovendo cominciare le proprie ricerche da zero; tuttavia, per la scarsa lungimiranza degli addetti ai lavori, essa bruciò gran parte di questo vantaggio e degli altri a seguire, pensando a mettere a profi tto vendite più remunerative per il diminuire della concorrenza, piuttosto che prepararsi a sostenere la propria battaglia.

Le soluzioni proposte per riuscire a contenere i danni apportati dalla malattia e prevenire il dilagare del contagio furono molteplici, ma l’idea di base fu subito quella vincente: era necessario disinfettare le viti; la disinfezione era l’unica via per cercare di scongiurare quella che allora sembrò la minaccia di una vera e propria disfatta. Una delle soluzioni “disinfettanti” fra le più utilizzate fu la lozione di calce caustica; ma le problematiche più pressanti riguardarono da subito il come fare per applicare tali rimedi alla pianta e la giusta tempistica di somministrazione.

Sulla questione del come e del quando si cimentarono tutti i principali studiosi del fenomeno, sostenendo all’unisono come fosse necessaria l’applicazione di un rimedio esterno che avesse la proprietà di “attaccarsi” alla pianta e ai suoi frutti, fungendo da barriera contro l’aggressione della crittogama. Per quanto riguardò invece i tempi di somministrazione e la composizione del ritrovato curativo, ognuno continuò a dire la propria, causando spesso episodi di vera confusione nella teoria, e tanto più nella pratica.

Seguendo l’opinione di Bertoloni, che fu uno dei più attivi interventisti della compagine bolognese, «questa operazione di moltissima diffi coltà credetti po-tersi eseguire e tentare all’atto della potazione sì autunnale che di primavera, col detergere con lozione di acqua di calce caustica ed assai saturata i tralci novelli rispettati dalla potazione lasciandoli sciugare almeno tre o più ore dopo fatte le lozioni prima di legarli, perché praticamente vedevo che la mano dell’opratore altrimenti portava via la calce nello scorrere sul tralcio. Queste lozioni si esegui-scono o col mezzo di uno straccio bagnato nell’acqua di calce, o meglio ancora facendo passare con diligenza e destrezza il tralcio stesso, se si tratta di viti non molto alte, attraverso l’acqua di calce incurvandolo entro un largo recipiente che la contenga».(155) L’operazione si presentava così molto lunga, faticosa e da eseguire frequentemente; problema che si aggravava ancora di più per tutte le

(155) Ibid., p. 266.

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viti di pianura, in larga parte coltivate in alberate che si sviluppavano anche a tre o quattro metri da terra. La risposta data alla necessità delle cure non diede i risultati sperati: molti agricoltori non capirono l’importanza delle raccoman-dazioni fatte e lasciarono procedere la malattia senza curarsene troppo, facendo vino spremendo quel poco di uva malata che riusciva a formarsi e a maturare suffi cientemente per permettere l’ammostamento. Questa pratica diventò presto così diffusa da costringere gli scienziati a effettuare prove e ricerche su campioni di vino ottenuto da uve malate, per verifi care se la malattia lasciasse tracce tos-siche nella bevanda. Gli esperimenti furono svolti da molti laboratori di analisi, nella quasi totalità dei territori coinvolti e variamente ripetuti, a testimonianza dell’urgenza sanitaria da gestire. L’Accademia di Bologna affi dò le ricerche a un’equipe di studiosi che condusse gli esperimenti utilizzando campioni di vino e di mosto concentrato su cavie, dapprima rane e poi conigli, ottenendo sempre risultati favorevoli, anzi – si commenta nei resoconti fi nali – «nessuno mostrò risentirne la più piccola molestia, od impressione sinistra, e tutti invece ne ma-nifestarono piuttosto benefi cio colla vivacità, coll’alacrità dei movimenti, colla prosperità d’ogni altra funzione della vita».(156)

Al di là delle sperimentazioni, il comunicato che fu diramato in merito sotto-lineava che «nella malattia dell’uva, non sembrando ingenerarsi alcuna sostanza nociva [che rendesse] l’adoperare del vino fatto colla medesima, fuori d’ogni pericolo e d’ogni dubbio per la salute»,(157) ma il vero problema restava.

L’avanzata della malattia nel territorio bolognese fu rapida, tanto da superare ogni più infausto presagio: «la malattia dell’uva, che nel decorso Luglio si vide fra noi estesa e manifesta in modo discreto, in oggi è più grave assai, ed esiste in tutte le esposizioni e località piane o montuose della provincia, in guisa da chiamare la savia attenzione degli agronomi e dei campagnuoli, per quei ripieghi che si credessero dai più avveduti utili ed opportuni».(158)

Le aree più colpite furono quelle più umide, le pianeggianti dai terreni più nutriti e, generalmente, le viti a bacca bianca, soprattutto quelle aromatiche come la Malvasia, mentre i vitigni a bacca rossa si mostrarono più resistenti. Le Commissioni, che si formarono in Accademia per occuparsi del problema, anche se in continuo contatto e confronto con le altre regioni italiane e europee, stentarono a credere a una diffusione così repentina del morbo, tanto da cercare in tutti i modi di giustifi carne la diffusione accertando concause che permettessero una più facile giustifi cazione del disastro. Sembra che gli uomini mal potessero

(156) Ibidem.(157) Ibid., p. 273.(158) Rapporto della Commissione incaricata di riferire sulla malattia dell’uva e delle viti. (Sunto),

in: “Nuovi Annali delle Scienze Naturali” serie 3, VI (1852), pp. 162-184, in particolare p. 163.

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accettare che esistesse in natura un morbo così rapido e letale e, prima ancora dell’arrivo della ben più grave Fillossera, sentissero la necessità di trovare una giustifi cazione alla potenza del male ascrivendolo alle congiunture ambientali, come se questa giustifi cazione, da sola, potesse servire a qualcosa oltre che mettere a tacere le proprie coscienze e le proprie paure. A sostegno dell’ipotesi: «molti pensano che nelle piante delle viti siensi per occulte condizioni atmosferiche degli anni precedenti, preparate speciali condizioni, da infermarne molte, rendendole predisposte, e quindi adatte ad essere attaccate dal semino dell’infomiceto, che già nei decorsi anni si è veduto attaccare le rose, i meliloti, i pomi d’oro, i tri-fogli [...] senza per questo attaccar l’uva e le viti».(159) Una teoria suggestiva che aveva l’indubbio vantaggio di mettere gli uomini al riparo dalla responsabilità di aver in qualche modo contribuito al proprio insuccesso, a causa della propria cecità e noncuranza.

L’ipotesi trovò molta fortuna tra le fi la dei soci accademici, sostenuta anche dallo strano caso delle condizioni dei vigneti nella zona di Calderara di Reno, dove le viti si dimostrarono particolarmente resistenti alla malattia. Il fenomeno fu subito indicato come testimonianza di come, secondo le coeve ipotesi, l’Oi-dio non fosse in realtà che una causa secondaria del deperimento delle viti, che, internamente ammalate, spontaneamente porgevano il fi anco alla crittogama che, sommandosi alla malattia preesistente, accelerava la loro morte.

L’idea di creare un “mostro sconosciuto”, di spostare le cause del deperimento dei vigneti europei a una causa diversa, a un male ignoto, otteneva il risultato inspiegabile di tranquillizzare gli uomini coinvolti: il non conoscere il nome del problema permetteva loro di nascondersi dietro a esso, come se il mettere in opera le complicate macchinazioni che si studiate sulla carta, facesse più paura della malattia stessa. Un atteggiamento contraddittorio che rientra nell’ottica della paura di affrontare qualcosa di così lontano dalle precedenti esperienze viticole da generare una sorta di stupore, di ansia di fronte anche al solo tentativo.

Bertoloni, fu uno dei pochi a prendere risoluta posizione contro queste teorie disfattiste, sostenendo chiaramente la necessità di intervenire contro la causa primaria del male delle viti, identifi cata esclusivamente nel generarsi e proliferare dei gongili dell’Oidio «i quali incontrandosi sulle parti erbacee della vite, più o meno rigogliose sotto le date necessarie condizioni atmosferiche [...] si sviluppano indistintamente sopra questo mezzo della vite erbacea, nello stesso modo che il malume o fungo di alcune primavere dopo certe nebbie o piogge succedute da cocente sole si sviluppa sui frutti di Mugnaca [albicocca], ne rende imperfetta la maturazione, e mal sano l’usarne».(160) L’avvicinare il male delle viti a un’esperienza

(159) Ibid., p. 169.(160) Ibid., p. 171.

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riconoscibile è chiaro segno della necessità di esorcizzare un nemico che aveva sbaragliato, prima ancora delle difese schierate, i piani tattici della battaglia. Lo studioso sosteneva questo tipo di approccio anche con proprie ricerche, volte a dimostrare come, in realtà, la malattia fosse cosa nota in Europa,(161) e fosse stata già sconfi tta in precedenza, annullando così la necessità di pensare a un nuovo male invincibile. Bertoloni divenne così portabandiera di qualunque tentativo o esperimento potesse essere fatto per cercare di arginare i danni della malattia alle colture. L’attività degli alcaloidi contro le spore dell’Oidio, per esempio, fu uno dei ritrovati da lui indicati in Accademia come effi caci, riportando l’esperienza del «proprietario delle uve migliori del Bolognese [che] curò l’uva malata con l’urina [poiché] gl’alcali distruggendo la parassita esterna, guariva la parte che era di recente attaccata»;(162) allo stesso modo l’uso dell’idrato di calce per «recare il massimo nocumento ai seminuli dell’Oidio», parve una soluzione persegui-bile. Bertoloni sostenne da subito l’importanza delle condizioni ambientali per il diffondersi della malattia, trovando che un ambiente umido favoriva, per la stessa natura fungina della crittogama, il suo proliferare, motivo per cui le viti di pianura, tanto più quelle dei canapai, risultavano maggiormente colpite e più diffi cili da curare per la recidività del contagio. In seguito alle esperienze di Bertoloni, la Commissione bolognese, formatasi all’uopo in uno degli anni più neri per la viticoltura della zona, il 1852, stabilì che «la indole del morbo non sia contagiosa, ma puramente epidemica» e, dati i risultati ottenuti, che «l’uva malata in modo manifesto, non debbasi usare siccome cibo» mentre «il vino ottenuto dall’uva malata, sia o no mista a poca uva sana [...] non sia per essere nocivo [....] quando specialmente il vino ottenuto presentasi di un colore non verdastro e di un sapore discreto, e non rifi utato dal palato».(163) La Commissione vietò l’uso del fogliame colpito dalla crittogama come foraggio per gli animali, e raccomandò per le piante l’uso di lavaggi con «orine divenute, per fermentazione molto alcaline» o, ancora più effi cacemente, con «calce ben caustica sospesa, ed in parte sciolta nell’acqua allo stato di latte di calce ben saturo».(164) Il sistema di allevamento della vite ad alberata, tuttavia, impediva una agevole disinfezione, obbligando gli agricoltori a un numero di giornate di lavoro doppie rispetto alla

(161) In realtà dalle ricerche scientifi che fatte in seguito sulle viti americane, appare più probabile che l’Oidio fosse giunto via mare dalle Americhe come più tardi la Fillossera. Se ci sia veramente una connessione fra questa e le malattie descritte da Teofrasto e Plinio resta un dubbio che diffi cilmente si potrà accertare. Certo è che le viti europee furono letteralmente travolte da questa malattia come dalla Fillossera; forse, se realmente una delle due malattie avesse avuto antenati europei, le viti si sarebbero mostrate più resistenti ai suoi effetti, ma siamo nel campo della pura ipotesi.

(162) Ibidem.(163) Ibid., p. 173-174.(164) Ibid., p. 175.

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«Toscana, ove la frequenza delle vigne basse e comode permettono con meno disagio l’uso del suggerito rimedio»,(165) e ciò rese ancora più diffi cile il debellare la malattia in queste zone.

Dalla Francia, che affrontava anch’essa i problemi del contagio dell’infezione, era giunta, nel mentre, l’indicazione dell’utilizzo dello zolfo per neutralizzare gli effetti della crittogama, ma l’uso del minerale fu nei primi tempi guardato con diffi denza. La Commissione bolognese, pur essendo venuta a conoscenza dei risultati della cura, siccome «alieni da questa pratica» per di più complicata «dalla spesa grave del rimedio per la immensa quantità delle piante a cui dovrebbe applicarsi», ritenne che fosse «sconveniente, per non dire impossibile, l’uso di questo farmaco, che d’altronde non è [...] sempre sicuro nel risultamento».(166)

Nonostante i ragguagli e le risoluzioni prese dalla Commissione sulla natura della malattia, l’idea di essere di fronte a una manifestazione esterna di una causa più profonda, insita nella pianta stessa, continuò a circolare, sostenuta da eminenti studiosi anche d’oltralpe. «Il sig. Guèrin de Meneville» riportando una relazione presentata all’Accademia delle Scienze di Bologna nel 1853, sostiene che gli effetti di questa «alterazione» non siano che «fenomeni consecutivi» che si manifestano all’esterno con «l’apparizione dell’Oidium forse lungo tempo dopo l’azione delle cause che lo producono». Il fi siologo continua sostenendo che le osservazioni fatte «conducono a pensare che vi ha una causa profonda di disorganizzazione nelle viti, come nelle patate, come nei bachi da seta, nei paesi in cui questo insetto è coltivato in grande».(167) Il parallelo fu certamente convincente per un territorio, come quello bolognese, che stava affrontando, di pari passo alla crisi viticola, anche una drastica riduzione della produzione della seta, una delle manifatture più fi orenti della zona, a causa di una patologia che stava rapidamente decimando i fi lugelli.(168) L’idea sostenuta, condivisa da molti studiosi del periodo, era quella del generarsi di un «difetto nell’equilibrio delle funzioni», di un «eccesso di vi-talità» o, al contrario, di una «atonia o indebolimento eccessivo» che provocasse verosimilmente un’alterazione nella pianta, così come negli animali, esponendoli di fatto a una più facile aggressione da parte della malattia, che rimarrebbe perciò, seppur causa determinante per la morte del contagiato, secondaria rispetto allo stato di prostrazione originato nell’essere vivente.

(165) Ibidem.(166) Appendice alla relazione sulla malattia delle viti; con infi ne alcune tabelle relative alla

quantità delle uve raccolte nel bolognese, in: “Nuovi Annali delle Scienze Naturali” serie 3, VIII (1853), pp. 177-187, in particolare p. 183.

(167) Ibid., p. 179.(168) Su questo argomento si è trovata ampia traccia nei rendiconti delle adunanze dell’Acca-

demia di Agricoltura. Il materiale, che meriterebbe forse un approfondimento, esula però dall’attuale confi gurazione del presente lavoro, perché porterebbe molto lontano dal fuoco della ricerca principale.

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Le teorie sulla «speciale predisposizione interna della pianta» alla malattia guadagnarono nuovamente molto credito appena un anno dopo dal punto fermo che l’Accademia aveva cercato di porre grazie al contributo delle ricerche di Bertoloni. D’altra parte la stessa Accademia era spaccata sulla questione, e ognu-na delle sedi regionali dava credito alla propria cerchia di studiosi. Se Bologna, guidata da Bertoloni, sosteneva una piena colpevolezza dell’Oidio per i mali della viticoltura europea, dalla sede di Reggio Emilia rimbalzarono teorie concilianti invece con l’idea di una naturale predisposizione della pianta alla malattia; non fu perciò possibile prendere una posizione univoca e compatta da perseguire e, dopo molte parole spese, l’Oidio fu defi nito ancora «oscuro nelle cagioni, perché nulla ostante che oggi i sostenitori dell’Oidio, cioè dello straordinario sviluppo di questa muffa sopra gli acini delle uve, e delle foglie come causa prima del morbo siansi ormai ricreduti, collo ammettere la speciale predisposizione interna della pianta, e sieno quasi convinti della erroneità della loro opinione», si deve anche ammettere che «pure vi ha qualche naturalista che persiste nella opposta opinione».(169)

Sulla necessità di intervenire, invece, non vi fu dubbio alcuno: con solforazio-ni di zolfo o, più accreditato nel Bolognese, con irrorazioni di latte di calce, gli agricoltori dell’intera Regione furono richiamati alla cura dei propri appezzamenti. Unica perplessità sull’effettiva convenienza delle disinfezioni nel versante felsineo era dovuta al fatto che «per la maniera speciale di coltivazione delle viti assai alte e distese fra gli olmi, non che per le molte altre occupazioni dei nostri coloni nel mese del Luglio e dell’Agosto non siavi tornaconto, quand’anche il prezzo del vino si avesse a sostenere il doppio del consueto».(170) Bologna, quindi, per una produzione che fi no ad allora non si era distinta per eccellenza, e a causa di un sistema di allevamento poco adatto agli interventi fi toiatrici, fi nisce, nuovamente, per pagare lo scotto della cenerentola fra le province produttive emiliane.

Nelle vigne di pianura i coloni, occupati nelle operazioni estive di mietitura, trebbiatura e raccolta delle stoppie dei campi a frumento, o «nella raccolta, ma-cerazione, scavezzatura e grammolazione» di quelli coltivati a canapa, non hanno modo di prendersi cura della vite, «potendosi solamente ciò fare alcun poco dai mezzadri delle nostre colline, specialmente nelle vigne, ove comode e basse si coltivano le viti».(171) Da qui consegue che, negli anni che seguirono il primo picco di recrudescenza della malattia, seppure la zona bolognese non fosse stata in assoluto fra quelle più colpite, i danni furono ingenti a causa della maggiore

(169) Appendice alla relazione sulla malattia delle viti; con infi ne alcune tabelle relative alla quantità delle uve raccolte nel bolognese, in: “Nuovi Annali delle Scienze Naturali” serie 3, VIII (1853), pp. 177-187, in particolare p. 181.

(170) Ibid., p. 183.(171) Ibid., p. 184.

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diffi coltà a rispettare le indicazioni preventive segnalate dalle Commissioni dell’Accademia di Agricoltura. A dimostrazione di ciò, nelle tabelle riguardanti la rendicontazione delle castellate di vino prodotto e importato nella provincia, presentate in appendice al volume ottavo degli Annali delle Scienze Naturali, e qui riportate in nota, si rileva come la produzione subisse dal 1847 un progres-sivo calo fi no ad arrivare, nelle annate del 1852 e 1853, a un completo recesso della produzione interna, conservando il solo dato delle importazioni fatte per soddisfare il fabbisogno interno del territorio.(172)

Un rimedio che aveva trovato una certa fortuna in Francia fi n dal 1847, e in Italia era stato sperimentato per la prima volta in Toscana nel 1851 con discreti risultati,(173) consisteva nell’atterrare le piante durante la stagione vegetativa, prima della fi oritura e la formazione dei grappoli. In questo momento molto delicato, infatti, il contatto con la terra e un leggero imbrattamento sembrava riuscire a diminuire il rischi di contagio e la virulenza della malattia. La sezione bolognese dell’Accademia si occupò della nuova proposta inevitabilmente concludendo, ancora una volta, che tale provvedimento non era praticabile «per le nostre rigo-gliosissime viti, le quali se venissero gettate a terra senza un ordine prestabilito, ingombrerebbero ben presto i campi de’ loro numerosi sarmenti, s’intralcerebbero, e nocerebbero a vicenda; e invece di darci una migliore vendemmia, ci prive-rebbero fors’anche di qualche altro prodotto che altrimenti otterebbesi dal suolo

(172) Ibid., p. 184-185. I dati precisi del decennio 1843-1853 preso in considerazione sono:

Anno Castellate introdotte Raccolte in provincia

1843 29.870 94.589

1844 15.320 54.558

1845 25.776 76.925

1846 23.155 74.973

1847 28.677 95.974

1848 23.417 77.194

1849 25.158 85.838

1850 22.741 76.018

1851 19.574 62.112

1852 18.934 -

1853 8.433 -

(173) G. Passerini, Sul modo di salvare le viti dal ritorno della crittogama infesta alle uve, “Nuovi Annali delle Scienze Naturali” serie 3, IX (1854), pp. 151-161, in particolare p. 153.

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circonvicino».(174) L’esperienza aprì però la strada a una serie di considerazioni che avvalorarono l’ipotesi che fosse l’eccessiva umidità, come da alcuni era già stato ventilato, a favorire il generarsi e il propagarsi del morbo.

Così «avvi inoltre chi propone di praticare un solco [nel terreno] e dentro assettarvi i tralci, affi nché i grappoli meglio rimangano difesi, e qualora su di essi compaja alcuna traccia di muffa, spolverarli con terra». Così trattate le uve riuscirebbero ugualmente, secondo le sperimentazioni fatte, a vegetare bene e a produrre grappoli grossi, ma «nel caso in cui alla fi ne di Agosto sorvengano piogge troppo frequenti sembra buona pratica quella [...] di alzare le viti dal suolo»,(175) sebbene non da tutti venga ritenuto necessario. La nuova tecnica presentava an-che l’indubbio vantaggio di obbligare l’agricoltore a potature ricche per evitare un eccessivo ingombro del terreno, educando gli agricoltori a un nuovo sistema produttivo che risulterà vincente nelle pratiche viticole post-fi llosseriche.

Se nelle pianure bolognesi questo nuovo sistema non poteva essere diffusa-mente praticato, in parte per la necessaria operazione di risistemazione di tutta l’area coltivata, e in parte per l’eccessiva umidità della zona, non così era nelle zone collinari, dove già da qualche anno la vite aveva assunto un suo valore precipuo che le garantiva, in terreni particolarmente impervi, una coltivazione specializzata. Così, a uso di questa sola parte della viticoltura, furono messi a punto vari tentativi per i nuovi impianti. I terreni bolognesi erano senza dubbio poco adatti, per la scarsa permeabilità del suolo, a ospitare per tempi troppo lunghi la vite a terra, soprattutto durante stagioni piovose; perciò, se da un lato si cercò di approfi ttare dello stato di grazia del terreno durante la stagione asciutta, dall’altro si cercò di ovviare alla marcescenza legando i tralci a sostegni secchi durante i periodi più umidi. La nuova prassi viticola prevedeva quindi una duplice fase: un periodo di vegetazione delle viti con l’uso di legature a sostegni secchi, mai troppo alti per facilitare le successive operazioni, e uno di coricamento dei tralci al suolo durante la fi oritura, con la raccomandazione, per l’agricoltore, di «non trascurare di visitarle mentre l’uva si sta formando, ed alla prima traccia di muffa che in esse sgorga non tardi di staccare e di metterle in terra, essendo miglior partito rischiar qualche cosa con siffatta operazione, anziché lasciarle in preda a una sicura rovina».(176) Questo sistema interviene nella gestione stagionale portando a un nuovo equilibrio fra lavori estivi e invernali. Di fatto, se le viti durante i periodi estivi potevano essere protette dal contagio grazie al contatto con il terreno, non necessitando dei trattamenti a base di calce, gli impegni del-l’agricoltore cessavano di sovrapporsi, rendendo possibile il seguire con solerzia sia le colture viticole sia, se presenti, quelle erbacee.

(174) Ibid., p. 154.(175) Ibid., p. 156.(176) Ibid., p. 159.

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I lavori di “sdraiamento” delle viti prevedevano il loro completamento entro l’inizio della stagione estiva, in perfetta armonia con quello della raccolta delle granaglie. Se poi la malattia fosse tornata ugualmente a ripresentarsi, allora il con-siglio proposto tornava a ribadire l’effi cacia dei trattamenti disinfettanti con una raccomandazione in più: «tutte quelle [le viti] che mostrino di aver troppo sofferto negli anni andati, e siano state estremamente maltrattate dalla malattia, sarà miglior consiglio di abbandonarle a loro stesse senza nemmeno potarle, affi nché vegetino e si ramifi chino come possono ed a loro grado. Per tale modo se ne trarrà forse alcun frutto, sapendosi che le viti abbandonate sugli alberi sfuggono in generale alla malattia»,(177) vale a dire nulla può l’uomo più della natura contro se stessa.

I rimedi da adottare nel caso in cui la malattia fosse in uno stadio già conclamato, continuarono a lasciare spazio a numerosi margini di errore e di fallimento; per questo l’Accademia di Agricoltura e, generalmente, tutta la compagine scientifi ca europea, sempre più spesso cominciò a cercare soluzioni preventive alternative.

Molti nuovi rimedi avevano tentato di risolvere il problema del contagio: oltre «l’immersione dei grappoli entro il latte di calce, e le aspersioni di tutte le parti verdi della vite collo stesso liquido; [...] le aspersioni di fi ori di zolfo e le fumi-gazioni raccomandate soprattutto in Francia», trovarono posto anche «il rimedio dei fratelli Majoli, specie di sapone assai alcalino composto con cenere, calce, lardo, decozione di foglie di tabacco; le fumigazioni di catrame od altre sostanze bituminose; lo sfogliamento, la spampinazione, lo spolveramento con gesso, con cenere, con calce, od anche polvere di strada, fatto di buon mattino».(178)

Il 1854 fu un anno molto rigido, con temperature fra le più basse registrate nel quarantennio che va dal 1819 al 1859, e ricco di precipitazioni.(179) Il rigore inver-nale generò in alcuni studiosi la convinzione che l’Oidio non fosse sopravvissuto e che il morbo fosse stato debellato. Bertoloni, fedele alle proprie convinzioni, intervenne nuovamente per mettere in guardia gli agricoltori bolognesi dal non farsi condizionare da tali voci e farsi prendere da un facile lassismo. L’intervento del nostro seguì le idee già espresse altrove:(180) viene ribadita l’unica responsabilità

(177) Ibid., p. 158-159.(178) Ibid., p. 161.(179) Le temperature medie registrate per quell’anno non si innalzarono mai, fra Dicembre e

Febbraio, al di sopra di 1,8°C, le precipitazioni si concentrarono invece principalmente nel-la stagione estiva e autunnale, arrivando al picco del mese di Ottobre dove si registrarono 1.105 decimillimetri di pioggia caduta. L. Respighi, Esame delle vicende meteorologiche del quarantennio 1819-1859, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 1 (1859), pp. 57-85, in particolare pp. 82-83.

(180) Le teorie dell’agronomo trovarono ampia eco nelle discussioni a proposito della natura dell’Oi-dio, come già sottolineato nel corso del paragrafo. Si confronti con quanto espresso in merito anche da Sgarzi, Sulla malattia dell’uva, cit. e Società Agraria della Provincia di Bologna, Rapporto della Commissione incaricata di riferire sulla malattia dell’uva e delle viti, cit.

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della crittogama al deperimento della vite e la sua presenza nel territorio fi n dai tempi antichi, sottolineando la vicinanza delle esperienze moderne con quelle di Teofrasto e Plinio. L’ammettere che l’Oidio fosse malattia indigena «e perciò di questo clima, ed anche di climi più rigidi del nostro»,(181) annullava decisamente la possibilità che questa malattia fosse stata distrutta dalle basse temperature invernali e che si potessero pertanto abbandonare le terapie preventive. L’autore identifi ca nelle nebbie «e que’ vapori straordinari delle ultime estati», coadiuvate dal caldo e dall’umidità, le cause principali della diffusione del morbo e conclude che il solo non verifi carsi di queste, come invece «straordinariamente si ripe-terono appo noi per i tre anni recentemente andati»,(182) possa essere un valido freno all’allargarsi delle aree colpite. Sulla virulenza della malattia dopo il riposo invernale, invece, il nostro non sembra avere dubbi, ritenendo che «il gongilo o spora resiste più del seme ai massimi freddi» perché «il gongilo è nelle stesse condizioni delle uova degli animali ovipari, nelle quali dopo la fecondazione è contenuto il materiale fecondato, e che non si organizza se non colla incubazione» mentre «i semi hanno già rudimentato un germe dentro di loro» che li rende più suscettibili alle condizioni esterne e meno resistenti.

In questa peculiarità della natura dell’Oidio risiederebbe la sua stessa forza: grazie alla propria struttura genetica la malattia può con facilità restare dormien-te per lunghi periodi e poi risvegliarsi non appena le condizioni climatiche lo favoriscano. Questo – secondo l’autore – giustifi cherebbe i «lunghi periodi di tempo che passano fra epidemia ed epidemia, come è appunto avvenuto nella malattia della vite».(183)

«Gli agricoltori», conclude Bertoloni nel 1854, «quest’anno sperino pure, siccome io ancora spero, che l’Oidio non si sviluppi sulla vite, ma per le ragioni suddette a queste speranze non diano alcun peso, che li distolga dal provvedere a quella mancanza quasi assoluta di vini, che ebbero l’anno ultimo passato la Toscana, il Genovesato, la Lombardia ed altre province dell’Italia e dell’Europa, ma invece provveggano onde avere liquori fermentati dei frutti primaticci, massimamente se di questi sia abbondanza, [...] quindi colle ciliegie fabbrichino Kirsen, colle susine liquori spiritosi, coi pomi Sidro, e colle radici zuccherose di barbabietola alcool».(184)

(181) G. Bertoloni, Considerazioni del prof. Giuseppe Bertoloni Accademico benedettino lette al-l’Istituto di Bologna il dì 6 Aprile 1854 contro l’importanza che si dà oggi al prognostico di quelli che nel freddo dell’inverno passato riconoscono la causa della distruzione dell’Oidio micidiale alla vite, perché credono fi nita la malattia dell’uva, “Nuovi Annali delle Scienze Naturali” serie 3, IX (1854), pp. 282-295, in particolare p. 287.

(182) Ibid., p. 288.(183) Ibid., p. 292.(184) Ibidem.

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La grande richiesta di distillati alcolici fece in quegli anni raddoppiare il costo dell’alcol che divenne un “bene di primaria importanza” come prima lo era stato il vino. Per questo le coltivazioni di barbabietola si intensifi carono un po’ ovunque, «per cui il coltivare la barbabietola allo scopo di estrarne alcool è molto più vantaggioso di quello [che] sia l’estrazione dello zucchero», mentre la fabbricazione di liquori estratti da frutti zuccherini impegnò la gran parte delle industrie distillatrici. Per questo scopo, oltre ai frutti già menzionati, trovarono un loro utilizzo anche «le more selvatiche, i prugnoli e i frutti del gelso».(185)

Il riproporsi della malattia nell’ultimo trentennio permise poi agli studiosi di verifi care come «essa colpisce così le parti verdi della pianta come l’acino in tutte le diverse fasi della sua vita e più reca danni quanto più la temperatura congiunta a siccità le fanno contrasto; non si sviluppa però al di sotto dei 18°C».(186) L’Oidio quindi non sembra essere favorito da ambienti umidi come la sua natura fungina aveva fatto ai più supporre, ma, nel decorso dell’epidemia, la sua forza è tale che neppure gli appezzamenti caldi e secchi possono considerarsi al sicuro, il propagarsi del contagio sembra privilegiare, al contrario, le temperature miti. L’uso dello zolfo, più effi cace nella disinfezione ma più brigoso nell’applicazione e maggiore nei costi, venne fortemente promosso grazie a migliorie tecniche e a provvedimenti statali. L’introduzione del soffi etto per lo zolfo riuscì a risolvere il problema della distribuzione uniforme del prodotto, dando vita a numerose competizioni a premi per la creazione di strumenti sempre più affi dabili, che permettessero un giusto consumo del minerale che aveva raggiunto costi molto alti.

Nel Giugno 1879, Bologna ospitò un concorso per la migliore solforatrice indicando come requisiti principali: una buona gittata di spruzzo, la maneggevo-lezza, il prezzo, la solidità di costruzione, la forza di emissione e la dispersione dello zolfo.(187) Il primo premio, per la grande perizia degli strumenti presentati, venne suddiviso in due “specialità”: solforatrici da vigna e solforatrici da fi la-re, più piccolo e maneggevole il primo, adatto a lunghe gittate il secondo. La solforazione doveva essere effettuata tre volte l’anno per ottenere una migliore copertura, «la prima quando i giovani getti raggiungono una lunghezza da 5 a 10 centimetri; la seconda appena caduto il fi ore; la terza quando gli acini raggiungono la grossezza di una veccia o di un cece secondo il vitigno».(188)

L’uso della solforazione presentava però alcune problematiche: anzitutto non

(185) Ibid., p. 293.(186) G. Monti, Sunto della conferenza sulla solforatura della vite, “Bullettino del comizio agrario

di Bologna”, 3 (1877-1878-1879), pp. 139-145, in particolare p. 140.(187) G. Cugini, Relazione della Commissione giudicatrice del concorso a Bologna di strumenti

per la solforazione delle viti, “Bullettino del comizio agrario di Bologna”, 3 (1877-1878-1879), pp. 89-100, in particolare p. 90.

(188) MONTI, Sunto della conferenza, cit. p. 141.

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si poteva considerare un medicamento preventivo ma curativo, non scongiurando completamente il rischio che anche viti trattate potessero poi manifestare, sebbene in forma più lieve, la malattia, e inoltre causava l’inevitabile ingresso dello zolfo nei vasi vinari durante la fermentazione. Se il primo problema non poteva avere soluzione e pertanto la salute della vigna continuava a dipendere per buona parte dalla tempestività con cui l’agricoltore agiva contro le prime avvisaglie del male, per il secondo Giovanni Monti prese risoluta posizione contro l’errata opinione di quanti erano contrari alla solforazione perché «nel vino tratto dalle uve che la subirono riscontravasi un odore disgustoso, odore che proviene dalla formazione dell’acido solfi drico».(189) Lo zolfo – sosteneva l’autore – applicato correttamente, si elimina naturalmente prima dell’arrivo in cantina, ma se anche si presentasse questo problema, a causa di un eccessivo attardarsi nella somministrazione, «si può togliere facilmente col bruciare nelle botti le micce solforate o coll’introdurvi del solfi to di calce».(190)

Molte delle resistenze alla solforazione erano causate, in realtà, dall’alto co-sto del minerale dovuto alla grande richiesta. L’impennata dei costi lasciò molti agricoltori nell’impossibilità di eseguire il numero necessario di trattamenti.

Per risolvere il problema nel 1861 il comune della provincia di Sondrio e, l’anno successivo, quello di Bergamo, adottarono un sistema che prevedeva l’acquisto, su scala provinciale, di pani di zolfo, per i quali, se acquistati in grande quantità, si riuscivano a ottenere prezzi più vantaggiosi. L’acquisto da parte della Provincia dei pani aveva poi l’indubbio vantaggio di offrire agli agricoltori la possibilità di acquistare zolfo puro, evitando truffe e contraffazioni in cui spesso cadevano i privati, e di poterlo fare con notevole vantaggio economico impegnandosi a ripagare la propria parte in due rate.

Il sistema ottenne subito un grande successo, perché in questo modo l’agricol-tore, sollevato dal dover saldare subito l’importo dovuto, poteva rifondere senza costi aggiuntivi il debito dopo la vendita del vendemmiato, non indebitandosi e pagando un prezzo equo.

L’iniziativa piacque al Ministero dell’Agricoltura, che raccomandò alle Province italiane colpite di adoperarsi in tal senso per combattere appieno la malattia, garantendo a tutti gli agricoltori accesso ai rimedi per salvare il proprio vigneto. Fu diffusa anche una tabella coi tempi da rispettare per l’approvvi-gionamento del minerale, per cui: «l’acquisto dello zolfo suol farsi nei mesi di Novembre e Dicembre; nel Gennaio e Febbraio deve farsi la macinazione, e nel Marzo ed Aprile la distribuzione. Infi ne conviene che prima che si sviluppi la vegetazione ogni cosa sia in pronto».(191)

(189) Ibid., p. 144.(190) Ibidem.(191) Società Agraria, Sulla solforazione delle viti, per preservarle dall’Oidio. Discussione e risposta

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Oltre lo “sdraiamento” delle viti al suolo, come metodo preventivo all’attac-co della malattia, fu studiato anche un nuovo criterio di potatura. La proposta fu presentata nel 1878, dopo un ventennio in cui, tramite le solforazioni, che alla lunga vennero preferite al solo latte di calce, e l’utilizzo della più effi cace “poltiglia bordolese”,(192) si era cercato di contenere in ogni modo gli effetti distruttivi della crittogama.

Giovanni Monti, in questi anni segretario dell’Accademia di Agricoltura, presentò ai soci un compendio di quanto stesse accadendo sul fronte di questa battaglia, segnalando come, secondo le proprie esperienze, l’allevamento della vite «a piramide» riuscisse a renderla più resistente alla malattia (Fig. 13). «Questo sistema consiste nell’allevare la pianta in forma appunto piramidale (forma ben nota nella coltura degli alberi fruttiferi) anziché a tralcio orizzontale od a cornetti, come suol praticarsi specialmente colle viti ad uva nera».(193) In questo modo, l’uva riesce a raggiungere ugualmente un ottimo grado di maturazione, fornendo un discreto raccolto anche se «il frutto ne risulterà meno sviluppato, venendosi così a ravvicinare la vite al suo stato selvaggio, ciò che può valere a spiegare la presupposta maggiore longevità ed altresì la maggiore resistenza all’Oidio».(194) L’ipotesi che l’unico vero modo per sconfi ggere il male fosse lasciar fare alla natura il proprio corso era già stata ventilata(195) per i casi di infezione più gravi; la soluzione proposta da Monti è una razionalizzazione dello stesso concetto.

Dello stesso avviso era anche Filippo Agucchi che, in un suo podere a Mon-teveglio, in una zona di «ritardato progresso»,(196) aveva cercato in un primo tempo di dare al vigneto «la giusta forma», nonostante la natura impervia dei luoghi. L’attacco dell’Oidio lo costrinse ad abbondanti solforazioni, ottenendo

a proposta del Ministero, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 5 (1864), pp. 35-41, in particolare p. 40.

(192) La poltiglia bordolese fu il rimedio messo a punto nella zona di Bourdeaux verso la fi ne del XIX secolo e costituita da calce spenta e solfato di rame ad alta saturazione. Il liquido veniva poi spruzzato sulle parti verdi della vite e sui frutti lasciando un velo protettivo che si asciugava sulla pianta, dando il caratteristico colore brillante. Il rimedio, che mostrò una certa effi cacia contro l’attacco della crittogama, divenne presto uno fra i più utilizzati, insieme alle pozioni fatte con i singoli ingredienti, per la cura delle viti infette. Il disinfettante fu presto ritenuto uno dei ritrovati più effi caci, tanto da trovare tracce del suo utilizzo, anche in Italia, fi n dal 1854. Vedi anche Invio alle medesime Deputazioni di una circolare intorno al curare le uve malate, in: “Annali delle Scienze Naturali” serie 3, X (1854), pp. 127-131.

(193) G. Monti, Sunto della conferenza tenuta al comizio agrario dal socio sig. Giovanni Monti sulla potatura piramidale, “Bullettino del comizio agrario di Bologna”, 3 (1877-1878-1879), pp. 121-126, in particolare p. 123.

(194) Ibid.,p. 125.(195) Si veda quanto detto da Passerini, Sul modo di salvare le viti, cit. pp. 151-161.(196) F. Agucchi, Coltivazione delle viti in collina e insolforazione di esse viti, “Annali dell’Ac-

cademia Nazionale di Agricoltura”, 2 (1862), pp. 22-43, in particolare p. 24.

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però soltanto che «l’uva zolforata era cresciuta ancorché malata più che quella non zolforata, segno che lo zolfo aveva agito sulle uve», ma non riusciva a risol-vere del tutto il problema fi topatologico. Il tentativo fatto da Agucchi fu allora quello, ascoltando i precetti di Passerini, «di lasciarle [le viti] andare a frasca». «Non saprò spiegare qual ne sia la causa ma il fatto ha dimostrato, che pochi così detti fi asconi hanno data a me e a molti qualità sana di uva», specifi cando inoltre che «lasciato anche un intero piantamento a questa foggia, l’uva è stata scevra da crittogama».(197)

Il relatore esaltò il successo di questo provvedimento sottolineando come, contro ogni aspettativa, «certi piantamenti di Berzamina, che furono fl agellati per i primi dalla malattia nel 1853, lasciati a frasca mi hanno dato un buon prodotto d’uva in questi ultimi due anni».(198)

Nel Modenese, già da tempo, le vigne erano coltivate in questo modo ottenen-do, con minime potature effettuate ogni due anni, «uva in abbondanza; sebbene in questo procedimento si perda la bella tenuta dei piantamenti», ma, commenta

(197) Ibid., p. 41.(198) Ibidem.

Fig. 13 - Viti allevata a piramide.

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perentorio Agucchi, «quando il male è tanto esteso sembra sia da anteporsi l’utilità del prodotto». Modena, e specifi catamente il territorio di Soliera, da tempo fungevano da modello per il territorio bolognese, grazie a una maggiore attenzione rivolta, in quei luoghi, alla viticoltura fi n dagli inizi del XIX secolo, dove il vitigno Lambrusco di Sorbara dava ottime prove di sé. (199)

Riportare la vite al suo stato primigenio avrebbe garantito, quindi, la scon-fi tta del morbo. Un’affermazione pericolosa che assume quasi i contorni di una ribellione. La Natura, vessata, mutata, sembra porre freno alle continue pretese del genere umano. Le necessità dell’uomo si dovettero fermare di fronte alla malattia, per un momento anche le rigide logiche di produzione furono messe in discussione, lo sfruttamento indiscriminato del territorio dovette fare i conti con una realtà nuova: sulle concimazioni forzate e sui cicli produttivi calò, improvvisa, una silenziosa vendetta, di cui l’Oidio fu solo la prima avvisaglia.

4.3. Una formidabile macchina da guerra: la Fillossera

Il 1863 vede l’ingresso della Fillossera in Europa, attraverso la Francia e, quasi simultaneamente, l’Inghilterra. L’afi de giunse al seguito delle navi a vapore che dalle Americhe portavano esemplari di viti americane nel vecchio continente, fungendo da vero e proprio cavallo di Troia.

L’avanzata della malattia fu estremamente rapida, passando, nel giro di pochi anni, dalla Svizzera alla Germania, saltando in Portogallo e dilagando in Spa-gna. Al contrario di quanto era capitato con l’Oidio, scoperta la causa di tanta distruzione, divenne subito chiaro che questo nuovo fl agello veniva da lontano: i primi studiosi che si occuparono attentamente dal problema, Planchon e Lichten-stein(200) parlarono di «una indubitata origine esotica della Phylloxera vastatrix relativamente alla Francia».(201)

Il vero problema, questa volta, fu comprendere cosa stava realmente accaden-do. La recente introduzione di viti americane in Europa fu identifi cata da gran parte degli studiosi come la causa della diffusione della malattia, anche se il molteplice modo del suo manifestarsi creò anche partiti contrari. Alcuni studiosi pensarono a un indigenato della malattia, altri addirittura a un contagio rovesciato dell’Europa verso l’America.(202) Fu anche notato che i dipartimenti più colpiti

(199) Pedrocco, Problemi di storia delle tecniche viticole ed enologiche in Emila-Romagna (1800-1940), cit., p. 66.

(200) G. Monti, Non perdiamo di vista la Phylloxera. Spigolature, “Annali dell’Accademia Na-zionale di Agricoltura”, 16 (1875), pp. 17-72, in particolare p. 22.

(201) Ibidem.(202) Tale ipotesi, che rimase peraltro abbastanza isolata, fu perseguita dal Laliman e da alcuni

suoi sostenitori, la teoria fu presto dimostrata infondata grazie alla semplice dimostrazione

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dal morbo erano quelli ideali per la caccia, e questo portò anche alla convinzione che la malattia si propagasse attraverso i volatili, seguendo le correnti dei loro spostamenti migratori.

L’ostacolo più grande che gli studiosi si trovarono a dover affrontare fu il com-prendere che la Phyllossera gallifera e quella radicellare non erano manifestazioni di due patologie distinte, ma stadi evolutivi di una sola, che presentava, nell’arco della propria esistenza, una duplice natura: insetti alati e altri, atteri, sotterranei.

L’idea che le due nature dell’afi de fossero fra loro collegate era stata ipotizzata fi n dalle prime discussioni in Accademia nel 1875, ma solo due anni più tardi si riuscì a provare la metamorfosi del fi tofago da sotterraneo ad alato. Grazie a questa sua duplice natura la Fillossera può attaccare le viti su due fronti distinti, portandole rapidamente alla consunzione.

Il contagio porta all’iniziale apparizione dell’insetto attero che si riproduce sulle radici della pianta come «un piccolissimo pidocchio di color giallo»(203) che riesce, attraverso varie mute, a dare vita a generazioni sessuate sempre più evolute rispetto alle progenitrici, passando dallo stadio di «madre feconda»(204) a quello defi nito di «madri vergini»(205) per la capacità di riprodursi in mancanza di insetti maschi. All’inizio dell’estate, l’evoluzione della specie porta a una trasformazione per cui, in mezzo a tante femmine attere, se ne sviluppano alcune dal corpo più allungato, dette ninfe, che nel giro di una quindicina di giorni si trasformano in insetti alati, simili a piccole mosche di colore giallo con quattro ali grigie (Fig. 14).

Questo fu il passaggio chiave che a lungo rimase sconosciuto agli studiosi che soltanto nel 1877 poterono fi nalmente accertare che Fillossera gallifera e quella radicellare erano aspetti delle stessa patologia e non di due mali diversi.

«La femmina alata, dopo la sua comparsa, che avviene alla superfi cie del suolo in seguito alla metamorfosi della ninfa, va a collocarsi nella pagina inferiore delle foglie della vite, e depone in quella una specie di lanugine che trovasi all’ascella delle nervature ed anche sopra le gemme e sul ceppo quattro o cinque uova di grossezza differente».

Una volta uscite alla luce gli afi di della Fillossera si propagano sulla pianta e allargano il contagio sopravvivendo anche ai rigori dell’inverno, grazie alla deposizione, alla fi ne dell’estate, di un unico uovo dalle dimensioni maggiori, che si schiuderà soltanto in primavera.

di come si potessero rintracciare facilmente manifestazioni della malattia nel territorio ame-ricano almeno quaranta anni prima della comparsa in Europa. (Ibid., p. 22.)

(203) G. Monti, Ancora sulla Phylloxera, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 17 (1877), pp. 47-94, in particolare p. 58.

(204) Ibid., p. 59.(205) Ibidem. In questa fase della vita la Fillossera viene anche defi nita partenogenetica, cioè

genitrice asessuata.

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Una biologia così complessa rese per lungo tempo la Fillossera invincibile, anche perché le sue minutissime dimensioni le permisero di sfuggire a lungo all’osservazione umana e di agire indisturbata, allargando il contagio a macchia d’olio, espressione appositamente coniata da Gaston Bazille per descrivere il fenomeno fi llosserico.

Fino al 1869 non si riuscì a comprendere il perché le viti morissero; la ma-nifestazione più visibile della malattia consisteva in un prematuro ingiallimento e accartocciamento delle foglie, ricoperte di galle di cui però non si comprese subito la natura (Fig. 15).

Grazie alle osservazioni di Jules-Emile Planchon, professore nell’Università di Montpellier, coadiuvato dal viticoltore Gaston Bazille e da una folta schiera di collaboratori, si cominciarono le estirpazioni sia di viti sane che di viti malate os-servando al microscopio la presenza di milioni di piccoli insetti sia sulle radici che sull’apparato vegetativo e comprendendo che le galle «non sono altrimenti [che] l’opera dell’insetto alato».(206) La vite viene aggredita dapprima alle radici, in quelle

(206) Monti, Non perdiamo, cit. p. 34.

Fig. 14 - Stadi evolutivi della Fillossera secondo A. Jelinek: A) Giovane femmina attera; B) Femmina adulta alata; C) Giovane femmina che depone le uova, (Da: G. Monti, Non perdiamo di vista la Fillossera, “Annali della Società Agraria di Bologna”, v. 16, 1875, p. 17, tav. I).

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Fig. 15 - Schema delle metamorfosi della Fillossera secondo Plancon e Lichtenstein. 1) Tralcio e foglie di vite con galle di Fillossera; 2) Particolare di una galla ingrandita: 3) Nodosità e iperplasie sulle radichette di vite infestate; 4). Pezzo di radice con gruppi di Fillossere; 5). Particolare di un gruppo di Fillossere. 6) uovo di Fillossera ingrandito; 7). Giovane Fillossera radicicola ingrandita; 8). Fillossera radicicola adulta; 9). Ninfa di Fillossera ingrandita: 10). Fillossera adulta alata. (Da: Monti G., Non perdiamo di vista la Fillossera, “Annali della Società Agraria di Bologna”, v. 16, 1875, p. 17, tav. II).

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più tenere e marginali, ma la sola proboscide dell’insetto non potrebbe causare il disseccamento della pianta che, negli stadi più avanzati della malattia, si presenta completamente priva dell’apporto radicale, tanto da poter essere atterrata sempli-cemente esercitando una forte pressione sul tronco. La Fillossera sfrutta in realtà un meccanismo di autodifesa della vite che, attaccata, cerca di isolare l’infezione attraverso una «ipertrofi a del punto eccitato, [...] come per isolarsi dal parassita, allontanandolo il più possibile dalla parte vitale della radice. La pianta cerca così una difesa: ma essa è impotente alla nutrizione di codesti nuovi tessuti, che in breve rendono la radice disadatta all’assorbimento».(207) Quello che accade è sostanzial-mente un suicidio della vite provocato dallo spontaneo tentativo di salvarsi dal contagio. La malattia prevede quindi la successione di fasi distinte che non portano la pianta a una morte subitanea nell’arco di una sola stagione, che generalmente sopraggiunge, in assenza di attacchi particolarmente virulenti, in tre anni.

I rimedi tentati furono molteplici, ma condannati irrimediabilmente da «un fatto saliente [...] allorquando si scorgono ceppi evidentemente colpiti dal malore, è già tardi e possono ritenersi invase le viti vicine».(208)

Sebbene in occasione della Fillossera ci fosse un minore sgretolamento delle opinioni degli intellettuali, e meno tempo si perdesse in disquisizioni teoriche, cercando invece di unire le forze e le sperimentazioni in modo da dare una ri-sposta univoca sul da farsi, ugualmente si animarono vivaci discussioni sull’ef-fettiva natura dell’attacco del parassita, se questo fosse cioè la causa primaria della distruzione delle viti o se non fosse invece, come sostenuto per l’Oidio, la manifestazione di una disorganizzazione interna.

«Bazille e Plancon in un Rapporto alla Società di Agricoltura dell’Hérault del 1868, denotano [la malattia] assolutamente come causa»,(209) la maggior parte degli scienziati si allinearono a tale opinione, ma uno studioso francese, Guerrin-Mene-ville, che già si era distinto per un’ipotesi simile anche riguardo all’Oidio, «insiste sul fatto che molti insetti non si mettono sopra le piante, che in seguito di essere queste state indebolite da una malattia anteriore, [...] esprimendo l’opinione che la presenza della Phylloxera sia un fenomeno consecutivo risultante da una malattia più intima della vite, la quale non sarebbe che il seguito dell’Oïdium».(210) Non mancò neppure chi, non sapendo bene che partito prendere, decise di collocarsi nel mezzo, sostenendo che la forza distruttrice della Fillossera fosse dovuta a una concomitanza di più fattori, sia a «circostanze dell’ambiente o meteoriche», sia «considerando l’insetto in parte causa e in parte effetto».(211)

(207) Monti, Ancora sulla Phylloxera, cit. p. 76.(208) Monti, Non perdiamo, cit. p. 41.(209) Ibid., p. 44.(210) Ibid., p. 45.(211) Ibid., p. 46.

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I mezzi di difesa possibili furono suddivisi in due categorie: quelli indiretti e quelli diretti. Gli ultimi si mostrarono quelli più effi caci, ma anche quelli più drastici: consistevano nell’estirpazione delle viti colpite e del loro immediato in-cendio sul posto, «e la raccolta e la distruzione, parimente col fuoco, delle foglie invase da gallozzole». A sostegno di questa pratica fu proposta l’istituzione di «leggi coattive» proposte dal Cazalis «per causa di pubblica utilità, nel caso in cui la pertinacia di un proprietario comprometta le vigne di tutta una regione».(212) In Svizzera, a Pregny, il Consiglio di Stato stabilì con un decreto «la distruzione delle viti infette» tramite sradicamenti, immersioni in acqua bollente e l’insuf-fl azione nel terreno di «calce di depurazione del gaz a fortissime dosi ed il più possibile carica di solfuri, di ammoniaca e di goudron o catrame liquido»(213) per distruggere anche gli insetti che si fossero disgraziatamente allontanati dal ceppo infetto.

Molteplici furono le sperimentazioni condotte per cercare di ottenere risul-tati apprezzabili senza arrivare alle più estreme conseguenze. A Bologna questi risultati furono tutti vagliati durante molte adunanze dell’Accademia, ma, si ha l’impressione, più per scrupolo intellettuale e senza una reale partecipazione a una calamità di cui ancora, nel 1877, nella zona non si conosceva la virulenza.

A questo dobbiamo i frequenti richiami che, soprattutto a opera di Giovanni Monti, costellano i resoconti di questi anni “di grazia”: dettagliati racconti di quanto stava capitando in Europa furono diramati in tutta la provincia, fi no alle deputazioni periferiche, ma ottenendo sempre in risposta uno scarso riscontro.

Un primo approccio che sembrò fermare il contagio fu condotto dallo stesso Bazille in una vigna nei dintorni di Roquemaure, consistente in una concimazione con guano, che sembrava avere un discreto potere di circoscrizione della malattia. Altro rimedio fu l’ormai consueto consiglio di lasciare tornare la vite al suo stato naturale, mentre quello che presentava realmente qualche solida base di riuscita consisteva in una operazione di «rizoplastica, di munire le viti francesi di radici di viti d’America».(214)

I ceppi americani, da molto tempo esposti al contagio, avevano mostrato una maggiore resistenza all’attacco radicale del parassita che danneggiava soprattutto l’apparato fogliare, più facilmente raggiungibile dai rimedi curativi.

Da esperimenti condotti in varie tipologie di terreno, si dimostrò «che le viti piantate in terreni assolutamente sabbiosi sonosi mantenute immuni o quasi dalla Phylloxera» e questo fece supporre la possibilità di usare questo materiale per scongiurare l’epidemia.(215)

(212) Ibid., p. 47.(213) Ibid., p. 49. (214) Ibid., p. 51.(215) A questo proposito va osservato che gli unici ceppi di vite che ancora vantino un piede franco,

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Un tentativo in parte ispirato a questa scoperta consistette nel mantenere sca-vati i ceppi alla radice per 20-25 centimetri di profondità, «in modo da mettere allo scoperto le grosse radici, ricolmando poi le escavazioni nella susseguente primavera con sostanze concimanti ed insetticide, o talvolta anche semplicemente con terra ben disgregata».(216)

La varietà di questi rimedi non deve trarre in inganno; in realtà pochissimo fu possibile fare per resistere alla malattia, molti degli esperimenti fatti porta-rono solo a illusori miglioramenti o non ne portarono affatto; le cronache del periodo, italiane ed estere, sono spesso il lungo susseguirsi della descrizione di tentativi che non portarono a nulla. Allo studio di un rimedio effi cace l’Italia non portò grandi contributi; il suo ruolo, in parte dovuto alla temporanea assenza del contagio, fu soprattutto quello di apprendere le notizie dei risultati ottenuti dalle sperimentazioni in zone colpite e cercare di trarre le proprie conclusioni.

Fu dato spazio anche ai contributi più strani e fantasiosi: dall’India e dall’Af-ganistan, rimbalzata sulle pagine dell’Italie del 22 Settembre 1875 in una lettera del capitano di Stato Maggiore dell’armata del Bengala, sir Robert Rennick al Ministero di Agricoltura di Francia e alla Camera di Commercio di Bordeaux, giunsero i risultati di esperimenti fatti in loco contro un parassita del tutto simile alla Fillossera, infestante le piante da frutto della zona, trattate con l’assa-fœti-da:(217) «si mette, ei dice, un poco di questa gomma resinosa al piede di ciascun ceppo o radice, ed essa guarisce la malattia, o piuttosto uccide l’insetto col forte e penetrante odore».(218)

Uno dei pochi contributi italiani fu sperimentato dal tossicologo Pompilio Agnolesi, dell’Università di Firenze. Agnolesi si convinse dell’effi cacia delle piante di lupino contro il propagarsi del male. La sua teoria prevede la semina dei lupini nei vigneti in Settembre e, quando nell’anno successivo, le piante raggiungono il loro pieno sviluppo e la fi oritura, «verrebbero divelte dal terreno e riunite in piccoli fascetti». Si dovrebbe poi procedere alla scoperchiatura delle radici delle viti, poi ricoperte abbondantemente dai fascetti di lupini arricchiti

cioè non sostituito da portinnesti americani, sono quelli che vivono in terreni sabbiosi. In Emilia-Romagna, per esempio, è nota la zona del ferrarese e di Comacchio per i suoi cele-bri “vini di sabbia”. In queste zone è ancora possibile rintracciare fi lari di vite che vivono, come in epoca pre-fi llosserica, sulle proprie radici senza temere l’attacco della malattia che male si propaga su terreni sciolti come quelli sabbiosi. Per salvare le viti europee si sarebbe quindi dovuto trasferire l’intera coltura sulle spiagge, ma questi terreni, d’altro canto, danno risultati enologici apprezzabili nella loro tipologia, ma molto lontani dalle produzioni più prestigiose.

(216) Ibidem.(217) Gomma resinosa dalla Ferula foetida, ombrellifera originaria della Persia e dell’Afganistan,

diffusa in India con il nome di “hing”.(218) Ibid., p. 56.

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da zolfo frantumato, e in seguito ricoperti di terra smossa. Inutile sottolineare come, se il rimedio otteneva qualche risultato, questo era dovuto probabilmente allo zolfo, che si mostrò comunque non suffi ciente per contenere, da solo, la forza del contagio.

Furono chiaramente fatti molti esperimenti anche con l’impiego di varie so-stanze chimiche: «miscugli di solfuro di potassio con carbonato di ammoniaca e di solfuro di potassio con solfato di ammoniaca erano quelli che meglio sembrava avessero paralizzato il male».(219) Nel disperato tentativo di salvare le viti senza espiantarle queste furono dapprima scortecciate, «per impedire la moltiplicazione dell’insetto»,(220) poi mescolate a coltivazioni di mais rosso che sembrava avere la proprietà di essere colpito in vece della vite. In realtà le piante di mais erano attaccate da un parassita simile alla Fillossera, la Tychea trivialis, che però con questa nulla aveva a che fare. In Austria il signor Nobel, invece, predispose interventi su vasta scala con l’impiego della dinamite: «si praticano nel terreno dei buchi da mina, profondi da due a tre metri, avendo cura di non molestare con ciò le radici: vi si introduce la dinamite e la si fa esplodere. Allo scoppio di essa le parti sotterranee del suolo ne vanno scosse e sconvolte, rendendosi per tal modo porose fi no a circa due metri e mezzo»,(221) per questo la Fillossera ne sarebbe stata danneggiata e sconfi tta. Si tentò anche il macchinoso trattamento del terreno con il solfuro di carbonio (Fig. 16) e persino la modernissima sistema lotta biologica: interi battaglioni di Anthocoris – più familiarmente Coccinelle – e alcune centinaia di plotoni di formiche furono arruolati in una guerra senza frontiere, ma la Fillossera continuò a imperversare indisturbata nei vigneti di mezza Europa. L’unico vero rimedio rimase la distruzione dei vigneti infetti e la ricostruzione tramite l’innesto dei vitigni europei su piede di vite americana: così alfi ne la Fillossera aveva vinto la guerra, riuscendo a sconvolgere e distruggere per sempre la coltivazione della vite su piede franco, in tutta Europa.

Le viti americane appartenenti alla specie Cordifolia o Riparia, Rutundifolia o Volpina, Æstivalis e Labrusca, avevano dimostrato, con qualche lieve differenza, una buona resistenza dell’apparato radicale all’attacco della Fillossera, diventando rapidamente l’unica strada possibile per continuare a produrre vino in Europa.

Perplessità furono sollevate per la grande diversità esistente fra le specie ame-ricane e quella europea, molti i dubbi sulla qualità del prodotto e sulle altissime spese necessarie per impiantare ex novo centinaia e centinaia di ettari di vigneti senza peraltro nessuna garanzia sul risultato fi nale, ma la Fillossera non lasciò aperte molte altre strade da percorrere. Ciononostante le sacche di resistenza, che fi nirono per favorire l’avanzata del male, furono molteplici.

(219) Ibid., p. 58.(220) Monti, Ancora sulla Phylloxera, cit. p. 88. (221) Ibid., p. 91.

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Fig. 16 - Laboriosi tentativi di lotta contro la Fillossera per mezzo di iniezioni di solfuro di carbonio nel terreno dei vigneti. (Da: “Giornale di Agricoltura del Regno d’Italia”, 1886, p. 301-303).

Il vantaggio dell’Italia fu il suo relativo isolamento dall’epidemia che giunse nei nostri territori con uno spiccato ritardo rispetto agli altri Paesi europei. Questo avrebbe dovuto dare il tempo agli agricoltori di approntare le difese, ma l’Italia non seppe giocare d’astuzia perciò, al di là delle discussioni e delle teorizzazioni, si fece cogliere impreparata quando, negli anni Ottanta, la malattia fece il suo devastante ingresso.

In una circolare datata 7 Luglio 1884 diretta a tutti i Prefetti, ai Comizi e As-sociazioni Agrarie, il Ministero di Agricoltura raccomandava «una sorveglianza

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attivissima» e la costituzione di Commissioni Ampelografi che «in guisa da avere uno dei loro membri in ogni comune viticolo delle varie Province, per organizzare il servizio delle denunzie di tutte le malattie che si manifestano nei vigneti».(222)

Bologna tardò a rispondere all’appello nonostante la disposizione del Ministro continuasse «prescrivendo che i Prefetti riunissero le Presidenze delle suddette Associazioni Agrarie, e discutessero del grave argomento, mettendosi d’accordo per la nomina di un Corrispondente in ogni Comune viticolo, il quale dovesse assumere informazioni sopra tutti li fatti anormali che si osservassero nei vigneti, e trasmettessero alle autorità». Bianconcini, riportando all’attenzione dei soci riuniti in adunanza le parti salienti della disposizione statale, non si rammaricava solo «che questa riunione non si fosse mai tenuta nella nostra Città», ma anche di come «il Comizio, il quale già ne aveva uno [di Corrispondenti] in ogni comune, incaricato di comunicare alla Direzione del medesimo tutto ciò che poteva interessare l’agricoltura – sebbene poi non comunicasse mai nulla – non si preoccupò gran fatto di queste sollecitazioni».(223)

La situazione e il generale disinteresse dovettero raggiungere i livelli di guardia, se la Commissione, non riuscendo a reperire informazioni sull’andamento del contagio nella provincia felsinea neppure attraverso le delegazioni dei Comizi Agrari, ritenuto l’organo meglio inserito nel tessuto sociale, votò una mozione perché «si rappresentassero al Governo le diffi coltà dell’esecuzione di quanto prescriveva la Circolare».

La situazione non era grave soltanto a Bologna, molte erano le province che mostravano, forse per non vedere espiantati i propri vigneti, una totale indifferen-za. A Pitigliano, in provincia di Grosseto, per esempio, la Fillossera imperversò indisturbata per «sei o sette anni [...] e nessun avviso ne fu dato a chi doveva e poteva intervenire».(224) Mantenendo un comportamento simile è chiaro che l’agricoltura italiana fece il gioco della malattia che rapidamente dilagò in tutta la penisola.

I proprietari bolognesi che cercavano di unirsi in associazioni «per migliorare la produzione dei vigneti, procurando poi con un indirizzo comune di aprirci le vie del commercio», incontrarono resistenze tali da incorrere rapidamente nel fallimento dell’iniziativa, e lo stesso «Circolo Enofi lo sorto sotto i più felici auspici, e morto poi poco oltre il secondo anno» non terminò la sua corsa non «per diffi coltà pecuniarie, ma per mancanza di concorso morale dei Soci ai pratici intendimenti della Direzione». Le iniziative, insomma, seppur prese per cercare

(222) C. Bianconcini, Della sorveglianza dei vigneti della provincia di Bologna, “Annali dell’Ac-cademia Nazionale di Agricoltura”, 29 (1889), pp. 37-47, in particolare p. 38. Il corsivo è originale del testo.

(223) Ibid., p. 39.(224) Ibid., p. 42.

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una sensibilizzazione del territorio al problema della salute viticola, rapidamente caddero in prescrizione a causa della scarsa eco che riuscivano a suscitare.

Non così fu in Piemonte dove, fi n dal presentarsi del morbo, si reagì con la costituzione di un Consorzio Antifi llosserico Interprovinciale, che ottenne importanti sovvenzioni da parte del Governo «che già aveva emanata una legge sui Consorzi Antifi llosserici delle Province, rendendoli in alcuni casi obbligatori, incoraggiava e favoriva l’Associazione [...] e nominava un Delegato Fillosserico speciale del Consorzio».(225)

L’Accademia bolognese, informata sui fatti e sulle disposizioni statali, seb-bene ritenesse, almeno nelle sue alte sfere, importante adeguarsi a tali norme, di fatto fu fortemente rallentata nelle proprie risoluzioni da numerose diffi coltà, fra cui, per prime, quelle legate all’accordo da raggiungere fra i vari soci sulla forma da dare a tali associazioni e ai comitati di vigilanza. Altra questione fu quella dell’elezione e della retribuzione dei sorveglianti che non potevano, per evidente confl itto di interesse, essere rappresentati dagli stessi viticoltori, ma da esperti super partes appositamente incaricati di pattugliare i vigneti e di riferire il manifestarsi di qualsivoglia patologia, in modo da poter per tempo provvedere all’espianto e all’incendio delle viti infette. In questo frangente però la pesante strutturazione interna dell’Accademia, volta a tutelare gli interessi di tutti, mostrò la propria impossibilità a prendere una decisione unanime, sciogliendo l’adunanza del 3 Febbraio 1889 ancora con un nulla di fatto.(226)

La comunità bolognese, prima dell’arrivo della malattia nel proprio territorio, aveva ritenuto opportuno discutere dei tanti provvedimenti che l’Europa inte-ra stava vagliando con una sollecitudine ben diversa. Il contributo bolognese, nella maggior parte dei casi, fu quello di una semplice rilettura delle iniziative, mostrando una certa preoccupazione sulla necessità effettiva di procedere allo sradicamento delle viti infette e sulla diffi coltà che si sarebbe presentata ogni qual volta si dovesse convincere un agricoltore che tale provvedimento fosse davvero necessario.

Il problema maggiormente dibattuto dalla Commissione riunitasi il 4 Feb-braio 1877 nelle sale dell’Archiginnasio fu se fosse lecito o meno imporre a una proprietà privata la distruzione coatta dei vigneti, sebbene operata per il bene comune. Sulla questione il fronte dei proprietari si spaccò, dando vita a una di-scussione animata su questioni di etica politica e di potere statale, senza riuscire a prendere una risoluzione autonoma. Il particolarismo della proprietà agricola bolognese fu un forte ostacolo per decisioni di carattere pubblico che l’emergenza

(225) Ibid., p. 44.(226) Società Agraria di Bologna, Verbale dell’adunanza ordinaria delli 3 Febbraio 1889. Pre-

sidenza del March. Comm. Luigi Tanari Presidente, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 29 (1889), pp. 49-52.

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dei tempi costrinse a prendere, e l’Accademia non riuscì sempre a ricomporre le spaccature interne. Si delinea un sempre più evocato senso di abbandono da parte del potere centrale, che si vorrebbe più presente nelle questioni particolari delle varie unità provinciali. Non riuscendo a gestire in autonomia decisioni così delicate, il desiderio generale sembrò quello dell’essere esentati dal farlo.

Il Ministero dell’Agricoltura, d’altro canto, aveva già espresso il proprio parere in merito all’indubbia necessità di sradicare le viti infette, come Germa-nia, Svizzera e Francia avevano mostrato, ma non poteva sostituirsi al controllo regionale che solo le Associazioni territoriali potevano esercitare. Un rimpallo di responsabilità, insomma, che ebbe l’unica conseguenza di impedire una solerte soluzione del problema. Alfi ne l’Accademia votò, senza troppa convinzione, una mozione che ancora demandava allo Stato la parola ultima sulla questione: «la Società di Bologna, conosciute le disposizioni prese dal Governo per pre-servare l’Italia dall’invasione della Philloxera vastatrix e le istruzioni date alle Commissioni Ampelografi che per i primi provvedimenti: Ritiene che in caso di invasione della Fillossera, non vi abbia mezzo più sicuro e pronto del completo sradicamento delle piante infette; E fa voti che una legge generale provveda alla tutela degli interessi agricoli, mediante un’ordinata vigilanza con tutti i provve-dimenti coattivi opportuni».(227)

I dubbi permanevano, soprattutto su come fare per indennizzare gli agricol-tori che avessero subito gravi perdite e chi e con quale autorità avrebbe dovuto segnalare l’eventuale contagio di una proprietà, e come si sarebbe dovuto agire nel caso, non così ipotetico, che il proprietario si fosse opposto allo sradicamento delle sue viti. In un concetto, determinare con certezza dove si fermava lo Stato e dove iniziava la proprietà privata.

L’indecisione sul da farsi, la speranza di salvare la viticoltura e la produzione enologica, le disposizioni per la salute pubblica e gli interessi particolari, por-tarono al tentativo di alcuni studiosi, con a capo Riccardo Zorzi, di risolvere il problema con metodi meno drastici. L’idea, non certo priva d’inventiva, si basava sul tentativo di fortifi care le viti, rendendole refrattarie agli attacchi fi llosserici attraverso una disinfezione “interna”. Il nutrimento della malattia, ciò che ne permetteva lo sviluppo, era la linfa stessa della pianta che viene succhiata dal parassita provocando le iperplasie e la morte della pianta ospite. La cura proposta era quella di avvelenare la linfa in modo non nocivo per la pianta, ma letale per l’afi de. «Con un succhiello proporzionato alla grossezza delle pianta, si pratica un foro a 30 centimetri dal piede dell’albero fi no al midollo della pianta stessa. Si riempie il vano con zolfo polverizzato, quindi si ottura. La linfa assimilan-

(227) Società Agraria di Bologna, Discussione intorno ai provvedimenti da prendersi contro la Fillossera, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 17 (1877), pp. 116-120, in particolare p. 120.

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dosi una parte dello zolfo lo distribuisce naturalmente in ogni luogo; e il tarlo, disgustato dall’alterazione portata al suo alimento, o l’abbandona o ne sospende l’incominciato lavoro».(228) «Durante la primavera», quindi, quando maggiore sarà la quantità «di linfa discendente», si pratichi il foro e si provveda a riempirlo «di una materia venefi ca o disgustosa al punto di far allontanare il malaugurato insetto; per questo io propongo il Solfuro di potassa che, oltre di essere abba-stanza velenoso ed avere un pessimo odore, è anche assai solubile [...] indi si turi il buco con un mastice qualunque».(229) La proposta, suggestiva, non riuscì però a ottenere l’unanimità dei consensi, perché diffi cilmente – si ritenne – la pianta avrebbe potuto mettere in circolo la sostanza velenosa senza spanderla anche nei propri frutti, o rimanerne del tutto uccisa. Così Bologna attese, immobile, l’arrivo dell’annunciato nemico.

La Fillossera, nonostante il tam-tam degli scienziati, colse impreparata la città felsinea. Nel 1887 durante l’adunanza del 20 Marzo, Pietro Gavazzi, re-lazionando sulla condizione dei vigneti bolognesi, ammise: «il danno si avvisa quando l’invasione già da due anni almeno invade la plaga. La distruzione delle parti più compromesse, le zone di sicurezza, e tutte le possibili diligenze usate sin qui non hanno salvata una sola delle plaghe nelle quali si manifestò la Fil-lossera».(230) Lo sradicamento dei vigneti non si dimostrò effi cace per la velocità di propagazione del morbo, perciò più si svellevano le viti, più si moltiplicavano gli avvisi di nuovi focolai di contagio. Le conclusioni del relatore, basate sulle osservazioni fatte nel territorio bolognese, furono che «la distruzione dei vigneti fi llosserati, non salva le plaghe dal fl agello». Le piante che si mostrarono più resistenti furono quelle sviluppatesi nei già citati terreni sabbiosi e quelle che «la compattezza del terreno» aiutava a impedire il propagarsi dell’afi de alle radici e, ancora di più, «la sortita dell’insetto perfetto, le alate».(231) La velocità del propagarsi del male era il vero problema da affrontare, e secondo Gavazzi a nulla serviva distruggere il vigneto infetto, perché per allora l’insetto alato si sarà già allontanato e, sfruttando il vento, gli afi di avrebbero potuto percorrere annualmente mille miglia, «se la corrente non è arrestata da ostacoli materiali; ed altrettanto dicasi delle attere se sorprese nella loro emigrazione [da una pianta all’altra] da forte vento».(232)

(228) R. Zorzi, Proposta di un mezzo da tentare per la guarigione delle viti infette da Fillossera, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 20 (1880), pp. 36-38, in particolare p. 37.

(229) Ibidem.(230) P. Gavazzi, La viticoltura e la Fillossera, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”,

27 (1887), pp. 96-107, in particolare p. 96.(231) Ibid., p. 100.(232) Ibidem.

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La situazione appariva complicata, secondo il nostro, dalla grande diffusione che avevano avuto i vitigni americani, che, oramai ovunque, venivano impiantati al posto di quelli europei. «Diffuse in ogni parte d’Italia le pianticelle di viti americane sviluppate nei vivai, a queste altre molte si aggiunsero nate dai semi distribuiti pure dal Governo [...] si lodano le qualità delle une [le americane] e si biasimano quelle delle altre [le europee]; si designano le preferibili per quantità del prodotto, per le loro caratteristiche, l’aroma in ispecie».(233)

Di contraria opinione, Gavazzi sottolinea con sarcasmo come «appresso alle cure, allo studio dedicato alle miracolose viti, sussegue quello dei loro prodotti; dei vini», mentre «in mezzo a questo nostro tripudio sorge di Francia una voce che grida “bando alle viti americane dal nostro suolo” e le fa sradicare e distruggere in tutta l’Algeria». Il provvedimento, promulgato dal Comizio Agrario di Algeri in questi anni, fu iniziatore di un ridimensionamento della fi ducia illimitata che si poneva nella soluzione che prevedeva una vera e propria colonizzazione dei territori europei con viti americane, nel tentativo di salvare la produzione enologica per soddisfare necessità commerciali, ma che contemporaneamente rischiava di mettere a repentaglio l’intero germoplasma dei vitigni europei. A questo rischio si aggiungeva il fatto che, essendo le viti americane portatrici primarie dell’afi de sconosciuto nei territori europei, il coltivarle indiscriminatamente non avrebbe provocato altro che l’allargarsi a dismisura del contagio, da una parte contrastato nel tentativo di fare salvo ciò che restava dei vigneti, e dall’altra amplifi cato dalla coltivazione di viti americane nei territori dove si era già proceduto all’espianto. Conclude Gavazzi auspicando una nuova e più oggettiva valutazione dei fatti, in quanto, con l’introduzione in massa delle viti americane, «si è veduto fra i primi [vantaggi] il prodotto o il raccolto assicurato» ma «fra i danni» valutato «la perpetuazione del fl agello e la possibilità che sviluppino [le viti americane] altri insetti dannosi».(234)

Per cercare di dare una risposta univoca ai dubbi che si accalcavano sui vari fronti, l’Accademia di Agricoltura di Bologna, sotto la presidenza di Luigi Tanari, si fece promotrice di un’alleanza con la Direzione del Comizio Agrario,(235) per

(233) Ibid., p. 102.(234) Ibid., p. 106.(235) L’istituzione dei Comizi Agrari risale al 1866. Il Decreto, promulgato il 23 Dicembre dal

Governo nazionale, rappresentò di fatto il tentativo di burocratizzare l’associazionismo agra-rio tramite l’esercizio di un controllo diretto. L’Accademia di Bologna, fi era della propria indipendenza, reagì con decisione, mettendosi a capo di un movimento di reazione che fi nì per avere la meglio. I Comizi Agrari non solo vennero concepiti da subito come organismi affi ni ma separati dal corpo centrale dell’associazione, che restava completamente autonomo, ma fi nirono anche per orbitare invariabilmente sotto il controllo dell’Accademia stessa, anche se con numerose confl ittualità. In questo modo l’Ente riuscì a ribaltare completamente, e a proprio vantaggio, il risultato che il Governo centrale aveva sperato per la riforma.

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unire le competenze nella formazione di un Consorzio Antifi llosserico Emiliano, su modello di quello già sperimentato dall’esperienza piemontese.

Questo Consorzio tenne la sua prima Assemblea generale il 15 Settembre 1889,(236) con all’ordine del giorno «la sorveglianza assidua dei vigneti e lo studio delle viti americane come mezzo di difesa contro la Fillossera». L’Assemblea subì subito una decisa cesura, riuscendo a riunirsi nuovamente solo il 1 Giugno 1890, mettendo a nudo alcune problematiche incontrate nell’ottenimento dei fondi necessari e delle quote associative. Ancora una volta Bologna si mostrò fredda all’iniziativa di quanti tentavano di allineare la provincia alle predisposizioni sta-tali e alle politiche perseguite dalla altre zone produttrici. Tuttavia, nonostante le iniziali perplessità, il Comitato Direttivo del Consorzio poté riunirsi uffi cialmente il 6 Luglio dello stesso anno e approvare il proprio Statuto.

Ai Comizi Agrari fu indirizzata una circolare affi nché predisponessero la fondazione di Commissioni Circondariali, preposte alla vigilanza sui vigneti «in-cludendovi sempre, dove esisteva, il Delegato Antifi llosserico Governativo»,(237) che poteva fi nalmente contare su un organo esecutivo e cessava di essere una fi gura puramente simbolica. Le elezioni andarono tuttavia per le lunghe, tanto che furono necessari parecchi richiami alle sedi locali dei comizi perché dessero seguito alle disposizioni ricevute; simultaneamente «si approvò il Regolamento organico, cioè le modalità dei rapporti fra i diversi elementi di cui si compone il Consorzio, per chiedere l’appoggio alle Autorità pei propri incaricati».(238)

Dopo l’espletamento delle elezioni dei Corrispondenti “sorveglianti” nominati dalle Commissioni Circondariali, fu discusso un Manifesto, una sorta di prontuario che potesse aiutare i delegati nello svolgimento delle loro mansioni. «Il dovere dei signori sorveglianti è triplice: 1.° tenersi informati colla massima sollecitudine dello stato dei vigneti e delle viti in generale nel rispettivo Comune o frazione di Comune; 2.° verifi care quanto si possa sollecitamente ed esattamente lo stato di esse viti o vigneti; 3.° fare immediato rapporto alle Commissione Circondariale dei fatti verifi cati e delle relative notizie assunte».(239)

Per svolgere appieno i propri compiti si richiedeva ai sorveglianti di essere degli osservatori attentissimi e degli ottimi ispettori, di conoscere a menadito il territorio loro assegnato e la situazione di ogni vigneto senza nessuno scrupolo nel riferire ogni caso sospetto. «In caso di resistenza alla visita per parte del proprietario, i signori Corrispondenti sorveglianti possono rivolgersi al Sindaco, per invocare il concorso della sua autorità morale, alfi ne di eliminare per via di

(236) C. Bianconcini, Notizie sul Consorzio Antifi llosserico Emiliano testé costituito, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 31 (1891), pp. 99-108, in particolare p. 100.

(237) Ibid., p. 102(238) Ibid., pp. 102-103.(239) Ibid., p. 104.

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persuasione la resistenza incontrata».(240) Così espresso, il potere coercitivo risulta piuttosto debole, lasciando all’iniziativa personale ampi margini di manovra, sebbene la campagna antifi llosserica avesse oramai pochi detrattori.

La promozione delle viti americane, continuò invece a suscitare qualche dubbio, sebbene anche il Consorzio si schierasse in favore di esse come unico rimedio effi cace per «sostenere la lotta» e provvedere alla necessità di una nuova e stabile produzione vitivinicola.

La vitalità dei Consorzi si mostrò molto più lunga di quella che ci si sarebbe potuto aspettare dalle prime, contrastate, mosse d’esordio. In realtà, la recidiva del morbo rese necessaria, dopo la legge che nel 1878 aveva reso obbligatorio lo sradicamento dei vigneti infetti, un secondo decreto statale del 1888, che ribadiva l’impegno dello Stato nella lotta alla Fillossera, a cui, però, non seguirono gli stanziamenti sperati dalle associazioni provinciali impegnate nella lotta, per cui i risultati tardarono ad arrivare.

I Consorzi Antifi llosserici videro anche il progressivo allargarsi delle proprie orbite d’infl uenza, non dovendo più occuparsi semplicemente della sorveglian-za dei vigneti, ma curare anche «estesi vivai di viti americane con le migliori varietà rispondenti alle diverse condizioni dei territori consorziati». Ai Consorzi fu affi data l’istituzione di «vigneti sperimentali per dimostrare praticamente ai viticultori come si debba procedere per la ricostruzione e nei nuovi impianti, al fi ne di evitare errori ed insuccessi», di preparare «barbatelle innestate» da cedere ai viticultori a prezzo di costo e di istruire «gli operai nella necessaria pratica della moderna viticultura, in scuole, che sono frequentatissime».(241) Agli inizi del Novecento «queste organizzazioni erano potentissimi organi di controllo sul territorio, contro le frodi e per la difesa e il progresso delle viticultura [...] per difendere gl’interessi e propagare le idee».(242) Forse troppo potere per un organo solo. Nel 1907, già al di fuori dei limiti della presente ricerca, la fotografi a dei Consorzi cominciò a mostrare qualche incrinatura, tanto da rendere necessaria un’azione di sensibilizzazione per correggere qualche prevaricazione.

Grabinski, pur riconoscendo la necessità di questi organi per il coordinamento del territorio, ammoniva: «i Consorzî pugliesi – e non soltanto quelli – si sono fatti negozianti di talee e barbatelle americane, con notevole vantaggio per i loro bilanci, ma non so se con altrettanto profi tto per le sorti della viticultura nazionale».(243) La Fillossera, continuava il nostro, nei ventisette anni in cui fl agellò senza tregua il territorio italiano, produsse una quantità immane di disastri, ma favorì, per reazione,

(240) Ibid., p. 105.(241) G. Grabinski, Sui Consorzi Antifi llosserici, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”,

47 (1907), pp. 157-174, in particolare p. 159. (242) Ibid., p. 163.(243) Ibid., p. 166.

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il nascere di un grande interesse intorno alla viticoltura. Il dovere dei Consorzi, esaurita la prima emergenza di lotta nella fase più virulenta del morbo, resta quello della ricostruzione, che deve, però, essere rapportata alla reale richiesta economica. La vendita, ben retribuita, di talee e di barbatelle fi nì invece per saturare il mercato, superando anche l’effettiva richiesta, tanto da necessitare di un nuovo progetto di legge che regolamentasse le attività consorziali, presentato dall’Onorevole Cocco Ortù nel suo mandato al Ministero dell’Agricoltura nel 1897-1898

Il provvedimento, oltre a concedere nuovi stanziamenti statali per le azioni effettivamente svolte dai Consorzi, stabiliva un tetto massimo per i costi delle quote associative che, ogni anno, venivano richieste ai proprietari consorziati, fi ssandone il massimo a una lira per ogni ettaro di superfi cie vitata. Alla viticol-tura emiliana, data la sua particolare condizione di coltura promiscua che ancora nel 1907 costituiva il più comune sistema di conduzione, venivano concessi «temperamenti diversi da quelli in uso nei vigneti per stabilire il contributo del proprietario, poiché sarebbe enorme ed affatto sproporzionato ai benefi ci che egli potrà trarre dal Consorzio, il fargli pagare una lira per ettaro contemplando nella superfi cie del fondo non solo i fi lari, ma anche i campi».(244)

Così l’Italia si avviò alla sua lenta ripresa, ma l’Europa intera uscì malconcia da questa battaglia e, soprattutto, vinta. Di fatto la Fillossera era stata, se non debellata, almeno domata, ma al costo di un radicale cambio della guardia. D’ora in poi i vitigni europei, di cui fu alla fi ne riconosciuto e recuperato il grande prestigio, poterono essere nuovamente coltivati ma solo su portinnesti america-ni. Nelle operazioni di reimpianto furono fatte sommarie selezioni che fi nirono per premiare alcuni vitigni considerati più remunerativi, e per condannarne altri che, ancora oggi, si sta cercando invece di recuperare. Nessun vigneto, nuovo o sopravvissuto, poté essere coltivato così come lo era stato prima, nulla poté ripartire dallo stesso punto in cui il male lo aveva sorpreso.

4.4. Molti nemici, molto onore. L’arrivo della Peronospora

La Peronospora (Plasmopara viticola) fu il terzo fl agello che la vite europea si trovò ad affrontare nel giro di un cinquantennio, il “terzo regalo” – come spesso è stata defi nita – fattoci dal Nuovo Mondo.

«In Europa sembra essere comparsa in epoca anteriore al 1876 in Francia e poi in Ungheria. In Italia fu scoperta dal Professor Pirotta nel 1879 in un vivaio nei pressi di Voghera e d’allora in poi si estese rapidamente in modo da mostrarsi in quasi tutte le parti del continente».(245)

(244) Ibid., p. 173.(245) G. Cugini, La Peronospora della vite, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”,

23 (1883), pp. 1-11, in particolare p. 2.

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La malattia, al contrario della devastante Fillossera, non presentò la stessa forza di contagio, i suoi attacchi furono più facilmente circoscrivibili e fortemente condizionati, secondo Gino Cugini, da fattori esterni che determinano l’espansione o la scomparsa della malattia. La situazione sarebbe stata, insomma, meno grave, se non ci si fosse trovati in una realtà già pesantemente compromessa, dove le viti rimaste erano o frutto di recentissimi impianti, o già fortemente debilitate dal passaggio dell’Oidio prima e della Fillossera poi (Fig. 17).

La Peronospora fece il suo ingresso in Emilia attraverso il Ferrarese, dove venne registrata per la prima volta nel 1882 e da lì raggiunse facilmente i territori felsinei attaccando per primi alcuni vigneti dei soci più importanti dell’Accade-mia: quelli del presidente Luigi Tanari e quelli del conte Carlo Bianconcini che era stato attivissimo nella lotta contro la Fillossera.

Del morbo si comprese chiaramente l’origine fungina, in questo simile all’Oidio, contro il quale era già stata scoperta l’effi cacia dello zolfo, e la predisposizione a colpire l’apparato fogliare.

Secondo le indagini effettuate da Cugini nel territorio bolognese, il fungo compa-riva di preferenza nel mese di Settembre e risultava di facile osservazione. Le foglie «invece di trovarle verdi o rosseggianti, non si rinvengono che brune, disseccate, increspate, come se fossero state bruciate dalla brina o dal gelo, e al piede delle viti troviamo moltissime foglie secche cadute. Le foglie che restano sulla pianta, sebbene verdi, sono sparse di macchie brune, talune affatto verdi: sono quelle che rimasero immuni dalla malattia o che da poco ne sono infette».(246) Stessa sorte tocca agli acini se la malattia si presenta prima della vendemmia, i frutti sono dapprima ricoperti da una muffa biancastra, come una polvere molto simile alla manifestazione dell’Oidio, poi si ricoprono di macchie brune; il fungo perfora la buccia e intacca la polpa che rapidamente si dissecca. Conditio sine qua non il fungo possa svilupparsi è l’umidità presente nell’aria e nella pianta a causa di forti annaffi ature. La malattia è tanto più grave quanto prima attacca la pianta; infatti, sebbene il periodo d’elezione coincidesse normalmente col mese di Settembre, non pochi casi di contagio antici-pato si verifi carono nella bassa bolognese. Il clima umido caratteristico di queste zone, più confacente ai bisogni del parassita, permise la comparsa della malattia fi n dal mese di Giugno, rendendo la sua azione più pericolosa perché manifestata durante la fase di accrescimento del grappolo, più vulnerabile e più bisognoso di nutrimento. Sebbene la malattia fosse molto dannosa alla produzione, rendendola scarsa e di cattiva qualità, essa era comunque da preferirsi alla Fillossera, commenta l’autore, perché la Peronospora non è mai letale per la vite. Le aree di infezione sono limitate e, per la sua dipendenza da fattori esterni specifi ci, la sua comparsa può essere temporanea e limitata a una sola annata.

(246) Ibid., p. 3.

114 IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

Fig. 17 - I frontespizi delle Memorie di Gino Cugini sulla Peronospora della vite. In: “Annali della Società Agraria di Bologna”, 23 (1882-1883), p. 1 e 28 (1888), p. 98.

Nel Bolognese il contagio fu osservato per la prima volta da Carlo Bianconcini, che trovò le viti di una sua piccola collezione ampelografi ca invase dal fungo.

115IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

La varietà dei vitigni dell’appezzamento colpito permise di verifi care facil-mente che le viti americane erano generalmente esenti dalla malattia, mentre «le varietà europee della vite sono tutte indistintamente attaccate, sebbene con diversa intensità».(247) I danni causati al vino risultarono notevoli, non solo per la bassa produttività delle viti infette, ma anche per la pessima qualità del vendemmiato. La raccolta doveva essere spesso anticipata per evitare che gli acini «cadano del tutto a terra» e i vini così ottenuti, sia a causa dell’immaturità, ma soprattutto per il progredire della malattia, «risultano defi cienti di alcool, di acidità relativa, di tannino, di sostanze coloranti, torbidi e diffi cilmente conservabili».(248)

Nei primi anni Ottanta del XIX secolo non era ancora possibile indicare un rimedio sicuro anche se «lo zolfo, le mescolanze di solfo e cenere, solfo e calce, debbono essere sperimentate ed applicate, che a qualche cosa varranno certa-mente». La complicazione maggiore era rappresentata dallo svilupparsi della malattia soprattutto nella pagina inferiore della foglia, diffi cilmente raggiungibile da una solforazione comune. Oltre a ciò, la parte vitale del fungo, il micelio, si sviluppa all’interno della struttura cellulare, non essendo pertanto raggiungibile dall’esterno fi no al suo completo disfacimento. L’unica panacea restava quella di raccogliere e bruciare le foglie infette già cadute a terra, non per curare la pianta, ma per diminuire il rischio di allargamento del contagio attraverso il trasporto delle spore col vento, e il ripresentarsi della malattia l’anno seguente.

Nel 1888, quasi un decennio dopo la prima manifestazione della malattia nel territorio emiliano, la scienza e la pratica avevano indipendentemente messo a punto una cura che contrastasse l’avanzata del male. La Peronospora conobbe grande diffusione in tutta l’Italia settentrionale e in alcune zone della Toscana; risulta pertanto scontato che, proprio da questi territori, arrivasse la risposta più effi cace. La prima «fu il latte di calce, che parve per un momento aver risolto la questione, che destò appassionate polemiche in Italia e fuori, e procurò una effi mera celebrità ai fratelli Bellussi di Tezze (Conegliano)».(249) Il rimedio (Fig. 18) venne sperimentato largamente in tutto il Veneto, riuscendo per qualche anno a scongiurare la malattia, se bene applicato. La diffi coltà principale di questo ritrovato consisteva nella meccanicità dell’applicazione, lenta e diffi cilmente pre-cisa. L’azione del medicamento era, infatti, «puramente meccanico», difendendo le foglie «come lo farebbe una vernice» che necessita, per essere effi cace, «che esse ne siano sempre e completamente ricoperte».(250) Per ottenere buoni risultati

(247) Ibid., p. 10.(248) Ibid., p. 9.(249) G. Cugini, I rimedi da preferirsi contro la Peronospora delle viti, “Annali dell’Accademia

Nazionale di Agricoltura”, 28 (1888), p. 98-105, in particolare p. 99.(250) Ibid., p. 100.

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servivano grandi quantitativi d’acqua e apparecchiature appropriate che riuscissero a tenere in sospensione la calce; l’azione caustica della sostanza causava, d’altra parte, il rapido deterioramento delle apparecchiature e una profonda alterazione del mosto, tanto da rendere necessario il preventivo lavaggio delle uve prima dell’ammostamento.

Il secondo rimedio era rappresentato dai ritrovati a base di rame. Utilizzato sia in forma liquida che «polverulenta», il «sale di rame deposto sulle foglie, scio-gliendosi nell’acqua di pioggia o di rugiada che dovrebbe servire a determinare il germogliamento dei conidii, lo impedisce assolutamente».(251)

(251) Ibid., p. 101.

Fig. 18 - “Iniettore idraulico Candeo” per somministrare fi tofarmaci liquidi. A destra, modello a carriola, a sinistra, modello a spalla. Da: “Giornale di Agricoltura, Industria e Commercio”, XIII, 1886, p. 328.

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Fra le forme liquide assunsero una particolare importanza: il solfato di rame, l’acqua celeste e la poltiglia bordolese;(252) mentre, fra le forme polvirulente, ebbero particolare fortuna lo zolfo cuprico, polveri di zolfo unite a quelle di solfato di rame, il gesso cuprico, messo a punto e prodotto dall’industria bolognese Ghelli, e l’argilla scagliosa, che prevedeva la mescolanza di argilla e solfato di rame. I rimedi liquidi dimostrarono una migliore effi cacia e una più facile sommini-strazione e per questo furono generalmente preferiti grazie all’impiego di una «pompa che dia un getto molto fi no, a guisa di pioggia minuta, il che produce migliore distribuzione e minore consumo del liquido».(253)

Con l’arrivo della Peronospora non si esaurirono le malattie importate dal-l’America, ma certamente cessò l’eccezionalità di questo attacco congiunto, quasi simultaneo, che sconvolse i vigneti europei.

Dopo questo periodo cessarono soprattutto i privilegi delle viti americane. Malattie come il mal dell’esca, il marciume nero, i giallumi della vite (Flavescenza dorata, Legno nero)(254), patologie che ancora oggi non conoscono terapie se non la prevenzione, ebbero almeno il merito di non fare favoritismi. È molto proba-bile che molte di queste patologie siano state generate dall’incontro di questi due mondi, selezionandosi fi no a diventare le pericolose killer che ancora oggi sono, ma certamente con la conclusione del terzetto analizzato, si è esaurito l’impatto più forte, anche emotivo, che il mondo vitivinicolo ha mai dovuto affrontare. Quello che risultò alla fi ne di questo diffi cile momento, fu un profi lo territoriale notevolmente alterato. Le geografi e viticole impiegarono anni a riprendere, e in molti casi mai del tutto, gli assetti territoriali pre-ottocenteschi. Molti vitigni scomparvero, in molte zone furono rimpiazzati da nuove varietà di origine stra-niera; ovunque apparvero barbatelle di Cabernet Sauvignon o di Chardonnay. Un tempo non era così, in Emilia come generalmente in tutta l’Italia viticola, regnava, sebbene il nostro Paese ne sia ancora ben provvisto, una ricchezza ampelografi ca che poi è andata in parte perduta.

Si può dire che la Fillossera e le altre patologie posero una cesura che non si poté ignorare, insegnando, forse, anche qualcosa di più: il vino è un affare. Non solo alimento, non solo simbolo di socialità, non solo bevanda ma anche

(252) Pur restando il rame la base di tutti i rimedi proposti, variava la sua combinazione con altri elementi attivi e la proporzione degli stessi. Così il solfato di rame prevede la soluzione del sale in acqua; l’acqua celeste, che pare essere uno dei rimedi più effi caci, che vede una composizione di solfato di rame e ammoniaca; la poltiglia bordolese, già ricordata a proposito delle cure contro l’Oidio, latte di calce e solfato di rame.

(253) Ibid., p. 104-105.(254) Per queste patologie, che pure suscitarono la preoccupazione degli studiosi del tempo, ma la

cui diffusa trattazione esula dai proponimenti di questo studio si rimanda al recente saggio di A. Graniti, Osservazioni sulla Memoria di Gino Cugini:“Ricerche sul Mal Nero della vite”, in: Testimonianze Accademiche, Bologna 2007, pp. 251-265.

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denaro. La Francia questo lo comprese prima degli altri Paesi produttori; l’Italia lo capì quando accarezzò l’arricchimento mentre i territori vitati francesi erano fuori gioco, e sfi orò la disperazione quando anche i propri furono rasi al suolo. Comunque se ne uscì con una diversa consapevolezza, frutto, probabilmente, anche del cambiamento epocale in atto, delle nuove tecnologie, dei desideri che si stavano innalzando e livellando in corsa verso il Novecento, dell’apertura verso un mondo che spalancava le porte all’era delle distanze azzerate e alla guerra mondiale. Il vino uscì dal giogo delle cantine improvvisate nell’aia di casa, gua-dagnò in controlli igienici, profumi ed equilibrio, ma perse in fantasia.

4.5. Un nuovo concetto di moderna viticoltura

La grande crisi enologica del XIX secolo portò a una revisione generale della viticoltura e dell’enologia, riaccese rifl ettori su molte questioni che trovarono nuova ribalta, suscitando un notevole svecchiamento concettuale.

Una delle prime tematiche a essere nuovamente affrontata fu quella del modo più corretto di allevare la vite. Seguendo le convinzioni che avevano trovato in Filippo Re uno dei più attivi sostenitori, l’Accademia di Agricoltura rimase a lungo depositaria di principi antichi, di sistemi agricoli fondati su esigenze diverse, che tutelavano equilibri che cominciavano a scricchiolare ma che avevano il merito di rispondere ancora a precise richieste e a una precisa idea di mondo.

Così nel 1875 si tornò a parlare di consociazione della vite con l’olmo. «Il ter-reno del nostro piano agricolo» disserta Massimiliano Rosa(255) «oltre ad essere da grano o da tiglio [...] è anche terreno da uva e da legna per attitudine del sostrato; e guai alle nostre aziende se dovesse un giorno mancar loro l’abbondante prodotto in uva, foglia e legna che ritraggono dalle attuali piantagioni, ancorché venissero compensate colla poca, sebbene sceltissima uva che si potrebbe ricavare da appartati appezzamenti a vigna: il personale rurale io ritengo diserterebbe in massa».(256)

L’oppurtunità della coltivazione promiscua è confermata e defi nita come neces-sità e vantaggio della popolazione rurale che, abituata a tale sistema, male sarebbe riuscita ad adattarsi a una diversa politica territoriale. Tuttavia le esigenze produttive col progredire dell’industria nei tanti Paesi Europei aveva fi nito per tagliare fuori l’Italia dalle avanguardie commerciali e l’Emilia in particolare, rischiava, secondo Carlo Berti Pichat,(257) di restare fanalino di coda di uno Stato già segnato da una

(255) M. Rosa, Tenimento modello, arboratura e viti, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agri-coltura”, 15 (1875), pp. 65-72.

(256) Ibid., p. 66.(257) C. Poni, Carlo Berti Pichat e i problemi economici e sociali della campagna bolognese dal

1840 al 1848, in: Fossi e cadevagne benedicon le campagne, Bologna 1982, pp. 241-282, in particolare pp. 244 sgg.

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forte arretratezza. All’inseguimento della politica produttiva inglese e francese che, commenta Pichat, non aveva portato ovunque una ricchezza generale, approfondendo in alcuni casi le distanze preesistenti fra le classi sociali,(258) si erano oramai lanciate le regioni del nord Italia, Piemonte e Lombardia in testa, con la realizzazione di imponenti infrastrutture atte a velocizzare i trasporti. Non partecipare a questo rinnovamento, di qualunque segno esso fosse, equivaleva comunque a chiudersi in un improduttivo isolamento da cui non potevano arrivare che diffi coltà sempre più gravi. In tale linea si colloca anche il discorso tenuto da Rosa, che pur restan-do dell’idea che la coltivazione promiscua «in massima è da raccomandarsi da noi come pratica molto profi cua, necessita però stabilire i limiti entro i quali essa rimane tale».(259) Una buona gestione della coltivazione promiscua, ottimizzando le risorse, restava quindi il punto da cui partire.

La prima problematica era rappresentata dalla distanza fra i fi lari. Da tempo fi ssata a 35-40 metri, la disposizione «può apparire proporzionata quando l’ar-boratura è ancora nel 1° o 2° periodo della sua età», ma risulta scarsa nei periodi successivi, quando gli alberi-tutori, raggiunto il loro pieno sviluppo, chiudono i campi in «lussureggianti muraglie»,(260) impedendo un’adeguata areazione e soleggiamento. Problematiche diverse erano anche rappresentate dalla diffi coltà di rinnovare la coltivazione, data l’attuale disposizione, e la necessaria e conti-nuativa pratica di «mutilazione degli olmi».

La pratica consigliata da eminenti agronomi, come Bianconcini e Berti Pi-chat,(261) della coltivazione della vite a cavalletto, cioè lungo il colmo di fossati paralleli, avrebbe creato, in realtà, il problema di non poter poi rinnovare le culture se non ripiantando il nuovo sul vecchio, «la quale pratica se è comoda, è altret-tanto fatale nelle sue conseguenze sulla futura piantagione [...] capace di indurre il terreno a relativa sterilità».(262) Le particolari esigenze di luce e di calore della vite poi, obbligavano l’agricoltore a capitozzare continuamente l’albero affi nché questo, dispiegando orizzontalmente i propri rami, permettesse alla vite di legar-si a essi come festoni, sbilanciando però profondamente la composita struttura arborea. Rosa proponeva pertanto l’adozione di quello che chiamò il Tenimento modello,(263) che sposava e regolamentava l’utilizzo di tre tipologie di «piantagioni arboree: i gelsi senza vite, i frutti con viti a spalliera negli interspazi, e gli olmi con vite a pioggia pendente dal castello, ed a spalliera negli intervani».(264)

(258) Ibid., p. 247.(259) Rosa, Tenimento modello,cit. p. 67.(260) Ibidem.(261) Bianconcini, Cenni sulla coltivazione, cit. p. 7.(262) Rosa, Ibidem.(263) Uno schema del Tenimento Modello è riportato in fi gura 11.(264) Ibid., p. 68.

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I gelsi avrebbero dovuto ricoprire, in alternanza con le piante da frutto, «i fi lari di confi ne fra un podere e l’altro, non che i cortili e i fi lari collaterali ai cavedagnoni(265) d’ingresso diretti da sud a nord»; agli olmi sarebbero stati in-vece riservati i cavalletti ma - secondo l’autore – questi «occupano i cavalletti alternativamente uno sì e l’altro no»,(266) alla distanza di 80 metri fra fi lari e di 8 metri fra una pianta e l’altra. Gli alberi, potati a castello, dovevano avere una parte aerea costituita di tre rami principali che partono dal tronco fi no a formare «tre palchi» da cui si diramano dodici branche minori biforcate sulla sommità «ove, con regolare alternativa allevansi ogni biennio due talee che costituiscono in complesso la chioma dell’albero».(267) A ogni pianta vengono maritate sei viti disposte in tre coppie che giungeranno alla sommità del tutore portando cinque-sei tralci per ogni pianta, allevate in modo da formare un cilindro attorno all’albero. Negli spazi lasciati liberi fra olmi e piante da frutto possono essere allevate viti a spalliera, una sorta di vivaio privato, pronto a intervenire qualora una delle viti maritate dovesse seccarsi. La spalliera potrà utilizzare fi li di ferro, tesi fra le varie piante, su cui si potranno tendere i giovani tralci secondo il sistema a Cazenave già precedentemente segnalato.(268) A perimetro dell’intera area coltivata una siepe ben potata di biancospino. Tale strutturazione della superfi cie arata, secondo le aspettative del Rosa, era realizzabile in una decina di anni e mantenere una buona rendita per gli ottanta seguenti.

Nella consociazione con l’olmo è necessario allevare più ceppi di vite per pianta per non gravare troppo la coltura con l’eccessivo ombreggiamento da parte delle fronde del tutore e per creare altresì una «coltivazione al pari delle altre intensiva, per riescire rimuneratrice».(269)

Il problema dell’allevamento della vite aprì spazi per nuove rifl essioni a proposito dei terreni maggiormente adatti a tale coltivazione, tanto che nel 1876 la Presidenza della Accademia caldeggiò l’istituzione di una Commissione di studio con il «compito di prendere sotto accurata disamina la vertenza» se fosse o meno opportuno allevare la vite nei terreni da canapa o se si dovesse invece procedere all’espianto. Rappresentanti della Commissione furono: Cesare Tu-bertini, nella qualità di presidente, Alessandro Bernardi, Francesco Roversi e Giovanni Monti, in qualità di relatore. Il territorio analizzato fu quello della piana

(265) «Secondo la defi nizione di Eugenio Canevazzi la capitagna (cavedagna) è una striscia di terra perpendicolare alla direzione de’ solchi, che si lascia dai due capi del campo per voltarvi sopra i buoi nei lavori di aratro, d’erpice e simili. (E. Canevazzi, Vocabolario di Agricoltura, Bolo-gna, 1871)» in: Un paesaggio a due dimensioni: fossi e cadevagne della pianura cispadana nei secoli XIV-XVIII, Poni , Fossi e cadevagne, cit. pp. 15-96, in particolare p. 15.

(266) Rosa, Tenimento modello, cit., p. 68.(267) Ibidem.(268) Si veda quanto detto nel paragrafo 4.1.(269) Rosa, Tenimento modello,cit. p. 71.

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bolognese, per cui la Commissione ritenne «di poter propugnare il mantenimento dei fi lari arborei vitati nella grande maggioranza dei casi, e che la soppressione di essi abbia piuttosto a considerarsi in via di eccezione, stantechè soltanto in condizioni eccezionali possa, a suo giudizio, ritenersi veramente profi cua tale soppressione».(270) La posizione della Commissione si basò in gran parte su ri-fl essioni legate ai vantaggi che la consociazione portava all’agricoltore, tenuto in debito conto di come sarebbe stata «considerata poco consona colla mezzeria (che pure è il sistema fra noi assolutamente prevalente)» la perdita di una «più facile e costante rendita» rispetto «a quanto scarso compenso tornerebbegli» con l’aumento della canapa «che derivar gli potesse dalla soppressione dei fi lari», a causa del grande dispendio di lavoro che questo richiederebbe. La mancan-za dei fi lari, poi, signifi cherebbe anche l’abbandono di altre importanti risorse collaterali massimamente rappresentate dagli alberi che, oltre al fogliame, sono portatori di legname combustibile e rifugio per svariate specie di uccelli «ritenuti i nemici principali degli insetti parassiti dell’agricoltura ed il naturale mezzo di difesa contro i medesimi».(271) D’altra parte la soppressione avrebbe potuto essere ugualmente favorevole dato il verifi carsi di condizioni particolari: nel caso in cui «non prosperando l’olmo lo si debba sostituire con piante di grande sviluppo»; quello in cui per «la poca profondità o troppa compattezza del suolo l’albero non ha durata»; e dove «avviene un genere di avvicendamento, quantunque a lungo termine, fra umida e secca coltura».(272) Dove l’olmo non poteva essere lo storico compagno della vite, la coltura avrebbe dovuto appoggiarsi ad altri grandi alberi come salici, noci o frassini, che avrebbero impoverito troppo il terreno, e, data la scarsa vocazione del suolo, non avrebbero favorito buoni. In tali casi era quindi conveniente sospendere completamente la coltivazione della vite e dedicarsi esclu-sivamente a quella della canapa, che rimaneva così l’unica risorsa possibile per impiegare questi spazi. In questo contesto, una piccolissima produzione viticola a uso esclusivo del colono per soddisfare i propri bisogni senza dover ricorrere all’acquisto, potrebbe essere comunque ospitata all’interno dell’aia, coltivando a ceppaia i vitigni più adatti alla zona, senza investirvi risorse eccessive. Dove invece il sostegno vivo poteva, per natura del terreno, sopravvivere con diffi coltà, allora era necessario, secondo l’opinione della Commissione, provvedere a una minima coltivazione della vite, condotta in alternanza agli alberi da frutto e all’erba medica necessaria per foraggiare il bestiame bovino che predilige normalmente questo ambiente. Dove invece si praticavano “colture umide” sarebbe risultato

(270) G. Monti, Relazione della Commissione per lo studio della convenienza di sopprimere i fi lari arborei vitati nelle nostre terre da canapa, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 16 (1876), pp. 185-203, in particolare pp. 186.

(271) Ibid., p. 188.(272) Ibid., p. 190-191.

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improduttivo apprestarvi la coltivazione della vite, mentre era consigliabile man-tenere invariata la coltivazione del riso. In queste terre, infatti, poteva «tornare improvvido il sistema dei fi lari vitati, potendo appunto avvenire, siccome avviene di fatto, di doverli sopprimere anzi tempo con grave iattura di chi ne effettuava la piantagione, restando così senza corrispettivo frutto il capitale della medesima erogato; e talvolta anche non bastando il ricavato dal legname di quelle giovani alberature a compensare in parte la spesa della piantagione stessa».(273)

Conclude la Commissione che «intorno a una inevitabile minorazione di prodotto del terreno occasionata dall’azione complessa delle alberature», non si potrebbe dimenticare che questa venga «largamente ricompensata dai vari cespiti di rendita» che la coltivazione promiscua permette tanto da continuare a essere il sistema giustamente preferito dalla maggior parte degli agricoltori, almeno fi ntantoché perduri, in queste zone, una gestione economica basata sulla mezzadria.

Il rapporto della Commissione generò in Accademia reazioni discordi, sinte-tizzate da Filippo Bianconcini nell’adunanza del 20 Maggio dello stesso 1876. Si creò una spaccatura interna che vide la formazione di un gruppo di soci che formò un fronte “progressista”, portavoce di un nuovo modo di concepire la produzione agricola, uscendo una volta per tutte, da una mentalità legata all’autoconsumo. Il tema, molto delicato, segnò l’inizio di una svolta di grande importanza che si affacciò facendo grande attenzione al rispetto degli equilibri preesistenti, cercando, in pratica, di inserirsi nei nuovi spazi concessi alla sperimentazione senza turbare consolidate realtà economiche. La rifl essione di Bianconcini partì pertanto da una premessa: non si discute sulla soppressione dei fi lari ove questi siano già presenti e realtà consolidata, quanto piuttosto se sia conveniente o meno impiantarne di nuovi là dove non fossero ancora previsti. «Dovendosi escludere perfi no il dubbio» modera i toni il relatore «che ad alcuno sia passato per la mente il pensiero di sopprimere il fi lare, ossia toglierlo là dove si trovi, non essendosi invece inteso che a sconsigliarne le nuove piantagioni nelle terre sopraindicate [quelle adatte alla coltivazione della canapa]».(274) L’ipotesi di Bianconcini partì da una rifl essione che si pose in una nuova prospettiva: non si cercò più soltanto di tutelare l’interesse particolare dell’economia mezzadrile, ma di dare spazio a nuove aspirazioni imprenditoriali. «Sarebbe necessario il sapere» sottolineava l’autore «qual valore avranno di qui a 8 o 10 anni le uve grasse raccolte fra le canapaie, i cui vini, come tutti sanno, non giungono all’Agosto successivo alla vendemmia, mentre noi già vediamo da parecchio tempo le nostre colline venir

(273) Ibid., p. 191.(274) F. Bianconcini, Risposta al Rapporto della Commissione sulla convenienza di sopprimere

i fi lari vitati nelle terre da canapa, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 17 (1877), pp. 209-225, in particolare p. 210.

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vestendosi ogni dì di più di nuove vigne e la vite coltivarsi con istudio maggiore che non per l’innanzi nei terreni più appropriati»; e ancora «nel tempo stesso che la produzione ingrossa senza posa nelle altre province italiane» la scarsa iniziativa bolognese favorisce l’arricchimento di chi «giovandosi della infanzia di tale industria in mezzo a noi, importa vini di lusso e vini comuni in grande abbondanza».(275)

Bologna cominciava a rifl ettere sui danni di un’economia ancora ferma agli inizi del secolo, un meccanismo sicuro e ben rodato, ma che stentava a tenere il passo coi tempi. La coltivazione promiscua presentava la controindicazione di un eccessivo assorbimento dell’azoto, che «trovansi nel terreno vicino», provocando il concentrarsi delle concimazioni nei colmi destinati alla coltivazione di fi lari vitati a causa «delle radici delle arborature che vi serpeggiano».(276) La spesa delle concimazioni, quindi, sarebbe andata tutta a vantaggio degli alberi-tutori, che avrebbero lasciato prive dell’apposito nutrimento le coltivazioni erbacee a cui era, invece, destinato. A questo limite se ne sarebbe aggiunto un altro, le-gato all’eccessivo ombreggiamento che i campi a graminacee avrebbero patito a causa della presenza degli olmi, a cui il modello di «Tenimento» presentato dal Rosa avrebbe potuto, anche se ovunque applicato, porvi rimedio soltanto in parte. L’eccessivo riparo dal sole, inoltre, sarebbe stata la causa dell’insorgere di malattie anche molto serie, causate dallo sviluppo di patogeni «volgarmente dette ruggine o malume» particolarmente presenti nel territorio felsineo.

La questione agricola, secondo quanto sostenuto dal nostro, doveva essere preponderante, pertanto era necessario tutelare l’interesse agricolo più che pensare agli equilibri della politica mezzadrile, che doveva semmai essere rivista alla luce dei nuovi interessi e modifi cata di conseguenza.

Sono, queste, affermazioni che, per la prima volta, trovano una voce così chiara all’interno dell’Accademia di Agricoltura; sono opinioni rivoluzionarie, che mostrano come l’istituzione, pur restando espressione di un ceto ben preciso, ospitasse nel suo interno personalità indipendenti.

La consociazione fra vite e olmo era criticata anche per l’aiuto che gli alberi davano come sedi privilegiate per la nidifi cazione degli uccelli utili all’agricoltura. Bianconcini non sembra credere che la dispersione degli uccelli e la diminuzione costante delle specie selvatiche fossero dovute al semplice diradamento degli alberi nei campi, ma contrappose invece una visione allargata alla «continua e progressiva invasione delle terre per parte degli agricoltori, il livellamento dei piani, lo scolo più facile e regolato delle acque, il disseccamento delle paludi, l’atterramento dei boschi, in una parola questa coltura, sempre crescente, questa

(275) Ibid., p. 211.(276) Ibidem.

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forza sovrana ed irresistibile, che non trova ostacolo in un ordine di fatti di minor conto, quantunque di alcuni di essi non sia contestabile l’utilità».(277)

La coltivazione della vite risultava assolutamente vantaggiosa se specializzata e di qualità; cessava di esserlo in un appezzamento a coltivazione mista, maggior-mente dove la viticoltura non risultava una coltivazione vocata. Meglio, quindi, la specializzazione, innovativa e, secondo il nostro, maggiormente remunerativa.

È un cambio epocale che viene qui solo sfi orato; in realtà, per arrivare a una diffusione di queste idee e a una loro costante applicazione ancora molta strada doveva essere fatta. Non si tratta solo di come organizzare un appezzamento di terreno agricolo, ma di veder tramontare una realtà complessa e composita, che mai nessuno, prima di allora, aveva pensato potesse avere una fi ne.

Nel 1886 qualche seme di questo fermento aveva già attecchito, quando fu discussa, nel Cubiculum Legistarum dell’Archiginnasio, la situazione della vi-ticoltura bolognese.

Ferdinando Bevilacqua, il relatore, esordì dicendo «di vedere, nel nostro pae-se, la più estesa confusione di idee e di pratiche specialmente nella viticoltura, confusione che fu ed è causa precipua dei molti errori in cui si incorre dalla maggior parte dei nostri coltivatori».(278) L’analisi della situazione premiò appieno l’iniziativa del solo Piemonte, «che dei suoi vini poté aprire commercio attivo, colla Francia specialmente, e coll’oltre mare. È il solo Piemonte» continuò «che, se non giunse ancora alla perfezione desiderata nei suoi prodotti, seppe però dargli quei caratteri regionali, che li fanno ricercati e pregiati all’estero, non meno che in Italia».(279) Anche l’Italia centrale, con la Toscana e gli Abruzzi davano ampia prova di sé, mentre il sud era massimamente rappresentato dalla produzione dei vini siciliani e pugliesi.

«Non escluderò che nella Marca, nell’Umbria, nelle Romagne e nell’Emilia in tutto il gran bacino del Po, nel Friuli, e nella Liguria, non si riscontri qualche fuoco fatuo, dirò così, rappresentato da qualche vino di non poco merito. [...] Ma essendo questi vini prodotti in proporzioni limitatissime, e forse da un solo proprietario, come [...] dal marchese Tanari il Liano (prov. di Bologna), non può venirne da questi vini rinomanza meritata ad una o a tal altra regione» perché, chiosa il nostro, «non possono così soddisfare, non dirò già alle larghe domande del grande commercio, ma neppure a quelle ben più modeste del consumo loca-le».(280) Le motivazioni di una così scarsa notorietà, quindi, non erano dovute alla

(277) Ibid., p. 215.(278) F. Bevilacqua, Situazione presente della viticoltura in Italia e proposte per un migliore avvenire

(per ciò che concerne la viticoltura), “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 26 (1886), pp. 19-34, in particolare p. 21.

(279) Ibid., p. 22.(280) Ibid., p. 23.

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pochezza delle terre o all’assoluta cattiva qualità dei vitigni, ma piuttosto alla scarsa sperimentazione sull’indole di ciascuno, alla poca selezione che, soprattutto nel Bolognese, era stata fatta sulle varietà più rappresentative.(281)

Invece di concentrarsi sulle potenzialità dei vitigni autoctoni, cercando di migliorarne qualità e resa, gli agricoltori emiliani continuarono a importare nel territorio vitigni stranieri, convinti che questo bastasse per produrre vini di qua-lità. «Sventuratamente» commenta Bevilacqua «non si pensò mai che l’infl uenza del clima, e la natura del suolo, troppo differenti, avrebbero portato nei vini tali varianti, da risultarne in complesso ibride imitazioni soltanto, prive di quei caratteri regionali, che rendono gli originari specialmente apprezzabili al gusto dei consumatori».(282)

L’idea di valorizzare il prodotto regionale, di cercare una buona espressione del terroir attraverso la quale fare conoscere e apprezzare una regione o una zona specifi catamente vocata, era un concetto innovativo su cui ancora oggi si fondano le politiche di mercato, e che segnò una rottura forte con le precedenti convinzioni agricole. L’idea di poter ottenere risultati apprezzabili grazie a uno studio sull’insieme di variabili di un territorio per ottenerne la migliore espressione, fu un signifi cativo cambio di rotta. L’Ottocento, gastronomicamente parlando, continuò, anche se con qualche scricchiolio, a essere ancora infl uenzato dalla grande importanza della cucina francese, e vide proporre, sulle tavole più à la page, piatti legati alla tradizione d’oltralpe.(283)

Un così spiccato auspicio per un regionalismo di un prodotto come il vino, già fortemente connotato dalla realtà francese, acquista il merito aggiunto di una inaspettata lungimiranza. La grande varietà viticola del nostro Paese costituì, in un momento come questo dove ancora l’enologia italiana si muoveva con dif-fi coltà gravate dall’ignoranza e dalla mancanza di spirito critico e collaborativo fra gli agricoltori delle regioni più arretrate, più un ostacolo che una risorsa. Il frazionamento delle colture e la grande varietà dei vitigni disperse le risorse e gli sforzi per cercare di concentrare la produzione, vinifi cazioni spesso approssimative fecero il resto. Il risultato rimane il mancato conseguimento di una produzione costante, e la mancata identifi cazione del territorio italiano, come lo era per quello francese, in alcune specifi che tipologie di prodotto. Questa è in realtà una delle caratteristiche italiane, il suo storico particolarismo politico ed enogastronomico

(281) Ibid., p. 24. (282) Ibidem.(283) Va detto che alla fi ne del secolo si assiste a un tentativo, sempre più sentito, di portare un

ordine, almeno lessicale, nelle confuse cucine italiane. Da quest’esigenza nasce l’esperien-za di Pellegrino Artusi, che con La scienza in cucina rilancia le tradizioni gastronomiche condivise ponendo le basi dell’italianità. Per tali tematiche vedi A. Capatti, M. Montanari, La cucina italiana, cit. pp. 237 sgg.

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rappresentò in seguito una delle sue doti principali, nel turismo, nella gastronomia e anche nell’enologia,(284) ma si parla di un momento che era ancora al di là dal venire; per ora la varietà rappresentava, per chi combatteva contro scarsi mezzi tecnici e diffi denza culturale, soprattutto un ostacolo.

Bevilacqua registrò anzitutto un cambiamento nel gusto rispetto alle «gene-razioni passate» che preferivano «vini alcoolici, dolci e fragranti». Oggi – com-mentava – «non tarderemo a riconoscere un’opposta tendenza, quella cioè pei vini rossi o bianchi di tipo asciutto ed austero».(285) Per cercare di soddisfare queste nuove richieste la provincia di Bologna importò «dalla Francia più specialmente e dalle privilegiatissime sponde del Reno» vitigni stranieri che si aggiunsero alla grande varietà degli autoctoni «snaturandone i prodotti».(286) La situazione risulta particolarmente complessa nel territorio felsineo, dove, «fi no da tempo remotissimo si preferirono esclusivamente le uve bianche, e ciò per ottemperare alle esigenze del gusto che già vi ho accennato avere prevalso nei tempi passati, pei vini liquorosi e forti». Da questo deriverebbe, secondo l’analisi dell’autore, la stragrande maggioranza di vitigni a bacca bianca «tanto indigeni quanto im-portati», che si registra nella regione, a cui «dovremo aggiungere le non poche varietà di uve nere o rosse introdotte, in vista di obbedire alle esigenze dei tempi nostri».(287) La confusione generata è tale, rincara Bevilacqua, che anche per quelle varietà apprezzabili per la loro resistenza alle malattie, come il Negrettino, la presenza di cloni è talmente diffusa da «porci nel grave imbarazzo di non sapere noi stessi determinare, quale sia fra quelle, la varietà che avremmo desiderato di propagare sotto il nome di Negrettino».(288) Il buon risultato ottenuto dalle regioni italiane più avanzate partì dalla selezione dei vitigni e dall’eliminazione di quelli di scarso valore per concentrarsi invece sulla produttività di quelli più meritevoli, oltre che dal miglioramento apportato ai sistemi con cui i vini erano prodotti. Questo doveva essere il punto di inizio di una nuova politica enologica condivisa dall’intero territorio italiano, maggiormente severa dove maggiore era la necessità di una sua attuazione in tempi rapidi.

«La eliminazione però non può farsi precipitatamente ed a casaccio, ma vuol essere conseguenza di un accurato studio ed esperienza, che rilevando le buone qualità del frutto di alcuni vitigni, accoppiate a una certa rusticità e robustezza delle piante contro le malattie, possa rassicurare i coltivatori, che sarebbero invitati e incoraggiati a seguire il nuovo e unico indirizzo».(289) Selezionare re-

(284) Ibid., p. 345.(285) Bevilacqua, Situazione presente della viticoltura, cit. p. 25.(286) Ibidem.(287) Ibid., p. 26.(288) Ibidem.(289) Ibid., p. 28.

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stava quindi la prima necessità per un rinnovamento dell’enologia bolognese, nel tentativo di «rendere in un giorno prossimo nella nostra Provincia unico il concetto di coltivazione della vite, consono, e costante il suo prodotto in vino». Una produzione affi dabile e riconoscibile sono gli elementi indicati dall’autore come garanzie per un ritorno commerciale e per una migliore tutela regionale a vantaggio dell’economia locale.

Per arrivare a creare un’altra immagine del territorio emiliano era necessario garantire una metodologia produttiva, una politica economica che rendesse fruibile su vasta scala il meglio della produzione regionale, convogliando tutte le forze agrarie presenti in loco nel conseguimento di questo obiettivo e nel rispetto degli standard fi ssati. Per cercare di diffondere questi ideali era necessario non contare solo sulla partecipazione delle classi più agiate, ma anche di chi, nel quotidiano, doveva portare alla luce questo risultato comune. Bevilacqua propose pertanto la creazione di “Circoli Enofi li” con l’intento di istruire gli agricoltori, mettendo in luce i vantaggi che una tale politica poteva aiutare a conseguire. Partendo da una corporazione di produttori in accordo sulla tipologia di produzione da perseguire, si cominciò a pensare all’idea di una struttura unitaria sicura e igienicamente garantita, dove gli associati potessero conferire le uve per eseguire le pratiche necessarie per una produzione di alto livello.

È l’idea delle Cantine Sociali, che di queste terre diverranno croce e delizia.Certamente, nel momento in cui fu proposta, l’idea dovette sembrare vincente

e in quel contesto certamente lo era. La situazione bolognese, e complessiva-mente quella dell’Emilia-Romagna, necessitava di una regolamentazione, di un controllo centralizzato che si sostituisse alle iniziative personali che non avevano la preparazione, anche culturale, e i mezzi tecnici per riuscire a dare risultati pa-ragonabili agli standard che il mercato europeo richiedeva. Il progetto di creare cantine “pubbliche” in cui conferire le uve della provincia, o quantomeno quella di limitare la vinifi cazione selvaggia a opera di coloni spesso disattenti alle più basilari norme igieniche, trovava oramai vasti consensi anche al di fuori delle mura dell’Accademia; nella fi era enologica tenutasi a Rimini nel 1886, dove mag-giormente si scontrava la grande quantità di uve prodotte con la pessima qualità dei vini prodotti, la commissione giudicantrice che presiedeva la competizione, rappresentata dal giurato Carletti, «proponeva di limitare il lavoro del colono alla produzione dell’uva con l’obbligo del conferimento al proprietario, al fi ne di confezionare il vino industrialmente e tentando di ottenere forme unifi cate e quindi meglio commerciabili di prodotti vinicoli».(290) Una vera separazione tra il mondo agricolo che produceva l’uva e uno artigianale-industriale che la trasfor-

(290) Pedrocco, Problemi di storia delle tecniche viticole ed enologiche in Emila-Romagna (1800-1940), cit., p. 71.

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mava in vino, si ebbe in realtà solamente nel primo dopoguerra, quando i grandi movimenti politici e cattolici tendevano a tutelare i loro associati portando allo sviluppo della cantine sociali in tutto il territorio, maggiormente nel Modenese meno in Romagna.(291)

Nella Regione, anche se le cantine sociali non riuscirono a qualifi carsi sul mercato come produttrici d’elezione, ottennero tuttavia adesioni tali da racco-gliere grandi quantitativi di uve, acquisendo un “monopolio” sulla produzione, diffi cile da contrastare. Questa contraddizione fi nì, ma è storia del XX secolo, per ostacolare l’iniziativa privata di chi, acquisite le competenze necessarie, avrebbe voluto promuovere la propria produzione sul mercato, ma si trovò a confrontarsi con una macro-realtà industriale che poteva contare su grandi risorse.

Oggi l’emergere di piccole-medie realtà produttrici di vini d’eccellenza ha cambiato il profi lo della Regione, che però ancora risente dell’immagine di produ-zioni di quantità che l’esperienza delle cantine sociali contribuì a rafforzare.(292)

La proposta di Bevilacqua di istituire un’associazione di viticoltori in qualità di soci conferenti, fu rilanciata da Carlo Bianconcini e dal presidente dell’Ac-cademia Luigi Tanari, ma nel 1886 non ottenne l’unanimità dei voti e restò solo un progetto sulla carta; ma l’esigenza di una migliore immagine e, soprattutto, di “un’immagine regionale” aveva conquistato l’attenzione dei Soci. Il 14 Febbraio di quell’anno si stabilì di dividere in due settori la produzione vinaria: uno legato a quella di vini bianchi, secondo la consuetudine per il commercio interno, e uno, di maggior pregio, a base di uve nere o rosse «pel grande commercio».(293)

La nuova attenzione enologica che investì il nostro Paese, portò il Governo a rivedere le proprie disposizioni in materia, adeguandosi alle nuove richieste.

La legislazione italiana del tempo prevedeva che dei 30 milioni di ettolitri di vino prodotti in Italia, la parte destinata al commercio con l’estero avesse il grado alcolico minimo necessario a rendere il prodotto adatto al trasporto e alla lunga conservazione. La legge stabiliva pertanto una “alcolizzazione”(294) del prodotto

(291) Ibid., p. 73.(292) Si deve tenere presente che l’esperienza delle cantine sociali, coinvolte negli anni Ottanta del

Novecento nello scandalo del “vino al metanolo”, non si può ritenere omogenea nell’intero territorio nazionale. In realtà come quella emiliano-romagnola, le cantine sociali solo in questi ultimi anni si stanno adoperando per rivalutare la propria immagine differenziando le produzioni d’eccellenza da quelle comuni, ma altrove, come nell’esperienza dell’Alto Adige e del Trentino, per esempio, le cantine sociali sono una realtà solida che non ha mai puntato a produzioni di quantità, avvicinandosi al modello europeo e, probabilmente, al disegno che Bevilacqua nel 1886 aveva in mente.

(293) Società Agraria di Bologna, Verbale dell’adunanza ordinaria delli 14 Febbraio 1886, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 26 (1886) pp. 35-36, in particolare p. 36.

(294) La pratica dell’alcolizzazione dei vini per il commercio estero era prassi antica, adatta soprat-tutto a preservare il vino da eventuali deterioramenti durante le lunghe traversate oceaniche. Da queste esperienze nacquero i grandi vini liquorosi che ancora oggi vengono prodotti e

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che non poteva garantire il raggiungimento naturale del tasso alcolico richiesto. Il sistema prevedeva un rimborso della spesa sostenuta per l’acquisto dell’alcol necessario, chiamata “tassa di fabbricazione”, se questo fosse stato acquistato presso fabbriche nazionali, mentre concedeva l’esonero dal pagamento dei diritti statali, se fosse stato acquistato da fabbriche estere. Per stabilire le proporzioni di questo rimborso fu fi ssata una gradazione alcolica media naturale, dalla quale poi veniva fatto partire il conteggio del rimborso o delle agevolazioni. La gradazione media naturale era fi ssata a 16% vol. per i vini rossi siciliani e 15% vol. per i vini rossi piemontesi. Era considerato alcol aggiunto, e quindi rimborsato, tutto quello che sopravanzava queste soglie.

Nel 1887 la Francia alzò il dazio sui vini di provenienza italiana da 2 a 20 Lire, di fatto chiudendo le frontiere all’importazione di vini esteri; l’operazione portò in Italia una profonda «crisi vinaria».(295) Con i decreti legge del 31 Agosto 1888 e del 22 Febbraio 1889, lo Stato, per contrastare l’effetto drawback, cioè della giacenza dei vini che, non trovando più uno sbocco commerciale con l’estero, rifl uivano all’interno del Paese, abbassò il valore della soglia stabilita per “l’alcolicità naturale” media, portandola prima al 13% vol., generalizzata per tutte le regioni, poi abbas-sandola ancora fi no al 11% vol., estendendola anche ai vini bianchi. L’11 Luglio 1889 fu ridotta anche la misura del rimborso, «fi no a che esistessero le cause in seguito alle quali [tale provvedimento] venne determinato».(296) Alla fi ne dell’anno la crisi fu considerata perciò superata in Novembre, con decreto reale, i provvedimenti straordinari furono revocati, e ristabiliti i termini del rimborso fi ssando una nuova soglia alcolica naturale al 15% vol. Il provvedimento fu presentato al Parlamento il 28 Novembre dello stesso anno e non ottenne la maggioranza dei voti; per questo fu nominata una Commissione incaricata di indagare sulla questione.

La Commissione si spaccò in due fronti opposti: la maggioranza «dichiarava che la base del drawback deve essere l’esatta quantità di spirito aggiunto ai vini da esportarsi, non avendo alcuna ragione di rimborso tutto l’alcool che non è aggiunto»,(297) e proponeva pertanto che l’addizionamento di alcol fosse esegui-to solo alla presenza di agenti della Finanza; la minoranza sosteneva, invece, l’impossibilità di un controllo specifi co per ogni partita di vino addizionata con alcol, e proponeva di fi ssare nuovamente delle soglie alcoliche non generiche ma declinate sulle certifi cazioni che ogni regione poteva fornire intorno al livello alcolico naturale medio raggiunto dalla propria produzione.

qualifi cano la produzione europea nel mondo; si fa riferimento, per esempio, al Porto, al Madeira e al nostro Marsala.

(295) P. Negroni, Il drawback ai vini e l’industria enologica, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 34 (1894), pp. 1-26, in particolare p. 2.

(296) Ibid., p. 3.(297) Ibid., p. 4.

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A sostegno della propria proposta, Negroni sottolineava come fosse impossi-bile alcolizzare i vini esclusivamente «o in presenza degli agenti fi nanziari negli spazi doganali 24 ore prima dell’esportazione, o in presenza dei medesimi, in uno speciale magazzeno sotto l’immediata e continua sorveglianza doganale» perché, ribadiva, «né l’uno né l’altro mezzo può adottarsi per la confezione dei vini di diretto consumo, ed anche per il coupage degli stessi vini da taglio, richiedendosi perciò locali adatti, grandi vasi vinari e libertà d’azione».(298)

L’accordo, raggiunto l’8 Maggio 1890, vide l’approvazione di un disegno di legge che prevedeva: 1. che la restituzione della tassa dell’alcol aggiunto ai vini da esportazione «conciati all’infuori della sorveglianza dell’Amministrazione fi nanziaria, venga fatta in ragione del 90% e considerando come alcool aggiunto tutto l’esistente in più degli 11° e fi no ai 14°. 2. Che tale rimborso venga limitato alla somma di £. 1.300.000. 3. Che la quantità di vino ammesso al rimborso non deve essere minore di Ettolitri 300».(299) Il provvedimento suscitò un coro di dis-sensi, soprattutto da parte del Circolo Enofi lo e dalla Società dei Viticultori, per quanto concerneva il limite a cui era ancorato il rimborso per l’alcol aggiunto. Gli operatori ritenevano che, mantenendo limiti alcolici generalizzati, non si potesse avere una equilibrata distribuzione dei proventi perché, inevitabilmente, le regioni meridionali ne sarebbero state sempre avvantaggiate, producendo vini con una gradazione alcolica naturalmente superiore a quelli del nord.

L’Accademia di Bologna diede voce a questa disparità, appoggiando la posizio-ne di quanti ritenevano che fosse oltremodo dannoso fi ssare delle medie alcoliche generali, perché tale pratica «non solo crea sperequazioni e privilegi condanna-bili, ma che non è realmente d’aiuto allo sviluppo dell’industria vinicola e che anzi nelle sue conseguenze ne è dannosa».(300) Secondo Negroni, il drawback, o premio “larvato”, avrebbe rappresentato comunque uno svantaggio per l’enologia nazionale poiché: da una parte, fi ssando una media alcolica naturale, si fi niva per premiare ingiustamente vini con una più alta gradazione, dall’altra, prevedendo una alcolizzazione solo alla presenza degli agenti di fi nanza, si impediva una libertà di produzione negli spazi e nei modi più consoni. Con l’approvazione di un tale progetto di legge - sosteneva - i primi a rimetterci sarebbero stati chiaramente i produttori del nord, che avrebbero fi nito per non produrre più i loro vini perché, anche se ben fatti, non sarebbe stato per loro possibile sobbarcarsi le spese di alcolizzazione per portare, per esempio, un vino da 8% a 11% vol., ottenendo un rimborso per quanto speso solo al di sopra di questa tara. Alla lunga, tutta l’Italia avrebbe così subìto una recessione, poiché i produttori del sud, unici a ottenere un reale vantaggio dal rimborso previsto grazie all’altissima alcolicità

(298) Ibid., p. 9-10.(299) Ibid., p. 11.(300) Ibid., p. 13.

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naturale dei loro prodotti, avrebbero inviato tutti i vini da taglio al di fuori dei confi ni nazionali.

Questo tipo di comportamento avrebbe portato a due conseguenze principali: la prima, è la circolazione di vini che non è detto che l’alto tasso alcolico rendesse di buona qualità o giustamente rappresentativa del prodotto italiano, sfavorendo l’immagine nazionale all’estero; la seconda, è l’esportazione di tali vini che avrebbe impedito la profi cua miscelazione «dei vini del nord con quelli del sud, compromet-tendo l’avvenire della nostra Enologia, non potendo mai giungere a quell’apogeo tanto desiderato».(301) L’assemblea, chiosa Negroni, sostenne la necessità di abolire il drawback e di prevedere una diversa forma di premio per l’esportazione che non permettesse le truffe e le disparità che il presente provvedimento, invece, avalla.

Le perplessità suscitate ottennero una rilevante adesione da parte di tutte le delegazioni italiane, tanto che rimostranze furono portate in Parlamento con il sostegno dell’Onorevole Colombo, che pose all’ordine del giorno lo studio di un nuovo provvedimento legge che accontentasse i produttori.

La proposta, portata avanti anche dal socio Negroni, fu di istituire un premio d’esportazione, «in ragione d’ogni data quantità di ettolitri di vino esportato ed anche con aumento della percentuale del premio in ragione delle maggiori quantità»,(302) in modo da eliminare ogni privilegio sulle medie alcoliche, e in-durre veramente i produttori a rivolgersi verso i mercati internazionali. In questo modo si evitavano anche gli accordi truffaldini fra alcuni produttori disonesti e consenzienti agenti doganali che, una volta ottenuto il rimborso per effetto del drawback, consentivano di gettare il vino in mare, disperdendo denaro pubblico e preziose risorse.

La spesa per l’alcolizzazione necessaria dei vini a più bassa gradazione, avrebbe potuto altresì trovare soluzione nella concessione del permesso di distillazione delle vinacce di scarto direttamente nelle cantine interessate, senza il pagamento delle tasse sugli spiriti. In questo modo si sarebbe ottenuto, secondo la propo-sta, il doppio vantaggio di fermare l’importazione straniera di alcol distillato da cereali, e l’addizione al vino di vero «spirito di vino», ottenendo «in pari tempo una migliore alcoolizzazione».(303)

A questi provvedimenti, già di per sé estremamente risolutivi, se ne po-teva aggiungere anche un terzo: prevedere una riduzione delle tasse sullo zucchero aggiunto ai mosti in fermentazione, che, a parere del relatore, era ancora considerato in molti casi il miglior modo per innalzare la gradazione alcolica del prodotto fi nale. Nonostante la lungimiranza della proposta, il provvedimento non ottenne risultati immediati.

(301) Ibid., p. 17.(302) Ibid., p. 20.(303) Ibid., p. 22.

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Nel 1894, tre anni più tardi, lo stesso Negroni ripresentò all’attenzione del-l’Accademia una serie di proposte del tutto simili alle precedenti,(304) tolto il fatto che, all’interno del disegno, venne prevista una sorta di “rete di contenimento” per cui, in caso di mancata attuazione dei provvedimenti più innovativi, venisse almeno riportato il valore della media alcolica naturale ai valori precedenti al 1888, cioè di 16% vol. per i vini di Sicilia e di 15% vol. per quelli del Piemonte. Come a dire: “fra niente e piuttosto, meglio piuttosto”.

Le discussioni sulla ripresa dell’enologia bolognese, e generalmente sui pro-gressi fatti da quella italiana, animarono una fi tta rete di scambi, di relazioni, di suggerimenti che si rimpallarono fra i vari distaccamenti provinciali dell’Acca-demia di Agricoltura, con l’intento di rendere fruibili e comprensibili i moderni ritrovati della scienza enologica. Centro di molte delle discussioni furono le scoperte di Pasteur sulla fermentazione, sui lieviti e sulle molte implicazioni, anche fantasiose, che da queste ne seguirono.

Nel 1895, Domizio Cavazza presentò all’assemblea riunita dell’Accademia di Bologna un memoriale dove erano analizzati gli indubbi vantaggi che le scoperte del chimico francese avevano portato, comprendendo anche gli approfondimenti del «Dott. Hansen di Copenaghen» che ebbe il merito, secondo il nostro, di «avere indicato fi n dal 1883 il metodo rigorosamente esatto di selezione dei fer-menti puri, portando i suoi studi e le sue applicazioni a distinguere i buoni dai cattivi fermenti della birra». La scoperta, si legge nel suo intervento, poté così migliorare la produzione dell’una prima ancora di quella «della maggior sorella, l’enologia».(305)

Molti sono in realtà i lieviti che contribuiscono, ognuno a suo modo, alla fermentazione, ciascuno con un proprio range d’azione e una propria vitalità, suscettibile sia alle temperature che al tasso alcolico raggiunto dalla massa fermen-tante. La scoperta dei fermenti più resistenti che potessero svolgere il maggiore quantitativo di glucosio in alcol,(306) fu un passo importante per garantire oltre che

(304) P. Negroni, Il drawback ai vini e l’industria enologica, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 34 (1894), pp. 187-206, in particolare pp. 204 sgg.

(305) D. Cavazza, I recenti studi sui fermenti in rapporto ai progressi dell’Enologia, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 36 (1895), pp. 1-22, in particolare p. 6.

(306) La fermentazione alcolica, comune a tutte le bevande fermentate, si basa sulla trasforma-zione del glucosio, naturalmente contenuto nei frutti o nei cereali, in alcol etilico, anidride carbonica e calore. La trasformazione si realizza grazie all’azione di lieviti che possono essere naturalmente presenti sulla pianta - nel caso dell’uva sulla buccia degli acini e sui raspi - o essere introdotti artifi cialmente nei vasi di fermentazione. I lieviti presenti in natura sono di diverse tipologie, ne esistono insomma di varie “famiglie” che hanno tutte le pro-prie caratteristiche, dando vita a fermentazioni che producono risultati differenti. I “lieviti apiculati”, per esempio, naturalmente presenti, possono iniziare il processo fermentativo, ma, mal tollerando sia l’anidride carbonica che l’alcol da loro stessi prodotto, fi niscono per soccombere rapidamente prima della completa conversione dello zucchero in alcol. I “lieviti

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una maggiore costanza di produzione, anche un migliore equilibrio nel risultato fi nale. L’analisi degli studiosi si concentrò principalmente sul diverso compor-tamento delle tipologie di lievito, identifi cando nell’«Ellipsiodeus il più attivo, il più energico e perseverante decompositore dello zucchero». Questo, sottolinea il Cavazza, ha la capacità di vivere «nei liquidi fermentati anche quando si sia formato fi no il 16% vol. di alcool, purché la temperatura troppo elevata (circa 40°C) o la soverchia densità del liquido, non attutiscano la sua attività».(307) Fino a qui le osservazioni trovarono sempre conferme fi siche, tanto da essere ancora alla base dell’attuale produzione di tutte le bevande fermentate. La scoperta del-l’esistenza di microrganismi a cui si doveva la migliore o peggiore riuscita della fermentazione, portò però alla convinzione che contasse non solo la tipologia dei lieviti, ma anche l’ambiente in cui questi si erano prodotti. Se il lievito poteva infl uire sulla resa alcolica, chi può dire se non potesse farlo anche sull’aroma, sul bouquet del vino? L’esperienza, messa a frutto in un esperimento condotto durante il Congresso Enologico tenutosi a Casale Monferrato durante lo stesso 1895, aveva mostrato che dato «uno stesso mosto diviso in parecchi recipienti, seminando in ciascuno con una razza di fermenti diversi: si sono sempre avuti dei vini sensibilmente diversi per le loro proprietà organolettiche».(308) Il contri-buto dei lieviti non è pertanto la sola produzione di alcol e anidride carbonica ma anche di acidi organici e glicerina che insieme a un complesso sistema di sostanze volatili crea “l’aroma di un vino”. Chiaramente la provenienza del mosto, lo stato di maturazione delle uve, la sua intrinseca qualità, sono elementi che segnano la differenza principale, ma in questo clima di generale fi ducia nel-la chimica, la provenienza dei lieviti cominciò a giocare nelle speranze di tutti un ruolo sempre più importante. Per questo pur non sconfessando l’importanza dell’equilibrio pedoclimatico per la creazione di un buon vino, molte parole, e molti sogni, furono spesi sull’effi cacia strabiliante di questi lieviti. «Esistono pure molte uve che danno vini sensibilmente neutri: queste potranno essere abbastanza

ellittici”, a cui appartiene anche la famiglia dei Saccharomyces, resistono maggiormente e sono quindi più adatti a svolgere la fermentazione alcolica vera e propria. Grazie agli studi di Pasteur le proprietà delle diverse tipologie di lievito sono state studiate, ed è stato possibile compiere scelte ragionate. Oggi le fermentazioni condotte grazie all’introduzione di lieviti selezionati, le cosiddette “fermentazioni in purezza”, sono una prassi regolare, grazie alle sperimentazioni che si attuarono proprio in questo periodo. I lieviti selezionati garantiscono una maggior resa alcolica, la produzione di una minore quantità di acidi volatili e vini più serbevoli. Attualmente, per ottenere questi risultati, si preleva un po’ di mosto, che può es-sere eventualmente pastorizzato, si aggiungono i lieviti e, favorendo la loro proliferazione grazie al controllo della temperatura, si ottiene il “lievito d’avviamento” che viene aggiunto al mosto da fermentare.

(307) Ibid., p. 8.(308) Ibid., p. 11.

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notevolmente modifi cate coll’uso giudizioso di fermenti provenienti da buoni vini, [grazie ai quali] esse potranno spesso acquistare un bouquet che loro manca e che ricorderà più o meno quello del vino da cui il lievito fu tolto».(309) Oggi si direbbe di essere nel campo della fantasia, se, per fare un grande vino da uve dozzinali, bastasse avere i lieviti specifi ci di un grande Barolo o di uno Chablis, tutto sarebbe molto più semplice. Un’idea di tale portata creò comprensibilmente un forte scompiglio, che fu però rapidamente ridimensionato. Cavazza mantenne una posizione fi duciosa ma realista, aspettando che le teorie più speranzose fossero confermate, che non avvenne.

Restò, e questo rappresentò un punto importante segnato dalla scienza, l’im-portanza dell’utilizzo di lieviti selezionati e, ancora maggiore, l’importanza di aver scoperto cosa regolamentava la fermentazione alcolica. Il contributo scientifi co rese l’uomo più partecipe e consapevole di ciò che accadeva all’interno dei tini e promosse un interesse nuovo che coinvolse tutte le procedure di cantina, dif-fondendo un maggiore senso di responsabilità e partecipazione al risultato fi nale. Forse i miracoli che si erano creduti possibili in un primo tempo non si verifi ca-rono, ma, sostenne Cavazza, «è quasi unanime il consenso degli sperimentatori [...] nel dichiarare che i vini di uve americane ottenuti con buoni fermenti di uve nostrane avevano perduto quasi affatto il selvaggio sapore di foxy caratteristico di molte uve del nuovo mondo».(310)

Le rifl essioni del XIX secolo troveranno una loro materializzazione nella realizzazione e analisi di un “vigneto specializzato” condotta ai primi del Nove-cento da Arrigo Serpieri.

Il documento presenta l’indubbia importanza di affrontare una esperienza pratica, la prima così attentamente analizzata, sottolineando problematiche e innovazioni affrontate ed eventuali resistenze incontrate.

Il vigneto sperimentale sorgeva nella zona di San Giorgio di Piano, in un terreno a base argillosa che risentiva del clima continentale della zona, con forti escursioni termiche e, durante l’inverno, il verifi carsi di frequenti gelate nottur-ne e brine mattutine. La superfi cie coltivata era di 6,4186 ettari, con una netta predominanza di uve nere e in particolare del vitigno locale Negrettino, sebbene non mancassero, in proporzioni ridotte, vitigni stranieri come il Malbeck, il Ca-bernet, il Pinot e lo Sirah importati dalla Francia.(311) Gli unici vitigni bianchi coltivati in proporzioni signifi cative erano il Sauvignon e il Semillon, presenti su

(309) Ibid., p. 13.(310) Ibid., p. 20.(311) A. Serpieri, Studio sul vigneto specializzato nel basso bolognese, “Annali dell’Accademia

Nazionale di Agricoltura”, 40 (1900), p. 25-80, in particolare p. 29. Lo specifi co delle coltivazioni sono: Negrettino ha 2,1350; Malbeck ha 1,5120; Cabernet ha 0,6000; Pinot ha 0,0930; Sirah ha 0,0840.

135IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

1,2426 ettari. La superfi cie del vigneto, fu coltivata implementando progressiva-mente l’area vitata dal 1881 fi no al 1893, arrivando a circa sei ettari e mezzo di superfi cie.(312) Il Negrettino era il vitigno più coltivato per le sue doti di buona riuscita e perché adatto a una buona produzione se usato come vitigno da taglio in uvaggi con varietà più pregiate come il Cabernet, ma si dimostrò però poco produttivo in questi terreni. Pregevole e di buona produttività furono, invece, i vitigni bianchi di Sauvignon e Semillon, ma inadeguati perché facilmente attaccati dalla Peronospora e dal Marciume dell’uva. I sistemi di allevamento sperimentati, e che conobbero in seguito una grande diffusione nel Bolognese fi no ad arrivare ai giorni nostri, furono principalmente quello a Guyot e quello a controspalliera con potatura corta, sebbene si cominciassero a sperimentare i primi impianti ad alberello, ispirati alle tecniche utilizzate prevalentemente nel Sud.

Elemento fondamentale per i vigneti piantati in queste condizioni climatiche era la possibilità di procedere a un leggero interramento delle piante più giovani in buche scavate alla bisogna nel terreno durante i mesi invernali, per ovviare ai danni delle gelate notturne. Tale operazione era possibile con tutti e tre i sistemi di allevamento utilizzati, che presentavano il tratto comune di non allontanare troppo i tralci dal piede, in modo da mantenerli più protetti dai disagi atmosferici. L’impianto del vigneto fu concepito come organizzato in due parti speculari sud-divise al centro da una «capezzagna larga circa 3 metri, con spiazzi a opportune distanze, e divisi per mezzo di fossi perpendicolari alla capezzagna in appez-zamenti alternativamente più larghi e più stretti, che corrispondono agli antichi canapai e cavalletti».(313) La distanza fra le viti e fra i fi lari si è ridotta di molto, passando dagli 80 metri fra un fi lare e l’altro a quella di 1,5 metri e di un solo metro fra una vite e l’altra: siamo a un sistema molto vicino ai precetti moderni. Fu defi nitivamente abbandonata la coltivazione con tutori vivi, preferendo, per il minore ingombro, una struttura a pali e fi li di ferro su cui stendere i sarmenti. La

(312) Ibidem. Nella tabella si riporta il progressivo aumento del vigneto dal 1881 al 1893.

Anno Ettari

1881 2,4054

1889 1,2540

1891 1,3897

1892 0,7180

1893 0,6515

Totale 6,4186

(313) Ibid., p. 35.

136 IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

potatura venne tenuta corta per favorire la migliore crescita dei grappoli; a tale scopo venivano eseguite, come ancora oggi avviene, due potature: una cosiddetta secca, effettuata in autunno e l’altra, la verde, in primavera, per eliminare i getti in eccesso e mantenere solo i tralci produttivi necessari. Ogni possibile aspetto fu in questo vigneto sperimentale tenuto in considerazione, creando una sorta di ponte improvviso dove, dall’altro capo, stanno le nostre esperienze attuali. Il vigneto di San Giorgio di Piano si può a tutti gli effetti considerare la riprova che le conoscenze tecniche erano oramai acquisite, quantomeno dagli “esperti” che poterono realizzare un impianto simile; quello che continuò a rallentare la produ-zione emiliana, e la bolognese in particolare, furono probabilmente le diffi coltà economiche e culturali che impedirono di estendere rapidamente l’applicazione del sistema studiato, nonostante ne fosse stata dimostrata la grande produttività.

Un vigneto di questo tipo presupponeva lo stravolgimento di tutto ciò che era stato fi no a quel momento realizzato per una nuova e razionale risistemazione, che richiedeva, al proprietario, spese ingenti e quattro anni di attesa prima di sapere se le cose sarebbero andate a buon termine e realizzare così i primi guadagni. Soprattutto, un’operazione del genere rappresentava una rivoluzione culturale che proclamava la vite come coltivazione primaria e non più accessoria, presuppo-nendo l’impegno per la promozione di un mercato remunerativo che ancora era visto con scarsa fi ducia. Ma le cose stavano andando, seppure a piccoli passi, in questa direzione: un lento scorrere verso una coltivazione ragionata e intensiva che aspirava a grandi sbocchi commerciali.

«E v’è sempre purtroppo il timore, nelle condizioni attuali della viticoltura, che qualcuno dei tanti suoi nemici animali o vegetali possa assumere proporzioni allarmanti, senza che si possa, almeno con prontezza, assicurar la difesa».(314) È lampante come le precedenti esperienze avessero lasciato negli agricoltori paure ancestrali che li spingevano a guardare con diffi denza quelle colline che avevano ospitato battaglie contro nemici tanto potenti. Il fenomeno fi llosserico si affacciò anche nel 1900, «ma esso, specialmente nelle condizioni studiate, non deve ormai fare troppa paura». «Per i viticoltori avveduti», rassicurava Serpieri, «che sappia-no a tempo compire gli studi di adattamento e affi nità dei ceppi americani alle nostre terre e ai nostri vitigni, esso non si presenta ormai più di soluzione così diffi cile da dover trattenere dall’impianto di nuovi vigneti». Si apriva la strada, anche per i terreni pianeggianti, a un nuovo modo di organizzare la produzione. Il proprietario aveva ora una scelta precisa da compiere: «o il vigneto si impianta nell’azienda a mezzadria, come possibile sostituto ai fi lari di viti maritate agli olmi – o esso si impianta come azienda a sé, con vero carattere di speculazione, indirizzandosi o al mercato locale o anche all’estero».(315)

(314) Ibid., p. 52.(315) Ibid., p. 53.

137IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

L’impianto del nuovo sistema di coltivazione portava l’indubbio vantaggio di ottenere, anche nel caso in cui la vigna fosse ospitata all’interno dell’azienda mezzadrile, una produzione più abbondante in uno spazio ridotto, e, secondo l’esperienza presentata, una minore incidenza dei costi per la predisposizione dei terreni, non rendendosi più necessario il sistema a cavalletto, almeno dove vi fosse un buon drenaggio naturale. Sottolineava pertanto Serpieri «dove la cadente dei terreni è favorevole, l’abbandono del cavalletto e delle alberate, colla con-temporanea introduzione del vigneto specializzato, mi pare che dovrebbe essere oggetto, per parte dei proprietari, della più attenta considerazione».(316)

La mancanza di un’organizzazione enologica nella provincia bolognese, lamen-tata spesso dai produttori, portò gli agricoltori a una eccellenza della produzione di uva da tavola, lasciando in secondo piano le potenzialità vinicole che fi nirono per essere condotte senza i necessari accorgimenti. «Siamo giusti» commentava Serpieri, «a Bologna, meno le onorevoli eccezioni, si beve male».(317)

«Bisogna che l’agricoltore organizzi la propria enologia in modo che, pur senza rinunziare al mercato locale il cui potere di assorbimento è pur possibile che aumenti, se sapremo offrire vini da pasto sani e a buon mercato, possa anche volger l’occhio al più vasto mercato nazionale, e, perché no? anche all’estero».(318) La situazione bolognese non era quindi negativa perché realmente sfavorita dalla natura, anzi «la scelta di buoni vitigni e la razionale enotecnia hanno potuto anche in pianure basse, in peggiori condizioni di giacenza della nostra, ottenere vini di consumo pregiati»;(319) l’ostacolo più grande continuava a essere rappresentato dalla scarsa opinione che i bolognesi avevano delle proprie possibilità, ancora più deplorevole per il fatto che «la nostra provincia non è forse formata [anche] di una parte collinare?». Nell’unione del «colle e del piano» si deve trovare ne-cessariamente, concludeva il nostro, «risoluzione del problema enotecnico».(320)

Razionalizzare la coltura vitivinicola bolognese signifi cava ancora differenziare fra produzione di pianura e di colle, così come rimase stereotipo, fi no ai recentissimi interventi pionieristici di alcuni produttori decisi a dimostrare il contrario. Ciò non signifi ca però che «il vigneto specializzato in pianura» diceva Serpieri «[non] possa riuscire indirettamente utile anche alla collina».(321) La proposta dell’autore, e della parte più “progressista” dei produttori locali, era quella di creare un vino «di grande consumo», che potesse trovare vasti spazi di mercato rivalutando l’idea di mescolare le uve di collina con quelle di pianura. «Abbassare il costo

(316) Ibid., p. 57.(317) Ibid., p. 58.(318) Ibidem.(319) Ibid., p. 59.(320) Ibidem.(321) Ibid., p. 61.

138 IL XIX SECOLO: CHIAROSCURO DI UN’EPOCA

del vino di collina e migliorare la qualità del vino di pianura»,(322) fu il rilancio proposto, puntando sulla produzione di «un vino da pasto di buona qualità e a buon mercato». «La viticoltura confi nata in collina, secondo la tradizione classica» ribadiva Serpieri, «può bensì risolvere il primo termine del problema – vino di buona qualità – ma non il secondo – vino a buon mercato. La viticoltura estesa dal colle al piano potrebbe conciliare i due termini. E non è neppur detto che il taglio colle uve di pianura non potesse migliorare, almeno sotto certi rispetti, la qualità stessa delle uve di colle, dove almeno queste riescono troppo alcoliche per dare un vino da pasto, di grande consumo».(323)

Il dado era tratto, verrebbe da commentare, ma ancora Bologna stentava a spiccare un vero volo. Lo sguardo dei produttori si era alzato sul proprio orizzon-te, ma ancora c’era imbarazzo a fi ngerlo all’inseguimento dei grandi produttori italiani. Bologna si scosse, tentò il riscatto, ma restò timida nel proporsi sulla scena vitivinicola nazionale e internazionale. Conscia delle proprie problemati-che, e forse complessata per l’immagine che le era stata negli anni affi bbiata, la sua enologia sembrava arrossire all’idea di affermare perentoria: «a Bologna si beve bene, anzi, a Bologna si beve meglio che altrove!». Ma passi importanti erano stati fatti, e il Novecento si aprì, sostanzialmente, con le prospettive di una vittoria. Restavano ancora da sedare le resistenze degli “agricoltori di mezzadria” e da rinnovare e scalzare metodi antichi con una progressione che non poteva certo essere facile e immediata.

Le guerre del XX secolo rallentarono questo lungo processo di riqualifi cazione che portò solo nel 1971 alla costituzione del “Consorzio dei vini dei colli bolo-gnesi”. Seguì, nel 1975, un primo riconoscimento di denominazione d’origine con l’intento di promuovere una produzione di qualità che valorizzasse il territorio, poi confermata, nel 1995, dalla Denominazione d’Origine Controllata (D.O.C.) in base alle normative comunitarie europee.

Ma questa è già un’altra storia.

(322) Ibid., p. 60.(323) Ibidem.

139LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

5. La Prima esposizione nazionale delle uve a Bologna: cronaca di un evento fantasma

5.1. Il Consorzio dei viticoltori bolognesi

Nel 1875 l’esigenza di una viticoltura concorrenziale era sostenuto da un’am-pia campagna di rinnovamento che trovava spazio soprattutto sui banchi accade-mici e poco all’ombra delle vigne. Dall’iniziativa di alcuni soci dell’Accademia partì l’idea di istituire un “Consorzio di viticoltori bolognesi”, con lo scopo di perseguire un rinnovamento comune della vitivinicultura locale, basato sul confronto continuo e sulla comunione di intenti e di sforzi, nel trovare i vitigni più rappresentativi della regione, in modo da ottenere una produzione di uva «buona e costante, da servire alla razionale fabbricazione di un unico tipo di vino da pasto».(324) Il Consorzio si proponeva l’obiettivo di riuscire a dare nuovo smalto alla produzione locale bolognese attraverso una maggiore partecipazione alla scena nazionale che ospitava spesso rassegne o esposizioni che calamita-vano l’interesse del grande pubblico. Il fronte su cui il Consorzio muoveva era quindi duplice: da una parte stavano le migliorie tecniche per nuovi criteri di allevamento della vite, trasformate in nuove procedure di produzione con una più consapevole vinifi cazione e una migliorata condizione igienica; dall’altra, si cercava di dare nuova luce all’immagine dei colli bolognesi, attraverso la promozione del territorio – al marketing, si direbbe oggi – grazie a una nuova attenzione alle esigenze di mercato e alla visibilità data da manifestazioni di largo richiamo. Per rendere possibile tutto questo gli interventi, anche econo-mici, in favore del Consorzio furono notevoli, e in larga parte sovvenzionati dalle casse dell’Accademia di Agricoltura a cui il Consorzio, sebbene giuri-dicamente separato con una propria giunta direttiva, rimase profondamente legato. La sua struttura interna prevedeva la collaborazione di venti membri,(325)

(324) C. Zanolini, G. Borraggine, D. Zucchini, Sunto storico monografi co della Società Agraria di Bologna dall’anno 1807 all’anno 1938, Bologna 1939, p. 65.

(325) Dagli atti inediti dell’archivio storico conservato in Accademia si possono rilevare i nomi dei partecipanti alle attività consorziali; l’elenco è così costituito: 1. Banzi Annibale 2. Bernard Alessandro 3. Bevilacqua Ferdinando 4. Bianconcini Filippo 5. Borghi Luigi 6. Certani Annibale 7. Isolani Procolo 8. Levi Enrico 9. Loup Luigi 10. Marconi Francesco 11. Maffei Francesco 12. Monticasignoli Severino 13. Monti Giovanni 14. Rusconi Carlo Giacomo 15.Salina Agostino 16. Sassoli Enrico 17. Scagliarini Luciano 18. Tanari Luigi 19. Zanolini

140 LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

in gran parte già noti rappresentanti delle alte sfere dell’Accademia, suddivisi in Commissioni interne, nelle quali potevano essere occasionalmente ospitati anche personaggi estranei al Consorzio stesso, la cui opera veniva richiesta in particolari evenienze per le loro comprovate qualità personali. Le Commissio-ni interne costituivano, in questi casi, il tessuto organizzativo dei vari eventi, coordinandone tutte le parti dalla promozione alla costruzione dell’iniziativa, suddividendosi internamente i compiti.

Esisteva così una «Commissione esecutiva», una «Commissione Ordinatrice» e una «Commissione Ampelografi ca»,(326) di volta in volta costituite in occasione di qualche evenienza ne richiedesse l’operato. Una così attenta spartizione dei poteri, se da una parte qualifi cava le competenze, portando il giusto apporto da parte di tutti i collaboratori, dall’altro comportava una certa “pesantezza” bu-rocratica: molti erano gli ingranaggi da muovere per giungere a una decisione unanime, perciò molto era il tempo necessario per trovare un accordo e tradurlo in pratica. Ciò nonostante la gerarchizzazione del potere non fu il problema più complesso che il Consorzio dovrà affrontare.

I lavori del Consorzio si inaugurarono il 24 Maggio 1875 con l’intento di organizzare a Bologna una «Prima Esposizione Nazionale delle Uve», in rispo-sta alle esposizioni similari che le città di Trento, Firenze e Roma avevano già recentemente organizzato e di cui si era parlato a lungo, portando notorietà ai produttori e all’enologia di quelle zone.

Bologna cercava l’opportunità di mostrare i propri prodotti e rispolverare l’antico smalto che l’aveva consacrata, nei secoli passati, come terra del buon mangiare, pertanto l’occasione di poter ospitare una vetrina internazionale dovet-te sembrare un’opportunità seducente per mettere in luce le proprie possibilità. Il successo dell’evento avrebbe poi comportato, in seconda battuta, una nuova spinta verso continue migliorie, giustifi cate anche dall’aumento delle richieste che si immaginava sarebbero piovute sul territorio una volta conclusa la mani-festazione.

Le attività e gli incontri tenuti per iniziativa del Consorzio furono molto nume-rosi durante la primavera e l’estate dell’anno della sua costituzione, dimostrando una certa forza e perseveranza della poderosa macchina messa in moto: numerosi sono gli atti protocollati nel registro delle attività, regolarmente compilato, sot-tolineando una grande determinazione nel perseguire la realizzazione di quello che doveva essere il varo del Consorzio, la propria conferma.

Carlo 20. Zucchini Ferdinando. Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1. Vedi anche Accademia Nazionale di Agricoltura, Inventa-rio dell’Archivio storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura (già Società Agraria di Bologna). 1807 – 1944, a cura di A. Campanini, Bologna 2001. p. 159.

(326) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1.

141LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

Accadde però qualcosa a cui le indubbie competenze organizzative messe in campo non seppero porre rimedio, e che si tradusse in un fallimento che segnò profondamente l’attività e la vita stessa del Consorzio appena costituito. Il 9 Ottobre dello stesso anno della fondazione, il Consorzio dei Viticoltori bologne-si pose mano per l’ultima volta al registro delle attività con una mesta lettera di ringraziamento a chi aveva contribuito a saldare i debiti contratti e, seppure non fosse stato mai prodotto un atto uffi ciale di scioglimento, sulle sue attività e aspettative calò un defi nitivo silenzio.

5.2. L’evento mancato

24 Maggio 1875: per le vie cittadine fa mostra di sé l’avviso (327) (Fig 19):

«ESPOSIZIONE DI UVE nella provincia bolognese nel prossimo autunno 1875.

Un fatto assai notevole nella nostra economia rurale è la grande estensione che da parecchi anni va prendendo la coltura della vite. Mentre però da un lato è assai commendevole quest’attività, bisogna confessare dall’altro che i viticultori, seguendo quasi individualmente un proprio speciale indirizzo e sciolti da qual-siasi accordo preliminare sui punti cardinali della coltura stessa, se giungono a provvedere di qualche guisa al loro esclusivo interesse, non potranno giungere giammai a un risultamento pratico generale che basti a dar credito e prosperità al paese. Per riuscire a questo rilevantissimo intento, per unire cioè in un sol nerbo le forze che operano disgiunte, un novero di volenterosi, riuniti in amiche-vole consorzio, ha pensato di valersi d’alcuni effi caci mezzi, tra i quali viene per prima l’esposizione di uve nostrali ed estere coltivate nella Provincia, da tenersi nel prossimo autunno con quelle norme e quei provvedimenti che emaneranno da una speciale Commissione esecutiva.

Il fi ne principale di detta esposizione è di raccogliere in modo positivo ed esatto al possibile le notizie tecniche e descrittive più importanti intorno alle uve; e di formare quasi un inventario di ciò che si possiede, per poi venire mano mano con opportuni studii comparativi a una buona e defi nitiva scelta, senza la quale, che è la base, non si può ragionevolmente sperare sorga presto l’edifi zio dell’industria vinicola.

Per meglio riuscire nell’intento, il Consorzio ha fatto compilare un modulo di domande, pregando gli espositori a voler fornire le opportune risposte, che unite poi alle notizie raccolte dalla Commissione esecutiva, e ordinate e studiate in

(327) Manifesto di pubblicità realizzato dalle tipografi e Cenerelli per conto del Consorzio dei viti-coltori. Archivio storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 1.

142 LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

Fig. 19 - Il manifesto affi sso in Bologna nel 1875 per pubblicizzare l’Esposizione delle uve. In: Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei Viti-coltori, b. 17.1.

143LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

appresso insieme a quelle delle future esposizioni, servano a formare un manuale pratico di ampelografi a bolognese.

Il Consorzio confi da che la solerte intelligenza dei Corpi morali della Pro-vincia e dei singoli coltivatori contribuirà potentemente a rendere fecondo un concetto che si collega intimamente col progresso dell’agricoltura e col decoro e colla fl oridezza economica di questa nobile Provincia.

Bologna li 24 Maggio 1875

Pel Consorzio dei viticoltori bolognesi

IL PRESIDENTE IL SEGRETARIO

F. BIANCONCINI GIOVANNI MONTI ».

I lavori presero il via uffi cialmente il 25 Maggio 1875, quando, dal Consor-zio dei Viticoltori, fu inviata al Prefetto di Bologna una notifi ca dell’avvenuta costituzione di un Collegio per l’organizzazione di un’esposizione delle uve nella città in quanto: «la coltura della vite che per forma, per la sua estensione, [costituisce] un importante ramo della produzione agricola della nostra provin-cia, e che ora veniva esercitata, siccome altrove, dietro la scossa di più razionali principii e diretta all’intento di una perfetta enologia, costituirebbe [un’attività] in alto grado profi cua e remuneratrice» ma che, lamentava il Consorzio, «trovasi generalmente qui, retta da un empirismo e ridotta di conseguenza ai risultati di pratiche puramente tradizionali».(328)

Per combattere una tendenza che veniva oramai apertamente ritenuta negati-va e deleteria all’economia regionale, la Società Agraria - l’Accademia -, viene specifi cato nella missiva, aveva ritenuto opportuno farsi promotrice di «studi concernenti la viticoltura» allo scopo di convincere gli agricoltori ad abbracciare le nuove tecniche e abbandonare quelle tradizionali «se riconosciute non buo-ne».(329) Per sua stessa iniziativa si costituiva così il «Consorzio dei Viticoltori» a cui «si affi dava di curare e promuovere con ogni utile modo il progresso della viticultura fra noi».(330)

Il Consorzio nacque, quindi, in seno all’Accademia che cercò in questo modo di dare maggiore attenzione alla coltura della vite, in linea con le tendenze politico-economiche europee, attraverso un organo appositamente dedicato. La riunione «di un numero di agricoltori di preponderanza dediti ed esercitati nella coltivazione della vite» è chiaro segno che la reputazione della viticoltura era profondamente cambiata, e, quantomeno nella teoria, molto si era fatto per una

(328) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 4.

(329) Ibidem.(330) Ibidem.

144 LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

sua riqualifi cazione come coltura primaria. Il Consorzio si proponeva di dar vita a una più attenta selezione dei vitigni coltivati e, massimamente, di «migliorare quelle nozioni tecniche, di cui tutt’ora manchiamo, risguardanti la qualità dei vitigni più estesamente fra noi coltivati».(331) Nel tentativo di dare vita allo svec-chiamento delle tecniche viticole, il Consorzio concepì l’idea di farsi portatore di un evento che potesse aiutare ad accendere i rifl ettori sulla provincia, attraverso «una esposizione di uva di Bologna» da tenersi «nella prossima ventura stagione» a cui avrebbe dovuto attendere una «Commissione esecutiva».(332) Il Consorzio concluse la lettera con la preghiera, rivolta alla Prefettura bolognese, di voler dar corpo alle iniziative attraverso un riconoscimento uffi ciale da parte del Ministero di Agricoltura e del Commercio che, informato sull’iniziativa, avrebbe potuto parteciparvi attivamente anche attraverso un congruo supporto economico.

Nella stessa data fu inviato anche all’Accademia un resoconto delle decisioni prese dai consorziati in merito alla necessità di una maggiore attenzione ai vitigni coltivati nel territorio, promuovendo la costituzione di una «Commissione Ampe-lografi ca»(333) con lo scopo di evidenziare le caratteristiche principali dei vitigni presenti in provincia, scoprirne le qualità e i difetti, così da poter procedere a una selezione e un rinnovamento colturale e culturale della regione, tale da poter essere giustamente celebrato durante l’Esposizione.

La Commissione Ampelografi ca, lavorando in parallelo «col supporto della Società Agraria»,(334) aveva il compito di aiutare nella selezione delle “uve da mostra” e, unendo «i suoi voti a quelli dell’intero Consorzio», avrebbe dovuto costituire un valido organo di indagine sul territorio e di controllo delle attività legate all’organizzazione dell’evento stesso. L’intento ultimo restava, «verifi cato il buono vitigno e la sperabile utilità dei suoi tentativi», il poterlo apprezzare «in tale proposito»,(335) quello appunto di vederlo celebrato in una kermesse a livello nazionale.

La macchina dell’organizzazione si mise subito in pieno movimento, l’idea di poter ospitare una importante occasione di notorietà e di riscontro infervorò note-volmente i consorziati che fecero seguire al primo abbozzo di progetto un’attività febbrile, testimoniata dall’infi ttirsi della corrispondenza e delle riunioni volte a rinsaldare quanti più contatti istituzionali possibili per fornire buone potenzia-lità di riuscita a un evento che, fi n da subito, prese i contorni di una ricercata uffi cialità. Il Consorzio si qualifi cò come l’ente che avrebbe guidato il rilancio

(331) Ibidem.(332) Ibidem.(333) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1,

doc. 5.(334) Ibidem.(335) Ibidem.

145LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

dell’enologia bolognese attraverso uno studio approfondito delle competenze da adottare nella coltivazione e nella scelta dei vitigni, e in questa luce presentò il proprio ruolo all’Accademia. «Costituendo» – relazionò il consorziato Giovanni Monti ai Soci riuniti in assemblea – «un Consorzio di Viticoltori, allo scopo di indicare in seguito a studi ed esperienze proprie e d’altrui ed al lavoro di speciale Commissione, i vitigni nostrali da preferirsi e da mantenersi, e così pure di pro-porne un più o meno ristretto numero di altri da importarsi dal di fuori, ritenuti meglio confacevoli alle peculiari nostre condizioni, sia climateriche che di terreno, per venirli sostituendo, nelle future nostre piantagioni, ai tanti sino ad ora con poco profi tto fra noi coltivati».(336) Il compito del Consorzio era dunque quello di selezionare i vitigni presenti nel territorio, che, per comodità, fu suddiviso in tre sotto-zone secondo la proposta di Annibale Certani, e di informare l’Accademia dell’avanzamento delle ricerche e dei risultati ottenuti.

La prima porzione del territorio analizzata era quella costituita dalle terre più basse, dai canapai e dalle terre di bonifi ca, che vennero categoricamente escluse dalla produzione vinaria ad eccezione di una piccola quantità allevando «a cep-paia»(337) vitigni particolarmente resistenti alle condizioni climatiche, come «il Negrettino, l’Uva d’oro dal picciuolo rosso e la Barbera grossa».(338) Consigliabile, in questo caso specifi co, anche la prassi del taglio dei vini con quelli ottenuti dai più delicati vitigni francesi, la cui aggiunta «sarà sempre buona pratica» per «diminuire il colore del Negrettino e della Barbera».(339)

La seconda «plaga» era costituita dalla cosiddetta «pianura alta», dove l’alleva-mento della vite era ancora consigliato maritato all’olmo, dove trovavano spazio una grande varietà di vitigni sia a bacca rossa «Negrettino, Moretta, Albana Nera, Uva d’oro», che a bacca bianca «Gatta alionza, Forcella, Montù, Albana bianca, Vernaccia». La diversa pendenza e la maggiore salubrità dei luoghi permettevano qui di «ottenere vini bianchi da pasto di buona qualità, ed una volta bene confe-zionati, abbastanza serbevoli da potere servire anche al commercio».(340)

La terza partizione contemplava le colline. Era chiaramente questa la parte che più di ogni altra era adatta alla coltivazione della vite, dove «trovansi i terreni più adatti»(341) per una produzione di pregio che comprendeva l’allevamento di molti vitigni francesi del Bordolese, vitigni siciliani, toscani e della penisola Iberica, come

(336) G. Monti, Alcune proposte dirette alla scelta e adozione dei migliori vitigni della provincia presentata da un Consorzio di viticoltori, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 15 (1875), p. 23-41, in particolare p. 24.

(337) Ibidem.(338) Ibid., p. 25.(339) Ibidem.(340) Ibidem.(341) Ibid., p. 26.

146 LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

il «Madera e lo Xeres». Qui la vite era coltivata già da tempo bassa, senza l’impiego di tutori vivi, diventando di fatto la coltivazione principale del territorio.

La grande varietà di vitigni proposta dal Consorzio dei Viticoltori, portò ad alcune perplessità all’interno dell’Accademia, da parte di chi vedeva, in questo, un tradimento degli impegni presi.(342) La posizione del Consorzio e della sua Commissione Ampelografi ca rimase tuttavia ferma sulla necessità di rinnovare la coltivazione bolognese, senza arrivare a una esclusività, a coltivazioni mono-varietali, ma a una selezione ragionata dei vitigni, lasciando aperta la possibilità di procedere agli espianti di quelli non ritenuti idonei.

Si parlò soprattutto di un cambiamento nel modo di intendere la fi gura del vi-gnaiolo, ed è probabilmente qui il nocciolo del problema. Il cambiamento auspicato dal Consorzio coinvolse prima di tutto i “coltivatori dell’uva”, chiamati a scegliere sulla natura dei propri vini e a una pianifi cazione della propria produzione alla luce della quale operare una giusta selezione delle uve da coltivare. Il Consorzio commise, insomma, l’errore di contare su una spontanea e corale adesione dei viticoltori locali alla causa della rivalutazione dell’enologia bolognese, che invece non ci fu. «L’arte adunque del buon viticoltore» – auspicava la Commissione – «consisterà nella giudiziosa scelta fra la schiera delle indicate uve, di quella o quelle soltanto che meglio si attaglino al proprio bisogno, avuto riguardo ai peculiari caratteri ed alle qualità del vitigno da preferirsi; e principalmente poi esso prenderà norma su ciò, dal vino che si proponga di ottenere».(343) Afferma-zione signifi cativa ma fortemente prematura per i tempi in cui venne formulata, almeno per quanto concerne la realtà bolognese. Tale cambiamento di rotta sulla questione enologica era ampiamente condiviso nelle alte sfere dell’Accademia di Agricoltura, e lo dimostrarono i tentativi e le sperimentazioni che furono attuate anche negli anni che seguirono l’attacco fi llosserico.(344)

Quello che continuò a mancare fu un disincantato interfacciamento col ter-ritorio, con la sua realtà quotidiana e con le sue forze lavoro. La posizione del Consorzio puntò chiaramente verso un rilancio dell’enologia indigena, intesa come uno sforzo continuo nella miglioria della produzione autoctona, pur non escludendo i vitigni stranieri; qui sta la grande lungimiranza delle politiche consorziali, e anche il punto di maggior scollamento da quelle accademiche. L’introduzione di nuovi vitigni era vista con sospetto dall’Accademia, che sosteneva fossero già eccessive le varietà coltivate nel territorio; il Consorzio, invece, virò decisamente verso un libero apporto estero, simultaneamente a una più attenta considerazione e selezione del germoplasma locale.

(342) Dalla Memoria si deduce che l’Accademia avrebbe forse preferito una più drastica riduzione dei vitigni di cui fosse consigliata la coltivazione. Ibid., p. 28.

(343) Ibid., p. 27.(344) A questo riguardo si rimanda al paragrafo 4.5.

147LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

I dubbi principali sull’introduzione di vitigni stranieri erano legati alla diver-sità dei climi e dei terreni di impianto, che erano allora valutati come i fattori principali della buona riuscita della coltivazione. Gli sforzi consorziali si appun-tarono su importazioni sostenute da minuziose indagini preventive, nel tentativo di individuare vitigni stranieri abituati a climi e terreni simili a quelli emiliani, assicurando così una migliore naturalizzazione. L’illusione di poter ottenere vini identici a quelli ottenuti nella terra d’origine dei vitigni importati rimase, comunque, a lungo disattesa. Nonostante le rimostranze fatte dai consorziati, la posizione dell’Accademia rimase invariata e prevaricante, pertanto il Consorzio fi nì per accettare la decisione di tutelare, oltre che la salvaguardia dei vitigni autoctoni migliori, anche quella dei vitigni stranieri più pregiati già presenti nel territorio emiliano senza nuove sperimentazioni. Monti, segretario del Consorzio e trait d’union fra questo e l’Accademia di Agricoltura, concluse la sua relazione affermando che «i larghi guadagni non si conseguiranno, specialmente per ciò che riguarda il mercato all’estero, continuando colla vecchia pratica tradizionale e empirica, sì bene facendo proceder l’arte al lume della scienza, e pensando, che il grande problema a risolversi [...] sta nel trovar modo di ottenere prodotti ottimi e darli a buon mercato».(345)

L’indagine portata avanti dalla Commissione Ampelografi ca portò comunque a una maggiore coscienza delle tendenze colturali dei territori bolognesi, regi-strando le presenze più signifi cative e studiando le diverse esigenze climatiche e di allevamento dei vitigni che affollavano il territorio, comprensivo di tutte e tre le zone in cui era stato suddiviso. L’operazione generò un prontuario, o meglio un piccolo memorandum delle uve presenti, riassumibile in uno schema (Tab. 4) che presenta notevoli imprecisioni e omissis, ma che ha il sicuro pregio di portare piccoli spiragli di luce in una situazione che, prima dell’arrivo della Fillossera e del suo forzato incentivo ai un nuovi impianti, si presentava molto confusa.

In linea con il manifestato desiderio di dare ampio risalto al processo di rin-novamento in atto nella viticoltura bolognese, il Consorzio comunicò al Sindaco della città, in una lettera datata 26 Maggio 1875, il progetto di una «mostra od esposizione delle più pregiate uve e primizie coltivate» identifi candolo come «primo intendimento» del Consorzio da effettuarsi «in Bologna nella prossima autunnale stagione».(346) La collaborazione richiesta al Sindaco consisteva, oltre che nella condivisione e nel sostegno degli ideali professati, anche nel voler «concedere e destinare al Consorzio» un ambiente adatto all’esposizione all’in-terno degli spazi municipali per il periodo compreso dal «1° Settembre al 15 di

(345) Monti, Alcune proposte, cit. p. 32. Il corsivo è originale del testo.(346) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1,

doc. 6.

148 LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

Ottobre»,(347) promettendo in cambio un ritorno economico rappresentato, non da ultimo, dal rilancio dell’economia regionale.

Dagli atti conservati in Accademia si deduce che il Comune di Bologna, pur plaudendo all’iniziativa proposta dal Consorzio, non si fece carico di nessuna signifi cativa collaborazione, limitandosi a non ostacolare le risoluzioni prese per l’organizzazione. L’atteggiamento del Municipio divenne, col tempo, sempre più ambiguo, mostrandosi sordo e muto ai numerosi solleciti inviatigli dall’Ente con l’intento di ottenere almeno una presa di posizione chiara.(348)

L’inizio uffi ciale delle iscrizioni all’Esposizione, aprì i battenti presso i locali dell’Archiginnasio dal 21 Agosto al 5 Settembre dello stesso anno.

Il 2 di Giugno la «Gazzetta dell’Emilia» pubblicò un trafi letto dove la citta-dinanza veniva informata dell’organizzazione di una Esposizione delle uve il cui «scopo principale [...] è il raccogliere in modo positivo ed esatto al possibile, le notizie tecniche e descrittive più importanti intorno alle uve, di formare una statistica della viticoltura nella provincia bolognese, da cui constino le qualità

(347) Ibidem.(348) Esemplare in questo senso la lettera inviata il 9 Agosto, indirizzata all’attenzione del Sindaco

bolognese, con la richiesta di prestare attenzione alle necessità manifestate più volte dal detto Consorzio in occasione dell’organizzazione della Esposizione delle uve. Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 13.

Tabella 4 - Elenco dei vitigni maggiormente coltivati nel territorio bolognese nel 1875 (Da: G. Monti, 1875).

UVE BIANCHE

Nostrali Toscana Borgogna Bordolesi

Gatta Alionza Malvasia bianca Pinot o Pineau bianco Sauvugno o Sûrine

Forcella senza odore jaune del Sauterne

Albana bianca Semillon o Semeillon

Vernaccia

UVE NERE

Nostrali Toscana Piemonte Borgogna Bordolesi

Aleatico Sangioveto di Broglio Grignolino Pinot o Pineau nero

Negrettino Canaiolo Nebiolo (Borgogna)

Moretta Barbera grossa Malbeck

Carmenet o Cabernet

(Bordolesi)

149LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

dei vitigni più generalmente da noi coltivati, il modo di coltura, i difetti o i pre-gi di essi vitigni e le qualità dei vini che si ottengono»,(349) riproponendo, quasi alla lettera, le parole di sensibilizzazione che un qualunque bolognese del tempo avrebbe potuto leggere sui grandi manifesti pubblicitari che il Consorzio aveva fatto affi ggere nelle principali strade cittadine. A tale scopo, continua la Gazzetta, «il Consorzio ha compilato un Modulo contenente alcune domande su l’argo-mento, e impegna i Municipi della provincia, non ché tutti i solerti viticultori a somministrare le indicazioni richieste»(350) auspicando che, unendo le informazioni raccolte in questa occasione a quelle che verranno, «colle future Esposizioni» si possa compilare «un manuale pratico di Ampelografi a bolognese».(351) Una ridondanza che sottolinea l’importanza rivestita dall’adesione della cittadinanza all’iniziativa, necessaria per il decollo della stessa.

La pubblicità fatta intorno all’evento ottenne in un primo momento una certa eco, tale da risvegliare l’interesse scientifi co della provincia, e spingere il Consi-glio Amministrativo del Laboratorio Chimico Agrario provinciale a manifestare il desiderio di partecipare attivamente alla manifestazione.

Al presidente del Consorzio, Filippo Bianconcini, giunse la richiesta «di destinare nel locale dell’esposizione una camera ad uso di laboratorio per tali studi ed esperienze essendo che inagevole ed incomodo sarebbe il trasportare le uve nel laboratorio chimico agrario».(352) La richiesta, protocollata il 17 Giugno, fu inviata, dopo una decina di giorni, dal Consorzio al Municipio di Bologna(353) che veniva così chiamato in causa per la seconda volta in merito ai locali da destinare all’Esposizione delle uve.

La richiesta rimase però disattesa, e il Laboratorio, non avendo ottenuto alcuna risposta, rinnovò la propria richiesta al Consorzio il successivo 12 Luglio,(354) sottolineando l’importanza della destinazione dei locali all’attività di ricerca e sperimentazione al fi ne di rendere più effi ciente e pregevole l’Esposizione stessa. A tal riguardo la richiesta prevedeva la concessione di «una stanza suffi cientemente ampia e fornita di alcuni mobili» e quella di «un inserviente di nostra scelta»(355) a disposizione, in loco, per le analisi da effettuare sui mosti.

Il Consorzio, nella stessa data, sollecitò di nuovo il Municipio cittadino,

(349) Gazzetta dell’Emilia, Mercoledì 2 Giugno 1875, Bologna anno XVI, numero 153. (350) Ibidem.(351) Ibidem.(352) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1,

doc. 8.(353) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1,

doc. 9.(354) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1,

doc. 11.(355) Ibidem.

150 LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

rinnovando la richiesta della concessione di locali adatti all’uso indicato senza però riuscire a sbloccare la situazione. Nel frattempo l’attività consorziale ave-va infi ttito le proprie riunioni interne al fi ne di ultimare al più presto le nomine uffi ciali delle varie Commissioni per poter dare seguito ai lavori. Nell’adunanza del 27 Giugno vennero ratifi cati i nomi dei componenti del Consorzio stesso e dell’interna Commissione Ampelografi ca provinciale, in modo da poterne noti-fi care l’esistenza in via uffi ciale alla Prefettura della città, congiuntamente alla richiesta di un suo interessamento per l’ottenimento di «un fondo governativo per le spese dell’esposizione stessa».(356)

In aiuto all’organizzazione della mostra giunse l’offerta di Raffaele Rizzoli, presidente della Società della Filatura della canapa di Bologna che, con una lettera indirizzata al presidente Bianconcini, concesse «le sale al primo piano del Palazzo della Società Filatura [...] per l’Esposizione delle uve della provin-cia».(357) Nonostante le forze in campo, resta l’impressione che l’organizzazione dell’evento presentasse più problemi del previsto, e le diffi coltà appesantissero le pratiche d’avvio. Dello stesso parere era forse anche lo stesso Rizzoli, che fece seguire alla prima gentile concessione una seconda comunicazione, protocollata dal Consorzio dei Viticoltori in data 28 Agosto, dove faceva giungere chiara ri-chiesta di garanzie prima di consegnare le chiavi degli spazi promessi. Diretta al presidente Bianconcini arrivò, nero su bianco, «il desiderio dello stesso Consiglio di Amministrazione [della Società della Filatura] ch’Ella particolarmente si renda responsabile e garante di ogni danno che si potessero arrecare ai locali concessi, li quali d’altronde debbono mantenersi ben puliti a spese del Consorzio».(358) Si ipotizza l’esistenza di una certa diffi denza verso l’iniziativa, che aggrava la sensazione che le cose non stessero andando bene e che fossero perciò chiamate in causa anche forme di assicurazioni personali, fondate, così sembrerebbe, più sull’onore degli attori che su un normale scambio di competenze. È lecito suppor-re che assicurazioni tanto dettagliate fossero la risposta a indiscrezioni trapelate nell’ambiente, sulle cattive acque in cui si trovava l’organizzazione dell’inizia-tiva o, semplicemente, sulle diffi coltà incontrate; fatto sta che il Municipio non concesse le sale più volte richieste, e la Società della Filatura, dopo un iniziale slancio, sembrò voler frenare e cautelarsi in dirittura d’arrivo.

(356) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, “Verbali d’Adunanza” del 27 Giugno 1875, fasc. 1.

(357) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 17. La Società della Filatura di Bologna aveva la sua sede uffi ciale in via San Felice, dove disponeva di vasti ambienti dove la mostra sulle uve poteva essere comodamente ospitata.

(358) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 23.

151LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

La risposta di Filippo Bianconcini non si fece attendere. Il giorno successivo partì dalle sale del Consorzio una missiva diretta alla sede della Società della Filatura bolognese. In essa Bianconcini esordiva assicurando che «tanto nel mio particolare, quanto quale Presidente del Consorzio dei viticoltori, io mi rendo responsabile e garante di ogni danno che potesse venir arrecato alle Sale del primo piano del Palazzo di proprietà della Società da Lei rappresentata indipen-dentemente dall’uso dell’Esposizione di uve, per le quali vengono dalla Società stessa generosamente concedute».(359) Il Presidente del Consorzio, insomma, non sembrò aver gradito troppo la pressione esercitata e così non solo garantì in merito all’Esposizione, come gli era stato richiesto, ma per tutto il tempo in cui l’Ente da lui rappresentato sarebbe restato in possesso delle chiavi delle sale, indipendentemente dalla realizzazione o meno della manifestazione. Poi, con sot-tigliezza, espresse i propri dubbi in merito al verifi carsi di qualche reale danno, assicurando la grande rettitudine «dei membri che lo [il Consorzio] compongono» che certamente «cureranno con ogni possibile impegno e sollecitudine a che non venga arrecato alla Sale in benché minimo danno».(360) Bianconcini concluse poi lasciando il compito di ritirare le chiavi per l’ingresso alle Sale da parte di uno qualsiasi dei membri della Commissione Ordinatrice, plaudendo un accordo diretto fra le parti. Sarebbe stato più consono all’etichetta se il Presidente si fosse recato personalmente a far visita a Raffaele Rizzoli per il ritiro delle chiavi, ma forse per un impegno improrogabile, forse per la mal tollerata sfi ducia di cui era stato oggetto, Bianconcini preferì demandare ad altri l’ultimo atto della consegna.

La sensazione che le cose stentassero a partire viene confermata anche dal-l’annuncio pubblicato il 1° Settembre dal quotidiano «La Patria», dove nella pagina degli eventi locali si legge:

«Esposizione delle uve. – Nella residenza della Società Agraria restano aperti a termini del manifesto già pubblicato dal Consorzio di Viticultori, i registri d’iscrizione per concorrere alla prossima Esposizione di uve della Provincia, avvertendo che qualora il numero degli espositori iscritti non fosse per riescire tale da costituire una mostra degna della circostanza e del paese, il Consorzio si troverebbe nella necessità di rimandarne la prova al venturo anno».(361)

La proroga dei termini di iscrizione a cui fa riferimento il quotidiano, che il Consorzio aveva provveduto a pubblicizzare anche con l’affi ssione di venti

(359) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 24.

(360) Ibidem.(361) La Patria, Mercoledì 1° Settembre 1875, Bologna anno II, n. 210

152 LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

manifesti commissionati alla «Impresa Generale di Pubblicità»(362) sono la prova tangibile che qualcosa non stava andando come ce lo si era augurati (Fig. 20).

Le cose si aggravarono ulteriormente quando anche la procedura per la richiesta del sussidio ministeriale sembrò incontrare intoppi. Il Prefetto di Bologna inviò, in data 2 Settembre, al presidente Bianconcini una lettera,(363) notifi cando che, nonostante il sollecito inviato per l’urgente concessione del sussidio di £ 1000 «stante che l’esposizione ampelografi ca è fi ssata pel dì di 19 corrente mese»,(364) il Ministro di Agricoltura e Industria non aveva fatto seguire nessuna azione né comunicazione. Il Consorzio però, forse speranzoso di poter ancora volgere la situazione a proprio favore, o vedendosi ormai incapace di disdire l’impegno preso senza sollevare un polverone che si voleva evitare, decise di procedere ugualmente. Il 31 Agosto notifi cò alla Prefettura l’inizio dei preparativi per la mostra e ribadì l’attesa del sospirato sussidio.

(362) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 40.

(363) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 28.

(364) Ibidem.

Fig. 20 - Il manifesto affi sso in Bologna per notifi care la sospensione della Esposizione delle uve. In: Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei Viticoltori, b. 17.1.

153LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

La lettera inviata alla Prefettura è una sintesi di necessità e speranze: il Con-sorzio non poteva rimandare ulteriormente l’inizio dei lavori di allestimento per la mostra a causa dell’incalzare dei tempi per l’inaugurazione fi ssata, in un primo momento, per il giorno 15 Settembre e in seguito rimandata al 19 dello stesso mese. D’altro canto, però, il ritardo della erogazione del sussidio statale doveva preoccupare non poco l’amministrazione, tanto da indurre a richiedere «a mezzo del Presidente del Consorzio ampelografi co cavalier Levoley»,(365) un’intercessione al Ministero per velocizzare le pratiche. La sensibilizzazione sulla questione faceva leva sul fatto che, pur essendosi reso necessario procedere agli allestimenti, questi erano cominciati senza quella tranquillità economica che poteva garantire la concessione dello stanziamento.

A complicare la diffi cile situazione giunsero dal fronte interno anche le de-fezioni di alcuni dei chiamati a partecipare alla Commissione Ampelografi ca. Annibale Certani, la cui nomina risale al 25 Agosto, nella seduta che aveva visto l’elezione anche di Marconi, Berti-Pichat, Levi e Monti, tutti membri molto noti dell’Accademia, presentò le proprie dimissioni dall’incarico il 4 Settembre. Le motivazioni addotte furono piuttosto vaghe, soprattutto se rapportate alla grande importanza che evidentemente era stata data alla partecipazione di Certani ai lavori. «Sono oltremodo grato» spiegò Certani «alla S. V. Ill.ima e ai membri componenti il Consorzio dei Viticoltori, per l’onore che hanno voluto impartirmi chiamandomi a far parte della Commissione Ampelografi ca ed anche del Giurì delle uve che verranno presentate all’esposizione; ma stante la mancanza assoluta di tempo, ed anche delle cognizioni necessarie, sono nella dispiacenza di dover rinunziare all’onorevole incarico».(366)

Il vuoto economico e quello dell’organico non favorirono certo il decollo di un’iniziativa che era però troppo tardi poter essere fermata. La ventura esposizione delle uve era stata oramai pubblicizzata e rilanciata in tutte le compagini sociali e i salotti dell’epoca, molte spese erano state già fatte, piani e deleghe organizzative già approntate, l’insieme aveva assunto l’aspetto di una locomotiva in corsa che diffi cilmente poteva essere fermata prima dell’impatto, all’arrivo.

Il meccanismo messo in moto per l’organizzazione della mostra cominciò a dare i propri frutti il 9 Settembre,(367) quando i Fratelli Cillario, rivenditori della ditta Gancia a Bologna, comunicarono a Bianconcini di avere ritirato le mille bottiglie commissionate per l’Esposizione delle Uve, concludendo la missiva

(365) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 26.

(366) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 29.

(367) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 30.

154 LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

con un ottimistico «appena ne avrete bisogno, vi preghiamo di avvisare che ve le faremo avere».(368)

Il risveglio dovette essere piuttosto brusco. Nel giro di due giorni il Consorzio tentò una fermata di emergenza, una virata decisa per cercare di salvare almeno la reputazione, visto che alla perdita economica era oramai impossibile porre riparo. Impossibilitato a portare a termine l’impegno preso, il Consorzio si vide costretto a dichiarare senza altri indugi, nell’attesa di un improbabile lieto fi ne, il fallimento dell’esperienza. La tipografi a Cenerelli, a cui era già stato com-missionato il manifesto per l’apertura dei lavori intorno all’iniziativa,(369) chiuse il cerchio, pubblicando, in data 10 Settembre, l’avviso recante la disdetta della realizzazione della mostra, nel quale si leggeva appunto che: «Lo scarso numero degli espositori iscritti per la mostra delle uve indetta dal nostro Manifesto in data 24 Maggio, ed alcune ragioni di ordine superiore hanno suggerito al Consorzio di rimandare la mostra medesima all’anno prossimo».(370) La partita era persa, restava da pagare il conto.

Il Consorzio cominciò col fare ammenda a tutti coloro che, in un modo o nell’altro, erano stati coinvolti nell’impresa. Il 14 Settembre fu, per l’Ente il Mercoledì delle Ceneri. Prosciogliendosi dagli oneri dei vari incarichi affi dati, il Consorzio fece pervenire i propri ringraziamenti alle Commissioni, Ordina-trice e Ampelografi ca, che avevano lavorato alla realizzazione della mancata Esposizione, comunicando uffi cialmente ai propri membri di aver rimandato la manifestazione a data da destinarsi. Seguono i ringraziamenti al presidente della Società di Filatura, Raffaele Rizzoli, per la concessione dei locali, sollevandolo dall’impegno preso.

Questa era però solo la punta dell’iceberg. Le istituzioni mosse in favore del-l’organizzazione, le catene burocratiche a cui si era dato avvio furono le ultime a recepire il cambio di rotta e continuarono, negli stessi giorni, a far procedere nel rilascio di concessioni, nomine e permessi per un evento che non ci sarebbe più stato, facendo scivolare i termini della questione nel grottesco. Così, se da una parte la cancelleria del Consorzio faceva pervenire avvisi, scuse e ringraziamenti, dall’altra le venivano notifi cate, quasi simultaneamente,(371) dapprima la ricusazione del sig. Lavoley a partecipare alla mostra ampelografi ca in qualità di «presidente

(368) Ibidem.(369) Si fa riferimento al manifesto realizzato il 24 Maggio, il cui testo è stato riprodotto all’inizio

del paragrafo. Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 1.

(370) Avviso realizzato dalle tipografi e Cenerelli per conto del Consorzio dei viticoltori. Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 31.

(371) I due documenti a cui si fa riferimento sono protocollati dalla segreteria del consorzio uno, il n. 34, il 14 Settembre 1875, l’altro, il n. 36, il 17 Settembre, Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1.

155LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

del Comitato Ampelografi co Centrale presso il Ministero di Agricoltura Industria e Commercio», causa l’impegno improrogabile «come giurato al concorso Regionale in Firenze»,(372) poi, la notifi ca da parte della Prefettura della nomina del «Cavalier De Bosis»(373) in sostituzione del primo. In calce la raccomandazione, che non poté non suonare vagamente beffarda, che «qualora poi fosse stata sospesa detta esposizione, interesso la S.V. a darmene pronto avviso, onde segnalare al Ministero che ora sarebbe inopportuno il viaggio del Cavalier De Bosis».(374)

Quando i giochi erano ormai fatti giunsero al Consorzio anche gli aiuti da lungo tempo attesi. In una lettera del 16 Settembre la prefettura di Bologna co-municava l’invio «per i lavori di codesta Commissione ampelografi ca di n. 190 schede per le uve bianche verdognole, n. 190 per le uve nere, n. 100 istruzioni per la fabbricazione dei saggi dei vini e per la determinazione del glucosio e dell’acidità dei mosti, e n. 29 esemplari del 1°-2°-3° fascicolo del Bullettino ampelografi co, che sono destinati ai componenti la Commissione».(375) Oltre al supporto organizzativo e logistico – continuava la lettera del Prefetto – «mi pregio altresì di ragguagliarla che il Ministero di Agricoltura e Commercio con mandato di ieri ha disposto il sussidio di Lire Mille a favore del Consorzio, e detta somma le vien spedita dal Ministero a titolo di sussidio nelle spese abbiso-gnevoli per la mostra ampelografi ca che si terrà nel corrente mese».(376) Il denaro, così vincolato poteva essere utilizzato solamente nel caso in cui l’Esposizione avesse avuto realmente luogo, pertanto oltre al danno di dover pagare spese che sarebbero restate prive di rientro, si aggiungeva la beffa di dover restituire il denaro a lungo atteso e che veniva concesso solo nel momento in cui era troppo tardi per poterlo impiegare.

La risposta di Bianconcini, come presidente del Consorzio, non poteva essere che la rinuncia al fondo ministeriale, espressa con un certo disappunto, sottoli-neando come, se «la Mostra è stata necessariamente sospesa», fra le ragioni che hanno portato a questa decisione «havvi pur quella del ritardato assegnamento [† del detto sussidio] oltre il termine non solo del necessario preventivo allestimen-to dei locali, bensì dell’apertura dell’Esposizione medesima».(377) La sensazione percepita anche allora fu quella della presa in giro, da cui la reazione composta

(372) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 34.

(373) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 36.

(374) Ibidem.(375) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1,

doc. 37.(376) Ibidem.(377) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1,

doc. 38.

156 LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

del presidente del Consorzio, attraverso la quale, però, è possibile leggere una certo risentimento.

Nella stessa missiva vennero espletati tutti i doveri burocratici pendenti, così il Ministero dell’Agricoltura venne informato, attraverso la mediazione richiesta alla Prefettura di Bologna, della rimandata esposizione all’anno successivo e dell’impossibilità, quindi, di ricevere il proprio incaricato.

Il preventivo(378) stilato per l’Esposizione delle uve faceva grande affi damento sulla partecipazione ministeriale, che rappresentava, da sola, il contributo più consistente stanziato per la realizzazione; seguiva quello previsto dalla Provincia di £ 800, poi quelli della Società Agraria e del Comizio Agrario di Bologna pari a £ 600 ognuno.

Secondo i calcoli notifi cati prima della messa in opera dell’iniziativa, la cifra totale, ammontante a £ 3000, era appena suffi ciente a coprire le spese necessarie; la perdita o il ritardo dei fondi avrebbe inevitabilmente causato la crisi dell’or-ganizzazione che, stando ai documenti conservati in Accademia, lavorava con margini di errore strettissimi.

Quando il fallimento dell’organizzazione dell’iniziativa divenne cosa risaputa, puntuali come orologi arrivarono a bussare alla porta del Consorzio tutti i cre-ditori che avevano investito parte delle loro risorse e competenze in previsione dell’evento. Il conto più ingente fu quello presentato dalla tipografi a Cenerelli che si era occupata dei manifesti e dell’aspetto logistico dell’organizzazione della manifestazione. La fattura del 1° Ottobre è un riassunto puntuale del dispiegamento di forze ed energie in cui si era profuso, senza risparmio, il Consorzio stesso. Risultano stampate, e regolarmente fatturate, nel mese di Maggio, 500 copie di avvisi per la futura esposizione, di cui 160 furono affi ssi simultaneamente sui muri della città, mentre agli Enti ritenuti sensibili alla tematica furono spedite 500 copie di Circolari volte all’ottenimento di una loro attiva collaborazione o al loro interessamento.

Nel mese di Luglio furono stampate 700 copie della domanda di iscrizione all’esposizione, e furono inviate altre 200 circolari agli Enti potenzialmente in-teressati per sensibilizzarli all’evento. In Agosto vennero stampati 300 manifesti in vista dell’apertura della mostra, di cui 150 furono regolarmente affi ssi con relativa bollatura, mentre il Consorzio si munì di 300 copie di schede descrittive da compilare per i vini in concorso, in occasione dell’apertura uffi ciale delle iscrizioni, pubblicizzata anche dalle inserzioni sui giornali.

È indubbio che le previsioni erano quelle di un grande affl usso e per questo era stata approntata un’organizzazione monumentale. Ancora più forte dovette sembrare lo smacco del riscontro.

(378) Copia del suddetto preventivo è riprodotta in Fig. 20.

157LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

Nel mese di Settembre erano state stampate 200 copie dell’avviso «pel rimando dell’Esposizione»,(379) di cui però solo 50 furono affi sse nelle bacheche pubbliche. Ci sono i sentori di una grande delusione.

Il 19 Settembre era pervenuta all’amministrazione del Consorzio anche l’im-barazzata lettera(380) dei Cillario, rivenditori Gancia a Bologna, che avevano pre-cedentemente comunicato di aver già pagato, alla casa-madre le bottiglie neces-sarie all’Esposizione. La lettera, indirizzata direttamente al «Conte Bianconcini», recita: «Lessimo nel giornale che la esposizione delle uve non ha più luogo. Siccome noi abbiamo già ritirato le mille bottiglie litro, vi preghiamo di volerne prendere nota o nel farci col tempo avere l’importo pattuito in £ sessanta».(381) Il Consorzio si vide quindi costretto a battere cassa là dove sapeva di poter contare su un aiuto sicuro; pertanto, in concomitanza con l’ennesima fattura emessa dal sig. Feliciano Romagnoli per conto del Consorzio dei Viticoltori di Roma di «£ 22,50 per spese minute di cancelleria»,(382) partì, in data 9 Ottobre, una richie-sta di aiuto indirizzata all’Accademia.(383) Si tratta, in realtà, di un proforma, l’amministrazione del Consorzio e quella dell’Accademia restarono sempre così profondamente legate da poter parlare di un semplice giro contabile di fondi. Il neonato Consorzio non aveva ancora confermato la propria autonomia così, fi n dall’inizio, a tenere i fi li dell’iniziativa fu sempre l’Accademia. Il fatto che la prima sortita del nuovo organismo fosse stata così disastrosa non fece altro che rafforzare la sua dipendenza dall’Istituzione che dovette provvedere a rifondere i danni, decretando, nella sostanza, la fi ne di questa esperienza consorziale. Nell’epilogo della vicenda il nome del Consorzio accusò il colpo del fallimento lasciando da parte quello dell’Accademia, che riuscì, grazie alle proprie disponi-bilità fi nanziarie, a pagare i debiti contratti senza essere uffi cialmente coinvolta. Sebbene tutti fossero a conoscenza dell’interdipendenza delle due strutture, la scelta obbligata fu quella di scaricare tutte le colpe su una sola parte per cercare di salvare il salvabile; chiaramente fu scelta la più recente, per salvaguardare la visibilità dell’altra che si impegnava, di converso, a saldare i debiti. La politica e l’alta Società del tempo fecero fi nta di non accorgersi di nulla, l’Accademia non registrò mai uffi cialmente la sconfi tta, pagò i conti, e il Consorzio sparì lentamente sullo sfondo.

(379) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 41.

(380) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 35.

(381) Ibidem.(382) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1,

doc. 43.(383) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1,

doc. 42.

158 LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

Per sottolineare una distanza, che era solo fi ttizia, il 9 ottobre, la cancelleria consorziale protocollò una lettera di ringraziamento diretta alla Società Agraria,(384) per il felice riscontro avuto alle proprie richieste e per l’ottenimento dei fondi necessari per il pagamento delle spese vive. Fu questo l’ultimo atto prodotto da questa amministrazione; le successive comunicazioni, come quella del saldo ricevuto dai Fratelli Cillario(385) per le bottiglie Gancia messe a disposizione, non fu mai protocollata: il Consorzio, semplicemente, sparì.

5.2. Le cause del fallimento

L’Accademia di Agricoltura, al tempo Società Agraria, ricopriva nel XIX secolo un ruolo di primo piano nell’amministrazione e nel controllo di tutte le questioni concernenti le decisioni politiche ed economiche del settore primario bologne-se, ospitando nel suo interno personalità di spicco, appartenenti principalmente all’antica nobiltà fondiaria, che ricoprivano spesso ruoli di primo piano anche nelle amministrazioni pubbliche. Era, insomma, una Istituzione potente, le cui infl uenze erano profondamente radicate nel tessuto cittadino. Le argomentazioni trattate nelle adunanze dei soci erano le più svariate, tutte le tematiche agricole vi trovavano posto, dal frumento alla canapa, fi no al baco da seta: la viticoltura era solo un settore dei tanti di cui l’Accademia doveva occuparsi.

Dall’Unità in poi si era assistito a una sempre maggiore crescita dell’attenzione per la produzione vinaria, un fenomeno che aveva rilanciato la viticoltura nel panorama europeo, a cui anche l’Italia aveva cercato di partecipare attivamente. Proprio in corrispondenza dell’infestazione fi llosserica, l’Italia aveva assunto un ruolo di primo piano nel rifornimento delle cantine di mezza Francia, prostrata dalla distruzione dei propri vigneti. Sfruttando la situazione molte regioni italiane realizzarono notevoli guadagni e incrementarono la propria produzione enologica. Non solo regioni da sempre alla guida del settore, come il Piemonte e la Toscana, si affacciarono ai mercati internazionali, ma anche altri territori meno noti come l’Abruzzo, le Puglie e la Sicilia che videro una notevole espansione dei propri commerci.(386) Fra le regioni che meno riuscirono a sfruttare queste favorevoli congiunture economiche troviamo proprio l’Emilia-Romagna e le Marche, che solo

(384) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. 44.

(385) La nota non protocollata, datata 22 Ottobre 1875, recita: «Ricevimento dal Presidente del Consorzio dei Viticoltori Bolognesi la somma di £ 40 a saldo del trattenimento di 1000 bottiglie che dovevano servire per la mostra delle uve. Fratelli Cillario». Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1.

(386) A tal proposito, F. Bevilacqua, Situazione presente della viticoltura in Italia e proposte per un migliore avvenire (per ciò che concerne la viticoltura), “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 26 (1886), pp. 19-34. Già citato nel par. 2.1.

159LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

marginalmente poterono inserirsi in questo attivissimo commercio fra Francia e Italia. Le ragioni sono da ricercare nella mancanza di spirito imprenditoriale e nella minore importanza che fu data a questo settore in queste zone, che si trovarono tagliate fuori dai giochi per le scarsa concorrenzialità dei propri prodotti. L’idea di fondare un Consorzio dei Viticoltori, per concedere uno spazio autonomo al settore in crescita della viticoltura, e cercare così di apportare le migliorie neces-sarie per la rivalutazione del territorio bolognese, va inquadrato nel contesto di questo generale fermento nazionale. L’intento principe del Consorzio bolognese, all’atto della sua fondazione, fu proprio quello di organizzare un gruppo di pro-prietari che si potessero dedicare a tempo pieno allo studio e alle migliorie dei vigneti e dei vitigni presenti in zona, di cui l’Esposizione doveva rappresentare: per il territorio, la dimostrazione pratica delle proprie grandi possibilità; per il Consorzio, la sanzione uffi ciale della propria costituzione e del proprio ruolo.

Nato quindi all’ombra dell’Accademia di Agricoltura, il Consorzio, promotore della manifestazione avrebbe potuto avere, se questa avesse avuto il successo sperato, la possibilità di sganciarsi per sempre dall’orbita accademica e di rita-gliarsi una propria sfera d’infl uenza. Nel tentativo di ottenere questo risultato molti equilibri furono forzati, molte conoscenze accampate e reclamizzate nel segno di un rinnovamento di cui il Consorzio doveva essere espressione. Ecco perché il fallimento dell’esperienza non rappresentò soltanto una caduta di stile, ma rischiò anche di avere conseguenze piuttosto gravi, mettendo a nudo proble-matiche molto serie.

L’evento fallì per un vuoto economico dell’organico e per la scarsa adesione dei viticoltori che decretarono così la fi ne del Consorzio stesso, la cui chiusura fu necessaria per salvare la reputazione dell’Accademia, costretta a scegliere fra il minore dei mali. Il Consorzio non aveva ancora una propria storia, era frutto di una sperimentazione, di una tensione verso il nuovo nel desiderio di portare la Regione alla pari di quelle più evolute, ma il suo ruolo istituzionale era ancora insignifi cante. La caduta invece dell’Accademia avrebbe rappresentato un danno ben maggiore, la perdita di credibilità o il coinvolgimento in uno scandalo, anche piccolo, avrebbe causato danni ben più gravi.

Svincolandoci, però, da un’analisi sul valore “istituzionale” dell’accaduto, emerge un vuoto più profondo, un problema la cui soluzione fu ben più lunga e complessa. Il desiderato rinnovamento della viticoltura bolognese, che per mesi era stato protagonista di tante adunanze e dibattiti in seno all’Accademia, alla resa dei conti aveva fallito la prova. Il grande entusiasmo verso i nuovi sistemi di allevamento della vite, la nuova concezione del lavoro in vigna, l’applicazio-ne delle nuove tecniche di produzione e della nuova fi losofi a sulla produttività, avevano a tal punto impressionato e occupato la mente dei proprietari e degli agronomi che questi avevano perso evidentemente di vista il rapporto col ter-ritorio, la necessità di relazionarsi con i propri interlocutori. Se l’Accademia, o

160 LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

meglio il Consorzio, si mise con slancio alla testa del rinnovamento vitivinicolo bolognese, commise però l’errore di non accertarsi se anche la volontà degli agricoltori andasse nella stessa direzione; sottovalutò, insomma, l’importanza del loro sostegno. Si fi nì per costruire un gigante dai piedi d’argilla: questa la ragione ultima del fallimento.

Indubbiamente contingenti circostanze non favorirono il realizzarsi dell’Espo-sizione, ma se un senso di sfi ducia si diffuse nell’ambiente, tanto da motivare, come è stato supposto, le defezioni interne di cui l’iniziativa rimase vittima, ciò fu dovuto anche alla freddezza con cui questa fu accolta dalla compagine agricola, alla scarsa adesione che ci fu all’apertura delle iscrizioni al concorso.

Il manifesto del 24 maggio e le circolari spedite nella stessa data a tutti i principali viticoltori italiani e del territorio, invitavano a iscriversi all’evento a manifestare il proprio interesse, ma ciò che si verifi cò realmente fu che pochi agricoltori dimostrarono di credere in questo progetto e di avere a cuore la cosa. Bologna continuò a snobbare la vetrina che le veniva offerta, il registro rubricato conservato in Accademia mostra un desolate assenteismo. Si può ipotizzare che gli uomini ai banchi di iscrizione all’Archiginnasio, armati di 700 copie di domande di adesione, ebbero di che lamentarsi quando ne videro riempirsi a malapena 15, di cui alcune degli stessi membri delle Commissioni del Consorzio, che iscrissero le proprie uve al concorso.(387) Una disfatta, senza dubbio, di cui bisognerebbe tentare di capire le ragioni. È evidente che, in questa circostanza, l’Accademia e il Consorzio non riuscirono ad avere il polso della situazione e, nonostante le delegazioni territoriali e l’organizzazione capillare sul territorio, non si riuscì a intuire il buco nell’acqua verso cui la manifestazione remava.

Cosa non funzionò? Quello che mancò fu una vera educazione al progresso. Le campagne bolognesi

del XIX secolo erano pervase da una forte contraddizione. Da una parte stava una realtà di terroir piuttosto ricco e produttivo, che impedì in molte occasioni il verifi carsi di un signifi cativo aumento del tasso di mortalità in caso di carestie o annate particolarmente magre, ma questo non signifi cò mai l’assenza di povertà. Il sistema agricolo emiliano era il complesso risultato della concentrazione delle terre nelle mani di pochi proprietari che portarono alla consacrazione del siste-ma economico mezzadrile. La famiglia-lavoratrice funzionava se le pretese del padrone e le proprie necessità basilari erano compensate dalla resa del podere; se il podere era troppo piccolo rispetto al numero delle persone da sfamare si creava una spaccatura che portò invariabilmente o all’emigrazione su un altro feudo, o all’inurbamento di una parte della famiglia, o alla creazione di sacche

(387) Archivio Storico dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, “Consorzio dei Viticoltori. Espositori iscritti” [1875] Registro rubricato.

161LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

di povertà. Il contrarsi della proprietà, il suo frazionamento in unità sempre più piccole,(388) diede vita a una alterazione nel sistema familiare patriarcale allargato, e, per certi versi, fi nì per essere anche un valido sistema per il controllo delle nascite. I fuoriusciti andavano spesso a infoltire la già fi tta schiera dei braccianti agricoli che erano fra le categorie di lavoratori più esposte a rischi in caso di recessione economica. In un panorama così composito, dove peraltro perdurava una congestione del lavoro concepito in massima parte ancora come estensivo e privo di specializzazione, si realizzò una diffi cile comunicazione fra le parti e una diffi cile apertura al nuovo. Non si può sostenere che i viticoltori non si iscrissero all’Esposizione delle Uve perché non gli importava nulla del proprio territorio e della produzione enologica tout court, ma certamente era necessaria una preventiva opera di “acculturamento”, che non ebbe luogo. Le innovazioni che l’Accademia voleva far rimbalzare sulle vetrine internazionali, qui non arrivarono. A questo si aggiungono certamente i retaggi di un’economia per troppo tempo fondata sui meccanismi dell’autoconsumo, di una produzione quanto più possibile variegata ed esaustiva, che cercava, attraverso un’attenta scelta delle colture, di travalicare la stagionalità agricola. Una guerra, quella del rinnovamento, che non si poteva pianifi care contando su una sortita fulminea e improvvisa, anche se organizzata con grande dispiego di energie e di forze. Era necessaria una lenta espugnazione di criteri radicati che non potevano essere semplicemente azzerati. Il Consorzio volle seguire la scia delle regioni italiane più avanzate in questo processo, ma furono saltate troppe tappe intermedie; non si poteva pretendere, come invece si fece, di potersi semplicemente accodare alle tensioni di rinnovamento; era invece necessario partire dall’inizio, dalle fondamenta. Ci si illuse che affermare una cosa, chiara alla luce di studi e confronti internazionali, equivalesse a farla; si sperò che gli agricoltori si adeguassero e sostenessero progetti sentiti al contrario come perdite di tempo, senza un reale ritorno pratico per la propria economia. L’idea di andare in “centro città” a portare uve e mosti poté sembrare, alla meglio, un’occasione “mondana” riservata a chi aveva tempo di concedersi il lusso di perdere un’intera giornata. Ma non molti ritennero la cosa necessaria.

Questo mancò: il colloquio e il tempo per poter cambiare, insieme.

(388) C. Poni, La famiglia contadina e il podere in Emilia – Romagna, in: Fossi e cavedagne benedicon le campagne, Bologna, 1982, pp. 283-351, in particolare p. 298-306.

162 LA PRIMA ESPOSIZIONE NAZIONALE DELLE UVE A BOLOGNA: CRONACA DI UN EVENTO FANTASMA

163CONCLUSIONI

6. Conclusioni

Tracciare la storia della viticoltura bolognese nel XIX secolo è una pretesa ardita che non può non tenere conto del fatto che la trama di questo racconto si tesse su un ordito che chiama in gioco equilibri e valori complessi che si rifran-gono nei secoli precedenti.

Raccontare il vino e la viticoltura a Bologna equivale a tracciare la storia di una tensione fra territorio e potere che a lungo non trovò soluzione. Il vino rappresentò, nell’arco della sua lunga vita, un bene di prima necessità, ma mai di «primissima necessità».(389) Per questo fu uno degli alimenti che più viaggiò e che maggiormente fu commerciato nei mercati fi n dai suoi primi, antichi, estimatori. In un territorio fortemente segnato dalle politiche mezzadrili, come l’Emilia-Romagna, il vino rappresentò un’importante fonte di scambio per il pagamento degli affi tti dei terreni: lo dimostrano i prelievi da parte dei padroni, pari anche alla metà del vendemmiato, mentre per il grano, riconosciuto come bene irrinun-ciabile, i prelievi arrivarono al massimo a un quarto del raccolto.(390)

Ma quale era allora la reale percezione del vino? Davvero era sentito come un bene secondario e sostituibile come lo è sostanzialmente oggi? No, certo che no. Il vino era una componente alimentare fondamentale per apporto calorico e nutritivo e questo suo valore aumentò, con conseguenze di triste dipendenza, man mano che l’uomo si allontanava dai luoghi di produzione verso un inurbamento forzato e spesso alienante. Il XX secolo fu dominato dalla demonizzazione del vino come sostanza inibente al lavoro, alla famiglia e alla disciplina sociale; teorie e sostenitori lombrosiani contribuirono a fare del vino un nemico da sconfi ggere, l’incarnazione del peccato e del disordine. Effettivamente, a inizio secolo, l’alcolismo era oramai diventato un fenomeno preoccupante, e l’ottimistica raccomandazione dell’Onorevole. Luigi Luzzatti(391) di bere mezzo litro di vino in più pro capite, pronunciata in un discorso tenuto a Bari nel 1901, non aveva

(389) Pini, Il vino a Bologna nel Medio Evo, cit., in particolare p. 166.(390) Ibidem.(391) Luigi Luzzatti (Venezia, 1marzo 1841 – Roma, 24 marzo 1927) fu un giurista e un econo-

mista italiano di primo piano. Nella sua lunga carriera fondò la Banca Popolare di Milano, fu sottosegretario all’Agricoltura nel Governo Minghetti e ministro del Tesoro nel Governo Di Rudini, ricoprì inoltre la carica di Presidente del Consiglio dopo Sonnino e prima di Salandra.

164 CONCLUSIONI

più forti ragioni d’essere;(392) tuttavia, incolpare il vino della sofferenza sociale del tempo, equivaleva a decidere di nascondersi dietro un dito.

Resta vero che nel vino l’uomo sociale riconobbe un rifugio, dalla fame pri-ma di tutto. A lungo i salari degli operai continuarono a prevedere una parte del pagamento in vino, e questo ricoprì spesso oltre la metà del fabbisogno calorico degli impiegati delle fasce più basse dell’industria. L’unità fra vino e cibo resta così confermata.

Le vicende Ottocentesche costituiscono indubbiamente un momento molto delicato per la viticoltura europea: per la grave crisi dovuta alle drammatiche congiunture epidemiche che portarono alla distruzione di gran parte dei vigneti e la perdita di molta parte del patrimonio ampelografi co mondiale, e per il rinnova-mento colturale e culturale che da tutto questo scaturì. È ancora questo secolo che vide emergere alcune importanti realtà viticole del nostro Paese, come il Piemonte, e la consacrazione di alcuni miti, come quello, per esempio, dei vini francesi di Bordeaux, che si doteranno, nel 1855, della prima “carta di qualità” dei princi-pali Châteaux. Il XIX fu certamente un secolo di grande movimento, di acceso fermento. Analizzarlo in una realtà molto legata al benessere, e tradizionalmente identifi cata nell’abbondanza materiale, è l’occasione per sfatare un mito.

A Bologna si beveva male. Non lo dicono solo gli storici che variamente si sono occupati della questione,(393) ma lo dicono soprattutto i protagonisti, i cittadini, produttori e bevitori di cui possiamo ancora leggere le lamentele.(394) Un’afferma-zione che lascia stupiti. Le cronache antiche di Plinio il Giovane raccontano di fi umi di vino che da queste terre venivano convogliate nelle più remote province imperiali(395) e, anche dopo l’invasione longobarda, la viticoltura, grazie all’opera dei monaci, riuscì a ritagliarsi dei propri spazi, tanto che Bartolomeo Scappi nel 1570 loderà la grande produzione frutticola del bolognese, fra cui riscuotevano grande successo, anche al di fuori della provincia le uve da tavola.(396)

(392) Secondo gli studi di Renato Monteleone, il consumo medio a inizio ’900 si stanzia intorno ai 135 litri pro capite, quantitativo preoccupante soprattutto se rapportato al consumo medio nel 1884, che si attestava intorno ai 64,8 litri per unità. R. Monteleone, Socialisti o “ciucialiter”? Il PSI e il destino delle osterie tra socialiá e alcolismo, “Movimento operaio e socialista”, 1985, p. 9.

(393) Si fa riferimento sia agli scritti di Giancarlo Roversi che a quelli di Molinari Pradelli, che in più occasioni trattarono l’argomento e per i quali si rimanda alla Bibliografi a, ma anche all’importante contributo di Antonio Ivan Pini e Carlo Poni che, il primo in ambito Medioevale (Pini, Campagne bolognesi cit.; Pini, Vite e vino nel Medioevo, cit.), il secondo in quello moderno (Poni, Fossi e cavedagne, cit.) hanno fornito un’attenta analisi di importanti aspetti e dinamiche sociali in atto nella città felsinea nei periodi di riferimento.

(394) Vedi quanto detto da A. Serpieri, Studio sul vigneto specializzato nel basso bolognese, “Annali dell’Accademia Nazionale di Agricoltura”, 40 (1900), p. 25-80, nel paragrafo 3.5.

(395) Pini, Il vino a Bologna, cit. p. 164.(396) M. Montanari, Come nasce un mito gastronomico. Bologna fra localismo e internazionalismo,

165CONCLUSIONI

Perché allora, dopo le lodi di frate Labat nel XVIII secolo, non si parlò più di vino bolognese? La risposta è il risultato di tante motivazioni che si intrecciano indissolubilmente. La prima è legata alla natura della politica agraria e territoria-le: la mezzadria. Un sistema di governo di questo tipo portò a un congelamento dello status quo, come ebbe modo di osservare anche Jacini nella sua «Inchiesta agraria»;(397) un frazionamento della produzione a cui si richiedeva di produrre un po’ di tutto, fu forse l’espressione strutturalmente più lontana da un sistema di coltivazione di tipo intensivo e specializzato. La viticoltura rimase a lungo all’ombra di questa realtà, confi nata, soprattutto in pianura, in un ruolo marginale rispetto alla coltura cerealicola e canapicola, con cui spesso condivideva terreni e concimazioni sfavorevoli alla produzione delle uve.

Ma l’empasse più grande è rappresentata da un ostacolo culturale. L’agricoltore bolognese, dopo le glorie del passato, aveva sentito il bisogno di rafforzare la propria sicurezza alimentare, di soddisfare necessità differenziate su lotti di terreno piuttosto piccoli, e la vite, per il suo valore necessario ma non vitale, aveva fi nito per pagarne lo scotto. Il vino c’era sempre stato sulle tavole emiliano-romagnole, era un’abitudine a cui nessuno sapeva rinunciare a costo di allungare con l’acqua l’aceto,(398) ma ugualmente era questo un bene a cui non si prestava molta attenzione qualitativa: ci si accontentava di quello che potevano produrre le viti al margine dei campi. La cosa importante, nelle dinamiche agricole del tempo, era avere del vino da bere durante i faticosi lavori estivi; non era necessario avere un vino di prim’ordine che, al contrario, era generalmente consegnato al padrone; i vinelli di terza o quarta torchiatura erano comunque apprezzati. L’agricoltore riconosce-va nella vigna una coltivazione “facile” e produttiva, che trovava il suo valore proprio in questa sua caratteristica; se avesse dovuto scegliere fra vigna e grano indubbiamente la propria “praticità” l’avrebbe fatto propendere per il secondo a costo di sacrifi care, anche se a malincuore, la vendemmia. Così puntualmente avvenne, causando i grandi ritardi nella difesa dalle crittogame.

Quella che mancò nelle terre bolognesi non fu la qualità maggiore o peggiore dei terreni o dei vitigni rispetto ad altri territori, come molti dei soci dell’Accade-mia osservarono, ma la consapevolezza delle possibilità di questo territorio. Dai banchi accademici rimbalzavano teorie “europee” sulla valorizzazione del terroir e dei nuovi impianti, ma dalle campagne continuava a essere ignorato il perché le cose dovessero per forza cambiare. Gli agricoltori bolognesi non crederono nella possibilità di aprire un mercato fl orido basandosi solo sul commercio del vino, e stentarono ad abbracciare cambiamenti basilari come il ritorno a un sistema di

in Bologna grassa: la costruzione di un mito, a cura di M. Montanari, Bologna 2004, pp. 9-24, in particolare pp. 14-16.

(397) S. Jacini, Relazione Finale, in: I Risultati della Inchiesta Agraria, Roma 1885.(398) V. Tonelli, Vino e Romagna contadina, Imola, 1989.

166 CONCLUSIONI

allevamento basso dei vigneti, con il sostegno di pali e non di alberi-tutori. Lo sforzo di arrivare a potature severe e al diradamento dei grappoli in maturazione fu un passo ancora più audace, perché gravato dal senso di colpa dello spreco in un mondo che ancora non poteva dimenticare lo spettro della fame.

Se queste pratiche trovarono una timida risposta nelle colline e, signifi cativa-mente, nei terreni che per impervietà non potevano essere utilizzati altrimenti, non fu così nelle zone identifi cate come «pianure alte» e «terre da canapa», cioè nella parte bassa e umida della pianura bolognese.(399) La minore vocazione di queste zone alla viticoltura non può essere smentita, ma certamente molto di quello che poteva essere fatto per migliorare la produzione di questi terreni non fu neppure tentato. Molte erano le zone del Nord-Italia cha avevano supplito con un’attenta cura dei terreni e con il drenaggio delle acque, alla non perfetta idoneità dei luoghi, ma questa operazione nel bolognese fu avversata da una irremovibile convinzione che le viti in quei territori potessero dare solo vini di serie B. Anche l’apporto degli agronomi remò in tal senso. Se il territorio era già di per sé poco motivato nel riservare attenzione alla vite a discapito di altre colture, maggiormente si sarebbe dovuto osare per incentivare la produzione, mentre l’ipotesi prospettata, sostenuta anche da Serpieri,(400) fu quella di rende-re la pianura complementare alla produzione viticola della collina: uno scarso vantaggio per chi poteva continuare a produrre grano e vite insieme, anche se di basso profi lo. Diverso stimolo sarebbe stato dato se fosse stata incentivata una produzione di pianura che potesse aspirare a una sua pregevolezza, magari ritagliata su specifi che aspettative di mercato.

Bologna e il suo territorio avrebbero avuto la possibilità di inserirsi prima e più aggressivamente sugli equilibri del mercato nazionale; le motivazioni per cui ciò non successe sono da ricercare, oltre che nella fossilizzazione degli equilibri agricoli, anche in una scarsa consapevolezza di ciò che un’innovazione colturale avrebbe potuto portare a questi territori.

Gli agricoltori, i mezzadri prima e i piccoli proprietari poi, non riuscirono a scorgere nel percorso indicato dai teorici agricoli un vantaggio personale. Perciò, se le piccole proprietà vi si adattarono, lo fecero con lentezza e appros-simazione, e per questo non solo ci furono colpevoli ritardi nell’applicazione dei rimedi contro le fi topatie, aggravando una situazione che avrebbe potuto risolversi prima e con minor danno, ma, in generale, tutte le proposte giunte dall’alto furono accolte con indifferenza e con rassegnazione: i coltivatori, di-stratti dai molti lavori a cui attendere, non parteciparono mai attivamente alla lotta per la salvaguardia della vite.

(399) Monti, Alcune proposte, cit. pp. 24-26. (400) Serpieri, Studio sul vigneto specializzato, cit., “Annali dell’Accademia Nazionale di Agri-

coltura”, 40 (1900), p. 25-80.

167CONCLUSIONI

Gli equilibri territoriali, complici abitudini che perduravano da lungo tempo, non contribuirono a responsabilizzare gli agricoltori per i risultati mal perseguiti o mancati; le iniziative dell’Accademia, e via via di tutti gli organi che cercarono un’affermazione nelle politiche agricole, fi nirono per scontrarsi con una forte reticenza. I coloni per primi diffi darono delle proprie potenzialità, questo fu il vero ostacolo, il vero freno che portarono il Bolognese a fondare solo nel 1971un proprio Consorzio di tutela dei vini (Fig. 21), in fortissimo ritardo rispetto a realtà non sempre territorialmente più fortunate di questa.

Sondare le motivazioni di questa sfi ducia non è cosa semplice, anzi, una vera certifi cazione, esauriente e complessiva, dei perché forse non si avrà mai. Si può ipotizzare che l’abbondanza non alimenti il bisogno, inteso come motore dell’intraprendenza e della ricerca; certo resta il fatto che il Territorio, come un pesante marchingegno, stentò a muovere i propri ingranaggi nonostante il tanto parlare dei proprietari terrieri e gli sforzi che indubbiamente si fecero per portare Bologna a essere competitiva con le altre regioni italiane.

La mancata esposizione delle uve fu solo la manifestazione più evidente di un malessere che si risente anche dalle pagine dei verbali accademici.

La sensazione che il territorio non si adeguasse, se non con forte ritardo e mala-mente, alle disposizioni discusse e approvate durante le adunanze, è rilevabile dalle stesse parole dei proprietari, che in più di una occasione lamentarono la diffi cile comunicazione con un contado sordo alle richieste padronali e schiavo di tradizioni errate. Consuetudini quindi che, giuste o sbagliate non importa, avevano l’indubbio vantaggio di tramandarsi sempre uguali attraverso gli anni e il passaparola della consuetudine, che ancora restava la più valente forma di comunicazione.

Fig. 21 - Panoramica dei vigneti dei Colli Bolognesi e marchio dell’omonimo Consorzio.

168 CONCLUSIONI

Le discussioni accademiche, i rimedi originali, le teorie scientifi che, non in-teressavano, se non marginalmente, realtà che basavano le proprie scelte su una saggezza empirica forte e solida, che poteva lasciare il posto a forme innovative solo quando, come nel caso delle grandi emergenze epidemiche, tutto il conosciuto era già stato sperimentato e si era dimostrato insuffi ciente. Comprendere quelle richieste signifi cava fare un passo al di fuori di quanto era stato così gelosamente difeso, e non era cosa da potersi attuare in poco tempo.

Se il pensiero, il confronto, l’avanzata della tecnica e della tecnologia hanno fatto in breve passi enormi, non così è stato nel mondo agricolo regolato dalle stagionalità, dalle piogge e dalle nebbie. Non così in un mondo che cercava di scongiurare ancora temporali e grandinate prendendo a cannonate il cielo. Era necessario un cambio della guardia, un cambio epocale che non si poteva realizzare nel giro di un decennio: questa la contraddizione più grande fra teoria e pratica, fra il linguaggio dei proprietari e la sapienza delle veglie davanti ai fuochi invernali, del fogliame raccolto dagli olmi per alimentare il bestiame, della convinzione che il raccolto perisse per l’infl usso di un malefi co miasma che avvelenava l’aria. Un altro modo per dire: perché questo è il corso delle cose.

169BIBLIOGRAFIA E FONTI INEDITE

7. Bibliografi a e fonti inedite

ACCADEMIA NAZIONALE DI AGRICOLTURA, Inventario dell’archivio storico dell’Ac-cademia Nazionale di Agricoltura (già Società Agraria di Bologna 1807-1944). A cura di A. Campanini, Bologna, 2001.

ARCHIVIO STORICO DELL’ACCADEMIA NAZIONALE DI AGRICOLTURA, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, doc. n. 1-44.

ARCHIVIO STORICO DELL’ACCADEMIA NAZIONALE DI AGRICOLTURA, Consorzio dei Viticoltori. Elenco Espositori Iscritti, in, Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, Registro rubricato.

ARCHIVIO STORICO DELL’ACCADEMIA NAZIONALE DI AGRICOLTURA, Verbale d’adu-nanza del 27 Giugno 1875, in Consorzio dei viticoltori, b. 17.1, “Verbali d’Adunanza”, fasc. 1.

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Ringraziamenti

Il primo ringraziamento va allo staff della Accademia Nazionale di Agricoltura al completo, al suo Presidente, il prof. Amadei, e all’insostituibile Bruna Viteritti, che mi ha aiutata a raccogliere il materiale da cui è nato questo saggio.

Grazie alle persone che hanno creduto in questa ricerca, al prof. Massimo Montanari e alla dott.ssa Antonella Campanini, che mi hanno insegnato, anzitutto, il metodo con cui districare la mole dei documenti raccolti.

Ultimo ringraziamento, ma non certo per importanza, ai miei revisori e “rilettori” che, nel dopo-lavoro, hanno dedicato le loro serate a scovare le mie imprecisioni.

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Finito di stampare nel mese di maggio 2008presso la Tipolito Tamari snc in Bologna