Com'era bello il mio Pci

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La vita della sezione e i suoi tipi umani, la diffusione militante dell'Unità, il rito del congresso, i vezzi e la retorica del dibattito politico. Una nostalgia ragionata del Partito comunista italiano e lo spietato contrappunto con la sinistra di oggi

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Prologo

Non sono un apostata come Giuliano Ferrara. Non mi sonoiscritto al Pci per combattere il comunismo, come ha dichiaratoPiero Fassino in un’intervista a Sabelli Fioretti, apparsa sulmagazine del Corriere della Sera. Il partito di Berlinguer e il Pci,per me, sono sempre stati la stessa cosa, contrariamente a quan-to vorrebbe far credere Walter Veltroni. Non è vero che non sonomai stato comunista come dice di sé, adesso, il presidente dellaRai, Claudio Petruccioli. Sono stato comunista non solo perchéavevo in tasca una tessera di partito. E oggi non sono un ex comu-nista solo perché non ho più in tasca una tessera di partito.

Ma non è più come prima.Mi sento un vedovo. Anche se Silvana, mia moglie, ascoltan-

domi una sera in un’affollata assemblea mi ha pregato di cam-biare metafora.

Non serbo rancore per i miei ex compagni che hanno cambia-to idea. Sono in gran parte tutti ragazzi che ho visto crescere, cheai tempi del Pci, magari, sgomitavano per entrare nel Comitato

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centrale o addirittura nella Direzione del Partito. Non ho mai liti-gato con nessuno di loro. Di fronte alle nostre scelte diverserivendico però il diritto di provare tanta nostalgia per il mio vec-chio Pci e non mi vergogno di essere molto spesso triste, ango-sciato nella lucida consapevolezza, però, che si tratta di untempo passato, che non tornerà mai più. Bisogna guardare avan-ti e non indietro, perché non mi considero “un vecchio” e hoancora in corpo tanta voglia di gridare.

Quando sento affermare dai gio-vani questo mondo così com’è, nonci piace, mi tornano alla mente igiorni della mia giovinezza quandoin tanti sognavamo il socialismo. Poilà, dove hanno realizzato quello“reale” il sogno si è infranto: la real-tà si è rivelata per buona parte nonbrutta, ma mostruosa. E la parolasocialismo è stata stuprata.

Quest’anno ho compiuto settan-tacinque anni, un’età che secondo le

statistiche – ricorda l’amico Angelino Del Boca nel suoTestimone scomodo – costituisce per un italiano maschio il limi-te massimo della speranza di vita. Anch’io mi auguro di infran-gere questa barriera, anche se la morte non mi terrorizza, anzi.Temo soltanto il dolore. Non so sublimarmi nella sofferenza,come predicano certi cattolici. Ho invece paura di perdere ladignità di uomo. Non è sciocco orgoglio. Non è nemmeno super-bia: è semplice, modesta, silenziosa dignità. Concetto che ho ere-ditato da mio padre e che mi ha accompagnato per tutti i giorniche finora ho vissuto. Sto imparando a morire vivendo – comescrive nel suo ultimo libro Tiziano Terzani – con un solo deside-rio: quello di essere me stesso. Ho il terrore invece che all’ultimomomento arrivi il Monsignor Salvestrini di turno e mi faccia direquello che oggi non penso, come è capitato al povero Guttuso.

Per me il virus della politica è genetico, ereditario, sia daparte materna che paterna, fondato su due semplici princìpi: soli-

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darietà e uguaglianza, ispirati dalle due componenti di pensieropresenti nella mia famiglia, quella cristiana e quella socialista.«Ama il tuo prossimo come te stesso». «Proletari di tutto ilmondo unitevi?».

Partiamo da mio nonno Natale, il papà di mia madre. Di ori-gine contadina, anzi ortolano, classe 1875, nato a Tortona, inprovincia di Alessandria. Nei primi anni del Novecento si trasfe-risce a Torino con la famiglia per lavorare come operaio in unafabbrica di birra alla barriera di Milano. Il posto lo ha ottenutograzie all’aiuto di un suo compaesano, qualche anno più giova-ne di lui, studente in ingegneria al Politecnico: Giuseppe Romita,chiamato “Romitin” per la piccola statura. È stato Romita (mini-stro dopo la caduta del fascismo, noto nelle cronache politicheper avere gestito il ministero dell’Interno nel 1946, al momentodel referendum istituzionale Monarchia-Repubblica) ad avvici-narlo al Partito socialista, a parlargli dei grandi ideali del “Soldell’Avvenire”, a fargli conoscere Oddino Morgari il leggenda-rio “diplomatico del socialismo”. Il nonno partecipò (venendoarrestato due volte) alla campagna contro la prima guerra mon-diale a fianco di Morgari che oscillava tra un pacifismo wilsonia-no e la consapevolezza che solo l’unità internazionale dei lavo-ratori poteva impedire quello che Benedetto XV definì «il gran-de macello».

Stando al lessico famigliare, nonno Natale era stato attrattodal socialismo non tanto per ragioni ideologiche, scientifiche,dal pensiero di Marx e di Engels, quanto piuttosto da un’istinti-va spinta solidaristica, dall’esempio dei cosiddetti “apostoli” cheoperavano nelle società di Mutuo Soccorso e che individuavanoin Gesù Cristo il loro antenato, il primo della specie.

Nell’estate del 1922, a pochi mesi dalla “marcia su Roma”,subì un’aggressione da parte di una squadraccia fascista che erasalita nella sede della Società di cui era presidente, in via Leinì,alla barriera di Milano. L’obiettivo della spedizione punitiva erala rossa bandiera di velluto e di panno con al centro due mani chesi stringevano, conservata in una bacheca appesa alla parete delgrande salone dove i soci della cooperativa giocavano a carte, o

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bevevano, in compagnia, il quartino di vino. Non ci furono testi-moni. È certo che ci fu una colluttazione in cima alla scala inlegno che dalla strada immetteva direttamente nei locali dellasocietà. Il nonno aveva una corporatura piuttosto robusta: aveva47 anni, era alto circa due metri e pesava oltre 90 chili. Fu trova-to morto il mattino successivo all’aggressione nella sala grandedella società. Il delegato della Questura, sentito il parere di unmedico, che aveva diagnosticato quale causa della morte “colpoapoplettico”, autorizzò sbrigativamente il trasporto della salmanella vicina casa dove risiedeva con la famiglia, senza chiederel’esame autoptico. Il funerale, in forma civile, per ragioni diordine pubblico, si svolse il giorno dopo. Vietate le bandiere diogni colore e vietata la partecipazione della banda musicale dellasocietà operaia.

Tutta questa storia mi è stata raccontata da mio padrino,“barba Pinot”, il marito della sorella di mia madre, zia Giovanna.L’occasione fu la morte di mia nonna Luigia. Quella dolorosacircostanza fu da me memorizzata con una clamorosa litigatascoppiata tra lo zio e le due giovani cognate, zia Gina e zia Mimì,che avevano protestato perché essendo stato incaricato di prov-vedere all’organizzazione del funerale della nonna, mio padrinoaveva ingaggiato un solo prete anziché tre, come loro avrebberodesiderato, per il buon decoro della famiglia. Eravamo sul balco-ne a ringhiera che guardava nel cortile della casa di via Venascadove abitava la nonna con le due figlie, ancora zitelle. BarbaPinot, inferocito per l’accusa di taccagneria che gli era statarivolta si era sfogato con me, testimone involontario del diver-bio, ricordando alle cognate che per il funerale del padre di preti,manco l’ombra. Prima di allora non avevo mai sentito parlare incasa della strana morte del nonno. Rientrava nei tabù famigliari.

Così è stato anche per le vicende che hanno coinvolto miopadre, prima capotecnico all’Azienda Elettrica Municipale diTorino e successivamente direttore generale di un’industriamineraria (l’Argentier, di proprietà belga) in quel di Valdicastello(paese natale di Giosuè Carducci) in provincia di Lucca. Pur nonessendo un acceso militante della sinistra (in gioventù tutto il suo

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impegno politico lo aveva profuso in una filodrammatica delCircolo socialista di borgo San Paolo), rifiutò con ostinazionel’iscrizione al Partito nazionale fascista, quando divenne obbli-gatoria per i dipendenti pubblici e per i quadri dirigenti delleaziende private. Quel diniego segnò, per la nostra famiglia, l’ini-zio di un lungo periodo, se non di miseria, sicuramente di digni-tosa povertà. Quando io sono nato, nel 1931, la stagione delbenessere che avevano conosciuto i miei tre fratelli (Walter clas-se 1920; Ezio classe 1925; Alfio classe 1928) si era esaurita, conmio padre costretto a saltuari lavori di manovalanza.Arrotondava il magro salario insegnando, abusivamente, allescuole serali operaie San Carlo di via Verdi, dove i ragazzi, chelavoravano di giorno come bocia nelle officine torinesi, andava-no a imparare a usare il tornio, la fresatrice, a tirare di lima o atracciare il disegno sul metallo da lavorare. Questo calvario duròsino al giorno in cui, in piena guerra, venne reclutato da un’in-dustria bellica e spedito a Fiume, in Istria, a dirigere la manuten-zione dei macchinari di un silurificio. La guerra, i bombarda-menti, lo sfollamento, la caduta di Mussolini, l’armistizio dell’8settembre del ‘43, e la conseguente scelta (“da che parte stare”)per i miei due fratelli maggiori hanno profondamente segnato lamia infanzia e i primi anni dell’adolescenza.

Nei mesi della guerra partigiana più volte mi sono trovato ascorazzare in bicicletta per le strade del Canavese: sù, sù, sino adAlice Superiore, dove era accampata la 77a Brigata Garibaldi del

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leggendario comandante “Titala”, caduto nella battaglia diCeresole Reale, nell’agosto del 1944. Non erano, le mie, missio-ni ardimentose o eroiche. Nello zainetto che portavo sulle spallenon c’erano armi o esplosivi, ma semplicemente della bianche-ria pulita per i miei fratelli (mutande, calzini, camicie, canottie-re) che veniva regolarmente rovistata dai tedeschi e dai repubbli-chini, ai posti di blocco di Rivarolo e di Castellamonte.

Appena finita la guerra ho iniziato un percorso di vita inten-sissimo, non privo di apparenti contraddizioni. Durante le vacan-ze dell’estate andai, quasi per gioco, a lavorare presso un’anticalibreria di Torino, dalla quale non mi liberai in autunno, allaripresa dell’anno scolastico. Sono così diventato lavoratore-stu-dente: di giorno a vendere libri e di sera (dalle 20,30 alle 23,30,sabato compreso) a studiare cose che poco mi interessavano,come la ragioneria o la matematica attuariale. Iscritto al Frontedella Gioventù (quello buono, quello fondato da EugenioCuriel), partecipai alla costituzione del primo sindacato dei lavo-ratori-studenti, rivendicando scuole pubbliche serali per chidoveva recuperare gli anni di studi persi per la guerra e ancheper i giovanissimi, come me, che avevano lasciato la scuolaregolare.

Della mia lunga militanza nel partito di Gramsci e diTogliatti, di Longo, ma soprattutto di Enrico Berlinguer, scrivonelle prossime pagine. L’unica tessera che conservo nel mio por-tafoglio è quella del Pci del 1991, quella del 45° anniversariodella Repubblica con su scritto “Dalla Resistenza al futuro”.Sono rimasto in quel partito sino al giorno in cui è stato decisodi cambiare il nome e il simbolo, di scioglierlo, per dare vita aduna “cosa” non meglio identificata, nemmeno da chi l’avevainventata. Quella proposta, come ebbe modo di dire il filosofoCesare Luporini in un lucido e appassionato intervento alComitato Centrale del Pci del 20 novembre del 1989, «per ilmodo come è venuta, ha offeso compagni e amici. Il nostro è unnome onorato che non abbiamo mai infangato. Se altri lo hannoinfangato lo cambino pure».

Per me il Pci è stato e sarà sempre una cosa bella. E non l’ho

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mai considerato “un bambolotto di pezza”, secondo un’infelicedefinizione di Fabio Mussi, quando era impegnato a difendere lacosiddetta svolta della Bolognina.

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