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Letteratura italiana Einaudi Comento de’ miei sonetti di Lorenzo de’ Medici

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Letteratura italiana Einaudi

Comento de’ miei

sonetti

di Lorenzo de’ Medici

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Letteratura italiana Einaudi

Edizione di riferimento:in Opere, a cura di Tiziano Zanato, Einaudi, Torino 1992

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Proemio 1

Argumento 16

I O chiara stella, che coi raggi tuoi 18II Quando il sol giù dall’orizzonte scende 20III Di vita il dolce lume fuggirei 23IV In qual parte andrò io, ch’io non ti truovi 25

Nuovo argumento 28

V Lasso a me!, quando io son là dove sia 33VI Spesso mi torna a mente, anzi già mai 35VII Occhi, voi siate pur dentro al mio core 38VIII Quel che il proprio valore e forza excede 40IX Occhi, io sospiro come vuole Amore 43X Se tra li altri sospir’ che escon di fore 46XI Se il fortunato cor, quando è più presso 49XII Poscia che il bene adventurato core 52XIII Candida, bella e dilicata mano 56XIV O mano mia, suavissima e decora! 60XV Quanta invidia ti porto, o cuor bëato 64XVI Belle, fresche e purpurëe vïole 68XVII Chiare acque, io sento il vostro mormorio 72XVIII Io ti lasciai pur qui quel lieto giorno 76XIX Datemi pace omai, sospiri ardenti 78XX O Sonno placidissimo, omai vieni 82XXI Cerchi chi vuol le pompe e gli alti onori 85XXII – Ponete modo al pianto, occhi miei lassi 89

Sommario

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ivLetteratura italiana Einaudi

XXIII Sì dolcemente la mia donna chiama 94XXIV Allor ch’io penso di dolermi alquanto 98XXV Madonna, io veggo ne’ vostri occhi belli 101XXVI Quando la bella imagine Amor pose 104XXVII Più dolce sonno o placida quïete 107XXVIII Odorifera erbetta e vaghi fiori 107XXIX Tante vaghe bellezze ha in sé raccolto 112XXX Lasso!, che sento 115XXXI Quel cor gentil, che Amor 118XXXII – Amorosi sospiri, e quali uscite 121XXXIII Ove madonna volge li occhi belli 124XXXIV Il cor mio lasso 128XXXV Se io volgo or qua or là li occhi miei 131XXXVI – Lasso!, or la bella donna mia che face? 135XXXVII Lasso!, io non veggo più quelli occhi 138XXXVIII Io torno a voi, o chiare luci e belle 141XXXIX Quello amoroso e candido pallore 144XL Lasso!, oramai non so più che far 147XLI Non è soletta la mia donna bella 150[XLII] ……. 153

Sommario

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[PROEMIO]

Assai sono stato dubbioso e sospeso se dovevo fare lapresente interpetrazione e comento delli miei sonetti, e,se pure qualche volta ero più inclinato a farlo, le infra-scritte ragioni mi occorrevano in contrario e mi toglieva-no da questa opera. Prima, la presunzione nella quale mipareva incorrere comentando io le cose proprie, così perla troppa extimazione che mostravo fare di me medesi-mo, come perché mi pareva assumere in me quello iudi-cio che debba essere d’altri, notando in questa partel’ingegni di coloro alle mani de’ quali perverranno limiei versi, come poco sufficienti a poterli intendere.Pensavo, oltre a questo, potere essere da qualcuno facil-mente ripreso di poco iudicio, avendo consumato iltempo e nel comporre e nel comentare versi, la materia esubietto de’ quali in gran parte fussi una amorosa pas-sione; e questo essere molto più reprensibile in me perle continue occupazioni e publiche e private, le quali midovevano ritrarre da simili pensieri, secondo alcuni nonsolamente frivoli e di poco momento, ma ancora perni-ziosi e di qualche preiudicio così all’anima nostra comeall’onore del mondo. E, se questo è, il pensare a similicose è grande errore, metterle in versi molto maggiore,ma il comentarle non pare minore difetto che sia quellodi colui che ha fatto uno lungo e indurato abito nellemale opere; maxime perché e comenti sono reservati percose teologiche o di filosofia e importanti grandi effetti,o a edificazione e consolazione della mente nostra o autilità della umana generazione. Aggiugnesi ancora aquesto, che forse a qualcuno parrà reprensibile, quandobene la materia subietto fussi per sé assai degno, avendoscritto e fattone menzione in lingua nostra materna evulgare, la quale, dove si parla et è intesa, per esseremolto comune non pare declini da qualche viltà, e in

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quelli luoghi dove no·n’è notizia non può essere intesa, eperò a questa parte questa opera e fatica nostra pare altutto vana e come se non fussi fatta.

Queste tre difficultà hanno insino a ora ritardatoquello che più tempo fa avevo proposto, cioè la presenteinterpetrazione. Al presente ho pure deliberato, vinto, almio parere, da migliore ragione, metterla in opera, pen-sando che, se questa mia poca fatica sarà di qualche ex-timazione e grata a qualcuno, sarà bene collocata e nonal tutto vana; se pure arà poca grazia, sarà poco letta eda pochi vituperata, e, non essendo molto durabile, po-co durerà ancora la reprensione nella quale possa incor-rere.

E, rispondendo al presente alla prima ragione e aquelli che di presunzione mi volessino in alcuno modonotare, dico che a me non pare presunzione lo interpe-trare le cose mie, ma più presto tòrre fatica ad altri; e dinessuno è più proprio officio lo interpetrare che di coluimedesimo che ha scritto, perché nessuno può meglio sa-pere o elicere la verità del senso suo: come mostra assaichiaramente la confusione che nasce della varietà de’ co-menti, nelli quali el più delle volte si segue più tosto lanatura propria che la intenzione vera di chi ha scritto.Né mi pare per questo fare argumento che io tenga trop-po conto di me medesimo o tolga ad altri el giudicarmi:perché credo sia officio vero d’ogni uomo operare tuttele cose a benificio degli uomini, o proprio o d’altri; eperché ognuno non nasce atto o disposto a potere ope-rare quelle cose che sono reputate prime nel mondo, èda misurare sé medesimo e vedere in che ministerio me-glio si può servire all’umana generazione, e in quello es-sercitarsi, perché e alla diversità delli ingegni umani e al-la necessità della vita nostra non può satisfare una cosasola, ancora che sia la prima e più excellente opera chepossino fare gli uomini: anzi, pare che la contemplazio-ne, la quale sanza controversia è la prima e più excellen-

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te, pasca minore numero delli uomini che alcuna dellealtre. E per questo si conclude non solamente molteopere d’ingegno, ma ancora molti vili ministerii concor-rere di necessità alla perfezzione della vita umana, et es-sere vero officio di tutti gli uomini, in quel grado che sitruovono o dal cielo o dalla natura o dalla fortuna dispo-sti, servire alla umana generazione. Io arei bene deside-rato potermi essercitare in maggiore cose; né voglio peròper questo mancare, in quello che sopporta lo ingegno eforze mie, a qualcuno, se non a molti, e quali, forse piùtosto per piacere a me che perché le cose mie satisfacci-no alloro, me hanno confortato a questo: l’auttorità egrazia delli quali vale assai appresso di me. E se non po-trò fare altra utilità a chi leggerà li versi miei, almancoqualche poco di piacere se ne piglierà, perché forsequalche ingegno troverranno proporzionato e conformeal loro; e se pure qualcuno se ne ridessi, a me sarà gratoche tragga de’ versi miei questa voluttà, ancora che siapiccola; parendomi, massimamente publicando questainterpetrazione, sottomettermi più tosto al giudicio de-gli altri, conciosiacosa che se da me medesimo avessigiudicato questi miei versi indegni d’essere letti, areifuggito il giudicio degli altri, ma comentandogli e publi-candogli fuggo, al mio parere, molto meglio la presun-zione del giudicarmi da me medesimo.

Ora, per rispondere alle calunnie di quelli che volessi-no accusarmi avendo io messo tempo e nel comporre enel comentare cose non degne di fatica o di tempo alcu-no, per essere passione amorose etc., e maxime tra moltemie necessarie occupazioni, dico che veramente con giu-stizia sarei dannato quando la natura umana fussi di tan-ta excellenzia dotata, che tutti gli uomini potessino ope-rare sempre tutte le cose perfette; ma perché questogrado di perfezzione è stato concesso a molti pochi, e aquesti pochi ancora molto rare volte nella vita loro, mipare si possa concludere, considerata la imperfezzione

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umana, quelle cose essere migliori al mondo nelle qualiinterviene minore male. E giudicando più tosto secondola natura comune e consuetudine universale degli uomi-ni, se bene non l’oserei affermare, pure credo l’amoretra gli uomini non solamente non essere reprensibile, maquasi necessario, e assai vero argumento di gentilezza egrandezza d’animo, e sopra tutto cagione d’invitare gliuomini a cose degne et excellenti, et essercitare e riduce-re in atto quelle virtù che in potenzia sono nell’animanostra. Perché, chi cerca diligentemente quale sia la veradiffinizione dello amore, trova non essere altro che ap-petito di bellezza; e, se questo è, tutte le cose deforme ebrutte necessariamente dispiacciono a chi ama. E met-tendo per al presente da parte quello amore el quale, se-condo Platone, è mezzo a tutte le cose a trovare la loroperfezzione e riposarsi ultimamente nella suprema bel-lezza, cioè Dio; parlando di quello amore che s’extendesolamente ad amare l’umana creatura, dico che, se benequesta non è quella perfezzione d’amore che si chiama«sommo bene», almanco veggiamo chiaramente conte-nere in sé tanti beni et evitare tanti mali, che secondo lacomune consuetudin e della vita umana tiene luogo dibene: maxime se è ornata di quelle circunstanzie e con-dizioni che si convengono a uno vero amore, che mi pa-re sieno due: la prima, che si ami una cosa sola; la secon-da, che questa tale cosa si ami sempre.

Queste due condizioni male possono cadere se il su-bietto amato non ha in sé, a proporzione dell’altre coseumane, somma perfezzione, e se, oltre alle naturali bel-lezze, non concorre nella cosa amata ingegno grande,modi e costumi ornati e onesti, maniera e gesti eleganti,destrezza d’accorte e dolci parole, amore, constanzia efede; e queste cose tutte necessariamente convengono al-la perfezzione dello amore. Perché, ancora che il princi-pio d’amore nasca dagli occhi e da bellezza, nondimenoalla conservazione e perseveranza in esso bisognano

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quell’altre condizioni; perché se, o per infermità o peretà o altra cagione, si scolorissi il viso e mancassi in tuttoo in parte la bellezza, restino tutte quell’altre condizioni,non meno grate allo animo e al cuore che la bellezza agliocchi. Né sarebbono ancora queste tali condizioni suffi-cienti, se ancora in colui che ama non fusse vera cogni-zione di queste condizioni, che presuppone perfezzionedi iudicio nello amante; né potrebbe essere amore dellacosa amata verso colui che ama, se quello che ama nonmeritassi essere amato, presupposto lo infallibile iudiciodella cosa amata. E però, chi propone uno vero amore,di necessità propone grande perfezzione, secondo la co-mune consuetudine degli uomini, così nello amato comein chi ama; e come adviene in tutte le altre cose perfette,credo che questo tale amore sia suto al mondo molto ra-ro: che tanto più arguisce l’excellenzia sua. Chi ama unacosa sola e sempre, di necessità non pone amore ad altrecose, e però si priva di tutti gli errori e voluttà nelle qua-li comunemente incorrono gli uomini; e amando perso-na atta a conoscere e cercando in ogni modo che può dipiacerli, bisogna di necessità che in tutte le opere suecerchi degnificarsi e farsi excellente tra gli altri, seguitan-do opere virtuose, per farsi più degno che può di quellacosa che lui stima sopra all’altre degnissima; parendogliche, e in palese e in occulto, come la forma della cosaamata sempre è presente al cuore, così sia presente a tut-te l’opere sue, le quali laudi o reprenda secondo la loroconvenienzia, come vero testimonio e assistente giudicenon solo delle opere, ma de` pensieri. E così, parte collavergogna reprimendo el male parte con lo stimolo delpiacerli excitando il bene, se pure questi tali perfetta-mente non operano, almanco fanno quello che al mondoè reputato manco male: la quale cosa, rispetto alla im-perfezzione umana, al mondo per bene si elegge.

Questo adunque è stato il subietto de’ versi miei. Ese, pure con tutte queste ragioni, non risponderò alle

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obtrettazioni e calunnie di chi mi volessi dannare, al-manco, come disse il nostro fiorentino Poeta, apresso diquelli che hanno provato che cosa è amore, «spero tro-vare pietà, non che perdono»: il giudicio de’ quali è as-sai a mia satisfazzione. Perché, se gli è vero, come diceGuido bolognese, che amore e gentilezza si convertinoe sieno una cosa medesima, credo che agli uomini bastie solamente sia expetibile la laude degli alti e gentili in-gegni, curandosi poco degli altri, perché è impossibilefare opera al mondo che sia da tutti gli uomini laudata;e però chi ha buona elezzione si sforza acquistare laudeapresso di quelli che ancora loro sono degni di laude, epoco cura la oppinione degli altri. A me pare si possapoco biasimare quello che è naturale; nessuna cosa èpiù naturale che l’appetito d’unirsi con la cosa bella, equesto appetito è suto ordinato dalla natura negli uomi-ni per la propagazione della umana generazione, cosamolto necessaria alla conservazione della umana spezie.E a questo la vera ragione che ci debba muovere non èné nobilità di sangue, né speranza di possessioni, di ric-chezza o d’altra conmodità, ma solamente la elezzionenaturale, non sforzata o occupata da alcuno altro ri-spetto, ma solamente mossa da una certa conformità eproporzione che hanno insieme la cosa amata e loamante, a·ffine della propagazione dell’umana spezie. Eperò sono sommamente da dannare quelli e quali l’ap-petito muove ad amare sommamente le cose che sonofuori di questo ordine naturale e vero fine già propostoda noi, e da laudare quelli e quali, seguitando questo fi-ne, amano una cosa sola diuturnamente e con sommaconstanzia e fede.

A me pare che assai copiosamente sia risposto a taleobietto. E, dato che questo amore, come di sopra abbia-mo detto, sia bene, non pare molto necessario purgarequella parte che in me parebbe forse più reprensibile,per le diverse occupazioni publiche e private: perché,

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s’egli è bene, il bene non ha bisogno d’alcuna excusazio-ne, perché non ha colpa. E se pure qualche scrupolosoiudicio non volessi ammettere queste ragioni, almancoconceda questa piccola licenzia alla età iuvenile e tenera,la quale non pare tanto obligata alla censura e iudiciodegli uomini e nella quale non pare tanto grave qualun-que errore, maxime perché è più stimulata a declinaredalla via retta e per la poca experienzia manco si puòopponere a quelle cose che la natura e comune uso delliuomini persuadono. Questo dico in caso che pure fussistimato errore amare molto, con somma sincerità e fede,una cosa, la quale sforza per la perfezzione sua l’amoredello amante: la quale cosa non confesso essere errore.E, se questo è, o per le ragioni dette o avuto rispetto allaetà, né il comporre né il comentare miei versi fatti a que-sto proposito mi può essere imputato a grave errore. Edato che fussi vero che non si convenissi comento a si-mile materia, per essere piccola e poco importante o aedificazione o a contento della mente nostra, dico che,se questo è, la fatica di questo comento convenirsi mas-simamente a me, acciò che altro ingegno di più excellen-zia che il mio non abbia a consumarsi o mettere tempoin cose sì basse; e se pure la materia è alta e degna, comepare a me, el chiarirla bene e farla piana e intelligibile aciascuno essere molto utile: e questo, per quello che hodetto di sopra, nessuno il può fare con più chiara ex-pressione del vero senso che io medesimo. Né io sonostato il primo che ho comentato versi importanti similiamorosi subietti, perché Dante lui medesimo comentòalcuna delle sue canzone e altri versi; e io ho letto il co-mento di Egidio romano e Dino Del Garbo, excellentis-simi filosofi, sopra a quella subtilissima canzona di Gui-do Cavalcanti, uomo al tempo suo riputato primodialettico che fussi al mondo, e inoltre in questi nostriversi vulgari excellentissimo, come mostrano tutte le al-tre sue opere e maxime la sopra detta canzona, che co-

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mincia Donna mi prega etc., la quale non importa altroche il principio come nasce ne’ cuori gentili amore e glieffetti suoi. E se pure alla purgazione mia non sono suf-ficienti né le sopra scritte ragioni, né gli essempli, lacompassione almeno mi doverrà giustificare, perché, es-sendo nella mia gioventù stato molto perseguitato dagliuomini e dalla fortuna, qualche poco di refriggerio nonmi debbe essere dinegato, el quale solamente ho trovatoe in amare ferventemente e nella composizione e comen-to de’ miei versi, come più chiaramente faremo intende-re quando verremo alla exposizione di quello sonettoche comincia Se tra gli altri sospiri che escono di fore.Quale sieno sute le mie maligne persecuzioni, per essereassai publiche è assai noto; qual sia suta la dolcezza e re-friggerio che ‘I mio dolcissimo e constantissimo amoreha dato a queste, è impossibile che altri che io lo possiintendere, perché, quando bene l’avessi ad alcuno nar-rato, così era impossibile a lui lo intenderlo come a mereferirne il vero. E però torno al sopra detto verso delnostro fiorentino Poeta, che, «dove sia chi per pruovaintenda amore» (così questo amore che io ho tanto lau-dato, come qualche particulare amore e carità verso dime), «spero trovare pietà, non che perdono».

Resta adunque solamente rispondere alla obiezzioneche potessi essere fatta avendo scritto in lingua vulgare,secondo il giudicio di qualcuno non capace o degnad’alcuna excellente materia e subietto. E a questa partesi risponde alcuna cosa non essere manco degna per es-sere più comune, anzi si prova ogni bene essere tantomigliore quanto è più comunicabile e universale, come èdi natura sua quello che si chiama «sommo bene»: per-ché non sarebbe sommo se non fussi infinito, né alcunacosa si può chiamare infinita, se non quella che è comu-ne a tutte le cose. E però non pare che l’essere comunein tutta Italia la nostra materna lingua li tolga dignità,ma è da pensare in fatto la perfezzione o imperfezzione

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di detta lingua. E, considerando quali sieno quelle con-dizioni che danno dignità e perfezzione a qualunqueidioma e lingua, a me pare sieno quattro, delle quali unao al più dua sieno proprie e vere laude della lingua, l’al-tre più tosto dependino o dalla consuetudine e oppinio-ne degli uomini o dalla fortuna.

Quella che è vera laude della lingua è lo essere copio-sa e abundante e atta a exprimere bene il senso e concet-to della mente. E però si giudica la lingua greca più per-fetta che la latina, e la latina più che la ebrea, perchél’una più che l’altra meglio exprime la mente di chi ha odetto o scritto alcuna cosa.

L’altra condizione che più degnifica la lingua è la dol-cezza e armonia, che resulta più d’una che d’un’altra; ebenché l’armonia sia cosa naturale e proporzionata conla armonia dell’anima e del corpo nostro, nondimeno ame pare, per la varietà degli ingegni umani, che tutti nonsono bene proporzionati e perfetti, questa sia più prestooppinione che ragione: conciosiacosa che quelle cose chesi giudicano secondo che comunemente piacciono o nonpiacciono, paiono più tosto fondate nella oppinione chenella vera ragione, maxime quelle, el piacere o dispiaceredelle quali non si prova con altra ragione che con l’appe-tito. E, non obstanti queste ragioni, non voglio però af-fermare questa non potere essere propria laude della lin-gua; perché, essendo l’armonia (come è detto)proporzionata alla natura umana, si può inferire il giudi-cio della dolcezza di tale armonia convenirsi a quelli chesimilmente sono bene proporzionati a riceverla, el giudi-cio de’ quali debba essere acettato per buono, ancora chefussino pochi: perché le sentenzie e iudicii degli uominipiù presto si debbono ponderare che numerare.

L’altra condizione che fa più excellente una lingua èquando in una lingua sono scritte cose subtili e gravi enecessarie alla vita umana, così alla mente nostra comealla utilità degli uomini e salute del corpo: come si può

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dire della lingua ebrea, per li ammirabili misterii checontiene, accomodati, anzi necessarii alla ineffabile ve-rità della fede nostra; e similmente della lingua greca,contenente molte scienzie metafisiche, naturali e moralimolto necessarie alla umana generazione. E quandoquesto adviene, è necessario confessare che più prestosia degno il subietto che la lingua, perché il subietto è fi-ne e la lingua è mezzo Né per questo si può chiamarequella lingua più perfetta in sé, ma più tosto maggioreperfezzione della materia che per essa si tratta; perché,chi ha scritto cose teologiche, metafisiche naturali e mo-rali, in quella parte che degnifica la lingua nella quale hascritto pare che più presto reservi la laude nella materia,e che la lingua abbi fatto l’officio d’instrumento, el qua-le è buono o reo secondo el fine.

Resta un’altra sola condizione che dà reputazione allalingua, e questo è quando il successo delle cose del mon-do è tale, che facci universale e quasi comune a tutto ilmondo quello che naturalmente è proprio o d’una cittào d’una provincia sola. E questo si può più presto chia-mare felicità e prosperità di fortuna che vera laude dellalingua, perché l’essere in prezzo e assai celebrata unalingua nel mondo consiste nella oppinione di quelli taliche assai la prezzono e stimono, né si può chiamare veroe proprio bene quello che depende da altri che da sémedesimo: perché, quelli tali che l’hanno in prezzo po-trebbono facilmente sprezzarla e mutare oppinione, equelle condizioni mutarsi per le quali, mancando la ca-gione, facilmente mancherebbe ancora la degnità e lau-de di quella. Questa tale degnità d’essere prezzata per ilsuccesso prospero della fortuna è molto apropriata allalingua latina, perché la propagazione dello Imperio Ro-mano l’ha fatta non solamente comune per tutto il mon-do, ma quasi necessaria. E per questo concluderemo chequeste laude externe e che dependono dall’oppinionedegli altri o dalla fortuna non sieno laude proprie.

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E però, volendo provare la degnità della lingua no-stra, solamente dobbiamo insistere nelle prime condi-zioni e vedere se la lingua nostra facilmente exprimequalunque concetto della nostra mente; e a questo nes-suna migliore ragione si può introducere che l’experien-zia. Dante, il Petrarca e il Boccaccio, nostri poeti fioren-tini, hanno, nelli gravi e dolcissimi versi e orazioni loro,mostro assai chiaramente con molta facilità potersi inquesta lingua exprimere ogni senso. Perché, chi legge laComedia di Dante vi troverrà molte cose teologiche enaturali essere con grande destrezza e facilità expresse;troverrà ancora molto attamente nello scrivere suo quel-le tre generazioni di stili che sono dagli oratori laudati,cioè umile, mediocre e alto; e in effetto, in uno solo,Dante ha assai perfettamente absoluto quello che in di-versi auttori, così greci come latini, si truova. Chi ne-gherà nel Petrarca trovarsi uno stile grave, lepido e dol-ce, e queste cose amorose con tanta gravità e venustàtrattate, quanta sanza dubio non si truova in Ovidio, Ti-bullo, Catullo, Properzio o alcuno altro latino? Le can-zone e sonetti di Dante sono di tanta gravità, subtilità eornato, che quasi non hanno comparazione. In prosa eorazione soluta, chi ha letto il Boccaccio, uomo dottissi-mo e facundissimo, facilmente giudicherà singulare e so-la al mondo non solamente la invenzione, ma la copia eteloquenzia sua; e considerando l’opera sua del Decame-ron, per la diversità della materia, ora grave, ora medio-cre e ora bassa, e contenente tutte le perturbazioni cheagli uomini possono accadere, d’amore e odio, timore esperanza, tante nuove astuzie e ingegni, e avendo a ex-primere tutte le nature e passioni degli uomini che sitrovono al mondo, sanza controversia giudicherà nessu-na lingua meglio che la nostra essere atta a exprimere. EGuido Cavalcanti, di chi di sopra facemmo menzione,non si può dire quanto commodamente abbi insieme co-niunto la gravità e la dolcezza, come mostra la canzona

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sopra detta e alcuni sonetti e ballate sue dolcissime. Re-stono ancora molti altri gravi et eleganti scrittori, lamenzione de’ quali lasceremo più tosto per fuggire laprolissità, che perché non ne sieno degni. E però con-cluderemo più tosto essere mancati alla lingua uominiche la essercitino, che la lingua agli uomini e alla materiala dolcezza e armonia della quale, a chi per essersiassuefatto con essa ha con lei qualche consuetudine, ve-ramente è grandissima e atta molto a muovere.

Queste, che sono e che forse a qualcuno potrebbonopure parere proprie laude della lingua, mi paiono assaicopiosamente nella nostra. E per quello che insino a oramaxime da Dante è suto trattato nella opera sua, mi parenon solamente utile, ma necessario, per li gravi e impor-tanti effetti, che li versi suoi sieno letti, come mostra loessemplo per molti comenti fatti sopra la sua Comediada uomini dottissimi e famosissimi, e le frequenti allega-zioni che da santi et excellenti uomini ogni dì si sentononelle loro publiche predicazioni. E forse saranno ancorascritte in questa lingua cose subtili e importante e degned’essere lette, maxime perché insino a ora si può dire es-sere l’adolescenzia di questa lingua, perché ogni ora piùsi fa elegante e gentile; e potrebbe facilmente, nella iu-ventù e adulta età sua, venire ancora in maggiore perfez-zione, e tanto più aggiugnendosi qualche prospero suc-cesso e augumento al fiorentino imperio: come si debbenon solamente sperare, ma con tutto l’ingegno e forzeper li buoni cittadini aiutare; pure, questo, per essere inpotestà della fortuna e nella voluntà dello infallibile iu-dicio di Dio, come non è bene affermarlo, non è ancorada disperarsene. Basta, per al presente, fare questa con-clusione: che di quelle laude che sono proprie della lin-gua, la nostra ne è assai bene copiosa; né giustamente cene possiamo dolere. E per queste medesime ragioni nes-suno mi può riprendere se io ho scritto in quella linguanella quale io sono nato e nutrito, maxime perché e la

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ebrea e la greca e la latina erono nello tempo loro tuttelingue materne e naturali, ma parlate o scritte più accu-ratamente e con qualche regola o ragione da quelli chene sono in onore e in prezzo, che generalmente dal vul-go e turba populare.

Pare con assai sufficienti ragioni provato la linguanostra non essere inferiore ad alcuna delle altre; e però,avendo in genere dimostro la perfezzione d’essa, giudi-co molto conveniente ristrignersi al particulare e veniredalla generalità a qualche proprietà, quasi come dallacircumferenzia al centro. E però, sendo mio primo pro-posito la interpetrazione de’ miei sonetti, mi sforzeròmostrare, tra gli altri modi delli stili vulgari e consuetiper chi ha scritto in questa lingua, lo stile del sonettonon essere inferiore o al ternario o alla canzona o ad al-tra generazione di stile vulgare, arguendo dalla diffi-cultà: perché la virtù, secondo e filosofi, consiste circael difficile.

È sentenzia di Platone che il narrare brevemente edilucidamente molte cose non solo pare mirabile tra gliuomini, ma quasi cosa divina. La brevità del sonettonon comporta che una sola parola sia vana, e il vero su-bietto e materia de’ sonetti, per questa ragione, debbaessere qualche acuta e gentile sentenzia, narrata atta-mente e in pochi versi ristretta, fuggendo la obscurità edurezza. Ha grande similitudine e conformità questomodo di stile con lo epigramma, quanto allo acumedella materia e alla destrezza dell stile, ma è degno e ca-pace il sonetto di sentenzie più gravi, e però diventatanto più difficile. Confesso il ternario essere più alto egrande stile, e quasi simile allo eroico, né per questoperò più difficile, perché ha il campo più largo, e quel-la sentenzia che non si può ristrignere in due o in treversi sanza vizio di chi scrive, nel ternario si può am-pliare. Le canzone mi pare abbino grande similitudinecon la elegia; ma credo, o per natura dello stile nostro o

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per la consuetudine di chi ha scritto insino a qui canzo-ne, lo stile della canzona non sanza qualche poco di pu-dore ammetterebbe molte cose non solamente leggierie vane, ma troppo molle e lascive, le quali comunemen-te si trovono scritte nelle latine elegie. Le canzone an-cora, per avere più larghi spazii dove possino vagare,non reputo tanto difficile stile quanto quello del sonet-to; e questo si può assai facilmente provare con la expe-rienzia, perché chi ha composto sonetti e s’è ristretto aqualche certa e subtile materia, con grande difficultà hafuggito la obscurità e durezza dello stile; et è grandedifferenzia dal comporre sonetti in modo che le rimesforzino la materia, a quello che la materia sforzi le ri-me. E’ mi pare ne’ versi latini sia molto maggiore li-bertà che non è ne’ vulgari, perché nella lingua nostra,oltre a’ piedi, che più tosto per natura che per altra re-gola è necessario servare ne’ versi, concorre ancoraquesta difficultà delle rime; la quale, come sa chi l’haprovato, disturba molte e belle sentenzie, né permettesi possino narrare con tanta facilità e chiarezza. E che ilnostro verso abbia e suoi piedi si prova perché si po-trebbono fare molti versi contenenti undici sillabe, san-za avere suono di versi o alcun’altra differenzia dallaprosa. Concluderemo per questo il verso vulgare esseremolto difficile, e, tra gli altri versi, lo stile del sonettodifficillimo, e per questo degno d’essere in prezzoquanto alcuno degli altri stili vulgari. Né per questo vo-glio inferire li miei sonetti essere di quella perfezzioneche ho detto convenirsi a tal modo di stile; ma, comedice Ovidio di Phetonte, per al presente mi basta averetentato quello stile che appresso e vulgari è più excel-lente, e se non ho potuto aggiugnere alla perfezzionesua o conducere questo curro solare, almanco mi sia inluogo di laude lo ardire d’avere tentato questa via, an-cora che con qualche mio mancamento le forze mi sie-no mancate a tanta impresa.

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Parrà forse suto questo nostro proemio e troppo pro-lisso e maggiore preparazione che non è in sé lo effetto.A me pare non sanza vera necessità essere suto alquantocopioso, e, considerando la inezzia di questi miei versi,ho giudicato abbino bisogno di qualche ornamento, elquale si conviene a quelle cose che per loro natura sonopoco ornate; né si conveniva minore excusazione allecolpe che forse mi sarebbono sute attribuite. E però, ab-soluta questa parte, verremo alla exposizione de’ sonet-ti, fatto prima alquanto di argumento, che pare necessa-rio a questi primi quattro sonetti.

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[ARGUMENTO]

Forse qualcuno giudicherà poco conveniente princi-pio a’ versi miei cominciando non solamente fuora dellaconsuetudine di quelli che insino a qui hanno scritto si-mili versi, ma, come pare prima facie, pervertendo quasil’ordine della natura, mettendo per principio quello chein tutte le cose umane suole essere ultimo fine; perché liprimi quattro sonetti furono da me composti per la mor-te d’una donna, che non solo extorse questi sonetti dame, ma le lacrime universalmente dagli occhi di tutti gliuomini e donne che di lei ebbono alcuna notizia. Eperò, non obstante che paia cosa molto absurda comin-ciando io dalla morte, a me pare principio molto conve-niente, per le ragioni che diremo appresso.

È sentenzia de’ buoni filosofi la corruzzione d’unacosa essere creazione d’un’altra e il termine e fined’uno male essere grado e principio d’un altro. E que-sto di necessità adviene, perché, essendo la forma espezie, secondo e filosofi, inmortale, di necessità con-viene sempre si muova sopra la materia; e di questoperpetuo moto necessariamente nasce una continuagenerazione di cose nuove, la quale essendo sanza in-termissione di tempo alcuno e con una brevissima pre-senzia dello essere delle cose e dello stato d’esse inquella tale qualità o forma, bisogna confessare il fined’una cosa essere principio d’un’altra; e, secondo Ari-stotile, la privazione è principio delle cose create. Eper questo si conclude nelle cose umane fine e princi-pio essere una medesima cosa: non dico già fine e prin-cipio d’una cosa medesima, ma quello che è fine d’unacosa, inmediate è principio d’un’altra. E, se questo è,molto convenientemente la morte è principio a questanostra opera. E tanto più, perché chi essamina più sot-tilmente troverrà il principio della amorosa vita proce-dere dalla morte, perché chi vive ad amore muore pri-

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ma all’altre cose; e se lo amore ha in sé quella perfez-zione che già abbiamo detto, è impossibile venire a taleperfezzione se prima non si muore quanto alle cose piùimperfette. Questa medesima sentenzia pare che abbi-no seguito Omero, Virgilio e Dante, delli quali Omeromanda Ulisse apresso alli inferi, Virgilio Enea, e Dantelui medesimo perlustra lo inferno, per mostrare che al-la perfezzione si va per questa via. Ma è necessario, do-po la cognizione delle cose imperfette, quanto a quellemorire: perché, poi che Enea è giunto a’ campi elisii eDante condotto in paradiso, mai più si sono ricordatidello inferno; e arebbe Orfeo tratto Euridice dello in-ferno e condottola tra quelli che vivono, se non fussi ri-voltosi verso lo inferno: che si può interpetrare Orfeonon essere veramente morto, e per questo non essereagiunto alla perfezzione della felicità sua, di avere lasua cara Euridice. E però il principio della vera vita èla morte della vita non vera; né per questo pare postosanza qualche buono respetto la morte per principiode’ versi nostri.

Morì, come di sopra dicemmo, nella città nostra unadonna, la quale se mosse a compassione generalmentetutto il popolo fiorentino, non è gran maraviglia, perchédi bellezze e gentilezze umane era veramente ornataquanto alcuna che inanzi a·llei fussi suta; e, infra l’altresue ex cellenti dote, aveva così dolce e attrattiva manie-ra, che tutti quelli che con lei avevono qualche domesti-ca notizia crc devono da essa sommamente essere amati.Le donne ancora e giovane sue equali non solamente diquesta sua excellenzia tra l’altre non avevono invidia al-cuna, ma somma mente essaltavono e laudavono la biltàe gentilezza sua: per modo che impossibile pareva a cre-dere che tanti uomini sanza gelosia l’amassino e tantedonne sanza invidia la laudassino. E se bene la vita sua,per le sue degnissime condizioni, a tutti la facessi carissi-ma, pure la compassione della morte, e per la età molto

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verde e per la bellezza che, così morta, forse più che maialcuna viva mostrava, lasciò di lei uno ardentissimo desi-derio. E perché da casa al luogo della sepoltura fu porta-ta scoperta, a tutti che concorsono per vederla mossegrande copia di lacrime: de’ quali, in quelli che priman’avevono alcuna notizia, oltre alla compassione nacqueammirazione che lei nella morte avesse superato quellabellezza che, viva, pareva insuperabile; in quelli che pri-ma non la conoscevano, nasceva uno dolore e quasi ri-mordimento di non avere conosciuto sì bella cosa primache ne fussino al tutto privati, e allora conosciutola peraverne perpetuo dolore. Veramente in lei si verificavaquello che dice il nostro Petrarca: «Morte bella pareanel suo bel volto».

Essendo adunque questa tale così morta, tutti e fioren-tini ingegni, come si conveniva in tale publica iattura, di-versamente e si dolsono, chi in versi e chi in prosa, dellaacerbità di questa morte, e si sforzorono laudarla, ciascu-no secondo la facultà del suo ingegno; tra li quali io an-cora volsi essere e accompagnare le lacrime loro con li in-frascritti sonetti, de’ quali il primo comincia così:

I

O chiara stella, che coi raggi tuoi togli alle tue vicine stelle il lume, perché splendi assai più che ‘1 tuo costume? 4 Perché con Phebo ancor contender vuoi?

Forse i belli occhi, quali ha tolti a noi Morte crudel, che omai troppo presume, accolti hai in te: adorna del lor nume, 8 il suo bel carro a Phebo chieder puoi.

O questo o nuova stella che tu sia, che di splendor novello adorni il cielo, chiamata essaudi, o nume, i voti nostri: 11

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leva dello splendor tuo tanto via,che agli occhi, che han d’eterno pianto zelo, sanza altra offensïon lieta ti mostri. 14

Era notte e andavamo insieme parlando di questa co-mune iattura uno carissimo amico mio e io; e così par-lando, et essendo il tempo molto sereno, voltavamo gliocchi a una chiarissima stella, la quale verso l’occidentesi vedeva, di tanto splendore certamente, che non sola-mente di gran lunga l’altre stelle superava, ma era tantolucida, che faceva fare qualche ombra a quelli corpi chea tale luce s’opponevono. E, avendone di principio am-mirazione, io, vòlto a questo mio amico, dissi: – Non cene maravigliamo, perché l’anima di quella gentilissima oè transformata in questa nuova stella o si è coniunta conessa; e, se questo è, non pare mirabile questo splendore.E però, come fu la bellezza sua, viva, di gran confortoagli occhi nostri, confortiamogli al presente con la visio-ne di questa chiarissima stella; e se la vista nostra è de-bole e frale a tanta luce, preghiamo el nume, cioè la divi-nità sua, che li fortifichi, levando una parte di tantosplendore, per modo che sanza offensione degli occhi lapossiamo alquanto contemplare. E per certo, essendoornata della bellezza di colei, non è presuntuosa volen-do vincere di splendore l’altre stelle, ma ancora potreb-be contendere con Phebo e domandarli il suo carro, peressere auttrice lei del giorno. E, se questo è, che sanzapresunzione questa stella possi fare questo, grandissimapresunzione è suta quella della morte, avendo mano-messa tanta excellentissima bellezza e virtù –.

Parendomi questi ragionamenti assai buona materia auno sonetto, mi parti’ da quello amico mio e composi ilpresente sonetto, nel quale parlo alla sopra detta stella.

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II

Quando il sol giù dall’orizzonte scende, rimiro Clyzia pallida nel vólto, e piango la sua sorte, che li ha tolto la vista di colui che ad altri splende. 4

Poi, quando di novella fiamma accende l’erbe, le piante e ’ fior ’ Phebo, a noi vòlto l’altro orizzonte allor ringrazio molto e la benigna Aurora che gliel rende. 8

Ma, lasso, io non so già qual nuova Aurora renda al mondo il suo Sole! Ah, dura sorte, che noi vestir d’eterna notte volse! 11

O Clyzia, indarno speri vederlo ora! Tien’ li occhi fissi, infin li chiugga morte,all’orizzonte extremo che tel tolse. 14

Morì questa excellentissima donna del mese d’aprilenel quale tempo la terra si suole vestire di diversi coloridi fiori, molto vaghi agli occhi e di grande recreazioneall’animo. Mosso io da questo piacere, per certi mieiamenissimi prati solo e pensoso passeggiavo, e, tutto oc-cupato nel pensiero e memoria di colei, pareva che tuttele cose reducessi a suo proposito. E però, guardando trafiore e fiore, vidi tra gli altri quello piccolo fiore che vul-garmente chiamiamo «tornalsole» e da’ Latini detto cly-tia; nel quale fiore, secondo Ovidio, si transformò unaninfa, Clyzia chiamata, la quale amò con tanta veemen-zia e ardore il sole, che così, conversa in fiore, sempre alsole si rivolge e tanto quanto può questo suo amato va-gheggia. Rimirando io adunque questo amoroso fiore,pallido, come è natura degli amanti e perché veramenteil fiore è di colore pallido, perché è giallo e bianco, mivenne compassione della sorte sua; perché, essendo giàvicino alla sera, pensavo che presto perderebbe la dol-cissima visione dello amato suo, perché già il sole

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s’apressava al nostro orizzonte, che privava Clyzia dellasua amata vista; el dolore della quale era anco ra mag-giore, perché quello che era negato a·llei era comune amolti altri, cioè agli occhi di coloro che sono chiamati«antipodi», a’ quali splende il sole quando noi ne siamoprivati e la notte de’ quali a noi fa giorno. Da questopensiero entrai in uno altro: che, se bene lei per una not-te perdeva questa diletta visione, almanco la mattina se-guente gli era concesso el rivederla, perché, come l’oriz-zonte occidentale gliele toglie, l’orientale gliele rende, ela benigna Aurora, piatosa allo amore di Clyzia, di nuo-vo gliele mostra; e io ancora ringrazio per questo l’orien-tale orizzonte che gliel rende, perché è cosa molto natu-rale e umana avere compassione agli afflitti, maxime aquelli che hanno qualche similitudine d’afflizzione connoi. Questa sorte di Clyzia, diversa e alterna, mi fece di-poi pensare quanto era più dura e iniqua sorte quella dicolui che desidera assai vedere la cosa, il vedere dellaquale necessariamente gli è interdetto, non per una not-te, ma per sempre. Veggo quale Aurora rende a Clyzia ilsuo sole, ma non so quale altra Aurora renda al mondoquesto altro Sole, cioè gli occhi di colei; e se questo Solenon può tornare, di necessità agli occhi di quelli che nonhanno altra luce bisogna sia sempre notte, perché non èaltro la notte che la privazione del lume del sole; e peròdurissima sorte è quella di colui che con assai desiderioaspetta quello che non può avere. Né questo tale puòavere altro refriggerio che ricordarsi e tenere gli occhidella mente sua fissi a quello che ha più amato e che gli èsuto più caro; perché, come credo avenga a Clyzia, chela sera resta vòlta col viso allo orizzonte occidentale, cheè quello che gli ha tolta la visione del sole, insino che lamattina el sole la rivolta all’oriente, così questo novelloClyzia non può avere maggiore refriggerio che tenere lamente e il pensiero vòlto all’ultime impressioni e più ca-re cose del suo Sole, che sono a similitudine dello oriz-

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zonte occidentale, ché lo hanno privato della sua amatavisione. Possiamo ancora dire questo ultimo orizzonteintendersi la morte di questa gentilissima, perché «oriz-zonte» non vuole dire altro che l’ultimo termine, di làdal quale gli occhi umani non possono vedere: come di-ciamo, se ’l sole tramonta, quell’ultimo luogo di là dalquale il sole non si vede più, e, quando si leva, il primoluogo dove il sole appare. E però convenientementepossiamo chiamare la morte quell’orizzonte che ne tolsela vista degli occhi suoi; al quale questo nuovo Clyzia,cioè lo amatore degli occhi suoi, debbe tenere gli occhifissi e fermi, venendo in considerazione che ciascuna co-sa mortale, ancora che bella et excellentissima, di neces-sità muore. E questa tale considerazione suole esseregrande et efficace remedio a consolare ogni dolore e co-me cose finite e sottoposte alla necessità della morte. Echi considera questo in altri, può facilmente conoscerequesta condizione e necessità in sé medesimo, servandoquello sapientissimo detto che nel tempio d’Appollineera scritto, «Nosce te ipsum», perseverando in questopensiero infino che la morte venga; la quale renderà ilSole suo a questo nuovo Clyzia, come l’Aurora lo rendea Clyzia già convertita in fiore, perché allora l’anima,sciolta dal corpo, potrà considerare la bellezza dell’ani-ma di costei, molto più bella che quella la quale era pri-ma visibile agli occhi: perché la luce degli occhi umani ècome ombra respetto alla luce dell’anima. E così comela morte di colei è stata orizzonte all’occaso del sole de-gli occhi suoi, così la morte di questo nuovo Clyzia saràl’orizzonte orientale che renderà a·llui il suo Sole, comel’Aurora lo rende a Clyzia già conversa in fiore.

Questo pensiero adunque parendomi fussi assai con-veniente materia da mettere in versi, feci il presente so-netto.

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III

Di vita il dolce lume fuggirei a quella vita che altri «morte» appella, ma morte è sì gentile oggi e sì bella, ch’io credo che morir vorran li dèi. 4

Morte è gentil, poich’è stata in colei che è or del ciel la più lucente stella; io, che gustar non vo’ dolce poi che ella è morta, seguirò questi anni rei. 8

Piangeran sempre gli occhi, e ’l tristo core sospirerà del suo bel sol l’occaso,lor di lui privi, e ‘1 cor d’ogni sua speme. 11

Piangerà meco dolcemente Amore, le Grazie e le sorelle di Parnaso:e chi non piangeria con queste insieme? 14

È comunemente natura degli amanti e pasto della amo-rosa fame pensieri tristi e malinconici, pieni di lacrime esospiri, e questo comunemente è nella maggiore allegrez-za e dolcezza loro. Credo ne sia cagione che lo amore cheè solo e diuturno procede da forte inmaginazione, e que-sto può male essere se l’umore malencolico nello amantenon predomina, la natura del quale è sempre avere so-spetto e convertire ogni evento, o prospero o adverso, indolore e passione. Se questa è propria natura degli aman-ti, certamente il dolore loro è maggiore che quello delli al-tri uomini quando a questa proprietà naturale si aggiugneaccidente per sé doloroso e lacrimoso; e nessuna cosa puòaccadere allo amante degna di più dolore e lacrime, che laperpetua privazione della cosa amata. Di qui si può pre-summere quanto dolore dessi la morte di colei a quelliche sommamente l’amavono, che ragionevolmente fu elmaggiore che possi provare uno uomo.

È natura de’ melancolici, come abbiamo detto esseregli amanti, nel dolore non cercare altro rimedio che ac-

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cumulazione di dolore e avere in odio e fuggire ogni ge-nerazione di refriggerio e consolazione. E però, se qual-che volta per rimedio di questo acerbissimo dolore siponeva inanzi agli occhi la morte, in quanto era fine diquesta dolorosa passione era odiata da me; e tanto piùdoveva essere odiata, quanto la morte, per essere statanegli occhi di colei, si poteva stimare più dolce e piùgentile, perché essendosi comunicata a una cosa gentilis-sima, di necessità participava di quella qualità che tantocopiosa aveva trovato in lei. E, pensando quanto perquesto fussi fatta gentile la morte, credevo gli iddei in-mortali dovere mutare sorte e ancora loro volere gustarela gentilezza della morte. E, se questo era, io, per mianatura desiderando solamente dolore e non gustare al-cuna cosa dolce, per più mio dolore eleggevo seguitarequesti rei anni della vita, acciò che ‘1 mio dolore fussipiù diuturno e che gli occhi potessino più tempo pian-gere e il cuore più lungamente sospirare l’occaso, cioè lamorte, del mio sole, gli occhi privati della loro dolcissi-ma visione e il cuore d’ogni sua speranza e conforto;piangendo e sospirando in compagnia d’Amore, delleGrazie e delle Muse, a’ quali è così conveniente il piantoe il dolore, come agli occhi e al cuore mio. Perché, comegli occhi e ‘1 cuore hanno perduto quello fine al qualeda Amore erono suti ordinati e destinati, così Amoredebba ancora lui piangere, perché aveva posto lo impe-rio e fine suo negli occhi di costei, e le Grazie tutti e do-ni e virtù loro nella sua bellezza, le Muse la gloria del lo-ro coro in cantare le sue dignissime laude. Adunqueconvenientemente el pianto a tutti questi conviene; e chinon piangessi con questi, bisogna sia uomo al tutto san-za parte o d’amore o di grazia. E però ciascuno debbapiangere, alcuni per non essere, altri per non parere al-meno rebelli da tanta gentilezza.

Questi affetti arei voluto exprimere nel presente so-netto.

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IV

In qual parte andrò io, ch’io non ti truovi, trista memoria? In quale obscuro speco fuggirò io, che sempre non sia meco,trista memoria, che al mio mal sol giovi? 4

Se in prato lo qual germini fior’ nuovi,se all’ombra d’arbuscei verdi m’arreco, veggo un corrente rivo, io piango seco.Che cosa è, ch’e miei pianti non rinnuovi? 8

S’io torno all’infelice patrio nido, tra mille cure questa in mezzo siede del cor, che come suo consuma e rode. 11

Che debb’io fare omai, a che mi fido? Lasso, che sol sperar posso merzededa morte, che oramai troppo tardi ode! 14

Non si maraviglierà alcuno, il cuore del quale è sutoacceso d’amoroso fuoco, trovando in questi versi diversepassioni e affetti molto l’uno all’altro contrarii, perché,non essendo amore altro che una gentile passione, sareb-be più presto maraviglia che uno amante avessi mai pun-to di quiete o vita uniforme. E però, se ne’ nostri e neglialtrui amorosi versi spesso si troverrà questa varietà econtradizione di cose, questo è privilegio degli amanti,sciolti da tutte qualitati umane, perché alcuna ragionenon se ne può dire, né trovare modo o consiglio in quellecose che solo la passione regge. Pare il presente sonettomolto contrario al precedente, perché come quello fuggeogni generazione di consolazione e pare si pasca e delpresente dolore e della speranza d’averlo ancora maggio-re, questo mostra avere cerco diverse ragioni di consola-zione, e, se bene indarno, molte cose avere provato per-ché questa acerbissima memoria della morte di coleifuggissi dall’animo; e in fine mostra qualche desideriodella morte, dal quale el precedente è in tutto alieno.

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Chi sente excessivo dolore, comunemente in due mo-di fa pruova di mitigarlo, cioè o che qualche cosa ame-na, dolce e piacevole adolcisca il dolore, o che qualchepensiero grave e importante lo cacci; e comunementes’elegge prima quello rimedio che è più facile e dolce. Eperò, sentendo io l’acerbità di questa memoria, andavocercando o qualche luogo solitario e ombroso o l’ame-nità di qualche verde prato (come ancora testifica il co-mento del secondo sonetto), o mi ponevo presso a qual-che chiara e corrente acqua o all’ombra di qualche verdearbuscello. Ma Ka meL interveniva come a quello che èagravato d’infermità, el quale, avendo corrotto il gusto,se bene diverse spezie di delicati cibi gli sono ammini-strati, di tutti cava un medesimo sapore, che converte ladolcezza di que’ cibi in amaritudine. Così, quanto piùletizia dovevano porgere al cuore mio queste cose diver-se e amene, perché il gusto mio era corrotto e l’animodisposto a lacrime, tutte multiplicavono il dolore mio; ela memoria di colei, che in ogni luogo e tempo era pre-sente, mi mostrava con molto maggiore amaritudine chel’ordinario tutte quelle cose. E se bene questa memoriaera durissima e molesta, pure, come abbiamo detto del-lo infermo, el quale se bene e cibi tutti rapportono al gu-sto amaritudine, pure lo nutriscono e sono cagione cheviva, così di questo amarissimo cibo della memoria suasi sostentava la mia vita. E, in effetto, contro a questomale nessuno migliore antidoto o rimedio si trovava che’l male medesimo; né si poteva vincere quel pensiero senon col medesimo pensiero, perché altra dolcezza nonrestava al cuore che questa amarissima memoria: e peròsola questa giovava al mio male. Essendo adunque ne-cessario ricorrere al secondo rimedio, fuggivo di questidilettevoli luoghi nel freto e tempesta delle civili occu-pazioni. Questo rimedio ancora era scarso, perché aven-do quella gentilissima preso el dominio del mio cuore euna volta fattolo suo, tra tutti gli altri pensieri el pensie-

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ro e memoria di lei stava nel mezzo del cuore, e, a di-spetto di tutte l’altre cure, come sua cosa se lo consuma-va: perché «cura» non vuole dire altro se non quella co-sa che arde e consuma il cuore. E però, non potendo nécon l’uno né con l’altro modo levarmi da tanta amaritu-dine e acerbità, non mi restava altro rimedio e speranzache quella della morte; la quale troppo tardi ode: che sipuò interpetrare così per non avere voluto prima udire eprieghi di tanti che a.llei desideravono la vita, come per-ché l’afflizzione sentita dopo la morte sua, non avendoaltro rimedio che la morte, era sì grande, che ogni indu-gio e dilazione della morte, ancora che piccolo, parevainsopportabile.

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[NUOVO ARGUMENTO]

Avendo absoluto la exposizione de’ quattro prece-denti sonetti et essendo quelli che seguono molto diffe-renti, pare necessario, per maggiore dilucidazione, fareprima uno nuovo argumento, il quale sia comune a tuttili seguenti sonetti, acciò che si verifichi quello che di so-pra abbiamo detto, cioè che la morte sia stata conve-niente principio a questa nuova vita, come mi sforzeròdi mostrare appresso.

Nascono tutti gli uomini con uno naturale appetito difelicità, e a questo, come a vero fine, tendono tutte leopere umane. Ma perché è molto difficile a conoscereche cosa sia felicità e in che consista, e se pure si conoscenon è minore difficultà el poterla conseguire, dagli uo-mini per diverse vie si cerca. E però, dapoi che in generee in confuso gli uomini questo si hanno proposto per fi-ne, cominciano chi in uno e chi in uno altro modo a cer-care di trovarlo; e così, da quella generalità ristrignendo-si a qualche cosa propria e particulare, diversamentes’affaticano, ciascuno secondo la natura e disposizionesua: onde nasce la varietà delli studii umani e l’ornamen-to e maggiore perfezzione del mondo per la diversitàdelle cose, simile all’armonia e consonanzia che resultadi diverse voce concorde. E a questo fine forse Coluiche mai non erra ha fatto obscura e difficile la via dellaperfezzione. E così si conosce l’opere nostre e la intelli-genzia umana avere principio dalle cose più note, ve-nendo da quelle alle manco note; né è dubio alcuno es-sere di più facile cognizione le cose in genere, che inspezie e particulare: dico, secondo il discorso dell’uma-na intelligenzia, la quale non può avere vera diffinizioned’alcuna cosa, se prima non procede la notizia universa-le di quella.

Fu adunque la vita e morte di colei che abbiamo det-to, a me notizia universale di amore e cognizione in con-

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fuso che cosa fussi amorosa passione; per la qualeuniversale cognizione divenni poi alla cognizione par-ticulare della mia dolcissima e amorosa pena, come dire-mo appresso. Imperò che, essendo morta la donna chedi sopra abbiamo detto, fu da me e laudata e deploratanelli precedenti sonetti come publico danno e iatturacomune, e fui mosso da uno dolore e compassione chemolti e molti altri mosse nella città nostra, perché fu do-lore molto universale e comune.

E se bene nelli precedenti sonetti sono scritte alcunecose che più tosto paiono da privata e grande passionedettate, mi sforzai, per meglio satisfare a me medesimoe a quelli che grandissima e privata passione avevonodella sua morte, propormi inanzi agli occhi di avere an-cora io perduto una carissima cosa, e introdurre nellamia fantasia tutti gli affetti che fussino atti a muovereme medesimo, per potere meglio muovere altri. E, stan-do in questa inmaginazione, cominciai meco medesimoa pensare quanto fussi dura la sorte più di quelli che as-sai avevono amato questa donna, e cercare con la mentese alcuna altra ne fussi nella città degna di tanto amoree laude. E, stimando che grandissima felicità e dolcezzafussi quella di colui, el quale o per ingegno o per fortu-na avessi grazia di servire una tale donna, stetti qualchespazio di tempo cercando sempre e non trovando cosache al giudicio mio fussi degna d’uno vero e constantis-simo amore; et essendo già quasi fuora d’ogni speranzadi poterla trovare, fece in uno punto più el caso che intanto tempo non aveva fatto la exquisita diligenzia mia;e forse Amore, per mostrare a me meglio la sua poten-zia, volle celarmi tanto bene in quello tempo che io piùlo cercavo e disideravo, e concederlo a quello tempoquando al tutto me ne pareva essere disperato. Facevasinella città nostra una publica festa, dove concorsonomolti uomini e quasi tutte le giovane nobile e belle. Aquesta festa, quasi contro a mia voglia, credo per mio

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destino, mi condussi con alcuni compagni e amici miei,perché ero stato per qualche tempo assai alieno da simi-li feste, e, se pure qualche volta m’erono piaciute, pro-cedeva più presto da una certa voglia ordinaria di farecome gli altri giovani, che da grande piacere che netraessi. Era tra l’altre donne una agli occhi miei di som-ma bellezza e di sì dolci e attrattivi sembianti, che co-minciai, veggendola, a dire: «Se questa fussi di quelladilicatezza, ingegno e modi che fu quella morta che ab-biamo detta, certo in costei e la bellezza e vaghezza eforza degli occhi è molto maggiore». Dipoi, parlandocon alcuno che di lei aveva qualche notizia, trovai mol-to bene rispondere gli affetti, non così a ciascuno co-muni, a quello che la bellezza sua, e maxime gli occhi,mostravano; nelli quali si verificava molto KbeneL quelloche dice Dante in una sua canzona parlando degli occhidella donna sua: «Ella vi reca Amore come a suo loco».Veramente quando la natura gli creò, non fece sola-mente due occhi, ma il vero luogo dove stessi Amore einsieme la morte, o vero vita e K’nL felicità degli uominiche fiso gli riguardassino, secondo che da loro fussinoamati o odiati. Cominciai adunque in quel punto adamare con tutto il cuore quella apparente bellezza; e diquello che non appariva, la oppinione e indizio che nedava tanto dolce e peregrino aspetto mi fece nascereuno incredibile desiderio. E dove prima mi maraviglia-vo non trovando cosa che io giudicassi degna d’uno sin-cero amore, cominciai’ avere maggiore ammirazione,avendo veduto una donna che tanto excedesse la bellez-za e grazia della sopra detta morta. E in effetto, tuttodel suo amore acceso, mi sforzai diligentemente investi-gare quanto fussi gentile e accorta e in parole e in fatti;e in effetto trovai tanto excellente tutte le sue condizio-ni e parti, che molto difficilmente conoscere si potevaqual fussi maggiore bellezza in lei, o del corpo o dell’in-gegno e animo suo.

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Era la sua bellezza, come abbiamo detto, mirabile: dibella e conveniente grandezza; il colore delle carni bian-co e non smorto, vivo e non acceso; l’aspetto suo grave enon superbo, dolce e piacevole, sanza leggerezza o viltàalcuna; gli occhi vivi e non mobili, e sanza alcuno segnoo d’alterigia o di levità. Tutto il corpo sì bene proporzio-nato, che tra l’altre mostrava degnità, sanza alcuna cosarozza o inetta; e nondimeno, e nello andare e nel ballaree nelle cose che è lecito alle donne d’operare il corpo, ein effetto in tutti li suoi moti, era elegante e avenente. Lemani, sopra tutte le altre che mai facessi natura, bellissi-me, come diremo sopra alcuni sonetti alli quali le suemani hanno dato materia. Nello abito e portamenti suoimolto pulita e bene a proposito ornata, fuggendo peròtutte quelle fogge che a nobile e gentile donna si scon-vengono e servando la degnità e gravità. Il parlare dol-cissimo veramente, pieno d’acute e buone sentenzie, co-me faremo intendere nel processo, perché alcune parolee sottili inquisizioni sue hanno fatto argumento a certidelli miei sonetti. Parlava a tempo, breve e conciso, né sipoteva nelle sue parole o disiderare o levare; li motti efacezie sue erono argute e salse KeL, sanza offensione peròd’alcuno, dolcemente mordente. Lo ingegno veramentemaraviglioso, assai più che a donna non si conviene; equesto però sanza fasto o presunzione, e fuggendo unocerto vizio che si suole trovare nella maggiore parte del-le donne, alle quali parendo intendere assai, diventanoinsopportabili, volendo giudicare ogni cosa, che vulgar-mente le chiamiamo «saccente». Era prontissima d’inge-gno, tanto che molte volte o per una sola parola o peruno piccolo cenno comprendeva l’animo altrui; nellimodi suoi dolce e piacevole oltre a modo, non vi mesco-lando però alcuna cosa molle o che provocassi altri adalcuno poco laudabile effetto; in qualunque sua cosasaggia e accorta e circunspetta, fuggendo però ogni se-gno di callidità o di duplicità, né dando alcuna suspizio-

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ne di poca constanzia o fede. Sarebbe più lunga la narra-zione di tutte le sue excellentissime parti che il presentecomento; e però con una parola concluderemo il tutto everamente affermeremo nessuna cosa potersi in una bel-la e gentil donna desiderare, che in lei copiosamentenon fussi.

Queste excellentissime condizioni m’avevono in mo-do legato, che non avevo o pensiero o membro più chefussi in sua libertà. E posso dire, quanto agli occhi miei,che quella morta di chi abbiamo detto fussi la stella diVenere, da’ Latini Lucïfer chiamata, la quale, preceden-do il sole, venendo poi quello maggiore lume, cede e altutto si spegne, quasi come se fussi ordinata per adverti-re gli uomini che il sole viene, e non per dare luce almondo. Muore e spegnesi questa stella sopravenendo losplendore del sole, e nondimeno è chiamata Lucifer, chevuol dire una cosa che porta seco luce, la quale luce nonporta nel mondo se non quando si spegne la luce sua;parve adunque ancora a’ Latini la morte di questa stellavita e principio della luce del giorno. Adunque con que-ste auttorità ancora si verifica la morte di quella esseresuto conveniente principio a questo giorno, che fece agliocchi miei el nuovo sole degli occhi di colei; la quale sebene abbiamo molto laudata, le laude non aggiungonoperò alla excellenzia e meriti suoi. Mostrommi il mortoLucifer che presto doveva venire questo mio novello so-le, e, come abbiamo detto, scòrse el cammino mio ciecoalla visione di questo tanto splendore; e, poi che ebbeassuefatti gli occhi miei a vedere lo splendore della suastella, cioè splendore celeste, sentendo il sole sopraveni-re si spense, e io, che per lei avevo cominciato a voltaregli occhi in cielo, con manco offensione della vista miagli pote’ traducere dal lume della stella allo splendoredel sole.

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V

Lasso a me!, quando io son là dove sia quello angelico, altero e dolce volto: il freddo sangue intorno al core accoltolascia sanza color la faccia mia. 4

Poi, mirando la sua, mi par sì pia, che io prendo ardire e torna il valor tolto: Amor, ne’ raggi de’ belli occhi involto,mostra al mio tristo cor la cieca via. 8

E parlandoli allor dice: – Io ti giuro pel santo lume di questi occhi belli,del mio stral forza e del mio regno onore, 11

ch’io sarò sempre teco, e te assicuro esser vera pietà che mostran quelli –. Credeli, lasso!, e da me fugge il core. 14

Era, come abbiamo detto, il mio cuore tutto acceso einfiammato della biltà e gentilezza di questa mia donna,e se alcuna parte restava in me che non consentissecoll’altre, ne era cagione il dubbio che avevo che contanta bellezza e gentilissimi modi non fusse congiuntaqualche durezza e poca pietà; perché sapevo già quantoera grande il disio, e aspettavone grandissima passione einsopportabile tormento quando in questa mia gentilis-sima non fussi stata pietà. Questo sospetto teneva anco-ra in me il mio cuore, né lo lasciava assicurare al partire.E però se mi trovavo alla presenzia di lei, el viso suo, ve-ramente angelico, pareva al cuore dolce e altero: dolceperché così veramente era, altero gliele faceva parere eldubbio già detto della poca pietà. E però prima diventa-vo tutto pallido, perché el cuore, essendo già acceso eavendo il dubbio che di sopra abbiamo detto, non pote-va fare che sommamente non temessi. Di questo suo ti-more nasceva in lui affanno, e però li spiriti vitali, cor-rendo per soccorrere al cuore, lasciavono la faccia mia

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sanza colore, pallida e smorta; e insieme con li spiriti,come ha ordinato la natura, assai copia di sangue intor-no al cuore conveniva. Questo generava in quel luogocaldo assai più che l’usato; né potendo tanto caldo essa-lare, per essere piccolo lo spazio a tanta quantità, ne na-sceva quasi una suffocazione di quelli spiriti e sangue:onde era constretto, non potendo essalare, il sangue amortificarsi e raffredarsi, come mostra la experienzia inquelli che per paura muoiono, alli quali si truova intor-no al cuore quantità di sangue coagulato e freddo, anco-ra che nell’altre sue membra resti qualche qualità di cal-do. Ma poi, rimirando la faccia sua, parendomi vi fussitanti segni di pietà, il cuore poneva da parte la paura eripigliava qualche ardire; e per questo li spiriti vitali ri-tornavono al luogo onde prima erono partiti, e con lorotornava il valore e colore prima perduto. E tanto più,perché, guardando negli occhi suoi, vedevo Amore in-volto ne’ raggi di quelli belli occhi e mostrandoli la viacome potessi fuggire da me nelli occhi della donna mia;la quale via si può dire cieca, perché il cuore non avevaperò certezza alcuna se non per le parole d’Amore, eperò camminava per tenebre e in dubbio di sé medesi-mo: KeL tanto più, perché Amore, el quale era sua scortaa quello cammino, ancora lui si dipigne cieco. E acciòche ’l mio cuore gli dessi più fede, giura per li occhi del-la mia donna essere vera la pietà che quelli mostrano difuora, e oltre a questo di stare sempre in compagnia delcuore mio, perché dove concorre pietà e amore non puòessere sospetto o timore al cuore mio. E giurando Amo-re per li occhi di colei, non può fare più efficace giura-mento, perché «giuramento» non è altro che producereper testimonio di quello che tu affermi quella cosa per laquale giuri: perché, chi giura, verbi gratia, per Giove,vuole che Giove sia testimonio e quasi fideiussore dellaobservanzia di quella cosa, e chi rompe uno sacramentoe diventa periuro, offende la prima cosa e vilipende

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quello per chi ha giurato. Avendo adunque Amore giu-rato per li occhi della donna mia, e subiungendo che gliocchi suoi sono l’onore e forza sua, doveva il cuore cre-dere ad Amore, perché non è da presummere volessi in-gannare o provocarsi inimici quelli occhi, nelli quali eraposto l’onore e forza sua. E però non errò il cuore miocredendogli: e abbandonatamente lasciò el mio petto ese n’andò in quelli splendidissimi e amorosi occhi.

VI

Spesso mi torna a mente, anzi già mai si può partir della memoria mia,l’abito e il tempo e il loco dove pria la mia donna gentil fiso mirai. 4

Quel che paressi allora, Amor, tu il sai, che con lei sempre fusti in compagnia: quanto vaga, gentil, leggiadra e pia,né si può dir né imaginare assai. 8

Quando sopra i nivosi et alti monti Apollo spande il suo bel lume adorno, tali e crin’ suoi sopra la bianca gonna. 11

El tempo e ’l loco non convien ch’io conti, ché dove è sì bel sole è sempre giornoe paradiso ove è sì bella donna. 14

Sogliono le prime impressioni nelle menti degli uomi-ni essere molto veemente, e pare cosa molto conformealla ragione che così sia. Perché, essendo la mente nostraper natura ordinata a ricevere diverse impressioni e conquesto naturale appetito di non stare vacua, fa comeuno assetato, el quale spegne la sete con la prima cosache gli occorre atta ad extinguerla, e tanto più volentierilo fa, quanto è più quella tal cosa dolce al gusto; perquesta ragione, secondo Platone, quelli che sono di te-

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nera età hanno più tenace memoria, perché quelle coseche loro imparano, come prime e nuove impressioni me-glio si riservano nella memoria.

Essendo adunque già assicurato da Amore il mio cuo-re e già da me fuggito, nessuna cosa molesta restava nelpensiero, parendomi già vedere indizii assai certi dellafutura pietà nella donna mia. Questo generava in megrandissima speranza e dolcezza; e perché naturalmentes’appetisce quello che piace, quando non può esserepresente la memoria e il pensiero ce lo rappresenta, epiù volentieri quelle cose che sono sute prime, comeprincipio e cagione di quello bene che sente la mente.Erano adunque nella memoria mia quasi perpetualmen-te presenti lo abito, del quale era adorna la mia donna, eil luogo e ‘1 tempo quando prima fiso mirai negli occhisuoi, cioè quando, già acceso dello amore suo, con som-ma delettazione la guardai: perché il mirar fiso non pro-cede se non da due cagioni, cioè o per conoscere benequella tale cosa che si guarda, o per grande delettazioneche si piglia guardandola. Cessava in me la prima cagio-ne, perché già conoscevo la bellezza e forza degli occhisuoi; restava adunque solamente il diletto, cagione delmio mirare fiso. E io, se bene per altri tempi avevo vedu-to gli occhi suoi, non avendo ancora avuto grazia di co-noscerli, non gli avevo mirati fiso; e quando prima glimirai fiso fu dopo la cognizione di tanto bene, dopo laquale inmediate e necessariamente tutto di loro m’acce-si: perché prima procede la cognizione e poi lo amore.Quello che paressi agli occhi miei era a me molto diffici-le o inmaginare o referire, perché le bellezze sue, comedice Dante, «soverchiono lo nostro intelletto, come rag-gio di sole in fraile viso»; e però quello che era impossi-bile a me lasciai ‘ Amore, il quale, stando sempre con leie abitando (come abbiamo detto) negli occhi suoi, e me-glio conoscere e più absolutamente exprimere potevatanta excellenzia. E, oltre a questo, proponendo io che

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la sua bellezza, leggiadria, gentilezza e pietà erono coseimpossibile o a narrare o a inmaginare, e parendo que-sto a chi legge mirabile e quasi impossibile, pare moltoconveniente producere in fede di questo uno testimonioautentico; e nessuno è migliore testimonio che Amore,maxime sendo suto presente, e ancora merita essere cre-duto da quelli almanco che li sono stati subietti, e quali,come nel proemio dicemmo, bisogna che sieno animi al-ti e gentili, appresso li quali basta simili amorosi miraco-li avere fede; e se fuora di questo numero non fussinocreduti, non è bene che e cuori rozzi e villani e rebelli daAmore gustino tanta gentilezza.

Avendo adunque in genere detto della excellenzia dicostei e quanto nel primo aspetto paressi bella, gentile epia, parve da fare menzione delle tre cose proposte nelprincipio del sonetto, cioè l’abito e ‘1 tempo e ‘1 loco. Eperò, quanto allo abito, ancora che sia minore la compara-zione che la excellenzia di lei, essendo vestita tutta dibianco e mostrando in su quel campo e suoi aurei capelli,mi parve conveniente assimigliarli a’ raggi del sole quandosi spandono sopra a uno monte di candida neve, perchéné meno candida cosa coprivano e capelli che sia la neve,né manco splendore avevono e capelli che li raggi del sole;e se e capelli erono tanto lucenti, molto più erono gli oc-chi. E però, quanto al tempo, non è dubbio che era gior-no, el quale almeno faceva il sole degli occhi suoi. E, datoche questo fussi, il luogo di necessità era paradiso, perchédove era tanto splendore, bellezza e pietà, certamente sipuò dire paradiso; el quale paradiso, chi vuole rettamentediffinire, non vuole dire altro che uno giardino amenissi-mo, abundante di tutte le cose piacevoli e dilettevoli, d’ar-bori, di pomi, di fiori, e acque vive e correnti, canti d’uc-celli, e in effetto di tutte le amenità che può pensare elcuore dell’uomo. E per questo si verifica che paradiso eraove era sì bella donna, perché quivi era copia d’ogni ame-nità e dolcezza che uno gentile cuore può disiderare.

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VII

Occhi, voi siate pur dentro al mio core e vedete il tormento ch’ei sostiene e la sua intera fé: dunque, onde advieneche madonna non cura il suo dolore? 4

Tornate a·llei, e con voi venga Amore, testimone ancor lui di tante pene; dite che resta al cor sol questa spenede’ prieghi vostri, e se invan fia, si more. 8

Portate a·llei i miseri lamenti. Ma, lasso, quanto è folle il mio disio,ché ‘1 cor non vive sanza gli occhi belli! 11

O occhi, refrigerio a’ miei tormenti, deh, ritornate al misero cor mio!Amor sol vadi, e lui per me favelli. 14

Era già per li occhi miei discesa al cuore la imaginedella bellezza di costei, e gli occhi suoi avevono fatto inesso tale impressione, che sempre gli erono presenti; eAmore, il quale abbiamo detto sempre con loro abitava,se n’era ancora lui in compagnia di quelli occhi venuto.Il cuore per questo era di tante fiamme circundato, cheli pareva impossibile assopportare lo affanno che dalsuo ardente desiderio nasceva; e, pensando quale mi-gliore remedio potessi a questo male opporre, nessunacosa gli occorse di maggiore efficacia che fare intenderela sua dolorosa condizione e miserabile stato alla donnamia, la quale sola poteva, come sola cagione di tanta pe-na, sollevarlo. Pareva in questo caso necessario eleggerenunzio e messaggero che avessi due condizioni: una,che fussi grato a colei a cui era mandato, perché avendoa riportare grazia, più facilmente si poteva per mezzo digraziosa persona; l’altra, che chi andava, oltre a esserebene informato della miseria in che si trovava il cuore,fussi creduto da·llei, acciò che la verità della pena più

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facilmente movessi la pietà. E però fece il cuore concet-to di pregare gli occhi della donna mia, e quali, essendoin lui, vedevano il suo grande tormento, che andassinoa referirlo a·llei; e in compagnia di loro Amore, acciòche, multiplicati li intercessori e il numero de’ testimonidel male suo, più facilmente s’impetrasse grazia perquesti graziosi messi: perché nessuno doveva essere alladonna mia o più grato o più creduto che Amore e gliocchi suoi medesimi. Erono testimoni quelli occhi, eAmore con loro, della pena del cuore e ancora della in-tera sua fede, non superata dalla grandezza de’ martirii,e credeva per questo il cuore che a·llei dovessi esserenoto lo stato suo; e, come nel processo del sonetto si ve-de, era in grande errore, perché non potendo vivere ilcuore sanza quelli occhi et essendo vivo quando man-dava questi nunzii, per le parole sue medesime si com-prende che quelli occhi mai s’erano partiti dal cuoremio. E però, quando il cuore dice: «Tornate a·llei», pre-supponendo quasi che altre volte si fussino partiti, sivede che il cuore per la passione erra; come ancora mo-stra maravigliandosi lui che madonna non curi il suodolore, presupponendo gli sia noto. Prega adunque ilcuore questi due nunzii che vadino a placare la durezzadella donna mia, come unico refugio e sola speranzadella sua salute. E chi legge bisogna presupponga chegià gli occhi e Amore erano in cammino per partirsi,quando il cuore, accortosi dello errore suo e che impos-sibile gli era a vivere sanza quegli occhi, gli richiamò in-drieto, pregandogli che restino con lui e commettendoche Amore solo andassi e pregassi per lui.

Una passione amorosa in dua modi si può levare dalcuore, cioè o con dimenticare la cosa amata o col placar-la. Tentò il cuore mio l’una e l’altra via, e volendo cac-ciare da sé gli occhi di colei, fece experienzia di metterlain oblivione, perché non è nel cuore quella cosa di chealtri non si ricorda. Tentò questo remedio invano, e

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però ricorse al secondo, cioè di placarla; questo non sipuò fare se non per mezzo d’Amore, né poteva nascerepietà nella donna mia se Amore non era con lei insiemecon la certezza della pena e fede del cuore, perchél’amore, la pena e la fede sono quelle cose che muovonola pietà.

Parla adunque il presente sonetto agli occhi delladonna KmiaL, che erano continui assistenti al cuore.

VIII

Quel che il proprio valore e forza excede,folle è sperare o disïar d’avere.Se alcun tien l’occhio fisso per vedereil sol, né quel né altra cosa vede. 4

Se gli è vero il pensier d’alcun che il crede,l’alta armonia delle celeste spere vince i mortali orecchi; né voleresi dee quel che altri con suo danno chiede. 8

Ah, folle mio pensier!, perché pur vuole giugner pietate alle bellezze onestedella mia donna, agli occhi, alle parole. 11

Suo parlar men che l’armonia celeste non vince, o il guardo offende men che il sole: or pensa se pietà si aggiugne a queste! 14

Adviene spesse volte agli uomini che desiderano quel-lo che sarebbe loro gravissimo danno e sperano ottenerequelle cose che sono impossibili a conseguire, mossi dapresunzione e ignoranzia, la quale secondo e filosofi èmadre di tutti e mali. Questo difetto più spesso si ritruo-va in quelli che sono posti in maggiore desiderio e pas-sione, nelli quali la afflizzione e la pena è sì grande, cheogni desperata via tentano per liberarsene. Questo taleerrore si nota per lo sopra scritto sonetto, el quale prima

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propone quanto sia grave inconveniente o desiderare osperare di avere quelle cose che excedono le forze nostree alle quali la natura nostra non è proporzionata, per es-sere assai inferiore e meno degna, subiungendo due es-sempli in confermazione di questa verità. El primo con-tro a quelli occhi che presumono guardare verso il sole, equali non solamente non lo possono vedere, ma pèrdonoper quello la visione dell’altre cose; l’altro essemplo è de-gli orecchi, e quali non sono sufficienti a potere udirel’armonia delle spere celesti. E per chiarire meglio questaparte è da intendere essere suto oppinione di alcuni filo-sofi, la quale mette Cicerone nel suo libro intitolato Desomnio Scipionis, che il moto delle celeste spere generidiverse voci secondo la diversità de’ moti, più veloce opiù tarda, e di tutti insieme una dolcissima armonia, ditanta grande voce e suono, che gli orecchi umani non so-no sufficienti a udire, come gli occhi mortali non posso-no vedere il sole; dando per essemplo che quelli uomini equali nascono vicini alle cateratte del Nilo, cioè dovequello grande fiume d’altissimi monti cade in basso, perlo strepito e romore grande tutti sono sordi. Questaoppinione, non essendo molto aprovata, ancora da menon è messa per certa, e però dissi: «Se gli è vero il pen-siero d’alcun che KilL crede». Da queste comparazioni de-gli occhi e degli orecchi umani non proporzionati a pote-re vedere il sole o udire l’armonia predetta, vengo poi amostrare lo errore degli occhi e degli orecchi miei, e qua-li sono suti presuntuosi, gli occhi a guardare il sole delladonna mia, gli orecchi a udire l’armonia dolcissima delleparole sue. E, se questo è grave errore, molto maggiore èquello del pensiero mio e molto maggiore presunzione,desiderando che s’agiunga pietà, cioè tanto maggiore for-za, alle bellezze della donna mia; le quali se erano insop-portabili alli miei frali e umili sensi sanza questa pietà, sipuò pensare quanto el pensiero mio desideri contro a sé,volendo agiugnere forza alla offesa sua.

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Pare molto conveniente alla presente materia fare in-tendere la cagione per che si fa solamente menzione delpensiero, degli occhi e degli orecchi, e non d’altra forzao senso; e però diremo apresso da che cagione mossi ab-biamo fatto questo. Secondo li Platonici tre sono le spe-zie della vera e laudabile bellezza, cioè bellezza d’anima,di corpo e di voce. Quella dell’anima può solamente co-noscere e appetire la mente, quella del corpo solamentediletta gli occhi, quella della voce gli orecchi; e dilettidegli altri sensi fuora di questi, come vili e non conve-nienti ad animo gentile, sono repudiati. Pel pensieroadunque s’intende la mente, la quale ha per obietto labellezza dell’anima, la quale consiste nella perfezzioneche dalla virtù gli viene; et è più e manco bella, e di più emanco bellezza è ornata, secondo che è accompagnatada più virtù, così in numero come in quantità e perfez-zione d’esse. La bellezza del corpo e grazia d’esso pareche proceda dall’essere bene proporzionato, di graziosoaspetto, e in effetto da una certa venustà e leggiadria, laquale qualche volta piace non tanto per la perfezzione ebuona proporzione del corpo, quanto per una certaconformità che ha con li occhi ai quali piace, che dal cie-lo o dalla natura procede: e tutto questo è obbietto e iu-dizio degli occhi. La terza bellezza, della voce, consistequando di più voce concorde resulta uno concento chesi chiama armonia; e questo può procedere così da di-verse voce, come è detto, come da una dolcezza e sua-vità di parole insieme bene connesse e accomodate, lequali ancora non possono essere così composte sanza ar-monia. Tutta questa bellezza solamente agli orecchi si ri-ferisce. E per questo solamente questi tre modi abbiamoposti a conoscere la donna mia: imperò che per quellapietà che ’l mio pensiero desiderava in lei bisogna inten-dere la bellezza delle virtù e dote dell’anima della donnamia, desiderate dalla nostra mente (perché la pietà èopera degnissima dell’anima mossa da iustizia, perché,

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essendo posta in anima ragionevole, sanza qualche partedi merito non si muove); per li occhi suoi la bellezza delcorpo, dagli occhi miei amata; per le parole sue, che vin-cono l’armonia celeste, si tocca la terza bellezza, dellavoce e dell’armonia, alla quale solo gli orecchi miei sta-vono intenti. Perché copiosamente queste tre bellezzeerano in questa gentilissima, bellissima e dolcissimadonna, la quale è a me cara sopra ogni cosa.

IX

Occhi, io sospiro come vuole Amore e voi avete per mio mal diletto;sempre ardo, né già mai giugne allo effetto qual più disia lo inveterato ardore. 4

Ma voi sentite ben pel mio dolore, perché mirate il più gentile obietto che aver possiate: al vostro ben perfetto vi conduce la doglia di me, cuore. 8

Se pur piangete, io son quel che distillo alquanto del mio mal per la via vostra; né il ben vi toglie il cor, quando si duole. 11

Pregate meco Amor che sia tranquillo, qual se benigno il chiaro obietto mostra, quanto sarà più bello il vostro sole! 14

Se gli è vera quella diffinizione d’amore che nelproemio abbiamo detto, molto bene ancora si verificail proposito e intenzione del presente sonetto, la qualeè di provare per evidente ragioni che il cuore accesod’amore già mai ha pace, e gli occhi dello inamoratotanto sono più felici, quanto il cuore ha maggiore tor-mento. La diffinizione che abbiamo detta d’amore èche amore sia desiderio di bellezza; e, se questo è, mol-to veramente si può dire amore non possedere quella

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bellezza che desidera, perché se la possedessi el deside-rio d’essa sarebbe invano, perché non si può desidera-re quello di che altri ha copia. E però diremo altra cosaessere amore, altra cosa essere il fine che lo muove,perché lo amore desidera et è mosso da uno fine che sichiama felicità e beatitudine, la quale consiste nel con-giugnersi con quella bellezza che lo amore appetisce econ essa inseparabilmente stare; e insino a tanto che aquesto fine di beatitudine non si perviene, amore nonsolamente non è bene, anzi è pena e tormento insop-portabile, più e manco secondo la grandezza delloamore. E però, presupponendo che il cuore non siapervenuto alla perfezzione di questa beatitudine e dol-cezza, bisogna confessare il cuore sia gravemente tor-mentato, perché il cuore ha per obbietto quella beati-tudine della quale è privato. Ma gli occhi, l’officio de’quali è vedere, tanto sono più felici, quanto veggonocosa più bella, e ciascuna cosa tanto pare agli occhi piùbella, quanto è maggiore lo amore, cioè il desiderio delcuore; perché se lo amore è grande, necessariamenteconviene che la bellezza o sia o paia agli occhi grande,altrimenti non sarebbe amore, cioè il desiderio dellabellezza. Adunque si conclude per una medesima ca-gione gli occhi essere tanto più felici quanto il cuore èpiù misero: pigliando questi termini largamente, cioè ilcuore come sede e luogo della concupiscibile, cioè nelquale nascono tutti e desideri, e gli occhi non in quan-to sono senso, perché come senso proprio et exteriorenon possono giudicare la bellezza d’una cosa o d’un’al-tra; e però bisogna per li occhi intendere l’operazionedell’anima nostra, che opera mediante gli occhi, e quelcontento e piacere che sente per mezzo dello strumen-to degli occhi, quando per rapporto loro giudica unacosa bella e piglia per questo consolazione e conforto.

Parla adunque nel presente sonetto il cuore agli occhimiei, mostrando l’afflizzione e miseria in che si truova,

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come vuole Amore, e il diletto che pel male suo sentonogli occhi, mostrando prima il male suo e poi il loro dilet-to. La miseria del cuore è questa: che lui sempre deside-ra quello che non possiede, né agiugne a quello effetto efine il quale lui più brama e desia d’uno desio antiquo einveterato. Ma gli occhi non solamente veggono l’ob-bietto loro, cioè gli occhi e la bellezza della donna mia,ma veggono la più bella et excellente cosa che possinovedere, cioè la donna mia, perché nessuna cosa può tan-to desiderare il cuore quanto lei; e dal desiderio suo na-sce la maggiore bellezza della donna mia, la quale è tan-to più bella e perfetta, quanto è maggiore la doglia delcuore, cioè il desiderio d’essa, per le cagioni che abbia-mo dette. Risponde dipoi a una tacita contradizione cheli potria essere fatta, cioè che gli occhi qualche volta an-cora loro piangono, e questo pare contro alla felicità laquale il cuore afferma essere negli occhi e però dice che,se pure gli occhi piangono, questo non procede per ca-gione d’alcuna pena loro, ma dal dolore e desiderio delcuore, il quale per la via delle lacrime sfoga una partedel suo dolore. Poi, rivoltatosi a·lloro, gli priega che loroprieghino Amore che faccia pietosa la donna mia; e aquesto gli debbe muovere non solamente la compassio-ne della miseria del cuore, ma ancora la speranza dimaggiore bene degli occhi, perché, agiugnendosi pietànella donna mia, Amore sarà tranquillo, cioè il desideriodella bellezza già sarà adempiuto, né più molesterà ilcuore; e in questo caso il sole, cioè gli occhi e bellezzadella donna mia, sarà molto più bello agli occhi, e tantopiù bellezza vedranno quanto la pietà la farà maggiore.

Pare molto conveniente, in confermazione di quelloche abbiamo detto, che il cuore sia cagione delle lacri-me, narrare come naturalmente le lacrime procedino piùtosto dal cuore che dagli occhi e intendere che cagionemuove le lacrime, come diremo appresso. Secondo e fi-sici, nel cuore nascono tutte le perturbazioni, d’allegrez-

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za, di dolore, d’ira, di speranza e di timore, e qualunquealtra passione; le quali tutte, così nate nel cuore, per unacerta conleganzia e conformità che è tra il cuore e il cer-vello, subito al cervello sono comunicate. Onde advieneche quando si comunica con lui o dolore o letizia, el cer-vello, oppresso o vero compresso da alcuna di questepassioni, quasi in sé medesimo si ristringe; et essendoper natura umido e ristringendosi in guisa d’una spugnapiena d’acqua, distilla per li occhi una parte di quellaumidità, e così genera lacrime, le quali sono più abun-dante in uno che in un altro, secondo che il cervello èpiù o manco umido o secco. È cosa manifesta che anco-ra si piange così per allegrezza come per dolore; ma, se-condo Aristotile, questa differenzia hanno le lacrime cheprocedono da letizia da quelle che vengono da dolore,che le lacrime liete sono fredde, le dolorose più calde; ene assegna questa ragione: l’allegrezza e il dolore, per es-sere diverse passioni, fanno molti diversi effetti, perchél’allegrezza dilata e fa più rari li spiriti vitali, il dolore gliristrigne; dove concorre maggiore numero di spiriti, dinecessità è maggiore copia di caldo, e così e contra; ondenasce la differenzia delle lacrime calde e fredde, che na-scono o da dolore o da letizia. Concludesi per questo lelacrime avere due cagioni, l’una la passione del cuore,l’altra la distillazione della umidità che fa il cervello, eper questo gli occhi più tosto essere via che cagione del-le lacrime.

X

Se tra li altri sospir’ che escon di fore del petto, come vuol mia dura sorte, Amor qualcun ne mischia, par che porte dolcezza alli altri e riconforti il core. 4

Quel viso, che col vago suo splendore

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ha già li spirti e le mie forze extorte più volte delle avare man’ di morte,ancora aiuta l’alma, che non more. 8

Fortuna invìda vede quei sospiri che manda Amor dal core, e li comporta, credendo che si arroga a’ miei martìri. 11

Così la inganno e fòlla manco accorta, se advien che Amore a lacrimar mi tiri; né sa quanta dolcezza il pianto porta. 14

Promettemmo nel proemio, quando venissimo allaexposizione del presente sonetto, narrare quanto fussigrande e maligna la persecuzione che io sopportai inquel tempo e dalla fortuna e dagli uomini; e nondimeno,sono in disposizione passarmene molto brievemente,per fuggire el nome di superbo e vanaglorioso, imperòche il narrare e proprii e gravi pericoli difficilmente si fasanza presunzione o vanagloria. E questo credo procedaché, quando uno legno di turbolentissima tempesta do-po molti pericoli e paure si riduce nella tranquillità delporto, el più delle volte el nocchiere e governatore d’es-so più tosto alla propria virtù lo atribuisce che ad alcunabenignità della fortuna; e acciò che la virtù sua paia tan-to maggiore, accresce tanto più il pericolo passato, espesse volte fuora della verità, acciò che della virtù suaancora si creda più che non è il vero. Questo medesimoessemplo seguitando, li medici della età nostra semprefanno il pericolo dello infermo assai maggiore ch’e’ nonè, mettendo spesse volte dubbio di morte in quelli nelliquali la salute quasi manifesta si vede: perché, soprave-nendo pure la morte, la colpa sia più tosto della naturache della cura; venendo la salute, la cura e opera si mo-stri tanto più efficace. E però, brevemente, diremo lapersecuzione essere suta gravissima, perché li persecuto-ri erano uomini potentissimi, di grande auttorità e inge-gno e in disposizione e proposito fermo della mia intera

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ruina e desolazione, come mostra avere tentato tutte levie possibili a nuocere a uno. Io, contro a chi venivanoqueste cose, ero giovane, privato e sanza alcuno consi-glio o aiuto se non quello che dì per dì la divina beni-gnità e clemenzia mi ministrava. Ero redutto a quelloche, essendo a uno medesimo tempo nell’anima con ex-comunicazione, nelle facultà con rapine, nello stato condiversi ingegni, nella famiglia e figliuoli con nuovo trat-tato e macchinazione, nella vita con frequenti insidiepersequitato, mi saria suto non piccola grazia la morte,molto minor male allo appetito mio che alcuno di quellialtri. Essendo adunque in questa obscurità di fortunaposto, tra tante tenebre qualche volta pure luceva loamoroso raggio, talora gli occhi, talora il pensiero delladonna mia; la quale dolcezza e refriggerio traeva la vitamia delle mani della morte, ancora che la fortuna nons’accorgesse di questo mio refriggerio, perché non di-scerneva bene gli amorosi sospiri da quelli che procede-vano da lei. E però dico che, quando Amore mescolavaalcuno de’ suoi sospiri tra quelli che mi dava la mia ad-versa fortuna e dura sorte, gli amorosi adolcivono e miti-gavono quelli altri e riconfortavono il cuore; e se adveni-va qualche volta che vedessi il viso della donna mia,come altre volte aveva extorto delle mani avare di morteli spiriti e forze mie, al presente ancora difendeva controalla morte l’anima mia. Et «extorta» non vuole dire altroche una cosa che è tolta a uno a suo dispetto; e la morteè veramente avara, perché maggiore avarizia non può es-sere che di colui il quale vuole il tutto per sé, come lamorte vuole ogni mortal cosa. Subiunge poi che, veg-gendo la fortuna, inimica e invidiosa d’ogni mio bene,quelli sospiri che Amore mandava dal cuore, non gli co-nosceva per amorosi, ma, credendo procedessino dallamia mala sorte e persecuzione predetta, gli comportava,non credendo mi portassino dolcezza, ma che si arroges-si tanto più al mio male e che la pena mia fussi tanto

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maggiore. E io, accorgendomi dello inganno della fortu-na, per ingannarla tanto meglio, qualche volta, comeAmore voleva, piangevo e mi lamentavo, e tanto mancopoteva intendere la fortuna la dolcezza e de’ sospiri e de’pianti miei. Con questa arte adunque, per virtù di quellibelli occhi e d’Amore, qualche volta sentivo qualche re-friggerio e dolcezza, la quale non arei sentita se·lla fortu-na se ne fussi accorta.

XI

Se il fortunato cor, quando è più presso a voi, madonna mia, talor sospira, non s’incolpi di ciò disdegno o irao päura o dolor, lo qual sia in esso; 4

ma la dolcezza che Amor li ha concesso ciascun spirto disvia e a sé il tira, tal che alcun refrigerio più non spiraal cor, che arde oblïato di sé stesso. 8

Amor vede, se presto non soccorre, per soverchia dolcezza il cor perire, e i vaghi spirti al suo soccorso chiama. 11

Ciascun per obedirlo pronto corre: così crëan talor qualche sospire,per refrigerio a quel che morir brama. 14

Io vorrei avere o tal forza di parole o tanta fede apres-so degli uomini, che potessi bene exprimere e fare cre-dere la excellenzia della donna mia, perché a·llei sareb-be onore e io fuggirei qualche pericolo d’essere stimatopoco veritiero; ma non potendo né exprimere né mo-strare gli occhi e le bellezze sue, perché, secondo il co-mune uso, forse quello che è virtù a incarico sarebbeatribuito, almanco mi sforzerò in qualche parte mostra-re la gentilezza dello ingegno suo, narrando alcuno delli

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suoi motti, e questi, al mio parere, molto più alti e sottiliche a donna non si conviene. E perché dinanzi abbiamodetto che le parole e quesiti suoi qualche volta hannodato argumento a’ nostri versi, el presente sonetto è unod’essi, come faremo intendere apresso.

Ero assai vicino agli occhi suoi, per modo che dapresso e quelli e l’altre bellezze potevo vedere; e guar-dando fiso in essi, tutto acceso già di speranza e pieno didolcezza, qualche volta con profondi sospiri sospiravo.Questa gentilissima, alla quale già era noto il desiderio estato del cuore mio, con dolcissime parole mi domandòcome io ero contento e come stavo; e rispondendo ioche più contento non potevo essere, né il cuore in mag-giore dolcezza, ella subiunse: – Donde procedono adun-que questi tuoi sospiri? – Io, e per timidità e perché e labellezza e le parole avevono quasi trattomi di me stesso,non potei per allora rispondere altro; ma, partitomi di-poi da lei, feci il presente sonetto, nel quale mi sforzaimettere le cagioni naturali onde procedono e sospiri. Efatto questo sonetto in risposta di quella gentilissimadonna: e però parla alla donna mia e dice che se ’l miocuore fortunato, cioè felice e contento (perché «fortuna-to» non vuole dire altro che quello el quale ha prosperafortuna), sospira in quel tempo quando è più presso alladonna mia, cioè agiunto alla sua beatitudine, non n’è ca-gione alcuna perturbazione o cosa che l’offenda, comesarebbe sdegno, ira, dolore o paura; ma, volendo inten-dere meglio il vero, ne è cagione la dolcezza che lui sen-te, la quale è sì grande, che tiene occupate tutte le forzee spiriti vitali e gli svia dal loro officio naturale alla frui-zione di quella dolcezza. Essendo adunque tutti li spiritiattenti a questo, bisogna cessino le operazioni naturaliche per mezzo loro si fanno. Tra l’altre operazioni natu-rali è ancora el respirare, o vogliamo dire alitare, el qua-le ancora s’intermette per quello abbiamo detto; di quinasce che al cuore manca el suo usato refriggerio, per-

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ché, essendo el cuore di natura caldo, e ancora per elconcorso delli spiriti molto più acceso, si suffocherebbee morrebbe se non si rinfrescassi per mezzo di quellaaria, la quale aria per quello alito continuamente si ri-nuova e rinfresca. Di questo nasce che Amore, veggen-do el cuore mio in tanto pericolo, chiama in soccorso esuoi spiriti vitali; e veramente Amore gli muove, perchéla natura, amatrice della conservazione della vita, subita-mente pigne in ogni passione del cuore li spiriti vitali: equali spiriti, per ubbidire a questo amore della natura,con prontitudine e velocità corrono in soccorso suo. Diquesto nasce che, se prima il cuore aveva bisogno di re-spirare e refriggerarsi, molto più ne ha bisogno soprave-nendo tanti spiriti, e quali di natura loro sono caldi; eperò necessariamente bisogna tirare dentro al petto piùquantità d’aria, per ristorare l’ordinario officio dello ali-to, quale era intermesso. E di qui nasce il sospiro, equinci si rinfresca il cuore; el quale, avendo già dimenti-cato sé stesso, per sé non si curava di morire, anzi bra-mava sì dolce e sì felice morte. Possiamo adunque direel sospiro procedere da ogni passione di mente e da ognifatica del corpo, pur che la passione della mente sia effi-cace in modo che diverta o intermetta le operazioni na-turali dell’ordinario alitare, che appresso a’ Latini pro-priamente refocilare si chiama, o vogliamo dire respirare;la fatica e agitazione del corpo, come in uno che corra ofacci qualche forte essercizio, ancora genera sospiri, per-ché il caldo naturale si excita e accende, né potrebbe ilcorpo in quella fatica perseverare, se el cuore non si re-frigerassi e spesso respirassi.

Vorrei avere potuto meglio exprimere questo mioconcetto, perché così si conveniva a tanto degno e genti-le quesito; e nondimeno ho eletto più tosto che al sonet-to manchi ornamento e la vera expressione di questosenso, che in me manchi una pronta voluntà di satisfarea quello che vuole Amore.

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XII

Poscia che il bene adventurato core, vinto dalla grandezza de’ martìri, mandando innanzi pria molti sospiri,fuggì dello angoscioso petto fore, 4

stassi in quei due belli occhi con Amore; e perché loro, ove che Amor li giri, fan gentile ogni cosa che.llà miri,degnato hanno ancor lui a tanto onore. 8

Il cor, dagli occhi a questo bene eletto, fatto è per lor virtù tanto gentile, che più cosa mortal non brama o prezza; 11

e benché abbin cacciato fòr del petto quelli occhi ogni pensier vulgare e vile,né torna a me, né brama altra bellezza. 14

Come nel precedente sonetto abbiamo narrato, già elcuore, assicurato da Amore, era da me fuggito, e di que-sto convenientemente séguita volere intendere e in cheluogo arrivassi e in che stato si trovassi. Le quale cose sinarrano nel presente sonetto, la sentenzia del quale èquesta: che dapoi che il cuore mio, bene adventurato (equesto si vede per la conclusione del sonetto, perché«adventurato» si può chiamare quello che è gentile eperfetto, come dimosterremo nella diffinizione infra-scritta della gentilezza; e però non dice bene adventura-to per essere suto vinto dalla grandezza de’ martirii, mapel bene che glien’è seguìto), dico adunque che, dapoiche questo cuore, vinto dai martirii, molto sospirò, final-mente si partì del petto mio. Li martirii suoi non eranoaltro che lo acceso desiderio della bellezza della donnamia. Così adunque fuggito, giunse agli occhi suoi e daloro graziosamente fu ricevuto: che si può interpetrareche il cuore mio si pasceva e della bellezza di quelli oc-chi e della speranza che aveva della futura pietà; la quale

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speranza gli dava Amore, che era ancora lui in quelli oc-chi, el quale non è mai sanza pietà. Questo dolcissimoricetto, per la virtù di quelli occhi, fece gentile el miocuore; perché, se gli è vero che quelli occhi, mossi daAmore, faccino gentile ogni cosa che e’ guardano, moltopiù dovevono fare il mio cuore degno di tanto onore,cioè della gentilezza, il quale cuore sempre in loro abita-va. E, per exprimere meglio il vero e verificare quanto èdetto, diremo in questo modo: farsi gentile le cose chesono vedute da quelli occhi, quando Amore gli muove;per li occhi suoi si presuppone una singulare bellezza,per Amore pietà; e dove concorrono queste due cose,nasce nel cuore di chi vede gran dolcezza e amore, elquale, secondo che abbiamo detto, non è mai sanza gen-tilezza. Né possono quelli occhi mossi da Amore, cioècon affezzione, guardare cosa che non sia o in potenziao in atto gentile, perché l’affezzione non si extende senon a quello che piace, né può piacere se non quella co-sa la quale abbi qualche conformità con noi, e però, pre-suposto la gentilezza di quelli occhi, si verifica che e’non possono con amore guardare cosa che non faccinogentile. El cuore mio adunque, eletto, cioè non per alcu-no merito suo ma per liberalità e grazia della donna miaassunto a questo grado di gentilezza, già si stimava tantoe in tale perfezzione gli pareva essere venuto, che nonestimava alcuna cosa vile o mortale. E perché non paiaquesto contradica a quello abbiamo detto, che sanzaqualche merito non possa alcuna cosa ricevere da quelliocchi il grado di questa gentilezza, avendo io detto che ilmio cuore sanza merito a questo fu eletto, dico, confer-mando la sentenzia sopra detta, che possiamo chiamareuno «gentile» o in atto o in potenzia, cioè veramentegentile e con tutte le parte che vengono da gentilezza, oatto a potere essere gentile: come diremo d’un fabro, elquale avendo il ferro sanza alcuna certa forma, si può di-re abbi in mano una spada, una zappa o quello instru-

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mento il quale è sua intenzione di comporre di quel fer-ro. Era il mio cuore prima questo ferro rozzo, ma atto aessere quello che volevano quelli occhi; e perché in loropotenzia era o lasciarlo così rozzo o farne una o un’altracosa, per elezzione del fabro fu fatto gentile cosa: e,quanto alla elezzione, sanza merito; quanto allo esseredisposto e atto a essere gentile, non sanza qualche meri-to; e così si absolve questa parte. Io, veggendo il miocuore tanto gentile, cominciai ad amarlo più e desidera-re che tornassi a me; e per muoverlo a questo, purgai lamente e il petto mio d’ogni cosa vile e vulgare per mezzopure di quelli occhi, la perfezzione de’ quali, portata inme dagli occhi miei, si restò nella inmaginazione. Né sa-rebbe restata quella gentilissima forma in mezzo di tuttii miei pensieri, se i miei pensieri fussino suti vili e vulga-ri; e però, come di natura fa il bene, KcosìL prima spogliòel petto mio d’ogni male. E, non obstante questa purga-zione, non voleva tornare il cuore mio a me, né desidera-va altra bellezza che quella di quelli occhi ove lui era; ecosì di necessità bisogna fussi, sendo quelli occhi bellis-simi e ‘1 cuore già fatto gentile, come meglio faremo in-tendere nella exposizione di quel sonetto che cominciaCandida, bella e dilicata mano.

Pare solamente al presente necessario, perché spessevolte nelli nostri versi si truova questo vocabulo di «gen-tilezza» e «gentile», diffinire una volta per sempre quel-lo che sia gentilezza secondo la mia oppinione. Né areipresunto di fare questo se Dante, clarissimo poeta, inquella canzona dove si diffinisce la gentilezza, non sifussi ristretto alla diffinizione della gentilezza dell’uomo,la quale lui chiama quasi «nobilità». Ma essendo questovocabulo, secondo il vulgare uso, quasi comune a tuttele cose, non mi pare inconveniente dire quello che ne in-tendo; maxime perché, nella significazione che si usa, èvocabulo nuovo e al tutto vulgare, del quale non può es-sere né per diffinizione né per lo uso degli antichi alcuna

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certa proprietà. Pare adunque a me che questo vocabulo«gentile» sia nato da quelli che «gentili» furono chiama-ti, cioè e Romani, e quali e dalli ebrei teologi e da’ cri-stiani furono chiamati «gente» ’e dipoi «gentili», comeper molti essempli si può provare. E perché e gentili,cioè e Romani, in queste cose che il mondo onora e pre-gia furono reputati excellentissimi, credo si cominciassiKaL chiamare «gentile» ogni cosa che avessi tra le altrequalche excellenzia, quasi opera fatta da’ gentili o chealla excellenzia loro convenissi. Lo uso dipoi ha allarga-to la significazione del vocabulo, tanto che la diffinizio-ne è molto difficile; perché si dirà, verbi gratia, uno«gentile» avorio o uno «gentile» ebano, che l’uno è tan-to più bello quanto è più candido, l’altro quanto è piùnero è più stimato: cose molto contrarie l’una all’altra, enondimeno expresse dal medesimo vocabulo. Diremoadunque «gentile» essere quella cosa la quale è bene attae disposta a fare perfettamente l’officio che a·llei si con-viene, accompagnata da grazia, la quale è dono di Dio.E, per essemplo, chiameremo «gentile» un cavallo corri-dore, el quale corra più velocemente che gli altri, e oltrea questo vi agiugneremo la bellezza, che agli occhi lofacci grato. Perché, oltre al correre forte, non sarebbegentile s’e’ non corressi levato e ben partito e con pocadimostrazione di fatica o d’affanno; né sarebbe gentilese e’ non fussi bello, né avessi piccola testa e asciutta,larghe le nare del naso, gli occhi di conveniente gran-dezza e vivi, piccoli orecchi, collo sottile e svelto, nonmolto petto ma raccolto, el piè di buon colore e forte,alti e larghi calcagni, giuntato corto; le gambe né grossené sottile, ma asciutte, le quali equalmente eschino dellespalle; abbi assai, a proporzione del resto, dalla puntadella spalla al guidalesco; schiena non molto lunga, dop-pio di lombi, poco corpo e non pendente, e lungo più disotto che nella schiena, le lacche buone, le falce di drietodiritte, piccola coda; mantello che sia grato agli occhi,

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con qualche buono segno: come sarebbe un cavallo, ver-bi gratia, tutto morello, col piè di drieto sinistro balzanoe un poco di stella in fronte. Chi volessi laudare conqueste parte uno corsiere da guerra, errerebbe, perchéha a fare officio molto diverso. E però la gentilezza èquasi una distinzione iudiciale di tutte le cose.

Volendo adunque vedere quello che era il mio cuoregià fatto gentile, è necessario intendere l’officio del miocuore, el quale, avendo per obbietto gli occhi e bellezzadella donna mia, a me pare avessi tre officii: l’uno cono-scere, l’altro amare, il terzo fruire e godere quella bellez-za. E se questa bellezza è grande, come abbiamo detto,grande perfezzione bisognava fussi quella del cuore aconoscerla, ad amarla e a fruirla. Non diremo più diquesta parte per al presente, perché nelli sonetti seguen-ti explicheremo molto meglio questa materia e moster-remo chiaramente perché il cuore già fatto gentile nonpuò bramare altra bellezza che quella della donna mia.

XIII

Candida, bella e dilicata mano, ove Amore e Natura poser quelle leggiadrie dolci, sì gentili e belle,che ogni altra opera lor par fatta invano, 4

tu träesti del petto il cor pian piano per la piaga che fêr le vaghe stelle, quando Amor sì piatose e dolce felle;tu drieto a·lloro entrasti a mano a mano; 8tu legasti il mio cor con mille nodi; tu ‘1 formasti di nuovo; e poi che fuegentil fatto per te, rompesti e lacci. 11S’egli è fatto gentil, non convien piùe cercar per rilegarlo nuovi modio pensar che altra cosa mai li piacci. 14

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Abbiamo detto quelle cose potersi chiamare «genti-le», le quale perfettamente e con grazia fanno quello ache sono ordinate; e per questo parrebbe, prima facie,che qualunque cosa fatta una volta gentile non avessi bi-sogno d’alcuna altra cosa alla perfezzione sua: che parecontro a quello che dice il presente sonetto. La conclu-sione del quale è che la mano gentilissima della donnamia, avendomi tratto il cuore del petto, lo abbi fattogentile avendolo formato di nuovo; el quale cuore giàera suto fatto gentile dagli occhi suoi, come mostra il so-netto già exposto che comincia Poscia che ’l bene adven-turato core. E però, prima che più particularmente ve-gnamo alla exposizione del sonetto, per concordarequesta apparente contradizione diremo così. Che se·llagentilezza è quello che abbiamo detto, tante cose posso-no essere gentili quanto sono e fini a che tendono le co-se; come si vede per experienzia in uno uomo, perché lochiameremo nella sua tenera e puerile età un «gentile»fanciullo, dipoi un «gentile» garzone, un «gentile» gio-vane, un «gentile» uomo, etc., secondo che l’età e la na-tura gli mostra diversi fini: perché diverse cose conven-gono a diverse età. E però, quando el mio cuore si fuggìnegli occhi della donna mia, dalli quali fu fatto gentile, sipuò intendere che allora il cuore aveva per obietto sola-mente gli occhi della donna mia e le altre aparenti bel-lezze, e solamente di quello si pasceva per mezzo dellavisione degli occhi miei; e a questo fu fatto gentile, cioèa intendere, contemplare e fruire solamente per mezzodegli occhi quella bellezza. Ma dipoi, essendo quellamano candidissima entrata nel petto e trattone il cuore,pare che questo fussi absunto a più degno officio, per-ché questo mostra la iurisdizione che aveva la donna miasopra ‘1 mio cuore et expressamente chiarisce che già leilo reputava suo; et essendo sua cosa per elezzione di lei,di necessità lo amava. E questo mostra più chiaramentelo averlo cominciato a fare gentile con li occhi, cioè fat-

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toli questo benifizio, perché quelle cose si amano piùche l’altre, le quale noi reputiamo nostre e, come nostre,abbiamo cominciato a benificarle. Altro era adunquel’officio del cuore prima che la donna mia facessi segnoalcuno d’amore verso di lui, altro è questo che dovevafare dopo tante benigne dimostrazione; e però, come anuovo officio e fine, di nuovo bisognò farlo gentile, per-ché non solamente aveva per obbietto la bellezza sua,ma ancora lo amore della donna mia: tanto più degnacosa, quanto più spirituale e manco corporea, e non dimanco o meno desiderabile bellezza al cuore mio che gliocchi suoi agli occhi miei. Era adunque necessario, co-me è detto, di nuovo farlo gentile e formarlo per questonuovo obbietto, e questo officio a nessuno pare che piùsi convenissi che alla mano della donna mia. La quale bi-sogna intendere fussi la mano sinistra, la quale, parten-do dal cuore, KapparivaL come più certo nunzio e testi-monio della intenzione del cuore della donna mia:perché si dice nel dito anulario, cioè quello che è allatoal dito che vulgarmente chiamiamo «mignolo», è unavena che viene inmediate dal cuore, quasi un messo del-la intenzione del cuore. Veggiamo adunque di necessitàel cuore di nuovo bisognava essere riformato e fattogentile a questo nuovo e più degno fine, e che la veraministra a questo effetto era la mano sinistra, per le so-pra dette ragioni.

Ora verremo a più particulare exposizione del sonet-to. Certamente, tra l’altre gentilissime bellezze delladonna mia, le mani sue non parevono cose umane; ebenché ambo fussino belle, pure el presente sonetto, co-me di sopra dicemmo, parla alla mano sinistra, la qualechiama candida, bella e dilicata non perché comprendatutte le bellezze di quella mano, ma, narrandone unaparte, vuole che chi legge comprenda ogni essatta per-fezzione che si convenga a una mano. E che questo siavero, lo mostra subiungendo poi che l’amore e la natura

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gli avevono in modo contribuito ogni loro gentilezza,leggiadria e dolcezza, e in effetto ogni generazione d’or-namento, che pareva ogni altra opera loro fatta invano,quanto a comparazione di queste bellezze.

Qui è da notare che tutte le cose che piacciono, perdue rispetti piacciono, cioè o per essere perfettamentebelle o per essere molto amate e desiderate, perché spes-so adviene che s’ama una cosa che non è reputata bella;e però, dove si unisce colla bellezza naturale lo amore,nessuna cosa può piacere tanto. Per questo si dice chel’amore e la natura avevono posto in quella mano ogniornamento: che si può interpetrare la perfezzione dellabellezza naturale e lo amore grande, che non lasciavamancare alcuna, ancora che piccola parte di bellezza aquella mano. Questa mano tanto bella, adunque, entrònel petto mio, el quale trovò aperto per la ferita che pri-ma avevono fatta gli occhi, drieto alli quali subitamenteentrò e ne trasse el mio cuore. Ebbono grazia gli occhimiei, prima, di conoscere la bellezza degli occhi suoi, epoi, come spesso adviene, o ballando o in altro simileonesto modo fui fatto ancora degno di toccare la sua si-nistra mano: perché sulla scala d’amore si monta di gra-do in grado. Ebbe tanta forza questa mano così da metocca, che mi tolse di me lo intero dominio e, comeabbiamo detto, trasse el cuore del mio petto; el quale,preso da questa mano, fu di principio legato molto stret-to, dipoi reformato di nuovo e fatto gentile da quellamano, perché il formare è proprio officio delle mani. Etessendo così reformato e fatto gentile, quella manosciolse tutti e lacci e misse il mio cuore in libertà, perchéessendo fatto gentile non poteva amare se non gentilecose, né avere altro che gentilissimo obbietto; e nessunopiù gentile ne poteva trovare che la donna mia, anzi lavera gentilezza. E però non bisognava dubitare che maipiù si partissi da lei, perché già stava sanza essere legato;né ancora si poteva dubitare che altra bellezza gli potes-

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si piacere, perché se quella cosa piace più la quale è opare più bella che l’altre, nessuna più bella se ne potevatrovare che la donna mia: della quale si può veramentedire, per essere gentile e bella, quello che dice Dante:«Di costei si può dire gentile in donna ciò che in lei sitruova, e bello è tanto quanto lei simiglia».

XIV

O mano mia, suavissima e decora!«Mia» perché Amor, quel giorno che ebbe a sdegno mia libertà, mi dette te per pegnodelle promesse che mi fece allora. 4

Dolcissima mia man, con quale indora Amor li strali onde cresce il suo regno, con questa tira l’arco, a cui è segnociaschedun cor gentil che s’innamora. 8

Candida e bella man, tu sani poi quelle dolci ferite, come il telofacea (come alcun dice) di Pelide. 11La vita e morte mia tenete voi,

eburnee dita, e il gran disio ch’io celo,qual mai occhio mortal vedrà, né vide. 14

Come nel precedente sonetto abbiamo detto, la natu-ra e lo amore danno ogni perfezzione e ornamento.Questo medesimo conferma il sonetto presente, el qua-le, parlando pure a quella mano gentilissima, la chiamasuavissima e decora: decora per li ornamenti e bellezzenaturali, suavissima per lo amore e desiderio d’essa, per-ché se non fussi questo amore e desiderio non potrebbeessere suave, ancora che bellissima. Oltre a queste dueproprietà, è da notare che io la chiamo mia; e perchéquesto pareva arroganzia, perché di sì bella e gentile co-sa non ero degno, replico questo vocabulo «mia» inme-

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diate nel secondo verso, e giustifico se così la chiamomostrando esserne cagione Amore, el quale me la detteper pegno della promessa pietà della donna mia. E co-mune e antiqua consuetudine tra gli uomini in ogni pat-to e transazzione, per più efficace segno del cuore e vo-luntà nostra, toccare con la mano destra propria ladestra di colui con chi si fa il patto, e comunementes’usa quando si perviene a pace dopo qualche guerra eingiuria seguìta; similmente, quando in tali o in altri casisi piglia giuramento alcuno, la destra mano è lo instru-mento e ministra. Credo questa tale consuetudine sia su-ta introdotta dalla cagione che diremo apresso. Qualun-que pace o simile patto e fede data che fussi interrotta onon observata, bisogna che sia così rotta da qualchenuova ingiuria, della quale il più delle volte suole essereprincipio e ministra la mano destra, che è quella chepercuote e nella maggiore parte degli uomini è più expe-dita e pronta alla offesa; e però, usandosi la destra nelleconvenzioni sopra dette come testimonio e conferma-zione di quello che è fatto, pare che si oblighi quella co-sa la quale prima e più facilmente può violare il patto.Dettemi adunque Amore questo pegno delle promessesue quel giorno che ebbe a sdegno la mia libertà, cioèquello dì che mi legò. E qui è da notare che questo parecontro alla verità, perché quel giorno che quelli occhi milegorono, ancora non avevo tocca questa gentilissimamano. Ma bisogna intendere in uno de’ dua modi, cioè oche quel dì che Amore mi legò, in sé medesimo fecequesto proposito di darme in pegno questa mano, ancorche per qualche tempo differissi lo effetto; o vero, ch’iofui interamente legato e al tutto fuori di libertà cometoccai quella mano, perché, come dicemmo nel prece-dente sonetto, quella legò il mio cuore con mille nodi. Equesto mostra che il cuore allora stava per forza di lega-me, e, se avessi forse potuto, volentieri si saria sciolto: eperò riteneva ancora qualche parte di libertà; ma poi

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che fu riformato di nuovo, e levato e lacci, stando di suavoluntà sempre con la donna mia, allora si poteva inte-ramente chiamare fuori d’ogni sua pristina libertà. Equel dì Amore ebbe a sdegno la libertà sua, cioè la li-bertà che prima aveva el cuore inanzi che conoscessiquesta nuova libertà dove lo misse Amore; perché «li-bertà» si può chiamare quando alcuno può disporre asuo arbitrio, come poteva il cuore mio, sendo sciolto elibero da ogni legame; e di questa parte diremo più am-pliamente nella exposizione del sonetto che cominciaChi ha la vista sua etc. Subiunge dipoi che questa manoveramente dolcissima indora li strali di Amore, questatira l’arco di Amore e ferisce tutti e cuori gentili ches’inamorono, che sono segno e berzaglio alli strali amo-rosi: come certifica il nostro Petrarca, quando dice:«Amore, che i cuor gentili suave invesca, né degna diprovare sua forza altrove». Qui è da notare che tuttiquesti sono officii che si fanno per mezzo delle mani. E,oltre a questo, dicendo che questa mano indora le saetteamorose, bisogna intendere che questa mano prepara adAmore li strali li quali inamorano, che si dicono essereaurei, e non quelli di piombo, e quali sogliono cacciareAmore e fare nascere odio. E come tutti questi sono of-ficii della mano, similmente è officio suo medicare le fe-rite, perché la cerusica, la cura della quale si extende asimili medicine, non vuole dire altro che opera di mani.Ferisce adunque e sana, cioè accende il desiderio, dipoil’adempie, come si dice faceva il telo, cioè la lanciad’Achille figliuolo di Pelleo, la quale avendo due punte,dicono e poeti che con l’una feriva, con l’altra sanava leferite. Di questo nasce convenientemente che, potendoquesta mano e ferire e sanare, può ancora uccidere e vi-vificare; adunque convenientemente è detto che quelledita eburnee, cioè quelle dita di colore d’avorio, tengo-no la vita e morte mia. E ancora questo è proprio officiodelle dita, perché quello che strigne la mano, lo fa per

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mezzo delle dita. Tiene ancora questa mano el mio grandisio, e questo molto veramente, per quello che nel pre-cedente sonetto è detto; perché, tenendo il cuore mio,nel quale è la virtù concupiscibile, cioè il desiderio, tieneel mio disio, el quale io nascondo dagli occhi degli uo-mini, a’ quali al tutto è invisibile. Perché, se gli è veroquello che abbiamo detto, che questa mia donna siagentilissima e il cuore mio da lei sia fatto gentile, perchéaltrimenti non poteva conoscere o amare tanta bellezza,gli occhi degli altri uomini non possono vedere el miogentilissimo disio, KperchéL, non sendo fatti gentili da lei,non sono sufficienti.

Ora, per non lasciare in confusione chi ha letto nelprecedente comento nostro qualche cosa che pare primafacie contraria, a maggiore declarazione diremo comeapresso. Abbiamo detto questa mano tanto da me lodatae amata essere suta la sinistra, e tutti gli essempli che ab-biamo dato (e della fede che per suo mezzo ebbi daAmore, e dello indorare li strali, tirare l’arco e medicareetc.) si referiscono più presto alla mano destra. Per leva-re adunque questa confusione bisogna intendere che na-turalmente la mano sinistra è più degna e più forte chela destra, perché è più propinqua al cuore, el quale è da-tore della virtù e della potenzia. E vero che lo uso uma-no, come molte altre cose, ancora questa naturale poten-zia ha depravato, e però se la destra ha più degnità oforza è più tosto per consuetudine che per natura; nédebbe lo uso obstare che non sia più degno quello cheper natura è più degno. E però li buoni intelletti, come èquello della donna mia, non obstante la perversa con-suetudine, volle in questa come nell’altre cose essere ex-cellente tra gli altri; e avendo a fare fede al cuore miodella pietà e disposizione del cuore suo, lo fece per quelmezzo a cui era più naturale e che meritava più fede, co-me più vicino al cuore. Oltre a questo, lo indorare lesaette, tirare l’arco d’Amore e medicare le piaghe amo-

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rose è officio della mano sinistra, perché, se bene le bel-lezze legano molto, el cuore della cosa amata strignemolto più, e così molto meglio medica; e tutte questeopere manuali, che hanno a essere a significazione delcuore, molto meglio convengono alla mano sinistra perla propinquità già detta. E però è più tosto errore quelloche comunemente usano gli uomini, che la elezzione inquesta parte della donna mia.

XV

Quanta invidia ti porto, o cuor bëato, che quella man vezzosa or mulce or stringe, tal che ogni vil durezza da te spinge!E poi che sì gentil sei diventato, 4

talora il nome, a cui te ha consecratoAmore, il bianco dito in te dipinge, or l’angelico viso informa e finge,or lieto, or dolcemente perturbato; 8

or li amorosi e vaghi suoi pensieri ad uno ad un la bella man descrive,or le dolce parole accorte e sante. 11

O mio bel core, oramai più che speri? Sol che abbin forza quelle luci divedi transformarti in rigido adamante. 14

Abbiamo di sopra concluso e più volte diffinito «gen-tile» potersi chiamare quella cosa che, secondo la umanaperfezzione, fa perfettamente e con grazia l’officio a cheè ordinata; et essendo giunto a questa perfezzione elcuore mio per mezzo di quella mano bellissima, el pre-sente sonetto fa menzione del modo come fu fatto genti-le, e ancora di alcuni affetti di beatitudine e dolcezza cheper questo sente il cuore: perché questa tale menzione ememoria non altrimenti è grata al cuore, che a’ navicanti

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il raccontare qualche loro pericolosa fortuna, poi chehanno conseguita la sicurtà del porto. Parla adunque ilpresente sonetto al cuore mio, mostrando portarli invi-dia: non perché gli dispiaccia il bene suo, ma più prestoper desiderio di potere conseguire il medesimo bene. Echiamandolo cuore beato, mostra assai manifesto la ca-gione della invidia, la quale se è, come abbiamo detto inquesto luogo, desiderio del medesimo bene, la invidianecessariamente è maggiore e più manifesta quanto èmaggiore il bene che si vede in altri; e nessuno è maggio-re bene che lo essere beato, e quella cosa è veramentebeata che è gentile; e però, dicendo cuore beato, già sipresuppone la gentilezza. Narra dipoi il modo che tennequella mano a riducere il mio cuore dalla durezza e viltàsua naturale alla perfezzione della gentilezza, cioè mul-cendolo e stringendolo: che si può interpetrare che quel-la mano usasse qualche volta seco cose piacevoli e dolce,qualche volta aspre e forte. Perché, avendo a combatterecon due inimiche, cioè durezza e viltà, bisogna opporredue virtù contrarie, cioè forza contro alla durezza e dol-cezza contro alla viltà. Perché, chi pensa bene che coseobstano a qualunque vuole andare alla perfezzione, tro-verrà essere solamente due. Prima una naturale inezzia econtraria disposizione alla beatitudine che si cerca; equesto nasce e per difetto di complessione e di organidel corpo e per le naturali concupiscienzie e inclinazionea molti errori, conciosiacosa che la via della perfezzionesempre fu laboriosa, e difficile. E però queste cose con-trarie sono spesso di tale impedimento, che non lascio-no, non che altro, qualche volta conoscere la beatitudi-ne; e questa si può chiamare «durezza». L’altroobstaculo è che, ancora che qualche volta questa beatitu-dine in confuso si conosca, e conoscendosi si desideri, gliuomini hanno una naturale viltà e diffidenzia, per la qua-le spesso si disperono di conseguirla; né tentando la viaper andarvi, possono già mai adiungervi. Bisogna adun-

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que, contro a quella prima durezza la forza, contro allaviltà la mollificazione e dolcezza, usando or l’una e orl’altra secondo che si truovono potenti gli inimici, per-ché l’una rompe la durezza, l’altra contro alla viltà dàsperanza. Questi due affetti mostra il presente sonettodicendo or mulce or stringe, e con queste due cose traedel cuore ogni durezza e viltà, le quali remosse si fa gen-tile, cioè diventa subietto atto a ricevere ogni degna for-ma e gentile impressione. Séguita di questo che, subitoche il cuore è diventato materia gentile, tanto può staresanza la forma gentile quanto può la materia sanza KlaLforma; e perché lo amore congiugne la materia e la for-ma, cioè un naturale desiderio che ha l’uno dell’altro, co-sì Amore, che mosse quella mano a fare gentile il miocuore, fa ancora che di nuovo si muove a darli tanta gen-tile impressione. E, trovando il mio cuore sanza durezza,cioè mollificato e atto a ricevere ogni impressione, co-mincia col dito a scrivere in lui il nome della donna mia:quel nome, dico, al quale Amore consecrò il mio cuore,perché «consecrare» s’intende un tempio a uno iddio ouna chiesa a uno santo, dandoli il titolo di quel nomeperché perpetuamente si conosca quel tal tempio o chie-sa. Adunque il cuore mio fu veramente consecrato, per-ché Amore ne fece un tempio e abitaculo per sempre,dove si celebrassi e stessi quel nome della donna mia.Dipinge ancora quel candido dito l’apparenzia del visodella donna mia e quelle perturbazioni e passioni che agentile donna si convengono, come è qualche modestaletizia e qualche dolce perturbazione. E perché pare co-sa impossibile quello che apresso si scrive, cioè che sipossa descrivere o depingere e pensieri, che non sonosottoposti agli occhi, bisogna intendere che le passioniche convengono alla donna mia sono tre, cioè le due cheabbiamo dette della modesta letizia e dolce perturbazio-ne e quella che si gli aggiunge al presente è l’amore, elquale include di necessità una dolce speranza; e si exclu-

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de, delle quattro perturbazione, il timor solamente, per-ché questo non si conviene a sì gentile donna, ancora chesia comune a tutti gli uomini. Volendo adunque faremenzione di questa gentilissima passione dello amore, etessendo il vero nutrimento dello amore e pensieri, abbia-mo detto nel mio cuore essere dipinti e suoi pensieriamorosi; e volendo referire questa pittura agli occhi,bisogna intendere che ’l medesimo viso della donnamia, che prima era dipinto or lieto or dolcemente per-turbato, fussi dipinto ancora qualche volta amoroso.Perché, come conosciamo la letizia e ’l dolore e ridendoe piangendo e per altri segni, così e pensieri amorosiper molti segni si conoscono, anzi dagli occhi inamoratidifficilmente si nascondono; e tra gli altri segni, comeadviene ancora delle altre perturbazioni, per le parolemolto meglio si conoscono, le quali sogliono essere elpiù delle volte expressioni di pensieri. E però subiungeche la medesima mano descrive ancora le parole delladonna mia, come nunzii veri de’ pensieri e testimoni ex-teriori di quello che il cuore fa dentro. Debbesi adunquepresupporre che degnissima pittura fussi quella dellaquale era ornato il cuore mio. Perché tre cose, secondo ilgiudizio mio, si convengono a una perfetta opera di pit-tura, cioè il subietto buono, o muro o legno o panno oaltro che sia, sopra ’l quale si distenda la pittura; el mae-stro perfetto e di disegno e di colore; e oltre a questo,che le cose dipinte sieno di loro natura grate e piacevoleagli occhi. Perché, ancora che la pittura fussi perfetta,potrebbe essere di qualità quello che è dipinto, che nonsarebbe secondo la natura di chi debbe vedere, conciosiache alcuni si dilettano di cose allegre, come è animali,verzure, balli e feste, KeL simili; altri vorrebbono vederebattaglie o terrestre o marittime, e simili cose marziale efere; altri paesi, casamenti e scorci e proporzioni di pro-spettiva; altri qualche altra cosa diversa; e però, volendoche una pittura interamente piaccia, bisogna adiungervi

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questa parte, che la cosa dipinta ancora per sé diletti.Era il mio cuore materia e subietto molto atto a ricevereogni impressione; mai non fu mano tanto gentile e dottaa tale pittura quanto quella della donna mia, né più gratecose potevono essere expresse nel mio cuore che i dol-cissimi accidenti e il viso e il nome della donna mia: eperò, quanto al iudicio del mio cuore, era tanto perfettaquesta pittura, che desiderava si perpetuassi e che etter-nalmente così in esso si conservassi. E questo è molto na-turale desiderio e séguita da’ principii già detti, concio-siacosa che si va per la via della perfezzione, molto durae laboriosa per venire alla beatitudine, e chi ha grazia dicondurvisi non gli resta altro desiderio che stabilirsi efermarsi in essa, come ancora desidera il mio cuore. E,credendo che questo fussi el modo a potersi perpetuarein tanto bene, desiderava che gli occhi della donna miaavessino quella forza e virtù che si legge ebbe già il visodi Medusa, e che, come l’aspetto suo convertì gli uominiin sassi, così gli occhi della donna mia, così dipinto ilmio cuore e così bello, convertissino in un duro adaman-te. Bisogna adunque intendere, per la pittura di tantebelle e dolcissime cose nel mio cuore, i pensieri ch’eranoin lui e la inmaginazione di quelle tali cose; li quali pen-sieri essendo pieni di somma dolcezza, el cuore desidera-va si conservassino in lui e durassino a guisa della durez-za d’uno adamante, e che nuovi e molesti pensieri nonsuccedessino e cacciassino quelli che erano dolci: comespesse volte adviene negli amanti, e quali comunementebrieve tempo si preservano nel medesimo stato.

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Belle, fresche e purpurëe vïole, che quella candidissima man colse, qual piaggia o qual puro aer produr volse

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tanti più vaghi fior’ che far non suole? 4Qual rugiada, qual terra o ver qual sole

tante vaghe bellezze in voi raccolse? Onde il süave odor natura tolse,o il ciel, che a tanto ben degnar ne vuole? 8

Care mie vïolette, quella manoche vi elesse intra l’altre, ove eri, in sorte vi ha di tante excellenzie e pregio ornate! 11

Quella che il cor mi tolse, e di villano lo fe’ gentile, a cui siate consorte:quella adunque, e non altri, ringraziate! 14

Fu non solamente la donna mia sopra tutte l’altre bel-lissima e dotata di degnissimi modi e ornati costumi, maancora piena d’amore e di grazia; e puossi veramente dilei affermare che era tanto excellente in tutte le parteche debba avere una donna, che qualunque altra donnache fussi suta così perfettamente dotata di una parte so-la di tante che n’aveva la donna mia, sarebbe suta tra lealtre excellentissima. E che fussi, come abbiamo detto,tutta piena d’amore e di grazia, oltre a molti altri eviden-tissimi segni mi accade nel presente sonetto fare menzio-ne d’uno singularissimo e a me gratissimo. E questo fuche essendo io stato per qualche tempo, per alcuno acci-dente, sanza potere vederla, questo era diventato cosainsopportabile, né potevo, sanza pericolo della vita mia,stare per qualche altro tempo, ancora che brieve, cosìsanza vederla. Di che essa accorgendosi, non per visibilisegni, ché questo era impossibile, ma per esserli noto loamore grande che io li portavo, e provando forse in sémedesima quanto fussi difficile e insopportabile la pri-vazione degli occhi suoi agli occhi miei, né potendo aquesto per allora rimediare, soccorse alla mia afflizzionein quel modo che per allora si poteva. Dilettavasi di na-tura, come di molte altre cose gentili, ancora di tenere incasa in alcuni vasi bellissimi certe piante di viuole, alle

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quali lei medesima soccorreva e d’acqua per li excessivicaldi e d’ogni altra cosa necessaria al nutrimento loro.Elesse adunque tre viuole tra molte altre che ne aveva,quelle alle quali o la natura volse meglio, per averle pro-dutte più belle che l’altre, o la fortuna, che prima all’al-tre le fece venire a quella candidissima mano; le qualiviuole così còlte mi mandò a donare: che veramente, dalei in fuora, nessuna cosa poteva meglio mitigare tantomio dolore.

Parla adunque el presente sonetto alle sopra dette treviuole, le quali, et essendo per loro medesime di maravi-gliosa bellezza et essendo dono della donna mia e còlteda quella mano candidissima, ragionevole cosa era chemi paressino molto più belle che non suole produrre lanatura; e per questo convenientemente si domanda pelpresente sonetto, come si suole fare di tutte le cose ma-ravigliose, della cagione di tanta excellenzia. E perché ilpresente sonetto per sé pare assai chiaro, brievementediremo che nel domandare della cagione per che eronosì belle, si tocca tutti e mezzi per li quali la natura pro-duce le piante, li arbusti, l’erbe e i fiori. E perché tuttequeste cagioni insieme non parevono ancora sufficientialla nuova bellezza, al colore, alla forma e allo odore diquelle bene adventurate viuole, bisognava che qualchenuova cagione et extraordinaria potenzia le avesse pro-dutte; e impossibile era intendere qual cagione fusse, senon da chi avesse in altre cose veduta experienzia d’unasimile virtù e potenzia. Avendo io adunque in me prova-to la virtù e forza di quella candidissima mano, che, se-condo il precedente sonetto, di vile e durissimo avevafatto il mio cuore gentile, potevo credere e affermarequella medesima mano potere avere fatto quelle viuoledi tanta excessiva bellezza, perché maggiore cosa era fa-re gentile una cosa rozza e villana, che bellissima una co-sa bella, come di natura sono le viuole. Per questo siconclude quella mano avere fatto quelle viuole di tanto

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pregio et excellenzia, che aveva fatto il cuore mio di vil-lano gentile, e per questo meritamente queste viuole es-sere consorte del mio cuore, perché «consorti» si chia-mono quelli che sono sottoposti alla medesima sorte. Eperò di tanta loro bellezza quelle viuole non dovevonoringraziare né il sole, né la terra, né l’aria, né la rugiada,né il luogo aprico, né qualunque altra naturale potenziache concorressi a simile produzzione, ma solo la virtù epotenzia di quella candidissima mano.

Non è forse inconveniente vedere se la bellezza diqueste viuole o era in oppinione mia o era possibile infatto. E benché io non possa iudicare se fussi vera in fat-to, perché non posso referire se non quello che pareva ame, secondo che i sensi raportavono al giudicio, e qualise erano depravati e corrutti, o se pure mi portavono ilvero, a me è difficile a intendere, perché bisogna el giu-dicio giudichi quello che portono e sensi e in quel modoche lo portono, nondimeno confesso essere possibileche la forte inmaginazione sia cagione di corrompere isensi: come spesso adviene in uno farnetico, che li parevedere quello che non è; imperò che gran potenzia hane’ sensi la inmaginazione, come faremo intendere nellaexposizione di quello sonetto che comincia Della miadonarla, omè, gli ultimi sguardi. E nondimeno questonon toglie che non possa essere vera quella bellezza, overo che la cagione d’essa sia la virtù di quella mano.Perché si vede o per la grazia di Dio o per influsso cele-ste o per virtù naturale, a diversi uomini essere dato di-verse potenzie e grazie. Vedesi spesso un medico dottis-simo uccidere gran numero di uomini, uno piùignorante sanare quasi tutti quelli che e’ cura; alcuni uo-mini avere qualche propria virtù, con la presenzia sanarecerti mali e con uno semplice tatto di mano; ad alcunoessere giovato più, contro a chi lo assale, la presenziache la spada. Truovasi in alcuni autori di astrologia chechi ha una certa constellazione ha virtù, solo colla pre-

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senzia, di guarire indemoniati. E non è molto maggioreforza quella delle parole, che sieno udite dagli animalibruti, dalle piante e dall’erbe, come si dice de’ serpenti ed’altri animali, e che possino fare seccare le piante e l’er-be, e che solo la fascinazione facessi tanti diversi e gran-di effetti, quanti si legge e in Catone e in Plinio e in altriautori antiquissimi e degni di fede e reverenzia? E chepiù vogliamo cercare di essempli? Non veggiamo noiche maggiore forza hanno spesso gli occhi umani, checon uno semplice sguardo uccidono quasi e vivificano,fanno fuggire e tornare el sangue, tolgono e rendono leforze, e, quello che è più, conrompono el giudizio dellamente umana? Pare per questo assai possibile che possauna mano avere tanta virtù, che dia, non dico alcunanuova qualità, ma alle medesime qualitate più bellezzaet excellenzia che non suole dare la natura; e maxime lapiù bella mano che forse mai facessi natura. E se io fussidi questo suspetto giudice, rispondo che prima fu giudi-cata da me la bellezza di quella mano, che amata excessi-vamente, perché di necessità la cognizione precede lavoluntà. Se adunque prima mi parve bella che io l’amas-si, è necessario che io vachi da colpa di passione e chequella mano veramente fussi bellissima. E, se così è, pa-re più tosto impossibile che con tanta bellezza non fussiconiunta una maravigliosa virtù e potenzia, che difficilea credere di lei quello che ne scrivo.

XVII

Chiare acque, io sento il vostro mormorio, che sol della mia donna il nome dice: credo, poiché Amor fevi sì felice,che fussi specchio al suo bel viso e pio 4

La bella imagin sua da voi partio perché vostra natura vel disdice;

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solo il bel nome a voi ricordar lice,né vuole Amor che lo senta altri ch’io. 8

Quanto più furo o fortunati o saggi che voi, chiare acque, gli occhi miei, quel giornoche furno prima specchio al suo bel volto, 11

servando sempre in loro i santi raggi!Né veggon altro poi mirando intorno,né gliel cela ombra, né dal sol gli è tolto. 14

Ancora che nel precedente comento abbiamo dettovolere riservare alla exposizione del sonetto che comin-cia Della mia donna etc. che gran potenzia ha ne’ sensi lainmaginazione, nondimeno pare che accaggia al presen-te dire qualche cosa più tosto dello effetto che della ca-gione. Interviene adunque molte volte che quando altrisente qualche continua e non articulata voce, la inmagi-nazione nostra si accomoda quella tale voce a quello cheallora più inmagina, e, inmaginando, gli pare articulataquella tale voce, dandogli quel senso e faccendoli direquello che più desidera; e comunemente, sonando cam-pane, cadendo una acqua continua, pare che questo talesuono dica quella cosa che vuole colui che la inmagina.Vedesi ancora, per essemplo di questo, qualche voltanelle nube aeree diverse e strane forme d’animali e d’uo-mini; e, considerando certa ragione di pietre che sienomolte piene di vene, vi si forma ancora dentro el più del-le volte quello che piace alla fantasia. Questo medesimointerveniva a me, che ritrovandomi in un luogo amenis-simo dove era uno chiaro e abundante fonte, nel qualeperpetuaKlLmente l’acqua, cadendo da alto, faceva unodolcissimo mormorio, a me pareva che quel mormoriocontinuamente dicesse el nome della donna mia, perchéquesta era quella cosa la quale più inmaginavo e quelnome che più desideravo sentire. Aiutava questo dolcis-simo inganno lo essere già suta la donna mia in questoluogo amenissimo e avere guardato nel fonte, che di ne-

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cessità era diventato suo specchio, perché per qualchetempo aveva pure ritenuto in sé quella chiarissima acquala effigie bellissima della donna mia. E però non parevaimpossibile alla credulità delli amanti che quella acqua,inamorata di sì bel viso, da quel tempo in qua col suoamoroso mormorio perpetualmente replicassi quellodolcissimo nome. Pareva per questo conveniente, sequelle acque erano di sì bel viso inamorate, che dovessi-no sempre ritenerlo in loro, né lasciarlo mai partire, co-me a me pareva che perpetualmente dicessino il nomedella donna mia. E si può bene credere che la medesimainmaginazione che mi faceva sempre udire quel nome,guidata da una amorosa simplicità, mi conducessi anco-ra a guardare nell’acqua, per vedere se v’era dentro an-cora il viso della donna mia; e non ve lo vedendo, mi ac-corsi dello errore, e considerai subito che l’acqua nonpuò ricevere alcuna tale forma se non ha un simile obiet-to assistente, perché la natura dell’acqua è così fatta peressere corpo diafano. Ma gli è bene lecito col mormoriosuo, secondo che pareva a me, ricordare el suo nome; eperché questo nasceva solamente dalla inmaginazione edesiderio mio, altri che io non lo sentiva, né permettevaAmore che sì dolce armonia pervenissi ad altri che a’miei inamorati orecchi. Cominciai dipoi a fare compara-zione dalla felicità di quelle acque alla propria; e paren-domi essere più felice di loro, se avevo prima concettoalcuna invidia a quelle acque, la converti’ in alquanto diarroganzia, mostrando che o gli occhi miei avevono avu-to migliore fortuna, o erono suti più prudenti e saggi,perché dalla prima ora in qua che ’l bel viso della donnamia si presentò agli occhi, sempre serborono in loroquella dolcissima inmagine, né poterono da poi in quamai vedere altra cosa, né per obscurità di tenebre od’ombra, né per lume di sole: che si può interpetrarel’ombra per la notte e il sole per il giorno, che è tanto adire come se dicessi né dì né notte toglie quelli occhi da-

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gli occhi miei. O, interpetrando più largamente, possia-mo dire che due cose conrompono la vista umana e leva-no la potenzia agli occhi, cioè una grande obscurità (e laobscurità non è altro che ombra che nasce dalla interpo-sizione della materia tra ’l sole e noi) o uno superchio lu-me, come adviene a chi guarda il sole. Adunque, quellamedesima inmaginazione che mi faceva sentire il nomedella donna mia per il cascare dell’acqua, mi faceva an-cora vedere in ogni tempo e luogo quello dolcissimo vi-so. Tutto questo concetto così expresso si include nelpresente sonetto, el quale parla sempre all’acque delfonte sopra detto.

Resta a chiarire meglio quella parte che dice che gliocchi miei furono specchio al volto della donna mia, laquale abbiamo riservata all’ultimo per non interromperela sentenzia del sonetto. E, non parendo da pretermet-terla, diciamo che, volendo verificare che gli occhi mieifussino specchio al suo viso, bisogna intendere natural-mente come gli occhi veggono e come la potenzia visivasi reduce in atto. Secondo e Peripatetici, la cosa che èveduta si rapresenta drento agli occhi multiplicandosi laspezie e forma di essa cosa, tanto che perviene a quellaparte dell’occhio che si chiama «cristallina», perché ètransparente e diafana come il cristallo, la quale ricevequella tale forma della cosa che si vede, come fa lo spec-chio di qualunque cosa che gli è opposita; questa taleforma così veduta, dalla cristallina si transferisce al sen-so comune, che giudica per questo la qualità di quellatale cosa. Secondo gli Accademici, negli occhi nostri so-no certi spiriti sottilissimi, e quali si partono dagli occhie vanno a quella cosa che si vede, e riportonla per rifles-sione agli occhi, quasi informati dalla forma di quella ta-le cosa, la quale rapresentono pure alla cristallina giàdetta, come a uno specchio, e di quivi poi al senso co-mune. E però, secondo qualunque di queste due oppi-nioni, molto propriamente abbiamo detto che gli occhi

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miei fussino specchio al viso della donna mia, perchénegli occhi si forma la inmagine di qualunque cosa si ve-de, come nello specchio qualunque opposita forma.

XVIII

Io ti lasciai pur qui quel lieto giorno con Amore e madonna, anima mia:lei con Amor parlando se ne giasì dolcemente, allor che ti svïorno! 4

Lasso!, or piangendo e sospirando torno al loco ove da me fuggisti pria: né te né la tua bella compagniariveder posso, ovunque io miri intorno. 8

Ben guardo ove la terra è più fiorita, l’äer fatto più chiar da quella vista che or fa del mondo un’altra parte lieta, 11

e fra me dico: «Quinci sei fuggita con Amore e madonna, anima trista:ma il bel cammino a me mio destin vieta!». 14

Quando li successi d’alcuna cosa sono prosperi e ildesiderio grande, se il fruire quella tale cosa per qualchecagione è impedito, si ricorre il più delle volte a quelliremedii e quali, o per similitudine o per propinquità,meglio e più proprio la rapresentono al pensiero; e per-ché il principio in tutte le opere è la potissima parte, lamente nostra volentieri torna col pensiero e, potendo,co’ sensi a quelle cose che concorsono al principio, co-me è tempo, luogo, parole, modi e che altro vi fussiintervenuto. Credo sia già detto a·ssufficienzia quantofussi grande il desiderio di fruire la sua dolcissima pre-senzia; della quale sendo privato in quel tempo checomposi il presente sonetto, mi era necessario avere ri-corso al sopra detto remedio di cercare qualche cosa e

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più simile e più propinqua che potevo al vero che desi-derava il cuore mio. E però cominciai prima a rimem-brare nel pensiero quello felicissimo principio onde so-no proceduti tanti dolci successi. Da questo pensiero minacque uno desiderio ardentissimo d’andare in quelloluogo nel quale prima l’anima mia, e con la donna mia econ Amore, assai lontano da me si partì: perché passòpoco tempo, dapoi che gli occhi suoi m’ebbono legato,che la vidi e molto bella e molto amorosa e dolce in unoluogo amenissimo assai vicino alla terra nostra; dopo elquale tempo, come volle la fortuna mia, lei si partì, e iostetti per qualche spazio che mi era interdetta la sua dol-cissima visione: nel quale feci il presente sonetto.

Trovandomi adunque in questo luogo nel quale avevolasciato l’anima mia, cercavo se ve la potevo ritrovare;ma non vi vedendo né la donna mia né Amore, pensaisubito che ’l mio cercare era invano e che l’anima, insie-me con Amore e madonna, fussi fuggita in altra parte,come era segno manifesto non vi vedendo né l’anima néla compagnia sua, cioè Amore e madonna, li quali tuttiinsieme avevo lasciati in quello bello luogo. La qualeanima fu sviata da Amore e dalle parole che con Amoreparlava la donna mia: perché parlare con Amore nonvuole dire altro che parlare cose che piacessino all’ani-ma, e, piaccendoli, più la legassino; e certamente fu veroche molte e dolcissime parole piene d’amore e di pietàquel giorno mi fece udire. Tornai adunque non sola-mente in questo luogo, ma ancora mi riducevo in esso amemoria e le parole e i modi suoi, perché maggioreconforto nella absenzia sua non potevo ricevere. Questopensiero e il luogo, che continuamente mi rapresentavaquello lieto giorno, facevono nascere in me maggiore de-siderio di vedere gli occhi suoi e investigare la via per laquale si fusse partita; et essendomi incognita, nessunomigliore argumento mi occorreva a trovarla che guarda-re la terra e l’aere. Perché, dove avevono tocco li piedi

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suoi era fiorita la terra, tanta virtù e grazia da quelli pie-di aveva ricevuta; quella aria, per la quale il viso e gli oc-chi suoi erono penetrati e l’andare suo aveva divisa epartita, essendo assai più chiara e inlustre che l’altra, fa-ceva in quella regione segno del passare di madonna: co-me la via lattea in cielo, la quale, mostrandosi per abun-danzia di splendore che viene da moltitudine di stellepiù spesse e serrate insieme, assai similitudine aveva conla via della donna mia, inlustrata dallo splendore delliocchi suoi. Era adunque assai noto a me il cammino on-de, e con madonna e con Amore insieme, s’era da me di-lungata e fuggita l’anima mia; ma il destino mio e adver-sa sorte non sopportava che io potessi, come aveva fattol’anima, seguitare quel bello cammino: che non potevaessere se non bellissimo, per essere ornato di fiori novel-li e inlustrato dallo splendore di quelli belli occhi. Que-sti affetti amorosi vorrei fussino expressi nel presentesonetto, il quale parla sempre alla fuggitiva anima mia, econviene presupporre che fussi composto e recitato nelproprio luogo dove furono questi amorosi accidenti.

XIX

Datemi pace omai, sospiri ardenti, o pensier’ sempre nel bel viso fissi, ché qualche sonno placido venissi alle roranti mie luci dolenti! 4

Or li uomini e le fere hanno le urgenti fatiche e ‘ dur’ pensier’ queti e remissi, e già i bianchi cavalli al giogo ha missi la scorta de’ febei raggi orïenti. 8

Deh, facciàn triegua, Amor! ch’io ti prometto ne’ sonni sol veder quello amoroso viso, udir le parole ch’ella dice, 11

toccar la bianca man che il cor m’ha stretto.

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O Amor, del mio ben troppo invidioso, lassami almen dormendo esser felice! 14

Sogliono comunemente tutte le infirmità corporalenel sopravenire della notte pigliare augmento e affligge-re più lo infermo; e questo adviene ché, mancando lavirtù del sole, el quale è propizio all’umana natura, liumori maligni prendono maggiore forza e la virtù famanco resistenzia, perché naturalmente la notte gli è da-ta per riposo, et essendo più inclinata la notte che ‘1giorno a posare, non è così intenta e vigilante alla con-servazione del corpo. Questo medesimo adviene delleinfirmità dello animo nostro, le quali sono nutrite da’maligni e malinconici pensieri, come le corporali da’maligni umori; e questo procede forse da più altre cagio-ni, ma al presente me ne occorre due: perché, come ab-biamo detto alle infirmità del corpo concorreKreL e mag-gior forza di maligni umori e manco resistenzia dellavirtù naturale, così due cagioni hanno e morbi dellamente per le quali sono più validi la notte che ‘1 dì. Laprima si è che naturalmente gli umori di che siamo com-posti si muovono nel corpo nostro a certe ore determi-nate e proporzionate alla lunghezza o brevità del dì edella notte, cioè dividendo la notte (e ’l dì), o lunga obrieve, in dodici parte e chiamando ciascuna d’esse par-te un’ora, in modo che verso la sera comincia a muover-si l’umore maninconico, e consuma una parte della not-te, e quasi tutto il resto occupa la flemma. Conciosiacosache, secondo e fisici, l’ultime tre ore della notte e le treprime del giorno si muove il sangue, le seguenti sei orela collora, l’altre ultime tre ore del giorno e le tre primedella notte l’umore maninconico le sei seguenti dellanotte la flemma; e perché l’umore maninconico e flem-matico generano nella mente nostra malinconici e tristipensieri, di necessità conviene questi tali pensieri abbi-no maggior forza in quello tempo che si muovono quelli

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umori. L’altra cagione che multiplica el male della men-te più la notte che il giorno, diremo essere che la nottenon si possono usare quelli remedii contro a questi maliche si può il giorno; conciosiacosa che contro alla mali-gnità de’ pensieri migliore rimedio non si può trovareche la diversione da quel tale pensiero, e questo procededa vedere, udire e praticare diverse cose che ritragghinola mente dalle moleste cogitazioni, la qual cosa difficil-mente si può fare la notte. Concludesi per questo e not-turni pensieri essere molto più veementi, e, quando so-no maligni, molto più molesti, e per essere più potenti eper avere manco resistenzia e remedio.

Era adunque notte, e io ero tanto afflitto da’ pensierimiei amorosi, che più resistere non potevo, privato altutto di sonno, cioè di quel poco di refriggerio ch’io po-tevo avere; e se cercavo porre da parte que’ pensieri,questo mostra assai chiaramente ch’e pensieri eronomolesti. La molestia de’ miei pensieri amorosi da duecose poteva procedere: o veramente da una dubitazionee continua gelosia, la quale, ancora che non abbi cagio-ne vera, accompagna sempre la mente come l’ombra ilcorpo, perché è natura de’ maninconici, come dicemmonella exposizione del terzo sonetto, mettere dubio nellachiarezza del sole; o veramente ché, pensando io allabellezza della donna mia, se n’accendeva in me uno ma-raviglioso desiderio, del quale ardendo il cuore mio nonpoteva non avere grandissima passione, desiderandosommamente quello di che allora era al tutto privato.Quale adunque di queste due cagioni fussi, mosso daquesta molestia, priego nel presente sonetto li miei ar-denti sospiri, cioè e sospiri che nascevono dallo accesodesiderio sopra detto; priego ancora li miei pensieri,sempre fissi in quel bel viso, cioè che altro non vedevanoo pensavano che quella; priego ancora le lacrime degliocchi miei (ché tutte a tre queste cose a uno tempo mimolestavono), che mi dieno pace, acciò che qualche

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sonno placido e dolce venissi alle mie luci roranti, cioèagli occhi miei lacrimosi: perché «rorante» s’interpetraquello che vulgarmente diciamo «rugiadoso». E permuovere conmiserazione in questi e quali io pregavo,mostro che tutti gli altri uomini e gli animali bruti, inquel tempo che io sospiravo e lacrimavo, si stavonoquieti e in riposo, sanza fatica o sanza pensiero alcuno; eoramai avevo passato con questi affanni tanta parte dellanotte, che era tempo mi dovessi posare, perché già e ca-valli del sole erono suti messi al giogo del carro solareper conducere la luce nel mondo, perché la scorta de’raggi febei, cioè l’aurora, che precede il sole, già facevasegno al mondo del futuro giorno. E perché forse pareimpropriamente detto ch’e pensieri malinconici e flem-matici avessino tanta forza nel tempo dell’aurora, cheabbiamo detto muoversi il sangue, bisogna intendereche, come dicemmo ne’ sonetti precedenti, gli amanti ilpiù delle volte o sono o diventano di natura malinconici;e benché in ogni tempo produchino pensieri simili allacomplessione, pure questi tali pensieri multiplicano piùquando alla natura si agiugne el tempo nel quale si muo-ve l’umore. E però, ancora che succede quel tempo chepare contrario alla malinconia, interviene come d’unafornace, dalla quale ancora che si levi el fuoco, vi resta elcaldo per qualche tempo, per la impressione che ha fat-to el fuoco: perché naturalmente da uno extremo a unaltro non si va sanza mezzo. La impressione che ha fattol’umore malinconico è grande, e la flemma che subintranon è opposita in modo allo umore precedente che glitolga forza, per la participazione che ha con la maninco-nia della freddezza; e però, giugnendo questi pensieri,così fortificati dagli umori, all’ora che si muove il san-gue, bisogna che a grado a grado, per la forza dell’umo-re, si reduchino e pensieri alla natura del sangue. Eperò, all’ora già detta, veramente la forza di quelli mali-gni pensieri non era tanto diminuita che reducessi el

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sonno agli occhi miei. Non bastorono e prieghi miei afarmi essaudire da’ sospiri, da’ pensieri e dalle lacrime.E però, pensando quello che più potessi fare, mi accorsiche la cagione vera del male mio, quella che moveva lelacrime, e sospiri e i pensieri, era Amore; e però comin-ciai a voltare a lui e miei prieghi, e, avendo chiesto aquelli primi invano pace, mi ridussi con Amore a do-mandarli triegua: cosa che più facilmente doveva con-sentire, perché la pace è una perpetua quiete, la trieguatemporanea. E perché più facilmente me la consentisse,promissi ad Amore che, ancora che io dormissi, non mirebellerei dal suo regno e ne’ sonni miei vederei el visodella donna mia, udirei le sue dolce parole e tocchereiquella candidissima mano; e i pensieri miei, dormendo,sarebbono amorosi come erano nella vigilia, solamentecon questa differenzia: che, vigilando, o per gelosia oper desiderio, e pensieri erono molestissimi e duri; dor-mendo, sarebbono dolci e suavi, perché adempiereiquello desiderio che avevo di vedere, udire e toccare ladonna mia. E questo potevo securamente promettere,perché comunemente ne’ sonni si veggono quelle coseche più s’inmaginono e desiderono nella vigilia. Negan-domi adunque questo bene Amore, che almanco dor-mendo io fussi felice, veramente lo potevo chiamare in-vidioso, poiché d’una falsa e brevissima dolcezza nonconsentiva satisfarmi.

XX

O Sonno placidissimo, omai vieni allo affannato cor che ti disia!Serra il perenne fonte a’ pianti mia,o dolce oblivïon, che tanto peni! 4

Vienne, unica quïete, quale affreni sola il corso al disire! E in compagnia

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mena la donna mia benigna e pia,con gli occhi di pietà dolci e sereni. 8

Mostrami il lieto riso, ove già ferno le Grazie la lor sede, e il disio queti un pio sembiante, una parola accorta. 11

Se così me la mostri, o sia eterno il nostro sonno, o questi sonni lieti,lasso, non passin per la eburnea porta! 14

Abbiamo nel precedente sonetto verificato che li pen-sieri della notte sono più intensi che quelli del giorno, equando sono maligni, molto più molesti. Ma ancora chegeneralmente così sia, li pensieri amorosi più che gli altri,secondo la mia oppinione, prendono la notte forza, e so-no molto più insopportabili quando sono molesti; népossono essere altro che molesti, presupponendo la pri-vazione della cosa amata. Perché tutti e mali che possonocadere negli uomini non sono altro che desiderio di bene,del quale altri è privato: perché chi sente alcuno dolore otorsione nel corpo desidera la sanità, di che è privato; chiè in carcere, la libertà; chi è deposto di qualche dignità,tornare in buona condizione; chi ha perduto alcuna fa-cultà e substanzia, la ricchezza. E di questo veramente sipuò concludere che chi fussi sanza desiderio non sarebbesottoposto ad alcuno caso, e chi più desidera sente mag-giore afflizzione. E, se questo è vero, certamente gliamanti sono più che tutti gli altri miseri, perché hannomaggiore desiderio, e la notte sono miserrimi, perché eldesiderio è maggiore; perché, mancando le altre occupa-zioni che distraggono la mente, non hanno altro recorsocontro il pensiero che gli affligge che il medesimo pensie-ro, e sono privati di qualche mitigazione che potrebbe ilgiorno avere la loro passione: come sarebbe vedere ladonna amata, parlarne con qualche amico, vedere qual-che suo intimo o consanguineo o domestico, vedere al-meno la casa dove lei abita; le quali benché non sieno al-

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tro che a uno febricitante e siziente lavarsi alquanto labocca, che è cagione di crescere tanto più la sete, pure eltempo passa con manco afflizzione. E puossi veramentedire che gli amanti vivono di dolcissimi inganni che lorofanno a loro medesimi; de’ quali essendo privati in qual-che parte la notte, soli e pensosi, né consolazione alcunané sonno amettono: come mostra el presente sonetto,molto simile di sentenzia al precedente. Il quale parla alSonno, pregandolo che vogli venire, dopo tanti affanni einquietudine, a serrare il fonte degli occhi miei lacrimosi,fonte perenne, cioè vivo e perpetuo, quasi dica che, se ‘1Sonno non serra quelli occhi, non resteranno mai di lacri-mare. Chiama dipoi il Sonno dolce oblivione e unicaquiete per raffrenare il desio, perché questi due soli re-medii aveva l’afflizzione mia, cioè o dimenticare, inter-mettendo e pensieri, o mitigare tanto desiderio. E perchéa me medesimo pareva impossibile non solamente il dor-mire, ma il vivere sanza inmaginare la donna mia, priegoil Sonno che, venendo negli occhi miei, la meni seco incompagnia, cioè me la mostri ne’ sogni e mi faccia vederee sentire il suo dolcissimo riso; quello riso, dico, ove leGrazie hanno fatto loro abitaculo, cioè che è sopra tuttigli altri grazioso e gentile: che veramente è detto sanza al-cuna adulazione, tanta grazia e in ogni cosa e maxime inquesto aveva la donna mia. Desideravo ancora che ‘1sembiante suo, cioè l’apparenzia, mi fussi mostra dalSonno pia, e il parlare accorto, e atta l’una e l’altra cosa aporre in qualche pace il mio ardentissimo desiderio; eperò bisognava che il sembiante e le parole fussino amo-rose e piene di speranza. E, come si vede, in tutto questosonetto non si cerca altro che raffrenare e temperare il di-sio corrente e ardentissimo. E credendosi il mio pensierodovere obtenere dal Sonno questa sua petizione, comeadviene alla insazietà dello appetito umano, da questoprimo desiderio transcorre al desiderare ancora, o veroperpetuamente queste felicità dormendo, o qualche volta

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remosso el sonno. Perché dice che, consentendo el Son-no e volendo essaudire e prieghi miei di rapresentarmi ladonna mia bella e pietosa etc., desiderebbe dormire et-ternamente, sanza destarsi mai, presupponendo semprevedere la donna mia con le già dette condizioni; e se purequesto fussi impossibile, almeno non sieno questi sognivani e bugiardi, come sono quelli che passono per la por-ta eburnea. Trovasi scritto fabulosamente per li antichipoeti essere appresso gli inferi due porte, che l’una èeburnea, cioè d’avorio, l’altra è di corno, e che tutti e so-gni e quali pervengono alla umana inmaginazione nelsonno passono per queste due porte, con questa distin-zione: che e sogni veri passono per la porta del corno,quelli che sono falsi e vani per la porta dello avorio. Eperò, pregando io che questi sogni lieti non passino per laporta eburnea, tanto è come pregare che quelli sogni nonsieno falsi, ma verificati, e abbino quello felice effetto chesogliono avere quelli della porta cornea.

XXI

Cerchi chi vuol le pompe e gli alti onori, le piazze, e templi e gli edifizii magni, le delizie, il tesor, quale accompagnimille duri pensier’, mille dolori. 4

Un verde praticel pien di bei fiori, un rivolo che l’erba intorno bagni, uno uccelletto che d’amor si lagni,acqueta molto meglio i nostri ardori; 8

l’ombrose selve, e sassi e gli alti monti, gli antri obscuri e le fere fugitive, qualche leggiadra ninfa päurosa. 11

Quivi veggo io con pensier’ vaghi e pronti le belle luci come fussin vive,qui me le toglie ora una ora altra cosa. 14

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Assai copiosamente nelli due precedenti sonetti ab-biamo mostro quanto sieno più veementi e pensieri not-turni, e spezialmente gli amorosi; e avendo fatto menzio-ne solamente dell’afflizzione che danno li malignipensieri, convenientemente pare che séguiti li due pre-cedenti el presente sonetto, nella exposizione del qualeaccade mostrare quanta dolcezza portino li pensieriamorosi che non procedono da molesta cagione, che ra-gionevolmente portono maggiore dolcezza che gli altripensieri, se è vero che li maligni amorosi pensieri porti-no maggiore molestia; perché le medesime cagioni chefanno el primo excesso della infelicità producono anco-ra più excessiva felicità: come diremo d’uno avaro, elquale ha tanto dolore perdendo una quantità di danari,quanto è la letizia se guadagnassi la medesima quantità.Perché, se gli è vero, come abbiamo detto nel preceden-te comento, che l’appetito sia quello che ci sottometta a’casi della fortuna e alle perturbazioni, pare necessario bi-sogni che secondo la quantità dello appetito si misuri elbene e ’l male nostro; et essendo d’una medesima cosa elmedesimo appetito, pare non solamente vero, ma neces-sario che la felicità e infelicità di quella tale cosa siaequale secondo equali gradi, o della privazione di quellacosa o dello adempiere l’appetito. Sono adunque gliamorosi pensieri dolcissimi e più che gli altri soavi quan-do procedono da dolce cagione, come mostra el presen-te sonetto. E perché dicemmo inanzi che la infelicità de-gli amorosi pensieri procedeva da privazione della cosaamata e dal suspetto che comunemente accompagna gliamanti, da due cagione similmente procede la felicitàde’ pensieri già detti, presupposta sempre la certezza,come possono avere gli amanti, della fede e amore dellacosa amata. L’una cagione è pensando a qualche fresca epassata felicità e contento, sopra alla quale il pensiero sidilata e volentieri a cosa a cosa rimembra, parendogli,così faccendo, quasi più prolungare la passata dolcezza;

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l’altra procede da una speranza, assai vicina allo effetto,del futuro bene, la quale abbi in sé tale certezza che qua-si lo facci parere presente. E come la prima cagione, do-po il fatto, fa più perpetuo el passato bene, così la pro-pinqua speranza, inanzi al fatto, gli dà principio: come sivede, per essemplo, che chi aspetta una simile dolcezzao chi di fresco l’ha provata vorrebbe alienarsi da tutti glialtri pensieri; e io ho conosciuto qualcuno che, avendouna sùbita e insperata novella e certezza nel propinquo efuturo bene, ne resta quasi attonito, sanza udire alcunacosa che gli sia detta o usare alcuno senso, essendoastratto da quel pensiero.

Questi affetti amorosi adunque mostra el presente so-netto, el quale, postponendo a simili pensieri amorositutte le cose che agli uomini comunemente sono gratissi-me e dolce, assai chiaro fa intendere quanto sia grandela dolcezza della amorosa cogitazione. Dice adunque la-sciare a chi le vuole le pompe e gli alti onori e le publi-che magnificenzie, come piazze, templi e gli altri edifiziipublici, e per questo denota gli ambiziosi e quelli checon sommo studio cercano l’onore; dice dipoi che cer-chi ancora chi vuole le civili dilicatezze, e per questo de-nota tutti e piaceri e lascivie umane; agiugne il tesoro,mostrando l’amore e lo studio della pecunia. Perchél’appetito nostro solamente circa queste tre cose si ex-tende, cioè ambizione, voluttà corporale e avarizia, per-ché l’onore, il piacere e l’utile impedisce ogni altra no-stra operazione. Séguita dipoi mostrando che coseaiutono e nutriscono e pensieri amorosi, cioè un verdepraticello pieno di be’ fiori, e uno rivolo che bagni l’erbaintorno al luogo onde gira, e gli amorosi canti di qualcheuccelletto. E qui è da notare che contro alle pompe etedifizii magni e l’altre cose descritte con parole grande emagnifiche, si oppone tutte cose piccole e chiamate pervocabuli diminutivi, come praticello, rivulo e augelletto,per provare meglio che se le predette cose grande sono

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accompagnate da mille duri pensieri e da mille dolori,queste piccole a contrario debbono inducere più tran-quilli e quieti pensieri. Séguita dipoi che le selve, KeLmonti, e sassi, le spelonche, le fere silvestre e qualche ti-mida ninfa sono cose propizie a questi pensieri d’amore,per mostrare in effetto che la solitudine e il dilungarsidallo umano consorzio riduce la mente più quieta e nonforza e pensieri; e però, non sendo forzati, facilmentetornono alla natura e si profondono tanto più nella in-maginazione di quello che più desiderano e amano. E al-lora ha tanta forza la inmaginazione, che mostra agli oc-chi quello che vuole; e a me mostrava in modo le luci,cioè gli occhi della donna mia, come se vedessi lei viva evera. Ma nella città, quando una cura, quando un’altrami toglieva questa dolcezza, la quale veramente è gran-dissima. E, quando non si provassi per altra ragione, siprova per questa: che la dolcezza della inmaginazione haqualche similitudine con la vera beatitudine, cioè quellache consegue l’anima a cui è data la gloria etterna, laquale in altro modo non si fruisce che inmaginando econtemplando la bontà divina. E benché questa con-templazione sia differente assai dalla contemplazioneumana, perché quella contempla el vero e questa una in-maginazione vana che forma l’appetito mortale, nondi-meno l’una con l’altra ha qualche poco di similitudinenel modo; e così imperfetta come è, questa mortale èaprovata per la prima felicità del mondo quando ha perobietto la vera perfezzione e bontà, secondo che si puòconseguire nella mortale vita. Per questo si può dire chela contemplazione di qualunque cosa non molesta abbiin sé grande dolcezza, perché ha qualche parte di simili-tudine con la somma dolcezza e perfetta felicità.

Bisogna nel presente sonetto presupporre che fussicomposto nella città, perché dicendo «qui me la toglie»etc., come si legge nell’ultimo verso, è necessario s’in-tendi «qui», cioè nella città, presupponendo ancora

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qualche fresco piacere o di contemplazione o d’altro ri-cevuto in luoghi alpestri e solitarii, per la quale compa-razione si appetischino le ville e s’abbi in odio la città.

XXII

– Ponete modo al pianto, occhi miei lassi, presto quel viso angelico vedrete! Ecco, già lo veggiam. Perché piangete?Perché nel petto il cor pavido stassi? – 4

– Miseri noi, che se fiso mirassi, fermando in noi le vaghe luci e liete, il nostro bavalischio, o faria prietedi noi, o converria l’alma expirassi! – 8

– Dunque, qual disio face a voi, qual sorte, e temere e voler quel vi disface? Chi muove o scorge il passo lento e raro? – 11

– Natura insegna a noi temer la morte, ma Amor poi mirabilmente facesüave a’ suoi quel ch’è ad ogni altro amaro–. 14

Leggesi in Omero, antiquo et excellentissimo poetagreco, che Giove, quando vuole mandare agli uomininel mondo la sorte che a ciascuno si conviene, ha duegrandissimi vasi, delli quali l’uno è pieno di sorte adver-se e infelice, nell’altro sono sorte felici e infelici insiemeconfusamente miste. E volendo mandare ad alcuno cat-tiva sorte, toglie di quelle del vaso el quale solamentecontiene le sorte adverse; volendo fare alcuno felice, glimanda dell’altro vaso nel quale sono le adverse e pro-spere sorte mescolate: per denotare che facilmente gliuomini possono essere infelici sanza participazione d’al-cuna felicità, ma non possono già essere felici sanza par-ticipazione di miseria. E se alla confermazione di sì verasentenzia non fussi abastanza l’auttorità d’uno poeta

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tanto excellente che fu chiamato «divino», la experien-zia dell’umane cose ne rende assai abundante testimo-nianzia.

Questa verità seguitiamo ancora noi nel presentesonetto; e avendo nelli tre precedenti verificato due sen-tenzie, cioè la felicità e infelicità degli amorosi pensieri,non pare che sanza vera cagione accaggia nel presentesonetto mostrare che la felicità e infelicità amorose benespesso sono congiunte e complicate insieme, anzi quasisempre sono in compagnia, se bene tra loro or l’una orl’altra abbia maggior potenzia. Né adviene questo sola-mente nelle cose amorose, ma ancora nelle naturali, ecomunemente in tutti e casi che advengono agli uomini.Perché, quanto alle naturali, veggiamo tutte le cose chevivono al mondo constare d’oppositi e vivere per con-trarietà d’umori, et essere composte di cose che ciascunaper sé offende molto la natura di quella tale cosa; e senon fussi la repressione degli umori contrarii, non vive-rebbe alcuna cosa in questo mondo inferiore. E però sipuò dire tutti gli animali mortali, vegetativi, sensitivi erazionali, non vivere per benificio degli umori de’ qualisono composti, ma a dispetto d’essi e contra alla voglialoro, perché ciascuno umore naturalmente appetiscevincere e contrarii suoi, e sùbito che questo tale naturaleappetito in qualunque d’essi ha effetto, e che l’uno vincal’altro, di necessità viene la morte; e la vita si conservamentre che dura la potenzia equale e la guerra tra l’unoe l’altro. E però diremo la vita nostra constare d’opposi-zione, contrarietà e diversi mali, e la morte procederedalla pace. Pruovasi adunque per questo la vita, che ap-presso e mortali è stimata tra ‘ primi beni, avere semprein compagnia questo conflitto delli elementi. Quanto a’casi del mondo e a quello che ’l più delle volte advieneagli uomini, è assai manifesto o essere male puro sanzaparticipazione di bene, o bene misto con molto male. Ebenché non mi paia questa proposizione abbi bisogno

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d’alcuna confirmazione, tuttavolta, distinguendo le ope-razioni umane in mentali e corporali, credo sia facile adintendere che sempre la mente e intelletto ha oppositi einimici e sensi e le passioni corporali: che così convieneche sia, essendo di natura molto contrarii lo intelletto eil corpo; le passioni e gli appetiti corporali sempre han-no per obstaculo el rimordimento della conscienzia, cheprocede dallo intelletto; e oltre a questo, spesso, anziquasi sempre, una passione è contraria all’altra e l’unoappetito all’altro: che così conviene che sia, procedentele passioni umane in gran parte dagli umori delli qualisiamo composti, che, come abbiamo detto, sono de di-recto contrarii l’uno all’altro. Veggiamo ancora nelle ci-vili, proprie e domestiche operazioni la difficultà del pi-gliare qualche partito nascere dal concorrere in ognipartito qualche inconveniente, né si trovare di mille vol-te una vera diliberazione alla quale non si possa contra-dire. E però quelli che sono più prudenti indugiono piùa pigliare partito, e per questa tardità si chiamono «uo-mini gravi»; e il tempo si chiama «sapientissimo», per-ché la sapienzia vera consiste nello aspettare e usare laoccasione, e questa non sarebbe necessaria se non per lamolta difficultà che portano seco le occorrente delibera-zioni. Verificasi adunque ogni umana azzione non essereabsolutamente buona, né dolce sanza participazione dimiseria. E questo molto più si conosce nelle cose che lapassione e l’appetito governono: come sono e casi amo-rosi, perché dicemmo nel comento del sonetto che co-mincia In qual parte andrò io etc., amore non essere altroche una gentile passione.

Questa medesima sentenzia conferma el presente so-netto, el quale è composto per dialago: perché nel primoquadernario parla el sonetto agli occhi miei lacrimosi; elsecondo quadernario, che comincia Miseri noi, rispon-dono gli occhi; dipoi il primo ternario, che cominciaDunque, qual disio, parla pure il sonetto agli occhi; l’ulti-

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mo ternario, che comincia Natura, rispondono pure gliocchi. Ritornando adunque al principio, è necessariopresupporre che gli occhi miei da grave e continuo pian-to erono occupati; e questo pareva maraviglia, essendoloro molto vicini e avendo quasi presente l’angelico visodella donna mia, nella visione del quale pareva consi-stessi la loro felicità, come dicemmo nel sonetto che co-mincia Occhi, io sospiro etc. Per questo pareva ragione-vole prima confortare gli occhi a porre fine al pianto,perché presto vedrebbono la donna mia, la quale si po-teva dire essere quasi presente. E perseverando pure gliocchi nel pianto, molto convenientemente si domandaperché pure piangono e per che cagione el cuore sta nelpetto tutto pavido e pieno di sospetto. Rispondono aquesta proposta gli occhi, mostrando el pianto loro pro-cedere per il dubbio che hanno della forza degli occhidella donna mia, la quale chiamano bavalischio, il qualesi dice avere per natura d’uccidere solamente con loaspetto degli occhi; e però, come con li occhi solo lui uc-cide, così dubitano gli occhi miei non potere sopportarelo sguardo della donna mia, la quale, se fiso gli mirassi, ofarebbe priete degli occhi come del resto del corpo, oconverria l’alma expirassi e la vita si partissi. Vedesiquesti due dubbi che mostravano gli occhi miei esserefondati nella experienzia di cose già sute, perché, quan-to al diventare priete, si legge di Medusa (come abbiamodetto), quanto alla morte, similmente abbiamo lo essem-plo del bavalischio. Absoluto adunque el primo dubio emostra la cagione giusta del pianto, ne nasce uno altro, equesto è che, dato che tale sospetto sia giusto, gli occhidovevono fuggire lo aspetto della donna mia come cosamortale, e, seguitando pure el cammino per vederla, eranecessario che giustificassino se desiderio o sorte me-nassino gli occhi miei, desiderando loro e temendo unamedesima cosa; e in questo desiderio e timore si mostral’amistione sopra detta della amaritudine con la dolcez-

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za, perché el timore presuppone la amaritudine e il desi-derio la dolcezza. Dice disio o sorte perché gli uominiqualche volta sono mossi da uno proprio e naturale desi-derio, qualche volta sforzati quasi dal destino: perché silegge: «Fata volentem ducunt, nolentem trahunt», e perexperienzia spesse volte si vede gli uomini per elezzionefare molte cose contro alla propria voluntà. Qual disio,adunque, o qual sorte muove el passo lento e raro? E inquesti due epiteti del passo si mostra a un tempo e vo-glia e timore nello andare; perché, se fusse voglia sanzatimore, el passo sarebbe presto et expedito, se fusse ti-more sanza voglia, non sarebbe el passo né alcuno movi-mento verso quella cosa che si temessi, perché el timoredi natura fa fuggire, conciosiacosa che quello che si te-me s’ha in odio e quello che s’ha in odio si fugge. A que-sto obietto rispondono gli occhi, mostrando la cagionedel timore essere molto naturale, conciosiacosa che pernatura ciascuno teme la morte; la cagione dello andarepure inanzi essere Amore, el quale non per alcuna natu-rale ragione, ma mirabilmente fa parere suave nelliamanti quello che in tutti gli altri è amaro e durissimo. Everamente è detto «mirabilmente», perché «mirabile» èogni cosa la quale è contro all’ordine della natura; népotrebbe essere più opposito all’ordine della naturaquanto è el desiderio della morte, de’ pianti, de’ sospirie dell’altre amorose passione. Concluderemo per questogli amanti essere di tutti gli uomini miserrimi, non sola-mente per una sorte comune che abbiamo detto averetutte le cose umane, per avere sempre l’amistione delmale, ma ancora per una particulare cagione: che gliamanti non hanno mai bene alcuno, né per proprietà(come l’altre cose), né per participazione, conciosiacosache le maggiore dolcezze amorose non pare che consisti-no in altro che in quello che gli altri uomini chiamano«sommo male». Pure è assai agli amanti gustare una feli-cità che paia a·lloro propria, perché il contento umano

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consiste più tosto nel parere che nell’essere; e se a·lloropare essere felici, sono, non però sanza ammistione sem-pre di K’nL felicità, pure amorose. E per questo io giudicoche la dolcezza degli amanti sia rara, e qualche volta as-sai grande, ma le infelicità loro essere quasi continue e ildolore sanza comparazione maggiore, conciosiacosa che’l dolore è spesso sanza dolcezza e la dolcezza non maisanza dolore. E così conviene che sia, dove è infinitapassione e insaziabile appetito.

XXIII

Sì dolcemente la mia donna chiama morte nelli amorosi suoi sospiri,che accende in mezzo alli aspri miei disiriun süave disio, che morte brama. 4

Questo gentil disio tanto il core ama, che scaccia e spegne in lui gli altri martìri; quinci prende vigore e par respiril’alma contr’a sua voglia, afflitta e grama. 8

Morte, dalle dolcissime parole di mia donna chiamata, già non chiude però i belli occhi, anzi sen fa piatosa. 11

Così mantiensi al mondo il mio bel Sole, a me la vita mesta e lacrimosa,per contrario disio, che morte exclude. 14

Perché nel precedente sonetto abbiamo fatto qualchemenzione de’ miracoli d’Amore, vorrei avere tale facultàche gli potessi fare credibili apresso di qualunque, comesono certi apresso alli gentilissimi ingegni delli inamora-ti. E veramente, come si può imputare a gran difetto ilcredere leggermente quelle cose che prlmafacie paionoimpossibile, così non mi pare da aprovare la oppinionedi quelli che non prestono fede ad alcuna cosa, quando

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exceda in qualche parte o l’uso comune o l’ordine natu-rale, perché spesso si è veduto nascere grandissimi in-convenienti presupponendo una cosa falsa, per parerequasi impossibile, e nondimeno pure essere vera. E, ol-tra questo, come el credere presto pare officio di uomoleggiere, così absolutamente el non credere dimostragrande presunzione; perché, chi dice: «Questa cosa nonpuò essere», presumme di sapere tutte le cose che pos-sono essere e quanto sia la potenzia della natura; e non-dimeno si vede molti effetti naturali diversi e quasi in-credibili, se non fussino notissimi quasi a ogni persona.E chi crederrebbe che d’uno piccolo acino d’uva, nelquale non si vede colore, odore o sapore certo, si gene-rassi la vite, con tante degne qualità? Questo medesimodegli altri semi, che tutti servano diversamente la pro-pria spezie; né paiono mirabile queste cose perché siveggono a ogni ora. E a me pare che sieno maggiore ma-raviglie quelle che a ogni ora si veggono degli effetti na-turali, che quelle di alcune altre cose le quali, per esseremolto rare e lontane dalla cognizione nostra, paiono mi-rabile: come sono alcune spezie d’animali, che, per esse-re ignote a noi, giudichiamo quasi impossibile che possi-no essere, e forse in quelli paesi che le producono sonocosì comune, come a noi cani, cavalli e altri simili anima-li. Leggonsi quelle sei maraviglie, che mette el poeta no-stro Petrarca in quella canzona che comincia Qual piùdiversa e nuova, appresso gli autori antiqui e autentici. Echi considera bene e quelle e l’altre cose che per mirabi-le si prèdicono, vedrà, se si può così dire, molto maggiorfatica della natura in queste cose che a ogni ora abbiamoinanzi agli occhi, che in quelle le quali ammiriamo piùtosto per essere rare che impossibile. Debbonsi adun-que ancora gli amorosi miracoli, se non al tutto credereche sieno, almanco credere che sieno possibili.

E a me è paruto dovere fare questa preparazione nellaexposizione del presente sonetto, avendo a narrare una

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cosa che forse pare impossibile, e nondimeno è vera,perché il sonetto non intende altro che provare come eldesiderio della morte è cagione inmed’ate della vita. E,per venire allo effetto, bisogna intendere che la mia gen-tilissima donna aveva per uno suo costume spesso inbocca la morte e mostrava nelle parole sue bramarla,credo conoscendosi tanto gentile, che li pareva questavita noiosa non fussi degna di sì bella cosa. Et essendo iosuto presente qualche volta quando lei dolcissimamentechiamava la morte, mi veniva tanta amaritudine e dolo-re, quanto darebbe a ciascuno el dubbio della privazio-ne d’ogni suo bene, perché mi pareva che lei la chiamas-si sì dolcemente e con parole tanto efficace, che la mortenon si gli potesse negare; agravando più el dolore mio lacagione di questo suo desiderio, la quale era Amore,chiamando lei morte negli amorosi suoi sospiri. E perquesto bisognava che fussi cagione di questo desiderio ouna grande amaritudine e passione o una somma dol-cezza; perché ambodue questi affetti causano negli uo-mini simili desiderii, perché la morte si brama o peruscire di doglia, o perché non sopravenga amaritudineche contamini una somma dolcezza e felicità, seguitandoquella sentenzia, «tunc pulchrum esse mori» etc. Qualeadunque fussi di queste cagione, a me dava grandissimaafflizzione, maxime per quello di che io potessi esseresuto imputato, poiché Amore era cagione di questo de-siderio. E, combattuto da questa passione, in fine mi ri-solvevo a uno unico rimedio, d’accompagnare ancora iola donna mia in questo durissimo desiderio della morte.E però si accendeva tanto in me questo desiderio, checominciava a parermi dolce in modo, che addolciva tut-te le altre mie passioni. E perché naturalmente si appeti-sce e si seguita quello che piace più, el cuore mio abban-donò tutti gli altri pensieri e pose da parte ogni altrodesiderio e cura per seguire questo dolcissimo e gentiledesio della morte. E benché tutti e pensieri d’alcuna co-

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sa, essendo intensi e veementi, faccino postporre comu-nemente tutte l’altre cure, pure quello della morte famolto meglio questo effetto. Perché ogni altro pensieromette da parte gli altri pensieri minori non per sempre,ma per qualche tempo, perché, vivendo, possono torna-re, anzi è necessario che tornino, e almeno quelli che in-duce la necessità della vita; ma el pensiero della mortedebba alienare la mente da ogni altra cosa, perché dopola morte non v’è che pensare quanto pel corpo e pelmondo. Per questo si dice che ogni altro desiderio e pas-sione e tutti e martirii e affanni che si sentono, eronospenti nel cuore sopravenendo questo dolce desideriodella morte. Et essendo KspenteL tutte queste passioni erestando solo el dolce pensiero della morte, la vita ne pi-gliava vigore e respirava alquanto: che così necessaria-mente conveniva che fussi, essendo spenti gli inimicisuoi e restando in lei solo quello dolcissimo desiderio,cioè uno desiderio che gli piaceva, e, piaccendogli, davaforza all’anima e contra a sua voglia prolungava la vita;non «contra a sua voglia», quasi contra alla sua naturalevoglia, ma contra al desiderio della morte. E benchéquesto gli dovessi arrecare qualche molestia, sendo op-posito alla dolcezza di quello desiderio, pure, vivendomadonna (come faremo intendere) e mantenendosi viva,per questa medesima cagione non gli dava molestia alcu-na, anzi maggiore contento, perché el desiderio vero delmio cuore era la vita della donna mia. Provasi adunqueche del desiderio della morte, che chiamava spesso ladonna mia, si conservava in me la vita. Questo medesi-mo desiderio suo conservava ancora la vita in lei, con-ciosiacosa che ’l desiderio faceva che lei con le dolcissi-me sue parole chiamasse la morte, la quale, sentendosichiamare, non chiudeva per questo però e belli occhidella donna mia, ma per pietà di lei gli prolungava la vi-ta. E così e in lei e in me si conservava la vita; e questaconservazione era causata da uno desiderio contrario al-

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la vita, cioè della morte, el quale excludeva la morte,cioè, ne’ modi che abbiamo detto, faceva scostare lamorte. Questo miracolo e molti altri abbiamo vedutid’Amore, e crediamo appresso e gentili cuori sarà assaicredibile, el testimonio de’ quali ancora appresso deglialtri doverrebbe avere fede.

XXIV

Allor ch’io penso di dolermi alquanto de’ pianti e de’ sospir’ miei teco, Amore, mirando per pietà l’afflitto corel’imagin veggo di quel viso santo. 4

E parmi allor sì bella e dolce tanto, che vergognoso il primo pensier more; nascene un altro poi, che è uno ardoredi ringraziarla, e le sue laude canto. 8

La bella imagin che laudar si sente, come dice il pensier che lei sol mira, sen fa più bella e più pietosa assai. 11

Quinci surge un disio nuovo in la mente di veder quella che ode, parla e spira: e torno a voi, lucenti e dolci rai. 14

Ero soletto e sanza alcuna compagnia, se non dellimiei amorosi pensieri, li quali molestandomi come el piùdelle volte sogliono fare, cominciai meco medesimo a fa-re pensiero di volerne fare doglienza con Amore, comecagione de’ miei pianti e sospiri e dell’altre amorose pe-ne; e, volendo ad una ad una narrargliene, mi era neces-sario cominciare da quella parte che e prima e più eraoffesa, la quale era il cuore. Volendo adunque narrarel’afflizzione del cuore, pareva necessario di guardare nelcuore, e, guardando, considerare, per potere narrare lostato suo. E se bene nel cuore erano dipinte molte pas-

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sioni e tormenti, pure maggiore impressione aveva fattoin esso la inmagine del viso della donna mia; el quale, es-sendo bellissimo e, sì come era il vero, molto lucente echiaro, e per la bellezza e per la luce tirò gli occhi miei egli sforzò a rimirare quella inmagine, levando loro la vi-sione delle pene del cuore: parendo molto convenienteche una cosa bella e lucente e levi la visione dell’altre co-se, come è natura della excessiva luce, e tragga gli occhia sé, come sempre suole fare la bellezza. Mirando adun-que gli occhi miei questa inmagine in luogo delle pene,parve loro molto bella e dolce, cioè piena di pietà; eperò, se prima era intenzione degli occhi vedere l’affliz-zione del cuore, cosa molesta e deforme, per dolersi,veggendo il viso della donna mia bello e pietoso, e de di-recto opposito a quelle afflizzioni, ne doveva nascere an-cora uno affetto tutto contrario al dolersi. Per la qual ca-gione il primo pensiero di dolersi vergognoso morì e intutto si spense, e un altro ne nacque contrario di ringra-ziare e onorare la donna mia; la quale era sì bella e tantogentile, che, solamente essendomi concesso di vedere sìbella cosa, quando mai non vi fussi suto pietà alcuna,non potevo avere cagione a dolermi, ma più tosto di rin-graziarla. Mosse el pensiero di dolersi la passione, cheaccieca la mente e obumbra lo intelletto di una tenebro-sa ignoranzia; ma sopravenendo la luce della verità, e fu-gate queste tenebre, non sanza vergogna si rimira lo er-rore passato; e però muore vergognoso el primopensiero e nel suo luogo succede l’altro pensiero, più ve-ro e più laudabile, di ringraziare la donna mia e d’essal-tarla e laudarla. Le quali laude, sendo portate alla inma-gine sua che è nel mio cuore, la fanno parere assai piùbella e più pietosa: che così pare al pensiero mio, chenon vede alcuna cosa se non questa inmagine. E perchédi sopra abbiamo detto gli occhi vedere il cuore e le co-se che sono in lui, le quali sono invisibili, al presente sidice che il pensiero, el quale non ha potenzia di vedere,

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mira la inmagine della donna mia. E per solvere l’una el’altra obscurità, bisogna intendere, dove si dice «occhi»e «vedere», «pensieri» e «inmaginare», perché gli occhi,gli orecchi e la lingua e ogni senso che s’atribuisce alcuore non sono altro che pensieri, per mezzo de’ quali elcuore, cioè la mente nostra, inmagina e opera, come elcorpo per mezzo de’ sensi; e però tutte le altre operazio-ni corporali, come è parlare e sentire, che fa quella in-magine, si debbono referire a inmaginazioni. E, così in-tendendo, si verifica quello abbiamo detto, che,sentendosi quella inmagine laudare, si fa più bella e piùpietosa; perché quanto la inmaginazione è più forte, piùgli pare vedere quello che allora inmagina, e inmaginan-do la donna mia pietosa e bella, pare necessario che,quanto più la inmagina così, più diventi bella e pietosanel pensiero. Da questa tale inmaginazione di tanta bel-lezza e dolcezza nasce uno desiderio ardentissimo e nuo-vo nella mente di vedere la donna mia viva e vera; né di-ce disio nuovo perché questo sia nel cuore mio el primodesiderio che avessi mai di vedere la donna mia, ma dicenuovo a quelli altri pensieri, quasi rinato allora di nuo-vo. Questo nuovo disire, adunque, mi muove a vedere ladonna mia viva e vera, perché il parlare, udire e spiraresono officio d’animale vivo, e non di cosa che sia inma-ginata. Con questo desiderio, adunque, torno a vedere lilucenti e dolci raggi degli occhi della donna mia; e di-cendo torno, mostro el desiderio non essere nuovo, cioèil primo che avessi mai di vederla, perché tornare a ve-derla presuppone altre volte essere ito per vederla; e di-cendo raggi e lucenti e dolci, si mostra la bellezza e pietàche prima era in quella inmagine, la quale, per similitu-dine del vero, mi mosse a vedere quella bellissima cosadella quale ella era un dolcissimo essemplo.

Notasi nel presente sonetto tre pensieri e uno effetto.Prima el pensiero di dolersi; el quale vergognosomorendo, nasce el secondo di ringraziare e laudare la

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donna mia, inmaginandola bella e pietosa; quinci nasceel terzo dello andare a vedere la vera, per similitudinedella inmaginata. Dopo questi tre pensieri séguita l’ef-fetto di mettere ad essecuzione quello che propose l’ul-timo pensiero.

XXV

Madonna, io veggo ne’ vostri occhi belli un disio vago, dolce et amoroso, che Amore a tutti li altri tiene abscoso,a me benignamente lo mostra elli. 4

Questo gentil disio par che favelli, promettendo al mio cor pace e riposo: questo afferma un sospir caldo e piatoso,che Amore in compagnia per fede dielli. 8

Questo sospir porta al mio cor novelle della pietà, che fuor del bianco petto lo manda messagger del vostro cuore. 11

Giunto alla bella bocca, e pie e belle parole forma, di sì dolce effetto,che fa stupido star, non che altri, Amore. 14

Di tutti e sensi nostri, sanza alcuna controversia, elpiù degno è reputato il vedere; e questo non è solamentegiudicio degli uomini, ma ancora della natura, concio-siacosa che ha posto gli occhi e più alti che alcuno altrosenso e più vicini al luogo dove sta lo intelletto. Cono-scesi manifestamente gli occhi essere più necessarii allavita umana che alcuno degli altri sensi, perché pare cheper la notizia delle cose visibile si proceda agli altri sensimolto più facilmente. Sono cagione ancora gli occhi difarci conoscere la più bella cosa che possino conoscere esensi, cioè la luce, perché né odore, né sapore, né alcunavoce o altra cosa sensitiva si può comparare alla luce.

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Hanno ancora gli occhi questo previlegio et excellenzianegli altri sensi: che il cuore per alcuno altro mezzo sen-sitivo non si manifesta, ma tiene a tutti gli altri quasi se-creti e suoi concetti, e solo per li occhi gli manifesta;perché di letizia e dolore, ira e amore, e di tutte l’altrepassioni del cuore, gli occhi bene spesso danno assaichiaro indizio. E tanto vicino questo senso del vedere al-la qualità dello animo nostro, che, secondo Plinio, chibacia gli occhi ad alcuna persona, gli pare quasi baciarel’animo suo. E benché questo advenga in tutte le passio-ni, pure molto meglio si conosce negli affetti amorosi,nelli quali gli occhi hanno grandissima parte; perché ilprincipio onde esce e onde entra Amore sono gli occhi,e quali e per loro medesimi sono la più bella cosa cheabbi el corpo umano, e hanno per obietto la bellezza; eperò, essendo la più bella cosa che abbi una donna bel-la, credo el più delle volte sieno la prima cosa che co-minci dagli occhi dello amante a essere amata. Esceadunque Amore dagli occhi della cosa amata e per li oc-chi dello amante entra nel cuore: che si verifica che gliocchi active et passive sono principio d’amore. Faccendoadunque Amore la prima impressione negli occhi eaprendo per loro la strada al cuore, molto più facilmen-te comunica el cuore le sue passioni amorose agli occhiche le altre. E ha Amore dato questo rimedio all’affliz-zione degli amanti, che, essendo tolto di mezzo el parla-re e ogni altra via d’intendere el cuore l’uno dell’altro,per li occhi spesso e amorosi sguardi s’intendono.

Era la donna mia, come abbiamo detto, sopra tutte lealtre bellissima, e però si può pensare quanto fussinobelli gli occhi suoi, che, secondo abbiamo detto, vinco-no qualunque altra corporale bellezza; e perché l’appeti-to nostro sempre cerca più quello che gli pare migliore,ancora che tutta la donna mia da me fusse amata, puregli occhi miei erono tirati a guardare gli occhi suoi, co-me maggior bellezza. Guardavo adunque fiso e suo belli

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occhi e pareami vedere in essi uno desiderio amorosopieno di pietà e dolcezza, che così per mezzo loro mi vo-leva fare intendere el suo gentilissimo cuore. E questodolcissimo desiderio Amore non lo mostrava se non agliocchi miei, nascondendolo dagli altri, credo perché glialtri così fiso non gli miravano; né era tanto expedita lavia tra la donna mia e loro da Amore per mezzo degliocchi, come tra ‘1 cuore suo e ‘1 cuore mio, secondo chedi sopra abbiamo detto; e oltra questo, essendo Amorequello che mi mostrava questo desio della donna mia,che era mezzo tra lei e me, gli altri non lo potevano ve-dere, perché tra loro e lei non era Amore che lo mostras-si. Parevami quello gentile desiderio parlassi al mio cuo-re e gli promettessi, dopo tanti affanni e amorosepersecuzione, pace e riposo, presupponendo per la futu-ra pace la passata guerra e pel riposo e quiete le fatiche eaffanni amorosi: perché tutti questi affetti dolcissimimostravano quelli occhi. E dubitando la donna mia cheper li passati essempli io non prestassi forse interamentefede alle parole che gli occhi suoi mi dicevano, accom-pagnò questo pietoso desiderio d’uno amoroso sospiro;el quale, sendo mandato nunzio al mio cuore, uscì fuoradel bianco petto della donna mia, testimonio della pietàch’era in essa, la quale pietà aveva messo nel cuore quel-lo sospiro amoroso. E avendo detto la cagione naturalede’ sospiri nella exposizione di quello sonetto che co-mincia Se ’l fortunato core etc., non pare necessario quidirne altro, ma bisogna intendere che questo sospironacque nel cuore, el quale contrasse a sé, per mezzo del-lo alito, l’aere per refrigerarsi; e prima che essalassi espirassi fuora, formò nella bocca della donna mia certeparole dolcissime e amorose, per modo che e le parole eil sospiro pareva che a uno tempo di quella bella boccauscissi. Perché, parendo alla donna mia non fussi forsesufficiente, a testificazione della sua pietà e amore, né ilsegno degli occhi, né la testimonianza deKlL sospiro, vi

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aggiunse quella delle parole, molto più efficace testimo-nio che li due precedenti, acciò che il cuore mio, e per laefficacia del testimonio e pel numero sufficiente, essen-do tre, avessi maggiore certezza. Furono le parole delladonna mia tanto pie e belle e di tanto dolcissimo effetto,che Amore ne restò obstupefatto: e per questo si debbepensare quello intervenisse a me; né si debbe maraviglia-re alcuno che crede questo, se non sono per me narrateformalmente le parole, perché, vinto dal medesimo stu-pore che vinse Amore, non solamente le parole, ma qua-si dimenticai me stesso.

È a mio giudicio, el processo del presente sonetto as-sai naturale e secondo el vero. Perché, chi ama, prima nefa qualche segno con li occhi; dipoi di necessità nasce ilsospiro, perché el piacere del vedere la cosa amata equella ferma intenzione del vedere genera KilL sospiro,per le ragione dette nel sonetto preallegato; e mostra piùveemenzia d’amore el sospirare che il guardare. Seguita-no el sospiro le parole, tanto più efficace quanto più siriducono alla certezza della cosa; conciosia che e lisguardi e li sospiri potrebbono essere per altre cagioneche non paiono, ma le parole mostrano più chiara la ve-rità e sono spinte da maggiore forza d’amore. E così fa lanatura di grado in grado gli effetti suoi.

XXVI

Quando la bella imagine Amor pose drento al mio cor, per sua grazia o virtute, se per altri disir’ v’eran venute,spense e scacciò da·llui tutte altre cose. 4

Lasso or, se con le luci lacrimose invan cerco le luci che ho perdute! Dalli occhi al pensier fuggo, e mia salutea·llui domando, a cui già mai si ascose. 8

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El mio pensier allor benignamente sola in mezzo del cor la donna mia mi mostra, e intorno tutti e miei disiri. 11

Allor di novel foco arder si sente il tristo cor, che già cener saria,se non fusse la forza de’ sospiri. 14

Avendo nel precedente comento mostro quanto sie-no excellenti gli occhi tra gli altri sensi e quanta degnitàha dato loro Amore, volendo che sieno la porta ondeegli entri e faccendogli spesso ministri suoi e nunzii de’pensieri del cuore, bisogna confessare che grandissimadolcezza traggono gli amanti dagli occhi. E, se questo èvero, a contrario è quasi insopportabile tormento, in chiama, la privazione d’essi, anzi sarebbe al tutto insoppor-tabile se Amore non vi avessi posto uno solo rimedio, disovenire in questo caso il cuore mediante e pensieri; elquale rimedio però non è fatto altrimenti che l’altreamorose subvenzioni, le quali sono più presto fomentoe legno allo amoroso fuoco che refrigerio al cuore. Que-sta sentenzia mostra el sonetto presente, nel quale inprincipio si denota l’amorosa providenzia; perché, es-sendo antiveduta da Amore, come le altre pene degliamanti, ancora questa della privazione degli occhi ama-ti, ha preparato il soccorso de’ pensieri contro a questomale, avendo messo la inmagine della cosa amata drentoal cuore, che la rapresenta a’ pensieri quando ne sonoprivati gli occhi. Pose adunque Amore nel mio cuore,secondo la sua usanza, la bella inmagine della donnamia, per grazia o virtù che fusse nel cuore mio, cioè oper una particulare grazia di Amore verso di lui, che lofe’ degno di sì degna inmagine, o per virtù, essendo giàfatto gentile. Quando venne questa inmagine nel cuore,spense e scacciò da lui tutte l’altre impressioni che perqualunque desire fussino nel cuore mio, e solo vi rimasela bella inmagine della mia donna. In quel giorno che io

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composi el presente sonetto avevo con assai passi e tem-po cerco di vedere gli occhi della donna mia, e certa-mente invano, perché mai ebbi grazia di vederli quel dì.Cercavo adunque con le mie lacrimose luci le luci cheavevo perdute, cioè gli occhi della donna mia, e qualinon potevo trovare: di che certamente intollerabile tor-mento sentivo. Ma non sendo possibile che altrimentifussi, ricorsi a quello unico rimedio che mi aveva con-cesso Amore, e, lasciato il cercare con li occhi la donnamia, rifuggi’ al cercarne col pensiero; al quale domandaila salute mia, cioè che lui almeno mi mostrassi la miadonna, perché in potenzia sua era il mostrarmela, non siascondendo ella già mai da lui, perché el pensiero la ve-de sempre. Furono essauditi e miei prieghi benigna-mente dal pensiero, e subito mi mostrò la donna mia so-la; e in mezzo del cuore non erano altri pensieri, comedicemmo di sopra: ma non vi potevano essere, perchéessendo el mezzo del cuore fondamento de’ pensieri,come el centro fondamento della terra e di tutto el mon-do, non si poteva fondare pensiero alcuno se non nelladonna mia, e tutti gli altri che avessi fatto el cuore, sepure avesse potuto, sarebbono suti come sono tutte lecose sanza fondamento. Era adunque madonna in mez-zo del cuore, e intorno a lei erono tutti e desiderii miei:che per questo si verifica che né li pensieri pensavonoad altro, né ‘1 desiderio appetiva altra cosa; e natural-mente el luogo e fonte de’ desiderii è il cuore, per laconcupiscibile, che è virtù e potenzia del cuore. Soccor-se Amore col pensiero al difetto degli occhi; né di que-sto advenne altro che accumulazione di pene, perché,come dicemmo nel comento del sonetto che cominciaAllora che io penso etc., la inmagine della cosa amatamultiplica el desiderio della vera: come advenne ancoraa quel tempo, perché del vedere la donna mia drento almio cuore s’accese uno nuovo e maggiore desiderio del-la donna mia. E perché pare impossibile che a tanto

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fuoco el mio cuore potesse resistere, che ardendo non siconsumasse e divenisse cenere, si pone, per fare credibi-le questa maraviglia, el rimedio che non lasciava consu-mare el cuore, cioè la forza de’ sospiri, e quali, come ab-biamo detto, naturalmente sono dal cuore generati persuo refriggerio et essalazione contro alla suffocazioneche l’offende, pel concorso delli spiriti vitali.

XXVII

Più dolce sonno o placida quïete già mai chiuse occhi, o più belli occhi mai, quanto quel che adombrò li santi rai delle amorose luci, altere e liete. 4

E mentre stiêr così, chiuse e secrete, Amor, del tuo valor perdesti assai, ché lo imperio e la forza che tu haila bella vista par ti presti e viete. 8

Alta e frondosa quercia, che interponi le frondi tra ‘ belli occhi e ‘ febei raggi e subministri l’ombra al bel sopore, 11

non temer, benché Giove irato tuoni, non temer sopra te più folgor caggi,da quei grati occhi consecrata a Amore. 14

XXVIII

Odorifera erbetta e vaghi fiori, che ornate il prato come il ciel le stelle, le dolcemente fatigate e bellemembra vedesti in mezzo ai bei colori! 4

Alto e dolce pensier suo, quanto onori le cose di cui tacito favelle! O me felice, che allor fui di quelle

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(che ‘1 dice Amor, che ha in pegno i nostri cuori)! 8Aura süave, quale or togli or rendi

a·llei la vista del febeo splendore, movendo i rami e insieme l’ombra intorno! 11

Alla alta quercia i tuoi trofei sospendi,o dolce sonno, e non si sdegni Amorese trïunfasti de’ belli occhi il giorno! 14

Se io potessi a uno a uno gli atti e amorosi accidentidella donna mia proseguire, certamente molto maggioreornamento ne riceverebbe questa nostra amorosa istoriae molto più laude la donna mia, perché veramente ogniatto, ancora che minimo, della vita sua è suto degnod’essere celebrato da me. E, avendone io gran parte pre-termesso, ne do cagione solamente alla abundanzia e co-pia delle cose; perché a me è accaduto come a uno, elquale, sendo in mezzo d’uno amenissimo prato, el qualeproduce diversi colori di fiori, e volendo còrre de’ piùvaghi, non sa a qual prima porre la mano: perché la qua-lità della bellezza fa più difficile la elezzione, essendol’appetito nostro tirato più da quelle cose che più piac-ciono. Non potendo io adunque còrre tutti e fiori delloexcellentissimo prato della donna mia, né proseguiretutte le laude sue, né sappiendo eleggere qual prima me-ritassi essere da me còlta e celebrata, a caso errando conla mano quelli primi fiori che la sorte mi ha mostro hocòlti, faccendone più tosto giudice la fortuna che la miaelezzione.

Era, come nel precedente sonetto abbiamo detto, ladonna mia absente, come mostra averla io cercata assaicon li occhi e solo trovatola col pensiero. Trovandosi el-la adunque in una villa non molto lontana dalla città, maposta in luogo che non poteva vederla, mosse e passisuoi e, montando per uno monte assai alto e silvestre,pervenne in parte onde facilmente la città, dove io ero,poteva vedere, credo pensando potere dare qualche re-

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friggerio o presente o futuro alla afflizzione la quale ve-deva in me per l’absenzia sua. Era questo luogo salvati-co, come abbiamo detto, e ‘1 terreno coperto d’erba e difiori, il quale una vecchia quercia adombrava; et essendopure la donna mia, pel cammino erto e difficile, alquan-to affaticata, e vedendo sì bello luogo, deliberò fare de-gna quella erba e que’ fiori che fussino letto e piuma alsuo gentilissimo corpo. E dapoi che alquanto, così gia-cendo, contemplò la terra e luogo dove io ero, avuti al-cuni dolcissimi e amorosi pensieri e mossa da quellapietà dell’afflizzione mia, vinta finalmente dal sonno,s’adormentò, aiutando el sonno l’ombra di quella quer-cia e una aura dolce estiva, la quale, movendo e ramidella quercia e gli altri arbori vicini, con mormorio an-cora quel dolcissimo sonno nutriva.

Questo atto amoroso intendendo io, giudicai degnodelli sopra scritti due sonetti, delli quali il primo contie-ne che, poi che la natura concesse sonno agli occhi uma-ni, più dolce sonno o più quieto riposo non serrò occhiomortale, né ancora il sonno mai chiuse più belli occhiche quelli della donna mia. Quello che faceva el sonnosopra tutti gli altri dolcissimo era l’ombra, la mollizie delluogo ove giaceva lei, la dolcezza del venticello, el mor-morio degli arbori che di necessità da quello nasceva e lafatica che era preceduta: che tutte sono cose che dannoforza al sonno. Che quelli occhi fussino così belli comeabbiamo detto, non posso assegnare altra ragione che lamia oppinione, fondata in sugli effetti che in me facevo-no; e se erono così belli, di necessità seguiva che Amoreda loro avesse gran forza. E però, stando serrati dal son-no e celandosi quella amorosa luce al mondo, di neces-sità il valore e forza d’Amore ne sentiva detrimento as-sai, perché la vista sua gli dava e toglieva la forza.Siccome adviene ad alcuna spezie di fiori, li quali siaprono venendo il sole e dipoi nell’occaso si riserrano,in modo che quelle tali erbe il dì sono fiorite e la notte

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private dell’ornamento de’ fiori, così diremo che i cuorigentili, pel sole degli occhi amati, si aprono a ricevere leinfluenzie amorose, le quali quando mancassino si riser-rerebbono; e acciò che mai non si serrino, fa la virtùd’Amore per mezzo di quelli occhi tale impressione, chepossono dire già mai essere sanza sole. Amore adunque,che fa sentire la virtù sua per mezzo degli occhi, quandomancassi quella visione perderebbe la sua virtù.

Ora, tornando al sonno, si può facilmente compren-dere che, essendo tanto suave quanto abbiamo detto, al-la donna mia fussi molto grato; e però, come quella chein tutte le cose era sommamente gentile, come grata, re-tribuì qualche gratitudine a tutte le cose che avevanoavuta parte e cagione di tanta dolcezza. E però alla erbae fiori, che sanza durezza e morbidamente avevono rece-vute le sue membra e fattali così ornata piuma e delicatoletto, dette uno dono gratissimo, d’essere sute tocche epremute da sì pulite membra; l’aura, che aveva mosso gliarbori e rinfrescato l’aria, similmente toccò el suo bellis-simo corpo; l’ombre ancora, sopra a quel viso bellissimoe l’altre membra, a loro piacere errando, erano vagante.Restava solamente la quercia, non minima cagione diquesta dolcezza, perché era suta cagione dell’ombre lequali aveva subministrate a quel bel sonno; e acciò chequesta ancora sanza parte di premio non restassi, gli oc-chi della donna mia KlaL consecrorono ad Amore, libe-randola dalle percosse e impeti de’ fulmini e tempestosesaette: perché la quercia, essendo l’arbore di Giove, piùspesso è percossa che gli altri arbori dalle sue saette; inluogo delle quali, da quel tempo in qua che soprastette aquelli belli occhi, sarà più tosto recettaculo delle saetteamorose, poiché quelli occhi grati ad Amore l’hannoconsecrata.

E perché nel primo sonetto non è fatta menzione al-cuna del praticello sopra el quale giaceva la donna mia,né dell’aura suavissima (due cagioni, secondo abbiamo

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detto, assai efficace di quello bellissimo sonno), perchéè difficile fare capace la brevità del sonetto di molte co-se, se ne fa menzione nel sequente, che comincia Odori-fera erbetta etc., dove si vede che con somma dolcezzael mio pensiero, rimembrava tutti quelli amorosi acci-denti; né sanza qualche invidia di quella erba e fiori mis’apresentò quell’atto, che fussi ricevuta da loro la don-na mia così dolcemente affaticata. E però, volgendomi aquella erba e fiori, chiamandola odorifera e ponendo lavarietà de’ fiori simile alla distinzione che fanno le stellenel cielo sereno, si dà quelle proprietà quasi che puòavere el prato, cioè l’odore e la bellezza. E perché ab-biamo detto che la donna mia, così giacendo, ebbequalche amoroso pensiero di me, e questo era impossi-bile a sapere se non per chi ne KudisseL e pensieri, s’in-troduce Amore per testimonio di questa occulta visio-ne, come quello che udì parlare tacitamente la donnamia di me, che, per essere degno d’entrare in sì alti edolci pensieri, felicissimo mi potevo chiamare; perché ilpensare non è altro che uno tacito parlare, perché chipensa, inmagina quelle cose KeL in sé medesimo le chia-ma per li nomi loro: onde si può dire veramente il pen-sare essere uno parlare tacito. Discorre poi el pensieromio a tutte l’altre circunstanzie, come fu ancora quelladell’aura, o vogliamo dire piccolo vento, e, quasi rife-rendogli grazia, mostra lo effetto che faceva: perché,movendo e rami, che per la interposizione loro tra ‘1sole e gli occhi suoi facevono ombra, di necessità biso-gna l’ombre ancora si movessino, e però quelli occhi ta-lora potevono vedere il sole, talora no. Et essendo que-sti occhi di tanta perfezzione e bellezza chesignoreggiavono Amore, come di sopra abbiamo detto,gloriosa vittoria fu quella del sonno quando vinse sì bel-li occhi; e acciò che fussi perpetua e memorabile, dove-va el sonno appiccarne all’alta quercia e trofei con lespoglie degli occhi già da lui vinti: siccome solevano gli

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antichi Romani, e quali ebbono in consuetudine, quan-do vincevano qualche potente e famoso inimico, piglia-re le spoglie sue e vestirne el troncone d’uno arbore permemoria della ricevuta vittoria. Bisogna vedere che fus-sino le spoglie di quelli belli occhi, per vedere di checosa doveva vestire el sonno il troncone della quercia;né si può interpetrare che gli occhi della donna mia fus-sino vestiti d’altro che di belli e amorosi sguardi e d’unaamorosa luce, che solo dagli occhi degli innamoratisuole lasciarsi vedere. Questi sguardi e luce amorose,adunque, doverono certamente restare come stigmatenel tronco della quercia; e di questi spogliò el sonno ladonna mia, subito che chiuse quelli belli occhi; e diqueste spoglie credo sia ancora ornata quella quercia.Né Amore di questo triunfo del sonno si debba sdegna-re, se è vero quello che abbiamo detto, che gli occhisuoi signoreggiassino Amore, dandogli e togliendo for-za, avendo poi el sonno superati quelli belli occhi.

XXIX

Tante vaghe bellezze ha in sé raccolto il gentil viso della donna mia, che ogni nuovo accidente che in lui siaprende da·llui bellezza e valor molto. 4

Se di grata pietà talor è involto, pietà già mai non fu sì dolce e pia;se di sdegno arde, tanto bella e riaè l’ira, che Amor triema in quel bel volto. 8

Pietosa e bella è in essa ogni mestizia, e se rigano i pianti il vago viso, dice piangendo Amor: «Questo è il mio regno!». 11

Ma quando il mondo cieco è fatto degno che muova quella bocca un suave riso,conosce allor quale è vera letizia. 14

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Grandissimo argumento mi pare di excessiva poten-zia quando alcuna virtù nelle cose contrarie e diverse traloro opera potentemente, faccendo ancora qualche voltaeffetti quasi fuora d’uno naturale ordine dell’altre cose;e perché questo spesse volte accade nella vita degliamanti, gli abbiamo chiamati di sopra «miracoli amoro-si». Che grandissima fussi la potenzia della bellezza del-la donna mia intende provare el presente sonetto, per lieffetti diversi et extraordinarii che in me faceva. Perché,contemplando io la bellezza del viso suo in diversi acci-denti e passioni, mi pareva che tutte le passioni che ap-parivano o dimostravansi in quel bel viso, e ne divenissi-no più belle e ricevessino più forza, cioè movessino piùpotentemente in altri o timore o pietà o dolore o letizia;movendo non solamente potentemente, come è detto,secondo la qualità delle passioni, ma servando sempre labellezza e la grazia, le quali in alcune passioni, come è iltimore e ‘1 dolore, pare quasi impossibile si possinoconservare. Perché, chi teme, di necessità ha in odio lacagione del timore; questo medesimo adviene a chi sen-te dolore, perché, potendo, fuggirebbe la cagione d’es-so, e quelle cose che si fuggono non s’amano. E perògrandissima potenzia era quella di questa bellezza, aven-do forza, movendo timore e dolore, d’essere ancora inqueste tali passioni desiderata e amata. Introduce adun-que el presente sonetto quattro passioni solamente, cioèla pietà, l’ira, il dolore e la letizia, le quali dal viso delladonna mia pigliano più forza e più bellezza. E, comin-ciando dalla pietà, mostra che quando la pietà viene inquel bel viso, non trovò mai luogo o domicilio alcunodov’ella paressi più veramente pietà, né dove paressi piùdolce e pia; et essendo per sé la pietà bella, basta sia fat-ta menzione solamente della forza che piglia, presupo-nendo la bellezza. Venendo dipoi all’ira, propriamente èdetta ardere d’ira e di sdegno, perché «ira» non è altroch’uno accendimento della collera intorno al cuore, e gli

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effetti dell’ira sono comunemente simili a quelli del fuo-co, che presto fa gli effetti suoi; e quelli che sono di na-tura collerica e calda sono più disposti all’ira. Ardendoadunque quel bel viso d’ira, diventa più bello e rio, cioèpiù da temere, come mostra lo essemplo sequente: per-ché, tremando Amore nel viso suo, è segno manifesto eltimore della potenzia di quell’ira, e il non si partire diquel viso non obstante il tremore (che dimostra il timoreessere grandissimo) mostra assai chiaro la bellezza esse-re quella che lo ritiene, perché, se questo non fusse, il ti-more caccerebbe Amore. Questo medesimo advienenella mestizia e dolore della donna mia, la quale, moven-do a lacrime ancora Amore e, così piangendo, afferman-do lui el viso di lei essere il regno e l’imperio suo, mostrala medesima forza e bellezza nel dolore che primanell’ira. Nasce poi di queste premisse molto bene la con-clusione del sonetto, perché, se la bellezza di quel visoha avuto forza di parere più bella in quelli accidenti chesogliono obscurare e diminuire la bellezza, fortificandoquesti tali accidenti oppositi alla bellezza, molto più fa-cilmente può crescere in bellezza negli accidenti che na-turalmente subministrono forza alla bellezza, tanto piùfortificando questi accidenti: come adviene nella letiziadella donna mia. Era la donna mia per sé bellissima; laletizia per sé in qualunque persona è bella; se adunquequella per sé è bella e lo accidente ancora è bello, exces-siva bellezza era quella quando si congiugneva insiemesì bella natura e sì bello accidente, presupposto chel’uno e l’altro pigliassi forza per tale congiunzione, comedi sopra abbiamo detto dell’altre passioni, e che ancoral’accidente fussi per sé fortissimo e quasi in supremogrado: come mostra il riso, che è maggior segno di letiziache faccino gli uomini, come il pianto del dolore, il qua-le similmente di sopra è posto per segno d’excessivo do-lore. Credendo adunque tanta bellezza e dolcezza insie-me, si può dire questa bellezza essere al mondo non

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solamente maravigliosa, ma forse non più veduta (e peròveramente il mondo potersi chiamare «cieco«), e dovereproducere in chi la vede quello che si può chiamare veraletizia e beatitudine.

XXX

Lasso!, che sento io più muover nel petto? Non già il mio cor, che s’è da me fuggito. Questi spessi sospir’, s’ei se n’è gito, a cui dan refrigerio, a cui diletto? 4

Li alti e dolci pensier’ del mio concettochi muove adunque, se il core è smarrito? Amor, che ‘1 fece al fuggir via sì ardito,questo me ne ha con la sua bocca detto: 8

– Quando i belli occhi prima la via fero, entrò la bianca mano e ‘1 cor ti tolse, e in cambio a quello un più gentil ne misse; 11

questo in te vive, e ‘1 tuo, fatto più altero, in più candido petto viver volse.Questo è de’ miei miracolil – Amor disse. 14

Ancora che in molti e diversi modi la donna mia dessiassai evidenti argumenti dello amore e pietà sua verso dime, come già in più luoghi abbiamo mostro, nessunopiù efficace ne dette, né poteva mai dare, che quello elquale contiene el presente sonetto; né io da lei potevomaggiore dono ricevere, perché maggiore dono non puòessere che quando altri dà e quello che è suo e quelloche è carissimo al donante. Secondo Epitteto, K«in nobisquecumque nostra sunt opera«L, però nessuna cosa pos-siamo chiamare nostra al mondo se non la oppinione,perché tutte l’altre cose o sono della fortuna o sono del-la natura. E che questo sia vero, si manifesta perché e lanatura e la fortuna spesse volte contro alla voglia nostra

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ce ne privano. E però, sanza extendersi in molte cose,per essere tali conclusioni molto trite e provate, confes-seremo essere nostra solamente l’oppinione, come è det-to, la quale è sempre libera, né può da alcuna cosa esse-re forzata. E, a mio giudicio, chi fa menzione dellaoppinione, di necessità presuppone la voluntà, la qualenon è altro che desiderio di quello bene che alla oppi-nione pare bene; e per questo si può dire, se bene la op-pinione e voluntà non sono una cosa, essere tanto similee prossime, e di necessità l’una con l’altra congiunte, chea me non sia inconveniente parlare dell’una comedell’altra: perché queste mie non sono diffinizioni, mapiù tosto parole largamente e liberamente dette. Seadunque sola la oppinione e voluntà è nostra, chi donaquesta tale cosa dona tutto quello che possiede per suo;e chi dona tutto el suo, di necessità dona una cosa che aldonante è carissima, e però non può fare maggiore do-no. Intendesi largamente in questi versi amorosi per laoppinione e voluntà nostra el cuore; e però, avendo fat-to la donna mia una conmutazione del suo cuore al mio,cioè tolto el mio per sé e a me donato el suo, come mo-stra el presente sonetto, nessuno maggiore dono mi po-teva dare, né fare più evidente segno che io fussi pienodella grazia sua. E perché parrebbe, la mia, grandissimaarroganzia, persuadendomi questo essere vero e faccen-do me medesimo auttore e degno di tanto bene, sanza eltestimonio della donna mia, mi accade dire el vero diquesto amoroso processo, e per fuggire la colpa della ar-roganzia detta e pel contento che mi reca al cuore la dol-cissima memoria di quello atto amoroso.

Ero in parte che assai vicino mi trovavo al viso delladonna mia, e riguardandola fisa, per la dolcezza cheporgevono gli occhi suoi quasi attrito e indebilito, soste-nevo col mio destro braccio la testa. Lei, pensando didarmi qualche conforto, con uno gentile modo appres-sandosi più a me, pose la candida sua mano sopra la si-

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nistra parte del petto mio; e tenendola per alquanto spa-zio ferma, io la dimandai assai timidamente quello cheintendessi fare. Lei con una onesta baldanza rispose chestava a udire muovere el cuore suo; e io a·llei: – Vera-mente e questa e ogni altra cosa che vive in me è vostra.– Lei, subiungendo, disse: – Io dico veramente questoessere il cuore che già viveva in me, che ora in te vive, equello che prima era tuo conservo io nel mio petto. –Quello che mi paressino sì dolce parole e che effetto fa-cessino in me, lascio qui giudicare a coloro a’ quali è no-ta la fiamma e forza amorosa, perché, come dice Dantein una sua canzona, «non è di core villano sì alto inge-gno, che possa inmaginare di questo alquanto». Parten-domi dipoi da lei e considerando qual fussi più, o la gen-tilezza di quel parlare o l’amore che per questodimostrava, diliberai fare el presente sonetto e li dui se-quenti nella medesima invenzione, ancora che concludi-no diversamente se bene quello amoroso parlare e quel-lo atto gentilissimo fussino degni d’altra lingua che lamia per farne memoria.

Fingo adunque, ancora che la istoria sia sopra detta,io medesimo sentire nuovo moto nel petto mio, e conqualche ammirazione domando me medesimo della ca-gione, maxime perché, essendo fuggito il mio cuore dame, come di sopra in più luoghi abbiamo detto, non po-teva essere la cagione di quel moto dal mio cuore. Elmoto adunque, e li spessi miei sospiri, che naturalmentesono ordinati per refrigerio del cuore, mostravano pureche uno cuore dovessi essere quello che nel mio petto simoveva. Mostravano ancora questo medesimo gli alti edolci pensieri che concepeva la mente mia, li quali dove-vano essere similmente mossi dal cuore, non come luogode’ pensieri, ma come cagione; perché, essendo il cuorequello che desidera, quelli pensieri erano dal cuore, per-ché non erano altro che un desiderio della donna mia.Et essendo i pensieri alti e dolci, cioè più degni che a me

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non si conveniva, comincia’ poi in me medesimo a cre-dere che più degna cagione che non era il mio cuore glimovessi. In mezzo a questi miei dubii soccorse Amore,el quale, essendo stato quello che aveva fatto ardito ilmio cuore a fuggirsi (come mostra quel sonetto che co-mincia Lasso a me!, quando io sono là dove sia), sapevaveramente il mio cuore essere fuggito, e però con la suabocca mi manifestò questa verità: che interpetrando se-condo il vero, come abbiamo detto Amore fu la donnamia, che con la bocca sua mi manifestò questo amorosomiracolo; el quale fu questo: che quando Amore primafece la via agli occhi della donna mia, per la quale entro-rono al cuore, allora quella gentilissima mano entròdrieto agli occhi nel petto e ne trasse il cuore mio (comemostra el sonetto che comincia Candida, bella e delicatamano), e in luogo del mio cuore pose quello della donnamia; e perché questo, pare cosa mirabile e inaudita, su-biunse Amore questa essere opera maravigliosa dellapotenzia sua. E considerando veramente, Amore non èaltro che una transformazione dello amante nella cosaamata, e, quando è reciproco, di necessità ne nasce lamedesima transformazione in quello che prima ama, chediventa poi amato, per modo che maravigliosamente vi-vono gli amanti l’uno nell’altro: ché altro non vuole infe-rire questa conmutazione di cuori.

XXXI

Quel cor gentil, che Amor mi diede in pegno mirabilmente in cambio al mio, eletto a maggior bene, or vuol lasciar solettoil petto mio, di sì bel core indegno. 4

Io priego il mio che torni; egli è sì degno, che l’antiqua sua sede ora ha in dispetto. Io dico a·llui: – Se non degna il mio petto

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quel core, arà te, cor, quel petto a sdegno. 8Misero, che farai? – E lui risponde:

– Starò in essilio in quelle luci belle, se pur cacciato son sanza riguardo: 11

queste non mi può tòr, né Amor le absconde.E tu arai di me spesso novellepe’ dolci raggi di quel bello sguardo. – 14

Sogliono quelle cose che per la excellenzia e degnitàloro excedono e meriti di chi le riceve parere ancora po-co durabili, perché ogni excesso è di questa natura; eperò si vede talora quelli temere più, che sono da infimogrado venuti in grande condizione. Oltra questo, secon-do il corso delle cose umane, quelli che sono in maggio-re felicità constituti debbono più che gli altri temere, es-sendo la felicità umana el più delle volte brieve e pocostabile. Queste condizioni erono in me, per quanto mo-stra il precedente comento, perché, essendo il mio pettofatto recettaculo del cuore della donna mia e il cuoremio altero e troppo nobile essendo ito ad abitare nelcandido petto di quella, e mi pareva cosa molto sopra limeriti miei, e mi pareva tanto maggiore per essere diumile luogo in un tratto essaltato a tanto bene, e felicis-simo sopra ogni altro per questo mi riputavo. Dovevoadunque per tutte queste cagioni temere, e parevamiquasi impossibile conservarmi lungo tempo in tanta feli-cità; e ancora che la constanzia e fede della donna mianon mi dessi cagione alcuna di dubitare, mi pareva adogni ora il cuore della donna mia, el quale in me vivevaperché Amore per pegno del mio me lo aveva dato, dame si volessi partire e lasciare di sé solo il mio petto. Fa-cevami questo dubio pensare di richiamare el mio cuorea me, pregandolo che tornassi; ma essendo lui eletto amaggiore bene, cioè per stare nel candido petto delladonna mia, era fatto sì degno e in tal modo insuperbito,che aveva in dispetto el petto mio, dove prima soleva

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stare, né tornare a me voleva. Io, credendo che di questofussi cagione perché lui avessi oppinione di potere starsinel petto della donna mia, proposi al cuore mio, acciòche tornassi, che quando il cuore della donna mia nondegnassi di stare più nel mio petto, el petto suo simil-mente non degnerebbe di ricettare più el mio cuore; e diquesto poteva nascere che il cuore mio, a un tempo, perelezzione sarebbe privato del petto mio e per necessitàdi quello della donna mia, quando da lei fussi cacciato.Risponde il cuore a questo dubio che, quando bene fus-si cacciato da lei, starà in luogo donde non potrà essercacciato, cioè nelli occhi della donna mia, perché Amoree lei fanno che quelli occhi sieno comuni a ciascuno; e,stando in quelli occhi, non sospiri, non parole, non altrosegno che proceda dal cuore diranno novelle a me delcuore mio, ma li sguardi solamente della donna mia, equali spesso ne diranno novelle perché spesso da me sa-ranno veduti gli occhi suoi.

È necessario intendere el naturale processo di questosonetto, col quale queste amorose fizzioni debbono qua-drare. Nasce amore allo amante e va nella cosa amata, ecosì prima si fugge il cuore dello amante alla cosa amata;nasce dipoi amore reciprocamente nella cosa amata, e al-lora si fa la conmutazione che abbiamo detta de’ cuori;nasce dipoi la gelosia, vera miseria delli amanti, perché ètormento inmortale, e allora nasce il dubio che il cuoredella amata non si torni a·llei; e di questo un pensiero diritrarre lo amore suo dalla cosa amata, e questo è revoca-re el cuore suo a sé. Ma perché il vivace amore cresce nel-li affanni, non può impetrare lo amante di ritrarre l’amo-re suo, ma necessario li bisogna continuare in esso; ebenché fra sé stesso assai certo si giudichi non potere ave-re alcuna dolcezza, anzi affanni e tribulazioni, non sendoamato dalla cosa amata, né essendo mai libero da gelosia,si riduce infine per necessità a prendere quello che più fa-cilmente può avere dalla cosa amata; e non potendo avere

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il cuore suo, non si parte però el cuore dalla amata, mafermasi nelli occhi della amata, cioè gode le exteriori bel-lezze e con esse si conforta, poiché del cuore cioè amoredella amata non può disporre. E allora li sguardi delli oc-chi amati fanno segno dello amore che è in lei, perché e lapietà e l’amore, e così lo sdegno e l’ira, qualche volta persegno delli occhi si comprendono; e di questo s’ha spessonovelle, perché la visione della amata male si può celaredalli occhi o diventare invisibile, e lo amore tanto piùmuove e incita l’amante a vedere spesso l’amata, quantopiù mancano l’altre cose che solevano consolare la mente.

Tutti questi affetti vorrei fussino meglio expressi nelsonetto, per levare ogni difficultà a quelli intelletti chefaranno degni e versi miei della loro cognizione.

XXXII

– Amorosi sospiri, e quali uscite del bianco petto di mia donna bella,ditemi del mio cor qualche novella,qual voi sì dolcemente in lei nutrite. – 4

– Stassi lieto il tuo cor, quïeto e mite, mille dolci pensier’ movendo in quella, co’ qual’ sovente e con Amor favella alte cose e gentil’; né voi l’udite. – 8

– Sospir’ benigni, ora è ver quel che io sento da voi? –Sì, certo! – Almen ditemi ancora«se là dove è starà il mio core assai –. 11

Mentre che io parlo, e lor sen vanno in vento. Amor sopra il suo petto giura allorache a me il mio cor non tornerà già mai. 14

Truovonsi scritte due sentenzie contrarie, e nondime-no spesso verificate nelle umane azzioni, per che si dice«e miseri facilmente credere quello che desiderano», e,

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contro a questo, che «a gran speranza uomo misero noncrede». Io penso che la diversità delle oppinioni sopradette nasca più presto dalla natura di quelli che speranoe desiderano alcuna cosa, che dalla ragione, presupostoche l’una e l’altra oppinione abbi cagioni equali, chenon inclinino per sé più ad una parte che all’altra. Eperò credo che quelli uomini che di natura sono malin-conici sieno di manco speranza che gli altri, e tanto piùquanto nella vita loro hanno avuto la fortuna così adver-sa, che poche cose hanno consecute secondo il desiderioloro. Abbiamo nel principio detto ogni forte amore pro-cedere da forte imaginazione, e questi tali amanti di na-tura essere malinconici: io confesso essere di quelli checon grandissima fervenzia ho amato, e però come aman-te ragionevolmente dovevo dubitare, più che sperare;aggiunto a questo che in tutta la mia vita, advenga chepiù onore e grado abbi consecuto che a me non si con-veniva, pure rari piaceri e poche altre cose secondo ildesiderio mio ho vedute: dico di quelle cose che per re-frigerio delle publiche e private fatiche e pericoli qual-che volta ammette lo animo nostro, ancora che conten-tissimo viva e che molto mi appaghi della mia sorte.Dovevo adunque, e per le ragioni nel precedente co-mento scritte e per le presente, ragionevolmente dubita-re; et essendo una volta nel cuore mio nato el sospetto,grandissima e intollerabile passione, m’insegnava la na-tura fare ogni cosa per cacciarlo da me. E dubitando,come molto mostra el precedente sonetto, el mio cuorenon fussi cacciato del petto della donna mia, né sapendobene se quivi o altrove fussi, mi parve dovere intendernenovelle da chi veniva dal luogo medesimo; e nascendo esospiri dal proprio luogo ove sta il cuore, loro me ne po-tevano dire el vero. E però il presente sonetto, compostoper dialago, si dirizza e parla a quelli sospiri che usci-vano del petto della donna mia, e quali inmedïate veni-vano dal cuore mio, se era in quel petto. E, per tòrre

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confusione, è da notare che li primi quattro versi parloio a’ sospiri sopra detti; nel secondo quadernario rispon-dono e sospiri a me; dipoi tutto el nono verso e il princi-pio del decimo, cioè quella parola che dice da voi, parlopure io ai sospiri, e la sequente parola, dove dice Sì, cer-to!, rispondono e sospiri a me; tutto el resto del sonettoparlo poi io, parte ai sospiri e parte per narrazione.

Ora, tornando al principio, è da notare che, parlandoio a’ sospiri della donna mia e chiamandoli amorosi, cioèmossi da Amore, o era o volevo che paressi che fussiqualche speranza mescolata col dubio; come mostra an-cora perché, domandandogli io che mi dicessino novelledel mio cuore, quale loro nutrivano dolcemente nel pettosuo, già avevo oppinione e che el mio cuore vi fussi e chefussi bene trattato da lei. E veramente è detto che i suoisospiri nutrivano el cuore mio, perché lui stava in quelpetto dove era ancora Amore, sanza el quale el mio cuorenon vi poteva stare; e però la cagione che moveva e so-spiri veramente nutriva dolcemente il mio cuore e lo con-servava in quel petto, perché e sospiri erano mossi daAmore. Rispondono e sospiri il mio cuore starsi lieto,quieto e pieno d’umiltà e di dolcezza, et esser cagione dimolti dolci e amorosi pensieri nella donna mia, con equali pensieri e con Amore parla spesse volte molti altimisterii amorosi e cose molto gentili. E per questo si mo-stra non solo il mio cuore era in quel petto, ma già vi abi-tava come familiare di esso e domestico, poiché intende-va tutti e pensieri della donna mia: e quali li altri nonpossono intendere, cioè quelli che da Amore non sonofatti degni e gentili, come era il cuore mio. Fu tanto mag-giore la dolcezza che per questa desiderata novella mivenne, quanto era suta maggiore la dubitazione, comesempre adviene di qualunque sperata allegrezza. E, quasinon credendo che possibile fussi quanto avevono riferitoquelli amorosi sospiri, di nuovo gli domando se è vera laloro relazione. Loro risposono in confermazione una

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brevissima risposta, cioè «Sì, certo!»; né potevano piùlungamente rispondere, come mostra el sequente del so-netto, perché, facendo io loro una nuova interrogazione,non bastò lo spirito a que’ sospiri in modo che potessinopiù rispondere. E qui è da notare che tutto quello cheparlano e sospiri predetti in questo sonetto sono tanteparole, quante naturalmente potrebbe dire uno commo-damente con uno spirito, cioè sanza riavere l’alito; eperò, finita quella forza che portava seco lo spirito d’unsospiro, ragionevolmente più parole non doveva dire. Ese bene io gli chiamo «sospiri», in plurale, cioè piùd’uno, bisogna imaginare che e sospiri della donna miafussino più, ma che uno solo contenessi la risposta. È na-tura di chi ha conseguito qualche gran bene fare ogni co-sa per conservarlo e farlo diuturno; e però, avendo io giàquello che desideravo sentito dello stato del cuore mio,desideravo ancora intendere quanto dovessi essere dura-bile e diuturna questa sua tale beatitudine: e però do-mandai li spiriti quanto fussi per stare il cuore mio inquel petto. Et essendo già, come abbiamo detto, manca-to quello spirito, e li sospiri già resoluti in vento, non po-terono rispondere. Amore allora, che secondo che di so-pra abbiamo detto era in quel luogo donde venivano lisospiri, in supplemento loro risponde, giurando sopra ilpetto suo che ‘1 mio cuore starà sempre con la donnamia, né già mai tornerà a me, assicurandomi col giura-mento, come da principio aveva assicurato el cuore mioquando prima partì da me, come mostra il sonetto checomincia Lasso a me!, quando io sono là dove sia.

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Ove madonna volge li occhi belli, sanza altro sol la mia leggiadra Flora fa germinar la terra e mandar fora

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mille varii color’ di fior’ novelli. 4Amorosa armonia rendon li uccelli

sentendo il cantar suo, che l’innamora; veston le selve i secchi rami, allora che senton quanto dolce ella favelli. 8

Delle timide ninfe a’ petti casti qualche molle pensiero Amore infonde,se trae riso o sospir la bella bocca. 11

Or qui lingua o pensier non par che basti a intender ben quanta e qual grazia abonde, là dove quella candida man tocca. 14

Era del mese d’aprile, nel quale, secondo la comuneconsuetudine della città nostra, li uomini volentieri in-sieme con la loro famiglia nelle dilettevole ville a·lloroconsolazione si stanno, perché in quel tempo l’anno ètanto più bello, quanto è la prima iuventù più bella chetutte l’altre età delli uomini; e, oltre a questo, la città no-stra ha vicini a sé molti e delicati e piacevoli luoghi, equali, oltre alla naturale consuetudine, alettano qualchevolta a lasciare le civili e private cure e fruire alquanto dirusticano ozio. In questo tempo, adunque, accadde alladonna mia andare, come molte altre, in una sua dilette-vole villa, ove stette alquanti dì, privandomi della suadesiderata visione; nel quale tempo uno, amicissimo mioe di tanto mio amore verso di lei conscio, mi disse: – Orasi vorrebbe essere nella tale villa a vedere la tua belladonna, perché ora cantano gli uccelli, ora si rinnuovanoe prati d’erbe e di fiori, ora si rivestono gli arbori difronde; le ninfe, li uomini e tutti li animali sentono alpresente più le forze amorose; e però ora sarebbe tempoche tra tanti naturali ornamenti vedessi la tua carissimadonna. – Al quale io risposi che il desiderio mio di ve-derla né cresceva, né poteva per tempo alcuno diminui-re, e che io credevo, ancora che tutto el mondo in que-sto tempo fussi bellissimo e ornato più che in alcuno

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altro, quel paese quale era intorno alla donna mia dove-va essere più bello che li altri, perché dove era lei nonbisognava né sole, né stagione novella, né altra virtù chela sua a fare germinare la terra, fiorire et empiersi difronde li arbori, cantare li uccelli, e li altri effetti chesuole fare primavera.

Finì il nostro parlare in simili parole. E, partito dalpredetto amico mio, tutto pieno di quelli pensieri com-posi el presente sonetto, nel quale mi sforzai exprimereli effetti della virtù della donna mia, li quali operava inquelli salvatichi luoghi dove in quel tempo si trovava;mostrando prima che li occhi suoi avevono la virtù delsole, perché dove ella li volgeva, faceva producere allaterra diversi colori di novelli fiori, chiamandola la bellaFlora in questa parte che faceva nascere e fiori, cioè ladea de’ fiori. Faceva ancora cantare amorosamente li uc-celli, innamorati del canto suo, quando lei sentivanodolcemente cantare; rivestiva delle loro fronde e secchirami di quelli arbori che la vernata perdono le foglie,quando dolcemente parlava. E qui è da notare che nelcantare e nel parlare della donna mia sono comprese treparti, che, secondo Platone, contiene la musica, le qualisono queste: el parlare, armonia e rithmo (che credo siadetta quella che vulgarmente chiamiamo «rima», perché«rithmo» non è altro che un parlare terminato da certamisura, come sono li versi e rime vulgari) . Chiamasi elparlare «musico», ancora che non abbi piedi certi,quando è composto in modo che diletti li orecchi, comesi vede in quelli che «eloquenti» sono chiamati; l’armo-nia è una consonanzia di voce umane, o veramente disuoni, come è notissimo; el rithmo abbiamo detto quel-lo sia. Vedesi la prima spezie di musica, cioè il parlare,expressa nel verso che dice: «che sentono quanto dolcela favelli»; l’altre due, cioè l’armonia e ’l rithmo, si inclu-dono nel canto della donna mia, la quale conviene pre-suporre che cantassi dolcemente certi versi e rime amo-

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rose, delle quali lei sopra modo si dilettava; e io moltevolte li senti’ cantare e delli altri e de’ miei con tantadolcezza e gentilezza, che poi in bocca d’altri non mipotevano piacere. Cantando adunque lei con suavissimamelodia simili versi e rime, abbiamo tutte a tre le speziegià dette della musica. Et essendo così, manca in qual-che parte la maraviglia delli effetti che faceva la donnamia, perché, essendo la musica comune a tutte le cose,che non potrebbono sanza una certa consonanzia esse-re, ragionevolmente per la musica si dovevono muovere:come veggiamo che, temperando due instrumenti dicorde in una medesima voce e mettendo vicino l’unoall’altro, quando l’uno si suona, le corde dell’altro anco-ra si muovono per loro medesime, sanza essere toccheda altri, solamente per la conformità del tuono e simili-tudine di voce che hanno tra loro. Ora, avendo detto disopra due potenzie della donna mia, cioè delli occhi edella armonia etc., e avendo a dire più maravigliosa ope-razione di lei, bisogna ancora assegnarne più potente ca-gione. Perché, ancora che sieno grandi effetti fare ger-minare la terra, cantare li uccelli e vestire li arbori difronde, queste sono tutte cose naturali; ma mettere unaimpressione contraria in uno subietto è maggiore cosa,come è fare che le ninfe, timide e caste, ammettino nelladurezza del cuore loro qualche molle e dolce pensierod’amore: perché lo amore è al tutto contrario alla timi-dità e castità. E però maggior cagione fa questo maggio-re effetto, come è il riso e il sospirare della donna mia, elquale quando viene nella bocca sua muove li pensieriamorosi, come abbiamo detto, nelle ninfe. E che sia piùpotente cagione questa, lo mostra che quella cagione amio parere è più potente a muovere effetto, che mostrain sé maggiore affetto, Kcome mostra in sé maggiore af-fettoL il riso e il sospiro che il guardare, il cantare o ilparlare, come mosterremo; e maggiore affetto mostra ditutti questi il toccare. E però conclude il sonetto che

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questo fa ancora maggiore effetto che li altri, mostrandoche dove tocca la sua candida mano abonda tanta graziae virtù, che non si può né referire né imaginare. E così,delle cose manco efficace per gradi si procede a quelleche sono efficacissime. Perché, presuponendo cheAmore muova tutti li atti che abbiamo detto della don-na mia, cioè il vedere, il cantare, il parlare, il ridere e so-spirare, e ultimamente il toccare, manco affezzione mo-stra il vedere che il cantare, manco il cantare che ilparlare, e così dico di tutti gli altri, insino al tatto. Per-ché, presuponendo essere uno amante innamorato diquesta donna, credo che, se lei lo guarda amorosamen-te, li sarà molto grato, se la sente cantare versi amorosi,li parrà ancora maggior segno d’amore; se la ode parlareseco, lo giudicherà ancora più efficace testimonio delloamore suo; se la vede o ridere o sospirare per amore, liparrà maggiore augumento della grazia sua; e moltomaggiore di tutti se la toccassi. E però tutte queste cosefaranno maggiori o minori effetti in lui, secondo la qua-lità delle cagioni predette. Sono adunque comprese nelpresente sonetto quelle linee, cioè gradi di amore, chepone Ovidio, poeta ingeniosissimo, in quel libro ove dàgli amorosi precetti.

XXXIV

Il cor mio lasso, in mezzo allo angosciosopetto, i vaghi pensier’ convoca e tiratutti a sé intorno; e pria forte sospira, poi dice con parlar dolce e piatoso: 4

– Se ben ciascun di voi è amoroso, pur ve ha crëati chi vi parla e mira. Deh! perché adunque eterna guerra e dira mi fate, sanza darmi un sol riposo? – 8

Risponde un d’essi: – Come al novo sole

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fan di fior’ varii l’ape una dolcezza, quando di Flora il bel regno apparisce, 11

così noi delli sguardi e le parole facciam, de’ modi e della sua bellezza un certo dolce-amar che ti nutrisce. – 14

Ancora che nel comento del sonetto che comincia Po-nete modo al pianto, occhi mia etc., assai dicessimo quan-to fussi misera la condizione umana, e maxime l’amoro-sa, pure, perché non se ne può dire tanto, che non siamolto più, accade nella presente exposizione farne qual-che menzione nuova. Né so quale più efficace argumen-to possa meglio provare la verità di questa cosa, checonsiderando a quello in che l’umana felicità consiste,parlando largamente e secondo la depravata consuetu-dine delli uomini, e mettendo da parte per ora la vera fe-licità, la quale credo in questa vita non si truovi. E peròdiremo quella felicità essere maggiore alla quale procedemaggiore desiderio e ardore; et essendo ogni appetito,quanto è maggiore, più veemente passione, bisogna con-fessare il fondamento di questa felicità essere miseriagrandissima. E che lo appetito sia suo vero fondamentoè manifesto perché, mancando lo appetito, manca anco-ra la volontà: come, per essemplo, chi ha grande appeti-to di mangiare sente con più dilettazione e piacere el sa-pore di quello che mangia, la quale dura quanto dura lafame e con la fame muore; anzi, quello che è piacerementre che è desiderato, quietato tale desiderio, diventacosa molesta e fastidiosa. E per questo si può dire que-sta tale felicità consistere più presto nella privazione diquello che dà molestia, che in cosa la quale porti seco al-cuno bene, et essere una medicina che solamente levidallo infermo il male, sanza fortificare poi la natura odarli virtù alcuna. Come mostra Orazio in una sua epi-stola, quando dice: «Nocet empta dolore voluptas», eavenendo questo in tutte le cose umane, in nello onore,

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nello utile, nella voluttà, è necessario confessare tutta lavita umana, che da queste cose depende, essere una pas-sione, e la felicità sua sempre mista con essa, perché lapassione è sola inmediata cagione di essa e l’accompa-gna come l’ombra el corpo.

Trovandosi adunque in me questo medesimo affetto,e ricevendo io dalli miei pensieri gravissima e continuamolestia, né parendomi potere sanza questi tali pensierivivere, composi il presente sonetto, ad expressione dellostato del cuore mio. El quale, sendo posto in mezzo delpetto mio pieno d’angoscia, e stracco già dalla molestiade’ pensieri, chiama intorno a sé tutti e pensieri, e quali,secondo abbiamo detto, naturalmente sono intorno alcuore come cagione di essi. Di questo adviene natural-mente che il cuore sospira, perché, concorrendo diversepassioni a un tempo, generano sospiri, e per le ragionigià dette. Dopo il quale sospirare il cuore, voltatosi aipensieri, con dolce e pietoso parlare gli priega che deb-bino cessare alquanto di molestarlo e fare pace dellalunga e continua guerra che sanza intermissione li fan-no; mostrando che debbino satisfarli in questo, concio-siacosa che sono suoi figliuoli, creati e generati da lui:perché, ancora che sieno pensieri amorosi, perché d’al-tro non parlano che d’amore, il cuore gli ha fatti amoro-si, e però altro padre che lui non debbono riconoscere,e, come figliuoli, non gli dare tanta molestia. A questapietosa proposta risponde uno de’ pensieri già detti,mostrando in effetto loro essere cagione della vita delcuore, e faccendo comparazione che, come le pecchie laprimavera, quando Flora di fiori adorna il mondo, fannodi diversi fiori una sola dolcezza, cioè il mèle, così li mieipensieri, di diverse bellezze della donna mia generanonel cuore una certa dolcezza mista con amaritudine, on-de il cuore si nutrisce e vive; mettendo nella donna miali sguardi, le parole, e modi e l’altre bellezze sue comestanno fiori in un prato, ove diversamente pascendosi, e

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miei pensieri generano questa amara dolcezza, per le ra-gioni dette di sopra: che alcuna voluttà del mondo non èsanza mistione di passione (ancora che ne’ pensieri amo-rosi si vegga più distinto lo amaro dal dolce, benché sie-no misti insieme) e che grandissima dolcezza è contem-plare e inmaginare tante maravigliose bellezze nelladonna mia, KmaL grandissimo tormento e amaritudine èpoi desiderarle et esserne privato. E KperchéL il cuore, ti-rato dalla dolcezza detta, non può fare che non pensi al-la donna sua, e li pensieri di necessità portono seco an-cora el desiderio, cioè la privazione di quel bene,veramente è detto el cuore nutrirsi e KvivereL di questidolci e amarissimi pensieri.

XXXV

Se io volgo or qua or là li occhi miei lassi sanza veder quel ben che sol mi piace, miseri lor!, già mai non truovon pace:questo adviene a’ pensier’, parole e passi. 4

Onde pel meglio e lacrimosi e bassi gli tengo, e la mia lingua afflitta tace, el piè nel primo suo vestigio iace,ciascun pensiero al cor ristretto stassi. 8

Allor sì bella e sì gentil la veggio drento al mio core, ove Amor l’ha scolpita, che altro bene, altra pace più non chieggio. 11

Tacito e solo il mio bel cor vagheggio:e in quel si parte, e fugge con la vita;né vivo resto o morto allor, ma peggio. 14

Perché io non credo sia determinato qual sia maggio-re infelicità, o lo essere infelicissimo o veramente per-dere al tutto lo essere, lascerò la verità di questa cosa amaggiore iudicio che ‘1 mio, affermando però, per mol-

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te experienzie, alli uomini accadere molte volte coseche pigliano per elezzione più presto privarsi della vitache sopportarle; e ancora che sia cosa reprensibile, lapassione in questi casi si tira drieto ogni altro migliorerispetto. Vedesi ancora molte volte li uomini eleggerepiù presto privarsi per qualche poco di tempo dellaoperazione de’ sensi, che sopportare la offesa loro: co-me diremo d’uno che serra li orecchi a qualche grandee pauroso strepito, un altro li occhi per non vedere oqualche cosa brutta o altro che movessi compassione edolore, altri el naso per qualunque fetore; e si debbecredere questi tali terrebbono questi sensi sempre ser-rati, se sempre durassino le cose che offendono. E, sequesto è, possono accadere molti casi che reputeremmomanco male la privazione dello essere che la offensione.E perché a’ sensi mia era gravissima offesa quando ero-no privati del vero obbietto loro, cioè la donna mia, elpresente sonetto verifica la sentenzia sopra detta, eleg-gendosi per me in tal caso più presto la privazioned’ogni exteriore operazione che tale offensione, stiman-do maggior cosa la privazione della donna mia che laprivazione dello essere delle operazioni già dette; e an-cora che paia che privandomi solamente dello atto, enon della potenzia, non sia intera privazione, presupo-sto quello che abbiamo detto di sopra, cioè che la of-fensione durassi sempre, si può affermare la privazionecosì della potenzia come dello atto.

Dice adunque il sonetto che, quando accadeva che iocercassi o con li occhi o co’ passi, con le parole o co’pensieri la donna mia sanza trovarla, ne resultava gran-dissima miseria a tutte queste cose che lei cercavano,perché non è maggiore miseria che non trovare mai paceo quiete né fine alle passioni, maxime quando quella co-sa della quale altri è privato è assai desiderata. Nessunacosa poteva essere più desiderata o cara che la donnamia, presuposto che la fussi quel bene che solo mi pia-

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cessi: che significa ogni altra cosa fuori che lei darmi di-spiacere e molestia; e però, sendo infinite di numero l’al-tre cose, tanto maggiore era la molestia mia quante piùcose mi si offerivano dinanzi: e però erono quasi infinitemolestie, e tutte gravi, perché tutte mi appresentavanola privazione della donna mia. Interviene allo animo no-stro che non si quieta mai insino che non truova quellacosa che più che l’altre li piace; e ancora che molte coseli piaccino, l’appetito, che si ferma in quello che li piacepiù, mette da parte tutte l’altre quando può conseguireil suo primo desiderio. Come, per essemplo, uno si dilet-ta di diverse cose, come è cani, uccelli e cavalli, e conqueste cose insieme è avaro di natura e più tirato al cu-mulare che alcuna di quelle altre cose; e però, postpostili altri piaceri che ancora naturalmente appetisce, l’ap-petito suo solo in quello si quieta che prima e più appe-tisce, e ogni altra cosa li dà molestia. Molto maggiore erala molestia mia, perché solo desideravo la donna mia, nédi altra cosa mi appagavo, perché il desiderio di lei nonsolo era el primo e maggiore desiderio mio, ma era solo,sanza compagnia di alcuna altra cosa che mi dilettassi: eperò grandissima molestia era la mia, e per il numerodelle molestie e per la quantità di esse. Né truovavo aqueste cose migliore rimedio che la privazione sopradetta, perché serravo li occhi, coprendoli con le lacrimee tenendoli fissi a terra, fermavo e passi nel vestigio loro,cioè in quella orma nella quale si trovavano, la lingua te-neva silenzio e i pensieri si ristrignevano al cuore. E quiè da notare che questi pensieri s’intendono per la indu-stria la quale io usavo per trovare la donna mia, pensan-do quelli modi come più presto la potessi trovare, a dif-ferenzia de’ pensieri che diremo apresso, e quali in unaltro modo e in un altro luogo la cercavano; e, trovando-la, di questa sedazione delle operazioni exteriori, li pen-sieri intrinseci e la fantasia ne pigliava tanto più forza,quanto più mancava la distrazzione de’ sensi. E però

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quasi di necessità e pensieri miei, ristretti al cuore, con-templavano la donna mia, nel cuore da Amore scolpita,nel quale la vedevano e bellissima e gentile, come era ve-ramente. E allora con li occhi de’ pensieri io vagheggia-vo il mio cuore, bello veramente, essendo in lui scolpitola bella donna mia; et era lo imaginare mio sì forte, che,imaginando, in me medesimo quel piacere ricevevo allo-ra, che se li occhi la vera avessino veduta. E perché unaforte imaginazione, se non in molti pochi et eletti, puòpoco durare, accorgendomi io di quel dolcissimo ingan-no, quasi come da un sonno svegliato, trovandomi sanzala mia donna, in grandissima passione restavo, per laquale il cuore si partiva da me e, quasi essanime e mezzomorto, così tacito e solo mi lasciava. Perché la bellezzadella donna mia, che nel cuore a’ miei pensieri si mo-strava, faceva nascere el desiderio della vera, come di-cemmo nel comento del sonetto che comincia Allorch’io penso di dolermi etc.; e quel desiderio faceva nonsolo e pensieri, ma quasi tutti li spiriti miei partire diquella forma imaginata e ire alla vera, perché e pensierinon potevano stare se non dove era la donna mia. Eperò stettono tanto in me, quanto in me la vedevano, epartendosi quella imagine, loro ancora mi abbandonor-no. Allora restai né vivo né morto, perché, partendo ilcuore, sede della vita, morto mi potevo chiamare; maperché pure qualche vitale forza restava, né morto mipotevo chiamare, né vivo interamente. E se sono verequelle cose che abbiamo dette nella exposizione de’ tresonetti della conmutazione del cuore, chi vive in altri,come fanno li amanti, quanto a sé non si può chiamarevivo, né ancora morto, se vive in qualche luogo. Né sipuò interpetrare che altra cosa fussi lo stato in che io re-stavo, se non el primo che mostra questo sonetto, cioè inquella molestia di cercare con li occhi, con le parole eco’ passi etc., sanza trovare la donna mia. E però si veri-fica quello che proponemmo al principio di questo co-

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mento, la privazione dello essere parere manco malequalche volta che una gravissima molestia, poiché io re-stai peggio che se fussi stato o tutto vivo o tutto morto, eperché morte include questa tale privazione, così delloatto come della potenzia, a me pareva minor male che lamiseria di quello infelicissimo stato.

XXXVI

– Lasso!, or la bella donna mia che face? Ove assisa si sta? Che pensa o dice?Chi fanno or li occhi o quella man felice?Amor, dimmelo tu! – E lui si tace. 4

Li occhi allor, per saper della lor pace, mandan lacrime fuor triste, infelice: qual giugne al petto, a qual più oltre ir lice,bagna la terra, ivi s’arresta e iace. 8

Manda il mio cor molti sospiri allora: questi sen vanno in vento; onde conforta i pensier’ pronti il core al bel cammino: 11

questi a·llei vanno, et ella l’innamora, sicché alcun le novelle non riporta.Segueli il core; io piango il mio destino. 14

Ancora che molte e diverse sieno le pene delli amanti,pure, chi considera bene, tutte da due cagioni procedo-no, cioè da gelosia e da privazione per l’absenzia dellacosa amata; e bisogna di necessità così sia, perché in duecose similmente consiste la felicità loro, cioè due pro-prietà che sono nella cosa amata: la prima, la exteriore eapparente bellezza, l’altra lo amore, cioè il cuore dellacosa amata. Perché due cose sono nello amante che sihanno a pascere e adempiere, cioè li sensi, per li quali siconosce così le bellezze visibili come dolcezza di parolee altri sensitivi ornamenti o naturali o accidentali, e il

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cuore, al quale piaccendo queste cose, tanto che si tran-sforma in altri (come abbiamo detto), si pasce della reci-proca transformazione del cuore amato nello amante. Sequeste sono adunque le felicità delli amanti, la infelicitàconsiste nella privazione di queste, che non può esserese non per mezzo della gelosia e absenzia già dette. Eperò, trovandosi in questi nostri versi bene spesso la de-plorazione della absenzia, non è maraviglia, perché, det-tando la passione il verso, maggiore passione muove piùnumero di versi; et essendo grandissima passione l’ab-senzia della cosa amata, tanto più spesso ricorreva il miocuore a·rremedio de’ versi, quanto spesse volte accaddel’absenzia mia, sempre con grandissimo mio dolore.

Trovandomi adunque dilungato dalli occhi della don-na mia e per qualche tempo e per assai intervallo di luo-go, cominciai meco medesimo a pensare, non sanza granpassione, quello che in quel punto facessi la donna mia,ove sedessi e quello pensassi, e chi fussi degno di tantobene o tanto in grazia della fortuna, che, essendo vedutodai suoi belli occhi o tocco dalla mano sua, fussi felicissi-mo. Né potendo intendere quello che desideravo da al-tri che da Amore, lui ne domandavo; e non volendo luidarmi alcuna risposta, pensai meco medesimo chi potes-si portarmene qualche novella. Né occorse alli miei la-crimosi occhi più expedito messo che le lacrime, le qualida loro uscivano: ma non potevano però aggiugnere alluogo dove era la donna mia, perché il loro cammino sifiniva in sul petto mio, dove cadevano, o alla più lungainsino a terra, la quale le mie lacrime bagnavano. El cuo-re allora, veggendo tornare vano el disegno delli occhi ele lacrime non potere arrivare alla mia donna, deliberòmandare a·llei molti sospiri, pure per intendere qualchenovella. E qui si verifica quello abbiamo detto di sopra,mettendo li occhi per tutti e mezzi sensitivi che hannoper obietto la exteriore bellezza, e il cuore che aveva perobietto il cuore della donna mia; e li occhi sono e primi

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che si muovono, e il cuore li segue, perché, approvata labellezza exteriore, séguita inmediate il desiderio del cuo-re, non solo di quella bellezza, ma del cuore amato.Mandò adunque il cuore drieto alle lacrime delli occhimolti sospiri, el viaggio de’ quali non fu molto più lungoche quello delle lacrime, resolvendosi in vento e in aria,come erono quando diventorono sospiri. Essendo adun-que il cuore fraudato di questa sua speranza, ricorse a’pensieri, confortandoli che loro andassino a trovare ladonna mia, ché, essendo velocissimi e pronti, ancora cheil cammino fussi lungo, presto potevano andare. Li pen-sieri subitamente vanno a trovarla, e trovonla sì bella epiena di tanta dolcezza, che s’innamorono di lei, né pos-sono da essa partirsi; e, non si ricordando della miserianella quale m’avevano lasciato, non mi rendono né ri-sposta né novella alcuna. Per la qual cosa el cuore, che,come altrove abbiamo detto, solo di questi pensieri sinutriva e viveva, con lo essemplo de’ pensieri da me siparte, e piangendo mi lascia sanza lui misero e sconsola-to e vassene ancora lui alla donna mia. Né io nelli mieipianti mi dolevo se non della mia sorte e destino mioaverso, che non m’aveva fatto sì agile e pronto che po-tessi insieme col cuore e co’ pensieri transferirmi alladonna mia.

E perché abbiamo molte volte fatto menzione di que-sta fuga e partenza del cuore e della transformazioned’esso e del fuggire della vita, pare necessario verificarecome questo sia, mostrando massimamente qualche vol-ta che ‘1 cuore e la vita si parta, e pure in me resti vita,come mostra il sonetto antecedente nell’ultimo suo ver-so. E però diremo nella anima nostra essere tre potenzie,o vogliamo dire tre spezie di vita: la prima, per la qualeviviamo solamente, nutriànci e cresciamo sanza alcunosenso e nel modo che vivono gli albori e l’erbe, che sichiama «vegetativa»; l’altra, per la quale veggiamo, odo-riamo e usiamo li altri sensi come fanno gli animali bru-

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ti, che per questo si chiama «sensitiva»; la terza, per laquale intendiamo sopra li sensi e con ragione aproviamoche una cosa sia meglio che un’altra, discorrendo nellecagioni delle cose, che si chiama «razionale»: la quale ècomune con li angioli, et è quella parte di noi che si diceessere inmortale, perché le due prime si vede che man-cono e muoiono. Adunque chi s’innamora, di queste trepotenzie ne transforma dua nella cosa amata, cioè la sen-sitiva e la razionale, perché tutte le forze dello intellettoe quello che per mezzo de’ sensi si conosce, si dà in po-testà della cosa amata, et ella al suo modo ne dispone egoverna; e così segue necessariamente, perché, sotto-mettendosi la libertà dello arbitrio volontariamente, cheè principio in noi d’ogni operazione, bisogna tutte leoperazione seguino el principio, sanza el quale non si fa-rebbono. Resta adunque solamente in chi ama quellaparte della vita per la quale solamente viviamo, comeabbiamo detto, a guisa delle piante; e così si verifica elpartire della vita e del cuore, cioè della razionale e sensi-tiva potenzia, sanza che manchi la vita, restando la po-tenzia vegetativa nello amante.

XXXVII

Lasso!, io non veggo più quelli occhi santi, de’ miei dolenti pace e vero obietto; e perché quel ch’io veggo altro ho in dispetto, Amor piatoso e miei copre di pianti. 4

Le lacrime, che cascan giù davanti, destano il cor, di fuor bagnando il petto; il cor domanda Amor qual duro affetto

fa così gli occhi madidi e roranti. 8Amor gliel dice. Allor pietà gli viene degli occhi, e manda alla umida mia faccia,

sospirando, una nebbia di martìri. 11

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O dolcissimo Sole, o sol mio bene móstrati alquanto e questa nebbia caccia:non han più gli occhi pianti o il cor sospiri! 14

Non pare conveniente dire molte cose nella exposi-zione del presente sonetto, essendo molto simile d’ar-gumento alli dua precedenti, né volendo denotare altroche la miseria dello stato amoroso quando accade laprivazione per absenzia della cosa amata. E perché pertre vie si sfocano comunemente le passione amorosequando procedono da absenzia, cioè lacrime, sospiri epensieri, con qualche indulgenzia credo si replichi mol-te volte queste medesime cose, ancora che in diversimodi; perché, se questa passione e spesse volte accadenelli amanti e non ha altri rimedii, bisogna spesse voltele medesime cose replicare. Mostra adunque il presentesonetto che, essendo privati gli occhi miei de’ dolcissi-mi occhi della donna mia, solo e vero loro obbietto e ri-poso, avevano in dispetto tutte l’altre cose che vedeva-no. Amore, mosso dalla pietà della miseria degli occhi,gli ricopriva di pianti, acciò che, occupati dalle lacrime,almanco fussino liberi dalla visione dell’altre cose chedavano loro dispetto: perché gli occhi abondanti di la-crime difficilmente veggono. Cascando adunque questelacrime sopra quella parte del petto, sotto la quale den-tro è posto il cuore, destorono el cuore, sentendo elpetto di fuora essere offeso pel cascare delle lacrime: eper questo si mostra l’abundanzia del pianto; dal qualedesto el cuore, cioè svegliato quasi, d’uno dolce pensie-ro che prima lo teneva occupato, dalla nuova offensio-ne delle lacrime, quasi come uno che dorma da unanuova e orrida voce, domanda Amore, che era presen-te, per che cagione piangono così forte gli occhi. E nar-randogli Amore la cagione del pianto, bisogna gli dicache la pietà che hanno mossa in lui li miei miseri occhiha fatto che lui subministra loro queste lacrime, acciò

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che, essendo gli occhi privati della donna loro e avendoin dispetto ogni altra cosa, se non può rendere loro ladisiderata visione, almanco gli aiuti di fugire quello chehanno in odio. Perché due rimedii si truovano nella mi-seria, cioè el fare, d’uno misero, felice (e questo è il piùperfetto) o veramente levarli la miseria, cioè il male,sanza darli il bene: come sarebbe in uno mendico ed’ogni cosa necessitoso, che chi gli levassi la necessità diquelle cose sanza le quali non può fare e solamente glie-le dessi a·ssufficienzia, trarrebbe questo tale della mise-ria e d’uno grandissimo male, che è la necessità d’ognicosa; ma chi lo facessi ricchissimo e abundante d’ognicosa, non solo leverebbe il male della miseria, ma glidarebbe il bene, faccendolo ricchissimo. Fece adunqueAmore agli occhi questo effetto, dando loro l’infimogrado del bene, levando loro quella cosa che gli offen-deva, cioè la visione dell’altre cose, essendo in essi duecagione di dolore, cioè il desiderio di vedere la donnamia, come prima felicità e ultimo bene loro, e il timoredella offesa procedente dalla visione dell’altre cose. Elcuore, sentendo la cagione de’ pianti, mosso dalla me-desima compassione che mosse Amore, aiuta la occeca-zione degli occhi, cominciata per le lacrime, con grannumero di sospiri, e oppone la nebbia de’ sospiri agliocchi, acciò che, agiunti alle lacrime, più possino difen-dere gli occhi e levarli la visione dell’altre cose. E natu-ralmente è detto «nebbia de’ sospiri» che ascende emonta alla faccia, perché il sospiro porta seco una certaaria più vaporosa e grossa, a guisa quasi di fumo e dinebbia; e naturalmente vanno in sù verso gli occhi, ovegli manda l’impeto che nasce dell’ultima parte del pet-to. Ma perché tutti questi rimedii non bastavano a tantamiseria, perché il perdere la visione dell’altre cose nonera sola e vera beatitudine degli occhi, tutti li disideriidel cuore mio si volsono a pregare gli occhi della donnamia che alquanto si mostrassino e dalli miei si facessino

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vedere. Et essendo le lacrime simile all’acqua che piove,e li sospiri alla nebbia, come al dissipare la nebbia e ac-qua non c’è più efficace virtù che quella del sole, cosìnessuno rimedio migliore si poteva trovare a levare lelacrime e sospiri che il lume degli occhi della donnamia. Al quale, come a unico remedio, si ricorre, pregan-dolo (come abbiamo detto) che si mostri, perché quan-do indugiassi o per alquanto tempo celassi la sua luce evirtù, gli occhi si tornerebbono nella maggiore miseria,perché non solamente sarebbono privati di questo sole,vera beatitudine loro, ma sarebbono forzati a vedere lealtre cose, che abbiamo dette essere a·lloro sommamen-te in dispetto; conciosiacosa che le lacrime e i sospirinon potevano lungamente occupare la loro veduta, per-ché pareva impossibile il fonte delle lacrime non rista-gnassi e seccassi, e la sede e luogo de’ sospiri ne avessitanta copia, che non fussi qualche volta per mancarequesta pietosa subministrazione.

XXXVIII

Io torno a voi, o chiare luci e belle al dolce lume, alla beltà infinita, onde ogni cor gentile al mondo ha vita, come dal sole il lume l’altre stelle. 4

Vengo con passi lenti a mirar quelle,pien di varii pensier’: che alcun ne invita pure a speranza, da altri sbigottital’alma teme d’intenderne novelle. 8

Dicemi in questo Amor: – Nel tuo cor mira: vedra’vi scritte l’ultime parole che udisti in mia presenzia, et io le scrissi. 11

Ciascuno altro pensier, disdegno et ira tolto ho da·llei, e in quel bel petto solerestan le fiamme che io per te vi missi. – 14

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Grandissima miseria è quella d’alcuno, el quale si af-flige per disiderio d’una cosa, la quale poi quando è diconseguirla in grandissima speranza, non manca peròdella sua prima miseria, dubitando, conseguendola, an-cora restare misero. E perché questo spesse volte advie-ne negli accidenti amorosi, si può chiamare la vita degliamanti sopra tutte l’altre misera, poiché e avendo e nonavendo quello che vuole, non muta mai la sua infelicesorte, ancora che si mutino le cagioni della miseria.Questo affetto exprime el presente sonetto. Perché, es-sendo stato, come abbiamo detto di sopra, per qualchetempo distante dalla donna mia con molta afflizzione, etessendo già in cammino per tornare al suo tanto deside-rato aspetto e vicino alla visione de’ sua belli occhi, co-me se fussi quasi presente a·lloro dirizzo le parole, mo-strando che io torno a rivedere la dolcezza del loro lumee la loro infinita bellezza, dalla quale ogni cuore gentileha da riconoscere la vita, come le stelle del cielo ricono-scono la cagione del lume loro dallo splendore del sole.E a provare questa verità, che la vita delli gentili cuoriproceda da questa infinita bellezza, bisogna presuporrela bellezza essere sanza fine: e però sarebbe non solo lamaggiore bellezza, ma quanta bellezza può essere, per-ché ogni cosa infinita è tale; et essendo una medesimacosa somma bellezza e somma bontà e somma verità, se-condo Platone, nella vera bellezza di necessità è la bontàe verità, in modo annesse che·ll’una con l’altra si conver-te. E intendendosi per li cuori gentili gli animi elevati(secondo che abbiamo detto) e perfetti, bisogna sia veroche ogni gentile cuore viva d’infinita bellezza, perché elbello, buono e vero sono obietto e fine d’ogni ragione-vole desiderio, dando vita a quelli che gli appetiscono:perché chi si parte dal bello, dal buono e dal vero si puòdire non vivere, perché fuora di queste perfezzioni nonsi dice essere cosa alcuna. Adunque, come il sole co’ rag-gi suoi fa risplendere le stelle sanza diminuzione della

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sua luce, così questa somma bellezza infonde come rag-gi, ne’ gentili cuori, della sua grazia, cioè uno lume spiri-tuale, per lo quale vivono e spiritualmente relucono. Ese bene la materia di che parlano e versi nostri non è ditanta perfezzione, pure gli errori amorosi fanno crederepotere essere in altri quello che in sé medesimo si trova;e però, vivendo io della luce di quelli belli occhi, la lorobellezza mi pareva sì maravigliosa, che pensavo a ciascu-no doversi egualmente piacere sì come a me: onde affir-mavo di tutti gli altri quello che in me sentivo.

Tornando adunque a questa infinita bellezza, sanza laquale miserrimo mi giudicavo, et essendo pieno di variipensieri, e tanto più in me confuso quanto più me apres-savo ad essa, grande infelicità si debbe reputare la mia,poiché in quel bene che io cercavo dubitavo di male. Lavarietà e confusione de’ pensieri era che una parte d’essimi persuadeva che troverrei la donna mia piena d’amo-re, di pietà e di dolcezza, un’altra parte mi sbigottivapersuadendomi el contrario; in modo che in me medesi-mo dubitavo d’intendere le vere novelle, per la molestiache arebbe portato al cuore quando avessi inteso esserecacciato al tutto della grazia della donna mia. Questo fa-ceva alentare e passi miei, et era potentissima cagione,poiché, desiderando io sopra ogni cosa gli occhi delladonna mia, ritardavo il passo per vederla. SoccorseAmore a questa mia durissima perplessità, perché unoamoroso pensiero mi redusse a memoria alcune paroleche mi aveva detto la mia donna, partendo da essa, tuttepiene di speranza, affermando che in ogni luogo e tem-po sarei sempre pieno della sua grazia, acertandomi del-la fede e constanzia sua; le quali parole mi scolpì drentoal cuore Amore con le mani sue. Questa dolce memoriami fece prestare fede a quello più che subiunge Amore,mostrando ogni altro pensiero, ogni sdegno e ira averetratto del cuore della donna mia, né restare altro deside-rio o altro fuoco che quello vi aveva messo Amore per

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mia satisfazione e felicità. Pieno adunque di questa spe-ranza, si può presumere che io accelerai e passi (ancorache il sonetto di questo non faccia menzione), perchémancava el sospetto onde procedeva la prima lentezzade’ passi miei.

XXXIX

Quello amoroso e candido pallore che in quel bel viso allor venir presunse,fece all’altre bellezze, quando giunse,come fa campo l’erba verde al fiore, 4

o come ciel seren col suo colore distinguendo le stelle, ornato aggiunse; né men bellezze in sé quel viso assunse,che fiori in prati o in ciel lume e splendore. 8

Amore in mezzo della faccia pia lieto e maraviglioso vidi allora, così bella questa opra sua li parve. 11

Come il dolce pallor la vista mia percosse e il lume de’ belli occhi apparve,fuggissi ogni virtù, né torna ancora. 14

Platone, filosofo excellentissimo, pone dua extremi,cioè scienzia e ignoranzia: la scienzia, quasi uno lumeche ci mostra quello che è veramente e perfettamente, ela ignoranzia come una tenebrosa obscurità, la quale cipriva della cognizione di quelle cose che sono e resta so-lamente in quello che non è. E perché sempre tra gli ex-tremi debba essere il mezzo, mette la oppinione tra·llascienzia e ignoranzia, la quale, per essere qualche voltavera e qualche volta non vera, pare che in un certo mo-do participi qualche volta della scienzia, qualche voltadella ignoranzia: non che possa essere mai scienzia, an-cora che la oppinione sia vera, delle cose che sono, ma

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ignoranzia può bene essere quella oppinione di quelloche non è. La scienzia comprende le cose che sono certee chiare, la ignoranzia comprende nulla, la oppinionequelle che qualche volta sono, qualche volta non sono, eche possono essere e non essere. E per questa cagione laoppinione è sempre ansia e inquieta, perché, non si con-tentando l’animo nostro se non di quello che è vero, enon ne potendo avere la oppinione alcuna certezza, nonsi quieta, ma giudica le cose più presto per comparazio-ne e respective, che secondo el vero. Come, verbi grattaio dirò: «El tale è un grande uomo», perché excede d’al-quanto la grandezza di tre braccia, ove comunementetermina la statura degli uomini; e se gli uomini si trovas-sino grandi quattro braccia, quello che fussi tre bracciae mezzo sarebbe reputato piccolo. Chiamerassi tra gliEtiopi, di natura neri, «bianco», uno che sarà manco ne-ro che gli altri, e tra questi occidentali uno «nero», chetra gli Etiopi sarebbe candidissimo. Dirai: «El tale èbuono», che, secondo Davit profeta, «non est usque adunum», ma chiamerassi «buono» respetto alla maliziadegli altri. Tale è oggi ricchissimo a Vinegia, in Firenze oaltrove, che con le medesime facultà al tempo della mo-narchia di Roma sarebbe suto mendico, a comparazionedi molte altre maggiori ricchezze. E però diremo secon-do la oppinione umana non potere essere scienzia d’al-cuna cosa, ma giudicarsi il meglio essere quello che piùs’accosta al bene, o vero che più si discosta del contrariosuo. E se, per essemplo, a uno paressi molto più bellauna perla quanto fussi più chiara e candida, cioè quantopiù s’apressassi alla vera e perfetta bianchezza, la voreb-be vedere in un campo nero e in qualche colore obscu-ro, acciò che quella comparazione del contrario suo mo-strassi la perla accostarsi più alla vera bianchezza; eancora che la prima intenzione sia questa bianchezza, vimescola el colore nero, che gli è opposito, ingannandosie parendogli che questo gli dia più forza, perché in fatto

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quella perla non è più bianca sul nero che fussi sul bian-co. Quinci nasce la bellezza, che procede dalla varietà edistinzione delle cose, perché l’una per l’altra piglia for-za e pare che più s’apressi alla sua perfezzione; pure,se·lla oppinione intendessi il vero, solamente quelle coseche sono più belle elegeremmo, sanza ammistione d’al-tre cose meno belle, e dove nella vita umana per sommabellezza comunemente cerchiamo la varietà, se intendes-simo perfettamente, prima ad ogni altra cosa la fugirem-mo. Tutto questo discorso è paruto necessario trattandonel presente sonetto della somma bellezza che venne nelviso della donna mia, per uno accidente che negli altri elpiù delle volte suole la bellezza ricoprire e spegnere, e inessa la multiplicò. Andavo adunque per una via assai so-litaria, solo, pieno però d’amorosi pensieri; et essendofuori d’ogni expettazione di potere in tal luogo vedere ladonna mia, subito la scontrai, e già molto vicina m’eraquando la vidi. Questa insperata visione e sùbito assaltodegli occhi suoi a’ miei fece in un tratto partire da mequasi ogni forza e ’l colore del viso; e, rimirando la fac-cia sua, mi parve similmente adorna d’uno amoroso ebellissimo pallore, non però di colore smorto, ma chependessi in bianchezza. E di principio mi parve fussi su-ta grande presunzione di quel colore pallido ad esserevenuto in sì bel viso; ma pensando poi meglio, vidi cheaveva agiunto forza all’altre bellezze, come suole farel’erba verde più belli e fiori e il cielo mostrare più chiarole stelle distinguendole col colore e serenità sua; ancorache e fiori sieno più belli che·ll’erba, e le stelle più belleche il campo del cielo, l’erba faceva parere più belli efiori, che se fussi tutto il prato fiori e non fussino cam-peggiati dal verde dell’erba; similmente il cielo dellestelle: per la forza non solamente della varietà, ma per-ché gli oppositi l’uno vicino all’altro pigliono maggioreforza e meglio si mostrono; né erono a me manco bellez-ze, in numero, quelle della donna mia, che sieno e fiori

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de’ prati e le stelle del cielo. Erano adunque quelle bel-lezze in mezzo del pallido colore, come fiori in mezzodell’erba e stelle in mezzo del colore del cielo. Tra tantifiori era ancora, in mezzo di questo viso, Amore, bellis-simo fiore, e tra tante stelle era similmente la stellad’Amore. Era Amore in un tempo medesimo lieto e ma-raviglioso, avendo fatto sì gentile e bella opera: lieto,perché era bellissima, e maraviglioso perché gran cosaera quella che aveva fatto e molto nuova, avendo agiun-to tanto ornamento per mezzo di quello colore pallido,che, come abbiamo detto, gli altri visi suole turbare e fa-re brutti. Se ne era Amore pieno di maraviglia, che erasuto auttore di sì bella opera, si può pensare che io nerestassi atonito e pieno di stupore, e che ogni mia virtù,superata dalla excessiva e nuova bellezza, per qualchetempo si partissi da me: che così credo sarebbe interve-nuto a ciascuno che avessi avuto grazia di vederla, consi-derarla e amarla.

XL

Lasso!, oramai non so più che far deggia, quando io son là dove è mia donna bella:se io miro l’una o l’altra chiara stella,veggo la morte mia che in lor lampeggia; 4

se advien che io fugga e ’l mio soccorso chieggia ora a questa bellezza et ora a quella, ora a’ modi, ora a sua dolce favella,loco non truovo ove sicur mi veggia; 8

se io tocco la sua mano, ella m’ha privo di vita, e tiensi in un bel fascio stretto el core e i pensier’ miei, pronti e felici. 11

Da tali e tanti dolci miei inimici ho mille dolci offese, e ancora aspettosì dolce morte, che a pensar ne vivo. 14

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Tutti gli affetti umani, sanza controversia, sono pas-sione, e le cagioni che muovono gli affetti degli uominisono due, la ira e la concupiscienzia: che, per esserepassione molto diverse, secondo alcuni hanno diversoluogo e sede nel corpo nostro, perché la potenzia irasci-bile si genera nel cuore, la concupiscibile nel fegato, se-condo alcuni altri amendue sono nel cuore. Che sienodiverse potenzie e differente, móstranlo gli affetti cheprocedono da queste cagione, de’ quali una parte, cioèquelli che procedono dall’ira, il più delle volte sonomolesti e KduriL all’animo nostro, quelli che nascono daconcupiscienzia più spesso grati e dolci; et essendo tuttiquesti affetti, come abbiamo detto, passione, di neces-sità si conclude che ogni desiderio, ancora che sia percosa dolce e grata, sia pure passione. Anzi, come abbia-mo detto e nel principio, nella diffinizione d’amore, enella exposizione del sonetto che comincia Ponete mo-do al pianto, occhi miei lassi, ogni appetito mostra laprivazione di quello che s’appetisce: che è somma infe-licità; e però, chi non può quietare lo appetito e frenar-lo, vive in continua passione. E così in un tempo mede-simo una medesima cosa si cerca e fugge, perché chidesidera assai quietare uno grande appetito ha assai de-siderio, e chi non desidera quietarlo ha similmente loappetito grande. Ma quello fa maggiore errore, che cer-ca quietare lo appetito d’una cosa pigliando rimedii emodi atti a multiplicarlo e accrescerne la inquietudine;come aveniva a me, che, pensando alla bellezza delladonna mia, ne avevo grandissimo desiderio, e, creden-do quietarlo, andavo per vederla, e, cominciando a ve-der li occhi, mi parevano sì belli occhi, che il desideriopure cresceva: che era il contrario di quello volevo.Non trovando adunque la pace mia nelli occhi suoi, mavedendo in essi rilucere e lampeggiare la morte mia,cioè Amore, fuggivo l’aspetto loro, credendo trovare laquiete, che non avevo trovato in essi, in qualcun’altra

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delle molte bellezze che apparivano nella donna mia. Eperò domandavo el mio soccorso, cioè la quiete predet-ta, quando ai suoi gentilissimi modi, considerandoli congrandissima attenzione, quando sentendo el suo dolcis-simo parlare; e diversamente, secondo la multiplice di-versità di tante bellezze naturali e ornamenti suoi, tro-vavo in effetto Amore armato e parato alla mia morte:perché, KcomeL è vero officio d’infinita bellezza accen-dere infinito desiderio, così diremo, a proporzione,d’ogni bellezza e desiderio. Desperato adunque dellaquiete mia dalle bellezze e ornamenti che continuamen-te vedevo con li occhi, pensavo quietarmi quando po-tessi toccare la sua mano candidissima; ma, ricordando-mi ch’ella era stata quella che mi aveva tolto la vita eteneva il mio cuore e tutti li miei pensieri in sé stretti,ancora di questo mi disperai, perché, se li miei pensierierano felici sendo in quella mano, era impossibile lorosi partissino dalla felicità, ove sogliono correre tutte lecose. E io sanza pensieri non potevo quietarmi, perchéli pensieri sono il principio d’ogni umana azzione, eperché procedono l’opere, né si può fare cosa che pri-ma non si pensi; e però, mancando el pensiero, manca-no l’opere. Non potendo adunque ottenere la mia salu-te, cioè la quiete del desiderio, anzi crescendo ogni orapiù, la necessità mostrava che io dovessi sopportarequeste offese dolcissime e che amassi sì dolci inimici co-me erano li occhi, le parole, e modi, la mano e l’altrebellezze della donna mia; e quali erano veramente dol-ci, perché gran dolcezza era considerare tanta bellezza,e veramente inimici, essendo cagione di multiplicarepiù el desiderio, cioè la passione. Godevomi adunquenon solamente quella presente bellezza, ma ancora lasperanza di molto più dolce morte, la quale dalli inimicigià detti, per mezzo di sì dolce offese, con grandissimodesiderio aspettavo, perché, quanto maggiore erono leoffese, cioè el desiderio di tanta bellezza, più dolce si

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faceva la morte. E però la speranza di questa morte miempieva il cuore di tanta dolcezza, che il cuore già se nenutriva e viveva: intendendo questa morte nella formache abbiamo detto morire li amanti, quando tutti nellacosa amata si transformono, che non importa altro chelo adempiere il desiderio, che si adempie quandol’amante nello amato si transforma. E però questa mor-te non solamente è dolce, ma è quella dolcezza che puo-te avere l’umana concupiscienzia, e per questo da·mme,come unico remedio alla salute mia, era con grandissi-ma dolcezza e desiderio aspettata, come vero fine ditutti li miei desiderii.

XLI

Non è soletta la mia donna bella lunge dalli occhi miei dolenti e lassi: Amor, Fede, Speranza sempre stassie tutti i miei pensieri ancor con quella. 4

Con questi duolsi sì dolce e favella, che Amor pietoso oltre a misura fassi,e in quei belli occhi che il dolor tien bassi piange, obscurando l’una e l’altra stella. 8

Questo ridice un mio fido pensiero, e se io non lo credessi, porta fede della sua dolce e bella compagnia. 11

E se non pur che ad ora ad ora spero li occhi veder che sempre il mio cor vede, per la dolcezza e per pietà morria. 14

Come molte altre volte accadde, secondo abbiamodetto, ero assai dilungato dalli occhi della donna mianel tempo che composi el presente sonetto; e, tra mol-ti duri pensieri che facevano molestissima questa ab-senzia, uno maravigliosamente offendeva il cuore mio:

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e questo è che, considerando quante diverse passionegenerava in me la privazione dello aspetto suo, entraiin pensieri che quelle medesime cose dovessino simil-mente assai offendere lei. E però, al dolore che delmio proprio male sentivo, si aggiunse ancora questo,presentandosi al cuore mio la pietà e il dolore suo peressere sola e sanza me. E perché la natura e ogni buo-no medico, della natura imitatore, prima pone reme-dio a quello che principalmente e più offende la vita, limiei amorosi pensieri, sola medicina di questo dolcis-simo male, prima pensorno el remedio Ka quelloL chepiù mi offendeva, cioè la pietà della solitudine delladonna mia, mostrando in effetto che sola non era, an-cora che fussi di lungi dalli occhi miei dolenti e lacri-mosi, perché in compagnia sua era Amore, Speranza eFede, e insieme tutti e miei pensieri. Non era adunquesola, ancora che in sua compagnia non fussi alcunapersona e fussi destituta dalla conversazione delli altri,come testifica la sentenzia di Catone, dicendo «mai es-sere meno solo che quando era solo», e chiamandosiancora da Ieremia la città di Ierusalem «sola», ancorache fussi piena di popolo: perché la vera solitudine èessere destituto da quelle cose che piacciono. E dicesiuno essere «solo» in mezzo di molti inimici, perché,mancando il vero fine per che è ordinata una cosa, dinecessità quella cosa non è più quella: come, per es-semplo, chiamiamo uno uomo «razionale» perché èordinato a·ffine della ragione, dal quale quando luimanca non si può più chiamare uomo. La società ecompagnia delli uomini l’uno con l’altro dalla naturafu ordinata acciò che tutte le commodità necessarie al-la vita umana, che non si possono trovare in un solo, siabbino da molti; e se questo è il fine della compagnia,ogni volta che fussi grandissimo numero per offendereuno, quella non si può chiamare «compagnia», anzi«inimicizia». Se adunque alla donna mia la conversa-

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zione delli altri era molesta e solo li piaceva Amore,Speranza, Fede e·lli miei pensieri, sanza questi tramolti era in extrema solitudine, e con essi, quandofussi suta ne’ deserti della arenosa Libia, si potevachiamare accompagnata; e che non fussi sola, si dimo-stra ancora parlando lei e dolendosi con questa com-pagnia. Dolevasi adunque sì dolcemente, che Amoremaravigliosamente si faceva pietoso di lei, e, constret-to da questa compassione, nelli occhi suoi piangeva; eavendo detto che la sede d’Amore e il vero suo luogoera ne’ suoi bellissimi occhi, di necessità in quelli oc-chi piangeva. E di questo pianto, e perché da loro me-desimi, vinti dal dolore, bassi si stavano, alquanto sirimetteva lo splendore loro; non che li occhi per que-sta obscurazione ne diventassino manco belli, masplendevano alli altrui occhi come suole il sole inter-ponendosi qualche nube: dico, secondo pare alli occhinostri, non che il sole perda parte alcuna della sua lu-ce. E perché pareva cosa maravigliosa e quasi incredi-bile quanto è detto, bisognava fare autore di questochi fussi suto presente, come era suto uno de’ miapensieri; el quale, essendovi tutti li miei pensieri, dinecessità vi era ancora lui, perché, come dicemmo inprincipio, questo rimedio venne dai pensieri amorosi.E per confermazione di questa verità ne portò seco fe-de della compagnia sua, cioè delli altri pensieri,d’Amore, della Fede e della Speranza, veramente dol-ce e bella compagnia, perché altro bene non ha la vitaumana, né maggior dolcezza. E se Amore e Fede eranoveramente nella mia donna, di necessità vi era la com-passione della absenzia mia, e il pensiero con questitestimoni, doveva essere creduto. Questo fido nunzio,con queste novelle, da un canto mi empié el cuore didolcezza, pensando che non solo non era sola la miadonna, ma di sì bella compagnia accompagnata; da al-tra parte, sentendo pure che la donna mia si doleva e

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piangeva, mi accese il cuore di grandissima pietà: tan-to che veramente per quella dolcezza e per la pietà sa-rei morto, se la Speranza non mi avessi soccorso di ve-dere presto li occhi suoi, e quali sempre vedeva el miocuore. E perché li occhi del cuore sono e pensieri, siverifica che e pensieri sempre erano con la donna mia.

[XLII]

…….

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