Come il sole e la luna

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Racconti 2007-2008

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NOTA

La presente raccolta di racconti,prelevata gratuitamente dal web,può essere liberamente condivisa

nella sua totalità o nelle singole partinelle più svariate forme,

a patto che:

- sia sempre citato il nome dell’autore- sia condivisa per fini non commerciali;

- siano mantenuti integri contenuto e forma di ogni racconto.

Ogni altro diritto è riservato.

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UN’INTESA PERFETTA

Ixpira aveva deciso di prendersi una lunga vacanza, dopo tutti quei mesi passati a lavorare, a scrivere e a dare spazio alle idee… Era già passato un mese, ma ancora non se la sentiva di riprendere la sua normale attività. Era comprensibile che fosse stanca e che avesse bisogno di ricaricarsi di nuove energie, ma c’era chi sentiva la sua mancanza. Dopo una ventina di giorni che Ixpira era partita, il suo amico Razon, che si occupava di tutte le questioni logistiche e organizzative della società che insieme avevano fondato, aveva tentato di contattarla, ma dopo una breve telefonata fatta di monosillabi quasi strappati a forza aveva deciso di attendere il suo ritorno; la conosceva, doveva lasciarle lo spazio e il tempo che preferiva.Ixpira durante quella vacanza si era rifugiata nel capanno di famiglia sul fiume Imago, passava molto tempo senza far nulla, si accoccolava sul divano, a volte sonnecchiava, a volte guardava fuori dalla finestra… forse a ripensare a quante volte da bambina si era divertita a scrivere delle frasi costruendo le lettere con i ciottoli che trovava sulla riva o anche nell’acqua; quanti versi, quante rime, quante strofe… Avesse trovato il modo, avrebbe scritto con i ciottoli anche le melodie che si inventava quotidianamente. In effetti una volta ci provò: prese delle canne sottili, ne crescevano abbondanti lungo la riva del fiume, le sistemò a formare i tasti di un pianoforte e poi cominciò a suonare; ma visto che le note che suonava non potevano essere ascoltate da chi fosse passato di là anche se lei non c’era, decise che non era il caso di darsi tanta pena.Le parole invece che scriveva con i ciottoli, chiunque avrebbe potuto leggerle in qualsiasi momento, o almeno fino a che non

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fossero state… cancellate dalla piena del fiume o da qualche sbadato avventore che ci avesse camminato sopra.Quell’anno aveva davvero lavorato tanto, spesso da sola (sempre comunque in compagnia del suo fidato amico Razon), alcune volte collaborando con altri.“Adesso Razon è il momento che io faccia una buona pausa” aveva detto Ixpira all’amico una mattina di fine agosto “Tu intanto puoi continuare il tuo lavoro, di cose da fare ce ne sono sempre”“Be’, se non hai niente in contrario” ribatté Razon dopo un attimo di stupore “in vacanza ci andrei anch’io”“Oh sì, va benissimo” rispose Ixpira colpita da quell’idea “Non so quanto resisterai, ma fai pure”In effetti Razon riuscì a farsi solo qualche ora di vacanza, a lui bastava poco e poi sentiva il bisogno quasi irrefrenabile di occuparsi di qualcosa. Aveva però col tempo imparato a darsi, in un certo modo, un ordine di attività, per non sprecare tempo in valutazioni estemporanee fine a se stesse - nelle quali era stato un vero campione - e finalizzare meglio il suo operato quotidiano. Adesso riusciva anche a trovare spazio per attività meno impegnative, come farsi una passeggiata, leggere un libro, ascoltare della musica, e magari rimandare a domani ciò che avrebbe voluto concludere oggi.Ixpira restò ancora molto a lungo in vacanza, ma non più isolata come nel primo periodo: praticamente sentiva ogni giorno il suo amico Razon per dargli una mano a portare avanti i piccoli progetti concreti che andavano realizzati. Fra i due c’era ormai un’intesa perfetta: dopo un lungo, se non lunghissimo, periodo di rodaggio problematico della loro collaborazione, ora bastava uno sguardo, una parola, poche righe, perché le idee si facessero realtà in poco tempo, lasciando da parte gelosia, invidia e desiderio di primeggiare. Ognuno dava il meglio di sé, l’attività aveva preso fluidità e quelli che li conoscevano ne restavano ammirati.

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NON PIU’ DI UN ATTIMO

C’era una volta un piccolo moscerino, più piccolo di un moscerino propriamente detto, talmente piccolo che di solito passava inosservato. Era certo più piccolo di una zanzara, ma anche più piccolo di quei moscerini che infestano qualsiasi cosa di colore chiaro - una maglia, una borsa, un cappello - con preferenza per il giallo e i suoi affini. Niente di tutto questo: lui era un insettino grazioso, leggero, con un corpicino affusolato diviso in due parti, la testa un po’ allungata e il resto del corpo che sembrava proprio un fuso, visto che finiva a punta; aveva delle zampette più fini di un filo di ragnatela e piuttosto lunghe in proporzione al resto; e poi aveva due alette trasparenti, sottili, piene pienissime di arzigogolati disegni che rifrangevano la luce nei mille colori dell’arcobaleno.Come lo vogliamo chiamare? Insettino? Troppo banale. Moscerino? Come l’altro. Ci sono! Zampettino! Eh? D’accordo? Perfetto.Zampettino era solito svolazzare in un posto all’aperto... come si dice? un posto pieno di erba, fiori e piante?! Come? Ah, giusto: un parco. Un parco piccolo, comunque, un...(ih ih!) parchettino: non è che il nostro piccolo moscerino amasse molto gli spazi troppo aperti. Parrà strano, ma Zampettino ero uno di quei rari insetti alati che in volo amava dilettarsi nel canto, lasciandosi ispirare a volte dal ronzio più o meno lieve delle proprie ali, a volte dai suoni che sentiva qua e là mentre se ne vagava tranquillo a mezz’aria. Zampettino era un esserino molto socievole, carino, spensierato; lui non poteva fare a meno di salutare tutti quelli

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che incontrava; a volte, sfruttando tutto quello che aveva a disposizione di zampette, alette e testa, riusciva a salutare contemporaneamente anche una decina di insetti più o meno amichevoli che incrociava, sorvolava o che gli passavano sotto - il traffico in certi momenti è veramente intenso!C’era però un piccolo inconveniente di cui Zampettino spesso si dimenticava: era talmente leggero che bastava un piccolo soffio di brezza da trovarsi improvvisamente in un’altra parte del suo amato parco, totalmente incapace di coordinare i suoi movimenti, fino a trovarsi... sbattuto nei posti meno immaginabili. Proprio stamattina me lo sono ritrovato appoggiato su una pagina del libro che stavo leggendo. Si è fermato non più di un attimo, ma per lui, così piccolo, chissà quanto è durato; poi, dopo essersi riassestato sulle sue finissime zampette e aver scrollato la testolina per riprendersi da quel volo incontrollato, aprì le sue alette cristalline e riprese il suo volo spensierato e sereno, canticchiando allegramente il suo brano preferito.

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UN CERCHIO FRA LE NUBI

Questa non è la storia di una nube cupa e minacciosa che incombe su persone e personaggi poco fortunati o che accompagna famiglie a dir poco strane e fuori dagli schemi, mentre il resto del cielo è limpido e il sole illumina il mondo circostante.No.Questa è proprio una storia completamente diversa.E’ la storia di un omino piccolo piccolo, che portava avanti la sua vita quotidiana con assoluta tranquillità e pacatezza. Lui diceva di vivere una vita assolutamente normale, ma appena saprete che cosa gli successe in un giorno come tanti, sono certo che non potrete fare a meno di rimanere a bocca aperta e con gli occhi spalancati dalla meraviglia.Tutti in paese conoscevano... Parlottino (già il nome...), chi di più, chi di meno, chi solo di vista, chi lo considerava un amico.Il primo che si accorse di ciò che successe a Parlottino, fu uno dei saggi del paese, soprannominato il Robusto, a causa della sua prestanza fisica e in particolare del suo peso. Un giorno che era seduto su una panchina del giardino che confinava con casa sua, a godersi quei pochi raggi di sole che filtravano da un cielo pieno di nuvole come non si era visto da molti mesi, vide giungere a passi corti e svelti l’omino vestito molto elegantemente, con tanto di cappello e bastone da passeggio. Man mano che Parlottino avanzava sul vialetto del parco, il Robusto si rendeva conto che il piccoletto - così lo chiamava affettuosamente - stava canticchiando a bocca chiusa un allegro motivetto che lui aveva imparato quando andava alla scuola elementare. ‘Non ci posso credere!’ si disse il Robusto ‘E come fa quel nanetto a conoscere quella canzone?’

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Di un’altra cosa si accorse il saggio, mentre guardava Parlottino avvicinarsi. Gli si aprì la bocca di botto e gli occhi si spalancarono a più non posso, e dopo un attimo sussurrò tra sé e sé: “Se lo racconto agli amici dell’osteria non mi crederanno mai!”. Voleva chiedere all’ometto che gli passò davanti che cosa stesse succedendo, ma tale fu lo stupore che non riuscì nemmeno a dire ‘che’.Un’altra persona incontrò quel piccolo uomo in quello stesso giorno, era la giovane sposa del sindaco del paese; la chiamavano la Normanna perché, oltre ad essere una donna alta e dall’aspetto regale, aveva i capelli biondo platino, proprio come i popoli che vivono vicino ai mari del nord. Stava amabilmente chiacchierando con alcune amiche quando vide in lontananza apparire il nostro piccoletto, vestito di tutto punto e con un sorriso tremendamente simpatico; il suo passo buffamente saltellante la metteva di buon umore più di quanto non lo fosse già di suo. Ogni tanto, mentre ascoltava un’amica o l’altra, lo guardava avvicinarsi. Questo fino a che non riuscì più a staccare lo sguardo da Parlottino; senza riuscire a dire una sola parola alzò il braccio e puntò l’indice verso di lui e le amiche che erano con lei non poterono far altro che girarsi per guardare ciò che la Normanna stava indicando. Tutte seguirono con sguardo incredulo quel nanetto che passava di fronte a loro; e lui con molta galanteria alzò il cappello in segno di saluto. Prima di svelare cosa stava succedendo a Parlottino, vi devo raccontare un altro incontro che fece il piccolo uomo in quel giorno tanto particolare, e cioè con il sottoscritto. A quel tempo io mi occupavo delle notizie riguardanti la vita del paese, in pratica curavo un piccolo giornale locale che veniva stampato una volta alla settimana. Venni incaricato dal consiglio comunale di svolgere questo compito per cercare di risolvere un problema che, per una comunità così piccola come quella in cui vivevo, aveva raggiunto dimensioni assolutamente inaccettabili: i pettegolezzi. Era talmente diffuso questo

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problema che ormai ognuno non raccontava più i fatti propri, ma quello che sentiva dire di sé dagli altri cittadini.Quel giorno, appena finito di lavorare, decisi che mi meritavo una bella passeggiata rilassante lungo il torrente che scorreva a sud del mio paesello. Camminavo senza guardare avanti, con passo lento e regolare, finché sentii dietro di me i passi veloci e ben scanditi di qualcuno che si stava avvicinando. ‘Che fretta!’ mi dissi prima di vedere che la persona che mi stava raggiungendo era Parlottino. “Buongiorno!” mi disse gaiamente l’omino levandosi il cappello. “Buongiorno!” risposi io chinandomi in avanti. “Bella giornata oggi, eh?” fece lui. “Be’, non male, direi” dissi io. Facemmo un po’ di strada insieme, io col mio passo rotondo e regolare, lui col suo passo svelto e saltellante, parlando del più e del meno o commentando i fatti riportati sull’ultima edizione del giornale del paese. Finché camminammo fianco a fianco tutto pareva normale, se non che sembrava che il sole riuscisse finalmente a filtrare un po’ di più fra le nubi. Ad un certo punto l’ometto mi salutò e accelerò il suo agile passo; mentre lo guardavo allontanarsi notai che il sole sopra di me era di nuovo scomparso, e invece era luminoso e brillante sopra la testa di Parlottino. Stupefatto di quel fenomeno, mi fermai, alzai gli occhi verso l’alto e vidi fra le grigie nubi un cerchio di cielo azzurro, da cui filtrava la luce del sole che illuminava il piccolo uomo e si spostava con lui, seguendolo ovunque andasse: mi sembrò il faro puntato sul protagonista di un grande spettacolo.Per i giorni a venire non si parlò d’altro in paese; e il bello è che da quel giorno in poi nessuno seppe dire se si fosse trattato di un’allucinazione generale o se fosse stato l’ennesimo pettegolezzo inventato da chissà chi, perché le persone potessero avere qualcosa di cui discutere quando si incontravano per la strada. Se così fosse stato, io avrei certamente perso il mio incarico di narratore della realtà.

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UN CIELO OMOGENEO

Il cielo stamattina è d’un colore omogeneo, tutto lo stesso colore fino a perdita d’occhio. Succede anche in inverno nelle giornate serene, quando l’azzurro del cielo è cristallino e permette di vedere fin dove è possibile agli occhi. Stamattina invece il colore è unico, ben distribuito, ma tende ad un grigio azzurrino. Non è che mi metta tristezza, è già tanto che non piova e possa farmi una passeggiata in questo enorme e bellissimo parco senza la preoccupazione di bagnarmi. E’ la prima volta però che vedo il cielo coperto di nubi senza la minima increspatura o una diversa intensità di colore qua e là. Comunque non essendoci foschia, il mondo circostante è ben definito, le cose si distinguono bene; certo, non hanno la luce dei giorni pieni di sole, ma vedere che gli alberi, i fiori, le panchine, i giochi, le persone, i cani, i cespugli, le biciclette, hanno dei tratti definiti... mi sembra di vedere il disegno di un bambino.E’ già estate, ma sembra che la stagione stenti a decollare, la brezza che soffia in modo quasi costante è tiepida e porta con sé l’odore della pioggia caduta da qualche parte, chissà dove. Di vita nel parco ce n’è, se non quella umana, sicuramente quella degli insetti: facendo il vialetto qualche minuto fa mi sono ritrovato in una nuvola di moscerini di chissà quale specie, che se non ne ho fatto banchetto è stato solo perché avevo la bocca ben chiusa.C’è calma. Sarà calma dopo la tempesta o quella che fa presagire una bufera? Chissà! Sì, è una calma un po’ piatta, sarà questa luce un po’ spenta:

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non fosse perché sono le dieci e mezza di un giorno di fine giugno, si potrebbe benissimo dire che siamo ai primi di ottobre. Forse anche il tempo ha bisogno di fare una pausa, di non essere sole pieno o nemmeno pioggia battente, ma di stare lì a metà, per decidere cosa sia meglio per quella giornata o in vista della successiva, per quello che deve succedere ad ognuno...Intanto me ne sto qui ancora un po’, a leggere il libro che mi sono portato, a sentire i bambini che giocano e strillano, a guardare le formiche che mi salgono sulla mano, ad osservare un moscerino atterrato malamente sulle pagine del mio libro, a godermi questo giorno.

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CON I TUOI SIMILI

Chissà perché, chissà percome, fra Callan, bruco verde del bosco, e le formiche giganti del monte era nata una grande amicizia, anzi grandissima, talmente grande che Callan probabilmente sarebbe stato ospite della tribù quasi ogni sera. Ma era necessario che tornasse a casa dai suoi genitori, dai suoi fratelli, dalla sua gente. Il tempo di cenare, dormire e far colazione, ed il bruchetto andava di corsa dagli amici di sempre, ormai si conoscevano... da una vita.Vi racconterò come si sono conosciuti.Un giorno Callan, che iniziava a mangiare tutti gli strati delle foglie di cui si nutriva, fu incuriosito da un via vai che avevo adocchiato appena al di là delle felci che delimitavano il territorio della sua colonia. Allora chiese alla sua mamma: “Chi sono quelli laggiù?” La mamma, interrompendo il suo pranzo, gli rispose: “Sono le formiche giganti del monte” Callan chiese ancora: “E dove vanno tutte così in fila?” Dopo qualche altro boccone la mamma gli disse: “Vanno in cerca di cibo, e forse adesso stanno tornando alla loro casa per mangiarlo, come dovresti fare tu al posto di parlare tanto”Il giorno dopo Callan rivide la colonna di formiche che sfilava dietro le felci e non poté fare a meno di chiedere alla sua mamma dove fosse la casa di quegli esseri così diversi. “Vivono sul monte” gli disse la mamma. “E dov’è?” incalzò lui “Mi ci porti un giorno?”“E’ lontano e poi il terreno è tutto su e giù, è faticoso da fare” rispose la mamma.Dopo qualche giorno, visto che le formiche passavano ancora lì vicino, Callan decise di vedere dove abitavano. Così si mise su

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un ramo da dove poteva vedere benissimo la colonna marciante e perfino vedere dove si trovava la loro casa. Seguendo con lo sguardo la direzione del loro cammino vide che le formiche ad un certo punto salivano per un monticello di terra e poi si infilavano all’interno di esso attraverso un’apertura non troppo grande.“Callan” lo chiamò la mamma “vieni a mangiare”“Vengo” gridò lui sbuffando.“Mamma. Posso andare a vedere dove stanno le formiche?” chiese un giorno Callan.La mamma ebbe un sussulto e quasi cadeva dalla foglia che stava rosicchiando.“No, piccolo mio, non è il caso”“Perché?” domandò subito il bruchino.“Perché ti rimanderebbero indietro”“Perché?” fece di nuovo Callan.“Perché sei diverso,” disse con tono triste mamma bruco “loro fanno sei passi e tu ne fai uno, loro sono veloci e tu non gli staresti dietro, loro vivono sottoterra e tu sugli alberi... ti prenderanno in giro”Dopo un attimo di riflessione Callan guardò la mamma e chiese:“Perché?”“Mangia adesso, un giorno capirai” E tutti e due ripresero a rosicchiare le loro foglie favorite.Se pensate che Callan si fosse convinto delle risposte della madre, vi sbagliate proprio.Infatti il giorno stesso, nel pomeriggio inoltrato, il bruchino scese dall’albero su cui passava tutti i suoi giorni e si avvicinò al punto in cui passavano le formiche. Restò a guardarle per un po’ e poi d’improvvisò gridò:“Ciao! Io sono Callan, voi chi siete?”“Macro, Micro, Folto, Scanso, Mirto, Zacco...” Ogni formica che passava declamava il suo nome e alzava la testa in segno di saluto.

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Sentendo che la mamma lo stava chiamando Callan disse a gran voce:“Devo andare! Domani ritorno! Ciao a tutti!”La mattina seguente, dopo aver ingoiato mezza foglia in gran fretta, disse alla mamma che aveva ancora sonno e che si sarebbe messo da qualche parte all’ombra a farsi un pisolino.“Non allontanarti, però” si raccomandò mamma bruco.Ma appena qualche rametto più in là, sicuro che nessuno l’avrebbe visto, Callan scese al suolo e tornò al punto d’incontro del giorno precedente. Decise di seguire la colonna di formiche. Dopo un po’ di tempo cominciò a piovere proprio mentre stavano attraversando un luogo senza ripari e tutti cominciarono a correre in varie direzioni per non bagnarsi del tutto. Anche Callan cercò di fare i suoi passi più veloce che poté, ma era ancora sotto l’acqua quando tutti i suoi compagni erano già all’asciutto. Si stava bagnando tutto e cominciava ad avere il fiato grosso, quando d’improvviso si sentì sollevare da terra: erano i nuovi amici che lo trasportarono in tutta fretta sotto un grande fungo poco lontano.Quando smise di piovere le formiche si diressero verso casa e un piccolo drappello di loro accompagnò Callan fin sopra al ramo dove stava sua madre, tremendamente preoccupata.“Mi hanno salvato dalla pioggia!” disse tutto felice il bruchetto.“Callan, dove eri finito?” lo rimproverò mamma bruco con voce malferma.“E’ tutto a posto, guardami mamma, sto bene”“Grazie!” disse la mamma rivolgendosi al piccolo gruppo di formiche. Queste salutarono con un inchino e raggiunsero i loro compagni.Nei giorni successivi Callan andò spesso a trovare le amiche formiche, proprio sul monte, senza potervi entrare perché lui era troppo grande per poter passare dal foro di entrata. Un giorno mentre tornava a casa incontrò una coccinella che divenne subito sua amica, si chiamava Inel. Dopo che ebbero fatto conoscenza, la bellissima Inel chiese a Callan:

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“Ti vedo spesso insieme alle formiche: non dovresti stare un po’ di più con quelli come te, con la tua famiglia?”“No, le formiche mi hanno salvato un giorno, sai?” rispose Callan “e poi sono così allegre, attive, simpatiche! Perché non dovrei stare con loro?”“Ma i tuoi simili ti conoscono meglio” disse Inel “sanno capire cosa ti serve, ti possono aiutare in caso di bisogno”“Sì, è vero, ma io mi annoio con loro” si lamentò Callan “stare con tanti come me mi fa sentire triste, sembra che i problemi li abbiamo solo noi: e stai attento qui, e stai attento là, sarebbe meglio che, e devi far così...”“Ma anche tu saresti utile a loro” disse allegra Inel “potresti invitarli ad essere più gioiosi, più spensierati...”“Sono utile a loro perché quando torno sono allegro e contento” disse sorridendo Callan “e poi stare insieme a gente diversa da me, come ora sto con te, capisco molte più cose”“Per esempio?” chiese Inel incuriosita.“Per esempio... Sono state le formiche a rivelarmi che diventerò una farfalla!”

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UNA VACANZA INSOLITA

“Ma chi me l’ha fatto fare di venire su questo strano coso bianco?” si chiedeva Marango il ragno mentre tentava di risalire lungo le pareti del lavandino “Appena incontro quella maledetta formica mi sente!”Marango tentò più e più volte di spostarsi da un punto all’altro di quella distesa bianca, voleva vedere come era fatto quello strano posto, quali opportunità offriva; ma ogni volta scivolava verso il punto più in basso e rischiava ogni volta di cadere nel foro di scarico.“Guarda tu se per fare una breve vacanza mi tocca fare tutta ‘sta fatica” si diceva stremato per i continui faticosissimi quanto inutili tentativi di farsi quattro passi in santa pace. Il bianco del lavandino lo ispirava, aveva ragione Wendy la formica a dire che sarebbe stata un’esperienza... non divina quanto lei asseriva, ma certamente particolare e forse anche divertente. Solo che si era dimenticata di dirgli che era come tentare di muoversi sul ghiaccio.Provò anche a lanciare qualche filo della sua ragnatela, ma lo smalto di quel lavandino era talmente liscio che la tela non riusciva a fare presa da nessuna parte. “Sta a vedere che per aver ascoltato il consiglio di quella squinternata di Wendy mi toccherà passare qui il resto della mia vita!” si lamentava Marango di fronte all’impossibilità di trovare una soluzione.“Be’...” si disse sconsolato ad un certo punto “qui ormai fa buio, di andarmene da qui non se ne parla, tanto vale che ci dorma su e domani vedremo il da farsi”Il mattino dopo preannunciava una bellissima giornata, calda e piena di sole, ideale per farsi una passeggiata. Marango si svegliò dal suo sonno con calma, con aria serena, allungò un

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po’ le sue lunghe zampe e fece qualche sbadiglio. Già pregustava l’idea di trovare la colazione bell’e pronta sulla ragnatela, ma il bel pensiero svanì subito, perché si ricordò chiaramente dove si trovava dalla sera prima. “Oh no! Ma è proprio un incubo!” si lamentò a gran voce.Dopo qualche altro momento di sconforto, Marango decise che era venuto il momento di riprovare ad uscire da quella gola scivolosa e bianca in cui si era ficcato.Nel frattempo si era alzato anche Astolfo. Come ogni mattina si recò in bagno per le faccende mattutine, si guardò nello specchio e salutò con un sorriso il suo amico Oflotsa. Con la bocca già piena e masticante, il criceto gigante disse ad Astolfo: “Hai un ospite”“Dove?”“Lì, nel lavandino!” indicò Oflotsa.Astolfo guardò nel lavandino e vide un ragnetto dalle zampe un po’ allungate che cercava inutilmente di risalire verso il bordo del lavandino, probabilmente per andarsene da quel posto così inadeguato per un ragno.Astolfo cercò qualcosa con cui aiutare quello sprovveduto insetto, ma si rendeva conto che avrebbe potuto mettere fine alla sua vita in men che non si dica.“Qui c’è una sola soluzione” disse poi. E preso un bel respiro soffiò con grande forza verso il ragno.“Uaaah!” urlò Marango mentre di sentiva spazzato via da una gran folata di vento. E urlò ancora di più quando si rese conto che stava precipitando nel vuoto. Gli bastò comunque molleggiare bene sulle sue lunghe zampe per atterrare senza farsi del male.“Uau! L’incubo sembra finito” si disse cercando in tutta fretta di tornare all’aria aperta.Appena trovò la giusta via, si mise in cerca di un buon posto per fare una bella ragnatela, aveva fame e quindi doveva sbrigarsi.“Oh Marango!” urlò Wendy che l’aveva visto da lontano “Com’è

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andata la... vacanza?” chiese titubante notando l’aria un po’ irritata del ragno. Marango restò a guardarla a lungo, tentato di fare colazione a base di formica. Poi sbottò: “Un disastro! Un vero disastro!”“Che è mai successo mio buon amico?” chiese Wendy.“Mio buon amico un corno!” gridò di nuovo il ragno “Era un posto talmente liscio che non riuscivo a fare due passi! Anzi, ci riuscivo, ma poi scivolavo sempre nel punto più basso!”“E come hai fatto ad uscire?” domandò la formica con grande curiosità.“E’ stato il vento! Non fosse stato per quello sarei rimasto là! Per l’eternità!” urlò furioso Marango e allontanandosi continuò: “Il vento... capisci? Sarei morto! Un soffio! se no...stecchito

sarei!”“Ma che amico ingrato!” si disse Wendy “Tu ti fai in quattro perché viva nuove esperienze! E poi? E’ forse colpa mia che non è andato tutto per il meglio? Tze!” Qualche giorno dopo i due insetti si incontrarono di nuovo. Appena si videro, si fermarono a distanza, si guardarono con musi ostili senza muovere un altro passo. Passò di là un bruco che, vedendo quella scena, si fermò a guardare perplesso: “State facendo un duello o giocate alle belle statuine?” chiese ad un certo punto.“Fatti gli affari tuoi!” dissero all’unisono Wendy e Marango.“Screanzati!” disse offeso il bruco riprendendo la sua strada.Formica e ragno, dopo aver seguito con lo sguardo quel ficcanaso che se ne andava, si guardarono di nuovo, ma dopo neanche un attimo non riuscirono più a trattenere le risa. “La settimana bianca!” diceva Marango continuando a ridere.“Il vento salvatore!” ribatteva Wendy con le lacrime agli occhi per le risate. Ne parlarono ancora di quella vacanza sul bianco lavandino scivoloso, e ogni volta che la raccontavano era come riviverla in quel momento: loro due ridevano come pazzi, chi li ascoltava invece pensava che pazzi lo erano sul serio.

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DUE ACQUE

Un torrentello di campagna, né troppo largo né troppo stretto, scorreva placidamente fra due filari di platani. Sembrava una giornata come tante, il sole splendeva caldo nel cielo, l’acqua era al solito un po’ verdina, le piante sommerse si lasciavano ondeggiare al fluire della corrente, e qua e là risplendevano piccoli diamanti di luce solare. Non certo come il giorno prima, quando piovve a più non posso e il torrentello si sentiva un po’ gonfio.Quel mattino tutto sembrava tranquillo, quando ad un certo punto il torrentello si sentì stranito, come se fosse stato diviso in due.“Che strana sensazione...” si disse il torrentello “Che sarà mai? Non mi starò buscando qualche malanno per la pioggia che è venuta ieri?”Mentre faceva questi pensieri, si fermò sulla riva un merlo che voleva dissetarsi, ma lanciata un’occhiata al torrentello, fischiettò esterrefatto: “Che razza di acqua è mai questa?”Il torrentello sentendo quelle parole chiese al merlo: “Come sarebbe a dire che razza di acqua è?” Ma quello aveva già preso il volo alla ricerca di un altro luogo dove potersi dissetare.Si fermò un cane vagabondo. Stava già pregustando ad occhi chiusi la bevuta che si sarebbe fatto, ma appena adocchiò l’acqua disse con voce grossa: “Oh, grande boby, mai vista un’acqua del genere!” Si stava già allontanando, quando il torrentello gli gridò: “Ehi, come ti permetti? Che ha la mia acqua che non va?”“Dovresti farti curare!” disse il cane girando la testa all’indietro.“Allora son proprio malato!” si disse il torrentello

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piagnucolando.Dopo qualche tempo vide passare di là una mucca che camminava a passo lento.“Signora Mucca!” chiamò il torrentello. La mucca si guardò intorno e non vedendo nessuno urlò spaventata: “Mmma chi ha mmai detto qualcosa?!”“Io” cercò di rassicurarla il torrentello “Sono io signora Mucca, il torrente al suo fianco”La mucca lo guardò incredula e dopo un attimo di meraviglia muggì: “Mmma ti pare il mmodo di mmolestare una povera mmmucca!”“Mi scusi, non volevo spaventarla” disse gentilmente il torrente “Vorrei solo chiederle se nota niente di strano in me”La mucca avvicinò il muso verso l’acqua e dopo aver guardato bene disse: “Ora che me lo fai notare, c’è sì qualcosa di strano: sei diviso a metà e neanche troppo bene”“Cheee... significa?” si lamentò il torrentello “Sooono fatto a peeezzi, forse?”“A pezzi non direi” disse la mucca “mma di due colori lo sei!”“Oh, per tutti i flutti, adesso svengo!” sussurrò sgomento il torrente. Poi subito chiese alla mucca: “Ma di che colori sono?”“Sei un po’ verde e un po’ mmarrone” rispose la mucca divertita.“E pensi sia grave?” domandò ancora il torrente.“Be’, io la tua acqua in questo punto non la berrei, forse un po’ più in là” disse la mucca un po’ più seria.“Perché un po’ più in là?” il torrentello non capiva.“Perché sei diviso, sì, ma solo qui, dopo quella grande curva” spiegò la mucca.“Oh, ma allora... niente di grave!” disse sollevato il torrentello.“Pare quasi un’irritazione locale!” disse la mucca.“No, è che ieri tutta quella pioggia... deve aver smosso un poco il monte” azzardò il torrentello.“Mmma che vuoi? Tutti prima o poi ci sentiamo divisi in due. Guarda mmme” disse la mucca “ho due corna, due zammpe

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davanti, due dietro, due occhi, due orecchie...”“Eh già, vedo” disse il torrentello “Per me è davvero la prima volta, non sono abituato ad avere due acque”“Mmmh! Ti comprendo, sai?” disse benigna la mucca.“Perché? Anche tu ti sei divisa da poco?” chiese il torrente meravigliato.“No. Più che altro è la mmia coda” rispose la mucca.“Ah! E perché mmai?” chiese con trasporto il torrente.“Anche lei non è divisa, è una sola” disse la mucca.“Be’, cosa c’è di strano? Anch’io lo sono di solito!” fece notare il torrente.“Sì, mmma la mia coda” disse la mucca un po’ affranta “non vorrebbe stare sola, cerca sempre di dividersi: è per questo che tutto il santo giorno va un po’ di qua e poi va di là, torna di qua e ancora di là, prima di qua, dopo di là...”“Eeeeh!” gorgogliò il torrentello “Io ho due acque e non lo sapevo, tu hai una coda che vorrebbe una gemella... E’ davvero tanto strano questo mondo dove scorro!”

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UNA STRADA LASTRICATA NEL BOSCO

Ludovico stava passeggiando con spensieratezza lungo un sentiero nel bosco dietro il castello di suo padre, quando ad un certo punto si fermò di colpo: si girò indietro e si accorse che da qualche centinaio di metri non stava più camminando su un sentiero fatto di terra e sassi; no, era una strada lastricata, fatta di lastre di marmo di varie forme, ma tutte, tutte bianche.“Che ci fa una strada così conciata nel nostro bosco millenario?” si chiese a ragione Ludovico. E con questa domanda in testa, ancora senza risposta, ricominciò a camminare nella stessa direzione verso cui stava andando prima di fermarsi a notare quella stranezza. Camminò a lungo, quella strada bianca sembrava non finire: un po’ saliva, un po’ scendeva, faceva un’ampia curva, poi sembrava ritornare... ma capire dove andasse a finire esattamente pareva non fosse possibile saperlo.Ad un certo punto Ludovico si fermò, erano ore che stava camminando e altrettante ore doveva camminare per tornare al castello.“Ci tornerò domani” disse tra sé “ma in groppa a Giacinto, il mio destriero”Quando arrivò al castello non parlò con nessuno di ciò che aveva visto, prima doveva scoprire dove conduceva quel sentiero... ormai un ex-sentiero, sembrava il pavimento della sua camera da letto.Così, la mattina dopo, alzatosi molto presto, si recò alle stalle dove sellò personalmente il suo cavallo.“Oggi Giacinto ti porto a vedere una cosa...” disse al cavallo mentre gli infilava il morso e le briglie “Non te lo potresti proprio immaginare, caro mio”

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Il cavallo, giratosi verso il suo cavaliere, sembrava guardarlo con aria interrogativa.Si avviarono verso il bosco quando il sole aveva appena iniziato a filtrare fra gli alberi.Con sua grande sorpresa, Ludovico notò che la parte lastricata del sentiero iniziava a poche centinaia di metri dal castello; fermò il cavallo, si volse indietro, guardò ancora avanti e poi si disse:“Ieri non cominciava in questo punto, qualcuno stanotte si è dato un gran da fare” Ripresero il cammino al trotto, gli zoccoli di Giacinto risuonavano sulle lastre di marmo come se passeggiasse per le stanze del castello. Ci vollero comunque alcune ore per giungere al punto in cui il sentiero finiva. A qualche centinaio di metri da quel luogo Ludovico scese da cavallo e si avviò a piedi con Giacinto al seguito.Man mano che si avvicinava il cavaliere sembrava ricordarsi di quel luogo, di quello che aveva provato la prima volta che suo padre ce l’aveva portato e di tutte le volte che ci era stato fino all’età di sei anni. Si stupì della chiarezza con cui ricordava le esperienze legate a quel posto, non ci aveva più pensato.C’era una casa fatta di pietre, con un tetto molto alto e spiovente, ricoperto completamente di rami secchi e di paglia. Dal camino usciva del fumo, il che significava che ci abitava ancora qualcuno.“Non sarà ancora il vecchio Melandro?” si chiese perplesso Ludovico.Legato il cavallo allo steccato che circondava la casa, si avvicinò con passo lento alla porta d’entrata, aperta come lo era sempre quando ci veniva da bambino. Arrivato sulla soglia si fermò un po’ ad osservare la casa, la facciata con le due finestrelle rettangolari, i vasi di legno sui davanzali con fiori d’ogni genere, la trave sopra la porta con inciso il nome di Melandro e la forma stilizzata di una faretra ed un arco pronto a scoccare una freccia; poi si girò a guardare il terreno

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circoscritto dallo steccato, l’orto sulla destra con ogni sorta di ortaggi, l’abbeveratoio per gli animali del bosco, vicino al punto di entrata; il piccolo pozzo sul quale suo padre lo aiutava ad arrampicarsi per sentire l’eco della sua voce mentre cantava quella buffa nenia che gli aveva insegnato donna Miriam, la sua nutrice. Quanti ricordi!Si girò per bussare alla porta, ma si trovò davanti... il vecchio Melandro? Sì, era proprio lui che lo guardava con i suoi occhi verdi luccicanti, uno sguardo tanto intenso quanto dolce e il sorriso appena accennato sulle labbra... sembrava non fosse invecchiato per niente.Restarono così per lunghi istanti, a guardarsi negli occhi; poi si abbracciarono ed infine entrarono nella casa. Appena entrato Ludovico si lasciò invadere dall’odore delle erbe appese sopra il camino, della legna bruciata, della paglia del tetto... e ad ogni profumo emergeva un ricordo.Melandro, con un gesto della mano, lo invitò a sedersi al grande tavolo centrale, prese due boccali e versò della birra. Fecero un brindisi a quell’incontro dopo tutti quegli anni.“Venticinque anni!” disse Ludovico guardando negli occhi l’amico.“Già!” disse il vecchio con un filo di voce.“Sono opera tua quelle lastre di marmo sul sentiero, vero?” chiese il cavaliere.“E di chi altri se no?” ribatté sorridente Melandro “Io dovetti partire, ma ti avevo promesso che ci saremmo rivisti, no?”“Solo che non mi avevi detto...” Ludovico si interruppe preso da un nuovo ricordo “Le nostre strade si incontreranno ancora, mi dicesti”“E se non si incontreranno...” cominciò a dire il vecchio.“...faremo in modo che si incontrino” completò il giovane. Poi aggiunse:“Sono stati momenti importanti quelli che ho passato con te”“Lo so” disse Melandro commuovendosi “Sono stati importanti anche per me, sei stato il figlio che non ho mai avuto”

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“Ed io mi sentivo tuo figlio, nonostante un padre ce l’avessi” Poi seguendo un altro ricordo, Ludovico disse: “Stai per lasciare questo mondo, vero? Avevi detto che speravi ci rivedessimo presto, o almeno prima che tu morissi” “Ti ricordi proprio tutto?” disse Melandro con un sorriso triste “Non potevo andarmene senza mantenere l’unica promessa che mi stava a cuore”Il giovane cavaliere rimase col suo vecchio amico per l’intera giornata. Mentre stava per tornarsene al castello disse a Melandro che sarebbe ritornato nei giorni a seguire per stare con lui fino al momento estremo; ma quando arrivò il mattino dopo col suo fedele Giacinto, capì ancor prima di entrare nella vecchia casa che l’attempato cavaliere era già in viaggio per la sua ultima missione.

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PUSILLANIME!!

“Sei un maledetto pusillanime!!” gridò il balivo all’amico bardo seduto nella taverna di fronte a lui “Dopo tutti questi anni hai deciso che donna Marta non sia più degna di far parte della tua compagnia, eh?”Il bardo lo guardava di sottecchi senza aprire bocca.“E poi? Per che cosa?” continuò il balivo “Per un’attricetta squinternata che probabilmente ti ha fatto girare la testa, ma che di fatto non sa nemmeno cosa sia il palcoscenico!”“E’ necessario che le compagnie d’arte si rinnovino” disse il bardo remissivo.“Certo!” urlò il balivo alzandosi in piedi “E tu chi fai fuori? Colei, mia moglie tra l’altro, che ha fondato con te la compagnia. Anzi, non fosse stato per le sue insistenze quella compagnia non sarebbe neppure nata!” “Lo so, lo so” disse il bardo “Ora sei fuori di te, ma più in là capirai!”Il balivo lo fulminò con lo sguardo. Si chinò verso l’amico, si mise con la faccia a pochi millimetri dalla sua e poi disse con voce minacciosa: “Non sono io che devo capire, è Marta!”“Ma... comunque” aggiunse il bardo “Marta può restare nella compagnia, io non ho motivo alcuno per allontanarla”“E pensi che lei accetterebbe? Sei proprio un pusillanime, sei un senza midollo, un bamboccio!” disse il balivo con uno sguardo di commiserazione “Come puoi pensare che lei che è stata la musa delle tue opere, l’interprete più applaudita di tutti i dintorni, il secondo nome della compagnia accanto al tuo, e questo solo per la tua vanagloria, possa cedere il passo con non chalance e mettersi in un angolo a guardare morire la compagnia alla quale ha votato totalmente la propria vita di

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artista? Sai come si chiama questo, dopo quindici anni di intesa? Tradimento! E chi tradisce rivela finalmente la sua vera natura: è un falso, è un racconta frottole! E più di tutti le frottole le racconti a te stesso! Perderai il rispetto di chi ha creduto in te in questi anni e di tutti quelli che sapranno di quale infimo livello sei!”E detto questo uscì dalla taverna.Il silenzio che si era creato alle invettive del balivo, fu sostituito dal brusio dei commenti sussurrati dai presenti che lanciavano sguardi intolleranti verso quell’artistucolo da quattro soldi che si fregiava del titolo di bardo.“E’ una reazione a caldo” disse quest’ultimo a chi era seduto ai tavoli vicini “Sono sicuro che sapranno comprendere la situazione e ci rideranno sopra”Detto questo anche lui se ne andò.Appena uscito dalla taverna pensò fosse una buona idea andare a trovare Marta.“Ah, sei tu” disse Marta freddamente appena aprì la porta di casa “Entra”“Marta, ci tenevo a dirti...” disse il bardo appena entrato, ma lei lo interruppe: “Che ti dispiace? Ma falla finita!”“No, volevo dirti che puoi rimanere nella compagnia” “A far che? La tappabuchi suggeritrice di quella là?”“Ti garantisco che Cosetta ha tutte le qualità per diventare una grande artista... certo lei vorrebbe che tu non ci fossi...”“E tu?” chiese Marta con le mani ai fianchi.“Io... io non ho motivo di mandarti via...” disse querulo il bardo.“Sento che stai per dirmi un ma” disse Marta guardandolo di sbieco.“Ma... non voglio nemmeno rinunciare a Cosetta”“Pusillanime!” sibilò Marta mentre si girava verso la finestra. Poi aggiunse: “Se credi che accetterò le tue meschinità e inutili proposte di mediazione, sei proprio... una nullità! Non sai farti valere, sei una mollica di pane che appena trova delle mani più

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morbide si lascia trasformare in una sfoglia trasparente”Dopo qualche attimo di silenzio Marta si girò verso il bardo e gli disse con voce ferma e calma: “Senti, non abbiamo più niente da dirci, tieniti la tua pivella, spero che possa almeno darti delle soddisfazioni”“Mi dispiace” sussurrò il bardo avvicinandosi alla porta.“Ma non ci credi neanche tu!” ribatté Marta sempre calma “Ho creduto in te per quindici anni e pensavo fosse lo stesso per te; pensavo fossi un uomo e invece sei un vigliacco ipocrita e opportunista. Chissà, forse ho sbagliato io a giudicarti in tutti questi anni, tutto potevo pensare e intuire tranne che tu fossi... un pusillanime, anzi meno di un pusillanime!”Il bardo stava aprendo la porta quando Marta aggiunse: “Mi auguro che la tua biondina non si stanchi troppo presto di te, perché se dovessi venire a bussare a questa porta potresti capire molto in fretta e concretamente cosa significhi essere un senza midolla!”

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DUE CANI

In un cortile di una piccola villetta vivevano due cani, uno si chiamava Abbabbaio e l’altro Boffof. Il primo era un cane piuttosto alto, con il pelo lungo e bianco e abitava lì da molto tempo e quindi si sentiva un po’ il capo. Il secondo, più piccolo, aveva il pelo corto e color rame. Abbabbaio aveva le orecchie rivolte verso il basso, ma non erano molto lunghe; anche Boffof aveva le orecchie all’ingiù, ma le sue erano molto lunghe, tanto che quando mangiava o beveva rischiava sempre che gli finissero nella ciotola.La vita in quel cortile era un po’ monotona, non c’erano bambini, non c’erano altri animali... In alcuni giorni non c’erano nemmeno i padroni e quando questo succedeva veniva un vicino per occuparsi dei due cani, ma non è che fosse molto espansivo.Il grande divertimento per Abbabbaio era acquattarsi lungo la ringhiera di cinta e poi d’improvviso iniziare ad abbaiare a quelli che passavano per quella strada con tutta la voce che aveva in gola. “Hai visto che spavento si sono presi?” diceva ogni volta a Boffof che rispondeva imperturbabile: “Davvero? A me non pareva”“Ah, con te non c’è proprio gusto!” ribatteva deluso Abbabbaio “Come fai a restartene così quieto? Sei una noia mortale!”Boffof non rispondeva, socchiudeva per un attimo gli occhi e poi tornava a sonnecchiare.Quello che invece faceva imbestialire Abbabbaio era vedere passare gli altri cani, tanto più se erano da soli, senza guinzaglio, né padrone. “Non li sopporto proprio quelli lì!” diceva rivolgendosi al suo compagno. Boffof dal canto suo lo guardava per qualche secondo e poi

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diceva: “Bof! Per me te la prendi per nulla”“Eccone un altro!” gridava Abbabbaio e correndo lungo il muretto inveiva contro di lui a più non posso.“Cosa mai ci troverà di così irritante in un collega che passeggia per i fatti suoi...” sussurrava Boffof volgendo gli occhi al cielo.In estate molti andavano in vacanza, per cui c’erano giorni in cui non passava nessuno da quella strada, né persone, né animali. Erano i giorni preferiti da Boffof, perché non doveva sopportare le urla del suo compagno di cortile e poteva starsene sdraiato a sonnecchiare sotto il salice tutto il tempo, tranne naturalmente che per mangiare e fare i suoi bisognini.Abbabbaio invece continuava a girovagare avanti e indietro lungo la ringhiera che dava sulla strada, senza riuscire a darsi pace: “Possibile che oggi non ci sia nessuno con cui divertirmi un po’?” Si diceva passando a fianco di Boffof che russava placidamente; dopo averlo guardato qualche istante aggiungeva: “Con te non ci provo neanche, non mi daresti soddisfazione!”Ma ecco che un giorno d’improvviso sentì un rumore, sottile, continuo, sibilante. Abbabbaio alzò le proprie orecchie più che poté e poi volse lo sguardo verso la strada. “Ah, forse oggi non sarà una giornata persa!” disse dirigendosi verso il muretto di cinta. Arrivato circa a metà si mise accucciato e pian piano alzò la testa quel tanto che gli permettesse di vedere cosa o chi stesse arrivando. In lontananza cominciò a vedere una strana figura, né uomo, né animale, con degli strani piedi che non si staccavano mai da terra e che giravano in continuazione. “Che razza di... bestia è mai questa?” sussurrò sgranando gli occhi dalla meraviglia “Ora glielo faccio vedere io chi sono!”E appena lo strano ‘coso’ fu sufficientemente vicino, ecco Abbabbaio alzarsi in tutta la sua altezza e abbaiare più forte che poté contro quello strano essere che si azzardava a passare per quella strada e continuava imperterrito ad avanzare - BAU, BAU, BAU, BAU... BAU... - che però poi alla fine - Bau... - non

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sembrava essersi spaventato molto e anzi pareva - bau... - che del suo vocione - bauf... - se ne facesse un benedettissimo baffo - boff boff... “Che vuoi?” chiese d’un tratto Boffof che si era avvicinato in silenzio. “Uaaah!” urlò Abbabbaio facendo un gran salto di terrore; appena tornato a terra gli gridò: “Ma che ti salta in mente di spaventarmi a questo modo? “Mi hai chiamato e sono venuto” disse calmo Boffof.“Io? Ma quando mai ho avuto bisogno di chiamarti... io!” disse con tono offeso il cagnone bianco.“Eppure io ho sentito chiamare!” ribadì Boffof con un tono un po’ meno assonnato.“Sarà stato quel tipo! Là... guarda” indicò col muso Abbabbaio “è ancora lì a salutare... bla bla bla... Potreste andare molto d’accordo, ti somiglia proprio, tutto calma e gentilezza!”“Ah quello?” disse Boffof vedendo la persona al di là della ringhiera. Capendo d’improvviso cosa era successo, con aria divertita aggiunse “Sì, sì, andiamo molto d’accordo!”“Lo conosci?” chiese Abbabbaio dopo un momento di sbalordimento.“Io?” domandò l’altro “E chi lo conosce?”“E come fai ad andare d’accordo con quello se non lo conosci?” domandò Abbabbaio esterrefatto.“Eh eh eh! Perché con la sua calma e gentilezza è riuscito a farti smettere di fare il casinaro!” rispose Boffof col suo solito tono tranquillo.“Io casinaro?” scattò Abbabbaio “Io sono il fedele guardiano de...”“...dei miei stivali” continuò Boffof “che evito accuratamente di portare perché finirei col dormirci dentro” E lasciando l’altro senza altre parole tornò sotto il salice a godersi la frescura.

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PADRONE DELLA STRADA

Ormai Arcondio sapeva di essere il padrone della strada: aveva tra le mani un mezzo che valeva la pena possedere solo a patto di sfruttarne al massimo tutte le potenzialità. E lui ne aveva tutte le intenzioni. La struttura del suo nuovo bolide era solida, perché il telaio era fatto con tubi d’acciaio, le ruote erano larghe, con un battistrada molto spesso, un motore con un’accelerazione invidiabile, un sistema di guida a joystick tanto evoluto da dare alle sterzate grande precisione e nello stesso tempo estrema agilità: tutti elementi che rendevano quel mezzo assolutamente sicuro, non c’era pericolo. Ci si poteva permettere, senza problemi, di guardarsi intorno per godersi i paesaggi e il panorama: il controllo era assoluto.Ah... Finalmente avrebbe potuto viaggiare molto di più, vedere nuovi luoghi, conoscere altra gente: che gli importava ormai di girovagare solo per le strade della sua striminzita provincia, della sua regione e anche della sua bella e declamata nazione? Ora poteva andare e tornare in un giorno macinando centinaia, se non migliaia di chilometri; glielo permetteva, oltre alla grande sicurezza, un’autonomia di carburante strepitosa: il serbatoio era così capiente e i consumi talmente ponderati e contenuti che poteva permettersi di fare un viaggio di migliaia di chilometri senza doversi mai fermare a far rifornimento.Arcondio, dal giorno stesso in cui si era regalato quella bellezza di tecnologia, cominciò a girare in lungo e in largo ogni nuovo paese che gli veniva in mente di visitare ed ogni volta un fascino nuovo lo assaliva: quanti posti avrebbe conosciuto, quante tradizioni lo avrebbero conquistato, quanta conoscenza, quante cose avrebbe potuto raccontare ad amici,

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conoscenti, compaesani... e poi... quante donne avrebbe fatto sue con quel bolide fra le mani!Ritornare a casa ogni sera... oh... era una tale sofferenza! Non vedeva l’ora che venisse il mattino dopo. Appena sveglio prendeva la carta geografica mondiale e la scrutava per brevi attimi intensi e frenetici, con gli occhi assetati di chilometri... Appena adocchiava una qualsiasi strada che ancora non avesse percorso e una meta che valesse davvero la pena raggiungere, prendeva con sé quanto bastava per quel giorno - vestiti ce li ho, caffé l’ho bevuto, portafogli qui in tasca e... cosa manca? Ah! innaffiare l’ortensia che sennò schiatta - e via! si lanciava verso la più bella avventura che mai avesse vissuto: avrebbe fatto strada! Sì, soprattutto... strada!Ma in fondo ci era costretto!Perché il suo bolide, unico nella sua specie, più faceva strada, meno consumava! Se avesse deciso di fare i soliti viaggetti che si era ridotto a fare prima di accaparrarsi quel gioiello a quattro ruote, avrebbe finito il carburante in men che non si dica! Quello era un mezzo poco adatto a fare tappe o brevi tratti, no! Quello era un mangiastrada, i chilometri, l’asfalto erano il suo pane quotidiano.Ah, quali sensazioni di pienezza, di orgoglio, di libertà e di... oh... cose difficili da esprimere, tanto sono profonde. Ah, che viaggi! Ah, che posti! Ah, il vento tra i capelli! Ah, lo stupore e la meraviglia di chi ti osserva passare! Ehilà! Salv... sbadatabam!!...O...ddio, le stelle! Oddio, i pianeti! Oddio, le lune!... Oh, l’asfalto! Oh, che duro!Ma dico io! A chi è mai venuta in mente la brillante idea di mettere una deviazione per lavori in corso proprio sulla strada che stava percorrendo beatamente il mio amico Arcondio, eh?

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SALICI

C’erano, sulla riva del torrente che scorreva a fianco della strada del lago, due salici piangenti; il più vecchio, si chiamava Salix e l’altro, un po’ più giovane, Selis. Già da alcuni anni vivevano fianco a fianco, sfiorando le foglie l’uno dell’altro.A metà pomeriggio di un giorno di fine estate il salice più anziano si rivolse a quello giovane con una voce un po’ stentata: “Ehi!... tu… ehi… come si chiama?...Ehi!” Ma il giovane salice sembrava non sentire. Dopo qualche istante di pausa per riprendersi dalla chiamata, Salix ci riprovò, cercando di alzare la propria voce: “Ehi… tu… mi senti?” Nessuna risposta. “Il più anziano sono io” si disse l’albero “ma quello sordo è lui! Eh eh eh!” Così, dopo un’altra breve pausa, gonfiò ben bene i suoi rami cadenti e poi urlò più che poté: “Al fuocooo!!” Il salice più giovane si svegliò di soprassalto e preso dal panico cominciò a gridare: “Oh no! Aiuto! Pompieri! Dell’acqua! Aiuuuuto!” Solo dopo si accorse che del fuoco non c’era neanche l’ombra. Allora il vecchio salice, facendo finta di niente, chiese sorpreso: “Ehi… che t’è preso? Un incubo?”“Eh… sì… può darsi…” rispose Selis quasi singhiozzando.“Ma secondo te” chiese d’improvviso Salix con tono affaticato “mi stavo chiedendo: perché secondo te ci chiamano salici piangenti?”“E che cosa ne so io?” ribatté l’altro salice sbadigliando e scuotendosi un po’.“Ma… pensavo che essendo giovane…” iniziò a dire l’anziano.“Cosa?” accennò Selis, sentendo che l’altro si era fermato. E visto che non riprendeva lo chiamò con voce preoccupata: “Ehi!” Niente. Ci riprovò con un po’ più di voce: “Ehi!”

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Nessuna risposta. Cercò allora di allungare i suoi rami verso l’altro per scuoterlo e poi gridò “EHI!”Salix trasalì: “Oh! Che c’è? Che succede?”“Mi stavi dicendo ‘pensavo che essendo giovane’…” disse l’altro albero facendo un sospiro “e poi non hai più detto niente”“Io?” chiese l’anziano salice. E dopo un attimo di riflessione riprese con voce un po’ trascinata: “Ah sì! Ora ricordo! Visto che non sai perché ci chiamano salici piangenti, volevo dire che pensavo che essendo giovane conoscessi qualcosa in più di me del mondo”“Be’, io sono sempre rimasto qui come te” rispose il giovane salice “E poi non sono il tipo che si fa domande del genere, io”“La mia era semplice curiosità, un pensiero che mi è passato per le fronde e non se n’è più andato. Va be’…” concluse Salix.Il pomeriggio finì e i grilli iniziarono il loro concerto notturno.Il mattino dopo, appena il sole cominciò ad illuminare tutte le cose, i due salici cominciarono a stiracchiare i loro rami, che erano talmente lunghi da arrivare a toccare l’acqua del torrente. Il salice più anziano indugiò con i rami nell’acqua, lasciando che la corrente li facesse dondolare dolcemente. Il giovane, dal canto suo, faceva lo stesso e dopo qualche momento disse: “Mi sono sognato di essere interrogato da una quercia enorme che voleva confessassi di sapere perché ci chiamano salici piangenti”“Oh, nottataccia, allora?” chiese placidamente Salix.“Già” rispose Selis sbadigliando “Io più che piangente mi sento sempre stanco e dormirei sempre”“Non dirlo a me” disse il salice anziano con tono annoiato, continuando a far cullare i suoi rami dall’acqua “Neanche vorrei che questi rami fossero così lunghi e pesassero così tanto”“Be’, perché non farci chiamare salici affaticati?” propose il salice più giovane.“Mmm…” fece riflessivo Salix “potrebbe essere un’idea… ma mi sembra di stancarmi ancora di più…”

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“Sì, forse è vero” ammise l’altro e poi continuò: “E poi… salice… mi fa venire in mente qualcosa che sale, che va in alto, verso il cielo… I nostri rami, sì, salgono un po’, però poi… scendono”“Più che scendere” ammiccò l’anziano “cascano!”“Niente male la tua definizione, vecchio mio!” disse bonario il giovane compagno “Se ‘affaticati’ ti stancava di più, immagino che ‘cascanti’ ti faccia venire le vertigini”“Ah ah ah, buona questa!” esclamò Salix.Dopo qualche attimo di silenzio Selis ebbe un sussulto tale che l’altro si spaventò: “Che ti succede?”“Ho avuto una folgorazione!” disse tutto eccitato il giovane salice.“E che t’è venuto in mente?” incalzò Salix.“Ho deciso cosa sono!” annunciò fiero Selis.Visto che non si decideva a dire cosa aveva deciso, il salice anziano lo incalzò: “E allora?”“Io da oggi in poi” disse il giovane albero “visto che i miei rami scendono, non sarò più un salice, ma uno scendice!”“Davvero grandioso!” esclamò il più vecchio “E… uno scendice come?”“In che senso?” chiese Selis non capendo a cosa alludesse Salix, che subito gli chiarì la sua domanda: “Be’, prima eri piangente; ora come sei?”“Ci devo ancora pensare” scandì pensieroso il salice più giovane “ma certamente non piangente e nemmeno cascante”“Che ne dici di…” propose Salix “scendice ridente?”“Perché no?” disse Selis illuminandosi “Sai che sei proprio un salice intelligente, vecchio mio?” “No!” ribatté prontamente Salix “Io sono uno scendice intelligente!”

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NINI’ E NANA’

Ninì e Nanà erano due amiche che vivevano in un piccolo paese alle pendici di un monte. Le due erano molto diverse, quanto meno perché Ninì era alta e magra e Nanà bassa e grassoccia. Non era raro che gli amici, i parenti e i conoscenti le chiamassero, quando non erano presenti, ‘lo stecco’ e ‘la pallina’. Oh, Ninì e Nanà sapevano dei loro soprannomi, ma lasciavano correre, anche perché se i loro paesani avessero saputo come avevano ribattezzato ognuno di loro… come minimo le avrebbero rincorse con un bastone. Sì, perché le nostre due amiche erano delle vere e proprie monelle irriverenti, non che combinassero dei grossi guai, ma quanto a impicciarsi delle faccende altrui erano delle vere campionesse. Non per niente venivano anche chiamate ‘il parlatorio’; a memoria di molti, nessuno le ha mai viste insieme senza che parlassero, perfino contemporaneamente per non perdere tempo e raccontarsi il più possibile, soprattutto quando si avvicinava l’ora di rientrare alle rispettive case.Se pensate che mentre erano separate non comunicassero fra loro, vi sbagliate di grosso: certo non era ancora il tempo di telefonini e di internet, ma le due amiche avevano un metodo molto semplice per continuare a raccontare di questo o riferire di quello: si scrivevano delle lettere che poi il giorno dopo si scambiavano reciprocamente, le leggevano tutte d’un fiato e poi ognuna commentava, ipotizzava e aggiungeva notizie raccolte qua e là mentre si recavano a scuola. Ormai avevano raggiunto una capacità di ascolto tale che si potrebbe dire che avessero delle paraboliche radar al posto delle orecchie, potevano addirittura ricordare le informazioni captate ascoltando le chiacchiere di due gruppi diversi di persone a

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poca distanza gli uni dagli altri.Poi venne il giorno che le loro vite si separarono, la famiglia di Nanà si trasferì a un centinaio di chilometri dal paesello perché lì il padre aveva trovato un lavoro più redditizio e Ninì fu mandata a frequentare una scuola professionale dalla parte opposta della provincia. Le due naturalmente non si persero d’animo e continuarono a tenersi in contatto nel modo che già avevano utilizzato quando non potevano stare insieme, scrivendosi almeno due lettere al giorno. I genitori dell’una e dell’altra portarono pazienza per qualche mese, comprendevano che le due ragazze avevano bisogno di un po’ di tempo per abituarsi alla distanza; poi però limitarono la possibilità di scriversi lettere ad una volta alla settimana, perché la spesa di carte, buste e francobolli, senza contare penne e matite, cominciava ad essere un po’ troppo alta per il bilancio familiare.Ma una volta alla settimana non bastavano a Ninì e Nanà per raccontare tutto quello che venivano a sapere sui nuovi concittadini o sui compagni di scuola, avrebbero dovuto mandarsi dei pacchi di fogli per spedire i quali non sarebbe bastata la spesa per scriversi almeno quattordici lettere a settimana. Così, per risparmiare su carta, penne e francobolli, cominciarono a scriversi delle lettere che assomigliavano più che altro a delle liste della spesa, senza commenti, senza ipotesi, senza passione… Fino a che, col passare del tempo, smisero di scriversi qualunque cosa.E passarono anni, anni e anni, durante i quali le due amiche avevano continuato a vivere le loro vite lavorando, sposandosi, allevando figli, ma senza mai sentirsi o incontrarsi. Finché poi un giorno, ormai vecchie e un po’ malconce, fecero entrambe ritorno al paese dove erano nate, perché era là che desideravano finire i loro giorni.Potete immaginare lo stupore che provarono Ninì e Nanà quando, senza quasi riconoscersi, si rividero nella piazza del municipio, una da una parte e una dall’altra? E quale gioia

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sperimentarono nel pronunciare ognuna il nome dell’altra una volta che si erano avvicinate? Fu un momento davvero speciale, perché cominciarono a gridare e a ballonzolare in tondo mentre si tenevano abbracciate strette e quelli che passavano di là non poterono che fermarsi e fare un cerchio intorno a loro per ascoltare tutte le cose che si stavano dicendo ad una velocità di parola da non credere alle proprie orecchie, sembrava quasi che non trovassero il tempo per riprendere fiato. E per tutto il tempo ridendo e piangendo perché troppa era ancora l’emozione di essersi ritrovate dopo tanto tempo. Poi la festa durò soltanto un giorno, almeno per i loro concittadini, perché Ninì e Nanà, come fecero da giovinette, non si lasciavano davvero sfuggire nulla di ciò che accadeva intorno a loro e a quelli della loro generazione che le vedevano di nuovo passeggiare sotto braccio per le strade del paese, rifiorite per la felicità del reciproco ritrovamento, sembravano ancora quelle due bambine monelle e pettegole che parlavano in continuazione e si raccontavano con impazienza e con sguardo complice e malizioso le ultime notizie rubate qua e là. Insomma, quelli che pensavano che non avrebbero più sentito parlare delle due del ‘parlatorio’, si ritrovarono, loro malgrado, a raccontare essi stessi a discendenti e nuovi concittadini chi fossero quelle due nonnine tanto carine e divertenti, che tanto avevano da confidarsi ogni volta che si incontravano. La storia di Ninì e Nanà fece così il giro di tutta la regione; da essa nacquero canzoni, filastrocche, disegni e commedie teatrali e rimase per molto tempo la storia che più di tutte i bambini di tutte le età vollero sentirsi raccontare prima di andare a letto.

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L’UOMO CHE NON SAPEVA RACCONTARE LE STORIE

C’era una volta un uomo che ripeteva in continuazione di non sapere raccontare le storie. Chi gli chiedeva di raccontargliene una, in particolare i bambini, poteva ricevere una risposta di questo tipo:“Una storia? Ma io non sono un parlatore, il solo pensiero di dover mettere insieme un sacco di parole per raccontare qualcosa che abbia un principio e una fine, mi fa venire prurito dappertutto. E poi non ho molta memoria, non ricordo nemmeno le barzellette; e se per puro caso comincio a raccontarne una non mi ricordo mai qual è la battuta finale. Figurati che tutti i giorni devo scrivere su un biglietto quello che devo comprare e se penso adesso a quello che ho appena comprato alla bottega… non me lo ricordo, dovrei aprire la borsa e guardare cosa c’è dentro. Per fare un altro esempio, quando arriverò a casa, dopo aver parlato con te, io non mi ricorderò più di averti incontrato e di averti detto che non so raccontare le storie. E’ come se la mia memoria non funzionasse bene, o meglio, sembra non funzionare affatto; forse c’è qualche ingranaggio che non gira a dovere, ci vorrebbe qualcuno che mi aprisse la testa e vedesse cosa c’è che non va”Ed ecco che nel frattempo si avvicina una mamma con i suoi due bambini…“Io sono invidioso” continuava l’uomo che non sapeva raccontare le storie “di quelle persone che riescono a raccontare per filo e per segno che cosa hanno combinato alle dieci del mattino in un giorno di luglio di dieci anni fa. Come fanno a ricordarsi tutto così bene? Io potrei aver fatto di tutto, anche essermi fermato come adesso a parlare con qualcuno;

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oppure potrei essere caduto perché non ho fatto caso che un signore davanti a me ha appoggiato in terra la sua valigia proprio davanti ai miei piedi. Eh, eh, eh! Vi immaginate quante risate si sarebbero fatti quelli che erano lì intorno ad osservare la scena?”Ed ecco che anche una maestra e i suoi alunni si fermano ad ascoltare…“Non riesco nemmeno a capire come facciano a scrivere delle storie tanto lunghe e complesse quelli che scrivono i romanzi… i gialli…con tutti quegli incroci di persone… e poi le commedie con tutte quelle battute, le facce strane, le situazioni… Ma dov’è che vanno a trovare tutte quelle idee che riempiono centinaia e centinaia di pagine? A me si scioglierebbe il cervello! Dico io, quando hai detto che uno come me è uscito la mattina per fare la spesa, ha incontrato degli amici che gli hanno chiesto di raccontargli una storia e che lui ha risposto che non era capace e poi se n’è andato a casa sua… cosa vuoi dire di più? Certo, potrebbe raccontare quello che vi ho risposto parola per parola, ma non credo che la gente abbia voglia di star qui ad ascoltare quello che io ho da raccontare… Tanto più che non ho niente da raccontare, non vi sembra?”Dopo un po’ si fermano ad ascoltare quattro giovani studenti…“Sentiamo un po’” proseguiva l’uomo che diceva di non saper raccontare storie “se a uno di voi chiedessero di punto in bianco di raccontargli una storia… Eh? Che cosa raccontereste? Eh? Sareste anche voi un po’ sorpresi e increduli che chi ti incontra possa pensare che si è capaci di raccontare una storia”E anche due nonnini si fermano a sentire…“La mia mamma era davvero molto brava a raccontare le storie, a volte mi raccontava per ore, ore e ore…” Dopo aver fatto un sospiro al ricordo, l’uomo riprendeva “Ma io non me ne ricordo nessuna, son passati talmente tanti anni che ormai… E poi per raccontare storie ci vuole fantasia, bisogna creare situazioni che incuriosiscano e che tengano sulle spine chi sta ascoltando e che gli faccia venire voglia di ascoltare

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ancora quello che succede dopo, senza mai stancarsi, e che poi chieda al cantastorie di dirgli presto cosa succede dopo…”Immaginate quanta gente si fermava ogni giorno ad ascoltare le ragioni di un uomo che è convinto di non sapere raccontare storie e perciò è meglio che neanche inizi…?“No, troppo complicato raccontare storie, non sono la persona più adatta, rischierei di non sapere come continuare, per poi finire a dire le stesse cose, finirei in men che non si dica e nessuno si divertirebbe… come faccio io a…

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IL RAGNETTO CANTERINO E BURLONE

Ah… che bella l’estate quando si può stare all’aria aperta, seduti all’ombra delle piante fiorite o piene di frutti, senza troppo caldo e magari con un po’ di venticello… Io ho passato così la mia estate qui in collina, lontano dalla grande città, piena di macchine, di rumore, di smog, di gente che corre dalla mattina alla sera, che va a fare lo ‘sciopping’, che pensa a cosa deve fare dopo mentre sta parlando con l’amica, il cliente, il sacrestano o la suocera. Che mania sarà mai quella di essere sempre proiettati a domani? Non è ancora cominciato oggi e già pensi a domani?Comunque, dicevo, è così che ho passato la mia estate: ogni mattina, dopo aver fatto colazione, e ogni pomeriggio, dopo una bella dormitina, mi mettevo sotto una delle piante del giardino e stavo là per alcune ore a leggere o a scrivere, o anche solo a guardarmi intorno – ho lavorato talmente tanto durante tutto l’anno che l’unico pensiero che avevo in testa era quello di riposare, riposare e riposare.Una mattina mi sono messo sotto l’albero delle albicocche con tutta l’intenzione di leggere un romanzo di cui mi avevano parlato molto bene alcuni amici di famiglia. In effetti quel libro era davvero appassionante, più lo leggevo e più avevo voglia di leggerlo, preso dal desiderio di sapere come sarebbe andato a finire. Ero talmente preso dalla lettura che non mi rendevo conto del tempo che passava e più che essere all’ombra di rami carichi di albicocche, mi sembrava di essere nei luoghi dove agivano i personaggi della storia che stavo leggendo. Erano ormai passate almeno due ore da quando avevo iniziato a leggere, quando ad un certo punto sentii un suono finissimo, acutissimo come un tintinnio leggero che si ripeteva in varie

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sequenze, tutte diverse l’una dall’altra. Mi sono detto: ‘Sarà certo qualcuno che non riesce a fare a meno di giocherellare con il telefonino: neanche in vacanza si può star tranquilli!’. E poi mi sono rimesso a leggere.Passarono solo pochi minuti e sentii di nuovo quel suono tanto fine, quanto fastidioso. Alzai la testa dal libro per guardare intorno e trovare chi stava usando il cellulare in quel luogo di grande quiete; ma appena alzai lo sguardo, vidi davanti a me un piccolo filo argentato che scendeva dai rami e andava a finire proprio sul bordo dei miei occhiali. E lì, nel punto esatto in cui finiva quel filo brillante alla luce del sole, mi accorsi che c’era un piccolo ragno rosso, piccolo come ne avevo visti pochi, talmente piccolo che per vederlo bene mi si incrociavano gli occhi. Che stesse cantando quel ragnetto tutto indaffarato? …dei suoni così fini potrebbero essere il canto di qualcuno o qualcosa di molto piccolo… Mah!Dopo averlo osservato ancora per qualche istante mentre muoveva svelto le sue zampettine a lavorare il filo che scendeva dall’alto, gli dissi: “Ehi tu, ti sembra il posto giusto per costruire la tua ragnatela?” Il ragnetto, con molta calma e senza assolutamente spaventarsi, si girò verso di me e disse: “Be’, è un posto come un altro, tanto più che mi sembra che qui la mia ragnatela attacchi proprio bene!” Non ci potevo credere: non solo non si era spaventato, ma aveva risposto convinto di aver ragione!E di nuovo quei suoni! Che stesse cantando davvero?“Secondo te, allora” gli dissi osservandolo ancora con gli occhi incrociati “io dovrei restarmene qui immobile per tutto il tempo che ti fa comodo? Non sono mica un ramo di questo albero, io!”“Sei rimasto fermo come un sasso per un sacco di tempo” ribatté il piccolo ragno “perché dovresti muoverti proprio

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adesso?”“Be’, perché tra un po’ è ora di pranzo e dovrò rientrare in casa per prepararmelo” gli dissi un po’ risentito.Il ragnetto si fermò stupito e poi mi disse: “Io sono più fortunato, è il cibo che viene da me” E senza aggiungere altro, ma facendo ancora quei suonettini piccoli piccoli, si diresse con un altro pezzo di filo verso il mio naso e lo incollò per bene.Eh sì, stava proprio cantando! E con quale spensieratezza!“Oh, senti” gli dissi innervosito “adesso mi fai il piacere di toglierti dal mio naso e di andare a fissare la tua ragnatela da un’altra parte! Altrimenti…”“Ma questo promontorio è ancora più adatto per fissare la mia ragnatela!” esclamò il ragnetto tutto eccitato “quasi quasi lo fisso anche dall’altro lato…!”“Vuoi fare la fine delle tue prede?” gli chiesi con tono minaccioso.“E come faresti? Anche tu costruisci ragnatele?” mi chiese curioso il rosso insetto.“No, ma le mie dita potrebbero appiattirti per bene!” gli dissi io sempre più irritato da quel tono strafottente.“Oh be’, poco male” ribatté il ragno senza smettere di lavorare “ci sarà qualche altro collega che verrà a costruire la sua trappola da queste parti… titiriti ti ti…”‘Eh no, adesso sta esagerando!’ pensai tra me. Alzai un braccio, afferrai il filo rilucente che pendeva dall’alto, lo staccai dai miei occhiali e dal mio naso e poi lo incollai ad un rametto cresciuto verso il basso.“Oh… ba ba ba ba…” ironizzò il ragnetto “E’ così che metti in atto le tue minacce?”“Be’, non sono un ragnicida, io!” dissi con tono fra il risentito e il divertito.“Figurati se avevo voglia, io, di diventare una polpetta fra le tue dita!” canticchiò il ragno ridacchiando. Come potevo non ridere anch’io?“Allora, adesso che mi sono liberato di te posso andare a

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prepararmi il pranzo” dissi benevolmente al mio nuovo piccolo (piccolissimo!) amico tessitore.“Benissimo!” esclamò lui “Così finalmente ci sarà il silenzio adatto perché la mia rete peschi qualcosa e anch’io possa sfamarmi!”“Ah, sei un ragno pescatore allora?” gli chiesi ironico.“Certo!” rispose l’amichetto “Soprattutto se devo far abboccare un pesce lesso come te!”“Pesce lesso a chi?” feci io.“Guarda un po’ cosa c’è fra le dita della tua mano e capirai!” disse il ragno sicuro di sé mormorando ancora qualche nota.Alzai una mano… non c’era niente; alzai l’altra… non c’era niente!“Ecco! Vedi che hai abboccato?” disse il piccoletto facendo il gesto di riavvolgere il filo di una canna da pesca “Se non fossi un pesce lesso non ci saresti cascato!”E alzando una zampettina verso di me in segno di saluto, riprese a canticchiare quel motivetto che ormai mi era entrato in testa e che, volente o nolente, diventò il tormentone della mia estate in collina.

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IL GENERALE INVERNO

Dopo una lunga battaglia, durata qualche settimana, il Generale Inverno riuscì finalmente a riprendersi il potere: nessuno lo poteva sconfiggere. Era successo che l’Ammiraglio Autunno aveva deciso di prendersi un po’ del tempo del regno d’Inverno, perché si era stancato di poter comandare solo per un periodo così limitato... Tutto era cominciato quando le Quattro Stagioni Regnanti cominciarono a non andare più d’accordo tra loro. Molto tempo prima, forse all’inizio dei tempi, i quattro avevano deciso di vivere insieme secondo una semplice regola: per la pace e l’uguaglianza di tutti, ogni stagione avrebbe regnato a turno per un periodo di tre mesi, dopodiché, nelle date concordate, avrebbe consegnato lo scettro di comando alla stagione successiva secondo l’ordine stabilito.Invece, da un certo punto in poi, ognuno di loro aspirò a diventare più importante degli altri e cominciarono i dispetti reciproci: la Granduchessa Estate, fingendo di scordarsene, consegnava lo scettro all’Ammiraglio Autunno sempre più tardi; questi sentendosi tremendamente offeso non riusciva a far altro che piangere per giorni e giorni; il Generale Inverno si divertiva a volte a lanciare un po’ di neve alla Principessa Primavera, la quale invece, sentendosi disorientata, ogni anno continuava a cambiare il suo stile di regno, a volte felice e pieno di colori, a volte intollerante e piagnucoloso, a volte copiando lo stile di altre stagioni.Erano ormai parecchi anni che le Quattro Stagioni Regnanti non andavano più d’accordo e le cose non fecero che peggiorare. Ci fu un anno in cui la Granduchessa Estate riuscì a strappare

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lo scettro alla Principessa Primavera un mese prima del dovuto e lo consegnò all’Ammiraglio Autunno parecchio tempo dopo la data prevista. E oltretutto chiese a Messer Sole di illuminarla e scaldarla per tutto il tempo, tenendo lontano i Corpi Speciali di Nubi e Temporali. Poco tempo dopo l’Ammiraglio Autunno, quasi a volersi rifare del periodo maltolto, decise di prolungare il suo turno di regnante, schierando a difesa dello scettro di comando le sue migliori guardie, le ormai temute Miti Temperature che resistettero per più di un mese.Il Generale Inverno era preoccupato, perché oltre all’attacco dell’Ammiraglio, doveva vedersela anche con la Principessa Primavera, che, non volendo restare a guardare, fece di tutto per iniziare il suo regno prima del tempo, cercando oltretutto il modo di prendersi lo scettro direttamente dalle mani dell’Ammiraglio Autunno.Ma il Generale Inverno era una stagione forte, dura e nonostante le difficoltà, ottenne ciò che gli spettava. Certo, non sapeva quanto sarebbe durata, ormai metà del suo tempo se n’era andato e chissà cosa avrebbe escogitato Primavera. Ma intanto poteva rilassarsi un po’ e finalmente vestirsi tutto di bianco, il suo colore preferito e simbolo della sua casata: Madama Neve, la sarta di corte, faceva ogni anno un eccellente lavoro.Un giorno i Quattro Regnanti decisero che era venuto il momento di incontrarsi per parlare, per cercare di capire perché stesse succedendo tutta quella baraonda. Dopo un bel po’ di tempo che stavano discutendo, pensarono che fosse giunto il momento di chiedere un consiglio a Messer Sole, perché, avendo seguito per tutto il giorno le loro discussioni dall’alto della sua postazione, poteva esprimere un pensiero al di sopra delle parti.Messer Sole dopo averci pensato un po’, disse così:“Che volete che vi dica? Non son fatto per suggerire cosa è bene fare per risolvere i vostri problemi. Il mio compito è

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riscaldare e illuminare dal punto in cui mi trovo. Io non posso sapere cosa sia meglio per il vostro mondo. Secondo me dovreste parlare con i vostri sudditi, perché sono loro che vi hanno portato a questa situazione”“Che vorresti dire, Messer Sole?” chiese curiosa Primavera.“Che siamo stati presi per il naso?” aggiunse Inverno.“Eh sì!” ribatté Sole con un sorriso amaro “Se ci pensate bene, vi accorgerete che sono stati i vostri sudditi a mettervi in testa certe idee!”“Facci un esempio, Messer Sole” disse Estate.“Per esempio ci sono molti che amano più il caldo che il freddo” disse il luminoso Sole “oppure altri che preferiscono vedere sempre me piuttosto che Donna Pioggia”“Se posso fare un altro esempio” continuò Messer Sole dopo una breve pausa “ci sono molti convinti che il loro sistema di vita sia il migliore e fanno di tutto per convincere tutti gli altri che anche a loro conviene godersi la vita, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze”Dopo aver ascoltato queste parole i Quattro Regnanti rimasero pensierosi. Ad ognuno vennero in mente altri esempi al riguardo, progetti e sviluppi che all’inizio parevano fatti nell’interesse di tutti e che invece portavano differenze fra i popoli, nascevano dal desiderio di primeggiare e di togliere di mezzo quelli che potevano dare fastidio…“Allora…” disse Sole ad un tratto “pensate che sia utile sentire cos’hanno da dire i vostri sudditi?”“Sì, ma ci vorrebbe un’eternità per sentirli tutti! Sono miliardi e miliardi di persone!” dissero quasi in coro le Stagioni.“Potreste mandare per il mondo dei messaggeri perché vengano nominati dei rappresentanti che possano parlare a nome di tutti” suggerì Messer Sole.“E come si farebbe?” chiese Principessa Primavera.“Indicendo delle elezioni!” rispose il Sole.“Giusto!” esclamò la Granduchessa Estate “Così dovremmo ascoltarne solo qualche migliaia e forse troveremmo una

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soluzione in meno tempo!”“Sì, sarebbe utile in breve tempo” sottolineò Generale Inverno “Perché le cose per me potrebbero mettersi molto male!”Le Quattro Stagioni ringraziarono Messer Sole dei suoi suggerimenti e cominiciarono ad organizzare l’invio dei loro messaggeri in tutti i continenti.Dopo un po’ di tempo vennero a sapere che tutti i rappresentanti erano stati nominati, quindi poterono chiamarli per ascoltare le loro osservazioni e valutare le proposte per migliorare le cose.Passò ancora molto tempo prima che i Quattro Regnanti avessero ascoltato tutto quello che ogni rappresentante aveva da dire; ci furono giorni in cui temettero di dover ascoltare alcuni degli eletti per il resto della loro vita, tante erano le cose che avevano da dire.Quando ebbero finito di ascoltare tutti, le Stagioni si riunirono un po’ sconsolate.“Ci fosse stato qualcuno che avesse dato lo stesso suggerimento…” si lamentò l’Ammiraglio Autunno.“E quante motivazioni hanno tirato fuori altri per dire che la migliore idea era la loro!” sbuffò la Granduchessa Estate.“Perché? Erano forse pochi quelli che preferivano non immischiarsi o che preferivano che le cose rimanessero come sono?” chiese stizzito il Generale Inverno.Visto che la Principessa Primavera restava con lo sguardo basso senza dire una parola, gli altri tre le chiesero in coro: “Tu che dici Primavera?” “Io… non ce la faccio più!” disse la Principessa quasi piagnucolando “E nemmeno voglio più farmi strappare lo scettro dalla Granduchessa, né cercare di portarlo via al Generale e neanche vedere l’Ammiraglio che vuole rifarsi dei torti subiti!”“Qui c’è solo una cosa da fare!” disse deciso il Generale Inverno.“E cosa?” chiesero gli altri tutti insieme.

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“Rivedere tutte le idee, capire quali si assomigliano e poi risentire ancora i nostri amati sudditi, fino a che capiremo esattamente la giusta via da percorrere” sentenziò il Generale.“Risentirli ancora?” chiese la Granduchessa.“Non finiremo mai!” disse l’Ammiraglio scuotendo la testa.Primavera ricominciò a piagnucolare.“Su su!” incitò Inverno “Coraggio! Qui non c’è più da perdere tempo! Dobbiamo aiutare gli abitanti del nostro regno a trovare l’idea comune che ci faccia cambiare atteggiamento”“Potremmo farlo lo stesso senza chiedere a loro…” suggerì Autunno.“Se è per i loro atteggiamenti che noi siamo così dispettosi gli uni con gli altri” sostenne il Generale Inverno “per migliorare le cose è necessario che siano loro a cambiare il loro modo di fare”“E se non ci riuscissimo?” chiese incerta Primavera.“La battaglia sarà lunga” rispose Inverno “ma non ci dobbiamo arrendere; se sapremo tener duro, qualche risultato lo otterremo, ve lo garantisco!”“Speriamo…” dissero in coro gli altri con tono titubante.“Sì! Certo! Ecco cosa ci vuole: speranza!” affermò il Generale “Ma la speranza ha bisogno che noi ci diamo da fare. E anche i nostri sudditi dovranno darsi molto da fare per far tornare il nostro mondo un posto dove vivere felici e in pace! Perciò… al lavoro!”

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