Come alla Corte di Federico II · un autore di cruciverba molto noto, e il fratello maggiore...

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA QUANDO LE PAROLE GIOCANO di Stefano Bartezzaghi 7 NUMERI E CRITTOGRAFIA di Guido Trombetti 8 CI VEDIAMO AL BAR TEZZAGHI? di Luigi Spina 10 ELABORAZIONE SIMBOLICA, CALCOLATORI E CAPTCHA di Guglielmo Tamburini 12 NON PARLARE COME MANGI: QUANDO SONO I COMPUTER A GIOCARE CON LE NOSTRE PAROLE di Francesco Cutugno 14 E’ ARRIVATO UN BASTIMENTO CARICO DI… di Nicola De Blasi 16 LA MATEMATICA DELLE PAROLE di Aldo De Luca 18 GIOCHI LINGUISTICI E SISTEMI D’IMPRESA di Giuseppe Zollo 20

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO

PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA

QUANDO LE PAROLE GIOCANO di Stefano Bartezzaghi 7 NUMERI E CRITTOGRAFIA di Guido Trombetti 8

CI VEDIAMO AL BAR TEZZAGHI? di Luigi Spina 10 ELABORAZIONE SIMBOLICA, CALCOLATORI E CAPTCHA di Guglielmo Tamburini 12 NON PARLARE COME MANGI: QUANDO SONO I COMPUTER A GIOCARE CON LE NOSTRE PAROLE di Francesco Cutugno 14 E’ ARRIVATO UN BASTIMENTO CARICO DI… di Nicola De Blasi 16 LA MATEMATICA DELLE PAROLE di Aldo De Luca 18 GIOCHI LINGUISTICI E SISTEMI D’IMPRESA di Giuseppe Zollo 20

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Il sipario sta per chiudersi. Ma non per sempre: solo fino alla prossima stagione di convegni. La corte di Federico II si prende una meritata vacanza, che durerà non più di qualche mese, e nel frattempo si prepara ad affrontare il nuovo ciclo d’incontri con rinnovata energia. Oltre ad organizzarsi le vacanze, s’intende. Nessuno, tra gli illustri docenti dell’Ateneo federiciano, smetterà di parlare di scienza (perché la passione, quando è vera, si confonde con la vocazione), così come nessuno, tra i pregevoli musicisti della “Federico II Jazz Orchestra”, smetterà di suonare. Anche perché in entrambi i casi occorre tenersi in allenamento. Chiudendo però l’attuale ciclo di convegni, è bene tirare le somme circa l’attività musicale dell’orchestra universitaria, che ha magistralmente accompagnato il risolversi delle serate nella struttura di via Partenope. Facendo un rapido confronto con altre università campane e non, e restando sempre nell’ottica di idee che, oltre alla reciproca stima e alla collaborazione tra gli istituti, è pur sempre necessaria (e naturale) una sana competizione, ciò che mancava alla Federico II per potersi fregiare di una stupenda ciliegina sulla propria torta, era un’orchestra. “Perché proprio un’orchestra?” potrebbe domandarsi qualcuno, riflettendo sull’apparente “leggerezza” dell’intrattenimento messo a confronto con priorità di ben altro tipo. E’ bene considerare che l’università, come tutto il resto, sta cambiando enormemente. Così come sta cambiando l’idea che “studiare” e “divertirsi” siano due concetti opposti tra loro. Non c’è bisogno soltanto di operazioni concrete, hic et nunc, nella politica di sostegno e promozione del proprio ateneo. C’è bisogno anche di simboli: simboli forti, chiari, che possano trasmettere un messaggio positivo e convincente. “Come alla Corte di Federico II” ha dimostrato, tra le altre cose, che “parlare e riparlare” di scienza può essere anche un modo per rilassarsi, per riscoprirsi interessati ad una materia che proprio si credeva distante. E perché no, per sorseggiare un bicchiere di vino insieme al “prof” che di lì a una settimana ti metterà sotto torchio… La “Federico II Jazz Orchestra”, la sua fondazione ad opera di Stefano Irace con l’associazione Uni-Verso Musica, il suo sostegno da parte del Rettore Trombetti, la sua direzione da parte di musicisti di enorme spessore come Giulio Martino e Mario Raja, hanno dimostrato qualcosa di molto simile. Che in un posto dove si fa scienza, si può anche suonare; che uno studente può avere motivo di restare all’università (o “con” l’università) anche al di fuori dell’orario di studio. Che questo ateneo è molto attento a una cosa: dare un’immagine tutta positiva di sé, del proprio personale, delle proprie scelte e delle proprie attività. Ma soprattutto, della scienza stessa.

Stefano Piedimonte

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E' molto difficile catturare il gioco delle parole: ci sembra di intenderci quando lo nominiamo,

ma appena proviamo a fermarlo ci accorgiamo che definirlo non è per niente facile:

ci aiutano poco i vocabolari, ci aiuta poco la linguistica, ci aiuta poco la filosofia.

Ma allora, quando le parole giocano cosa succede?

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Gli articoli degli incontri si trovano all’indirizzo

www.comeallacorte.unina.it

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Stefano Bartezzaghi

Stefano Bartezzaghi è nato a

Milano, nel 1962, da una famiglia

enigmistica.

Il padre, Piero (1933-1989), è stato

un autore di cruciverba molto noto,

e il fratello maggiore Alessandro

(1959) ne ha seguito le tracce.

Dopo i primi giochi enigmistici

pubblicati nel 1971, e dopo gli studi

conclusi con una laurea in Semiotica

a Bologna, con Umberto Eco, Stefano Bartezzaghi ha collaborato prima con “La Stampa” di

Torino e con il suo supplemento culturale “Tuttolibri” (1987-2000), poi con “La Repubblica”

(dal 2000), con una rubrica settimanale e poi quotidiana di giochi di parole, e con articoli di

altri generi. Le sue pubblicazioni più recenti sono: “Incontri con la Sfinge” (Einaudi, 2004);

“Non ne ho la più squallida idea” (Mondadori 2006); “La posta in gioco” (Einaudi 2007). Ha

curato una nuova edizione degli “Esercizi di Stile” di Raymond Queneau (Einaudi 2005), con

inediti, apparati e commenti.

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Quando le parole giocano

QUANDO LE PAROLE GIOCANO Stefano Bartezzaghi Giornalista

E' molto difficile catturare il gioco

delle parole: ci sembra di intenderci quando

lo nominiamo, ma appena proviamo a

fermarlo ci accorgiamo che definirlo non è

per niente facile: ci aiutano poco i

vocabolari, ci aiuta poco la linguistica, ci

aiuta poco la filosofia. Ma allora, quando le

parole giocano cosa succede?

Del gioco, in genere, sappiamo che è

un'attività distinta da qualcos'altro che i

teorici non sanno qualificare meglio che

dicendo la vita 'reale' o l'attività 'seria',

abbondando con le virgolette. Quando i

teorici ne parlano a volte fanno anche quel

gesto ineffabile delle virgolette tracciate con

le dita per aria: un gesto che non manca

mai di intristire una quota dell'uditorio.

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

Comunque il gioco è questo: una

cosa che non è il lavoro, o un'altra attività

seria come è o dovrebbe essere il lavoro o

lo studio. Dato che però ci siamo abituati a

scambi anche vertiginosi fra realtà e non

realtà, o fra diversi livelli di realtà,

sappiamo anche che ogni distinzione troppo

rigida è destinata a essere messa in crisi.

Nel libro che ha aperto la riflessione

novecentesca sul gioco, Homo Ludens di

Johan Huizinga, c'è un aneddoto che parla

di un bambino che sta giocando al treno

con una fila di sedie. E' seduto sulla prima

di queste sedie quando il padre entra, e lo

saluta con un bacio. Risposta del bambino:

«Papà, non devi baciare la locomotiva,

altrimenti i vagoni pensano che non è una

cosa seria». Non deve essere facile

districarsi, in termini logici, in una frase

tanto beatamente complessa e ferocemente

spontanea.

Basterà, intanto, tenere a mente quello che

una formulazione come «Quando le parole

giocano» presuppone. 'Giochi di parole'

sembra significare: 'giochi che facciamo con

le parole'; invece significa perlopiù: 'giochi

che le parole fanno con noi'. Se si tiene a

mente questo, si è già sulla buona strada

per incominciare a giocare, o a farsi

giocare.

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Quando le parole giocano

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NUMERI E CRITTOGRAFIA Guido Trombetti Rettore Università degli Studi di Napoli Federico II

Sin dall’antichità i grandi condottieri

sapevano che per vincere una guerra non

bastava un formidabile esercito. Era

fondamentale poter scambiare comunicazioni

sicure con i propri luogotenenti. E così “la storia

dell’umanità è attraversata da una lotta oscura e

senza quartiere fra chi inventa metodi sempre

più sofisticati per trasmettere messaggi segreti e

chi invece fa di tutto per violare quella

segretezza “(Simon Singh, Codici&Segreti,BUR).

Cesare, ad esempio, utilizzò vari modi per cifrare

i messaggi. Uno dei cifrari prevedeva di

scambiare ogni lettera con quella posizionata tre

posti avanti nell’alfabeto. Se l’alfabeto è quello a

21 lettere allora a diventa d, b diventa e, c

diventa f… Il celeberrimo “Veni vidi vici” diventa

“Bhqn bngn bnfn”. È chiaro che con questo

metodo sono possibili solo 20 cifrature. Ai nostri

giorni fa quasi tenerezza pensare al grande

Cesare che affida i suoi segreti ad un

meccanismo così infantile. Un semplice

computer decodificherebbe il messaggio cifrato

quasi istantaneamente. Facciamo un balzo

avanti di un paio di migliaia di anni. E vediamo

come ragionò Arthur Scherbius. L’inventore

tedesco che nel 1918 mise a punto la mitica

macchina Enigma. Invece del semplice

spostamento di una lettera di un dato numero di

posti si ammetta la possibilità di scambiare una

lettera con un’altra qualsiasi. E di modificare

dopo ogni cifratura la regola di sostituzione. Si

ottengono, così, miliardi di cifrature. E, pensava

Scherbius, nessun intercettatore nemico sarebbe

stato in grado di decifrare in tempo ragionevole

un messaggio. La macchina perfezionata

consentiva oltre 10 milioni di miliardi di chiavi

diverse per la codifica di un testo. Era sufficiente

che mittente e destinatario conoscessero

l’assetto da usare ogni giorno. Per poter cifrare e

decifrare. Forse è il più complesso gioco

enigmistico mai realizzato. Ed anche quello con

la posta in gioco più alta. Il dominio del mondo.

Perché la macchina Enigma era diventata uno

dei capisaldi della strategia militare della guerra

lampo. La risposta alleata venne nel 1939. A

Bletchley fu radunata una variopinta combriccola

di matematici, scienziati, linguisti, filologi,

scacchisti, cruciverbisti, giocatori di bridge.

Insomma tutti coloro che avevano mostrato una

qualche qualità nell’analisi e nella combinazione

di simboli.

Churchill li chiamava “le oche che fanno

le uova d’oro, e non starnazzano mai”. Nel 1942

il personale fu ampliato. Per reclutare persone

capaci fu pubblicato un cruciverba sul Daily

Telegraph, invitando i lettori a risolverlo in meno

di 12 minuti. Risposero in 25. Sei di loro furono

reclutati. Ma il più straordinario della variopinta

brigata fu Alain Turing. La sua capacità di

immaginare macchine logiche (già aveva

concepito la famosa “macchina di Turing” per

affrontare i problemi teorici della computazione)

gli consentì di trovare la chiave più importante

per forzare i segreti di Enigma.

La crittografia oggi non interessa più

soltanto i militari. Entra anche nella vita

quotidiana di tutti. Per esempio nei problemi di

segretezza relativa al commercio elettronico.

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Quando le parole giocano

In questo campo si usano strumenti di

teoria dei numeri. I numeri primi. La

fattorizzazione. Questioni studiate dai

matematici fin dall’antichità. Per il puro gusto

della conoscenza. Insomma argomenti propri

della ricerca curiosity driven. Lontanissimi

dalle applicazioni pratiche. Per dare un’idea di

come vanno queste cose ripeto un esempio che

ho già fatto tempo fa.

Mario vuole mandare un messaggio

d’amore segreto ad Anna; per esempio “ti amo”

che scritto in codice equivale (immaginiamo) al

numero 345. Egli è costretto ad usare una rete

di trasmissione pubblica; quindi il messaggio è

accessibile a tutti. E tutti sanno che 345 vuol

dire “ti amo”. Mario sceglie un numero primo M

molto grande e non lo dice a nessuno. La stessa

cosa fa Anna che sceglie N. Mario spedisce il suo

messaggio moltiplicato per M. Anna non può

leggere il messaggio perché non conosce M e lo

rispedisce a Mario moltiplicato per N. Mario

divide il tutto per M (che egli solo conosce) e lo

rispedisce ad Anna che divide per N (che lei solo

conosce) e legge finalmente il

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

messaggio. Durante i vari percorsi nessuno può

leggere i messaggi perché nessuno conosce N ed

M. Ed i tempi necessari ad un computer per

“decodificare” cioè trovare N ed M sono enormi.

Tanto più lunghi quanto più grandi sono N ed M.

In pratica è impossibile a chiunque, tranne a

Mario e ad Anna, leggere il messaggio.

E’ chiaro che più grandi sono M ed N più

tempo impiegherà un hacker a decodificare il

messaggio. I numeri che lui può intercettare

sono 345xNxM, 345xN e 345xM. Se N ed M sono

molto grandi i numeri che vede l’hacker. sono

ancora più grandi. E per quanto veloce sia un

calcolatore risalire dal numero 345xNxM, a M ed

N e quindi a 345 (fattorizzazione) richiede

tempo. Tanto più tempo quanto più grandi sono

N ed M. Quindi da un lato ha un grande

interesse costruire numeri primi molto grandi.

Dall’altro studiare metodi di fattorizzazione che

consentano di passare il più rapidamente

possibile da 345xMxN ad M ed N e quindi al

messaggio 345. Tutto ciò somiglia tanto ad un

gioco da settimana enigmistica. Ma chi lo ha

detto che giocare non serve a niente?

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Quando le parole giocano

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CI VEDIAMO AL BAR TEZZAGHI? Luigi Spina Professore di Filologia Classica Università degli Studi di Napoli Federico II

Incontro uno studente, che mi fa: “Prof,

ci vediamo al Bar Tezzaghi?”. Lo guardo

indeciso, poi mi rendo conto che ha solo detto:

“Ci vediamo da Bartezzaghi?”. L’aneddoto è

inventato, ma questo gioco di parole ce l’avevo

in testa da tempo, e quale migliore occasione?

Si racconta che, quando lesse per la

prima volta la Bibbia, non so se la Vetus latina o

la Vulgata, l’Avvocato Agnelli abbia esclamato:

« Ottima idea per uno spot pubblicitario». Era

Genesi 1,2 : Fiat lux. Ma quelli della Lux non

accettarono la pubblicità congiunta. Sarà

inventato anche questo ?

Chi studia i testi antichi è ossessionato

dalle parole. Quella che una volta era filologia,

direbbe Seneca, ora è diventata logomania,

‘pazzia per la parola’, o forse, meglio, ‘pazzia

della parola’. In mano ad un filologo, le parole si

allineano, riconoscono le leggi, le rispettano,

obbediscono ai comandi del direttore del testo,

detto anche editore. Magari appaiono senza vita,

davvero morte, ma questo è un altro problema,

come cercherò di chiarire subito. In mano ad un

logomane, le parole affannano, si difendono,

corrono disperate in cerca di un disposizione

assolutamente improbabile : allora, ostinate,

strillano per farsi sentire. Si capiscono solo fra

loro. Quanto al logomane, si crogiola nella sua

sperimentazione. E in mano ad un ludologo?

Questa non è inventata : ne ho

conosciuto uno, ad un convegno di cui non

esistono gli atti. Era un grande studioso di poeti

e filosofi antichi, greci in particolare. Ma anche di

drammaturghi latini. Aveva un solo difetto, o

almeno a me parve tale all’inizio : parlava

lacunoso, anzi, pensava lacunoso. Sosteneva

che tutte le opere antiche che gli editori hanno

catalogato col titolo (non si sa se tematico o

rematico, avrebbe detto Genette) di Frammenti

sono le uniche opere utili sopravvissute ad un

mondo per altri aspetti dogmatico e

perfezionista. Mi portò l’esempio di Gian Piero

Bona, un poeta che alla fine del secondo

millennio aveva realizzato il sogno di tutti i

ludologi : Le Muse incollate (All’insegna del

pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1999).

Non più congetture, divinazioni, parentesi

quadre, ricerca di parole scomparse e –

presunzione dei filologi – sicuramente

pronunciate. Solo parole nuove, innestate, quasi

trapiantate ancora vive in un corpo moribondo.

L’autore antico, che secondo il mio

interlocutore pensava frammentario – come lui

pensava lacunoso, mi venne di notare! -

componeva per la posterità, componeva

volontariamente frammenti: che senso avrebbe

avuto allineare parole perfettamente

comprensibili per i suoi contemporanei ? Gli

obiettai : « Ma questa è l’opera aperta ! ». « No

- disse ridendo il ludologo - quella, dico

quell’idea, caro professore, può anche

chiuderla ; ha fatto il suo tempo, assieme a tutte

le estetiche della ricezione e a tutte le intenzioni,

dell’autore, del lettore, dell’opera. Questa è

l’opera democratica, che consente a chiunque

non solo di interpretare, ma soprattutto di

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fornire nuove parole; ma senza completare, per

carità. L’unico modo per salvare le parole è

lasciare spazi vuoti perché altri possano riempirli

e, a loro volta, se veramente sono democratici,

lasciarne di nuovi». Non avevo mai riflettuto,

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devo confessarlo, sulla democraticità esportabile

delle parole che il ludologo mi prospettava,

facendo esempi che non starò qui a riferire.

Forse se ne potrebbe parlare al Bar Tezzaghi.

S. Girolamo nel suo studio mentre traduce la Bibbia (Antonello da Messina, particolare)

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ELABORAZIONE SIMBOLICA, CALCOLATORI E CAPTCHA Guglielmo Tamburrini Professore di Logica e filosofia della scienza Università degli Studi di Napoli Federico II

Elaborazione simbolica. Difficile trovare

una descrizione più sintetica e generale di quello

che fanno i calcolatori, quando giocano a

scacchi, sviluppano previsioni meteorologiche,

correggono i nostri errori di battitura,

interpretano un’immagine medica, guidano gli

spostamenti di un robot o risolvono un

cruciverba. Nel Bel Paese queste macchine così

versatili sono di solito chiamate computer

piuttosto che calcolatori. Strana predilezione

degli italiani, perché il termine inglese lascia

nell’ombra, non meno di quello nostrano, la

novità dirompente che ha segnato la nascita e il

rapido sviluppo dell’informatica verso la metà del

secolo scorso. Entrambi i termini alludono alla

capacità di calcolare, con la quale comunemente

si intende la capacità di eseguire operazioni

aritmetiche. Ma l’informatica ha modificato

profondamente questa concezione tradizionale.

Nel 1950 il logico Alan Turing, uno dei padri

dell’informatica, propose la seguente sfida per

illustrare a un pubblico di non addetti ai lavori le

nuove possibilità di elaborazione simbolica che i

calcolatori stavano schiudendo: “Consideriamo

un essere umano che chatta (Turing non aveva

ancora a disposizione questo termine che oggi

troviamo nei migliori vocabolari della lingua

italiana ma che rende benissimo lo scenario

d’interazione da lui immaginato); questo essere

umano sarà in grado di indovinare, nel corso di

una sessione di chat, se il proprio interlocutore è

un altro essere umano oppure un calcolatore?”

Turing sosteneva che la possibilità di

discriminare chattando gli esseri umani dai

calcolatori si sarebbe ridotta sempre di più, fino

a scomparire del tutto all’alba del XXI secolo

grazie agli sviluppi teorici e tecnologici

dell’informatica.

Ma invece ancora oggi si fa affidamento

sulla possibilità di distinguere gli esseri umani

dai calcolatori in base a un gioco che assomiglia

molto alla sfida di Turing. Questo gioco-test, che

si chiama CAPTCHA, si usa per regolare gli

scambi in rete, concedendo soltanto agli utenti

umani alcuni diritti (per esempio di accesso o di

voto). CAPTCHA è un acronimo che sta per

l’espressione inglese “Completely Automated

Public Turing Test To Tell Computers and

Humans Apart”. Tipicamente, un captcha

richiede di riconoscere una successione di

caratteri distorti o di rispondere ad altri quesiti

che sono semplici per gli esseri umani, ma non

per gli attuali programmi dell’intelligenza

artificiale. I captcha si utilizzano come filtri

anche per contrastare lo spam generato da

programmi, obbligando il mittente, se non è già

noto al destinatario, a superare un test captcha

prima di consentire che il messaggio venga

recapitato. In un captcha, diversamente da

quanto immaginava Turing, il compito di

giudicare se l’interlocutore è un essere umano o

un programma informatico viene affidato a un

altro programma. Ma gli hacker, come c’era

forse da attendersi, hanno escogitato vari modi

per ingannare il programma-giudice. Un punto di

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accesso alla problematica è la voce wikipedia

http://it.wikipedia.org/wiki/CAPTCHA.

Il termine ‘captcha’ è stato introdotto in

un articolo scientifico uscito nel 2000, frutto

applicativo della confluenza delle competenze di

studiosi di informatica teorica, di sicurezza

informatica e di apprendimento automatico. Un

settore centrale dell’informatica teorica studia

proprio le capacità che vari tipi di sistemi

informatici hanno (oppure non hanno) di

riconoscere o di generare espressioni

appartenenti a determinati linguaggi. Gli studi di

informatica teorica sul riconoscimento e la

generazione di linguaggi sono intrecciati con gli

studi di linguistica basati sulle grammatiche

generative, che hanno portato a una migliore

comprensione dei processi e delle strutture

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

mentali che permettono a un essere umano di

distinguere, per esempio, i vari significati

dell’enunciato “guardava il vigile nella piazza con

il binocolo” oppure di distinguere questo stesso

enunciato, sulla base di criteri sintattici e

semantici, da espressioni come “le idee verdi

dormono furiosamente” e “idee furiosamente le

dormono verdi”.

Gli studi di informatica teorica trovano

innumerevoli applicazioni concrete anche nello

sviluppo e nella verifica del software. In molti

casi significativi, per esempio, il problema di

verificare se un programma soddisfa alcuni

requisiti fondamentali è riconducibile al

problema di determinare se vi sia un certo

dispositivo informatico in grado di riconoscere

una data classe di espressioni linguistiche.

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NON PARLARE COME MANGI: QUANDO SONO I COMPUTER A GIOCARE CON LE NOSTRE PAROLE Francesco Cutugno Ricercatore di Elaborazione del linguaggio naturale Università degli Studi di Napoli Federico II

C: “Dove vuoi andare?”

U: “Milano”

C “OK ti prenoto un biglietto per Nerano”

U “Milano, accidenti, MILANO, non capisci?”

C: “Pisticci? Scandicci?”

U: “Si buonanotte…”

C:” Andata e ritorno?”

Quanti di voi si sono trovati a dialogare

con una macchina che cerca di fornirvi un

servizio? Diciamocelo subito: questi sistemi

mediamente funzionano molto male, dandomi

ancora una ragione per fare il ricercatore. Si

basano sul riconoscimento automatico del

parlato, cercano di condurre un dialogo con

l’utente e devono essere poco noiosi altrimenti

l’utente sente la mancanza di Mariah, Sarah o

Deborah (tutte con l’acca alla fine) del call

center e di “in cosa posso esserle utile?” con un

accento finto nord.

Dopo la seconda guerra mondiale, grazie

agli investimenti che erano stati fatti nelle

telecomunicazioni proprio in funzione militare, si

riteneva di essere ad un passo da una serie di

scoperte che avrebbero presto consentito di dare

comandi vocali alle macchine. Allo stesso tempo

l’intelligenza artificiale usava spesso

l’elaborazione delle lingue come palestra di

verifica delle scoperte alle quali

progressivamente si giungeva. Dopo la metà del

secolo Chomsky sviluppava una teoria che

unificava teorie algebriche, struttura del

linguaggio e processi cognitivi.

Il gioco sembrava compiuto, di lì a poco

la facoltà di linguaggio sarebbe stata donata alle

macchine.

Ma Chomsky e gli esperti di Intelligenza

Artificiale avevano sbagliato previsioni. Il sogno

di Kubrick in ‘2001 Odissea nello Spazio’, di

dialogare con HAL come con il nostro salumiere,

è ancora chiuso in un cassetto.

Attualmente molti usano i sistemi di

riconoscimento del parlato, ma ricontrollano

quanto è stato ‘capito’ dalla macchina. E in molti

casi una brava dattilografa trascrive più

velocemente e con meno errori.

Pur essendo dichiarati come indipendenti

dal parlatore, questi sistemi preferiscono le voci

maschili a quelle femminili e se cambiate

parlante durante la dettatura... sono guai!

Inoltre non è più obbligatorio addestrarli

come si faceva fino a qualche tempo fa, ma

resta comunque consigliato. In realtà la vera

funzione dell’addestramento è quella di

insegnare al parlante come rivolgersi alla

macchina, piuttosto che il contrario. Il computer

gioca con noi, ci costringe ad una lingua

scandita, regolarizzata, molto diversa da quella

che usiamo in ogni altra circostanza, comprese

quelle più formali.

Il trattamento automatico delle lingue è

attualmente basato su una combinazione di

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modelli sia cognitivi che statistici, ma gli esperti

in questi settori si incontrano poco. Si dice che

F. Jelinek, responsabile negli anni ’80 del

progetto di riconoscimento del parlato dell’IBM,

abbia affermato che ogni volta che licenziava un

linguista o uno psicologo dal suo gruppo le

percentuali di riconoscimento del sistema

miglioravano (poi ha smentito di averlo detto).

L’approccio modellistico, basato sul tentativo di

riprodurre con un algoritmo quel poco che siamo

riusciti a comprendere del processo di

comunicazione umana, non riesce a spiegare

come si risolvono le ambiguità linguistiche, le

metafore, non riesce a superare le difficoltà

intrinseche nella presenza di variabilità delle

molteplici manifestazioni che ogni segno

linguistico possiede.

La statistica, senza necessariamente

spiegarci come, fornisce un fondamentale e

irrinunciabile miglioramento delle prestazioni e

aiuta i sistemi di trattamento delle lingue a

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

raggiungere prestazioni accettabili. Gli specialisti

del riconoscimento automatico, disponendo di

risorse di calcolo sempre più potenti e potendo

contare su strumenti matematici molto potenti e

affidabili come, ad esempio, i processi

Markoviani, combattono per migliorare le

percentuali di successo di qualche frazione di

punto: in alcune specifiche applicazioni è

garantito il 91-93% di parole correttamente

riconosciute, ma la crescita è ormai asintotica e

miglioramenti sensibili non sono attesi

nell’immediato.

Cosa possiamo fare per avere dei sistemi

più affidabili? Fare parlare fra di loro psicologi

della cognizione, linguisti ed ‘ingegneri’ del

linguaggio. La parola ad esperti di parole, perché

si incontrino integrando le differenti competenze

per individuare approcci nuovi in cui tutte le

componenti possano trovare la loro giusta

posizione.

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Quando le parole giocano

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

E’ ARRIVATO UN BASTIMENTO CARICO DI… Nicola De Blasi Professore di Storia della Lingua Italiana Università degli Studi di Napoli Federico II

I giochi con le parole, come altri giochi,

hanno un obiettivo primario ludico, ma, al di là

del raffinato esercizio intellettuale, entra forse in

gioco - è il caso di dire – il gusto di violare

l’ordine razionale della comunicazione:

scomponendo e accostando parole si sperimenta

la sfida di considerarle in sé, come il fine del

gioco più che come strumento di comunicazione.

Solo a queste condizioni si apprezzano per

esempio le Tragedie in due battute di Achille

Campanile, spesso fondate su giochi verbali: se

un tale, di sera, nella stazione di una località

ancora priva di illuminazione, preleva un amico

di nome Perotto, diventa ammissibile che con

cautela domandi «Sei Perotto?» e che l’altro

risponda «Quarantotto».

Questo testo non reggerebbe a un’analisi

razionale, perché il signor Perotto sarebbe

l’ultimo a poter equivocare sul proprio cognome,

ma, secondo il freudiano ritorno del represso, la

battuta funziona appunto per questo motivo

(senza contare che il signor Perotto non aspetta

altro). E che dire di Ivo e di Eva? I due

collaborano in cucina, per cui l’Eva lava l’ova,

l’Ivo l’uva. In questi casi l’autore si impone la

regola di inserire il gioco verbale in una

narrazione.

Se tutti i giochi funzionano a patto che

siano rispettate le regole, per quelli verbali

occorre anche saper osservare le parole e

riflettere prima di metterle in gioco. Questi due

requisiti preliminari coincidono in parte con

alcuni traguardi raggiungibili, poiché giocare

sempre meglio è dopo tutto aspirazione di

qualsiasi giocatore.

A questo punto, a costo di rovinarci il

divertimento, domandiamoci (è la tipica

domanda da porci) se il gioco con le parole non

possa avere applicazioni nella vita quotidiana,

come accade per le scoperte della Formula Uno

o dell’Ingegneria spaziale. La risposta è

scontata: è tempo che nelle scuole l’attenzione

verso la lingua (il saper comunicare parlando e

scrivendo) torni a essere centrale: c’è sempre

bisogno di metodi e strumenti che migliorino la

capacità di osservare le parole, di vedere come

funzionano, e di riflettere prima di usarle. Anni

fa un volume di Ersilia Zamponi, I draghi logopei

(è un anagramma, con coniazione di un bel

grecismo apparente), dimostrava le potenzialità

didattiche dei giochi verbali. Per di più

l’abitudine a trattare le parole come oggetti

insegna anche - altra urgenza didattica ed etica

- a non usarle come pietre, cioè a dosarle meglio

(misurare le parole si diceva un tempo).

E non dimentichiamo che i giochi con le

parole aiutano anche a riflettere sul linguaggio

poetico, visto che poi gli uni e l’altro traggono

vantaggio anche dalla duttilità dell’italiano,

favorita dall’articolazione del nostro lessico:

forme auliche, tecnicismi, forestierismi,

regionalismi, dialettalismi, arcaismi, neologismi

costituiscono un variegato deposito da cui

preleviamo per ogni necessità, compresa quella

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ludica, che fa diventare indispensabile ciò che

non lo è (per far funzionare il gioco si deve dire

l’Eva e l’ova, anche se sono - ed erano - forme

inusuali in buona parte d’Italia). Del resto, anche

il gioco di parole garantisce la sopravvivenza di

forme insolite. Un caso per tutti: forse i bambini

oggi non sanno cosa siano i bastimenti, ma

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dopo una veloce spiegazione sono pronti a

giocare con entusiasmo a «È arrivato un

bastimento carico carico di...», gioco verbale per

principianti, che è pur sempre un bel modo di

avventurarsi, un attracco dopo l’altro, nella

magia del gioco e nella scoperta delle parole.

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LA MATEMATICA DELLE PAROLE Aldo De Luca Professore di Teoria dell’Informazione Università degli Studi di Napoli Federico II

Le "parole" sono dal punto di vista

matematico sequenze arbitrarie di simboli, detti

lettere, appartenenti ad un insieme finito detto

alfabeto. Lo studio delle proprietà strutturali e

combinatoriche delle parole è di grande

interesse in vari campi quali la Linguistica

(filologia classica e moderna), la Matematica

(algebra e teoria dei numeri), la Fisica (dinamica

simbolica e cristallografia), l' Informatica

(compressione di dati, geometria discreta,

crittografia) e la Biologia molecolare (analisi del

DNA, RNA e delle sequenze proteiche).

Per il suo carattere interdisciplinare,

la teoria delle parole è stata negli anni

sviluppata indipendentemente e con diverse

finalità in vari settori di ricerca usando spesso

differenti linguaggi e tecniche di analisi. In

questi ultimi 30 anni un grande sforzo è stato

fatto per fornire un trattamento unificato della

teoria matematica delle parole. Attualmente la

Combinatoria delle parole è classificata da

Mathematical Review quale un soggetto

indipendente della ricerca matematica.

Le parole e le frasi di un linguaggio

naturale antico o moderno soddisfano forti

vincoli grammaticali e sintattici. Ad esempio

delle 720 possibili permutazioni, o anagrammi,

della parola mulino solo lumino ha significato in

Italiano. In ogni linguaggio vi è una lunghezza

massima delle parole. La parola Italiana più

lunga è precipitevolissimevolmente di lunghezza

26. Inoltre il numero di parole di un dato lessico

è molto limitato.

A differenza di quel che accade nello

studio dei linguaggi naturali, la teoria delle

parole in senso astratto analizza le successioni di

simboli esclusivamente dal punto di vista

matematico prescindendo cioè da ogni aspetto

semantico-interpretativo. La struttura di una

parola finita, o anche infinita, è legata alla

presenza in essa di alcune regolarità quali ad

esempio: 1) esistenza di periodicità, 2)

presenza di blocchi di lettere consecutive (o

fattori) palindromi, 3) ripetizioni di fattori, 4)

l'esistenza di semplici procedure di costruzione

della parola, 5) la presenza (o l'assenza) di

quadrati, cioè di due uguali e consecutivi

blocchi di lettere. Ad esempio la parola

abccabcab contiene due quadrati cc e cabcab.

Relativamente a quest'ultima regolarità

osserviamo che non si può costruire su un

alfabeto binario {a,b} una parola di lunghezza

maggiore di 3 senza produrre un quadrato. In

effetti le sole parole senza quadrati sono le

seguenti: a, b, ab, ba, aba, bab. Si potrebbe

pensare che questa regolarità cioè la presenza di

quadrati sia indipendente dal numero di lettere

dell'alfabeto cioè che tutte le parole

sufficientemente lunghe su un qualsiasi alfabeto

contengano un quadrato. Ma ciò è falso. In

effetti su un alfabeto a 3 lettere {a,b,c} esistono

parole arbitrariamente lunghe senza quadrati

che possono essere effettivamente costruite.

Così ad esempio la parola abcacbabcbac. è una

parola senza quadrati di lunghezza 12. Questo

risultato è stato di cruciale importanza per

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risolvere un famoso problema di Algebra posto

da Burnside agli inizi del secolo scorso.

Le precedenti regolarità sono dette

strutturali perchè dipendono dalla particolare

parola che si considera. Esistono, tuttavia, altre

regolarità le quali sono presenti, quale che sia

l'alfabeto, in tutte le parole sufficientemente

lunghe. Tali regolarità sono dette inevitabili e la

loro esistenza è conseguenza di profondi

teoremi di matematica quali ad esempio il

teorema di van der Waerden. Questo teorema

può essere formulato in termini di parole come

segue: Per ogni intero positivo n e per ogni

alfabeto finito ogni parola w sufficientemente

lunga ha una cadenza aritmetica di ordine n,

cioè esiste almeno una lettera che appare n

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volte in w ad eguali distanze. In particolare,

ogni parola su un alfabeto a 2 lettere di

lunghezza maggiore o uguale a 9 ha almeno una

cadenza aritmetica di ordine 3; così ad esempio

in aababbaba la lettera a appare nelle posizioni

1,4, e 7. L'esistenza di regolarità inevitabili ha

importanti conseguenze in Algebra e nella teoria

dei linguaggi formali.

Ricordiamo infine che la combinatoria

delle parole fornisce potenti strumenti

matematici e algoritmici per risolvere problemi

di grande interesse dal punto di vista applicativo

quali ad esempio il 'sequence assembly' cioè la

ricostruzione di una parola incognita (ad es. una

sequenza di DNA) conoscendo soltanto un

conveniente insieme di suoi fattori o frammenti.

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GIOCHI LINGUISTICI E SISTEMI D’IMPRESA Giuseppe Zollo Professore di Gestione aziendale Università degli Studi di Napoli Federico II

La storia del pensiero organizzativo è

scandita dai tentativi di conciliare le parole con i

numeri. Da una parte l’esigenza di utilizzare i

numeri per misurare le prestazioni, per

pianificare e per ottimizzare. Dall’altra,

l’esigenza di costruire discorsi per motivare le

persone, per coordinare e per interpretare un

mondo complesso. Dalla combinazione di

procedure numeriche e strutture linguistiche

nascono i sistemi d’impresa. Sistemi per

valutazione dei fornitori, per la certificazione

della qualità, per la programmazione della

produzione, e tanti altri. Nessuna impresa può

farne a meno. Ma non sono affatto facili da

costruire.

Alla fine dell’ottocento l’ing. Taylor

pensava di aver trovato la formula giusta,

facendo pendere la bilancia a favore dei numeri.

Perno del metodo di Taylor era la misura. Ogni

gesto, anche quello banale del sollevare un

attrezzo, era cronometrato e riprogettato. Si

riprogettava la postura del braccio, la posizione

della mano, il movimento del polso, la forma

dell’oggetto, il banco di lavoro. Tutto per

sincronizzare il lavoro e risparmiare tempo. Ford

lo applicò con successo nel 1914 per costruire il

famoso modello T. L’automobile per tutti gli

americani.

Per oltre 80 anni, nel bene e nel male, il

metodo taylorista-fordista ha funzionato. Ed i

numeri hanno preso il sopravvento. La gestione

di una grande azienda è stata basata (e si basa

ancora) sulla produzione di una massa ingente di

numeri e sull’uso di metodi quantitativi.

Memorabile è Alberto Sordi nelle prime scene del

film “Il Mafioso” di Alberto Lattuada del 1962. Il

suo personaggio, Nino Badalamenti, si aggira in

una grande fabbrica cronometando con

precisione maniacale il lavoro dei propri colleghi.

Poi, intorno agli anni ’70 del secolo

scorso, il dominio assoluto del numero comincia

a mostrare delle crepe. La natura del lavoro

stava cambiando. Da attività della mano si stava

trasformando in attività della mente. I numeri da

soli non bastavano più a gestire l’azienda. Era

necessario interpretarli. Il lavoratore era

chiamato a valutare situazioni, prendere

decisioni, produrre conoscenza. Tutte cose che si

fanno costruendo discorsi e sviluppando

argomentazioni. Dunque, parole e discorsi. Le

crepe si allargano ulteriormente con lo sviluppo

delle reti di imprese e della comunicazione via

internet. La rete richiede l’interpretazione dei

messaggi in arrivo e la costruzione di messaggi

in partenza.

Negli anni ’90 il paradigma taylorista-

fordista entra in una crisi che appare definitiva.

Si apre un campo di ricerca fertilissimo. Trovare

un nuovo modo per integrare numeri e parole

nei sistemi d’impresa. Ovvero, come scrisse Lofti

Zadeh nel 1996, trovare dei metodi per

“calcolare con le parole”. Un campo d’indagine a

cui contribuiscono la linguistica, la logica, la

psicologia cognitiva e l’informatica. La sfida è

costruire “sistemi intelligenti”, che sappiano

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Quando le parole giocano

estrarre un minimo di significato dalle

affermazioni verbali. Immaginate un sistema

capace di calcolare il risultato di un insieme di

giudizi verbali. Oppure capace di trovare un

documento sulla base descrizione sintetica del

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

suo contenuto. O un sistema che faccia il

riassunto di un testo. Cose non impossibili se i

sistemi aziendali impareranno a fare giochi

linguistici. Allora la parola avrà la propria

rivincita.

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E’ l’ultima delle conferenze del 4° ciclo di “Come alla corte di Federico II ovvero parlando e riparlando di scienza”. Un grazie a tutti quelli che hanno collaborato alla sua riuscita e che si impegneranno con il solito entusiasmo anche per la riuscita del prossimo. Perché il 18 ottobre si terrà la prima conferenza del prossimo ciclo, che proseguirà secondo la solita cadenza mensile nelle date di 22/11 20/12 17/01 21/02 13/03 17/04 15/05 19/06 e parlando e riparlando di scienza, sentirete parlare, tra l’altro, delle stelle, del clima, dell’India, dei palazzi di Napoli..... e non solo. A tutti Buone vacanze ed arrivederci al 18 ottobre.

ellegi

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• ASTRA MOVIES

www.astra.unina.it Giovedì e Venerdì ore 20.15 - 22.15 | Sabato e Domenica ore 18.15 - 20.15 - 22.15

• CINEFORUM SHANGRI-LA

www.shangri-la.unina.it

le proiezioni si terranno di mercoledì alle 20:30 al Centro Congressi Federico II Via Partenope, 36 secondo il seguente calendario:

Ciclo Cibo e Cinema

20/12/06 Il pranzo di Babette di Gabriel Axel 24/01/07 La finestra di fronte Ferzan Ozpetek 14/02/07 La grande abbuffata di Marco Ferreri 21/02/07 Fa la cosa giusta di Spike Lee 14/03/07 Pomodori verdi fritti alla fermata del treno di Jon Avnet 21/03/07 Big night di Stanley Tucci 28/03/07 Banchetto di nozze di Ang Lee 11/04/07 Vatel di Roland Joffé 18/04/07 Mangiare bere uomo donna di Ang Lee 02/05/07 Tampopo di Juzo Itam *16/05/07 Il cuoco, il ladro, sua moglie e la sua amante di Peter Greenaway *31/05/07 La cena di Ettore Scola *20/06/07 Come l’acqua per il cioccolato di Alfonso Arau

Ciclo Qualcosa di nuovo

10/01/07 U-Carmen di Mark Dornford-May 31/01/07 L'uomo in più di Paolo Sorrentino 28/02/07 Tutto si illumina di Liev Schreiber 25/04/07 Il ritorno di Andrei Zvyagintsev *23/05/07 Elisabethtown di Cameron Crowe *06/06/07 Nuovomondo di Emanuele Crialese *27/06/07 Acqua tiepida sotto un ponte rosso di Shohei Imamura

*dal 16/05/07 la programmazione dei film è posticipata di una settimana