Colore in funzione distintiva del prodotto e percezione ... in funzione...marchio o dell'acquisto di...

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Nota a: Cassazione civile, 12/02/2009 n. 3478, sez. I Colore in funzione distintiva del prodotto e percezione del pubblico in Riv. dir. ind. 2009, 06, 0480 Paolo Creta Emidia Di Sabatino Avvocato in Bologna Avvocato in Bologna SOMMARIO: 1. Colore in funzione distintiva e marchio di colore. - 2. Illecita imitazione del colore del contenitore del concorrente: concorrenza sleale confusoria, imitazione servile o look alike? 1. Colore in funzione distintiva e marchio di colore. La pronuncia che qui si annota offre, tra i vari altri, lo spunto per qualche breve considerazione sul potere individualizzante del colore, come segno «non convenzionale» (1) destinato ad una particolare modalità di percezione da parte del pubblico dei consumatori, nonché sul marchio di colore e i limiti che ne accompagnano la registrabilità. Ma prima di affrontare la questione è opportuno ripercorrere in breve i fatti: Ae S.p.a., (da ora in avanti Ae), società rivenditrice di un detergente usato per impianti di mungitura denominato Idrosan, nota per utilizzare sul mercato un contenitore di colore violetto (violetto 6433) atto a rappresentare morfologicamente e cromaticamente con il suo aspetto esteriore il prodotto commercializzato, conveniva dinnanzi al Tribunale di Brescia la ditta concorrente T.Ch Industriale, denunciando che la ditta concorrente, raccolti presso clienti e rivenditori di Ae alcuni di detti contenitori, li poneva in commercio riempiendoli con il suo omologo prodotto. Sulla base di tale prospettazione, l'esponente chiedeva al Tribunale adito la cessazione del preteso comportamento di concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598 nn. 1 e 3 c.c. e la condanna al risarcimento del danno, oltre che la pubblicazione della sentenza. T. Ch Industriale si costituiva ammettendo di acquistare i suoi contenitori dal medesimo produttore di Ae e di aver utilizzato, solo in qualche rara occasione, anche i contenitori restituiti dai clienti con l'etichetta Ae. Il Tribunale di Brescia (con sentenza del 21 giugno 1995), acquisite prove orali, respingeva la domanda attorea per assenza, nella specie, di capacità individualizzante della forma e del colore dei contenitori, con ciò negando la pretesa confusione tra i prodotti. In totale riforma della decisione di primo grado, la Corte d'Appello di Brescia accoglieva il gravame spiegato da Ae, ravvisando nella condotta denunciata un'ipotesi di illecito concorrenziale per confusione tra prodotti omogenei e, per l'effetto, condannava T Ch. Industriale al risarcimento dei danni patiti dall'appellante.

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Nota a: Cassazione civile, 12/02/2009 n. 3478, sez. I

Colore in funzione distintiva del prodotto e percezione del pubblico

in Riv. dir. ind. 2009, 06, 0480

Paolo Creta

Emidia Di Sabatino

Avvocato in Bologna

Avvocato in Bologna

SOMMARIO: 1. Colore in funzione distintiva e marchio di colore. - 2. Illecita imitazione del colore del contenitore del concorrente: concorrenza sleale

confusoria, imitazione servile o look alike?

1. Colore in funzione distintiva e marchio di colore. La pronuncia che qui si annota offre, tra i vari altri, lo spunto per qualche

breve considerazione sul potere individualizzante del colore, come segno «non

convenzionale» (1) destinato ad una particolare modalità di percezione da parte del pubblico dei consumatori, nonché sul marchio di colore e i limiti che

ne accompagnano la registrabilità. Ma prima di affrontare la questione è opportuno ripercorrere in breve i fatti:

Ae S.p.a., (da ora in avanti Ae), società rivenditrice di un detergente usato per impianti di mungitura denominato Idrosan, nota per utilizzare sul mercato un

contenitore di colore violetto (violetto 6433) atto a rappresentare morfologicamente e cromaticamente con il suo aspetto esteriore il prodotto

commercializzato, conveniva dinnanzi al Tribunale di Brescia la ditta concorrente T.Ch Industriale, denunciando che la ditta concorrente, raccolti

presso clienti e rivenditori di Ae alcuni di detti contenitori, li poneva in commercio riempiendoli con il suo omologo prodotto.

Sulla base di tale prospettazione, l'esponente chiedeva al Tribunale adito la cessazione del preteso comportamento di concorrenza sleale ai sensi dell'art.

2598 nn. 1 e 3 c.c. e la condanna al risarcimento del danno, oltre che la

pubblicazione della sentenza. T. Ch Industriale si costituiva ammettendo di acquistare i suoi contenitori dal

medesimo produttore di Ae e di aver utilizzato, solo in qualche rara occasione, anche i contenitori restituiti dai clienti con l'etichetta Ae.

Il Tribunale di Brescia (con sentenza del 21 giugno 1995), acquisite prove orali, respingeva la domanda attorea per assenza, nella specie, di capacità

individualizzante della forma e del colore dei contenitori, con ciò negando la pretesa confusione tra i prodotti.

In totale riforma della decisione di primo grado, la Corte d'Appello di Brescia accoglieva il gravame spiegato da Ae, ravvisando nella condotta denunciata

un'ipotesi di illecito concorrenziale per confusione tra prodotti omogenei e, per l'effetto, condannava T Ch. Industriale al risarcimento dei danni patiti

dall'appellante.

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L'ammissione, da parte della società convenuta, di avere in taluni casi

prelevato i contenitori di Ae e di averli riempiti con il proprio prodotto, e la conferma, in sede testimoniale, del valore individualizzante del colore violetto

dei bidoncini, anche per mancanza di prova contraria circa la presenza sul

mercato di bidoncini simili contrassegnati dallo stesso colore, deponevano, secondo la Corte territoriale, a favore del riconoscimento di un acquisito potere

individualizzante del colore viola, tale da rendere immediatamente riconoscibile all'acquirente il contenitore utilizzato e dunque, proprio per tale connotato

cromatico, il prodotto in esso contenuto. La Suprema Corte respingeva il ricorso proposto da T. Ch. Industriale

avverso l'impugnata sentenza (per dedotta violazione e falsa applicazione dell'art. 2598, n. 1 e dell'art. 2697 c.c. e omessa, contraddittoria ed

insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia ai sensi dell'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.) perché ai limiti dell'inammissibilità, risolvendosi a

ben vedere in un riesame delle valutazioni delle risultanze processuali contenute nella sentenza di merito, precluso in sede di legittimità.

Ciò che qui più interessa è prendere le mosse dalla posizione assunta dalla S. C. sulla capacità individualizzante del colore «violetto 6433» dei contenitori,

per poi allargare il campo a più ampie riflessioni sul colore in sé, nonché sulle

combinazioni o tonalità cromatiche. Non sono mancate in dottrina voci isolate favorevoli al riconoscimento di una

autonoma capacità distintiva del colore (2), in considerazione del fatto che i colori trasmettono un messaggio come gli altri segni distintivi (3), sono in

grado di suscitare sentimenti, di trasmettere libere associazioni di idee, per cui una aprioristica esclusione - in mancanza della prova di un previo uso come

marchio o dell'acquisto di un secondary meaning - del carattere distintivo intrinseco, potrebbe risultare alquanto ingiustificata (4).

Un rapido sguardo al panorama giurisprudenziale nazionale evidenzia che i nostri giudici hanno avuto raramente occasione di occuparsi dei segni che non

vengono considerati tradizionali, al pari di quelli verbali, figurativi o complessi e, ciò spiega, perché gli approdi della giurisprudenza comunitaria hanno

costituito il punto di riferimento in materia. Può servire, ad avviso di chi scrive, riproporre qui di seguito un breve

excursus giurisprudenziale, anche al fine di valutare quanto la sentenza della

Corte di Cassazione si rifaccia a quei principi o quanto, invece, se ne discosti. Ebbene, sin dalle prime decisioni delle Commissioni di ricorso dell'UAMI è

emersa la preoccupazione di concedere esclusive su colori puri, al fine di scongiurare il temuto rischio di un monopolio a vantaggio esclusivo di alcuni

imprenditori e a danno di altri (5). La Corte di giustizia delle Comunità europee nel caso Libertel si è chiesta se

potessero essere registrati marchi per singoli colori (6). Ciò che più è emerso da quella pronuncia è stata la mortificazione del segno colore, che veniva

amputato della propria innata vocazione comunicativa e relegato, in via del tutto marginale, ad un uso pubblicitario e di commercializzazione, senza alcun

riferimento alla funzione che gli è propria di veicolare i messaggi trasmessi per impressione visiva.

Quella pronuncia lasciava tuttavia intendere che un segno costituito da un colore unico può acquisire carattere distintivo attraverso l'uso, senza escludere

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che «in circostanze eccezionali», vale a dire quando «il numero dei prodotti o

dei servizi per i quali venga richiesta la registrazione del marchio risulti limitato» (7), esso possa essere considerato intrinsecamente distintivo.

Alquanto discutibile e superata appare oggi anche la parte di detta pronuncia

comunitaria che si riferisce alla percezione del pubblico di riferimento: «il numero di colori che tale pubblico è in grado di distinguere è poco elevato,

tenuto conto del fatto che raramente disporrà delle possibilità di porre direttamente a raffronto prodotti che presentino sfumature di colore diverse»

(punto 47)... il consumatore «solo raramente ha la possibilità di procedere ad un confronto diretto dei vari marchi, ma deve fare affidamento sull'immagine

non perfetta che ha mantenuto nella memoria» (punto 64) (8). Non si comprende, invero, il motivo per cui la Corte di giustizia abbia preso le

distanze dagli approdi delle più moderne strategie di comunicazione, negando al colore la sua ormai assodata capacità di evocare messaggi anche senza

mostrare direttamente l'oggetto del discorso (9), falsando, peraltro, la ricostruzione della percezione sensoriale che il pubblico di riferimento ha di

fronte ad un prodotto. Non va dimenticato che è il colore, tra gli elementi dell'impressione visiva, che dura solo una manciata di secondi, ad imprimersi

per primo nella memoria del pubblico (10).

Sempre restando in ambito comunitario, è significativo ricordare anche il caso «Heidelberger Bauchemie» (11) relativo, invece, alla registrabilità di una

combinazione cromatica costituita dal giallo e dal blu. Si trattava di stabilire se il requisito della rappresentazione grafica del segno potesse ritenersi

soddisfatto dalla riproduzione di due identiche strisce colorate (una blu, l'altra gialla) e in quell'occasione, da un lato, la Corte di Giustizia ha sancito la

registrabilità di «colori o combinazioni cromatiche, designati astrattamente e senza contorno», dall'altro, ha indicato alcune linee guida: «per essere

registrati come marchi, i colori e le combinazioni cromatiche devono rispondere a tre requisiti. In primo luogo devono costituire un segno, vale a dire che nel

contesto nel quale essi sono impiegati, i colori e le combinazioni si presentino effettivamente come un segno e non invece come una semplice proprietà della

cosa o per il loro potere di attrazione o decorativo. In secondo luogo, il segno costituito da un colore o da una combinazione cromatica deve poter essere

rappresentato visivamente, in particolare attraverso immagini, linee o

caratteri, in modo da poter essere individuato con esattezza. In terzo luogo, il segno medesimo deve essere idoneo a distinguere i prodotti di una

determinata impresa da quelli di altre imprese, nel senso che occorre valutare se il colore o la combinazione siano idonei o meno a trasmettere informazioni

precise, in particolare quanto all'origine di un prodotto o di un servizio» (...). «Salvo in circostanze eccezionali, i colori non hanno un carattere distintivo ab

initio, ma possono eventualmente acquisirlo in seguito ad un uso in relazione ai prodotti o ai servizi richiesti» (12).

Dall'esame della casistica sul marchio di colore, in verità, piuttosto esigua (13), è emerso che la nostra giurisprudenza è univoca nel ritenere che esistono

colori a tal punto scontati e ricorrenti per uno specifico mercato, da risultare inidonei a distinguere l'attività di una impresa da quella di altro concorrente

(14). Parimenti, è stata negata capacità distintiva al colore che presenta carattere funzionale del prodotto stesso (15), sicché potrà risultare debole un

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marchio di colore che si riferisca ad una caratteristica fisica del prodotto (si è

fatto l'esempio di un marchio arancione per identificare una marmellata di arance) (16) perché quell'elemento di genericità è presente anche in altri

marchi e, pertanto, tale elemento funzionale rimarrà al di fuori della tutela del

marchio (17). Di converso, è stato riconosciuto potere individualizzante ai colori con tonalità

molto particolari o del tutto inusuali rispetto al prodotto cui sono applicati, che non abbiano una funzione intrinsecamente descrittiva del prodotto, ma siano

collegati ad esso da un accostamento di pure fantasia con carattere originale ed efficacia individualizzante, occorrendo che il collegamento tra il colore e il

prodotto rappresenti il dispiego di un attività creativa (18). Tornando alla pronuncia in commento, va detto che la Suprema Corte, in

tema di marchio di colore, si limita a richiamare una propria recente decisione (n. 7254 del 18 marzo 2008) (19), senza nulla aggiungere sull'argomento,

recuperando il profilo che escluderebbe la tutelabilità dei marchi di colore in considerazione del loro numero esiguo che ne vieterebbe l'uso ai concorrenti.

La possibilità di registrare marchi per colori monocromi, dato il loro numero ristretto, incontra un limite nell'interesse generale a non restringere

indebitamente la disponibilità dei colori agli altri operatori che offrono prodotti

o servizi analoghi (20). Già con poche registrazioni si potrebbe porre il rischio di esaurire la gamma dei colori puri disponibili, generando una odiosa

monopolizzazione a vantaggio di pochi operatori e un inevitabile effetto discorsivo della concorrenza.

Per contro, le tonalità cromatiche e le combinazioni di colori (21) sono infinite o, comunque, in numero tale da consentire un loro frazionamento, ragion per

cui può riconoscersi carattere distintivo solo quando i colori posseggano tonalità molto particolari o siano del tutto inusuali rispetto al prodotto per cui

sono impiegati (22). In ogni caso, l'accertamento della capacità distintiva e originalità del colore va valutata in concreto, con un giudizio di fatto che

prenda come punto di riferimento specifico la categoria del prodotto interessato.

Ci pare che la pronuncia emarginata, nel rifarsi a tale orientamento, finisca per assumere sul punto una posizione conservatrice, riproponendo l'argomento

più di fatto che di diritto dell'interesse generale (23), la cui pertinenza è stata

revocata in dubbio dal Tribunale di prima istanza e dalla stessa giurisprudenza di legittimità (24).

Il particolare colore violetto utilizzato per il proprio contenitore da Ae veniva ad assumere funzione distintiva in quanto era riconoscibile a prima vista

dall'acquirente e, proprio in relazione a tale sua caratteristica, integrava efficacia individualizzante del prodotto (25). Oltre a ciò, la scelta del particolare

colore, molto lontano concettualmente dal prodotto contenuto nei bidoncini così cromaticamente contrassegnati, ne accresceva la distintività e

identificabilità (26). Significativo, quantomeno al riguardo, è il superamento che gli ermellini

compiono degli indirizzi comunitari che hanno svilito la vocazione comunicativa del colore e ridotto gli effetti derivanti dalla percezione visiva, tralasciando che

il colore è una delle forme più pregnanti di comunicazione non verbale e che

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ogni singola cromatura assume valore simbolico e di reazione emotiva,

esaltando gli effetti della comunicazione (27). In prima approssimazione, può dirsi che il colore è l'impressione che la luce

variamente riflessa dalla superficie dei corpi produce sull'occhio ed è in grado

di distinguere, caratterizzare e catalogare tutti gli oggetti e di esercitare sull'osservatore un'azione complessa che si estrinseca, sul piano fisico,

attraverso una gamma di vibrazioni elettromagnetiche, sul piano psichico, agendo a livello inconscio e producendo un effetto emotivo (28).

Mentre di fronte ad un segno denominativo o figurativo apposto ad un prodotto il pubblico percepisce immediatamente che quei segni si riferiscono ad

una determinata impresa (29), quando si ha a che fare con il colore di un prodotto o della sua confezione che si confonde con l'aspetto esteriore del

prodotto, la percezione si svilupperà in maniera differente, sarà direttamente vissuta dall'inconscio, sarà soggettiva e sicuramente meno certa, tuttavia ciò

non costituisce un argomento sufficiente per escludere che i consumatori (30) possano presumere l'origine del prodotto in base al solo colore del prodotto o

al colore della confezione (31). Come osservato dalla dottrina più accorta, l'efficacia del colore è indiscutibile, perciò escludere che un colore abbia

carattere distintivo intrinseco implica una inammissibile discriminazione del

colore verso gli altri segni (32).

2. Illecita imitazione del colore del contenitore del concorrente: concorrenza sleale confusoria, imitazione servile o look alike?

Nella pronuncia in commento la Suprema Corte ha ribadito il consolidato orientamento secondo cui, ai fini della concorrenza sleale per confondibilità, la

imitazione servile non si identifica con la riproduzione di qualsiasi forma di prodotto altrui, ma solo con quella che cade sulle caratteristiche esteriori

dotate di efficacia individualizzante e cioè idonee, in virtù della loro capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa (33). In altre

parole, il divieto copre le forme superflue, arbitrarie, capricciose e cessa di operare solo in rapporto alle forme funzionali, cioè rese necessarie dalle stesse

caratteristiche funzionali del prodotto, delle quali è inevitabile l'esatta riproduzione a meno che non si voglia pregiudicare la utilità che esse

presentano (34).

I Giudici dell'appello, secondo la Suprema Corte, hanno fatto corretta applicazione dei consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza e dalla

dottrina in tema di concorrenza sleale per imitazione servile confusoria. La Cassazione muove dalla considerazione che, nel caso di specie, l'utilizzo di

confezioni identiche, anzi riciclate in taluni casi (circostanza peraltro ammessa dal ricorrente), è capace di indurre l'acquirente in inganno circa la provenienza

del prodotto. Perciò, la fattispecie ben si presta ad essere ricondotta entro l'ipotesi di cui all'art. 2598 n. 1, ultima parte c.c. che sanziona come

concorrenza sleale la condotta di «chiunque compia con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e l'attività del concorrente» (35).

In altre parole, è stato ritenuto più pertinente rifarsi all'ultima parte dell'art. 2598 n. 1, ovverosia ad ipotesi diverse dall'imitazione di segni distintivi altrui e

dall'imitazione servile, facendo ricorso alla clausola generale aperta contenuta in detta disposizione (36).

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Ciò chiarito, venendo ora al profilo concernente l'accertamento della

confondibilità tra prodotti (37), può dirsi che alla luce dei criteri coniati dalla giurisprudenza, una comparazione non deve estrinsecarsi in un esame analitico

e separato dei singoli elementi, ma deve dare corso ad una valutazione di tipo

sintetico che trascuri i particolari di modesta importanza per prediligere una visione complessiva dei prodotti messi a confronto, avuto riguardo

all'impressione che presumibilmente quella somiglianza può suscitare nel consumatore medio (il quale non opera le sue scelte in virtù di una

comparazione diretta, ma confrontando la realtà con il ricordo di precedenti esperienze) (38).

E, comunque, la Corte ha cura di precisare che a fronte di contenitori uguali per forma e per colore, la semplice apposizione di una nuova etichetta sul

prodotto non può ritenersi sufficiente ad eliminare il pericolo di confusione, essendo contrario all'id quod plerumque accidit richiedere ad un acquirente di

scegliere un prodotto previa attenta lettura delle etichette (39). È plausibile domandarsi perché non si sia fatto alcun riferimento nella

pronuncia in rassegna al fenomeno del c.d. look alike e si potrebbe ragionevolmente ipotizzare che la Suprema Corte abbia ritenuto che certe

considerazioni potessero essere omesse, arrivando a conclusioni non dissimili

sulla base di un ordinario giudizio di confondibilità che valuti il prodotto, la confezione, il colore e l'impressione dell'acquirente.

Come la migliore dottrina insegna per look alike o knock off si intendono imitazioni sovente pedisseque del disegno di un prodotto, delle etichette o della

confezione nel suo insieme, cioè di tutto ciò che appare visivamente all'esterno (i contenitori, la colorazione, l'etichettatura, la rappresentazione grafica, gli

slogan) (40). È sulla confezione che cade lo sguardo del consumatore, perché la confezione

intesa nel suo insieme veste il prodotto, lo colora, lo identifica agli occhi del consumatore che lo riconoscerà sugli scaffali della grande distribuzione e lo

sceglierà anche per quell'impressione visiva che è stata in grado di suscitare, preferendolo ad altro prodotto concorrente. Perciò non è azzardato dire che la

confezione è l'impronta del prodotto sul mercato, è la sua carta d'identità (41). Il look alike non colpisce i prodotti del lusso coglie, invece, i prodotti della

larga distribuzione, si annida sugli scaffali dei supermercati, guadagna terreno

nella particolare collocazione della merce nelle catene di distribuzione, sfrutta l'immagine che il prodotto imitato ha già guadagnato sul mercato (42).

I look alike o knock off imitano il trade dress (43) di un prodotto cioè «l'insieme dei vari elementi che compongono la confezione di un prodotto o la

configurazione del prodotto stesso» che anziché essere meramente decorativi hanno capacità individualizzante.

La scarsa attenzione della nostra giurisprudenza e della nostra dottrina per il fenomeno del look alike muove dal ridimensionamento della portata effettiva

dell'illecito censito che è stato considerato, sin dal suo primo apparire, come un mero formalismo, una duplicazione inutile delle ipotesi di cui all'art. 2598 c.c.

n. 1 e 3. Non è mancato tuttavia chi, cogliendo l'essenza del look alike, lo abbia

dipinto come un legal framework, una cornice capace di racchiudere una serie

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di fenomeni studiati separatamente come espressioni di illeciti industrialistici

(44). La scarsa giurisprudenza in argomento ha, comunque, codificato alcuni criteri

da tenere in considerazione per poter affermare che ricorra la fattispecie, quali

l'acquisita notorietà del prodotto imitato sul mercato, gli investimenti pubblicitari che abbiano accreditato la forma del prodotto sul mercato,

unitamente al fatto che il prodotto non sia stato immesso in commercio solo da recente periodo (45).

Venendo al caso deciso in sentenza, l'illecito concorrenziale censurabile ex art. 2598 n. 1, ultima parte, costituito dalla commercializzazione da parte del

concorrente di contenitori della stessa forma e dello stesso colore violetto usato per contraddistinguere i contenitori di Ae, peraltro, per contenere

prodotti della stessa specie, può essere apprezzato anche come ipotesi di look alike, ovverosia come illecito diretto a copiare il prodotto del concorrente al

fine di trarre in inganno il consumatore. Che qui possa parlarsi di inganno non v'è dubbio: veniva copiata la

confezione nella forma e si sceglieva di utilizzare contenitori del medesimo particolare colore, con l'intento di acquisire una posizione di indebito

vantaggio, approfittando della notorietà del prodotto Ae sul mercato; per di

più, i bidoncini venivano riempiti di prodotto dello stesso genere e la particolare sfumatura cromatica dei contenitori catalizzava l'attenzione

dell'acquirente, accrescendo l'impressione che si trattasse del prodotto imitato e non di quello imitante.

(1) Sui marchi non convenzionali si segnalano S. SANDRI, Marchi non convenzionali, in Dir. ind., n. 4/2007, 341-355 (ove ampia rassegna di

casistica comunitaria); ID., La valutazione del momento percettivo del marchio, in questa Rivista, 2002, I, 526 ss.; SANDRI - RIZZO, I nuovi marchi -

forme, colori, odori, suoni, e altro, Milano, 2002, 292; M. FABIANI, La protezione del profumo tra marchio d' impresa e diritto d'autore, in Dir. aut.,

3/2005, 325-333; VANZETTI - GALLI, La nuova legge marchi, 2001, 110. (2) Così BONASI, BENUCCI, Tutela della forma nel diritto industriale,

Milano, 1963, 39. Si rinvia anche alle riflessioni di GUERCI, Considerazioni sulla brevettabilità dei marchi di colore, in questa Rivista, 1954, I, 150 ss.;

CUSUMANO, Appunti sui marchi di colore, in questa Rivista, 1971, II, 121 ss.

(3) Corte Suprema degli Stati Uniti, decisione del 28 marzo 1995, in Dir. ind., 1995, 1117 per la quale il colore trasmette un messaggio allo stesso

modo degli altri segni ed è pertanto segno brevettabile come marchio. Tale decisione sradica definitivamente il principio della non proteggibilità del

marchio costituito da un solo colore, con l'avvertimento tuttavia che non sempre i colori usati per un prodotto rivestono efficacia individualizzante agli

occhi del consumatore. Vale la pena di segnalare che il principio della non proteggibilità di un marchio costituito da un solo colore si fondava su tre

distinte argomentazioni: color depletation theory secondo cui il numero dei colori è limitato, sicché la disponibilità degli stessi sarebbe a vantaggio solo di

alcuni operatori, nocendo a quelli che non se ne avvantaggino; shade confusion theory, per cui ove si ammettesse la proteggibilità del solo colore

come marchio, la contraffazione di marchio si risolverebbe in comparazioni di sfumature; doctrine of functionality per cui un elemento che è essenziale

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all'utilità o all'ornamento di un prodotto, non può essere concesso in via

esclusiva. (4) Si esprime in questi termini SANDRI, Marchi non convenzionali, cit.,

347.

(5) Si rinvia a MORRI, La rappresentazione grafica del marchio nelle decisioni dell'UAMI e degli organi giurisdizionali comunitari, in questa Rivista,

2006, fasc. 6, 252. (6) Corte di giustizia CE, 6 maggio 2003, in causa C-104/01, Libertel

Groep BV c. Benelux Markenbureau, caso «Libertel», in Racc., 2003, I, 3793. La società Libertel Groep BV, operante nel settore dei servizi di

telecomunicazione mobile, riceveva dall'ufficio marchi del Benelux diniego provvisorio alla registrazione, a titolo di marchio di un colore arancione

destinato a contraddistinguere i propri servizi di telecomunicazione. Il colore era stato riprodotto nella domanda di registrazione, su una superficie di carta

senza riferimento ad alcun codice indicativo. Per usare le parole della Corte: «un semplice colore specifico difetta, di

regola della proprietà tipica di distinguere i prodotti di una data impresa» dato che «non è abitudine dei consumatori presumere l'origine dei prodotti

basandosi sul loro colore, ovvero sul colore della loro confezione, in assenza di

qualsiasi elemento grafico o testuale, in quanto, negli usi commerciali attuali, un colore specifico non viene utilizzato come strumento di identificazione».

(7) Tale principio viene riproposto anche in Corte di giustizia CE, 24 giugno 2004 (causa 49/02) «salvo in circostanze eccezionali, i colori non hanno un

carattere distintivo ab initio, ma possono eventualmente acquisirlo in seguito ad un uso in relazione ai prodotti o ai servizi richiesti».

(8) Cfr. caso Baby-dry, sentenza del 20 settembre 2001, in causa C-38/99 P, Procter & Gramole vs. OHIM Baby-dry, in cui la Corte di giustizia ha invitato,

nella valutazione della distintività del marchio, a mettersi in the feet of consumers.

(9) Cfr. ZERI, Colore e messaggio, in Strumenti per comunicare, Roma, 2002 in cui si legge che il colore è considerato come «un portatore di messaggi

(...), che passa indisturbato nei diversi livelli, dal conscio all'inconscio, senza censure dell'io, senza meccanismi difensivi, come invece accade per il

linguaggio e la forma, richiamando sentimenti, emozioni, e provocando effetti

fisiologici» diventando «elemento centrale di qualsiasi scelta comunicativa». (10) Di tale avviso TAVOLARO Il colore come marchio, in Dir. ind., 2004,

n. 1, 34 (commento a Corte giust. CE, 6 maggio 2003, in causa C-104/01). (11) Corte giust. CE, 24 giugno 2004, in causa C 49/02, Heidelberger

Bauchemie GmbH, caso Heidelberger Bauchemie, in Racc., 2004, I, 6126 relativo alla registrazione dei colori blu e giallo usati per contraddistinguere

prodotti edili e in www.marchiocomunitario.it, 2004, 11, con nota di SANDRI, Marchi costituiti da combinazioni di colore.

(12) La Corte di giustizia non specifica quali siano le circostanze eccezionali richiamate, è presumibile, comunque, che il riferimento sia alle

«circostanze eccezionali» indicate dalla Corte nel caso Libertel. (13) In passato la giurisprudenza di merito e di legittimità si è mostrata

contraria all'ammissibilità nell'ordinamento italiano del marchio di colore: segnaliamo, tra le tante, Cass., 15 luglio 1965, n. 1550, in Giur. it., 1966, I, 1,

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30; Trib. Milano, 9 settembre 1963, in questa Rivista, 1963, II; 259, 15; App.

Milano, 9 settembre 1975, in Giur. ann. dir. ind. 1975, 589, Trib. Torino, 11 settembre 1978, ivi, 1971.

(14) V. App. Milano, 7 maggio 2002, in GADI, 2002, 857 che esclude la

capacità distintiva per i colori che sono frequentemente usati per il genere di prodotti sui quali il segno è destinato ad essere apposto.

(15) V. Pret. Lecco, 17 agosto 1990, in Giur. dir. ind., 1990, 674 (con specifico riferimento al colore di certe reti di plastica) osserva che è possibile

tutelare il colore come marchio, se il colore presenta carattere arbitrario e non funzionale del prodotto stesso; Trib. Milano, 15 novembre 1994, in Giur. dir.

ind., 1995, 678 secondo cui «l'uso del colore argento e dell'alluminio nelle confezioni dei prodotti alimentari è generalizzato e funzionale anche alle

esigenze tecniche e non può essere protetto da una registrazione di marchio». (16) L'esempio è citato nella sentenza della Corte Suprema degli Stati

Uniti, decisione del 28 marzo 1995, cit., Qualitex Co c. Jacobson Products Co, Inc.

(17) Si rinvia a DI GARBO, Il colore del tubo, in Dir. ind., n. 3/1998, 209, (commento a Trib. Sala Consilina, 3 marzo 1998) il quale in riferimento all'uso

del colore verde per tubi ritiene che l'arbitrarietà del colore rispetto al prodotto

renda, senza dubbio, il marchio forte; Trib. Torino, 30 ottobre 1996, in Dir. ind., 1997, 465 con nota di Mondini: «La circostanza che il marchio sia

costituito da elementi compositivi deboli, ossia caratterizzati da una ridotta elaborazione fantastica e, pertanto, da una minore capacità distintiva, non

impedisce il riconoscimento della contraffazione quando uno di tali elementi risulta pedissequamente riprodotto nel colore, nella conformazione e nella

collocazione». (18) Così, Cass., Sez. I, 14 marzo 2001 n. 3666, in Giust. civ. Mass.,

2001, 474, in Foro it., 2001, I 2539 e in Giur. it., 2001, 1881. (19) Cass., Sez. I, 18 marzo 2008, n. 7254 in Giur. it., 2008, 2489, ss.

con nota di SCIACCA. (20) Viene richiamata la c.d. teoria dell'«imperativo di disponibilità del

marchio» il cui accertamento viene fatto in sede di esame della domanda e, quindi, prima della eventuale concessione della registrazione del marchio ed è

speculare alla tutela dell'interesse generale (si rinvia alle conclusioni dell'Avv.

Gen. Damaso Ruiz Jarabo Colomer del 31 gennaio 2002, causa C-363/99, Postkantoor, punto 32). Tale accertamento è funzionale alla necessità di

salvaguardare i concorrenti, vietando la concessione del marchio quando ciò costituirebbe impedimento, per i concorrenti, del diritto di utilizzare lo stesso

segno. (21) Numerose le decisioni delle Commissioni di ricorso sulle combinazioni

dei colori: 19 giugno 2000, R-344/1999-1, R-345/1999-1 e R-346/1999-1, (bildmarke) Dunkell-Undhellorange; 30 aprile 1999, R-157/98-3, 29 febbraio

2000, R343/1999-2 e 342/1999-2, Aral Blau-Weiss e Blau; 13 aprile 2000, R-210/1999-3, Dunkelgraü-Grün; 28 luglio 2000, R-558/1999-1, Grün/Grau; 22

marzo 2000, R-59/1999-2, Schwarz/Gelb; 8 aprile 2002, R-1013/2001-1, Gelb/Schwarz; 28 agosto 202, R-785/2000-4, Hellgrün/Laubgrün. Tutte

negative tranne quella del 25 gennaio 2000, R-136/1999-1, Schwarz-Grün-Schwarz che, ha ritenuto graficamente definito e distintivo per

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contraddistinguere servizi finanziari ed assicurativi il marchio rappresentato da

tre strisce di colore nero, verde, nero, poste orizzontalmente a modo di bandiera. La nostra giurisprudenza di merito si è espressa al riguardo: App.

Firenze, 4 maggio 1984, in questa Rivista, 1984, II, 23; Trib. Bologna (ord.),

29 aprile 2008, in www.giuraemilia.it, relativa ad una combinazione cromatica utilizzata per contraddistinguere diversi tipi di aceto balsamico. In dottrina, si

rinvia alle considerazioni di SANDRI, La giurisprudenza comunitaria in tema di marchi non convenzionali, in questa Rivista, 2004, 6, 212.

(22) Tali argomentazioni hanno condotto alla attuale formulazione dell'art. 7 c.p.i. che può essere considerato espressione della volontà del nostro

legislatore di precludere la registrazione ai colori puri. Cfr. VANZETTI, GALLI, La nuova legge marchi, 109, nota 9. Di diverso avviso SANDRI, Marchi non

convenzionali, cit., 349, il quale muove l'obiezione della natura meramente esemplificativa dell'elenco dei segni suscettibili di registrazione che la

disposizione contiene. (23) La teoria dell'interesse generale a non restringere indebitamente la

disponibilità dei colori per gli altri operatori che offrano prodotti o servizi del genere di quelli in oggetto della domanda di registrazione è stata criticata

autorevolmente ed è stata ritenuta estranea al sistema giuridico del diritto

comunitario di marchio (J. Phillips, Ici, 2005). (24) V. caso Stand Up Pouches (Sacchetto che sta in piedi) sentenza del

28 gennaio 2004, T-146-02, Deutsche SiSi-Werke GmbH & Co Betriebs KG v. OAMI. Il Tribunale di prima istanza, in riferimento al marchio di forma, ha

affermato: «l'interesse che possono avere i concorrenti del richiedente di un marchio (tridimensionale) costituito dalla presentazione di un prodotto di poter

liberamente scegliere la forma e il disegno dei proprio prodotti non rappresenta di per sé, un motivo idoneo a giustificare il rifiuto di registrare un marchio

siffatto, né un criterio di valutazione di per sé sufficiente del carattere distintivo di quest'ultimo». Cfr. anche Cass., 14 marzo 2001, n. 3666 che a proposito

della controversia sul marchio di colore Cala Viola nota che: «la questione della monopolizzazione dello sfruttamento di un colore come marchio si pone in

termini analoghi alla questione del cosiddetto marchio di forma e dunque facendo riferimento al colore del prodotto e non a quello utilizzato nel marchio

in quanto tale. È ovvio che è il colore del prodotto che ripetuto nel marchio può

dare luogo a pericoli di monopolio ingiustificato, come avverrebbe se si consentisse di monopolizzare la parola “Rosso” per distinguere un vino,

appunto di tale colore. Non si pone siffatto problema laddove il giudice di merito ha accertato che il collegamento tra il colore e il prodotto è arbitrario e

rappresenta il dispiego di una attività creativa». (25) V. VANZETTI - DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Milano,

2005: un segno ha capacità distintiva «quando venga percepito dallo specifico pubblico cui i prodotti o i servizi contrassegnati sono destinati, come segno che

denota l'origine del prodotto o servizio da un determinato imprenditore»; MANSANI, La capacità distintiva come concetto dinamico, in Dir. ind., n.

1/2007, 19-26. Vale la pena ricordare che la mancanza di capacità distintiva costituisce un impedimento assoluto alla registrazione ai sensi dell'art. 7 n. 1

lett. b), del regolamento n. 40/1994 sul marchio comunitario. L'accertamento della capacità distintiva di un marchio va valutata, secondo la Corte di Giustizia

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e il Tribunale di primo grado CE, applicando gli stessi criteri,

indipendentemente dal tipo di marchio e, ciò, in base al principio di parità di trattamento.

(26) Il colore viola nelle campagne pubblicitarie viene usato per evocare i

concetti del lusso e dell'esotismo, e trova anche largo impiego in ambito alimentare, ne risulta evidente, pertanto, l'inusualità dell'utilizzazione che nel

caso di specie. è stata fatta del colore viola. (27) Si ritiene comunemente che il giallo, l'azzurro, il rosso sono colori che

agiscono sul fisico; l'azzurro, il blue, il viola emozionano lo spirito; il verde, colore neutro, può, invece indifferentemente appartenere ad entrambi i gruppi.

(28) Senza pretesa di completezza, sul colore si rinvia a ECO, Trattato di semiotica generale, Milano, 1975; DUPLESSIS Y., La percezione

parapsicologica del colore, Roma, 1976; DE GRANDIS, Teoria e uso del colore, Milano, 1984; FROVA, Luce, colore, visione, Roma, 1984; ROMANELLO, Colore:

simboli e usi. Dall'antichità ad oggi, tutte le evoluzioni, Milano, 1994; LAMB, BOURRIAU: Colour: Art and science, Cambridge University Press, Cambridge,

1997; YATES, NEWTON, All about colour, Belitha Press, London, 1997. In particolare, sui significati e le emozioni veicolati dal colore in pubblicità:

APPIANO, Comunicazione visiva. Apparenza, realtà rappresentazione, Torino,

1996; BIANCHI C., Spot. Analisi semiotica dell'audiovisivo pubblicitario, Roma, 2005; LUZZATO, POMPAS, Il colore persuasivo, Milano, 2001; ID., Il linguaggio

del colore, Milano, 2001. (29) Sulla percezione del colore da parte del pubblico dei consumatori V.

Trib. prima istanza 19 settembre 2001, in causa T-30/00, Henkel KGaA v. OHIM (TABS), punto 54; Tribunale I grado CE, 9 ottobre 2002, n. 173, KWS

Saat AG C. Uff. armonizzazione mercato int. UAMI in Dir. ind., 2003, 237 con nota di Andreani: «Il carattere distintivo di un segno può essere valutato

soltanto in relazione ai prodotti o ai servizi per i quali è stata chiesta la registrazione, da un lato, e in relazione alla comprensione che ne ha il pubblico

interessato, dall'altro». In argomento, SIRONI, «La percezione» del pubblico interessato, in Dir. ind., n. 2/2007, 121-140.

(30) Per «pubblico interessato» deve intendersi l'insieme dei consumatori a cui i prodotti o i servizi sono destinati. All'interno di tale cerchia va preso a

modello «il consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente

attento e avveduto». Cfr. Corte giust. CE, 16 luglio 1998, Gut Springenheide e Tusky, (punto 30-32). V., tra le altre, Corte giust. CE, 12 febbraio 2004, KPN,

in questa Rivista, 2005, II, 36 con nota di BENASSI (punto 34); Trib. CE, 15 settembre 2005, Citicorp, (punto 69); Trib. CE, 5 marzo 2003, Unilever, in

GADI, 2003, 1542, (punto 42). Non diversamente si esprime la Cassazione (Cass. 26 marzo 2004, n. 6080).

(31) In tali termini si espresso SANDRI, Marchi non convenzionali, cit., 348-349.

(32) Sono condivisibili le osservazioni di SANDRI, RIZZO, I nuovi marchi, forme, colori, odori, suoni, ed altro, Milano, 2002 e di TAVOLARO, Il colore

come marchio, cit., 38. (33) V. Cass. 19 dicembre 2008, n. 29775, in Foro it., 2009, 360 che

afferma: «Posto che l'imitazione rilevante ai fini della concorrenza sleale per imitazione servile si identifica con la sola riproduzione delle forme esteriori

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individualizzanti del prodotto del concorrente, idonee a ricollegare il prodotto

del concorrente ad una data impresa, e non anche di quelle rese necessarie dalle caratteristiche funzionali del prodotto stesso (...) non è individualizzante

la forma non visibile esteriormente, quale quella del contenuto di una scatola».

In altre parole è al packaging che deve farsi riferimento nel giudizio di confondibilità; Cass. 17 dicembre 2008, n. 29522, ivi, 362 che motiva: «in

tema di concorrenza sleale per imitazione servile, sono tutelabili le sole forme esteriori dei prodotti, che siano arbitrarie, vale a dire non necessitate dalla

funzione del prodotto stesso e distintive, idonee a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa, non essendo invece rilevante che si tratti di forme non

standardizzate ovvero non volgarizzate, vale a dire divenute caratterizzanti di quel tipo di prodotto in generale»; Cass. 26 novembre 2008, n. 28215, 362,

ivi: «integra gli estremi della concorrenza sleale per imitazione servile la condotta dell'imprenditore che imiti la forma del prodotto di un concorrente,

sempre che si tratti di forma che abbia un valore individualizzante e distintivo, e non invece resa necessaria dalle caratteristiche funzionali, (...) in modo tale

da creare confusione con quello commercializzato dal concorrente stesso». Cass. 31 luglio 2008, n. 20884, in Guida al diritto, 2008, 44, 60, (s.m.), in

Foro it., 2008, 11, 3076. Per un'ampia casistica giurisprudenziale in tema di

imitazione servile cfr. CASABURI, Concorrenza sleale per imitazione servile: orientamenti giurisprudenziali, in Foro it., 2008, fasc. 6, I, 1880-1901.

(34) App. Milano, 28 ottobre 2003, in GADI, 2004, 4689. (35) Diversamente alla sentenza in commento, Trib. Napoli, 6 luglio 2004

in questa Rivista, 2008, II, 99 riscontra l'imitazione servile a fronte della produzione e commercializzazione di palloni del medesimo colore (arancione),

di analogo decoro (reticolo di linee spezzate) e di nome simile (super santos e super brazil).

(36) Cfr. A. VANZETTI - V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, 2005, 69-70. L'art. 2598 n. 1, ultima parte, c.c. concerne l'imitazione di

elementi distintivi secondari (è stata in particolare ritenuta illecita l'imitazione di materiale pubblicitario altrui da App. Milano 10 gennaio 1992, in GADI,

1992, 331; Trib. Milano, 4 febbraio 1993, ivi, 369; Trib. Verona, 23 luglio 1999, ivi, 99, 1284. La giurisprudenza ha ritenuto che possono rientrare

nell'art. 2598 n. 1, ultima parte, c.c. anche l'imitazione, per la distribuzione del

prodotto, dei furgoni utilizzati dal concorrente (Trib. Torino, 11 settembre 1978, in GADI, 1978, 498), l'adozione di moduli con impostazione tipografica

ricalcata da quella di analoghi moduli del concorrente (Trib. Torino 11 settembre 1978, in GADI, 1978, 498), l'uso di fotografie di prodotti altrui

utilizzati nel proprio materiale pubblicitario (App. Firenze, 13 gennaio 1972, in GADI, 1972, 355; Trib. Milano, 19 settembre 1985, ivi, 85, 735).

(37) Resta inteso che la confusione si verifica quando il consumatore che sia intenzionato ad acquistare uno tra due prodotti, acquisti l'altro

confondendolo con quello da lui effettivamente voluto: App. Milano 12 maggio 1998, in Foro it. Rep., 2001, n. 312.

(38) Per il giudizio di confondibilità occorre fare riferimento alla capacità di discernimento del consumatore medio, normalmente informato, di media

diligenza e intelligenza, cui i prodotti sono destinati. Se la clientela tipica è tecnicamente esperta la valutazione deve tenere conto di una più elevata

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capacità di percezione, perciò il parametro del consumatore medio si adatta

solo ai prodotti di largo consumo e di basso prezzo. In argomento VANZETTI - DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, 45. In giurisprudenza, tra le tante,

Cass., 21 novembre 1998, n. 11795, in questa Rivista 1999, II, 191; Trib.

Napoli (ord.), 23 dicembre 2004, in GADI, 2006, n. 4958; Trib. Torino, 13 giugno 2001 in GADI, 2001, n. 4298; Trib. Napoli (ord.) 22 dicembre 2000, in

Codice ipertestuale della responsabilità civile, vol. II, Utet, 2008. Trib. Napoli, 23 dicembre 2004, in Giur. dir. ind., 2006, 258 secondo cui il consumatore non

è in grado di procedere ad un diretto esame comparativo. (39) Cfr. App. Firenze, 19 gennaio 2009, Massima redazionale, 2009, che

in riferimento all'etichettatura nota: «... né la semplice apposizione di una poco visibile etichetta può essere ritenuta bastevole ad individualizzare il prodotto

agli occhi del consumatore, il quale, anzi, è realisticamente indotto a credere di trovarsi davanti alla stessa identica macchina alla quale è stata cambiata

soltanto l'etichetta». (40) In dottrina sul look alike si diffondono: CASABURI, Look alike:

situazione e prospettive, in Dir. ind., n. 6/2003, 560; SANTONOCITO - MOSNA, Il look alike: «sailing too close to the wind», in questa Rivista, 2004, fasc. 1,

32-54, pt. I; CARTELLA, Competenza, confondibilità, look alike e imitazione

servile: un osservatorio, in questa Rivista, 2006, fasc. 6, 371-384, pt. II. (41) V. Trib. Napoli (ord.) 11 luglio 2000, Colussi c. Elledi, in GADI, 2000,

4169 e in Giur. nap., 2000, 10, 357 secondo cui: «è la confezione che cade sotto la immediata percezione dei consumatori e che esercita una cruciale

funzione distintiva (oltretutto è sulla confezione che sono apposti i marchi di impresa) e attrattiva. Infatti è ormai nozione comune che il confezionamento

svolge un ruolo cruciale non solo come indicatore di provenienza ma anche come vettore del messaggio positivo (per i biscotti ad esempio di genuinità,

freschezza, qualità, ecc.); da tale punto di vista la confezione attira la attenzione dei consumatori, e se riuscita incentiva l'acquisto. Per i prodotti di

largo consumo e basso costo (come i biscotti di prima colazione), anzi la confezione può giocare un ruolo attrattivo anche maggiore rispetto allo stesso

marchio di impresa». Va detto che si tratta di uno dei rari precedenti nazionali che ha specificamente trattato la questione del look alike e che l'ordinanza è

stata riformata in sede di reclamo, sotto profili che non attengono

specificamente al look alike; Trib. Verona (ord.), 21 settembre 1992, caso Farmaceutici Dr Ciccarelli S.p.a. contro Lidl Italia S.r.l. inedita.

(42) Il look alike è stato definito come illecito della «grande distribuzione» da CASABURI G., Look alike: situazione e prospettive, cit., 560; FRANZOSI,

Look alike: illecito della grande distribuzione, in Dir. ind., 2004, 77. V. anche PATRINI, L'originalità del packaging al vaglio del Tribunale di Milano, in questa

Rivista, 2006, II, 196. (43) Il pubblico dei consumatori viene a conoscenza delle confezioni dei

prodotti attraverso le campagne pubblicitarie che ne hanno accreditato il trade dress cioè «l'insieme dei vari elementi che compongono la confezione di un

prodotto o la configurazione del prodotto stesso». V. FRASSI, L'acquisto della capacità distintiva delle forme dindustriali, in AA.VV., Segni e forme distintive,

la nuova disciplina, Milano, 2001, 293. Cfr. Trib. Milano, 21 luglio 2004, Barilla G. e R. Fratelli S.p.a./Monder Aliment S.p.a., ined. che spiega come gli

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investimenti pubblicitari siano in grado di accreditare la confezione di un

prodotto sul mercato e di creare agganciamento con il consumatore. (44) Il riferimento è a CASABURI Look alike: situazione e prospettive, cit.,

560. In realtà l'espressione legal framework è stata usata per la prima volta in

riferimento al mobbing da MONATERI, BONA, OLIVA, Il mobbing come «legal framework»: una categoria unitaria per le persecuzioni morali sul lavoro, in

Riv. critica dir. priv., 2000, 547. (45) Trib. Firenze (ord.), 17 gennaio 2006, in questa Rivista, 2006, II,

368, ss. che esclude la ricorrenza del look alike e afferma: «... neppure ricorre il fenomeno del look alike, difettandone i principali requisiti identificabili in: 1)

un'acquisita notorietà sul mercato del prodotto, precedente all'immissione in commercio del capo della controparte, 2) ingenti investimenti pubblicitari, volti

a far acquisire detta notorietà al bene».