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Collana “Magistero del VesCoVo”

a cura di Luigi Sparapano

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in copertina:Cristo il Buon Samaritano, icona rumena.

Proprietà letteraria riservata

“lUCe e Vita”Piazza giovene, 4 - 70056 Molfetta

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LUIGI MARTELLAVEscoVo dI MoLfETTA-RUVo-GIoVInAzzo-TERLIzzI

«E si prese cura di lui»EdUcARE ALLA cARITÀ

Lettera pastorale per l’anno 2014 - 2015

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“... e si prese cura di lui” (Lc 10, 34)

carissimi,

siamo giunti alla tappa conclusiva del progetto pastorale diocesano Alla scuola del Vangelo: edu-carsi per educare. Tale progetto è partito all’inizio del decennio in corso e avrà termine con l’inizio della seconda metà di questo stesso decennio. Il documento programmatico della cEI Educare alla vita buona del vangelo è stato la nostra bussola alla quale ci siamo ispirati. di volta in volta abbiamo approfondito i vari contenuti mettendo a fuoco gli aspetti fondamentali, riscoprendo le componenti essenziali della nostra esperienza cristiana attra-verso le virtù teologali. così, nella prima tappa, abbiamo considerato il tema dell’educazione alla fede sotto il profilo dell’e-ducere; nella seconda tappa ci siamo soffermati sul tema dell’educazione alla speranza nella dimensione dell’intus-ducere, mediante l’apporto decisivo della liturgia; nella terza tappa vedremo il tema dell’educazione alla carità e approfondiremo quell’aspetto in cui più propriamente l’educazione diviene stile di vita evangelico, nel segno della traduzione in opere di quanto crediamo e speriamo (tra-ducere). Quest’ul-tima tappa potremmo considerarla una sintesi, o

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la logica conseguenza di un percorso di vita e di testimonianza cristiana.

san Paolo, - dobbiamo ricordarlo bene - a proposito delle virtù teologali, dice che sono im-portanti tutte e tre, ma di esse la più importante è la carità (cf 1Cor 13, 13). La fede e la speranza, infatti, cessano quando avremo raggiunto ciò per cui crediamo e speriamo, mentre la carità continua perché il nostro approdo finale è proprio nella pienezza dell’Amore divino. «Passa la figura di questo mondo» (1Cor 7, 31), ma «la carità non avrà mai fine» (1Cor 13, 8).

non bisogna, tuttavia, dimenticare che la carità non è un principio astratto, ma è storica perché manifesta e narra che “dio è amore” (1Gv 4, 16). In cristo Gesù, essa trova la perso-nificazione storica, mentre alla Chiesa spetta la responsabilità di questa narrazione. La chiesa, pertanto, è chiamata a essere epifania della carità di dio nell’oggi. criterio di autenticità dell’espe-rienza cristiana è la concretezza, la tangibilità, la quotidianità dell’amore per il fratello. dice ancora Giovanni nella Prima lettera: «chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare dio che non vede» (4, 20).

nel testo del progetto, si legge: «Il tra-ducere, esprime prima di tutto la gioia di sentirsi colla-boratori di dio nell’amore. Riconoscere l’azione di dio nella propria vita e nella vita del mondo ci impegna a tradurre nella quotidianità il nostro es-

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sere cristiani».1 Proseguendo, il testo indica pure il modo con il quale possiamo realizzare tutto ciò: la responsabilità e la comunità. «Responsabilità e comunità fanno la “vera qualità della vita”, perché costruiscono legami, aiutano la vita in tutte le sue fasi e componenti, costruiscono città e chiesa, in un dialogo tra loro rinnovato di gioia e di speranza»2.

Volendo, pertanto, dare una traccia per il cammino pastorale di quest’anno, ritengo la para-bola del buon samaritano, un riferimento ideale, appropriato ed efficace. In essa troviamo molto di più che un trattato di pedagogia della carità. Il testo rappresenta uno dei “vertici” del mes-saggio cristiano ed è stato ampiamente studiato e approfondito nel suo significato profondo, dai Padri della chiesa, anzitutto, e poi, via via, dai biblisti e teologi nel corso dei secoli fino ai nostri giorni. non possiamo dimenticare, in proposito, il commento originalissimo ed efficacissimo del nostro don Tonino Bello. Egli, nell’incontro con gli operatori della politica, in occasione degli auguri del natale (1986), fa riferimento al buon samarita-no come immagine dell’uomo politico “capace di misericordia”. «nell’azione politica del buon sa-maritano – egli argomenta - , possiamo distinguere

1 dIocEsI di MoLfETTA-RUVo-GIoVInAzzo-TERLIz-zI, Alla scuola del Vangelo: educarsi per educare. Progetto pastorale 2012-2016, Molfetta 2012, p. 19, n. 2. 3.

2 Ibid.

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tre interventi. L’intervento dell’ora giusta, quello dell’ora dopo, e quello dell’ora prima». dell’inter-vento dell’ora prima non si parla nel Vangelo, ma è lecito pensare che se il samaritano fosse giunto un’ora prima, forse l’aggressione non sarebbe avvenuta.3 Tutto questo ragionamento serviva all’illustre pastore per sottolineare l’importanza della prevenzione come opera di educazione alla carità. Il messaggio, naturalmente, non è destinato solo a coloro che hanno responsabilità politiche e sociali, ma a tutti coloro che sono o che desiderano impegnarsi per il bene degli altri.

Meditando, perciò, ogni volta, la parabola, non è difficile constatare che le suggestioni con-tinuano, oltre ogni eventuale pretesa di esaurirne la ricchezza del messaggio.

Traendo ispirazione, dunque, da questa stessa parabola si sono svolti i nostri convegni pasto-rali diocesani di giugno e di settembre scorsi. Mons. Montenegro4 prima e mons. soddu5 poi, hanno messo in luce i vari aspetti dell’episodio raccontato da Gesù e riportato nel Vangelo di Luca. Le suggestioni offerte dagli illustri relatori, successivamente sono state approfondite nelle

3 cf. A. BELLo, Capaci di misericordia, in Scritti vari, intervi-ste, aggiunte, scritti, Vol. 6, Molfetta 2007, pp. 62-66.

4 Mons. francesco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento.5 Mons. francesco soddu, direttore nazionale della caritas.

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riflessioni dei gruppi di studio. Questi, suddivisi per aree tematiche, hanno dato vita ad una serie di proposte operative che, per ragioni pratiche, si è deciso di pubblicare a parte6.

Qui di seguito, lasciandoci ancora guidare dalla parabola, si intende proporre un percorso scandito da tre verbi; essi sottolineano i momenti salienti del racconto che ha protagonista il buon samaritano, e rappresentano un percorso comple-to di educazione e attuazione della carità:

- VEdERE (“scendeva da Gerusalemme a Gerico” Lc 10,30)- cHInARsI (“Gli si fece vicino” Lc 10,34a)- RIsAnARE (“si prese cura di lui” Lc 10,34b).

6 I gruppi di studio, 6 in tutto, hanno affrontato le seguenti tematiche: minori, famiglia, povertà, anziani, disabili, migranti.

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VEDERE

“Un uomo scendeva da Gerusa-lemme a Gerico”

(Lc. 10,30)

L’uomo “in discesa”

non si tratta di una “discesa” casuale. c’è in questo viaggio l’esperienza di ogni persona uma-na. Le due città, Gerusalemme e Gerico, segnano i punti estremi di un percorso umano e spirituale che racchiude il racconto della vita. non sappiamo se Gesù prende lo spunto da un fatto realmente ac-caduto lungo la strada che porta da Gerusalemme a Gerico o se, invece, inventa lui stesso la scena. La risposta che viene a questa domanda dalla tradizione cristiana – deducendola dall’insieme del nuovo Testamento – è che sotto la parabola del buon samaritano ci sia, effettivamente, una storia vera. Una delle primissime interpretazioni di questa parabola nei Padri della chiesa è quella di origene: «L’uomo che scendeva è Adamo, Ge-rusalemme è il paradiso, Gerico il mondo; i ladroni sono le potestà nemiche, il sacerdote è la legge, il levita i profeti, il samaritano è cristo; le ferite sono la disobbedienza, il giumento il corpo di cristo, la locanda che accoglie tutti coloro che vogliono

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entrare è la chiesa, i due denari sono il Padre e il figlio, l’albergatore è il pastore della chiesa cui è affidata la cura; il fatto che il samaritano promette di tornare, indica la seconda venuta del salvatore».7 sant’Ambrogio da parte sua spiega: «Gerico è l’immagine di questo mondo, dove, cacciato dal paradiso, cioè dalla Gerusalemme celeste, Adamo è disceso per il passo falso della provocazione, passando dalla vita a ciò che è in basso: non un cambiamento di luoghi, ma un cambiamento di costumi ha trasformato in esilio la sua esistenza»8. Il card. Martini, per il 1985-86 pubblicava la lettera pastorale per la diocesi di Milano dal titolo Farsi prossimo, con chiaro riferimento alla parabola del buon samaritano. Proprio riflettendo sull’incipit di quella parabola, il cardinale osserva: «… come in un’introduzio-ne scenica: in alto sta Gerusalemme, con le sue mura sicure, le sue case accoglienti, il tempio di dio che offre bellezza e protezione. Mille metri più in basso, Gerico, la città delle rose, si stende sulle rive del Mar Morto, a trecento metri sotto il livello del mare. Tra le due città una zona aspra e desertica, con una strada piena di imprevisti e pericoli. Un uomo, che scende da Gerusalemme a Gerico, incontra dei briganti, che gli portano

7 oRIGEnE, Hom. in Lc., 34.8 s. AMBRoGIo, Commento al Vangelo di Luca, città nuova,

Roma 1968, p. 44.

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via tutto, lo bastonano e fuggono, lasciandolo mezzo morto»9.

Insomma, tutto lascia intendere che la “disce-sa” dell’uomo della parabola è come paradigma delle tante discese dell’uomo nella travagliata esistenza di questo mondo, dove, tra i vari tor-nanti del percorso non sempre si riesce ad evitare disavventure spiacevoli, simili alla “spoliazione” drammatica del “malcapitato” della parabola.

Potremmo pensare a tutte quelle persone che, per vari motivi, trovano difficoltà nella vita. Ci sono quelli che soffrono a motivo delle condizioni di salute, ci sono quelli che non riescono a trovare un senso nella vita, ci sono quelli che sono stati depauperati, gli impoveriti, gli emarginati, gli immigrati, i rifugiati. Il campionario dei malanni è pressoché interminabile, così come gli scenari di sofferenza non conoscono battute d’arresto.

La mappa dei “malcapitati” oggi

oggi la “spoliazione” si manifesta in tante “nuove povertà”. si direbbe che la società “pro-duca” povertà e spoliazione. di fronte a tale situa-zione, non può certo rappresentare un alibi quella previsione del signore nel Vangelo: «I poveri li avrete sempre con voi» (Mt 26, 11). se da una parte quella previsione si riscontra in ogni epoca della

9 c. M. MARTInI, Farsi prossimo, Introduzione, n. 2.

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storia, d’altra parte essa non può giustificare la nostra inerzia, pigrizia e le nostre inadempienze. Il signore stesso infatti in tante altre parti del Van-gelo ci sollecita a combattere comunque il male, in qualunque forma si presenti.

Il rapporto ultimo della caritas delinea una sorta di mappa dei nuovi “malcapitati”. Per restare nell’ambito della nostra nazione, attra-verso i centri di ascolto caritas, si ricostruisce un quadro piuttosto pesante della situazione, dovuto principalmente al perdurare della crisi economico-finanziaria. Per fare l’esempio di alcune tendenze generali: la fragilità occupa-zionale è molto evidente; anziani e persone in età matura soli; i senza reddito; i senza tetto; i “poveri per gioco”. Quest’ultima categoria as-sume dimensioni davvero impressionanti. Il ri-corso al gioco d’azzardo, legale o illegale, è una piaga che devasta singoli e famiglie. I rapporti annuali, le statistiche, le inchieste documentano ampiamente la situazione. nelle varie analisi si coglie un dato comune che si può identificare in un diffuso disagio e disorientamento. Essi, nella quotidianità, si traducono in precarietà: precarietà e fragilità psicologica; precarietà e fragilità abitativa, lavorativa e scolastica; pre-carietà e fragilità nella famiglia, negli affetti e nelle relazioni. Un processo di “disancoramen-to” e “disconnessione”, per usare le parole del sociologo zygmunt Bauman.

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Tempi duri, dunque, sono i nostri, e proprio per questo essi chiedono un supplemento di cuore e di azione.

Credo non sia del tutto superfluo indicare i gruppi più vulnerabili, giusto per avere l’idea di quanto sia importante l’incidenza pratica della comunità cristiana in queste situazioni:

i minorigli anzianii diversamente abilii malatii detenutile vittime della violenzai rifugiati e gli sfollatii migranti (internazionali e interni)i tossicodipendentii senza dimorale fasce di persone a rischio d’esclusione socia-

le per basso reddito e inaccessibilità alle risorse.

naturalmente la lista è incompleta, ma già questo elenco aiuta a disegnare una mappa della complessità e dell’articolazione delle vulnerabilità di oggi. sempre più frequentemente si parla di povertà assoluta e di povertà relativa, ma, in ogni caso, il quadro desta non poche preoccupazioni.

La povertà non è fenomeno residuale

La crisi economico-finanziaria ha drammati-

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camente esplicitato che la povertà oggi non è un fenomeno residuale. Poteva essere considerata tale nelle società occidentali fino a non molto tempo fa, ma oggi non più. Anche nelle nostre città sta assu-mendo sempre maggiore visibilità la povertà radi-cale connessa ai bisogni primari come il mangiare, il vestire, l’alloggio. Vediamo con i nostri occhi quanti sono coloro che si presentano ai nostri cen-tri di ascolto, chiedendo viveri di prima necessità. Gente insospettabile, talvolta; persone che cercano di nascondere con dignità la propria condizione di bisogno. spesso sono nostri concittadini e nostri vicini di casa: padri di famiglia che hanno perso il lavoro, famiglie numerose monoreddito, anziani con una pensione minima, file di madri con bollette dell’energia elettrica e del gas non pagate e via di-cendo. Purtroppo, le risorse non sono inesauribili e non sempre, ahimè, si riesce a far fronte a tutte le richieste e necessità. Pur volendo non si hanno le possibilità, mentre lo stesso desiderio di fare la carità subisce una umiliante frustrazione.

Altre volte, invece, siamo sfuggenti, facciamo finta di non vedere, rinnovando in questo modo il gesto del sacerdote e del levita della parabola. non parliamo poi degli stranieri. oggi è in atto una colpevolizzazione e criminalizzazione del povero (immigrato, rom, mendicante…) in quanto povero. Viene sospettato di essere un potenziale delinquente. non è infrequente il senso di paura che suscitano, per esempio, gli immigrati ed anche

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il senso di insicurezza che provocano nei cittadini. nell’immaginario collettivo si genera la categoria del “diverso”, come se la povertà contrassegnasse con uno stigma particolare assegnando agli stra-nieri uno status di inferiorità. Vengono negati a loro i diritti (la cittadinanza, la possibilità della integrazione), facendo avanzare, così, la “cultura dello scarto” e dell’esclusione.

Papa francesco nel messaggio pubblicato per la Giornata Mondiale del Migrante e Rifugiato 2015, che ricorrerà il prossimo 18 gennaio, ricor-da che le «diffidenze e ostilità» spesso suscitate dall’arrivo dei migranti attecchiscono «anche nelle comunità ecclesiali», e la chiesa deve assoluta-mente superarle, perché «sospetti e pregiudizi» sono «in conflitto con il comandamento biblico di accogliere con rispetto e solidarietà lo straniero bi-sognoso». Egli ricorda ancora che verso i migranti «non basta la tolleranza» ma occorrono «acco-glienza e solidarietà», fa appello a una «globa-lizzazione della carità e della cooperazione», con una maggiore sinergia tra gli stati. Papa Bergoglio torna così a focalizzare la sua attenzione su una delle questioni centrali nel suo pontificato, alla quale dedicò già il suo primo viaggio fuori Roma, con la visita dell’8 luglio 2013 a Lampedusa.

«La globalizzazione dell’ indifferenza»

si può dire che l’indifferenza sia l’atteggiamen-

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to diametralmente opposto alla carità. Indifferente è colui che mantiene e ostenta mancanza assoluta di partecipazione o interesse, è il non curante, l’apati-co. Purtroppo, tale atteggiamento è diventato una “malattia globale”, in un mondo pieno di egoismi.

Un libro recente di Luigi zoja reca un titolo molto eloquente in proposito, La morte del prossi-mo.10 L’autore pone l’accento sul fatto che la società tecnologica elimina sempre più la dimensione della prossimità dai vissuti e crea invece sempre più distanza fra gli uomini. Egli parla di «morte del prossimo», intendendo con prossimo, sulla scia della tradizione ebraica ed evangelica, «l’altro che ti sta vicino…, su cui puoi posare la mano»11. occorre uno sguardo più attento per accorgersi dell’altro e nello stesso tempo un cuore più tenero per essergli vicino. Assistiamo, invece, al trionfo dell’indifferenza e dell’individualismo che conduce alla morte della carità e della solidarietà, della pietà e della compassione, alla morte dell’umanità.12

A riguardo non possiamo non ricordare quel grido d’allarme di Papa francesco a Lampedusa, circa la «globalizzazione dell’indifferenza».

Il prossimo non si definisce in base a un criterio di oggettività, ma a partire dal nostro atteggia-

10 L. zoJA, La morte del prossimo, Einaudi, Torino 2009.11 Ibid. p. 3.12 cf. L. MAnIcARdI, La fatica della carità, Ed. Qiqajon,

comunità di Bose, Magnano (BI), 2010, p. 49.

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mento nei confronti di chi ci vive accanto. come è possibile infatti fermarsi accanto a una persona che soffre senza caricarsi del suo dolore, senza lasciarsi cambiare da esso? Il samaritano che si ferma accan-to al ferito è disposto a cambiare i suoi programmi: interrompe il suo viaggio, va alla locanda, spende i suoi soldi. Il levita e il sacerdote, con la loro indif-ferenza, sono il simbolo di tutti coloro che hanno sempre altre cose più importanti da fare e non pos-sono fermarsi ad accogliere la sofferenza degli altri: che non è programmata, ma si presenta sempre a noi come un imprevisto, che interrompe il ritmo ordinato delle nostre occupazioni; e ci interroga.

«chi è il mio prossimo?», aveva chiesto a Gesù il dottore della legge. Probabilmente, l’interro-gante si aspettava di ricevere come risposta un elenco di persone o di categorie da includere nel numero di coloro che meritano di essere conside-rati prossimo. Gesù invece sposta completamente la prospettiva: l’essere o meno prossimi dipende dalla disponibilità a farsi vicino. La prossimità sta nella capacità di accorciare la distanza che ci separa dalle persone soprattutto da quelle che hanno bisogno della compassione di Dio, riflessa nei nostri gesti compassionevoli.

Occhi per vedere

Il titolo di questo paragrafo intende sottoline-are l’importanza nell’avere uno sguardo attento

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rispetto al mondo della sofferenza e della povertà. Il senso del “vedere” corrisponde, in questo caso, a quello dell’osservare, dell’accorgersi, del ren-dersi conto, del cercare. Molte persone bisognose vivono nel nascondimento, hanno quasi vergogna di apparire, non hanno il coraggio di venire allo scoperto, bisognerà allora tenere l’occhio vigile per accorgersi delle loro necessità. capita tuttavia che anche quando i problemi sono palesi, volu-tamente lo sguardo si diriga altrove, sottraendo così al proprio campo visivo ciò che non si vuol vedere. Un senso di fastidio distoglie e porta lontano non solo gli occhi ma anche il cuore da qualsiasi invocazione di aiuto. Il levita e il sacer-dote vedono e passano oltre, vogliono evitare il contatto che potrebbe coinvolgere nella sofferenza dell’uomo ferito. Il samaritano, al contrario, vede, si ferma, si avvicina e cambia programma alla sua giornata. non una carità abbozzata, ma un’azione compiuta può garantire la prossimità a chi ne ha bisogno. fino a che non ci sarà un coinvolgimento convinto e gratuito nello sfortunato evento non si può parlare di prossimità. così si misura la qualità della nostra fede, dando prova di essere non cristiani di facciata ma di sostanza. Qualche volta ci si ferma alla segnalazione: si pensa di aver fatto tutto il proprio dovere informando le organizzazioni “deputate” al servizio del soccor-so, e demandando ai “professionisti” della carità il compito di intervenire. Anche in questo caso

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non ci allontaniamo molto dal comportamento dei primi due personaggi della parabola. occorre, perciò, guardare con occhi di compassione e sen-tire sulla propria pelle il dolore e la sofferenza di chi è in difficoltà, sapendo che ogni uomo è mio fratello e ogni donna è mia sorella nel vincolo del dio-Amore. si è veramente “prossimi” quando si riesce a «mettersi addosso gli occhi dei poveri», per usare un’immagine tanto efficace di don To-nino Bello.

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Avere compassione

L’evangelista Luca nota che il samaritano avendo visto quel malcapitato lasciato ai bordi della strada fu mosso a compassione. dopo lo sguardo, dunque, la compassione: «lo vide e n’ebbe compassione». se molti erano i motivi per aspettarsi che il sacerdote e il levita si fermas-sero, non avrebbe invece stupito nessuno se il samaritano – vista la cattiva fama che si portava addosso e la sua estraneità alla gente del paese, a cui probabilmente apparteneva il ferito – avesse continuato diritto il suo cammino senza fermarsi. Anzi, avrebbe evitato a lui, eretico e straniero in una terra ostile, di porsi in una situazione oggetti-vamente pericolosa. Il samaritano si ferma. Questo ha significato la capacità di andare oltre se stesso, oltre i propri affari, oltre i propri progetti, oltre il proprio gruppo, oltre la propria etnia, oltre la propria nazione. E tutto ciò nasce in quel sama-ritano non certo dalla comunanza di cultura o da quella della fede, ma solo dalla commozione per quell’uomo perché era mezzo morto e senza alcun

CHINARSI

“Gli si fece vicino”(Lc 10,34a)

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aiuto. È importante la notazione dell’evangelista: il samaritano non solo ha guardato quell’uomo mezzo morto, ma ha avuto compassione di lui. È nella compassione che si distingue dai due che l’hanno preceduto su quella strada.

La compassione qui è da intendere in tutta la ricchezza biblica che lega dio al suo popolo. Il culmine della compassione di dio è Gesù, il compassionevole. Il suo atteggiamento verso i poveri, i lebbrosi, i malati, le vedove, i peccatori, i pubblicani è descritto come “pietà” viscerale, una compassione che gli sale dal profondo del cuore dalle sue viscere e che lo spinge ad amare oltre ogni limite, anche quello della sua stessa vita. Essa non è quindi un semplice sentimento di commozione dinanzi al male altrui; è un reale e appassionato coinvolgimento con l’altro. se andiamo alla radi-ce etimologica, compassione viene da cum-pati = patire-con, cioè condividere la sofferenza degli altri.

«compassione – ha detto recentemente papa francesco – non è semplicemente sentire pietà; è di più! Significa con-patire, cioè immedesimarsi nella sofferenza altrui, al punto di prenderla su di sé. così è Gesù», il quale «ci insegna ad antepor-re le necessità dei poveri alle nostre», perché «le nostre esigenze, pur legittime, non saranno mai così urgenti come quelle dei poveri».13

13 fRAncEsco, Angelus, Piazza san Pietro, 3 agosto 2014.

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Vengono in mente molti esempi, noti o anoni-mi, di persone che hanno fatto della compassione lo stile della loro vita, fino a farlo diventare il loro programma: sono le persone che hanno scelto di non appartenersi, ma di fare delle loro energie, del loro tempo, della loro cultura, della loro sen-sibilità… un dono agli altri, a quelli che anche la vita di oggi lascia lungo il ciglio delle strade cari-chi di ferite e di dolore, siano essi poveri, malati, carcerati, stranieri, bambini, donne… tutte quelle persone che dalla vita e dalla società di oggi sono respinte.14

Chinarsi per elevare

I passanti, di fronte alla vittima della parabola, hanno avuto un diverso comportamento. I primi due, il sacerdote e il levita, hanno visto e sono andati oltre; il forestiero invece (cioè il samarita-no) si è fermato: «Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino» dice il Vangelo. Il contrasto tra i comportamenti è troppo evidente e suscita anche dentro di noi riprovazione istintiva per i primi due e ammirazione per il terzo. Av-vertiamo che qui c’è un insegnamento perenne,

14 cf P. BIGnARdI, La gratuità: per una spiritualità laica, in G. PEREGo (a cura), La Chiesa della carità, Miscellanea in onore di Mons. Giovanni nervo, EdB, Bologna 2009, pp. 151-175, qui 156-57.

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valido per sempre, valido per tutti. Il messaggio della parabola, pertanto, non chiede soltanto di posizionarci dalla parte giusta, ma va oltre: spinge cioè ad essere operativi fino in fondo nella nostra azione caritativa. Esattamente come ha fatto il buon samaritano. Pensiamo, infatti, che il suo non sia stato un atto di generosità estem-poraneo, un impeto di altruismo data la gravità dell’accaduto, ma quel samaritano ha espresso la sua visione della realtà attraverso il suo gesto concreto. d’altra parte, anche gli altri due hanno espresso un modo di pensare e agire in linea con la propria visione della realtà. È un avvertimento a non lasciarsi bloccare dalle formalità. Molte vol-te, infatti, ci trinceriamo dietro “alibi” cercando di giustificare il nostro atteggiamento, proprio come è successo al sacerdote, il quale, in nome di chissà quale cavillo legislativo, ha ritenuto di pas-sare oltre nell’indifferenza assoluta. Il sacerdote è il custode della legge. Essa “vede” il male, ma non provvede. san Paolo insegna che «la legge che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte» (Rm 7, 9s.). Il secondo perso-naggio è il levita. Prigioniero anche lui delle “re-gole”, questa volta liturgiche. Il levita è l’addetto al culto. I due rappresentanti delle istituzioni con il loro comportamento ribadiscono che nessuna legge e nessun culto, per quanto giusti, sono in grado di salvare l’uomo. «Giungono sul luogo del male, toccano il problema, fanno la diagnosi

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precisa e lo lasciano a terra, … d’altronde questa è la funzione».15

«Un samaritano invece…». Egli sta andando in direzione opposta all’uomo che scende da Gerusalemme: compie il viaggio dalla samaria a Gerusalemme. Egli percorre la stessa strada, in senso inverso; è l’esule che torna in patria, ascende e non discende. E chi è costui che ascende, se non il “figlio dell’uomo che è disceso?” (Gv 3, 13). Egli infatti è disceso in tutte le zone di perdizione, le samarie dell’uomo, per condurre gli esuli in pa-tria, portando a tutti l’amore del Padre. In lui, che si fa carico di noi, entriamo come figli nel Padre. La sua danza per la compiacenza del Padre di avere a casa tutti i figli (Lc 10, 21s.), passa attraverso la sua passione di figlio perduto e ritrovato, morto e tornato in vita! Il suo viaggio a Gerusalemme è l’esodo di cui parlano con lui Mosé ed Elia sul monte della Trasfigurazione (Lc 9, 30s.).

L’evangelista Luca ci offre in sequenza i foto-grammi di un movimento non solo fisico ma an-che emotivo-spirituale. «Passandogli accanto – lo vide – e ne ebbe compassione…». Il “farsi vicino” è una decisione del cuore non solo della volontà. In questa espressione c’è il racconto dell’amore di Dio per l’uomo. Egli, per amore, discende fino ad abbassarsi nelle nostre miserie per poterci elevare

15 s. fAUsTI, Una comunità legge il Vangelo di Luca, Bologna 2001, p. 391

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alle sue altezze. La carità chiede la vicinanza, la compassione, la misericordia, il dono e il perdo-no. dobbiamo saper perdonare il bene e anche i limiti che ci sono nell’altro. Il bene che spesso non vorremmo riconoscere; non sopportiamo infatti che l’altro possa essere migliore; l’altro che rende rivali a motivo dei suoi successi. Ma dobbiamo saper perdonare anche i limiti, non solo quelli morali, anche quelli fisici, quelli che ci turbano e ci scomodano, quelli che ci ricordano maggiormente la nostra fragilità, condizione insita nella realtà umana, condivisa con tutti gli uomini e tutte le donne.

La povertà più grande e la via per uscirne

Una chiesa povera e per i poveri: questa è la chiesa delineata nel concilio. Questa è pure la chiesa che vuole papa francesco. si intende sottolineare il fatto che tra chiesa e povertà, tra i cristiani e i poveri, deve instaurarsi un nuovo rapporto radicato nel Vangelo, segno della verità stessa della missione della chiesa. L’espressione «convertirsi ai poveri», usata spesso a partire dal Concilio, significa rendere la propria esperienza religiosa più vicina al Vangelo e più aperta agli uomini. I sommi pontefici degli ultimi tempi han-no ricordato con insistenza la necessità di questo rapporto suggerendolo e proponendolo anche come stile di vita al mondo ricco e opulento. senza

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voler essere troppo analitici, si può ricordare come Paolo VI alle nazioni Unite, davanti ai rappresen-tanti delle nazioni, si presenta come «l’avvocato dei popoli poveri» e chiede di costruire un mondo solidale. Giovanni Paolo II, nella Sollicitudo rei so-cialis parla dell’«amore preferenziale per i poveri». Altrettanto fanno i vescovi del mondo, e dell’Italia in particolare. Questi ultimi, nel documento del 1981, La chiesa italiana e le prospettive del paese, lan-ciano una suggestiva parola d’ordine: «Ripartire dagli ultimi». con essa si indicava una prospettiva non solo sul versante caritativo ma anche in quello pastorale. E nel successivo testo Evangelizzazione e testimonianza della carità si chiarisce ancor più la centralità del vangelo della carità.

L’ossessione consumistica di avere, di posse-dere può attanagliare anche le comunità cristiane. Non è certo difficile che tale tentazione possa entrare nei comportamenti abituali dei credenti se non si ravviva con frequenza il contatto con la Parola di dio. La povertà nella vita del cristiano significa rottura con l’atteggiamento consumista per affermare che la vita non dipende dai beni. Gesù ammonisce: «Guardatevi e tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’ab-bondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc 12, 15). c’è anche il rischio che i tempi della crisi siano causa di chiusure protettive delle pro-prie cose, dei propri averi, dei propri interessi, accompagnate dalla paura di rimanere privi di

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risorse. In realtà, ogni chiusura in questo senso, diviene un ulteriore impoverimento per sé e per gli altri. La chiusura del cuore è la povertà più grave. o per dirla con lo stesso linguaggio di papa francesco: l’«anestesia del cuore» è ciò che più bisogna temere. I cristiani, meno prigionieri dell’idolatria del consumo, possono far sentire a un mondo disattento le ragioni e i dolori del povero Lazzaro che muore di fame sulla soglia di colui che banchetta lautamente fino allo spreco.

Educazione alla carità intellettuale

Un vero servizio alla pastorale non può prescindere dall’impegno di una fede pensata e approfondita, di una fede che diventa cultura, di una carità intellettuale che non è disgiunta dall’a-zione, dalla presenza sociale, dal farsi carico del bisogno degli ultimi. così i cristiani sono educati a scoprire la continuità tra l’impegno rigoroso della catechesi e la missione tra i bisognosi, le opere di misericordia corporale e spirituale.

Le analisi psico-diagnostiche dicono che tra i “poveri” di oggi non possono essere dimenticati quelli che soffrono di solitudine: l’uomo malato di egoismo, l’uomo fragile, l’uomo della “socie-tà liquida”. Il degrado e le derive riguardo alla dignità della vita umana sono segnali preoccu-panti di una visione distorta del mondo e della realtà. Pertanto, il primo servizio che possiamo

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fare all’uomo è quello di restituirgli il contesto ambientale favorevole al suo armonico sviluppo e alla sua piena realizzazione.

Gesù non ha fatto solo i miracoli delle guari-gioni, ma ha inaugurato un modo nuovo di inten-dere e di vivere la vita. La chiesa, essendo “amica dell’uomo” (Paolo VI), ha il compito di mantenere vivo il senso della “novità” evangelica. Questo è l’atto di amore più grande che si possa immagi-nare e che si possa compiere. Il samaritano non cura soltanto le ferite, ma “si prende cura” fino al recupero integrale dello sfortunato viandante.

A ben considerare, noi tutti siamo nello stesso tempo poveri malcapitati e samaritani. Abbiamo bisogno anche noi di essere soccorsi, e contem-poraneamente dovremmo soccorrere facendoci prossimo degli altri. E nel compiere la carità, la chiesa non dimentica di fare la verità. «La carità nella verità - ci ricorda Papa Benedetto XVI – è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera».16 In pro-posito, commenta il presidente della cEI, card. Bagnasco: «senza la verità, l’amore si risolve in una scatola vuota, che ciascuno riempie a propria discrezione».17 Già papa francesco, richiamandosi ancora alla Caritas in veritate, aveva avvertito nel

16 BEnEdETTo XVI, Caritas in veritate, 1.17 A. BAGnAsco, Prolusione al Consiglio permanente della

CEI, 23 settembre 2014.

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suo intervento alla recente Assemblea generale cei: «Un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali, che in quanto tali non incidono sui progetti e sui processi di costruzione dello sviluppo umano».18

Carità e cura del creato

Particolarmente sentito oggi è il problema ecologico e ambientale: il rispetto della natura non può essere disatteso, altrimenti la natura stessa si ribella causando disastri principalmente a svan-taggio dell’uomo. Il dettato biblico fin dalle prime pagine della sacra scrittura è inequivocabile: «Il signore dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2, 15). La cura e la custodia del creato, dunque, sono un dovere morale ed una responsabilità sociale che non impediscono il progresso, ma non a sca-pito del piano originario di dio sull’uomo e sulla realtà. Il signore Iddio ha dato all’uomo il potere di “lavorare la terra” ma non quello di disporre arbitrariamente di essa. Quando si comporta in questo modo, l’uomo «invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di dio nell’opera della

18 fRAncEsco, Intervento all’Assemblea generale della CEI, 19 maggio 2014.

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creazione, si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura».19

Tra i concetti espressi da Papa Francesco, fin dalle sue prime omelie e discorsi, una particolare attenzione è stata riservata alla teologia della custodia del creato. Già nell’omelia di inizio del pontificato, il 19 marzo 2013, aveva detto: «Custo-diamo cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!». Ha poi aggiunto: «La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel libro della Genesi e come ci ha mostrato san francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di dio e per l’ambiente in cui viviamo». Tale concetto Papa francesco lo ha ripreso e sottolineato in varie altre occasioni, in particolare nell’Esortazione Aposto-lica Evangelii Gaudium n. 215, dove egli dice: «non lasciamo che al nostro passaggio rimangano segni di distruzione e di morte che colpiscono la nostra vita e quella della future generazioni». Anche il suo segretario di stato, il card. Pietro Parolin, all’Assemblea generale dell’onu sul tema dell’e-cologia, nel settembre scorso, nel suo intervento ha dichiarato come sia indispensabile «diffondere

19 GIoVAnnI PAoLo II, Lettera enciclica Centesimus annus, 37.

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un’educazione alla responsabilità ambientale, che tuteli le condizioni morali per un’autentica ecologia umana».

Non è difficile, allora, annoverare tra le forme di carità più alta, quella di vivere personalmente nel rispetto dell’ambiente e suscitare, a nostra volta, negli altri, soprattutto nelle giovani gene-razioni, la stessa attenzione e rispetto verso tutto ciò che costituisce il nostro ambiente vitale.

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Un primo soccorso… ma non solo

L’evangelista Luca descrive con minuzia di particolari il modo in cui il samaritano presta il suo aiuto. Egli, resosi conto che, disteso per terra ai margini della strada, c’era un povero uomo picchiato a sangue, si ferma, scende da cavallo, si avvicina a quell’uomo e fascia «le sue ferite versandovi olio e vino». Ma tutto ciò fa parte di un primo intervento. c’è un secondo tempo nelle operazioni di soccorso: «Lo caricò sulla sua caval-catura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui». Il che comportò per il soccorritore il cambia-mento dei suoi programmi. forse stava andando a Gerusalemme per questioni di lavoro? oppure si recava in città a comperare viveri per la sua famiglia? o a sbrigare qualche commissione per conto di altri? non lo sappiamo, il Vangelo non ce lo dice. certo, il territorio che attraversava non era amico, ed è probabile allora che si trovasse lì per necessità. Ma tutto questo non gli impedisce di intraprendere la sua opera di aiuto e di por-tarla a compimento. continua l’evangelista: «Il

RISANARE

“... e si prese cura di lui”(Lc 10,34b)

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giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui”; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”». Beh! non si può che rimanere ammirati di fronte a tanta umanità. Il dottore della legge che aveva posto la domanda a Gesù: «E chi è il mio prossi-mo?», dopo aver ascoltato il Maestro di nazaret, non ha avuto difficoltà a dare la risposta giusta: “prossimo” è «chi ha avuto compassione di lui». Ci verrebbe da dire che non era poi così difficile la risposta. In realtà, non occorre la preparazione di un dottore della legge per capire quale dei tre personaggi citati nel racconto della parabola sia stato “prossimo” per quel tale sfortunato vian-dante. L’insegnamento è chiaro e non ha bisogno di chissà quali mediazioni culturali per poterlo cogliere. non sappiamo se Gesù, compiaciuto della risposta, si sia congratulato con il dottore. Quello di cui ci assicura il Vangelo, invece, è che, a conclusione, Gesù, rivolgendosi all’interlocutore, dice: «Vá e anche tu fá lo stesso». non occorre aggiungere altro, l’eloquenza di questo testo fa capire con immediatezza che la carità, quella vera, quella completa, è frutto di una grande scuola che tiene in movimento gli occhi per vedere, il cuore per amare, le mani per donare.

Dall’elemosina alla condivisione

L’esigenza dell’amore del prossimo si espri-

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me come aiuto all’emarginato o a colui che soffre qualsiasi tipo di pena. Il vero prossimo non fa do-mande. Vede la necessità e aiuta. non gli interessa il carattere della persona bisognosa, la responsa-bilità, il posto che occupa. nulla si oppone all’a-iuto. neppure l’essere di un altro paese, nemico o straniero. L’unica legge che vige in questo campo è quella di sentire la necessità o la miseria altrui. Prossimo autentico è chi dà, senza far domande né esigere, senza cercare motivi o ricompensa.

spesse volte noi facciamo delle opere, delle azioni caritatevoli, ma non viviamo compiuta-mente la carità, non ci coinvolgiamo fino in fondo, non condividiamo nel profondo. In questo modo non siamo neppure a metà del cammino. Tra il “fare la carità” e il “vivere la carità” c’è la distanza che deve essere colmata dalla continuità. diceva Madre Teresa di calcutta alle sue suore: «non pensate che l’amore, per essere vero, debba esse-re straordinario. no, ciò di cui abbiamo bisogno nel nostro amore è la continuità dell’amore verso colui che amiamo. com’è che arde una lampada? Per via del consumo continuo di piccole gocce di olio. se queste gocce verranno a mancare, non ci sarà più luce. figlie mie, che cosa sono queste gocce d’olio nella nostra lampada? sono le piccole cose della vita di ogni giorno: fedeltà, puntualità, piccole parole di bontà, qualche pensiero per gli altri, certi piccoli atti fatti di silenzio, di sguardi, di pensieri, di parole, di opere. Proprio queste sono

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le gocce d’amore che fanno sì che la nostra vita arda con tanto splendore. non cercate Gesù fuori mano. non è lì, ma in voi. Troverete la lampada sempre accesa e lo vedrete sempre».

In questo stesso senso dovremmo intendere il commento alla nostra parabola circa il samarita-no dell’ora prima e dell’ora dopo. «Il samaritano esprime la differenza tra beneficenza e carità: nella prima vengono offerti dei beni, nella seconda si esprime l’accoglienza, si avvia una relazione umana. solo dentro questo contenitore acquistano valore i gesti».20

I gesti, allora, del buon samaritano diventano eloquenti: «ne fasciò le ferite, versandovi olio e vino, lo adagiò sul suo giumento, lo condusse a un albergo e si prese cura di lui». La compassione si trasforma in condivisione. condivide il dolo-re, condivide il cavallo, suo mezzo di trasporto; a lui il cavallo era utile per ridurre la fatica del viaggio, alla persona ferita era necessario. condi-vide il denaro (“tirò fuori due monete e le diede all’albergatore”). Insomma dà dimostrazione del passaggio dall’elemosina alla condivisione, dalla discrezionalità ad una precisa visione teologica dei beni di cui disponiamo. Essi appartengono prima di tutto a dio.

20 G. PAsInI, Povertà e fragilità: come cambia la prossimità, in G. PEREGo (a cura), La Chiesa della carità, Miscellanea in onore di mons. Giovanni nervo, caritas Italiana, Bologna 2009, p. 245.

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Dimensione comunitaria della carità

Tutto questo, carissimi, non riguarda esclusi-vamente le singole persone. Anche questa volta l’educazione alla carità, come già per il discorso dell’educazione alla fede e alla speranza, non è lasciato alla buona volontà dei singoli, ma, come è sottolineato nel progetto Alla scuola del Vangelo: educarsi per educare, tale compito ha una dimen-sione comunitaria e fa parte di un irrinunciabile senso di responsabilità da parte di tutti.

La dimensione comunitaria dell’amore verso il prossimo è stata evidenziata in maniera chiara, negli ultimi decenni, dall’insegnamento pastorale della chiesa. In particolare Benedetto XVI ha fatto della carità la pietra miliare del suo pontificato, con l’enciclica Deus caritas est. Partendo dal con-cetto che il dio-Amore è il cuore della rivelazione cristiana, egli considera l’esercizio della carità, ac-canto alla catechesi e alla liturgia, la strada maestra dell’evangelizzazione: «I tre compiti – afferma – si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro» (n. 25). E sottolinea ugua-le dignità delle tre funzioni ecclesiali: «Praticare l’amore […] appartiene all’essenza della chiesa quanto il servizio dei sacramenti e l’annuncio del Vangelo. La chiesa non può trascurare il servizio della carità, così come non può tralasciare i sacra-menti e la Parola» (n. 22).

Partendo da questa base teologica, il pontefice

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teologo Ratzinger ha voluto ribadire che il soggetto primario della carità è la chiesa. non bastano le testimonianze individuali, e nemmeno quelle delle singole congregazioni religiose e delle associazio-ni laicali di volontariato. L’esercizio della carità verso il prossimo deve essere segno distintivo e qualificante dell’intera comunità. Anzi, deve di-ventare impegno ufficiale attraverso l’assunzione chiara e responsabile della comunità ecclesiale. La comunità genera comunione nel segno della carità e la comunione diviene segno di autenticità per la stessa comunità, così come avveniva per le prime comunità cristiane al tempo degli apostoli: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del signore Gesù e tutti essi gode-vano di grande simpatia. nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 4, 32-35).

La responsabilità

La responsabilità ha il suo fondamento evan-gelico nel fatto che alla fine saremo “giudicati” sul

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se e sul come avremo fatto il nostro dovere verso i bisognosi. Il cap. 25 del Vangelo di Matteo non può essere ridotto ad un optional. Il bisogno degli altri diviene una chiamata e da parte della comunità si chiede una risposta che include già dal punto di vista etimologico il concetto di responsabilità. Tuttavia, la dimensione comunitaria della carità non deve significare disimpegno personale; «le istituzioni ecclesiastiche caritative devono non solo guardarsi dal monopolizzare la carità facen-done un’attività aziendale impersonale, ma favo-rire, suscitare e nutrire il senso di responsabilità personale della carità e della giustizia».21

c’è un particolare da evidenziare nella para-bola: «Il giorno seguente (il samaritano) tirò fuori due monete, le diede all’albergatore e gli disse: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più lo pa-gherò al mio ritorno». L’esercizio della prossimità diventa assunzione di responsabilità. Il samari-tano va oltre l’emergenza, si fa carico del pieno ristabilimento del ferito, della sua riabilitazione, del recupero della sua autonomia e del reinseri-mento del malato nella piena normalità. Possiamo parlare di una carità cristiana autentica, se essa è liberante e promozionale, se non si limita ai rap-porti interpersonali, ma si preoccupa di ottenere la piena autonomia della persona, operando anche

21 L. MAnIcARdI, La fatica della carità, Ed. Qiqajoon, co-munità di Bose, Magnano (BI), 2010, p. 32.

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attraverso le strutture sociali, che nel contesto del-la parabola sono rappresentate dall’albergo e che nel nostro tempo fanno riferimento alle politiche sociali.

Il racconto della parabola del buon samarita-no è scaturito in seguito alla richiesta del dottore della legge: «Maestro, che cosa dobbiamo fare per avere la vita eterna?». «che cosa devo fare?»: è l’interrogativo che accompagna l’uomo in ogni epoca. Troviamo questa domanda anche negli Atti degli Apostoli, dopo l’evento della risurrezione. È una domanda partita dal popolo, dalla gente che ascoltava la predicazione dei testimoni della ri-surrezione. Questa stessa domanda risuona anche oggi in una situazione di crisi che accentua ancora di più il divario tra chi ha e chi invece soffre per-ché non ha o perché, pur avendo, non può fruire di ciò che possiede. ce lo chiediamo come singoli e come comunità: «che cosa dobbiamo fare?». È ancora dal Vangelo che prendiamo la risposta, esattamente dalla parabola che abbiamo conside-rato, scegliendola come guida del nostro percorso pastorale di quest’anno, ma che deve valere per sempre. non ci sono altre vie, non altre domande, non altri dubbi. «Va’ e fa’ anche tu lo stesso». si pone così in evidenza il “fare”, ma in quel “fare” è implicito l’essere. Il “fare” è espressione di quello che si è dentro. Per poter vivere la carità occorre essere educati alla carità. Sembra perfino banale ripeterlo. Eppure non è così scontato. In questo

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caso, come in tanti altri, non si possono impegnare energie per disquisire se viene prima il “fare” o “l’essere”. sono in stretta connessione e in perfetta simultaneità.

La gioia della carità

Il Vangelo, oltre che buona notizia è allo stesso tempo lieta notizia. Il contenuto di questa buona e lieta notizia sta nel fatto che dio è Amore (Deus caritas est). La missione della chiesa è dunque quella di diffondere tale notizia nel segno del-la gioia. Papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, ha continuamente invitato la Chiesa ad una profonda conversione pastorale che deve necessariamente partire da un rinnovato slancio missionario. La chiesa – dice il papa – per essere vicina all’uomo sofferente di oggi non può che donarsi totalmente, in uno «stato permanente di missione». deve essere capace di mettersi in mo-vimento per andare verso le periferie esistenziali dell’umanità; di incontrare il povero e l’amma-lato; di difendere la vita umana dalla dominante «cultura dello scarto»; di soccorrere l’indifeso e l’indigente; e, soprattutto, di annunciare il Vangelo con gioia piena. con quella grande gioia di chi è consapevole che Gesù, il figlio di Dio, è accanto agli uomini in ogni momento della vita, soprat-tutto in quelli più dolorosi, e che tutto è possibile in colui che ci dona la forza (cf. Fil. 4,13).

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Il cristiano, dice infatti papa francesco è, prima di tutto, «un uomo e una donna di gioia». Questa gioia infatti «riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù». E quindi, «coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento» perché con «Gesù cristo sempre nasce e rinasce la gioia».

naturalmente non si deve confondere la gioia cristiana con un sentimento di euforia o con il go-dimento di qualche passeggera emozione; essa è prima di tutto un dono del signore che «ci riempie da dentro» e non viene da fuori. Essa viene da un nostro “radicamento” in cristo e risiede in una relazione d’amore con dio. santa Teresa di Lisieux diceva che «non si è consumati dall’Amore se non nella misura in cui ci si è consegnati all’Amore». scrive Paolo VI nell’esortazione apostolica Gaudete in Domino (1975): «Per essenza, la gioia cristiana è partecipazione spirituale alla gioia insondabile, insieme divina e umana, che è nel cuore di Gesù Cristo glorificato». Lo stesso papa Montini, nella Evangelii Nuntiandi (1975), scrive: «conserviamo la dolce e confortante gioia d’evangelizzare, anche quando occorre seminare nella lacrime. […] sia questa la grande gioia delle nostre vite impegnate. Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza, ricevere la Buona novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi

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ricevuto in loro la gioia del cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato e la chiesa sia impiantata nel cuo-re del mondo». sulla stessa lunghezza d’onda si colloca l’esortazione apostolica di papa francesco, l’Evangeli gaudium, nella quale appare dominante l’invito alla gioia, e anche l’augurio «che la gioia della fede cominci a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche in mezzo alle peggiori angustie».

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concLUsIonE

Le riflessioni che la parabola del buon sama-ritano ha suscitato ci portano a delle conclusioni per quanto semplici da capire, altrettanto difficili da attuare. Educare alla carità non è imparare delle tecniche di intervento, ma aiutare ad ac-quisire uno stile. nell’educazione alla carità non ci sono due livelli – teorico e pratico – separati o giustapposti; c’è, invece, lo sforzo di “imparare facendo” e “insegnare operando”. ciò risponde alla pedagogia dei fatti. La via maestra è dar corpo alle parole. solo così l’amore diventa credibile. nei racconti delle guarigioni compiute da Gesù nel Vangelo, la parola usata è terapeuo, che ha appunto il significato di curare, prendersi cura, custodire, prendersi carico, toccare, fasciare, de-dicare attenzione… proprio come faceva Gesù, allorché si fermava a cogliere il grido del cieco nato o del lebbroso o della cananea che lo rincor-revano per strada, o quando cercava di incrociare lo sguardo dell’emorroissa in mezzo alla calca, o quando soccorreva il paralitico sempre da tutti emarginato presso la fonte di Betzaetà. o come ancora il cristianesimo fa sin da suoi inizi con lo sguardo e l’attenzione che Pietro e Giovanni rivol-gono al paralitico presso la porta Bella del tempio (cf At 3, 1-10) o con la testimonianza di Paolo che si fa compagno di strada di tutti, senza riserve e senza parzialità di alcun genere, sottoponendosi

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alla legge e al contempo proclamandosi un fuori legge, facendosi debole e servo di tutti (cf 1 Cor 9, 19-22). «La comunità evangelizzatrice – ha scritto a tal proposito papa francesco – si mette, mediante opere e gesti, nella vita quotidiana degli altri, ac-corcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di cristo nel popolo […] il suo sogno non è riempirsi di nemici, ma piuttosto che la Parola venga accolta e manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice».

L’educazione alla carità, dunque, non è un’im-presa facile perché è il compito di una vita intera, è un’arte che si rinnova di epoca in epoca senza interruzioni. L’educazione alla carità non è legata solo al volontariato ma ad una cultura ben radicata nei principi della solidarietà e della fratellanza; un patrimonio preziosissimo che si trasmette di generazione in generazione.

sulla base di quanto abbiamo considerato, probabilmente apparirà più chiaro il motivo di una priorità nel nostro impegno caritativo oggi, cioè quello di porre attenzione alle “periferie esistenziali” secondo l’invito di papa francesco, fino a dare l’immagine di una Chiesa “in uscita” e di rappresentare, in un tempo davvero difficile, un vero “ospedale da campo”, incessantemente operativo. Va da sé che per far funzionare bene i vari reparti, occorre la mobilitazione di tutte le realtà ecclesiali: non solo i gruppi e le associa-

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zioni storicamente caratterizzate dall’esercizio della carità, ma anche coloro che sono impegnati prevalentemente su altri versanti. Tutti dobbia-mo avvertire un impegno maggiore, essendo la carità una dimensione che appartiene alla natura stessa della chiesa. È una caratteristica distintiva, anche se non esclusiva, della comunità cristiana e del credente. così le nostre comunità potranno mostrare il loro vero abito in quanto espressione di una “chiesa del grembiule”.

non dimentichiamo che siamo in preparazio-ne del convegno di firenze (novembre 2015), sul tema “In Gesù cristo il nuovo umanesimo”. Au-spichiamo che da questo evento possa emergere un nuovo impulso verso una “cultura dell’incon-tro” per una società “abitata” dalla carità.

carissimi, affidiamoci alla Vergine Maria, Madre della carità. Ella, “in fretta”, si è mossa per andare a servire la cugina Elisabetta. Ha affrontato un lungo e difficile viaggio senza paura, consape-vole però di avere, seppure ancora nel grembo, la compagnia del suo Gesù.

Prendendo, allora, a prestito le parole di Madre Teresa di calcutta, la invochiamo:

“Maria, Madre di Gesù, dammi il Tuo cuore, così bello, così puro, così immacolato, così pieno d’amore e umiltà: rendimi capace di ricevere Gesù

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nel Pane della Vita, amarlo come Tu lo amasti e servirlo sotto le povere spoglie del più povero dei poveri”.

Molfetta, 15 ottobre, memoria di Santa Teresa d’Avila, dottore della Chiesa

+ Luigi Martella

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Indice

5 IntroduzIone

11 Vedere

23 cHInARsI

35 RIsAnARE 47 ConClusIone

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Collana “Magistero del VesCoVo”

4 LuIgI Martella, «Va’ dai miei fratelli e di’ loro». Parola e territorio - Comunicare il Vangelo oggi

Indicazioni pastorali per l’Anno 2001-2002 5 LuIgI Martella, «Sulla tua parola» Indicazioni pastorali per l’Anno 2002-2003 6 LuIgI Martella, Mons. Antonio Bello, Vescovo della speranza A dieci anni dalla morte (1993-2003) 7 LuIgI Martella, Giorno del Signore e Parrocchia. Tempo e

spazio per una comunità realmente eucaristica Lettera pastorale per l’anno 2003-2004 8 LuIgI Martella, Discepoli dell’Eucaristia Lettera pastorale per l’anno 2004-2005 9 LuIgI Martella, Un Santo per amico: Corrado di Svevia Lettera pastorale in occasione del IX centenario della nascita di san corrado 10 LuIgI Martella, Fuoco e Spirito Lettera in occasione della Visita pastorale indetta l’8 settembre 2006 11 LuIgI Martella, La relazionalità: via della speranza Linee pastorali per il biennio 2007-2009 12 LuIgI Martella, La relazione educativa fonte di speranza Lettera pastorale per l’anno 2008-2009 13 LuIgI Martella, Fedeltà di Cristo, fedeltà del Sacerdote omelia per l’inizio dell’Anno sacerdotale indetto da s.s. Benedetto XVI - 19 giugno 2009

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14 LuIgI Martella, Tra sogni e speranze per un progetto di vita Linee pastorali per il biennio 2009-2011 15 LuIgI Martella, Tra sogni e speranze: per un progetto di vita

insieme a Cristo orientamenti per l’anno pastorale 2010-2011 16 LuIgI Martella, “Ritornare ad educare” Indicazioni pastorali per il 2011-2012 17 LuIgI Martella, Una fede che cambia la vita Lettera pastorale per l’anno 2012-2013

18 LuIgI Martella, Educati dalla liturgia per vivere la speranza Lettera pastorale per l’anno 2013-2014

19 LuIgI Martella, «E si prese cura di lui». Educare alla carità Lettera pastorale per l’anno 2014-2015

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2014nella Litografia LA NUOVA MEZZINA - Molfetta

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