Col volto di Lena

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Col volto di Lena Silvana Possenti Roma, 9 ottobre

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Flanerie di Silvana Possenti sulla Madonna dei Pellegrini di Michelangelo Merisi da Caravaggio

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Col volto di Lena

Silvana Possenti

Roma, 9 ottobre

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In questo giorno di ottobre nella Chiesa di Sant’Agostino, una piccola folla si è raccolta attorno alla scultura de La Madonna del Parto di Jacopo Sansovino.

Mi dicono che oggi la tradizione ne celebra la

leggenda, che la vede protettrice dei bimbi a Lei

affidati: in un libro sull’altare sono allineate le suppliche dei

credenti. C’è un’atmosfera di superstiziosa attesa. La

pesante statua è rivestita di ori e collane di perle. Una luce che piove dall’alto ne accentua

le forme rigide.

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Ricordo che da qualche parte in questa chiesa si custodisce la tela de La Madonna dei Pellegrini del Caravaggio. Giro lo sguardo per cercarla e, dall’altro lato della navata, “a mano manca”, dal buio della piccola cappella appare davanti a me.

Conosco quella pittura per averla vista tante volte nei

libri, eppure questo incontro mi lascia

sorpresa: come quando qualcosa che pensavamo di

conoscere ancora ci stupisce, ed è qui nella luce e nell’ombra in movimento

sulla tela.

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Avvolta in un istante di luce, il centro della tela è Lei, la Vergine col volto di Lena: il seducente bianco collo, i seni lucidi di latte, l’incarnato luminoso e roseo, il corpo intriso di una dolce robustezza.

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Sembra accennare un inaspettato passo di danza, col figliolo che le sfugge dalle braccia.

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Il Bimbo è un grosso grasso monello, dalla pelle non troppo pulita: l’espressione del viso è disegnata non dal colore ma dalle ombre che ne mangiano la

luce.

Appena un oscuro sguardo

divino, infantilmente distratto e un po’ insolente.

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Un soffio dorato di sottili

aureole intorno alle teste sacre: sappiamo che Caravaggio faticava a metterle sulla tela.

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La rappresenta zione dei pellegrini sporchi e scalzi fece schiamazzare il popolino romano, non abituato a vedersi sulle pale d’altare.

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Ma quei loro bastoni, che ritornano ne l’Incoronazione di spine, sembrano dire a quella stessa gente quanto velocemente la gloria transita tra gli uomini di questo mondo.

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Qualcuno ha raccontato questo quadro come una sorta di ex-voto innalzato alla soglia dell’arte.

In realtà, sembra piuttosto alludere ad una immagine sacra

che, nelle mani di Caravaggio, si fa

magica, quasi stregonesca.

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Ancora resta un mistero di fede e di preghiera, una richiesta di presenza del divino nella vita di tutti i giorni.

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Un disperato, terreno bisogno di credere, potendo mettere la mano nel costato di Cristo per verificarne la realtà umana,

come quella ferita che Caravaggio aveva già

dipinto ne La Incredulità di San

Tommaso: aperta e viva, provocatoriamente

chirurgica, insostenibile allo sguardo, una ferita

di cui un Cristo benevolo fa dono agli

uomini che non riescono a credere.