Codice penale - La Tribuna

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R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398. Approvazione del testo definitivo del Codice penale (Suppl. alla Gazzetta Ufficiale n. 251 del 26 ottobre 1930).

Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia

Vista la legge 24 dicembre 1925, n. 2260, che delega al Governo del Re la facoltà di emendare il codice penale;

Sentito il parere della Commissione parlamentare, a’ termini dell’articolo 2 della legge predetta;

Udito il Consiglio dei Ministri;Sulla proposta del Nostro Guardasigilli, Ministro Segretario di Stato per la giustizia e

gli affari di culto;1. Il testo definitivo del codice penale portante la data di questo giorno è approvato ed

avrà esecuzione a cominciare dal 1° luglio 1931.2. Un esemplare del suddetto testo definitivo del codice penale, firmato da Noi e con-

trassegnato dal Nostro Ministro Segretario di Stato per la giustizia e gli affari di culto, servirà di originale e sarà depositato e custodito nell’Archivio del Regno.

3. La pubblicazione del predetto codice si eseguirà col trasmetterne un esemplare stam-pato a ciascuno dei Comuni del Regno, per essere depositato nella sala comunale, e tenuto ivi esposto, durante un mese successivo, per sei ore in ciascun giorno, affinché ognuno possa prenderne cognizione.

Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

Dato a S. Rossore, addì 19 ottobre 1930.

VITTORIO EMANUELE Mussolini—Rocco

Visto, il Guardasigilli: Rocco.

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libRo idei Reati in geneRale

TITOLO IDELLA LEGGE PENALE

1. Reati e pene: disposizione espres-sa di legge. – Nessuno può essere punito (132) per un fatto che non sia espressamen-te preveduto come reato dalla legge (40, 42, 85), né con pene che non siano da essa sta-bilite (199; 25 Cost.).

1) Il prIncIpIo dI legalItàQuesta disposizione enuncia uno dei più im-

portanti concetti del diritto penale moderno, il cd. principio di legalità, in forza del quale soltan-to la legge può prevedere fatti-reato, perché solo la legge quale atto di autolimitazione accettato dalla collettività, in base al meccanismo della rappresentanza politica assicura le necessarie garanzie e i dovuti limiti al potere repressivo del-lo Stato.

Di conseguenza, il principio di legalità (nul-lum crimen sine lege, nulla poena sine lege) in-veste sia il precetto, ossia il comportamento pre-scritto dalla norma, sia la sanzione.

La dottrina (Mantovani, Antolisei) ritiene che questo principio contenga tre sotto-principi:

- il divieto, per fonti non legislative (consuetu-dine o interpretazione analogica), di determinare un precetto penalmente sanzionato (cd. principio della riserva di legge in senso stretto);

- la necessità della certezza e, quindi, della chiarezza del precetto e della sanzione penale che ad esso consegue (cd. principio di tipicità);

- l’impossibilità di punire taluno per un fatto non previsto come reato al momento in cui fu da lui commesso (principio di irretroattività, compiu-tamente disciplinato dal successivo art. 2).

2) collegamento con altre normeL’art. 1 c.p. è in diretto collegamento con

l’art. 25, 2° e 3° comma, Cost. (Pagliaro), secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso e nessuno può essere sottopo-sto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge. Principi, questi, che sono peraltro ri-chiamati anche dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, recepita con l. n. 848/1955.

Altra norma collegata all’articolo in commen-to è l’art. 14 delle preleggi al codice civile, che, in presenza di leggi penali, fa divieto all’interprete di ricorrere all’analogia legis, espressamente sta-bilendo che tali leggi “non si applicano al di fuori dei casi e dei tempi in esse considerati”.

Questo divieto è formulato relativamente alle “leggi penali”. Con tale espressione il legislatore ha inteso riferirsi, innanzitutto, alle norme penali incriminatrici, ossia alle disposizioni di carattere sostanziale che prevedono elementi strutturali di reato, ricollegando, al verificarsi delle medesime, sanzioni penali. Ci si è chiesti se tale divieto pos-sa valere anche in relazione a quelle disposizioni che escludono la punibilità. Il problema, in par-ticolare, si è posto per le cd. cause di giustifica-zione, ossia per quelle fattispecie giuridiche che operano in senso negativo rispetto alla fattispe-cie di reato. Si è parlato, in tal senso, di analogia in bonam partem, che, secondo una certa inter-pretazione, sarebbe sempre ammessa nel nostro ordinamento. A fondamento di tale assunto si è negato che queste ultime possano definirsi nor-me penali in senso stretto, non avendo esse va-lenza incriminatrice.

Quanto alla riserva di legge, è certamente la più importante espressione del principio di lega-lità, e sottolinea l’esigenza che i reati, le pene per essi previste e le misure di sicurezza, devono trovare la propria ed esclusiva fonte nella legge. Si parla, a tale proposito, di principio di legalità formale, per distinguerlo dal principio di legalità sostanziale, che attiene alla cd. “necessaria of-fensività della condotta-reato” (➠ 49).

Nonostante la sua assolutezza, non tutti gli elementi del reato devono necessariamente es-sere previsti da una legge; si ammette, infatti, che alcuni atti provenienti da normativa sub-pri-maria (quali, ad esempio, i provvedimenti am-ministrativi) possano integrare, intervenendo a li-vello di elementi marginali, la fattispecie di reato astrattamente delineata dalla legge (è il caso, ad esempio, della fattispecie di cui all’art. 650, il cui contenuto specifico è integrato dal provvedi-mento amministrativo).

Questo è il fenomeno delle cd. norme penali in bianco, che ricorre quando la legge, nel formu-lare il precetto, opera un rinvio a fatti produttivi del diritto diversi dalla legge penale. In questo caso, le norme incriminatrici vengono integrate, nel loro contenuto precettivo, da fonti di diversa natura, di solito di grado inferiore ed anche non normative. Il legislatore formula in tal modo un precetto che rimane sostanzialmente indetermi-

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nato, ma determinabile mediante un criterio re-lazionale, attraverso il rinvio alla fonte subordina-ta. In ogni caso, i problemi più rilevanti in tema di norme penali in bianco riguardano l’errore su legge penale, ex art. 5 (➠).

3) le tIpologIe dI leggI “autorIzzate” alla produ-zIone dI dIrItto penale

All’opera della giurisprudenza, anche costitu-zionale, si deve la selezione delle fonti normative della legge penale.

In primo luogo, si è escluso che l’art. 1 con-templi le leggi regionali, anche quelle prodotte nelle materie di legislazione esclusiva, perché ciò avrebbe comportato un rischio di disparità di trattamento. Principio oggi espressamente riba-dito dall’art. 117 Cost. (come modificato dalla legge costituzionale n. 3/2001), che riserva al-la potestà esclusiva dello Stato la legislazione in materia di ordinamento penale.

Compatibile con la riserva di legge è la produ-zione di norme penali da parte di leggi delegate e di decreti legge (cd. leggi materiali), perché que-sti atti sono equiparati, nel nostro sistema co-stituzionale, alle fonti normative primarie, ossia alle leggi formali, beninteso sempre che rispetti-no le procedure ed i limiti contenutistici imposti dall’art. 76 Cost.

Quanto all’efficacia diretta dell’ordinamento comunitario, in passato era decisamente escluso che l’ordinamento comunitario potesse legifera-re con effetti diretti nella materia penale degli stati membri, dopo il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 la situazione è tuttavia in parte cambiata. Infatti, dopo le modifiche impresse da questo intervento, nella materia penale l’art.83 del Trattato attribuisce a Parlamento e Consiglio il potere di emanare direttive con la procedura legislativa ordinaria per stabilire norme minime relative alla definizione di reati e sanzioni in al-cune specifiche materie quali terrorismo, sfrutta-mento sessuale delle donne e dei minori, traffico d’armi etc. etc., ma anche in altri settori, purchè questi siano già stati oggetto di armonizzazione in ambito U.E.

Dunque con il Trattato di Lisbona è stato co-munitarizzato il cd. “Terzo Pilastro”, così esten-dendosi le originarie competenze dell’Unione anche alla materia penale. Il diritto comunitario individua altresì i criteri che debbono presidiare l’attività normativa penale in sede europea; in estrema sintesi, essi possono individuarsi nel-la necessità che le fattispecie di reato regolate siano particolarmente gravi e che presentino una dimensione “ultranazionale” tale da giustificare l’intervento repressivo comunitario.

Quanto all’efficacia riflessa, è certo che il rapporto tra diritto comunitario e diritto interno

è, come in tutti gli altri casi, un rapporto di pre-valenza/recessione, di tal che il giudice penale è legittimato ad operare una sorta di disapplica-zione indiretta in caso ravvisi il contrasto di una norma incriminatrice statale con un principio comunitario. Ciò può accadere certamente al-lorquando l’inibitoria comunitaria operi in senso favorevole al reo, limitando l’operatività di una fattispecie incriminatrice; non tutti sono invece d’accordo allorquando dall’applicazione del prin-cipio comunitario possa derivare un trattamen-to deteriore all’imputato. Il caso si è posto ed è stato favorevolmente risolto con riferimento alla contestazione del reato di esercizio abusivo della professione, nei confronti di un avvocato tede-sco (a quest’ultimo era contestata la violazione di cui all’art. 348 c.p.), e si è nuovamente pro-posto con riferimento alle attività di scommessa, non gestite dallo Stato italiano (con riferimento all’art. 4 della L. n. 401/1989).

In passato, sia la Cassazione (sez. III, n. 16298) sia la Corte di Giustizia (cause riunite C338/04, C-3 59/04 C-360-04) hanno ricono-sciuto, in materia di attività di scommessa, che il monopolio che lo Stato italiano, anche rinforzan-do la propria determinazione attraverso la pre-visione di apposite fattispecie di diritto penale, intende esercitare in questo ambito è illegittimo in quanto contrasta con gli artt. 43 e 49 del Trat-tato U.E. Il Legislatore italiano ha ritenuto con il d.l. n. 23/2006, all’art. 38 di confermare il regi-me di concessione, e quindi una riserva, in mate-ria di gestione delle attività di giochi e scommes-se. Sul punto, si è peraltro creato un contrasto tra Consiglio di Stato e Corte di Cassazione, in quanto quest’ultima ha nuovamente riproposto la questione alla Corte di Giustizia, ritenendo tale disposizione contraria ai principi del Trattato.

La questione inversa si è posta con riferi-mento alla nuova disciplina del falso in bilancio. In questo caso, la questione era stata rimessa alla Corte di giustizia, perché l’art. 6 della cd. prima direttiva CEE imponeva l’obbligo a carico degli Stati membri di prevedere adeguate san-zioni per i casi di mancata pubblicità del bilan-cio, ed il legislatore nazionale con il D.Lgs. n. 61/2002 aveva invece sensibilmente mitigato il trattamento sanzionatorio. La Corte di giustizia (3 maggio 2005), però, pur non disconoscendo l’ammissibilità di un effetto espansivo del diritto comunitario, non ha ritenuto violato, nel caso di specie, l’obbligo comunitario invocato. In tema di rapporti tra ordinamento comunitario e ordi-namento nazionale si è di recente pronunciata la Cassazione a Sezioni Unite, chiarendo che “l’ob-bligo del giudice di interpretare il diritto nazio-nale conformemente al contenuto delle decisioni quadro adottate nell’ambito del titolo VI del Trat-

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tato sull’Unione europea non può giammai legit-timare l’integrazione della norma penale interna quando una simile operazione si traduca in una interpretazione in malam partem”. (In applica-zione di tale principio, la Corte ha escluso che la disciplina in tema di confisca contenuta nella decisione-quadro del Consiglio dell’Unione Eu-ropea 2005/212/GAI del 24 febbraio 2005 pos-sa essere utilizzata per estendere la confisca per equivalente di cui all’art. 322 ter primo comma cod. pen. anche al profitto del reato) Cassazio-ne penale, sez. un., 25 giugno 2009, n. 38691. Problema consimile e, per certi versi inverso, è il caso del diritto penale interno che non si adegui ad una normativa comunitaria che imporrebbe l’introduzione di una nuova figura di reato nell’or-dinamento nazionale. In questo caso, procuncia-tasi più volte, la Corte di Giustizia ha sempre so-stenuto che al diritto comunitario, in quanto tale, non può ricondursi l’effetto di introdurre nuove fattispecie sanzionatorie o comunque fattispecie che aggravino reati già previsti dall’ordinamento nazionale. Viceversa quando un intervento di una legge statale sopravvenuta modifica una pre-esi-stente legge nazionale, che era in origine confor-me al diritto comunitario, questo comporta un inadempimento grave che impone il rinvio pre-giudiziale della normativa, anche da parte del giudice penale, alla Corte di Giustizia. E tutta-via, nell’occasione in cui l’organo giurisdizionale della Comunità si è occupato del problema (de-cisione 11 novembre 2004 causa cd. “Niselli”) pur stigmatizzando gravemente il comportamen-to del legislatore italiano - che, nel caso sttopo-sto all’attenzione della comunità, aveva adottato una definizione restrittiva del concetto di rifiuto con l’art. 14 del decreto legge 138/02 violando una direttiva comuntaria che era stata origina-riamente correttamente trasposta, la Direttiva n. 75/442 - non è arrivata a sostenere la punibilità dell’imputato alla luce della vecchia normativa, ritenendo prevalente, nel caso di specie, la di-sposizione di favore contemplata dall’articolo 2 comma 2 del nostro codice penale.

Va esclusa dalle fonti formali del diritto penale la cd. consuetudine (nullum crimen sine lege scripta), perché non è fonte primaria, e crea norme fondate su una mera prassi comportamen-tale, ancorché accompagnata dalla convinzione della sua giuridica necessità. Il divieto vale, a maggior ragione, per la desuetudine (o consuetu-dine abrogativa).

Oggi in ogni caso, per risolvere il contrasto tra diritto interno e diritto comunitario, anche in diritto penale si ricorre sempre di più alla prassi giudiziale cd. della “interpretazione conforme”, che, in diritto penale, proprio per il divieto della analogia in malam partem, ha il solo limite di

potere essere utilizzata solo allorquando giovi al-l’imputato e non laddove lo danneggi (così Cass. S.U., n. 38691/2009) in materia di confisca per equivalente del profitto.

4) Il prIncIpIo dI tIpIcItàIl principio di tipicità è un corollario del prin-

cipio di legalità formale ed opera sul contenu-to della previsione imponendo l’adozione di for-mule testuali chiare ed idonee ad individuare le concrete condotte oggetto di divieto disciplinate dalla norma. Tale principio ha trovato compiuta elaborazione nelle sentenze della Corte costitu-zionale: in particolare, si ricorda quella che ha abrogato il reato di plagio previsto e punito dal-l’art. 603 (sent. n. 96/1981).

Il carattere imperativo del precetto penale non potrebbe esprimere compiutamente la sua efficacia laddove la formulazione della norma si presenti oscura, di difficile interpretazione, ge-nerica.

Ulteriore scopo perseguito attraverso questo principio, anche in questo caso, è quello di pre-venire i rischi dell’arbitrio giudiziario nella appli-cazione della norma penale.

2. Successione di leggi penali (1). – Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato (25 Cost.).

Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non co-stituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali.

Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflit-ta si converte immediatamente nella corri-spondente pena pecuniaria, ai sensi dell’ar-ticolo 135 (2).

Se la legge del tempo in cui fu commes-so il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronun-ciata sentenza irrevocabile (648 c.p.p.) (3).

Se si tratta di leggi eccezionali o tempo-ranee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti (14 prel.).

Le disposizioni di questo articolo si ap-plicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nei

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casi di un decreto legge convertito in legge con emendamenti (77 Cost.) (4).

(1) Si vedano gli artt. 10, 12 e 15 delle disposizioni sulla legge in generale del codice civile.

(2) Questo comma è stato inserito dall’art. 14 della L. 24 febbraio 2006, n. 85.

L’art. 15 della medesima legge prevede inoltre che alle violazioni depenalizzate dalla stessa legge si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 101 e 102 del D.L.vo 30 dicembre 1999, n. 507.

(3) L’art. 30, quarto comma, della L. 11 marzo 1953, n. 87, contenente norme sul funzionamento della Corte co-stituzionale, stabilisce che, qualora in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale sia stata pronunciata sen-tenza irrevocabile di condanna, ne cessino l’esecuzione e tutti gli effetti penali.

(4) La Corte costituzionale con sentenza 19 febbraio 1985, n. 51 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo comma nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste, le disposizioni contenute nel secondo e terzo comma di questo articolo.

1) Il 1° commaIl principio di irretroattività previsto dal 1°

comma rappresenta un corollario del principio di legalità, e disciplina il fenomeno della nuova incriminazione, ossia di una previsione innovati-va dell’ordinamento che interviene a punire un comportamento fino a quel momento non oggetto di precetto punitivo. Tale principio rappresenta un naturale completamento dei principi della ri-serva di legge e della tassatività, la cui funzione garantista sarebbe frustrata se i comportamenti umani fossero lasciati in balia di future incrimi-nazioni.

Occorre precisare che il principio di irretroat-tività riguarda solamente le leggi penali sostan-ziali e non anche quelle processuali.

2) I commI 2, 3 e 4Ai commi 2 e 4 sono regolate le ipotesi di

abolitio criminis e di successione delle leggi penali nel tempo.

Nel primo caso, una legge, intervenendo su una precedente disposizione normativa, depe-nalizza un fatto che, fino a quel momento, era considerato reato. Da questo momento, il reo non potrà più essere punito e, se è già interve-nuta una condanna, cessano l’esecuzione e gli effetti penali di essa. Non vengono meno, inve-ce, le obbligazioni civili nascenti dal reato (es.: pagamento delle spese processuali nei confronti dello Stato).

Successione modificativa si ha, invece, quan-do il fatto è previsto come reato anche dalla leg-ge successiva che, tuttavia, apporta modifiche all’originaria fattispecie. In caso di diversità del-

la sanzione prevista dalla legge modificativa ri-spetto a quella originaria, si applica quella più favorevole al reo, salvo che non sia intervenuta sentenza passata in giudicato.

La L. 24-2-2006, n. 85, recante Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione, ha aggiunto dopo il comma 2 un ulteriore comma in base al quale “se vi è stata condanna a pena de-tentiva e la legge posteriore prevede esclusivamen-te la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135”.

Questa disposizione, com’è agevole notare, rappresenta una deroga al disposto del comma 4, che, come si è appena visto, impedisce l’applica-zione della norma più favorevole al fatto antece-dentemente commesso, in presenza di sentenza definitiva di condanna. In questo caso, al con-trario, l’esistenza di un giudicato non impedisce l’operatività del suddetto principio.

L’intervento della citata L. n. 85/2006 in questo ambito si giustifica principalmente con la contestuale sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria applicabile ai cd. “reati di opinione” di cui agli artt. 290 e ss. c.p. Si tratta evidentemente di un intervento doveroso perché rispondente ad una logica equitativa.

Le disposizioni contenute nei commi 2 e 4 della norma in esame sono chiara applicazione del principio del favor rei.

Per quanto riguarda l’esatta individuazione della disciplina più favorevole, si deve fare rife-rimento alla disciplina complessivamente consi-derata: ad esempio, è più favorevole, per il reo, una prescrizione più breve o l’introduzione, ad opera della legge successiva, di una condizione di procedibilità prima non prevista o, viceversa, successivamente abrogata. Occorre, perciò, una valutazione comparativa complessiva e, soprat-tutto, il giudice deve procedere d’ufficio all’in-dividuazione della fattispecie più favorevole, an-che prescindendo dalle prospettazioni difensive. In ogni caso, la comparazione deve avvenire in concreto e non in astratto, ossia confrontando i risultati che deriverebbero dall’applicazione del-le norme succedutesi nel tempo (Cass., I, 18-5-1994).

Invece, ai fini dell’individuazione della nor-mativa più favorevole per il reo non si può pro-cedere a una combinazione delle disposizioni più favorevoli della nuova legge con quelle più favore-voli della vecchia, in quanto ciò comporterebbe la creazione di una terza legge, diversa sia da quel-la abrogata, sia da quella in vigore, ma occorre applicare integralmente quella delle due che, nel suo complesso, risulti, in relazione alla vicenda concreta oggetto di giudizio, più vantaggiosa al reo (Cass., III, 195-2004).

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3) recentI problematIcheIn tema di applicazione della legge più favo-

revole la Cassazione ha affermato che, in tema di successione di leggi penali nel tempo, la regola dell’applicazione della legge più favorevole, det-tata dall’art. 2, 3° comma, trova applicazione an-che nel caso in cui, succeduta alla legge vigente al momento del fatto una legge più favorevole, questa sia stata poi a sua volta seguita, prima del giudizio, dal ripristino della legge originaria (Cass., IV, 20-5-2004).

La pronuncia risulta essere assai interessante in quanto ha affrontato il problema della legge più favorevole sopravvenuta al fatto ma poi abro-gata prima del giudizio; ipotesi formalmente as-sai diversa anche se, nella sostanza, non troppo dissimile - da quella del decreto legge non con-vertito o convertito con emendamenti, espres-samente disciplinata dall’ultimo comma del-l’art. 2. Trattasi di problema che avrebbe forse meritato un maggiore approfondimento. La solu-zione adottata, tuttavia, dà luogo alla singolare conseguenza per cui, identiche essendo la legge vigente al momento del fatto e quella vigente al momento del giudizio, dovrebbe però trovare ap-plicazione una terza legge non vigente né al mo-mento del fatto né a quello del giudizio.

In ogni caso, fino al 2009, dottrina e giuri-sprudenza ritenevano che il principio di retroat-tività della norma penale più favorevole avesse sì copertura costituzionale, ma solo relativa, e che essa fosse rinvenibile, non, come accade per quello di irretroattività, nell’art. 25 comma 2 del-la Costituzione, ma nell’art. 3 sotto il profilo della ragionevolezza e della eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

La CEDU, invece, nella decisione Scoppola c. Italia (n. 2), del settembre 2009 ebbe ad af-fermare che il principio di cui all’art. 7 § 1 della Convenzione garantisce sia il divieto di punire per un fatto non più previsto dalla legge penale che il principio della retroattività del trattamento più favorevole, così introducendo come principio fondamentale ed apparentemente inderogabile, la suddetta previsione.

Interpellata sul punto la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 236 del 22 luglio del 2011, pur dando atto dell’orientamento più garantista della CEDU e della necessità, almeno tenden-ziale, di uniformarsi ad esso, ha mantenuto un atteggiamento agnostico, incidentalmente am-mettendo che il suddetto principio, in presenza di valori contrastanti di particolare rilievo, possa anche subire deroghe.

La Cassazione è tornata sull’argomento, a S.U. con la sentenza n. 42858 del 15 ottobre 2014 con la quale ha affermato che la dichiara-zione di illegittimità costituzionale di una norma

penale diversa da quella incriminatrice, se pro-duce una mitigazione del trattamento della pena, consente la rideterminazione della pena stessa, anche se coperta dal giudicato.

4) I mobIlI confInI dell’abolitio CriminisNon sempre è facile distinguere quando vi sia

abolitio, con creazione di una nuova fattispecie, e quando, al contrario, si sia in presenza di una successione modificativa; la necessità di diffe-renziare le due ipotesi è di fondamentale impor-tanza, perché, nel primo caso, il soggetto andrà assolto, mentre nel secondo potrà soltanto fruire del trattamento sanzionatorio più favorevole.

A tal fine, non è sufficiente la qualificazione formale fornita dalla fattispecie incriminatrice, tanto che la dottrina, per risolvere il problema, ha elaborato vari criteri.

Il primo di essi è quello che muove dal cd. Fatto concreto: se il fatto rientra sia nella vecchia sia nella nuova disposizione, vuol dire che c’è un fenomeno di successione e non di abolizio-ne. È un criterio semplice da applicare, anche se, partendo dal fatto concreto, rischia di por-tare ad interpretazioni disuguali e diverse caso per caso. Per questo motivo, sono stati elaborati altri criteri, fondati su principi tendenti piuttosto all’astrattezza.

Tra di essi, merita di essere ricordato quel-lo fondato sulla cd. continuità del tipo d’illecito, che risolve i problemi definitori mettendo a con-fronto i beniinteressi tutelati dalla nuova e dalla vecchia normativa: se le modalità offensive della condotta sono identiche o analoghe nella vecchia e nella nuova formulazione e il bene-interesse tu-telato dalla norma è sempre lo stesso, si ha suc-cessione di leggi e non abrogazione.

Vi, è infine, un terzo criterio fondato sugli elementi strutturali della fattispecie: la successio-ne va esclusa allorquando tra vecchia e nuova norma vi sia un rapporto di incompatibilità/ete-rogeneità. In ogni caso, non vi è incompatibilità quando esista un rapporto di specialità fra le due fattispecie che può aversi sia in una direzione che nell’altra: pertanto, potremmo avere succes-sione fra una legge generale seguita da una legge speciale e viceversa.

Ovviamente, nel caso del passaggio da norma generale a norma speciale, si verifica un’abroga-zione parziale con riguardo ai casi che non rien-trano nella nuova e più specifica disciplina.

Si dice che, in tal caso, la nuova norma ri-taglia, all’interno della precedente, una vera e propria nuova fattispecie incriminatrice, e quin-di che, per quanto non “riportato” nella nuova disciplina, debba valere il principio di irretroat-tività.

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5) la successIone dI norme extra-penalIDiscorso ancora diverso si prospetta in caso

di successione di norme richiamate dalla dispo-sizione penale incriminatrice (cd. fenomeno del-la successione mediata di fattispecie incrimina-trici).

Sul punto, in particolare si sono acquisiti per-corsi giurisprudenziali in materia di reati connes-si all’immigrazione clandestina di cui al D.Lgs. n. 268/1998, laddove si è posto il problema dell’operatività delle disposizioni dell’art. 2, 2° comma, c.p. a fronte di una condotta favoreggia-trice realizzata al fine di agevolare l’ingresso di un cittadino extracomunitario, il cui Stato di pro-venienza abbia, successivamente al fatto, aderito al Trattato U.E. o comunque a fronte di una con-dotta di illecita permanenza sul territorio italia-no addebitabile a soggetto appartenente a paese che, solo successivamente, aderisca al Trattato.

In tema si sono da subito affacciati due orien-tamenti: il primo - ritenendo che l’elemento ri-chiamato integri il precetto penale divenendo tutt’uno con esso - si è detto favorevole a ritenere estinto il reato ex comma 2 dell’art. 2 del codice penale.

L’altro orientamento - seguito sia da Cass. Pen., sez. I, n. 1815/2007 sia dalle S.U. della Cass. (sent n. 2451/2007 depositata il 16 gen-naio 2008) - esclude l’integrazione tra elemento richiamato e precetto ed esclude che, nel caso di specie, possa operare la previsione dell’art. 2, 2° comma, c.p. ritenendo che quest’ultima norma sia riferibile ai soli casi in cui intervenga una vera e propria depenalizzazione della condotta, e non una mera modifica, come nel caso di specie, del presupposto della condotta “che non concorre a delineare il precetto penale”.

In un’ottica di sostanziale continuità con que-sta linea interpretativa, all’udienza delle Sezioni Unite del 27 febbraio 2008 la Suprema Corte ha ritenuto che i fatti di bancarotta commessi prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 5 del 2006 e del successivo D.Lgs. n. 169 del 2007, che hanno modificato i requisiti perché l’ imprendito-re sia assoggettabile a fallimento, continuano ad essere previsti come reato anche se in base alla nuova normativa l’imprenditore non potrebbe più essere dichiarato fallito.

6) leggI temporanee ed eccezIonalI (5° comma)Con riferimento alle leggi temporanee (che

hanno una durata circoscritta nel tempo) ed ec-cezionali (che si applicano a fatti straordinari), la norma in esame dispone che si applica esclu-sivamente la disposizione vigente al momento della commissione del fatto. Ciò si spiega consi-derando l’esigenza di evitare che una norma in-trodotta per far fronte ad esigenze eccezionali o

contingenti possa essere aggirata (ad esempio, per fatti commessi nell’imminenza dello scade-re del termine della legge temporanea o verso la fine della situazione eccezionale). Discorso di-verso deve farsi con riferimento all’ammissibilità di sentenze della Corte Costituzionale che, abro-gando disposizioni di legge favorevoli al reo, im-pongano un trattamento deteriore per quest’ulti-mo per effetto della riespansione della normativa punitiva precedente. Sul punto, il giudice delle leggi, pur non negando in astratto l’ammissibi-lità di siffatte “pronunce in malam partem” ha escluso che il principio di cui all’art. 25 della Costituzione debba comunque ritenersi recessivo rispetto alla retroattività riconosciuta alle deci-sioni della Corte Costituzionale (Corte Cost. sent. n. 394/2006), conseguentemente affermando la non applicabilità della normativa.

7) decretI legge (6° comma)Le disposizioni ex art. 2 si applicano anche

nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nei casi di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti. Peraltro, all’introduzione di emendamenti nella legge di conversione non sempre può ricondursi la con-seguenza di determinare automaticamente la perdita di efficacia ex tunc del decreto-legge, né, correlativamente, quella di attribuire valore ex nunc al precetto della legge di conversione a mezzo del quale ha trovato ingresso la modi-ficazione, dovendo, al contrario, aversi riguardo allo specifico contenuto degli emendamenti e alla reale portata dei mutamenti al testo del de-creto. Pertanto, solo gli emendamenti sostitutivi (o innovativi) e quelli soppressivi, disponendo la riscrittura ovvero l’eliminazione della decretazio-ne d’urgenza, hanno efficacia ex nunc, mentre quelli semplicemente modificativi, consistendo in una variazione che non investe il nucleo pre-cettivo fondamentale della norma del decretoleg-ge, si saldano con quest’ultima in modo conti-nuo, sì che hanno efficacia ex tunc, decorrente dalla data della normazione di urgenza (Cass., I, 24-6-1998).

8) Il prIncIpIo dI IrretroattIvItà e le norme proces-sualI

L’art. 2 c.p. non è applicabile alle leggi pro-cessuali, laddove opera il diverso principio del tempus regit actum.

Incertezze interpretative vi sono state - in te-ma di successione di leggi processuali - per quel che concerne norme che, mutando il tipo di san-zione prevista originariamente per il reato, deter-minavano altresì una modifica della competenza degli organi giurisdizionali a conoscerne, laddove è chiaro che vengono in evidenza modifiche sia della norma sostanziale sia di quella processua-

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43 Titolo I - Della legge penale 3

le. In particolare in giurisprudenza si è posto il problema della competenza giurisdizionale con riguardo al reato di guida in stato d’ebbrezza, pre-visto e punito dall’art. 186 della L. n. 214/2003 (cd. Codice della Strada).

Innovando rispetto alla previgente previsione, questo reato - per ragioni di politica criminale legate alle drammatiche e ricorrenti “stragi del sabato sera” sulle strade italiane - è stato nuo-vamente sanzionato con la pena dell’arresto, in luogo dell’originaria ammenda. Questa modifica, determinando la traslazione della competenza a conoscerlo dal giudice di pace al Tribunale in sede monocratica, ha evidenziato un problema di competenza intertemporale. Segnatamente il problema si è prospettato con riferimento ai reati, commessi nel periodo anteriforma, per i quali il P.M. ha esercitato l’azione penale in un momento successivo, mediante emissione di de-creto di citazione a giudizio.

Un primo orientamento, anche giurispruden-ziale, ha ritenuto che vada individuato nel Tribu-nale il giudice competente a conoscere del reato, anche se tale organo giurisdizionale, in applica-zione dei criteri di cui all’art. 2, comma 3, c.p., dovrà applicare la pena più favorevole fra quelle previste.

Viceversa, altre sentenze hanno sostenuto che, in questo caso, la competenza debba rima-nere in capo all’ufficio competente al momento del commesso reato, e dunque hanno considera-to perdurante la competenza del giudice di pace, conferendo ultrattività, almeno da un punto di vista processuale, alla previgente disposizione.

Le S.U. della Cass. con la sentenza 31-1-2006, n. 3821 hanno tuttavia accolto la prima teoria sostenendo la competenza del tribunale con riferimento a reati originariamente puniti con pena dell’ammenda.

Altro problema - posizionantesi al confine tra norma processuale e norma sostanziale - si è avuto con riferimento alla prescrizione. Il di-lemma si pone in particolare allorquando un in-tervento legislativo prolunghi o abbrevi i termini di prescrizione, prefigurando un dubbio in ordine al trattamento di tale modifica: in altre parole, occorre considerare la modifica quale intervento processuale, e quindi procedere ad applicarla, senza indugio, anche ai processi in corso, o, vi-ceversa, ritenere che la stessa abbia natura me-ramente sostanziale e quindi far scattare il di-spositivo, improntato al favor rei, di cui all’art. 2 del codice penale?

La dottrina suggerisce in questo caso un mo-dus procedendi che necessariamente diversifica le situazioni nel loro concreto manifestarsi, a se-conda del tempo trascorso dalla commissione del reato: infatti, allorquando la legge intervenga a

termine prescrizionale già spirato, è ovvio (e cor-risponde ad un principio di giustizia sostanziale) che la nuova disciplina non sarà applicabile.

Più complesso il problema quando la legge successiva interviene sui termini di prescrizione prima che la prescrizione sia maturata. In questo frangente, infatti, possiamo sia applicare il prin-cipio tempus regit, e quindi attribuire efficacia lato sensu retroattiva alla norma, sia applicare i principi dell’art. 2, e quindi ritenere o meno applicabile la normativa sopravvenuta a secon-da del se essa abbrevi o allunghi i termini pre-scrizionali.

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 452/1999 - salutata con favore dalla dottrina prevalente - aveva optato per la tesi della retro-attività. L’Alto Consesso ebbe a motivare la sua decisione sostenendo che quella ad un predeter-minato termine di prescrizione non è un’aspetta-tiva giuridicamente rilevante che esiste in quanto tale, nel compendio patrimoniale dell’imputato, tanto in considerazione del fatto che - a dire del-la Corte - il favor rei è concetto, per così dire, “in-traprocessuale” e non extraprocessuale, e come tale non si può riferire anche all’intenzione del privato di sottrarsi al processo. Il problema della prescrizione nei suoi rapporti con l’art. 2 c.p. si è poi posto in particolare con la cd. legge Cirielli che ha operato sui termini di prescrizione.

Interessanti applicazioni in materia di suc-cessioni di leggi penali speciali, si sono avute con riferimento alla normativa in materia di sicu-rezza sul lavoro. In tal senso vedasi Cass. pen., sez. III, 7 maggio 2009, n. 23976 secondo cui “Anche dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 9 apri-le 2008, n. 81 (cosiddetto T.U. sulla sicurezza) che ha abrogato il d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, costituisce reato la violazione delle prescrizioni dirette a conformare i luoghi di lavoro a norme di prevenzione per garantire la sicurezza dei lavora-tori, sussistendo continuità normativa tra l’art. 8 dell’abrogato d.P.R. n. 547 e la nuova fattispecie prevista dal combinato disposto degli artt. 63, 64 e 68, lett. b), in relazione all’All. IV, punto 1.4.1, D.Lgs. n. 81 del 2008”.

3. Obbligatorietà della legge penale. – La legge penale italiana obbliga tutti co-loro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato (42, 2423; 28 prel.), salve le eccezioni stabilite dal diritto pub-blico interno o dal diritto internazionale (10, 68, 90, 1224 Cost.).

La legge penale italiana obbliga altre-sì tutti coloro che, cittadini o stranieri, si

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443 Libro I - Dei reati in generale

trovano all’estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima (7 ss.) o dal diritto internazionale (1080 c.n.; 17, 18 c.p.m.p.).

1) Il prIncIpIo dI terrItorIalItà e le cd. ImmunItàAssieme all’art. 6, l’articolo in commento ri-

badisce il principio di territorialità, secondo cui qualsiasi condotta integrante estremi di reato, commessa in tutto o in parte sul territorio del-lo Stato italiano, è assoggettata alla giurisdizio-ne penale italiana. principio cui si deroga solo in casi eccezionali, come per esempio per i cd. delicta iuris gentium (reati puniti dalle leggi della maggioranza degli stati ed alla cui repressione, quindi, tutta la comunità internazionale è inte-ressata), assoggettati a pena in italia anche se commessi al di fuori del nostro territorio.

Il principio di obbligatorietà della legge penale italiana, in uno con quello di territorialità di cui all’art.6 c.p. rappresenta un confine insor-montabile, a maggior ragione a tutela dei diritti individuali protetti dalla fattispecie incriminatici, in particolar modo allorquando, in un contesto sociale multietnico, si prospettano ragioni etiche ed usanze costumali diverse da quelle cui è im-prontato l’intero sistema giuridico italiano.

Queste considerazioni - e per contro i limiti di operatività di detti diversi ordinamenti che, co-me tali, non possono incidere sul nostro diritto penale - iniziano ad evidenziarsi anche nella giu-risprudenza di legittimità. Si veda, in tal senso, la posizione nitida di Cass. penale, sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 22700 secondo cui “L’art. 3 c.p. sancisce il principio dell’obbligatorietà della legge penale, per cui tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello stato sono tenuti ad osservarla. la rilevanza della disciplina e le ragioni di carattere generale su cui si fonda escludono che possa esservi apportata qualsia-si deroga non espressamente prevista dal dirit-to pubblico interno o dal diritto internazionale. questo comporta che le tradizioni etico-sociali di coloro che sono presenti nel territorio dello stato, di natura essenzialmente consuetudinaria ben-ché nel complesso di indiscusso valore culturale, possano essere praticate solo fuori dall’ambito di operatività della norma penale. il principio assu-me particolare valore morale e sociale allorché - come nella specie - la tutela penale riguardi ma-terie di rilevanza costituzionale, come la famiglia, che la legge fondamentale dello stato riconosce quale società naturale, ordinata sull’uguaglian-za morale e giuridica dei coniugi (art. 29 Cost.), uguaglianza che costituisce pertanto un valore garantito, in quanto inserito in un ordinamento

incentrato sulla dignità della persona umana e sul rispetto e la garanzia dei diritti insopprimibi-li a lei spettanti (nella specie, l’imputato norda-fricano era stato condannato per il reato di cui all’art. 572 c.p. per maltrattamenti nei confronti della moglie, e si difendeva adducendo il dato che i coniugi - e la famiglia nella quale i reati erano stati commessi - erano portatori di cultura, religione e valori differenti da quelli italiani, tali da influire sotto il profilo sia della gravità del rea-to che dell’entità della pena e sulla sussistenza delle attenuanti generiche)”.

Limiti a questo principio sono comunque dati dalle immunità previste dal diritto internazionale. è il caso degli agenti diplomatici e consolari, i quali godono di un’immunità assoluta (cd. immu-nità diplomatica). al contrario, gli impiegati degli uffici diplomatici e consolari godono di un’im-munità relativa, che li sottrae alla giurisdizione penale del nostro stato solo per quanto concerne gli atti da loro compiuti nell’esercizio delle corri-spondenti funzioni.

Per analogia, si estendono le immunità appe-na viste anche ai rappresentanti delle organizza-zioni internazionali (O.N.U., U.E., F.A.O. etc.).

Diversa dall’immunità diplomatica è quel-la prevista da alcune norme dell’ordinamento e connessa alle funzioni di rappresentanza politica che alcuni soggetti svolgono: è il caso dei parla-mentari, nazionali o regionali, dei giudici della corte costituzionale e dei membri del CSM, che non possono essere chiamati a rispondere dei voti dati e delle opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni (cd. immunità funzionale).

La Corte Costituzionale si è recentemente soffermata sui limiti dell’immunità da ricono-scere ai parlamentari per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni ex art. 68, 1° comma, Cost., ribadendo - quanto alle opinioni espresse dai componenti dell’assemblea al di fuori della sede del parlamento - che anche que-ste ultime sono coperte dalla predetta insindaca-bilità, purché siano legate da un nesso funziona-le alle attività proprie di membro del parlamento. nesso che si concretizza se e quando nell’attività esterna del deputato portata all’attenzione del giudice, il parlamentare abbia sostanzialmente riproposto, con le sue dichiarazioni, le stesse espressioni anche verbali e le medesime argo-mentazioni oggetto della propria attività parla-mentare (Corte Cost., sent. n. 53/2007).

Ancora diversa è la posizione del Capo dello stato, che è penalmente irresponsabile e può es-sere chiamato a rispondere - davanti alla corte co-stituzionale - solo di due reati: alto tradimento e attentato agli organi costituzionali ex art. 96 Cost.

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45 Titolo I - Della legge penale 4

4. Cittadino italiano. Territorio del-lo Stato. – Agli effetti della legge penale, sono considerati «cittadini italiani» i citta-dini delle colonie, i sudditi coloniali (1), gli appartenenti per origine o per elezione ai luoghi soggetti alla sovranità dello Stato e gli apolidi (29 prel.) residenti nel territorio dello Stato (2423).

Agli effetti della legge penale, è «territo-rio dello Stato» il territorio «della Repub-blica», quello delle colonie (2) e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. Le navi e gli aeromobili italiani sono conside-rati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territo-riale straniera (2, 3, 4 c.n.).

(1) I riferimenti ai cittadini delle colonie ed ai sudditi coloniali devono ritenersi non più operanti.

(2) Il riferimento al territorio delle colonie deve ritenersi non più operante.

1) l’ampIa nozIone dI “cIttadInanza” ed Il prIncIpIo della bandIera

Per giurisprudenza consolidata, il concetto di cittadinanza disciplinato dalla norma in esame ha un’ampia estensione, implicando la correla-tiva attribuzione anche in capo al soggetto che abbia scelto, a propria stabile residenza, una di-mora sita nel territorio italiano. Tale criterio in-terpretativo vale anche per l’apolide. Tuttavia, ai sensi dell’art. 4, per residenza deve intendersi una dimora abituale, caratterizzata dalla fissazio-ne della propria sede in un determinato luogo e dalla volontà di mantenere questa sede in modo tendenzialmente duraturo. Tali caratteri, con ri-ferimento all’apolide, si riscontrano soltanto se quest’ultimo ha soggiornato nel territorio italiano per un periodo di tempo apprezzabile.

Il territorio, invece, è la superficie terrestre ricompresa nei confini politico-geografici dello Stato stabiliti dai trattati internazionali e dalle leggi di annessione dei precedenti Stati.

Nel concetto di territorio, secondo il princi-pio della bandiera, rientrano anche le navi aventi bandiera italiana; pertanto, per i fatti commes-si a bordo di queste ultime sarà competente il giudice italiano.

Per quanto riguarda i fatti commessi quando la nave si trovi nelle acque sottoposte alla giuri-sdizione di altri Stati, la legge penale italiana tro-va applicazione a meno che quegli stessi fatti non

si ripercuotano, sotto il profilo offensivo, su beni-interessi di pertinenza dello Stato costiero. In tale ultima eventualità, a quest’ultimo, per giurispru-denza consolidata, spetterà la giurisdizione.

5. Ignoranza della legge penale. – Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale (473) (1).

(1) La Corte costituzionale, con sentenza 24 marzo 1988, n. 364, ha dichiarato l’incostituzionalità di questo articolo, nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità del-l’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile.

1) l’Ignoranza della legge penale scusa soltanto se InevItabIle

L’art. 5 costituisce un’applicazione del bro-cardo latino ignorantia legis non excusat, ed è un corollario indispensabile del principio di ob-bligatorietà della legge penale.

A differenza di quanto avviene nel caso disci-plinato dall’art. 47 (➠), il soggetto agente per ignoranza cade in errore in ordine alla qualifica-zione giuridica in astratto del fatto commesso e non sul fatto concreto da lui posto in essere. In altri termini, il soggetto, ex art. 5, vuole effettiva-mente il fatto previsto dalla norma incriminatri-ce, anche se ritiene erroneamente che esso non sia previsto dalla legge come reato.

Per queste sue caratteristiche, la fattispecie di cui all’art. 5 è, di solito, anche utilizzata per indicare il confine negativo del dolo.

Quanto alla nozione di norma penale, non è necessario che la disposizione ignorata dal sog-getto sia contenuta nel codice penale, dal mo-mento che l’ampia dizione utilizzata autorizza a ritenerla operativa anche in occasione di norme contenute in leggi ordinarie.

Sull’originario rigore della disciplina codici-stica è intervenuta - a seguito della sollecitazione di alcuni illustri autori (Bricola, Mantovani, Fian-daca-Musco) - la Corte costituzionale con sentenza n. 364/1988, che ha introdotto il principio della scusabilità dell’ignoranza in presenza di un erro-re inevitabile dovuto a forza maggiore. In estrema sintesi, dalla sentenza della Corte emergono due criteri per valutare la scusabilità dell’errore:

- uno oggettivo, fondato sull’effettiva incer-tezza della normativa applicabile al caso con-creto;

- uno soggettivo, che va relazionato al grado di preparazione culturale del soggetto agente.

La giurisprudenza ha elaborato una casistica di errori inevitabili, fondandoli di volta in volta sull’esistenza di incertezze giurisprudenziali in ordine all’applicazione della norma, su prassi

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466 Libro I - Dei reati in generale

contrastanti esistenti presso la pubblica ammini-strazione, sull’autorevolezza della fonte interpre-tativa che ha tratto in inganno il soggetto agente in ordine alla liceità del comportamento posto in essere etc.

È illegittimo l’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile, atteso il combinato disposto dei commi 1 e 3 dell’art. 27 Cost., nel quadro delle fondamentali direttive del sistema co-stituzionale desunte soprattutto dagli art. 2, 3, 25, 2° comma, 73, 3° comma, Cost., le quali pongono l’effettiva possibilità di conoscere la legge penale quale ulteriore requisito minimo d’imputazione, che viene ad integrare e completare quelli attinenti alle relazioni psichiche tra soggetto e fatto, consen-tendo la valutazione e, pertanto, la rimproverabili-tà del fatto complessivamente considerato (Corte cost. 24-3-1988, n. 364).

La tematica dell’ignoranza della legge penale ha avuto un ritorno inaspettato ed occasionale, in ambito europeo, in relazione ad una vicenda di cronaca non solo giudiziaria, avente ad oggetto la demolizione di un complesso immobiliare, già con-fiscato dalla Magistratura penale, nel territorio del comune di bari, sulla costa di Punta Perotti.

Infatti, in relazione a tale complesso edilizio - benché il processo si fosse concluso con l’assoluzio-ne degli imputati, per insussistenza dell’elemento psicologico,dovuta ad errore scusabile nell’inter-pretazione della legge - era stata disposta dal giu-dice italiano la confisca (ritenuta, comunque, ob-bligatoria) sia dei suoli abusivamente lottizzati che dell’intero complesso immobiliare, a norma del-l’art. 19 L. 47/85.

Per contro la Corte europea dei diritti dell’uomo con sentenza emessa il 20 gennaio 2009 dalla II Se-zione ha ritenuto che - dal momento che la confisca in questione ha comunque natura sanzionatoria - fossero ravvisabili, nel caso di specie, una violazione sia dell’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che sancisce il principio di legalità dei reati e delle pene) che dell’art. 1 del Protocollo n. 1 (che enuncia il principio del rispetto della proprietà, ne sottopone laprivazione a determinate condizioni, e riconosce agli Stati il potere di regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale).

6. Reati commessi nel territorio del-lo Stato. – Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato (3, 42) è punito se-condo la legge italiana (11).

Il reato si considera commesso nel terri-torio dello Stato, quando l’azione o l’omis-sione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione.

1) Il crIterIo dell’ubIquItàIl 1° comma, esplicitando il principio di ter-

ritorialità, ribadisce il concetto di obbligatorietà della legge penale già contenuto al precedente art. 3.

Il 2° comma, invece, stabilisce che, affinché una condotta possa ritenersi punibile ai sensi della legge penale italiana, è sufficiente che an-che solo una parte di essa sia posta in essere sul nostro territorio. Dunque, il nostro codice, in caso di frammentazione della condotta di reato, applica, fra i vari criteri possibili, il criterio del-l’ubiquità, preferendolo agli altri criteri dell’even-to e della condotta. In relazione all’individuazio-ne di questo unico frammento di reato, è ormai superata la giurisprudenza più antica, che rite-neva necessario - per la concreta punibilità della condotta - che quella commessa in Italia avesse almeno integrato gli estremi del tentativo. Oggi, qualunque segmento materiale della condotta, allorché compiuto in Italia, è ritenuto sufficiente ad integrare la fattispecie in argomento.

A questo proposito, la giurisprudenza è ormai consolidata nell’attribuire all’inciso “in parte” contenuto nella norma un significato naturali-stico, piuttosto che giuridico, e dunque idoneo a ricomprendere qualsiasi momento fattuale dello sviluppo dell’iter criminis. In tema vedasi: nel-l’ipotesi di concorso in traffico internazionale di stupefacenti, il reato è da ritenere commesso nel territorio dello Stato anche nel caso in cui sia stata posta in essere una qualsiasi attività di par-tecipazione ad opera di uno qualsiasi dei concor-renti, a nulla rilevando che tale attività parziale non rivesta in sé carattere di illiceità, dovendo la stessa essere intesa come frammento di un unico ed inscindibile “iter” delittuoso. Cass. pen., sez. VI, 11 febbraio 2009, n. 12142.

2) concorso dI personeIn passato, si erano posti problemi in relazio-

ne al concorso di persone nel reato sotto il profi-lo del rapporto tra questa norma e l’art. 110. In particolare, non si riteneva sufficiente che in Ita-lia fosse stato raggiunto il semplice accordo tra i correi, ma si richiedeva anche un’attività con-creta posta in essere sul nostro territorio (quanto meno la predisposizione dei mezzi per la com-missione del delitto).

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47 Titolo I - Della legge penale 7

Oggi, l’affermazione della sufficienza della condotta naturalisticamente intesa rende punibi-le, ai sensi degli articoli 6 e 110, anche la mera istigazione o il mero accordo avutisi in italia, an-corché, di per sé, essi non siano punibili ai sensi dell’art. 115 c.p., quando ad essi segua la com-missione di un fatto-reato all’estero.

Ai fini della procedibilità a richiesta del Mini-stro della giustizia, non è possibile distinguere tra i concorrenti che hanno materialmente compiuto l’azione tipica del reato nel territorio dello Stato e quelli che hanno operato esclusivamente all’estero nella fase ideativa e preparatoria dei reati stessi, in quanto, per i principi sul concorso, il reato si consi-dera commesso in Italia da tutti coloro che vi abbia-no concorso e la richiesta non è perciò necessaria, se taluno di essi, straniero, abbia agito, materialmente rimanendo all’estero (Cass., I, 28-6-1985).

7. Reati commessi all’estero. – È pu-nito secondo la legge italiana (112) il cit-tadino o lo straniero che commette in ter-ritorio estero taluno dei seguenti reati (10 c.p.p.):

1) delitti contro la personalità dello Sta-to italiano (1) (241 ss.);

2) delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraf-fatto (467);

3) delitti di falsità in monete aventi cor-so legale nel territorio dello Stato, o in va-lori di bollo o in carte di pubblico credito italiano (453 ss.);

4) delitti commessi da pubblici ufficiali (357) a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni (61, n. 9, 314 ss.);

5) ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge (2) (269, 5014, 537, 5912, 604, 6424; 17, 18 c.p.m.p.; 1080 c.n.) o convenzioni internazionali stabili-scono l’applicabilità della legge penale ita-liana (3).

(1) La parola: «italiano» è stata aggiunta dall’art. 1, comma 2, del D.L. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito, con modificazioni, nella L. 15 dicembre 2001, n. 438.

(2) Si veda anche l’art. 48 della L. 24 gennaio 1979, n. 18, recante disposizioni in tema di elezione dei rappre-sentanti dell’Italia al Parlamento europeo, il quale stabilisce

che per i reati, previsti dalla suindicata legge, commessi dal cittadino o dallo straniero in territorio estero, si applichi la legge italiana.

(3) Si veda l’art. 22, primo comma, della L. 27 maggio 1929, n. 810 che ha reso esecutivo il trattato fra la Santa Sede e l’Italia stipulato l’11 febbraio 1929, il quale stabilisce che a richiesta della Santa Sede, l’Italia provvederà nel suo territorio alla punizione dei delitti che venissero commessi nella Città del Vaticano, salvo quando l’autore del delitto si sia rifugiato nel territorio italiano, nel qual caso si procederà senz’altro contro di lui a norma delle leggi italiane.

1) Il cd. prIncIpIo dI dIfesaQuesta disposizione deroga al principio di ter-

ritorialità ed esprime un diverso principio, che pure regola le disposizioni incriminatrici del no-stro sistema penale consentendogli, talvolta, di oltrepassare i confini nazionali a scopo punitivo.

Si tratta del principio di difesa, che estende il nostro ordinamento penale in presenza di rea-ti che offendano beni-interessi essenziali per la vita e l’esistenza dello Stato-persona conferen-dogli potestà punitiva nei confronti degli autori di questi ultimi anche quando siano commessi all’estero.

L’aggettivo “italiano” di cui al n. 1 del 2° com-ma è stato aggiunto alla parola “Stato” dal d.l. n. 374/2001, convertito nella l. n. 438/2001, per evitare equivoci, dal momento che, proprio con questa legge, è stata introdotta la nuova fi-gura delle “associazioni con finalità di terrorismo internazionale” (➠ 270bis), ossia associazioni che contemplano, quale oggetto del programma criminoso, la commissione di atti di violenza nei confronti di Stati od organizzazioni esteri.

Benché disciplini un fatto-reato commesso al-l’estero, l’art. 7 non contiene una norma di rinvio all’ordinamento penale straniero; perciò, per es-sere punibile, il fatto commesso deve rappresen-tare un reato alla stregua dell’ordinamento penale italiano, e non va valutato con riferimento all’ordi-namento dello Stato nel quale è stato perpetrato.

La norma di cui all’ultimo capoverso rinvia al-le convenzioni internazionali, alle quali è conferito il potere di ampliare, eventualmente, la lista dei reati punibili a norma del diritto penale italiano.

Le numerose convenzioni ratificate dallo Sta-to italiano sono sostanzialmente raggruppabili in due categorie:

- la prima contempla le convenzioni finalizza-te ad evitare la cd. “doppia incriminazione”, e - in un bilanciamento delle contrapposte esigenze - a prevedere la punibilità del fatto da parte dello Stato i cui interessi siano offesi in modo rilevante dal fatto-reato (si prevedono, ad esempio, con-venzioni di estradizione, consegne temporanee, accordi di cooperazione giudiziaria);

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- la seconda ricomprende le convenzioni vol-te a consentire sempre e comunque la punizio-ne degli autori di fatti di particolare gravità, che ripugnano alla normale coscienza di un essere umano (cd. delicta iuris gentium), sentiti come tali dalla collettività internazionale (in quest’ul-tima dimensione, ricordiamo, ad esempio, la convenzione del 79-1956 in tema di riduzione in schiavitù; l’art. 2 della l. n. 342/1957 che recepiva la Convenzione internazionale in tema di dirottamenti aerei; la convenzione del 2-12-1949 in tema di prostituzione ed, infine, la l. n. 269/1998 in tema di norme contro la pedofilia).

Per il Mantovani, queste ultime previsioni non sono più ispirate al principio di difesa, ma piuttosto al cd. principio di universalità, alla luce del quale l’individuo ed i suoi diritti fondamenta-li, in occasione di lesioni gravi arrecategli, vanno difesi sempre e comunque da qualsiasi ordina-mento giuridico. Per altri (Fiore) esse si spiegano per le esigenze connesse alla cooperazione in-ternazionale.

Sotto questo profilo si nota una tendenza cre-scente alla cd. penalizzazione internazionale, sot-tolineata da molti autori.

8. Delitto politico commesso al-l’estero. – Il cittadino o lo straniero (3, 4), che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel n. 1 dell’articolo precedente, è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia (112, 128, 129; 10, 342 c.p.p.).

Se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa, occorre, oltre tale ri-chiesta, anche la querela (120-127; 336 ss. c.p.p.).

Agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto, che offende un inte-resse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino (48-54 Cost.). È al-tresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici (241 ss.).

1) delItto oggettIvamente e soggettIvamente po-lItIco

La norma in esame rappresenta una specifi-cazione della precedente disposizione, consen-tendo la punibilità di un delitto politico commesso all’estero. Secondo autorevole dottrina (Mantova-

ni), si tratta di una norma di chiusura dell’ordi-namento, come dimostra l’incipit di essa (delitto politico non compreso tra quelli indicati nel n. 1 dell’articolo precedente).

Tale possibilità di infliggere una punizione al cittadino o allo straniero responsabili di siffatti delitti è subordinata, alternativamente, ad una o a due condizioni: quando il reato è perseguibile d’ufficio, è necessaria e sufficiente la sola richie-sta del Ministro della giustizia; se, al contrario, si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa, è necessaria, oltre a questo primo atto, anche la querela della persona offesa.

La richiesta del Ministro è necessaria per un duplice ordine di motivi:

- occorre una valutazione di opportunità che ha carattere politico e, di conseguenza, non può non essere di competenza dell’autorità governa-tiva;

- la politicità della valutazione discende dal-la stessa natura degli interessi in gioco, dal mo-mento che il delitto politico rappresenta un reato contro lo Stato-persona.

Più concretamente, dalla stessa formula de-finitoria si individua una prima categoria (delitto oggettivamente politico o in senso oggettivo) che ricomprende fattispecie delineate con riferimen-to all’interesse oggetto di tutela criminale, cioè l’interesse all’unità ed integrità dello Stato, del popolo, del suo territorio, degli organi costituzio-nali e del loro regolare funzionamento (cd. Stato-ordinamento). Da tale classificazione rimangono estranee le strutture organizzative (Stato-appara-to) e di ordinamento sociale come anche l’auto-rità giudiziaria.

Delitto oggettivamente politico è, quindi, quello che offende un interesse politico dello Stato-istituzione, nelle forme sopra espresse.

A tale categoria si aggiungono, ai sensi del 3° comma della norma in esame, quelle ipotesi di reato che offendono un interesse politico del cittadino, cioè che comportano un vulnus ai suoi diritti di partecipazione alle regole democratiche (diritto di elettorato attivo e passivo, di associa-zione in partiti politici etc.). La norma di rife-rimento, per quest’ipotesi, è quella dettata dal-l’art. 294 (➠), che disciplina l’attentato ai diritti politici dei cittadini.

Per delitto soggettivamente politico si intende, invece, il delitto comune commesso per conse-guire scopi in tutto o in parte politici (Del Tufo).

La giurisprudenza ha vissuto momenti di no-tevole contrasto in ordine all’individuazione di questo concetto; in particolare, si è a lungo di-battuto in ordine al se il motivo sociale potesse essere identificato con quello politico e, inoltre, se motivo politico potesse individuarsi con riferi-mento ad atti di terrorismo (possibilità, quest’ul-

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tima, che è stata sempre, peraltro condivisibil-mente, esclusa dalla giurisprudenza).

La nozione di delitto politico, ai fini estradi-zionali, trova la sua definizione nel bilanciamento tra il valore insito nel principio costituzionale del rifiuto di consentire alla persecuzione del cittadino e dello straniero per motivi politici, e quello di tu-tela dei valori primari umani, pur consacrati nella carta costituzionale e gravemente offesi dai delitti di ispirazione politica (Cass., I, 17-2-1992).

9. Delitto comune del cittadino al-l’estero. – Il cittadino, che, fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti, commet-te in territorio estero un delitto per il quale la legge italiana stabilisce [la pena di morte (1) o] l’ergastolo (22), o la reclusione (23) non inferiore nel minimo a tre anni, è punito se-condo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato (42; 10 c.p.p.).

Se si tratta di delitto per il quale è stabi-lita una pena restrittiva della libertà perso-nale di minore durata, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia (128, 129; 342 c.p.p.), ovvero a istanza (130; 341 c.p.p.) o a querela (120-127; 336 ss. c.p.p.) della persona offesa.

Nei casi preveduti dalle disposizioni pre-cedenti, qualora si tratti di delitto commes-so a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero (2) o di uno straniero, il colpe-vole è punito a richiesta del Ministro del-la giustizia, sempre che l’estradizione (13; 697 ss. c.p.p.) di lui non sia stata concedu-ta, ovvero non sia stata accettata dal Gover-no dello Stato in cui egli ha commesso il delitto (112).

(1) La pena di morte per i delitti contemplati nel codice penale, è stata soppressa e sostituita con l’ergastolo dal D.L.vo Lgt. 10 agosto 1944, n. 224.

L’art. 27, ultimo comma, della Costituzione, così come modificato dall’art. 1 della L. cost. 2 ottobre 2007, n. 1, ha stabilito che non è ammessa la pena di morte.

Il D.L.vo 22 gennaio 1948, n. 21, ha soppresso la pena di morte per i delitti previsti da leggi penali speciali diverse da quelle militari, e l’art. 1 della L. 13 ottobre 1994, n. 589, ha abolito la pena di morte prevista dal codice penale milita-re di guerra e dalle leggi militari di guerra, sostituendola con la pena massima prevista dal codice penale.

(2) Le parole: «a danno di uno Stato estero», sono state so-stituite dalle attuali: «a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero» dall’art. 5 della L. 29 settembre 2000, n. 300.

1) un’ulterIore deroga al prIncIpIo dI terrItorIa-lItà

Anche quest’articolo rappresenta una dero-ga al principio di territorialità. A differenza dei precedenti, è però riferibile al solo cittadino, e non anche allo straniero. La norma prevede una condizione obiettiva di punibilità (➠ 44), rappre-sentata dalla presenza del cittadino sul territorio italiano (Mantovani, Pannain). Altri ritengono, al contrario, che questa sia una condizione di pro-cedibilità (Bettiol, Cordero, Padovani). La norma è espressione del principio di difesa, in un’acce-zione lievemente diversa da quella rinvenibile nei due articoli precedenti: in effetti, con detta disposizione si vuole evitare che il cittadino ita-liano - dopo aver commesso un reato all’estero - venga a cercare rifugio sul nostro territorio. Non è estraneo agli scopi della norma l’ulteriore fine di garantire ai cittadini italiani la possibilità (ed allo Stato il corrispondente diritto attivo) di es-sere giudicati dai tribunali italiani anche quando commettano reati all’estero (Mantovani).

Secondo altri (Padovani), invece, la disposi-zione è espressione del principio di personalità attiva. La norma non prevede, quale condizione di procedibilità, la necessità della doppia incri-minabilità che invece è requisito tipico di tutte le procedure estradizionali. Ciò nonostante, parte della dottrina (Grispigni) ritiene che tale requisito sia necessario, ed in questo senso depone anche la Relazione ministeriale al codice penale.

Il 2° comma prevede, per la concreta punibi-lità di reati meno gravi - quelli puniti con pena detentiva inferiore a tre anni - l’attivazione del Ministro della giustizia.

Quanto a quest’ultimo intervento, la parte maggioritaria della dottrina ritiene che esso ab-bia natura amministrativa e, dunque, ammette che il Ministro possa delegare al direttore genera-le della giustizia le rispettive competenze in casi particolari e specifici (D’Ambrosio).

Altri (Marini) ritengono, al contrario, che l’at-to abbia esclusivamente natura politica e che non sia conseguentemente delegabile.

Il 3° comma, stabilendo che, in casi deter-minati, l’intervento punitivo del giudice italiano è solo eventuale e subordinato alla condizione negativa del fallimento della procedura estradi-zionale, si pone evidentemente quale norma re-siduale.

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Tra le pronunce più importanti relativamente a questa disposizione va ricordata quella resa dal-la Corte di Cassazione nei confronti dell’imputa-to buscetta (sent. 192-1978), che ha delineato in modo approfondito i contorni della disposizione de qua.

10. Delitto comune dello straniero all’estero. – Lo straniero, che, fuori dei casi indicati negli articoli 7 e 8, commette in territorio estero, a danno dello Stato o di un cittadino, un delitto per il quale la leg-ge italiana stabilisce [la pena di morte (1) o] l’ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a un anno, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel ter-ritorio dello Stato (42), e vi sia richiesta del Ministro della giustizia (112; 128, 129; 342 c.p.p.), ovvero istanza (130; 341 c.p.p.) o querela (120-127; 336 ss. c.p.p.) della per-sona offesa.

Se il delitto è commesso a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero o di uno straniero, il colpevole è punito secon-do la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia (112, 128, 129), sempre che:

1) si trovi nel territorio dello Stato (42, 1282);

2) si tratti di delitto per il quale è stabi-lita la pena [di morte (1) o] dell’ergastolo, ovvero della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni;

3) l’estradizione (13; 697 ss. c.p.p.) di lui non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto, o da quello dello Stato a cui egli appartiene.

(1) Si veda la nota 1 sub art. 9.

1) dIfferenze rIspetto all’art. 9La disposizione in commento rende punibile

il reato commesso da uno straniero all’estero, ri-proponendo le condizioni previste al 1° comma dell’art. 9. Tuttavia, ai fini della concreta puni-bilità, sono aggiunte tre ulteriori condizioni, non previste dalla disposizione precedente: anzitut-to, la richiesta della parte pubblica o privata (in

quest’ultimo caso l’atto di impulso viene definito “istanza”) e/o la querela di quest’ultima; inoltre, è richiesto un minimum edittale ai fini della con-creta punibilità del fatto (deve trattarsi di reato per il quale la legge italiana prevede la pena del-l’ergastolo o una pena non inferiore ad un anno). Infine, deve trattarsi di reato commesso in danno di cittadino italiano o dello Stato italiano.

Analoga a quella dell’articolo precedente è la ratio della previsione in commento: evitare che il territorio italiano divenga terra d’asilo per soggetti che abbiano commesso reati nel nostro territorio.

La norma prevede una diversa disciplina a seconda che il soggetto passivo del reato sia lo Stato o il cittadino italiano o uno Stato o un cit-tadino straniero.

In relazione alla nota vicenda del Dirigente del Sismi, dr. Nicola Callipari, assassinato a Ba-ghdad nel marzo del 2005 ad un posto di blocco dell’esercito americano, subito dopo aver otte-nuto la liberazione della giornalista italiana Giu-liana Sgrena, rapita qualche mese prima nella capitale irachena, la Cassazione ha ritenuto non sussistente la giurisdizione penale dello Stato italiano né di quello iracheno, non ricorrendo, nel fatto contestato, “né le caratteristiche proprie della grave violazione del diritto internazionale umanitario…..nè quelle di un crimine contro l’umanità o crimine di guerra… ritenendo perciò sussistente la sola giurisdizione esclusiva degli Stati Uniti d’America”. In sostanza così esclu-dendo che questa fattispecie, fosse inquadrabile in alcuna delle ipotesi previste dall’articolo 10 del codice penale. Vedasi: Cass. pen., sez. I, 19 giugno 2008, n. 31171.

11. Rinnovamento del giudizio. – Nel caso indicato nell’art. 6, il cittadino o lo straniero è giudicato nello Stato, anche se sia stato giudicato all’estero (138, 201; 730 ss. c.p.p.).

Nei casi indicati negli articoli 7, 8, 9 e 10, il cittadino o lo straniero, che sia sta-to giudicato all’estero, è giudicato nuova-mente nello Stato, qualora il Ministro della giustizia ne faccia richiesta (128, 129; 342 c.p.p.).

1) reatI commessI In ItalIa e reatI commessI al-l’estero

Al nostro diritto penale non interessa che, nel caso abbiano commesso i reati elencati dagli ar-ticoli precedenti, il cittadino o lo straniero siano

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già stati processati all’estero. In applicazione del sopra ricordato principio di difesa, infatti, v’è la possibilità di sottoporli a nuovo giudizio.

Tuttavia, il principio di difesa, completa-to da quello di territorialità, consente, per i soli reati commessi sul territorio italiano, la rinnova-zione del giudizio senza alcuna ulteriore condi-zione. Quando, invece, si tratti di reati commessi all’estero - rientranti nella previsione degli artt. 7-10 - occorre, per la rinnovazione del giudizio, la richiesta del Ministro della giustizia, ossia l’at-to politico.

La norma va coordinata con l’art. 649 c.p.p. (che disciplina il cd. ne bis in idem processuale) e con l’art. 138 c.p.: il combinato disposto di queste due disposizioni consente al condannato che, per quel medesimo fatto, abbia già sconta-to parte della pena all’estero, di detrarre questo periodo di carcerazione dalla durata della pena inflittagli dal giudice italiano, a seguito della rin-novazione.

2) trIbunalI InternazIonalI e convenzIone dI schengen

La giurisprudenza ha chiarito che la norma in commento, per il divieto di analogia in ma-lam partem, non si applica nel caso di sentenze emesse dai tribunali internazionali, i cui giudizi non sono pertanto rinnovabili.

Inoltre, la Convenzione di Schengen del 19-61990, all’art. 54, prevede che una persona giu-dicata con sentenza definitiva in uno dei paesi contraenti - a condizione che la pena sia ese-guita - non può essere sottoposta ad un ulteriore procedimento penale in un altro degli Stati con-traenti. Su questa disposizione è recentemente intervenuta una sentenza della Corte di giustizia della Comunità Europea (11-2-2003), che ha ri-solto in senso positivo la questione relativa al se anche un decreto di archiviazione (dunque non una sentenza) sia idoneo a far scattare il princi-pio del ne bis in idem previsto da questa norma.

12. Riconoscimento delle sentenze penali straniere. – Alla sentenza penale straniera pronunciata per un delitto può es-sere dato riconoscimento (730 ss. c.p.p.):

1) per stabilire la recidiva (99 ss.) o un altro effetto penale della condanna, ovve-ro per dichiarare l’abitualità (102-104) o la professionalità (105) nel reato o la tendenza a delinquere (108, 109);

2) quando la condanna importerebbe, secondo la legge italiana, una pena acces-soria (28 ss.);

3) quando, secondo la legge italiana, si dovrebbe sottoporre la persona condannata o prosciolta, che si trova nel territorio dello Stato (42), a misure di sicurezza personali (199 ss., 215 ss.);

4) quando la sentenza straniera porta condanna alle restituzioni o al risarcimento del danno (185 ss.; 2043 c.c.), ovvero deve, comunque, esser fatta valere in giudizio nel territorio dello Stato, agli effetti delle resti-tuzioni o del risarcimento del danno, o ad altri effetti civili (185-198).

Per farsi luogo al riconoscimento, la sentenza deve essere stata pronunciata dal-l’Autorità giudiziaria di uno Stato estero col quale esiste trattato di estradizione. Se que-sto non esiste, la sentenza estera può esse-re ugualmente ammessa a riconoscimento nello Stato, qualora il Ministro della giu-stizia ne faccia richiesta (128, 129; 342 c.p.p.). Tale richiesta non occorre se viene fatta istanza per il riconoscimento agli ef-fetti indicati nel n. 4 (730 ss. c.p.p.).

1) I casI dI rIconoscIbIlItà della sentenza stranIeraIl principio di obbligatorietà della legge

penale impedisce che la pena principale inflitta dalla sentenza straniera possa essere oggetto di riconoscimento, e quindi di esecuzione sul no-stro territorio. Tuttavia, per taluni limitati effetti ed a determinate condizioni - procedurali e so-stanziali -, alla sentenza straniera, ai sensi di questa norma, può essere attribuita efficacia parziale nel nostro ordinamento. Ciò accade, in primo luogo, quando dal riconoscimento della sentenza possano trarsi indici relativi alla perico-losità del soggetto condannato (la sentenza, cioè, può essere riconosciuta se contiene elementi dai quali desumere recidiva, abitualità, professiona-lità e tendenza a delinquere dell’imputato).

Inoltre, è riconosciuta, sempre a scopo gene-ralpreventivo, la sentenza di assoluzione del giu-dice straniero, quando, secondo la legge italiana, ad essa sarebbe conseguita l’applicazione di una pena accessoria o di una misura di sicurezza nei confronti dell’imputato (per esempio, assoluzio-ne per inidoneità dell’azione ex art. 49. Sulle mi-sure di sicurezza, ➠ 199 e ss.).

La sentenza straniera può, ancora, essere ri-conosciuta a fini civilistici per consentire alla per-

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sona offesa - cioè alla vittima del reato - di far valere le sue pretese in un giudizio civile.

Un’ulteriore ipotesi di riconoscimento è poi prevista dall’art. 771bis c.p.p.

2) condIzIonI per Il rIconoscImentoVi sono condizioni formali e procedurali im-

poste dalla legge per consentire il riconoscimen-to (e quindi l’esecuzione), ancorché parziale, delle sentenze straniere.

La prima è che l’atto da riconoscere sia, ap-punto, una sentenza, cioè un provvedimento giuri-sdizionale motivato emesso da un’autorità giudi-ziaria. Esso deve presentare una serie di ulteriori requisiti ex art. 733 c.p.p. (si deve trattare di sen-tenza passata in giudicato, deve essere un atto che interviene all’esito di un procedimento nel quale sia stato garantito il diritto di difesa etc.).

In secondo luogo, deve esistere un trattato di estradizione con il paese al quale appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento. In man-canza, occorre un’esplicita richiesta del Ministro

della giustizia, salvo si richieda il riconoscimento a soli scopi civilistici.

Competente ad emettere la relativa senten-za è la Corte d’appello del distretto del casellario giudiziario nel quale la sentenza andrà iscritta. Il provvedimento del giudice ha natura costitutiva.

Si è a lungo discusso sul se l’eventuale estin-zione del reato - in particolare l’amnistia - pro-nunciata in Italia o all’estero impedisca il ricono-scimento della sentenza.

L’opinione prevalente ritiene che ciò non osta-coli il riconoscimento, ad eccezione dell’ipotesi in cui il provvedimento estintivo travolga, oltre alla condanna, anche tutti gli altri effetti penali, poiché, in quest’ultima ipotesi, non sarebbe più praticabile, evidentemente, il riconoscimento di-sciplinato da quest’istituto proprio per l’efficacia estintiva generalizzata così azionata.

Il procedimento da seguire, nel rispetto del contraddittorio, è quello dettato dall’art.127 c.p.p. in tema vedere Cass. pen., sez. IV, 16 di-cembre 2008, n. 4130.

Mai oggetto di ricoscimento

•riconosciuti sempre in presenzadi una richiesta e se lo Stato chel’ha emessa ha stipulato un trat-tato di estradizione•in assenza di un trattato di estradi-zione, riconosciuti solo su richiestadel Ministro della giustizia

Riconosciuti sempre anche in as-senza di trattato di estradizione e ri-chiesta del Ministro della giustizia

Riconosciuta solo quando impone, ai sensi della leggeitaliana, l’applicazione di una misura di sicurezza epurché sussista un trattato di estradizione o la richiestadel Ministro della giustizia

Effetti civili

Condanna principale

Effetti accessori (abi-tualità, professionali-tà etc.)

SENTENZASTRANIERA

DI CONDANNA

SENTENZASTRANIERA DIASSOLUZIONE

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