Choices: Path of Blood

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«È una storia da non raccontare, è una storia un poco scontata. È una storia sbagliata». Fabrizio De Andrè, Una Storia Sbagliata CHOICES: PATH OF BLOOD Quando fai una scelta, essa determina tutto ciò che avviene dopo. È il caso di questa storia, una storia diversa da quella che tutti conoscono. E come tutte le storie degne di nota, nasce dal sangue. SECTUMSEMPRA ~ a deep cut ~ «It will have blood, they say. Blood will have blood» William Shakespeare, Macbeth Nel momento in cui l’incantesimo lo colpì, aprendo larghi squarci sul suo torace, le gambe gli cedettero e lui cadde a terra, il volto deformato in un rictus di dolore indicibile. A ben guardare, quella smorfia orribile, poteva nascondere qualsiasi cosa. Anche un sorriso. Perse i sensi, lasciando che il grido agghiacciante che gli feriva le orecchie venisse inghiottito dal silenzio assordante dell’incoscienza. Harry Potter si torse con apprensione la cravatta, accartocciandosi nel pugno lo stemma di Gryffindor, mentre guardava l’acqua che allagava il bagno colorarsi di rosso cupo. Molteplici pensieri gli affollarono la mente: non ultimo, il fatto che il proprietario di quel sangue era solo Malfoy, e che tutto sommato avrebbe anche potuto lasciarlo lì. Era una considerazione decisamente poco Gryffindor, che lo indusse in breve tempo a vergognarsi non poco di sé. Rimaneva comunque il fatto che, se avesse chiamato un professore, avrebbe dovuto rispondere a una serie di inquietanti interrogativi, che lo avrebbero indubbiamente messo in una situazione molto delicata. Delicata era un eufemismo. Il suo cervello tentò di trovare una giustificazione valida al fatto che il suo acerrimo rivale si trovasse, agonizzante e in preda ad un’emorragia, sul pavimento di un bagno nel quale evidentemente c’erano soltanto loro due.

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Dramione fanfiction

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«È una storia da non raccontare,è una storia un poco scontata.

È una storia sbagliata».

Fabrizio De Andrè, Una Storia Sbagliata

CHOICES: PATH OF BLOOD

Quando fai una scelta, essa determina tutto ciò che avviene dopo.È il caso di questa storia, una storia diversa da quella che tutti conoscono.

E come tutte le storie degne di nota, nasce dal sangue.

SECTUMSEMPRA~ a d e e p c u t ~

«It wil l have blood, they say.Blood wil l have blood»

Will iam Shakespeare, Macbeth

Nel momento in cui l’incantesimo lo colpì, aprendo larghi squarci sul suo torace, le gambe gli cedettero e lui cadde a terra, il volto deformato in un rictus di dolore indicibile. A ben guardare, quella smorfia orribile, poteva nascondere qualsiasi cosa.

Anche un sorriso.

Perse i sensi, lasciando che il grido agghiacciante che gli feriva le orecchie venisse inghiottito dal silenzio assordante dell’incoscienza.

Harry Potter si torse con apprensione la cravatta, accartocciandosi nel pugno lo stemma di Gryffindor, mentre guardava l’acqua che allagava il bagno colorarsi di rosso cupo. Molteplici pensieri gli affollarono la mente: non ultimo, il fatto che il proprietario di quel sangue era solo Malfoy, e che tutto sommato avrebbe anche potuto lasciarlo lì. Era una considerazione decisamente poco Gryffindor, che lo indusse in breve tempo a vergognarsi non poco di sé. Rimaneva comunque il fatto che, se avesse chiamato un professore, avrebbe dovuto rispondere a una serie di inquietanti interrogativi, che lo avrebbero indubbiamente messo in una situazione molto delicata.

Delicata era un eufemismo.

Il suo cervello tentò di trovare una giustificazione valida al fatto che il suo acerrimo rivale si trovasse, agonizzante e in preda ad un’emorragia, sul pavimento di un bagno nel quale evidentemente c’erano soltanto loro due.

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“Assassinio!” stridette una voce acuta, assordante, alle sue spalle. “Assassinio nel bagno! Assassinio! ”.

No, rammentò Harry maledicendo la propria sfortuna. Non c’erano solo loro due, c’era anche lei.

Mirtilla Malcontenta.

Analizzò rapidamente quante possibilità aveva di far ricadere la colpa sul fantasma di una ragazzina particolarmente petulante “ e particolarmente morta “ ma quel che ne risultò fu piuttosto ovvio. Per quanto i professori tendessero ad ignorare le chiacchiere di Mirtilla, in quel caso avrebbero sicuramente fatto un’eccezione data la mancanza di testimoni viventi, e lui, Harry Potter, il ragazzo sopravvissuto, il paladino del bene su cui tutti contavano per liberare il mondo dalla terribile minaccia di Voldemort sarebbe finito ad Azkaban per utilizzo improprio di magia oscura. Lui. Non Malfoy, che probabilmente era un Mangiamorte.

Occhieggiò distrattamente l’avambraccio sinistro del prefetto di Slytherin, coperto dalla manica della camicia, intinta del sangue del suo proprietario.

Il sangue che macchiava inesorabilmente anche le sue mani.

In preda al panico - e ad una buona dose di sensi di colpa - Harry prese l’unica decisione possibile: doveva chiamare aiuto. Esclusi i Professori, il cui coinvolgimento avrebbe portato di certo effetti indesiderati, dovette a malincuore scartare anche l’ipotesi di chiedere aiuto a Silente, perché avrebbe dato decisamente nell’occhio se fosse penetrato nell’ufficio del Preside con al seguito uno Slytherin insanguinato e semi cosciente. Inoltre c’era la possibilità che il Preside non fosse solo, nello studio, e lui non poteva concedersi di aspettare. Se avesse avuto il Mantello dell’Invisibilità con sé, forse ci avrebbe provato, ma il prezioso indumento era al sicuro nel suo baule: a ben pensarci comunque, avrebbe potuto non essere una così grande idea. Malfoy sanguinava abbondantemente, avrebbe lasciato tracce ovunque: il ragazzo immaginò il panico serpeggiare tra tutti gli studenti di Hogwarts e le nefaste profezie che la Cooman ne avrebbe tratto, se si fosse saputo che Harry Potter lasciava dietro di sé una sinistra scia di macchie scarlatte.

Dunque, restava solo una possibile soluzione, che avrebbe disperatamente voluto evitare se non altro per risparmiarsi le occhiate di disapprovazione che, senza ombra di dubbio, gli sarebbe toccato sopportare se l’avesse adottata.

D’altra parte, era la sua unica possibilità di cavarsela.

Harry Potter prese fiato e corse a rotta di collo verso la Torre di Gryffindor.

Pregando che a nessuno importasse delle urla di Mirtilla Malcontenta.

Hermione era china su un foglio di pergamena e prendeva diligentemente appunti dal libro di Aritmanzia che teneva aperto sul tavolo davanti a sé; era così concentrata sulla definizione che stava trascrivendo che a malapena si accorse del rumore prodotto dal ritratto della Signora Grassa che si spostava più speditamente e più forzatamente del solito per permettere l’accesso alla Sala Comune rosso oro. Quando però si accorse del respiro trafelato che le aleggiava sul collo, si voltò di scatto con la bacchetta in mano e vide, con suo sommo stupore, Harry Potter che indietreggiava con la faccia stravolta.

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“Harry, accidenti” lo rimproverò, posando la bacchetta sul libro. “Mi hai fatto prendere un colpo. Pensavo fosse…”.

“Fa niente, Hermione, senti… dov’è Ron?”.“Ma… non lo so Harry. Con Lavanda penso, sembra che non voglia lasciarlo stare”

rispose lei, stizzita. “Okay, benissimo. Vieni” Harry la afferrò per la manica della divisa e cominciò a tirare. “Harry, sto studiando…” protestò lei, alterata.“È urgente”.“Al diavolo” Hermione si divincolò dalla presa di Harry e si portò i pugni chiusi sui

fianchi. “Se tu pensi che io…”.“Hermione, ho bisogno di aiuto, lo capisci?” il ragazzo assunse un’espressione disperata.

“Non ti coinvolgerei mai se non fosse strettamente necessario, ma sei la mia unica speranza!”.

“Harry…” Hermione lo fissò allarmata. “Che hai combinato…?”.“Mi serve una mano e mi serve subito. Mi aiuterai? “ le domandò Harry con voce

supplichevole.

Di fronte all’aria affranta del suo amico e alla nota di urgenza percepibile nelle sue richieste, Hermione aveva una sola risposta.

“E va bene. Dove?”.“Nel bagno dei ragazzi, al sesto piano. Comincia ad andare intanto” la esortò,

visibilmente sollevato. “Vado a prendere una cosa nella mia stanza e ti raggiungo”.

Nel bagno dei ragazzi. Hermione corrugò la fronte, preoccupata, esaminando le varie ipotesi che affollavano la sua mente: era possibile, si chiese, che appena Harry veniva lasciato a se stesso, finisse subito per combinare qualcosa di più grande di lui, da cui non riusciva a districarsi? Rimpianse per qualche istante che il suo amico non avesse trovato Ron, al suo posto. Ma forse Harry non cercava Ron, e anche in quel caso, rammentò a se stessa, sarebbe stato comunque improbabile che lei non venisse, in qualche modo, coinvolta. Era la realtà dei fatti: finiva per rimanere invischiata nelle faccende di quei due, persino quando loro desideravano tenerla all’oscuro.

Percorse i corridoi, ignorando gli studenti più piccoli che la guardavano intimoriti, scansandosi di lato al suo passaggio. Sapeva cosa pensavano: meglio non incrociare la strada di un Prefetto, specie se era un Prefetto evidentemente agitato. Di norma, Hermione cercava di sorridere loro gentilmente, per incoraggiarli a pensare a lei come un aiuto e non come una minaccia incombente, ma in quel caso fu lieta che non la fermassero per parlarle e si limitassero ad appiattirsi contro il muro.

Hermione salì le scale, mentre il cuore le batteva furiosamente. Udì dei passi dietro di sé e si girò bruscamente a guardare: per la seconda volta in pochi minuti, si ritrovò a guardare Harry che la scrutava intimorito.

“Scusa. Sono un fascio di nervi” si giustificò la ragazza, riprendendo a camminare.“È per la storia di Ron e Lav Lav?” domandò Harry, con una punta d’insolenza.“No” ribatté lei, angelica. “È perché il mio migliore amico ne ha combinata una delle sue

e ora mi sta trascinando in un bagno in modo che io possa rimediare”.“Scusa” biascicò il ragazzo, avendo il buon gusto di arrossire. “Vuoi dirmi cos’è successo?” sibilò Hermione a denti stretti.

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“Ho seguito Malfoy. Ho visto la sua posizione sulla Mappa del Malandrino e…” il ragazzo sbatté le palpebre e si passò una mano nel cespuglio indomabile di capelli scuri.

“E dov’era?”.“In bagno, no?” .

Hermione non riuscì a trattenere un verso di disapprovazione.

“Harry, con tutto il rispetto per il tuo intuito” commentò, allentandosi la cravatta, “cosa c’è di strano se uno studente maschio va nel bagno dei ragazzi?”.

Harry sbuffò.

“Non mi stai trascinando là per niente, vero?” domandò, infondendo nella domanda una sottile vena di minaccia.

“Hermione… è davvero urgente, io… ” il ragazzo deglutì. “Credo di aver…”.

Hermione lo bloccò.

“Chi è che sta urlando? ”.“Mirtilla Malcontenta” Harry fece una smorfia.“Ma che cos’ha da strepitare tanto?” la fanciulla si passò una mano sulla fronte,

accusando un principio di emicrania.

Harry scosse la testa e ad Hermione parve che stesse evitando il suo sguardo.

Stava decisamente evitando il suo sguardo, considerò Hermione, sempre più corrucciata, procedendo spedita verso il bagno incriminato. Il rumore dei suoi passi le sembrò quantomai inconsueto e abbassò istintivamente gli occhi sul pavimento, dove il motivo si palesò immediatamente ai suoi occhi stupefatti. Un rigagnolo d’acqua sporca fuoriusciva dal bagno, insozzando il pavimento e bagnandole le scarpe. Si voltò di nuovo a guardare Harry, lanciando strali minacciosi dagli occhi castani.

“Harry, sono qui perché hai allagato il bagno?” lo interpellò, lasciando trasparire tutto il suo fastidio.

Il ragazzo rimase in silenzio e continuò a camminare, fissando ansiosamente l’ingresso del bagno. Sulla soglia c’era Mirtilla, che lanciava grida assordanti: appena il fantasma vide Harry, gli puntò immediatamente contro un dito accusatore.

“Tu! L’hai ucciso! Era così bello…” disse lo spettro, passando in un battibaleno da un tono tragico ad uno incredibilmente trasognato.

“Mirtilla, smettila di fare tutta questa cagnara” ringhiò Harry sottovoce, guardandosi attorno circospetto. “ Non l’ho mica ammazzato per davvero. Almeno, spero “.

“Harry… ” Hermione prese fiato, prima di dare libero sfogo alla domanda che le era venuta alle labbra, “ ...chi, esattamente, speri di non aver ammazzato?”.

Non ci fu bisogno che Harry le rispondesse, dato che ormai avevano raggiunto l’ingresso della stanza. Hermione abbassò nuovamente gli occhi sul pavimento di marmo, seguendo la direzione indicata dal braccio spettrale di Mirtilla e, attraverso il velo distorto del suo corpo traslucido, vide. Il volto le si congelò in una smorfia di orrore.

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All’improvviso, ogni considerazione su chi fosse il proprietario di quel corpo martoriato o di quale colore fosse la cravatta attorno al suo collo divenne inconsistente e banale. Era solo un ragazzo, un ragazzo come lei e vederlo esanime, riverso nel proprio sangue, con le labbra appena schiuse e il respiro affaticato e i capelli biondi che andavano inzuppandosi di rosso cupo, le mozzò il fiato e le strinse il cuore in una morsa crudele. Istintivamente, corse in avanti e s’inginocchiò di fianco a lui.

“Così ti macchierai la divisa!” era stata Mirtilla a parlare, con quella sua vocetta acuta e fastidiosa.

“Chiudi il becco, tu. Harry, mi devi delle spiegazioni” commentò recisamente Hermione, china sul corpo del ragazzo privo di conoscenza.

“Hermione, dobbiamo portarlo via di qui. Senza farci scoprire!” Harry la fissò, disperato.

“Davvero? E come pensavi di fare? “ lo rimbeccò lei, su tutte le furie. “ Sta praticamente morendo dissanguato. Perché non hai chiamato nessuno? “.

“Hermione, non sta morendo, è… ah… solo un taglietto” il ragazzo distolse lo sguardo pieno di vergogna.

“Solo un taglietto? Oh, Harry…” Hermione si prese la testa tra le mani. “Va bene, va bene. Con calma” inspirò, cercando di recuperare un briciolo di concentrazione. “ Fa’ la guardia. Io cerco di rimediare a questo disastro”.

“Va bene, Hermione. Grazie!” la voce di Harry era ricolma di gratitudine.

Curiosamente, quella constatazione non la spinse a sorridere. Chinò il capo, per nascondere il risentimento che lui le avrebbe letto negli occhi, se solo l’avesse guardata in viso.

Provò una strana soggezione nel sollevare la testa del ragazzo per posarsela in grembo, un disagio forse originato dal disprezzo che lui aveva sempre ostentato nei suoi confronti. Gli scostò i capelli sporchi e sudati dalla fronte e inspirò profondamente. Lui era bollente, o forse erano le sue mani ad essere ghiacciate. Non aveva importanza.

Gli allentò la cravatta e la sfilò, molto lentamente, poi prese a slacciargli la camicia, bottone dopo bottone, mettendogli a nudo il torace, che era solcato da ferite profonde ma, per fortuna, pulite; in quei punti, il rosso del sangue spiccava nettissimo in contrasto con la pelle diafana. Hermione inghiottì nervosamente la saliva.

“Mobilicorpus!” disse poi, puntando la bacchetta.

Il corpo di Malfoy si sollevò, lentamente, a mezz’aria, permettendole di sfilargli agevolmente la camicia, che gettò distrattamente in un angolo, per poi sollevare nuovamente la bacchetta.

“Ferula!” pronunciò questa volta, facendo apparire il necessario per il primo soccorso. Ad un suo ulteriore cenno, le bende si svolsero in spire, sollevandosi per aria come bizzarri serpenti albini e si avvilupparono saldamente attorno al busto del Prefetto di Slytherin, contenendo l’emorragia.

“Ora, come pensavi di portarlo fuori da qui?” domandò ad Harry, che stava ancora sorvegliando l’uscita.

“Ho il Mantello. Se glielo buttiamo sopra e… ”.“Sì, va bene, Harry. Ho capito tutto” annuì con un cenno del capo. “ Dove lo portiamo?”.

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Harry sbatté le palpebre, sorpreso.

“Ah. Oh” balbettò. “Non… non lo so, nel suo dormitorio?”.“Harry, a parte che difficilmente riusciremmo ad entrare nel dormitorio di Slytherin

senza la parola d’ordine, pensi che possiamo semplicemente… depositarlo lì come se fosse un pacco regalo?” domandò la ragazza, critica.

“No” il ragazzo si appoggiò allo stipite della porta, con i pugni contratti. “Accidenti al Principe”.

“Hai usato uno degli incantesimi di quel libro! Oh, Harry, te l’avevo detto… ”.“Lo so, Hermione, lo so. Aiutami, ti prego e ti prometto che ti permetterò di

rimproverarmi fino alla fine dei miei giorni” le si rivolse supplichevole e questa volta l’affetto che lei provava per lui ebbe il sopravvento. Hermione inspirò profondamente, annuendo.

“E va bene. C’è un unico posto dove possiamo portarlo, sperando che si riprenda in fretta” considerò la Gryffindor. “La Stamberga Strillante”.

Harry si illuminò.

“Va bene, allora, stendigli sopra il Mantello” lo esortò, prendendo la camicia e la cravatta verde argento appallottolate in un angolo. “Aspetta” posò gli indumenti sul petto del ragazzo, in modo che rimanessero nascosti dal Mantello anch’essi.

“Lo porto subito…” la rassicurò Harry diligente, coprendo il corpo di Malfoy, che divenne immediatamente invisibile, ma lei scosse la testa.

“Io lo porto. Tu dammi la mappa” gli ingiunse, sottolineando l’ordine con un gesto esplicativo della mano, “e pulisci questo disastro. È il minimo” si puntò addosso la bacchetta e sospirò. “Gratta e Netta!”.

Uscì cautamente dal bagno, tenendo tra le dita un lembo di stoffa del Mantello per evitare di far sbattere il corpo di Malfoy contro muri e spigoli, che avrebbero senz’altro peggiorato la situazione già precaria della sua salute.

Maledisse mentalmente Harry, senza il quale probabilmente non avrebbe neppure lontanamente dovuto curarsi delle condizioni fisiche - né mentali, se per questo - del ragazzo che da sei anni la trattava alla stregua della peggior feccia. Eppure, Hermione Granger era capace di provare compassione anche per i nemici. Altrimenti non si spiegava quella sensazione di vuoto, quel peso sul torace che l’aveva colta alla vista del sangue - indubbiamente purissimo, ma rosso quanto il suo - del ragazzo steso sul pavimento.

Immersa in quelle considerazioni, scese cautamente le scale, controllando di tanto in tanto che il sangue, che doveva ormai aver impregnato le bende, non gocciolasse sul pavimento, macchiando i gradini di pietra. Ma la fasciatura sembrava resistere e sebbene quegli scalini non le fossero mai sembrati così tanti, arrivò in fondo senza grosse difficoltà.

Era quasi giunta al portone principale quando un vociare confuso attirò la sua attenzione, costringendola a ripararsi all’ombra della rampa di scale, trattenendo il respiro. Il rumore di passi nel frattempo aveva raggiunto l’atrio.

“Non mi stai neppure ascoltando” si lagnò una voce femminile.

Due ombre - un ragazzo alto e massiccio e la sua compagna, la proprietaria della voce - la oltrepassarono, proiettandosi sulla parete di pietra.

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“Tu esageri” bofonchiò il ragazzo, in risposta alle accuse che gli erano appena state rivolte. Hermione, dietro la scala, trasalì ascoltando quel suono familiare.

“Esagero, sì? Io sono venuta per te e tu non sai far altro che parlare di lei” replicò la ragazza, sull’orlo delle lacrime.

Qualcosa nella nota dolente di quelle parole spinse Hermione a gettare uno sguardo sopra la balaustra di marmo. Mise a fuoco la schiena del ragazzo, il dorso della mano, ricoperto di lentiggini, immerso nella folta chioma rosso chiaro. Ron - che fosse lui l’aveva capito subito, forse ancora prima che parlasse, da come si stagliava la sua ombra sulla parete grigia - si strinse nelle spalle e crollò il capo, miseramente.

“Cos’ha lei che io non ho? Cos’è che ti piace così tanto?” lo incalzò la sua interlocutrice, avanzando. Nel farlo, uscì parzialmente dall’ombra di lui, quel tanto che bastava perché Hermione potesse notare i boccoli biondi e luminosi che le ricadevano sulla spalla. Del resto, una volta saputo chi era lui, anche l’identità di lei diventava improvvisamente chiara.

Il Re aveva lasciato la sua ragazza e lei non l’aveva presa molto bene. Un pettegolezzo che divertiva il dormitorio di Gryffindor da quando aveva cominciato a circolare. Non aveva divertito lei, naturalmente, e neppure Lavanda, che aveva iniziato a guardarla con crescente ostilità. Non che le importasse - meno che mai in quel momento, quando il suo unico pensiero martellante era quello del corpo invisibile che le fluttuava di fianco - ma sperava che la facessero finita in fretta. E, a proposito di farla finita, quanto ci avrebbero messo quei due a chiudere la conversazione e a togliersi di torno? Hermione sbirciò nervosa il pavimento, sicura di trovarlo macchiato di sangue, ma la pietra grigia era asciutta e l’alone che in taluni punti la scuriva non era altro che la sua ombra proiettata.

Sbuffando, si arrischiò a dare un’altra occhiata ai due contendenti. Lavanda fissava Ron con le mani sui fianchi, leggermente protesa verso di lui, alla ricerca di una risposta. Il ragazzo fece nuovamente spallucce e le voltò la schiena, avviandosi su per le scale, inseguito dalle sue urla.

C’era qualcosa di penoso in quegli strepiti, pensò Hermione sgattaiolando fuori dal portone, qualcosa che metteva a disagio anche lei, mentre attraversava il giardino stringendo convulsamente tra le dita la stoffa del mantello.

Nella Stamberga Strillante tutto era uguale a come lei lo rammentava: il letto a baldacchino, che ora ospitava il corpo esanime di Malfoy, troneggiava in mezzo alla stanza al piano superiore. Hermione si chinò su di esso, rimuovendo gli abiti del ragazzo per controllare la fasciatura. Le bende, che erano state candide una manciata di minuti prima, erano scarlatte e impregnate di sangue.

La ragazza scorse velocemente le proprie conoscenze di medimagia, rendendosi improvvisamente conto di non avere idea di che incantesimo avesse utilizzato Harry e di quali fossero i suoi effetti.

Eccetto quelli evidenti, naturalmente: tutto quel rosso che riempiva gli occhi, la ferita aperta e sanguinante che solcava il torace del ragazzo.

“Devo fare qualcosa,” mormorò, parlando all’aria.

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Afferrò il Mantello dell’Invisibilità di Harry, che giaceva ai piedi del letto assieme alla cravatta verde argento e alla camicia zuppa e ormai inutilizzabile, e lo indossò.

Dopo un’ultima occhiata ansiosa in direzione del giaciglio, scivolò lentamente fuori dalla stanza, coperta dal Mantello che la celava ad eventuali occhi indiscreti e si diresse ad Hogwarts, per una visita ai sotterranei, dove si trovava la scorta personale del professor Piton.

Severus sbatté il pugno sulla scrivania, con forza, facendo ondeggiare l’austera veste nera che indossava. Il calamaio di fianco alla sua mano chiusa si rovesciò, spargendo sul foglio bianco un fiume d’inchiostro rosso, che si diramava in rivoli dai riflessi sanguinolenti. Lui lo contemplò rapito, come di fronte ad un presagio e si riempì i polmoni, cercando di ritrovare la calma perduta. L’aria della stanza gli inaridì la gola infiammata, ma il tremito quasi impercettibile che aveva scosso le sue dita fino a poco prima si acquietò.

“Lei deve fare qualcosa, Silente” disse, ancora chino sulla cattedra.“Comprendo la tua apprensione, Severus” l’anziano mago si schiarì la voce e prese a

giocherellare con la penna d’oca che giaceva di fronte al calamaio rovesciato. “Tuttavia sai bene che non posso agire diversamente”.

“È solo un ragazzo” obiettò debolmente Severus, “non c’è modo di tenerlo fuori da questa faccenda?”.

“Sono tutti dei ragazzi. Il giovane Malfoy, Harry Potter e i suoi amici. Tutti quanti” Silente si strinse nelle spalle, evitando improvvisamente lo sguardo del suo interlocutore, al quale parve di intravedere un luccichio insolito negli occhi azzurri e indagatori del Preside. “Inoltre, non siamo stati noi a coinvolgerlo per primi”.

“Qui non si tratta di chi lo abbia coinvolto o perché” Piton strinse le labbra e arricciò il naso, insoddisfatto e in ansia. “Quel ragazzo ha diritto ad una scelta!”.

“Chi ti dice che non l’abbia già fatta, Severus?” il Preside si accarezzò la barba con la mano sana e serrò le palpebre. “Non ha mai fatto mistero di pensarla in un certo modo, non è vero?”.

“Alcuni scelgono da soli” commentò lui, senza preoccuparsi di nascondere l’amarezza nella sua voce. “Altri vengono semplicemente spinti in una direzione”.

“Parli per esperienza, vedo” Albus Silente accennò un sorriso, senza smettere di passarsi le dita nei fili argentei della barba. “Tuttavia, mi rincresce di doverti ricordare che il tuo caso è molto diverso da quello del giovane Draco”.

“Forse l’Ordine potrebbe proteggerlo” tentò ancora Severus, speranzoso.“Forse, Severus” il Preside annuì gravemente, “ma dubito che accetterebbe l’aiuto di

quelli che è stato istruito a considerare come nemici. Specie in un momento così delicato”.

Piton intrecciò le dita sotto il mento e serrò le palpebre, in preda allo sconforto.

Lo sconforto che saturava la voce tremante del suo figlioccio, un ragazzo solo e disperato che non aveva altri che un fantasma per sfogare la propria angoscia: era stato quello che lo aveva spinto a recarsi da Silente per supplicarlo di modificare almeno in parte i suoi piani. Aveva udito i singhiozzi accorati di Draco provenire dal bagno del sesto piano e la voce stridula dello spettro di quella ragazzina che cercava di confortarlo e aveva desiderato poterlo aiutare.

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Nessuno aveva aiutato lui, prima che fosse troppo tardi.

I suoi muscoli si contraevano come impazziti, scossi da un tremito irrefrenabile: il suo sangue scorreva senza sosta, tracciando sentieri infuocati che gli bruciavano le membra.

Accolse con gratitudine il sollievo di dita fredde che percorrevano il suo torace, in una carezza appena accennata.

Ore e ore dopo, a notte fonda, Hermione era china sul corpo sudato e tremante di Malfoy, che si agitava in preda alla febbre. Era uscita di nascosto, violando almeno una decina di regole, gettandosi addosso il Mantello di Harry, con il proposito di controllare lo stato di salute del ragazzo. Aveva avuto intenzione di restare solo pochi minuti, il tempo di cambiare le bende e verificare se il dittamo stesse facendo effetto, ma ben presto si era dovuta rassegnare a cambiare i propri piani.

Gli afferrò cautamente l’avambraccio sinistro per discostarglielo dal corpo fasciato e rimase come fulminata: la gola le si seccò quasi istantaneamente, costringendola per contro a schiudere le labbra per placare almeno in parte il senso di asfissia provocato dalla vista del Marchio Nero che spiccava, abbagliante nella propria oscura essenza, sull’incarnato pallido di Malfoy.

Fu allora che lui si svegliò.

Le artigliò convulsamente il polso e le piantò le dita nella carne, tirandola verso il basso e sollevandosi per quanto poteva in quelle condizioni. Hermione tentò invano di divincolarsi, certa che lui intendesse sopraffarla.

Incrociò i suoi occhi, vacui e sbarrati come quelli di un animale braccato, e vi lesse paura, confusione, disperazione.

“Aiutami” disse il ragazzo, a fatica e lei, colta di sorpresa, smise di opporre resistenza, nonostante la stretta di lui non accennasse ad attenuarsi. La strattonò ancora, fino a portarsela pericolosamente vicina. Hermione mosse le labbra per rispondere, ottenendo un pigolio soffocato come unico risultato del suo sforzo. Intanto, lui continuava a fissarla, allucinato, la fronte madida di sudore e il fiato smorzato. Una smorfia di dolore gli distorse i lineamenti in una maschera grottesca: alla luce ingannevole del lume che Hermione aveva trafugato in cucina, la pelle di lui era più bianca che mai, in netto contrasto con le occhiaie che gli scurivano le palpebre, livide e gonfie.

“Aiutami” ripeté, ancor più debolmente e poi ricadde all’indietro, stremato, lasciando la presa sul polso di Hermione.

“Gran bella giornata, oggi” commentò per la decima volta Ron, osservando i suoi amici di sottecchi.

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Harry e Hermione, seduti di fianco a lui, confabulavano fittamente a bassa voce, le teste vicine che quasi si sfioravano. Uno dei riccioli crespi della ragazza accarezzò la guancia di Harry: nel contemplarlo, Ron sentì una fitta di gelosia trafiggergli lo stomaco. Si schiarì la voce e si alzò, avvicinandosi, cercando di carpire un brandello di conversazione.

“… sul serio, sta’ tranquilla…” la mano di Harry si posò sulla spalla della ragazza, scostandole una ciocca della folta chioma castana, che le scivolò sulla schiena scoprendole il collo.

“Tu la prendi troppo alla leggera” lei sospirò e scosse il capo, aggrottando la fronte, gli occhi chiusi e le narici frementi. Ron la studiò attentamente, notando i segni scuri sotto l’ombra gettata dalle ciglia lunghe e incurvate: sicuramente aveva passato la notte a studiare, come al solito. O magari…

La mano di Harry, che le carezzava la spalla in maniera così disinvolta, il tono basso e intimo della conversazione. Possibile?

Anche Harry aveva l’aria stanca e tirata: mentre si sporgeva ad afferrare delle radici che servivano per la pozione scritta sulla lavagna, Ron lo vide sbadigliare e stropicciarsi le palpebre, scostando le lenti degli occhiali.

“Così” buttò lì il ragazzo, giocherellando con la penna “oggi c’è la partita”.

Harry si voltò a guardarlo, folgorato.

“Accidenti” esclamò dopo qualche secondo, “con tutto quello che è successo…”.

La sua frase si spense in un borbottio sommesso ed Hermione, che aveva trattenuto bruscamente il fiato, espirò lentamente, seguendo con gli occhi i movimenti del suo compagno di banco. Quest’ultimo le rivolse un sorriso nervoso, che agli occhi di Ronald era falso come una moneta da tre zellini, e sedette nuovamente accanto a lei, dedicandosi a spezzettare le radici.

“Si può sapere che avete?” sbottò Ron, perdendo la calma. Accartocciò le dita a pugno e la penna che aveva in mano si piegò e si spezzò in due, ferendogli un dito.

Non si era neppure accorto di aver alzato la voce, ma ora tutta l’aula, compreso il professor Lumacorno, lo stava fissando. Pansy Parkinson, due banchi avanti a loro, diede di gomito alla bionda seduta di fianco a lei, una certa Greenleaf, e soffocare una risatina dietro il palmo della mano a coppa.

“Siediti, Ronald” sibilò Hermione a denti stretti, fulminandolo con un’occhiata severa.

Sentendosi arrossire, il ragazzo obbedì immediatamente, abbassando lo sguardo sulla superficie scheggiata del banco.

“Che ti è preso?” Harry scosse la testa e si passò nervosamente un mano sulla fronte, strofinandosi la cicatrice, lo sguardo evasivo adombrato dalle palpebre socchiuse.

“Mi nascondete qualcosa, vero?” domandò Ron, odiando il tono petulante che aveva assunto la sua voce.

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Tacquero entrambi, lui e lei, e si scambiarono uno sguardo fuggevole carico di sottintesi: il segreto contenuto in quell’occhiata gli balenò così chiaro davanti agli occhi da non poterlo ignorare. Era la beffa più grande di tutte.

Avevano condiviso ogni cosa in quei sei anni: ogni rischio, ogni trionfo, ogni sconfitta.

“È Silente?” ritentò, speranzoso. “O magari… voi sapete Chi?” insistette, ripensando a Harry che si sfregava la fronte.

Hermione abbassò gli occhi, non prima che lui potesse leggervi tutta l’amarezza che contenevano.

“Non è niente, Ron” mormorò, il volto nascosto accuratamente dietro un ciuffo di ricci castani.

“Niente” ripeté meccanicamente Harry, sistemandosi gli occhiali sul naso. “Ti stai immaginando tutto”.

Ron annuì e le sue labbra si allargarono in un sorriso vuoto, l’espressione di una bambola di pezza. Abbassò gli occhi sulla propria mano destra, nella quale giaceva la piuma bianca, spezzata in due, imbrattata in più punti di rosso cupo.

Non si stava immaginando niente.

Il buio della stanza grigia tagliato in due da una lama di luce accecante che filtrava dalla finestra semichiusa.

Oltre le coltri polverose del baldacchino, due occhi chiari e freddi fissavano il soffitto.

In attesa.

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ELECTRICAL STORM

~ r i d e t h e l i g h t n i n g ~

«A l iving faith wil l lastin the midst of the blackest storm»

Mohandas Karamchand Gandhi

Hermione sgattaiolò fuori dal portone, confondendosi tra le tifoserie accalcate nel cortile. C’era sufficiente confusione perché passasse inosservata, nonostante il lungo mantello invernale, poco adatto ad una tiepida giornata primaverile e la postura insolita delle braccia, rigidamente incrociate sul petto. Camminava inoltre a testa china, una posa quantomai inconsueta per lei che era abituata a passeggiare per i corridoi con il capo ben eretto, fiera e determinata e con il distintivo di prefetto bene in vista. In quel momento però, l’ultima cosa che avrebbe voluto era farsi notare: aveva scelto il mantello pesante perché, contrariamente a quello estivo, era dotato di un comodo cappuccio, che le garantiva una forma quasi completa di anonimato.

Così camuffata, la ragazza si fece strada tra i sostenitori della squadra di Gryffindor, che trasportavano sulle spalle striscioni e stendardi con i colori della casa, e un gruppetto di ragazze di Ravenclaw, che portava nastri neri e bronzo nei capelli e reggeva una grossa bandiera con un’aquila incantata proprio al centro. Scorse la figura familiare di Luna Lovegood, un po’ in disparte rispetto alle sue compagne, lo sguardo svagato e perso a fissare un punto imprecisato, verso l’alto. Lei però non la notò ed Hermione proseguì indisturbata lungo il viale, fino a raggiungere il giardino: in lontananza, scorgeva il Platano, quasi immobile nell’aria satura di elettricità statica di quel pomeriggio di maggio.

Nell’anticamera della Stamberga Strillante regnava il silenzio: l’eco dei suoi passi mentre saliva le scale risuonò forte e solenne come il rintocco di una pendola in un corridoio vuoto.

Vuoto come il letto nella stanza polverosa.

La pressione inaspettata di un braccio sulla trachea la costrinse a rilasciare il fagotto che stringeva al petto, che cadde sul pavimento con un tonfo sordo. Hermione boccheggiò, cercando a tentoni la bacchetta sotto il mantello.

“Di tutti, proprio tu” sussurrò una voce fredda al suo orecchio. “Non me lo sarei mai aspettato”.

Il cappuccio le era scivolato all’indietro, scoprendole i ricci castani. Dita nervose le artigliarono la spalla destra, premendo sulla clavicola: stringendo i denti, la ragazza indietreggiò bruscamente, sbattendo la schiena. Alle sue spalle, si udì un gemito soffocato e la presa sulla sua spalla si allentò: intuendo l’accaduto, Hermione ne approfittò per divincolarsi. Si voltò di scatto, la bacchetta stretta nella mano malferma, puntata addosso al suo avversario.

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Livido, il braccio destro stretto al petto fasciato, il ragazzo stava in piedi a stento. Si appoggiava contro il muro aiutandosi con l’altro braccio e respirava affannosamente.

“Torna a letto” gli intimò.“Non prendo ordini da te” ringhiò Malfoy, sbarrando gli occhi. “Sporca Mezzosangue”

aggiunse, storcendo la bocca in una smorfia di disgusto.“Sicuro?” lo incalzò lei, muovendo un passo nella sua direzione. “Vuoi uccidermi?” domandò il ragazzo. La voce gli uscì faticosamente, come un colpo di

tosse; raddrizzò le ginocchia instabili e si appoggiò alla parete. “Forza” disse, “finisci quello che il tuo amichetto ha iniziato”.

“Io non uccido le persone” obiettò Hermione, con la voce che tremava d’ira repressa. “Ma se mi metti alle strette, potrei trovare un altro metodo per convincerti”.

Scorse un’ombra passare negli occhi di lui, seguita da un lampo di comprensione, il primo segnale di una tempesta in un cielo carico di nubi.

“Provaci” la sfidò.

Lei deglutì, consapevole di trovarsi di fronte ad un bivio.

Poteva costringerlo a piegarsi al suo volere, con un semplice movimento della bacchetta e una parola pronunciata nel modo giusto. Avrebbe potuto manovrarlo come un burattino.

Niente di più facile.

Niente a che fare con l’atroce consapevolezza di aver violato il libero arbitrio di qualcuno che non poteva nemmeno difendersi, di aver attaccato un avversario disarmato, impotente. Ferito.

La mano che teneva la bacchetta tremò convulsamente, sotto il peso di quel dubbio.

“Non puoi, vero?” la interrogò lui, stremato, esibendo un ghigno feroce. Un muscolo, sulla sua guancia sinistra, si contrasse improvvisamente e la sua espressione vacillò.

“Torna a letto” ripeté lei, avvicinandosi, cauta. “Così ti si riapriranno le ferite”.“Hai tu la bacchetta, Sanguesporco” ringhiò lui, chiudendo gli occhi per qualche istante.

Si sfregò la fronte con il palmo della mano, asciugando le gocce di sudore che la costellavano. Una, sopra la tempia, scivolò lungo il suo zigomo teso. “Coraggio” la incitò, “costringimi, visto che puoi. O è contrario ai tuoi preziosi principi morali?”.

“Idiota” sbottò la ragazza, stringendo le dita attorno all’impugnatura della bacchetta.

Malfoy crollò il capo, emettendo una risata soffocata. Strusciò i polpastrelli contro la parete ruvida, come alla ricerca di un invisibile appiglio, dita tremanti che si aggrappavano al nulla per non soccombere, e risollevò lo sguardo su di lei. La sfida disperata che gli lesse negli occhi la convinse che non avrebbe desistito, non l’avrebbe ascoltata di sua spontanea volontà.

“Mi dispiace” mormorò a mezza bocca, trovandosi sorpresa nello scoprire quanto di vero vi fosse in quelle due parole. Il ragazzo sbarrò gli occhi, preparandosi al colpo.

Il bagliore sprigionato dalla bacchetta quando lei mosse impercettibilmente le labbra, illuminò il viso di lui, immobile in una maschera di puro sbigottimento.

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Rannicchiato in un angolo sotto il Mantello dell’Invisibilità, Harry Potter deglutì, attento a non fare il minimo rumore: gli occhi scuri e penetranti di Severus Piton gli scivolarono addosso, passando oltre fino a soffermarsi sulla figura ingombrante di uno dei due studenti in piedi di fronte a lui. Il Professore, seduto alla scrivania con le mani giunte sotto il mento, si schiarì la voce e socchiuse le palpebre.

“Siete sicuri che sia sparito?” domandò.

I due studenti si scambiarono un’occhiata, poi quello più basso corrugò la fronte e sbatté nervosamente le palpebre sugli occhi porcini.

“Non era in camera” replicò, esitante. Aveva una voce grossa, quasi baritonale, come quella di un adulto, ma il tono con cui pronunciava le parole era piuttosto quello di un bambino troppo cresciuto, con una nota ottusa in sottofondo, qualcosa che suonava sempre irrimediabilmente stonato.

“Nè ieri sera, né stamattina” soggiunse l’altro, colto da un’improvvisa ispirazione, passandosi una mano nei capelli ispidi, che sembravano tagliati seguendo i contorni di una scodella.

“Capisco” Piton annuì gravemente. “Siete sicuri che non fosse altrove?” domandò, sollevando le sopracciglia, gli occhi stretti in uno sguardo sottile e indagatore.

“L’abbiamo cercato ovunque, Professore. Diglielo anche tu, Tiger” rispose il primo studente, sferrando una gomitata nelle costole del compagno, che si affrettò ad annuire con vigore.

“Goyle ha ragione” confermò il ragazzo, grattandosi la fronte. “Abbiamo guardato dappertutto, ma di Malfoy non c’era traccia”.

Harry trattenne il fiato: stille di sudore freddo gli colarono lungo il collo, sul volto, in mezzo agli occhi, facendogli scivolare gli occhiali sul naso. Li raggiustò con dita insicure, e si terse la fronte, sfiorando con il palmo della mano la cicatrice che la solcava. In quel momento, una fitta acuta e familiare lo costrinse a mordersi il labbro per non urlare. Improvvisamente, la gola gli sembrò troppo sottile per far passare l’aria, la vista gli si sfocò, mostrandogli sagome indistinte e solo vagamente umane: le ginocchia gli cedettero, facendolo piombare in avanti con un tonfo sordo.

“Cos’è stato?”.

A spezzare il silenzio successivo alla sua caduta era stata la voce di Tiger, meno profonda di quella del compagno e quasi piacevole, nei punti dove non si spezzava, rivelando l’età ancora acerba del suo possessore. Passi affrettati si mossero in direzione di Harry, che trattenne il fiato, terrorizzato, gli occhi sbarrati e immobili, fissi sulla pietra, su cui si allungavano sempre più minacciose le ombre imponenti di coloro che lo avrebbero smascherato.

“Andate” ordinò seccamente Piton, ponendo fine a quell’attesa angosciosa. “Penso io a tutto il resto”.

I due studenti si arrestarono immediatamente. Harry li udì bofonchiare impacciate parole di scusa e congedarsi in fretta. Passi strascicati si allontanarono lungo il corridoio e

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la loro eco polverosa si dissolse lentamente, coperta dal rumore assordante del battito concitato del suo cuore.

Severus Piton si schiarì la voce con un colpo di tosse.

“Perché non esce da là sotto, signor Potter?” lo interpellò il Professore, con malcelata soddisfazione. “Preferisco nettamente punire studenti visibili”.

L’espressione di puro compiacimento, il sorriso a stento trattenuto che Harry scorse sul volto severo dell’insegnante non preannunciava nulla di buono. Il ragazzo deglutì.

“Signore...” balbettò, in cerca di qualcosa di intelligente da dire. “Ecco un’altra cosa che hai ereditato da tuo padre, Potter” commentò Piton, incolore.

“Non sai stare al tuo posto, non è vero?”.“Professore, io…” ritentò di nuovo Harry, in difficoltà. “Ecco…”.“Basta così, Potter” lo interruppe seccamente l’insegnante. “Non serve che tu parli.

Sappiamo entrambi che possiedo modi più efficaci per scoprire cosa ci facevi nel mio studio, nascosto sotto un Mantello dell’Invisibilità. Mantello che, per inciso, è requisito fino a nuovo ordine. Posalo sulla scrivania, Potter”.

“Ma Signore…”.“Obbedisci, Potter” gli intimò il Professore.

Digrignando i denti, Harry abbassò il capo e fece come gli era stato detto. Se Piton avesse letto i suoi pensieri in quel momento, ne avrebbe scorto uno che oscurava tutti gli altri, anche la paura di essere scoperto.

Aveva perso il Mantello di suo padre. L’unico legame con la sua famiglia, a parte un paio di fotografie sgualcite che aveva consumato a forza di guardarle, era un povero mucchietto di stoffa consunta, intriso di ricordi.

E lui l’aveva perso.

Sollevò lo sguardo sul Professore, che esibiva ancora quell’espressione soddisfatta, e si preparò a dargli battaglia. Poi, lo vide irrigidirsi, il volto livido sotto il colorito giallastro, e scattare in piedi. Poi, una mano ossuta si abbatté e lo afferrò bruscamente per il colletto, trascinandolo fuori dalla porta per il corridoio.

“Va’ dalla Professoressa McGranitt. Sei in punizione!”.

Draco giaceva ancora ad occhi chiusi, tra i rimasugli di un sonno pesante che non aveva nulla di naturale. Il letto era morbido, le lenzuola fresche sotto le sue membra spossate e il respiro regolare che gli sfiorava la fronte era come un refolo d’aria in una giornata afosa.

Poi, sopraggiunse il dolore, a strapparlo dal velluto di quella dimensione onirica.

Una fitta lancinante gli trapassò il braccio, costringendolo ad artigliare il lenzuolo e a mordersi l’interno della guancia per non urlare. Il peso sul petto si fece improvvisamente più ingombrante, privandolo della forza di respirare.

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Il Marchio incandescente pulsava di vita propria, avvolgendo spire di dolore attorno alle sue membra improvvisamente troppo deboli per provare a ribellarsi. Il serpente mordeva, affondando impietoso i denti aguzzi nel suo braccio inerme.

Draco si rizzò a sedere di scatto, spalancando le palpebre.

“Non devi alzarti così”.

La ragazza seduta al suo fianco aveva un libro aperto sulle ginocchia e la bacchetta in mano. Il suo viso era un ovale pallido e i suoi occhi, ornati da ciglia lunghe e incurvate, erano così scuri da sembrare neri. Gli ci volle più tempo del dovuto per ricordare chi fosse lei, o perché si trovasse lì; si limitò a guardarla, chiuso nel suo mutismo, mentre posava il suo libro sul pavimento e si raccoglieva dietro l’orecchio una ciocca di ricci così fitti da risultare crespi.

“Come ti senti?” gli domandò lei, cauta.

Le spire del serpente si irrigidirono di nuovo, serrandolo in una morsa crudele, e gli penetrarono nelle carni offese, filo spinato intriso di veleno.

Draco digrignò i denti e balzò giù dal letto. Fu un errore: le ginocchia gli cedettero, lo stomaco si contrasse, tentando di rivoltarsi. Rimase in piedi a malapena e si portò una mano alla fronte, sforzandosi di snebbiare la vista offuscata, poi tentò di muovere qualche passo incerto in direzione della porta, incespicando.

“Cosa mi hai fatto?” si voltò infuriato a guardare la ragazza, che stava in piedi alle sue spalle. Lei socchiuse le palpebre, scuotendo il capo.

“Non sei ancora abbastanza in forze per andare via di qui” mormorò. “Neppure per reggermi in piedi a quanto pare” sibilò lui, caustico.“Sono gli effetti dell’incantesimo della pastoia” replicò la ragazza, a bassa voce.

“Passerà”.“I miei vestiti” Draco si guardò attorno, rendendosi conto per la prima volta di essere in

un luogo totalmente sconosciuto. “Dove hai messo i miei vestiti?”.“Sono lì” disse lei, indicando il pavimento. “Accanto al letto”.

Il giovane abbassò gli occhi sulla camicia, solcata da due tagli trasversali e si portò le mani al petto, barcollando, colpito improvvisamente dal ricordo dell’accaduto e toccò garza ruvida e asciutta, al posto della pelle liscia che si aspettava. La vista gli si obnubilò nuovamente e capì che sarebbe crollato, nonostante gli sforzi per mantenersi sù.

Due piccole mani lo sorressero sotto le ascelle e il fiato smorzato di lei gli accarezzò il collo, facendogli rizzare i capelli sulla nuca. Si divincolò a forza e la allontanò bruscamente.

“Non mi toccare!” urlò, distogliendo lo sguardo dal volto illividito della ragazza, sul quale spiccavano due chiazze rosse all’altezza delle guance, incapace di fronteggiare il cristallo brunito dei suoi occhi, accesi di rabbia e frustrazione. Si appoggiò al materasso, troppo debole per rifiutare anche quel sostegno e quando rialzò gli occhi su di lei, la vide dargli le spalle, rigida, di fronte alla finestra.

“Ti farò portare qualcosa da mangiare” gli disse, infine, voltandosi per raccogliere le sue cose, senza degnarlo di un’occhiata.

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La radura attorno al Platano era deserta quando Hermione sbucò dalla galleria camminando spedita, il libro stretto convulsamente al petto e il cappuccio del mantello abbandonato sulle spalle. Schermandosi gli occhi con la mano, rivolse lo sguardo verso l’alto, in direzione del cielo sopra lo stadio: resti di striscioni scarlatti, decorati con disegni color oro svolazzavano pigramente qua e là, sospinti dalla brezza. La partita doveva essere al termine.

Hermione affrettò il passo, dirigendosi alla volta del cancello.

Sulla soglia, Harry, abbigliato con la tenuta consueta dei Gryffindor, la osservava con apprensione. Hermione lo fissò, senza capire, indicando la sua uniforme.

“Non dovresti essere in campo?” gli chiese.“Sono in punizione” il ragazzo sospirò, facendole strada attraverso il giardino fino al

portone. “Piton mi ha beccato nel suo ufficio”.“Sei… sei andato nell’ufficio di Piton?” Hermione strabuzzò gli occhi.“Me l’hai detto tu che ti serviva dell’altra essenza di dittamo” protestò Harry,

visibilmente contrariato. “Harry,” obiettò lei, scoccandogli un’occhiata obliqua, piena di rimprovero, “credevo di

averti detto di andarci di notte”.

Il ragazzo avvampò e si passò una mano nella folta zazzera scura.

“Pensavo non ci fosse” borbottò, accigliandosi. “Mi ha preso il Mantello”.“Il Mantello dell’Invisibilità? Oh, Harry, ma è terribile!”.“Lo so da me” replicò lui, stizzito. “Devo trovare il modo di riprendermelo”.“Non ci voleva” Hermione scosse la testa, sconsolata.

Harry mormorò qualcosa a bassa voce e le sue parole si dispersero nel portico deserto che i due ragazzi stavano attraversando per raggiungere le gradinate dello stadio. La scuola, svuotata da quasi tutti i suoi studenti che erano confluiti ad assistere al Quidditch, era silenziosa e tranquilla. Hermione inspirò l’aria dolce del pomeriggio e se ne riempì i polmoni, sentendo la tensione scivolarle via dalle spalle contratte.

“Piton sa che Malfoy è scomparso” sbottò Harry, rompendo il silenzio.“Dovevo aspettarmelo” commentò Hermione. “Dopotutto, un Voto Infrangibile non è

una cosa da niente. Secondo me, lo tiene sotto stretta sorveglianza. Di sicuro si è accorto della sua assenza a colazione…”.

“No” la interruppe Harry, “sono stati Tiger e Goyle a dirglielo. Erano nel suo ufficio”.

Hermione corrugò la fronte, perplessa.

“È strano” commentò, facendo una smorfia. “Piton… non ti ha fatto nessuna domanda, quando ti ha scoperto?”.

“Non credo sappia cos’è successo,” Harry scrollò le spalle. “Probabilmente pensava che lo stessi spiando perché non mi fido di lui”.

“Sicuro che non abbia usato la legilimanzia?” domandò Hermione, in un tono che sperava essere privo di inflessioni polemiche.

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“Stava per farlo” il ragazzo si raddrizzò gli occhiali e le scoccò un sorrisetto nervoso, “ma poi ha…” Harry si bloccò all’improvviso, smettendo di camminare, lo sguardo fisso nel vuoto.

Hermione gli scoccò uno sguardo interrogativo.

“Ecco” riprese Harry, “è successa una cosa strana. Stava per leggermi nella mente, quando ad un certo punto è saltato sù e mi ha sbattuto fuori, dicendomi di andare dalla McGranitt”.

“Senza farti nessuna domanda?” lo interrogò la ragazza, senza curarsi di nascondere il proprio scetticismo. “È davvero assurdo”.

“Aveva un’espressione… ” Harry esitò, pensoso, mordicchiandosi la nocca del pollice, “atterrita, ecco. Come se gli fosse appena successo qualcosa di spaventoso”.

Quella descrizione le riportò alla mente qualcosa che aveva visto poco prima su un viso del tutto diverso da quello arcigno del Professor Piton. Il volto di Malfoy, in preda al terrore, il lenzuolo stretto tra le dita ossute, stoffa che per quanto candida, non riusciva ad essere più bianca di lui. Le sembrò che qualcosa di importante le sfuggisse e corrugò la fronte, frustrata.

Si accorse che Harry la stava osservando, con le braccia incrociate e una domanda inespressa negli occhi, seminascosti dalla frangia scura. Il ragazzo si scostò i capelli della fronte per grattarsi la cicatrice, come sovrappensiero.

“Ti fa male?” gli chiese.“Adesso no” la rassicurò lui, ficcandosi le mani in tasca e riprendendo a camminare.“Harry, mi spieghi cosa vuol dire esattamente adesso no?”.

La voce di Hermione era salita mezza ottava.

“L’ho sentita bruciare prima, nell’ufficio di Piton” spiegò Harry, sulle spine. “Prima o dopo che lui ti scoprisse?” domandò la ragazza.“Prima. Mi ha scoperto per quello in realtà” Harry si strinse nelle spalle e tirò fuori una

mano dalla tasca per allentarsi la cravatta. “Mi si è annebbiata la vista e sono caduto”.“E dopo, Piton si è comportato in quel modo” rifletté lei, ad alta voce.“Non capisco cosa c’entri” obiettò il ragazzo, storcendo il naso.

Lei si accigliò, gli occhi posati sulla cicatrice a forma di fulmine che gli solcava la fronte. Nel mentre, pensava ad un altro segno, tracciato con linee indelebili su un braccio magro ma robusto, scosso da spasmi violenti.

“Il Marchio Nero” mormorò, a voce talmente bassa che le sue parole furono inghiottite dal brusio indistinto della folla a pochi passi da loro.

Avevano raggiunto lo spiazzo antistante lo stadio, gremito dai tifosi festanti: Hermione si soffermò a guardare i sostenitori della squadra di Gryffindor, che si erano accalcati attorno ai loro eroi e avevano preso sulle spalle Peakes e Coote, che facevano roteare le mazze da battitore sopra la testa, ululando come dei forsennati. Il coro più forte però, era quello che acclamava a gran voce il nome di Ron, inframmezzandovi siparietti cantati al ritmo di «Weasley è il nostro Re».

“Hermione?” Harry le posò una mano sulla spalla e la scosse leggermente.

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“Scusa” la ragazza sospirò. “Ero distratta”.“Tranquilla” lui le sorrise. “Volevo solo sapere cosa avevi detto prima. Quelli urlano

talmente forte che non ho sentito niente”.“Niente di importante” minimizzò lei. “Harry, non hai detto che eri in punizione?”.“La McGranitt mi ha dato il permesso di venire a festeggiare i ragazzi della squadra”

Harry arrossì fino alla radice dei capelli. Non ci fu bisogno di specificare chi fosse venuto a festeggiare, o perché. Da quando si era accorto di avere una cotta per Ginny non faceva altro che guardarla, sperando che nessuno lo notasse. Hermione gli sorrise, incoraggiante e lui riprese: “Sconterò la punizione stasera: pulizia trofei” concluse, contrariato.

“Poteva andarti peggio” sentenziò Hermione. “Oh, accidenti!” esclamò subito dopo, colpita da un pensiero.

“Qualcosa non va?”.“Avrei voluto chiederti se potevi andare tu a portare qualcosa da mangiare, sai…” indicò

con un cenno del capo in direzione del giardino e Harry annuì, “ma a questo punto credo che toccherà a me” concluse rassegnata, al pensiero di dover nuovamente trascorrere del tempo con Malfoy.

Di dover scorgere l’odio incastonato nel ghiaccio dei suoi occhi, il disprezzo che bruciava sulla sua pelle come acido, dopo aver perforato l’armatura spessa che lei si era costruita negli anni.

“Ti ha fatto qualcosa?” Harry le accarezzò affettuosamente la schiena. “È stato sgradevole?”.

“Non più del solito” Hermione sorrise, rassicurante, e gli posò una mano sulla clavicola, in un gesto amichevole, privo di sottintesi.

Scorgendo i contorni sfocati di una figura alta e massiccia, ai margini del suo campo visivo, Hermione si voltò e incrociò gli occhi esterrefatti di Ron: lesse la delusione sul suo volto e qualcosa di simile alla disperazione. Dietro di lui, anche Ginny li fissava, con le labbra semiaperte e il volto atteggiato ad un’espressione in cui si mescolavano perplessità e fastidio.

“Ah, ecco dov’eravate” il ragazzo si passò le dita guantate nella folta chioma fulva e si guardò attorno, come smarrito.

In imbarazzo, Hermione si allontanò da Harry, rendendosi pienamente conto di quanto il suo atteggiamento potesse apparire colpevole e odiandosi per questo. Mosse un passo in direzione di Ron, sforzandosi di sembrare disinvolta, ma lui le rivolse un cenno sgarbato e la oltrepassò a grandi falcate. Attraversò il gruppo delle Ravenclaw, in mezzo al quale la Chang piangeva sconsolata sulla spalla di Marietta Edgecombe, e raggiunse Lavanda Brown, che gli rivolse un sorriso timido. Le passò il braccio attorno alle spalle, sotto lo sguardo attonito di tutti i presenti e lei ricambiò la stretta, al settimo cielo. Mentre se ne andavano insieme, Hermione vide Ron voltarsi a guardarla un paio di volte.

“Non si erano lasciati?” Harry, sbigottito, li seguì con gli occhi per qualche istante.

Hermione non rispose: sbatté le ciglia per disperdere le lacrime di rabbia che minacciavano di sgorgare dai suoi occhi e si asciugò le palpebre con un gesto rapido della mano.

Se avesse potuto spazzare via allo stesso modo l’umiliazione appena ricevuta, scuotere via dal mantello la polvere che lui le aveva gettato addosso, sarebbe stato tutto più facile.

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La cercatrice di Ravenclaw aveva il volto ancora rigato dal pianto con cui aveva lavato via il dolore per la sconfitta subita, mentre lei incassava con disinvoltura soltanto apparente il colpo che le era stato appena inferto.

Girando le spalle al suo pubblico, Hermione pensò che la differenza tra loro, tra lei e tante altre ragazze come quella che le stava di fronte, era tutta in quelle lacrime.

Cho Chang poteva piangere in pubblico. Hermione Granger no.

Stava bene.

Lo ripeté alla sua immagine riflessa che le rispose con un sorriso dalla superficie lucida dello specchio. Era un sorriso non privo di ombre, che l’attraeva e la spaventava al contempo.

Stava bene.

Si era concessa un bagno, per lavare via quella sensazione di sporco generata dagli insulti più o meno espliciti che le si erano appiccicati addosso. Si era pettinata con cura, applicando una lozione per domare i ricci scuri, districandoli pazientemente, come compiendo un rito: le sembrava quasi che se avesse sciolto quei nodi, anche quelli della sua vita si sarebbero dipanati, lasciandole un po’ di respiro.

Stava benissimo.

Uscì dal bagno e recuperò i libri. In Sala Comune, tutti si voltarono a guardarla: un chiacchiericcio sommesso accompagnò il suo passaggio. Lei vi passò in mezzo, ignorandolo: i suoi preziosi volumi stretti al petto e il mento bene in alto, si avviò verso la sua poltrona preferita, senza guardare nessuno. Romilda diede di gomito a Calì, che scoppiò in una risatina, acuta e fastidiosa.

Più tardi sarebbe uscita a portare il cibo a Malfoy: l’aria fresca le avrebbe fatto bene. Doveva solo trovare il modo di sgusciare fuori dal portone senza farsi vedere, ora che il Mantello di Harry era fuori dalla sua portata.

Un’altra risatina interruppe il corso dei suoi pensieri e lei alzò istintivamente la testa dal libro: Ron era appena entrato in Sala Comune, porgendo il braccio a Lavanda. Sembravano molto uniti, considerando che lui l’aveva scaricata solo qualche giorno prima.

Nascose gli occhi dietro un ciuffo di capelli e riprese a leggere, ripetendo mentalmente gli ingredienti delle pozioni che Lumacorno aveva spiegato quella mattina. Ginny, un turbine rosso fuoco profumato alla vaniglia, le passò davanti, seguita da Harry che tentava maldestramente di parlarle. Fece per prenderla per il polso, ma lei si divincolò e andò a sedersi di fianco a Seamus Finnigan. Harry emise un verso di frustrazione e si lasciò andare ai piedi della poltrona di Hermione.

“Ron le ha messo in testa che io e te abbiamo un storia” gemette.

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“Se è gelosa, non può essere che una cosa buona” sospirò la ragazza, rinunciando all’idea di studiare.

“Non è gelosa” Harry crollò il capo, evidentemente turbato. “Per lo meno, lei dice che è arrabbiata per come avremmo trattato Ron”.

“Ragiona” Hermione roteò gli occhi verso l’alto, lisciando la copertina del libro con entrambe le mani, “se fosse gelosa, non lo verrebbe di certo a dire a te”.

“Devo andare” il ragazzo si alzò e si spazzolò il fondo dei calzoni. “La Sala Trofei mi attende” allargò le braccia, rassegnato.

“Ti accompagno”.

Il profilo di vetro delle ampolle rifletteva il raggio di luna che filtrava dal lucernario, illuminando fiocamente la dispensa ingombra di scaffali. Severus allungò le dita a sfiorarle, una carezza quasi affettuosa, e quelle tintinnarono, come a volergli rispondere.

Alcuni di quei contenitori contenevano veleni rari e capaci di uccidere soltanto annusandone i vapori, pura essenza di morte imbottigliata. I suoi unici compagni in tanti anni di solitudine.

Conosceva la loro disposizione a memoria, una memoria tattile che faceva sì che la mano vedesse ancor prima degli occhi. Quando incontrò il vuoto e le sue dita riconobbero la venatura irregolare del legno della mensola, non gli servì neppure leggere la targhetta per vedere cosa mancava.

Dittamo.

Un altro tassello al suo posto.

«Something is rotten in the state of Denmark»

Will iam Shakespeare, Hamlet

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RULED BY SECRECY

~ h e l l o , d a r k n e s s , m y o l d f r i e n d ~

«Words l ike violencebreak the si lence,come crashing in

into my l i tt le world»

Depeche Mode, Enjoy the Si lence

“La runa Ansuz, quarta lettera dell’alfabeto arcaico, rappresenta il suono vocalico A. È la runa della comunicazione e anticamente veniva associata alla parola” la professoressa Babbling fece una delle sue pause assorte. “Laddove la trovaste capovolta, può rappresentare la menzogna o, rare volte, il silenzio. È importante che teniate a mente il significato iconografico di ogni lettera. No, signorina Turpin” la rubiconda insegnante scosse la testa in direzione della brunetta che saltellava sulla sedia in maniera fin troppo vistosa, “per la decima volta, non può andare al bagno”.

Lisa Turpin, seccata, smise di agitarsi e riportò la propria attenzione sul foglio di pergamena davanti a lei, su cui aveva annotato poche righe imprecise e frettolose. Ai margini e più sotto, abbondavano scarabocchi di cuori trafitti da frecce che circondavano le lettere A.G. Con un sospiro, Hermione roteò gli occhi verso l’alto e ricominciò a prendere appunti, ricopiando minuziosamente la spiegazione scritta sulla lavagna.

“È Goldstein”.

Hermione posò la penna e lanciò un’occhiata scettica alla compagna di banco, che le rivolse un sorriso complice, accennando alla propria pergamena.

“A.G. sta per Anthony Goldstein” ripeté la ragazza. “Ho visto che stavi guardando i miei disegni”.

“Sono carini” Hermione sorrise frettolosamente, augurandosi che la compagna non rilevasse l’ironia delle sue parole, e riprese a scrivere.

“Anche lui lo è” Lisa assunse un’espressione sognante. “Io adoro i biondi. Tu no?”.“Non particolarmente” replicò lei, asciutta. Il ricordo del profilo di un ragazzo biondo si

stagliava contro il chiarore lattiginoso della luna le sovvenne, nitido come una fotografia; da quell’angolazione, i raggi di luce pallida ne disegnavano la figura in un gioco di luci e sfumature, conferendo ai suoi occhi un riflesso argenteo. Lui era in piedi di fronte alla finestra e quando lei era entrata si era voltato a guardarla, storcendo la bocca in una smorfia indecifrabile.

“Tu e Weasley avete rotto?”.“Non mi risulta ci fosse qualcosa da rompere” rispose Hermione, piccata.“Marietta dice che ieri lui non ha voluto parlarti” la Turpin si strinse nelle spalle,

giocherellando con la cravatta. “E l’ho visto di nuovo in giro con la Brown”.“Forse la signorina Edgecombe” disse Hermione a denti stretti, “dovrebbe stare più

attenta a quello che racconta in giro. Sarebbe saggio”.

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Che avesse o meno colto l’allusione agli avvenimenti dell’anno precedente - quando Marietta si era ritrovata il volto deturpato da una misteriosa maledizione dopo aver fatto la spia su certe esercitazioni clandestine nella Stanza delle Necessità - Lisa Turpin doveva aver concluso che fosse meglio lasciar cadere l’argomento; rigidamente seduta al suo posto, aveva abbandonato ogni atteggiamento confidenziale e si era chiusa in un ostinato silenzio.

Senza emettere un suono, Malfoy l’aveva guardata aggirarsi nella stanza, seguendola quasi febbrilmente con gli occhi scintillanti: sdraiato sul letto, il braccio destro dietro la nuca e le ginocchia ripiegate, il suo atteggiamento avrebbe potuto apparire di rilassato disinteresse, tralasciando la tensione feroce che gli animava lo sguardo.

Lei gli aveva lasciato il cibo sul comodino, in silenzio, rispettosa di un patto di cui nessuno dei due aveva fatto parola e si era persa ad osservare il profilo delle colline fuori dalla finestra, quasi incantata dalla quiete notturna. Fuori, i grilli cantavano e tra l’erba che ondeggiava dolcemente al ritmo della brezza notturna, si inseguivano poche lucciole, scintille effimere nell’oscurità, come lumi di minuscole fate.

Il respiro lento e profondo di lui accarezzava il silenzio, dietro il velluto immobile del baldacchino.

“Per oggi potete andare”.

La professoressa Babbling controllò l’ora sull’orologio, che portava al collo come un pendente, e annuì, a conferma delle parole appena pronunciate. Hermione, allora, arrotolò la pergamena e ripose la penna d’oca. Di fianco a lei, Lisa Turpin aveva già radunato le sue cose e si era alzata, senza rivolgerle neppure un saluto. La ragazza sospirò.

“Scusami, sono stata scortese” le disse.

Lisa sollevò le sopracciglia e sbatté rapidamente le palpebre, poi distese le labbra in un sorriso di circostanza.

“Non fa niente, anche io sono stata indiscreta” ribatté, in un tono che lasciava intendere esattamente il contrario. “Non dev’essere un bel momento”.

“No, infatti” confermò Hermione, mordendosi le labbra per trattenere una risposta più mordace. “Ultimamente dormo male: mi sembra di non avere neppure la forza di studiare”.

“Tu segui così tante lezioni” commentò la Turpin, incamminandosi verso la porta con i libri tra le braccia. “Sul serio, a volte non capisco come fai. Il Cappello avrebbe dovuto smistarti a Ravenclaw, parola mia”.

Hermione fece una smorfia: non occorreva certo l’intelletto tanto vantato dalla Casa in questione per notare la critica celata dal tono esageratamente lusinghiero della sua interlocutrice. Lisa Turpin le aveva appena dato della secchiona.

“Comunque” proseguì Lisa, imperterrita, “non starci troppo male per Weasley. Ci sono un milione di ragazzi carini in questa scuola”.

Lei annuì, distrattamente, infastidita da quell’atteggiamento eccessivamente confidenziale.

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Nel corridoio che portava alla Sala Grande, la Turpin venne trascinata via da un gruppetto di ragazze della sua Casa; Hermione la vide indirizzarle un cenno di saluto. Agitò la mano a sua volta, grata della tranquillità improvvisamente riguadagnata, e raggiunse velocemente il tavolo di Gryffindor, già apparecchiato per il pranzo.

Harry era seduto ad un’estremità della lunga tavolata: guardava Ginny, seduta quasi di fronte a lui, che chiacchierava fittamente con McLaggen, sporgendosi verso di lui in maniera decisamente civettuola.

“Devi parlarle” Hermione sedette di fianco a Harry, che crollò il capo, emettendo un sonoro verso di frustrazione. Attratta dal rumore, Ginevra si voltò e, vedendoli vicini, assottigliò trucemente lo sguardo.

“Non vuole ascoltarmi. Ero al settimo cielo quando ho saputo che ha mollato Dean” borbottò Harry, “e ora…”.

“Trova il modo” Hermione si scostò una ciocca di capelli dalla guancia, sbuffando leggermente. “Comunque, se non vuoi farlo tu, lo farò io. Non sopporto il modo in cui mi guarda, da quando Ron le ha messo in testa quelle assurdità”.

“Lo so” Harry annuì. “Sembra che voglia fulminarci ogni volta che ci vede insieme”.

La ragazza si mordicchiò il labbro inferiore con i denti, assorta.

“Forse sarebbe meglio che io mi sedessi altrove” mormorò, desolata.“Non dire assurdità, Hermione” minimizzò Harry, battendole amichevolmente la mano

sul polso. “Ci siamo sempre seduti vicini, sin dal primo anno. Non permetterò che tu pranzi da sola”.

“Ma non eravamo soli. Prima, intendo” sospirò lei. “Non credo che Ron siederà con noi, oggi”.

“Mi dispiace, per Ron” il ragazzo si strofinò la fronte, in corrispondenza della cicatrice. Hermione osservò quel gesto, improvvisamente preoccupata.

“Ti ha fatto di nuovo male?” gli chiese.“No” rispose lui, sorridendo appena, gli occhi sempre fissi su Ginny. “Com’è andata ieri

sera, con Malfoy?” le domandò, abbassando la voce. “Poteva andare peggio” replicò, scuotendo nervosamente le spalle.

Quando lei si era decisa finalmente a lasciare quel luogo di pace, Malfoy dormiva, le labbra semiaperte e le palpebre serenamente abbassate, immobile, salvo il lieve alzarsi ed abbassarsi del torace bendato, che il lenzuolo, scivolato da un lato, aveva lasciato scoperto. Lei si era chinata a rimboccarlo, attenta, misurando ogni gesto, e il fiato di lui le aveva sfiorato delicatamente i capelli.

“Visto che siamo in argomento” Harry si schiarì nervosamente la voce, “posso farti una domanda?”.

Lei annuì, servendosi una porzione di porridge.

“Tu ehm… gli hai visto il braccio?”.

Lui aveva raddrizzato il gomito, esponendo tutto quel nero, quella macchia scura che spiccava, funesta, sul pallore appena venato d’azzurro del suo incarnato. Una chiazza di petrolio, che inquinava inesorabilmente il colore latteo della sua pelle.

La mano le tremò, facendo tintinnare il cucchiaio sul bordo della ciotola.

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“Lo hai quasi ucciso” Hermione strinse le labbra, “e la prima cosa che mi chiedi non è come sta, no, tu vuoi sapere se gli ho visto il braccio. Ma dico” proseguì, indignata, “ti rendi conto? Credi di essere tanto migliore di lui?”.

Harry spalancò di botto le palpebre sugli occhi verdi, fattisi improvvisamente vitrei, e arrossì, voltandosi dall’altra parte.

“Stava per lanciarmi addosso una Cruciatus” mormorò, tenendo gli occhi fissi sul piatto. “Ho fatto la prima cosa che mi è venuta in mente”.

“Un incantesimo proibito” sibilò Hermione, stropicciando il tovagliolo tra le mani. “Trovato su un libro spuntato da chissà dove. Avresti dovuto consegnarlo”.

“Sì, beh” Harry posò il cucchiaio nella ciotola vuota, “mi serviva. E tu lo sai”.“Certo” ribatté lei, “come no. A imbrogliare”.“Sai una cosa?” Harry le rivolse uno sguardo pieno di rancore. “Forse avresti davvero

dovuto sederti da un’altra parte”.

“I Dissennatori” Piton indicò con la bacchetta un’immagine proiettata sul cartellone, che ritraeva una figura spettrale ammantata di nero, “così come i Lethifold, si nutrono del terrore degli umani, come certamente qualcuno di voi già sa”. Nella parte sinistra dell’aula, qualcuno si agitò sulla sedia e lui si voltò a guardare, incrociando un paio di occhi verdi sotto una massa arruffata di capelli scuri.

Ovviamente, Potter. Chi altri avrebbe potuto essere.

“Per respingere una di queste creature” proseguì, schiarendosi la voce, “dovrete imparare un’incantesimo estremamente impegnativo. Molti di voi non riusciranno prima di molti tentativi” aggiunse, con una lieve scrollata di spalle, “e qualcuno probabilmente non ce la farà mai”.

Paciock, in prima fila di fianco alla Granger, sostenne fieramente il suo sguardo.

“Magari, uno di voi vuole dare una dimostrazione” suggerì, scorrendo con lo sguardo il suo uditorio. La mano di Hermione Granger scattò immediatamente in alto, svettando sulla moltitudine di teste, improvvisamente chine sui libri.

Piton sospirò.

Se non avesse avuto altro per la testa l’avrebbe notato subito: la disposizione così anomala dei tre inseparabili della Casa di Gryffindor balzava immediatamente agli occhi. Potter si era accomodato di fianco a MacMillan, di Hufflepuff, la Granger con Paciock e Weasley in un banco verso il fondo dell’aula, tra Seamus Finnigan e Dean Thomas.

“Molto bene. Si accomodi, signorina Granger”.

Quella strabuzzò gli occhi, presa in contropiede. Era chiaro che non si aspettava di essere chiamata. Poi si alzò, lasciò il suo posto per portarsi al centro della pedana rialzata e

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scandì l’incantesimo, dando vita ad una lontra argentea che prese a saltellarle vivacemente attorno.

“Passabile. Torni a posto” la esortò. La ragazza obbedì e si risiedette di fianco a Paciock, che le sorrise, ammirato. “Passando ad altro,” disse, prendendo dalla cattedra un fascio di fogli di pergamena, “le vostre relazioni sull’argomento sono uno scempio totale. Sarei curioso di sapere che cosa è successo a quella del signor Paciock. Ci si è soffiato il naso, per caso?”.

Il ragazzo arrossì, borbottando qualcosa e la sua compagna di banco gli strinse il braccio, solidale. Severus trattenne una smorfia.

“Lunedì mi consegnerete un’altra relazione, che illustri le peculiarità dell’Incanto Patronus. Che sia ben scritta” sottolineò, “e su un foglio pulito, Paciock. Ora, andate” disse, congedando gli studenti con un gesto eloquente della mano, che fece svolazzare l’ampia manica della veste nera.

La Granger balzò in piedi, i libri stretti al petto e i capelli raccolti in uno chignon improvvisato, salutò rapidamente Paciock e uscì dall’aula, impettita, senza degnare di uno sguardo né Potter né Weasley, che a loro volta, fecero del loro meglio per ignorarsi a vicenda. Piton la guardò allontanarsi, meditando.

Dunque, quella era la situazione. Per qualche misterioso motivo, Potter aveva perso l’appoggio dei suoi amici. Potter. Lo stesso Potter che si era fatto sorprendere a spiarlo, nel suo Ufficio.

E Draco Malfoy era scomparso.

Condannato a portare un peso troppo grande per le sue spalle di ragazzo, forse si era fatto schiacciare, sconfiggere. Forse era scappato. Si concesse di sperarlo per un momento, prima di immaginarlo solo al mondo, sotto lo sguardo implacabile di due occhi scarlatti, dalle pupille strette come quelle di un serpente.

Doveva trovarlo.

E comunque, che diavolo c’entrava il dittamo?

Chiuse le tende, con una lieve flessione del polso che reggeva la bacchetta, immergendo l’Aula in un’oscurità densa, interrotta solo dal filtrare tenue della luce dai lembi accostati dei pesanti drappi di seta damascata e si aggirò a lungo, nel buio, sfiorando i banchi con le nocche e con i polpastrelli, immerso nelle tenebre dei propri pensieri.

Lavanda e Ron si tenevano per mano, scambiandosi effusioni, di fronte alla finestra costellata da minuscole gocce di pioggia. Lei lo aveva aspettato di fronte all’uscita dell’aula di Difesa contro le Arti Oscure, impaziente, con un gran sorriso stampato sul volto.

Hermione lo sapeva perché le aveva praticamente sbattuto contro, uscendo, diretta in Biblioteca, con l’intenzione di studiare. Si era invece attardata ad osservarli, pervasa di una nostalgia quasi struggente per baci di cui non conosceva il sapore e perfettamente conscia

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di quanto potesse risultare patetica, con lo sguardo perso ad inseguire le dita di Ron che giocavano con i capelli di Lavanda, boccoli biondi e lucenti, perfetti da accarezzare.

Forse era giusto così. Le mani di Ron sembravano meno goffe mentre affondavano in quel mare di seta dorata e il sorriso di Lavanda era dolce e spontaneo, le gote rosee e gli occhi lucidi.

Non ricordava di aver mai guardato Ron in quel modo.

Harry parlava con Ginny, sottovoce, in un angolo. Vedendola passare, abbassò gli occhi, imbarazzato, mentre Ginevra la fulminava con un’occhiata ostile; in sottofondo, un brusio ronzante e fastidioso commentava quello strano triangolo asimmetrico. Colta da una vertigine e da un senso di spasimo alla bocca dello stomaco, Hermione accelerò il passo verso l’unico luogo in cui nessuno avrebbe parlato di lei. O con lei.

Scese le scale di fretta, fuggendo da tutte quelle parole superflue, violente, che avevano mandato in pezzi il suo mondo.

Per una volta, il cappuccio del mantello non servì soltanto a nascondere quella massa di ricci che la rendevano immediatamente riconoscibile. Fuori, nel parco, strettamente avvolta nella stoffa pesante, Hermione era grata alla segretezza imposta da quella situazione: quel pomeriggio, la brezza primaverile si era impennata bruscamente, tramutandosi in un vento foriero di pioggia, che spazzava la brughiera a grandi folate.

Il silenzio della casa la avvolse, come una coperta confortevole, a lenire le ferite causate da tutto quel rumore invasivo. Anche lui, quando la vide, tacque: soltanto i suoi occhi chiari la seguivano, una persecuzione che era più che disposta a sopportare in cambio della mancanza di parole moleste.

Hermione estrasse l’involto del cibo da sotto il mantello e lo posò sul mobile di fianco al letto. Si aspettava che il ragazzo lo aprisse, ma lui si limitò ad occhieggiarlo, quasi svogliato, e poi tornò a guardare lei, steso sul letto a braccia conserte.

Come avesse potuto accorgersi soltanto adesso di quanto fosse smagrito, era un mistero su cui non le andava di indagare. Si era alzato di un palmo rispetto all’anno prima, eppure lei avrebbe giurato che non avesse preso peso. O forse, lo aveva perso così rapidamente da sembrare ancora più scavato. La pelle tesa su quelle spalle, che cominciavano a ricordare quelle di un uomo, era di un bianco slavato e i lineamenti del viso erano sciupati e più marcati nel loro essere naturalmente spigolosi.

E lui era bello.

Detestabile, pessimo, magari pericoloso. Senza dubbio pericoloso, visto il Marchio che portava sul braccio come la testimonianza silenziosa di qualcosa di cui lui non si era mai curato di fare mistero.

E bello, persino da denutrito, emaciato e convalescente, con gli occhi cerchiati da occhiaie profonde e violacee e quell’aria da animale braccato, sempre sul chi vive.

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La constatazione di quel fatto - perché di fatto si trattava e lei non avrebbe certo potuto negarlo - le portò via la forza dalle gambe, costringendola a sedere sullo sgabello in fondo alla stanza per non cadere e a nascondere il volto dietro un libro, per celare a quegli occhi così penetranti il proprio sconvolgimento.

Si accorse che il ragazzo si era alzato e la stava osservando dall’alto in basso, le mani infilate nelle tasche dei calzoni stazzonati. La sua espressione era diversa da qualunque altra lei avesse mai visto sul suo viso, priva di quella sfumatura d’odio che le aveva sempre riservato con una dedizione pressoché ossessiva. Scoprì di dover dire qualcosa per sottrarsi alla valenza quasi ipnotica di quello sguardo puntato dritto su di lei, di dover fare a pezzi quell’angolo di quiete prima che fosse troppo tardi.

Prima che lui facesse a pezzi lei.

“Devo controllarti le ferite”.

Erano bastate quelle poche parole, pronunciate da una voce sommessa, a sbriciolare il silenzio che regnava nella stanza grigia. Lui, che ora le dava le spalle, si era voltato di nuovo a guardarla, dall’alto del suo metro e ottantacinque, chiedendosi come potesse pensare di fargli paura quella creatura così minuta e fragile. Gli occhi scuri di lei gli restituirono una scintilla di sfida.

Draco scosse la testa e si sdraiò sul letto, incrociando le braccia dietro la nuca. Si concesse di osservarla per qualche istante: la ragazza aveva reclinato il capo verso destra e lo scrutava, come assorta, da sotto le lunghe ciglia brune. Poi, lei si chinò e gli sedette di fianco, quasi timidamente, in attesa della reazione violenta che ci si sarebbe potuti aspettare da uno come lui. Da lui, che la studiava, interdetto, incapace di muoversi, fissando la sua mano sollevata.

Le sue dita sottili gli sfiorarono lo sterno, dove la garza si incrociava, formando un nodo, e cominciarono a svolgere la fasciatura. Riconoscere quel tocco come quello che lo aveva confortato, donando sollievo alle sue membra spossate dalla febbre, tramutò in urgenza il desiderio di strapparsi di dosso quella mano così solerte.

Perché lei era sporca. Sangue indegno, sangue impuro, quello che le arrossava le guance e le disegnava le labbra, l’unica chiazza di colore su quel volto fatto di chiaroscuri.

Le artigliò il polso, con rabbia, senza curarsi della smorfia di dolore che le animò i tratti del viso e la allontanò bruscamente.

“Mi pareva di averti detto di non toccarmi” ringhiò, mentre la voce, resa roca dallo scarso utilizzo, gli si accartocciava in gola.

La Sanguesporco abbassò lo sguardo, trattenendo un gemito tra i denti, non prima che lui potesse vedere tutta l’umiliazione cagionatale dal suo gesto. Fletté le dita attorno alle ossa fragili del suo braccio, aspettandosi di vedere quegli occhi così profondi sollevarsi su di lui lucidi di lacrime.

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“Se hai paura che possa contaminarti, forse dovresti evitare tu di toccare me”.

Draco ritrasse la mano, di scatto, come se si fosse scottato e lei si alzò, lentamente, ostentando una calma che non possedeva, a giudicare dal tremito quasi impercettibile delle sue dita.

“Forse dovresti pensare a quello che ti conviene” aggiunse la ragazza, pacata. “Che io sappia, voi Malfoy siete sempre stati bravi ad adattarvi”.

“Taci, Sanguesporco” ribatté lui, cupo. “Non parlare di cose che non sai”.“So benissimo di cosa parlo” lo contraddisse la Granger, incrociando le braccia sul petto.

“Mi meraviglia che tuo padre sia ancora ad Azkaban. Credevo che avrebbe venduto qualcuno dei suoi degni compari in cambio della libertà”.

“Stai zitta!” Draco balzò giù dal letto, ignorando la fitta al torace e le affondò le dita nella carne cedevole delle braccia, scuotendola con forza. “Non parlare di mio padre!”.

“No, hai ragione” mormorò lei. “Non dovrei nemmeno chiamarlo padre, uno che lascia scontare al figlio i propri errori”.

“Tu non sai niente!” esclamò Draco, strattonandola ancora, con violenza, fino a strapparle un unico lamento soffocato; avvertì un tremito leggero farsi strada nel suo respiro, riecheggiare nell’alzarsi e abbassarsi delle spalle contratte.

Per la prima volta, desiderò dire la verità a qualcuno. Dirla a lei, confessarsi, liberarsi. Era un pensiero così folle che per un attimo gli parve l’unica soluzione possibile.

“Lo so, invece” sussurrò lei, a fior di labbra, mantenendo lo sguardo fisso alla propria destra, sul braccio che la stringeva.

Un attimo dopo, una fitta attraversò quello stesso braccio - il Serpente, che mordeva di nuovo iniettandogli il suo veleno fatto di acido, di terrore - propagandosi nel suo corpo in ondate di dolore e debolezza sfiancante.

Non si accorse neppure che il bendaggio gli si era svolto dal torace ed era scivolato a terra, dove giaceva, inerte, arrotolato su se stesso.

Crollò in avanti, sotto il peso del proprio inconfessabile segreto e della febbre violenta che sembrava volerlo consumare dal di dentro: mentre attendeva l’impatto con la dura pietra di cui era fatto il pavimento, sentì due braccia esili circondargli la vita. Pensò che avrebbe dovuto provare schifo, disgusto, repulsione e non ci riuscì: per tutto il tempo per cui durò quell’abbraccio, il suo unico pensiero fu che l’incavo del collo di lei, contro il quale la sua fronte ardente aveva trovato riparo, sapeva di cotone fresco, di sapone, di lenzuola stese al sole. Di buono. Di pulito.

Forse, in definitiva, quello sporco era lui.

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STOCKHOLM SYNDROME

~ f l y , f a l l , b u r n ~

«Hay peores càrcelesde las palabras»

Carlos Ruiz Zafon, La Sombra del Viento

Hogsmeade, fiume in piena e bagno di folla, la sommerse con il suo piacevole chiacchiericcio, trasportando via il peso della solitudine che l’aveva afflitta sin dal mattino. Sorridendo, Hermione uscì dal negozio con l’ultimo acquisto della giornata e si lasciò travolgere dall’atmosfera quasi festosa di quel sabato di maggio, animato da un vento che spirava da nord e spazzava via tutte le nubi che avevano gremito il cielo fino alla notte precedente.

La via che portava verso la scuola era poco più di un sentiero lastricato di ciottoli, che si snodava come un serpente tra il grigio delle case, per poi sbucare nel verde dell’aperta campagna, a respirare la quiete quasi soprannaturale di quel paesaggio deserto, che costeggiava il lago. L’olezzo pungente dell’acqua lacustre si insinuava nei pensieri di Hermione, che si era attardata sulla costa a contemplare il paesaggio, assorta, quasi ferocemente intenta a non guardare l’edificio in rovina che si innalzava, lugubre e sinistro, in fondo alla strada alle sue spalle.

Come se potesse bastare quello a cancellare ciò che era accaduto al suo interno: il ricordo di una fronte febbricitante bruciava ancora sulla sua pelle, scivolando lungo il suo collo come il brivido sottile ma costante del suo fiato concitato. Non aveva smesso di stringerla, ma la rabbia del suo tocco era scemata, si era convertita in un bisogno insopprimibile di aggrapparsi a lei come se fosse stata l’unico appiglio per cadere in un baratro nero di insania. Lei si era ritrovata a poggiargli una mano in mezzo alle scapole, un gesto che era diventato quasi una carezza, lenta e circolare, atta a calmare i singulti che gli sfuggivano, nonostante il fiero tentativo di trattenerli tra le labbra strette e livide.

Non aveva pianto, quello no. Quando si era staccato da lei aveva gli occhi completamente asciutti e anche prima, quando lei gli aveva sfiorato la mandibola contratta, scostandogli dal volto i capelli sudati, non vi aveva trovato tracce di lacrime. Solo quella bocca chiusa quasi a forza e gli occhi, per contro, spalancati su di lei, disarmanti e disarmati.

Era umano, fragile. E bello.

Hermione si voltò, udendo dei passi alle sue spalle.

“Ginny” sbottò, più brusca di quanto avrebbe voluto. “Mi hai spaventata”.“Scusa” replicò Ginny, fievolmente. “Non fa niente” Hermione scosse la testa. “Cosa c’è?”.“Volevo…” la ragazza si torse nervosamente le dita. “Mi dispiace di aver dato retta a Ron.

Harry mi ha detto tutto”.

Hermione trattenne il respiro. Un gemito strozzato le sfuggì dalla gola.

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“Ti ha detto… cosa?” si costrinse a domandare, con il cuore in gola.“Che non state assieme” rispose Ginny, incerta. “Avresti potuto dirmelo, però, che ti vedi

con un ragazzo”.

Non era nemmeno del tutto una menzogna, in effetti. Nella solitudine della stanza grigia, lontani da occhi indiscreti, i loro convegni assomigliavano ad appuntamenti segreti.

“Immagino che ti dispiacesse per Ron” Ginny sospirò. “Ma non gli avrei detto niente, insomma…”.

“Ginny...”.“Magari volevi tenerlo per te ancora per un po’. Lo capisco” proseguì Ginevra, tenendo

lo sguardo fisso a terra. Fece scorrere una ciocca di capelli tra le dita, lentamente, arricciandola attorno all’indice. “Vorrei solo che ti fidassi di me”.

Hermione corse verso di lei e l’abbracciò di slancio, ignorando il fruscio dei sacchetti di carta che cadevano mollemente sull’erba, abbandonati a se stessi. Dopo un attimo di esitazione, Ginny le passò un braccio attorno alla vita e la strinse a sua volta.

“Lo sai che mi fido” mormorò Hermione, dolcemente. “È solo che… è complicato”.

Ginevra le afferrò delicatamente i polsi e indietreggiò, per guardarla negli occhi.

“Tu sai sempre quello che fai” le concesse, alla fine, riluttante. “Di tutti noi, sei quella che ha più cervello. Credo che tu agisca così per un motivo, quindi…” scrollò le spalle, sorridendo, “me ne farò una ragione. Spero che prima o poi mi dirai tutto”.

“Vorrei tanto poterlo fare” Hermione si lasciò sfuggire un sospiro.“Non è Gryffindor, vero?” Ginny sollevò un sopracciglio. “Per questo non vuoi che si

sappia in giro”.“È complicato” ripeté lei, svogliatamente.

Era assai più che complicato: lui era un Mangiamorte, ancorché neppure diciassettenne. Un Mangiamorte ferito da un incantesimo illegale, tenuto nascosto e prigioniero per occultare un crimine commesso dal Prescelto. O forse era lui che Hermione si dannava tanto per proteggere? Aveva nascosto a Harry del Marchio Nero, obbedendo a chissà quale stupido impulso nei confronti di un ragazzo che la disprezzava con ogni cellula del suo purissimo sangue. Pensare in quei termini ad una relazione tra loro era pura follia.

“Stavi andando da lui?”.“Sì” rispose Hermione, sollevata di poter dire la verità almeno su quello.“Io torno da Harry” Ginny arrossì fino alla radice dei capelli. “Mi ha baciata”.“Era ora” commentò la ragazza, scoppiando a ridere. “Pensavo che avrei dovuto

prenderlo per i capelli”.“Credo volesse chiederti scusa” Ginny si ficcò le mani in tasca, imbarazzata. “Non mi ha

detto perché, però”.“Non è niente. Solo una stupida lite” Hermione sorrise, minimizzando. “Parlerò con lui

stasera. Ora va’”.

La abbracciò di nuovo, prima di salutarla, e la guardò andar via, osservando i raggi del sole che giocavano con il rosso dei suoi capelli, creando mille sfumature. Ginny sollevò la

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mano e la agitò, voltandosi appena nella sua direzione, poi corse a perdifiato verso il villaggio.

Malfoy la aspettava come sempre, in piedi, di fianco alla finestra, quasi rispettando una sorta di rituale convenuto. Quando Hermione comparve sulla soglia, lui teneva la fronte appoggiata al vetro: si voltò lentamente verso di lei, che non poté fare a meno di notare quanto sembrasse sofferente, per quanto assurdamente calmo, anche nel compiere quel gesto.

“Perché non posso uscire?” le domandò, prima di tornare a guardare fuori.“Incantesimo restrittivo” ribatté lei, pratica, posando i sacchetti sul letto. “Non potevo

certo permetterti di andartene a morire dissanguato da qualche parte”.“O di andare a denunciare Potter” soggiunse il ragazzo, lievemente sarcastico.“Anche” annuì lei, estraendo un pacco fasciato di verde scuro da una delle buste di carta.“Anche?” ripeté lui, scettico, calcando l’inflessione interrogativa.“Che tu ci creda o no, Malfoy, l’idea di avere dei morti sulla coscienza non è poi così

allettante” sentenziò Hermione, sedendo sul letto.

Lui sbiancò d’improvviso e spalancò le palpebre, sbarrando gli occhi, come preda di una fitta di dolore repentino e inaspettato. Arricciò il labbro superiore, scoprendo i denti bianchissimi e assumendo per qualche istante l’aspetto di un animale che fiuta il pericolo. L’impressione si dileguò quando lui rilasciò il respiro che aveva trattenuto sino ad allora, rilassando le spalle nude. Sul viso gli comparve un sorriso duro, amaro come le parole che pronunciò poco dopo.

“Lo so”.

Toccò a lei stavolta impallidire, il cuore stretto nella morsa di quelle poche sillabe e del disincanto insopportabilmente adulto di cui erano intrise. Lui la fissava, in silenzio, le narici dilatate e un’espressione incredula sul viso.

Spogliato della sua arroganza, umano, troppo umano.

Le diede le spalle di scatto, mostrandole il bianco accecante della sua schiena nuda.

Hermione abbassò gli occhi sul pacco che aveva in grembo, accorgendosi di avere stropicciato la carta che lo fasciava, di tenerla ancora stretta tra le dita dalle nocche sbiancate, che spiccavano in feroce contrasto con il verde scuro dell’involto. Sospirò e lentamente disfece il nodo che lo teneva chiuso, estraendone il contenuto.

“Ti ho portato una camicia”.

Le parve che lui si fosse girato a lanciarle un’occhiata, niente di più di un fuggevole battito di ciglia.

“Sono andata un po’ a spanne” proseguì, nervosamente, lisciando il cotone inamidato sotto i suoi palmi. “Spero non ti vada stretta”.

“Mi hai comprato una camicia?” chiese lui, con aperta incredulità. Le voltava ancora le spalle: il riflesso del vetro le mostrava il suo viso perplesso, in trasparenza.

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“Credi che potessi andare nei sotterranei e chiedere a Tiger e Goyle se potevano passarmene una delle tue?” sbottò la ragazza, infastidita, tornando a guardarsi le ginocchia. “È un’idea interessante, ma non credo che sarei stata molto credibile se avessi menzionato una torbida relazione tra noi a base di incontri clandestini e camicie strappate”.

“Non ci scommetterei” disse lui, staccandosi dalla finestra.“Sono davvero così tonti?” si stupì Hermione.

Il ragazzo scrollò le spalle, sfoderando un’espressione insofferente, e continuò ad avanzare, fino a fermarsi di fronte a lei e allungare una mano con due dita tese: Hermione fu colta dal desiderio assurdo di posarvi le sue, di saggiare quella pelle con la propria per sentire se fosse veramente così fredda quanto il suo nitore suggeriva. Vi appese invece la camicia per il colletto, nascondendo sotto le onde scure dei capelli il rossore delle gote provocato da un ricordo improvviso: anche solo per la febbre, lui sapeva bruciare sotto le sue dita.

Incontri clandestini e camicie strappate.

No, non era assolutamente nei termini in cui l’aveva inteso lei, assecondando le allusioni di Ginny per allontanare i suoi sospetti.

“Non ci scommetterei”.

La camicia gli cadeva addosso perfettamente, accentuando la linea elegante e solida delle spalle: Hermione ne fissò i lembi accostati, seguendo il movimento disinvolto delle dita che infilavano i bottoni nelle asole e salivano, verso l’alto, a sistemare il colletto.

“Hai tu la mia bacchetta?”.

La ragazza annuì.

“Immagino che tu non abbia intenzione di restituirmela”.“Non posso tenerti qui per sempre” ribatté lei, quasi stupendo anche se stessa.

Le sopracciglia di lui scattarono verso l’alto, arcuandosi.

“Immagino che ci siano solo due alternative” Hermione si morse il labbro inferiore, tormentandosi le mani posate in grembo. “Potrei rimettere tutto nelle mani delle autorità: per me sarebbe la cosa più semplice”.

“E che fine farà il tuo amico Sfregiato?” Malfoy le rivolse uno sguardo scettico, come nel tentativo di saggiare un eventuale bluff.

“Esiste la legittima difesa” lei scrollò le spalle, ostentando sicurezza.“È la mia parola contro la sua” obiettò lui. “E non è un mistero che io non gli sia mai

piaciuto”.“Se dovessi eseguire l’Incanto Reversus sulla tua bacchetta, quale incantesimo vedrei?”

lo interrogò la ragazza, calma. “Ma forse non ci sarebbe neppure bisogno di farlo, non credi? Magari agli Auror basterà dare un’occhiata al tuo braccio. Quanto vale la parola di un Mangiamorte?”.

“Ti credi tanto furba, tu” ringhiò lui, a denti stretti, “a stare qui, di fronte a me, senza la bacchetta in mano? Sapendo quello che sai?” slacciò rapidamente il polsino della camicia, arrotolando la manica, portando alla luce tutta l’oscurità concentrata nelle linee tracciate sul suo braccio. “Perché non mi hai denunciato, dopo aver visto questo?”.

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Aveva obbedito ad un impulso, stupido ma insopprimibile.

Forse era lei quella davvero prigioniera, tra loro: intrappolata in una stanza fatta di parole, tra mura di silenzi reciproci e sguardi che erano finestre, che talvolta davano sollievo, ma più spesso la tormentavano. Prigioniera di lui, che era carcere e carceriere, forzatamente legata ad una catena infinita di segreti da recitare a memoria come preghiere silenziose, per non dimenticare mai a chi erano collegati. E il più grande di tutti era lì, sotto i suoi occhi, tracciato in linee di inchiostro su una tela altrimenti immacolata.

Scandagliò gli occhi grigi e spalancati che lui le stava ancora puntando addosso, in cerca di una risposta da dargli.

“Aiutami”. E lui, che ardeva sotto le sue dita.

La risposta le uscì dalle labbra come un soffio, prima di poter anche solo pensare di trattenerla.

“Perché sei nei guai”.

Pansy Parkinson, furibonda, si scagliò di nuovo contro Vincent Tiger, che impallidì, scostandosi all’indietro: fu Gazza a trattenerla, afferrandola per il colletto della divisa. La ragazza, minuta ma tenace, tentò di divincolarsi assestando un calcio al custode, colpendolo di striscio, su uno stinco, ma lui, pur boccheggiando, non mollò la presa. Lei allora lanciò uno strillo, simile al verso di una gatta infuriata e tornò a scaricare l’ennesima sequela d’improperi ai danni del compagno di scuola, che la osservava intimorito, nonostante la sua stazza. Piton sospirò, portandosi la mano alla fronte.

“Signorina Parkinson” intervenne, alla fine, trattenendo una smorfia, “devo ricordarle che lei è un Prefetto e pertanto le sarebbe suggerito di mantenere un contegno quantomeno rispettabile?”.

“Scusi, Professore. È colpa di questo idiota” la Parkinson prese fiato, scuotendo il caschetto bruno per scostarsi i capelli dal volto congestionato, “Lui e il suo amico scimmione cercano di darmi a bere le loro stupidaggini”.

“Presumo che l’amico in questione sia il Signor Goyle” Piton cercò la conferma da Tiger, che si affrettò ad annuire. “Qual è il problema, Signorina Parkinson?”.

“Non vogliono dirmi dov’è Malfoy!” la ragazza batté forte per terra con il tacco della scarpa. “Loro lo sanno, ne sono sicura! Sanno sempre tutto questi due” concluse, fissando il ragazzo in disparte, a muso duro.

“Cosa le fa pensare che lo sappiano?” il Professore intrecciò le mani dietro la schiena e la fissò. La Parkinson vacillò lievemente sotto il suo sguardo.

“Con loro parla” rispose, arricciando il naso. “Quasi sempre”.“E perché dovrebbero confidarlo a lei? Posto sempre che ne siano al corrente, è ovvio” la

incalzò Piton, squadrandola dall’alto in basso. “Visto che il signor Malfoy non si è premurato di dirglielo di persona”.

Confusa, la ragazza aprì la bocca per rispondere, ritrovandosi a smozzicare brandelli di parole inconcludenti.

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“Ha messo in imbarazzo la sua casa e aggredito un compagno senza motivo. È in punizione per tutta la prossima settimana” il Professore fece un cenno a Gazza. “La lasci. Non credo che la Signorina Parkinson si produrrà ancora in simili esibizioni, non è vero?”.

“Ma, Professore, Malfoy…” tentò di obiettare lei.

Piton la bloccò, con il palmo della mano sollevata.

“Ho già fatto presente al Professor Silente e al Consiglio dei Docenti che il Signor Malfoy ha dovuto assentarsi da scuola a causa della sua complessa situazione familiare” disse, gravemente. “Lei certo saprà di cosa parlo, visto che è così intima con lui”.

Vide la ragazza farsi paonazza e abbassare lo sguardo, intimidita dal suo tono autoritario. Gazza, persuaso dalla sua improvvisa docilità, lasciò andare l’estremità inamidata del colletto della sua camicia, e lei si strinse nelle spalle, compita. Piton fece cenno ai due studenti di congedarsi.

“Quanto a lei, signorina Parkinson” soggiunse, flemmatico, “si presenti nel mio ufficio domani alle sei. Troveremo una punizione adeguata al suo caso”.

I due ragazzi si allontanarono, camminando a debita distanza l’uno dall’altra, la Parkinson davanti, con la sua andatura quasi inconsapevolmente leziosa, e Tiger dietro, a passi pesanti e goffi che riecheggiavano picchiando sul pavimento come colpi di grancassa. Li seguiva il Custode, che dopo avergli rivolto un ossequioso cenno di saluto, si era incamminato lungo il corridoio assieme a Mrs. Purr, che trotterellava accanto a lui facendo le fusa.

Piton voltò loro le spalle, riflettendo.

Silente si era mostrato alquanto perplesso di fronte alla notizia della sparizione di Malfoy. Aveva appoggiato la fronte alla mano sana, mentre l’altra giaceva in grembo, i segni della necrosi sempre più evidenti sul tessuto carbonizzato, oramai annerito in troppi punti.

“Severus” aveva detto e la sua voce era risuonata roca, incerta. Per la prima volta, come la voce di un vecchio. “Severus” aveva ripetuto, con una tenerezza di fondo, quasi paterna, che gli raspava la gola. “È indubbio che tu debba fare quello che puoi, per trovarlo. Tuttavia,” aveva aggiunto, sollevando l’indice della mano sinistra, “ricorda che non tutto il male viene per nuocere”.

“Non la seguo, Preside” Piton si era quasi incollerito. “La situazione è grave. L’Oscuro Signore lo sta cercando. Cosa mai può venirne di buono?”.

“Hai detto tu stesso, Severus, che quel ragazzo ha diritto ad un’occasione” Silente aveva inspirato profondamente, apparendo più affaticato che mai. “Molte cose potrebbero cambiare, se lui facesse la scelta giusta”.

“Non può certo farcela da solo, però” aveva obiettato lui, passeggiando nervosamente per la stanza.

“È chiaro” il Preside aveva annuito gravemente. “Qualcuno dovrà guidarlo”.

Severus si era stretto nelle spalle. Se solo il ragazzo si fosse fidato abbastanza di lui, probabilmente non sarebbe scappato. Se lui non fosse stato costretto a mantenere la copertura, se avesse potuto muoversi liberamente, se, se, se.

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Aveva avuto ben poche scelte, eppure gli era impossibile assolversi da quel senso di colpa, che lo divorava lentamente, dall’interno. Si era passato una mano sul volto livido e aveva incrociato lo sguardo di Silente. La scintilla che vi aveva scorto, incastonata in una fitta ragnatela di rughe, lo aveva spinto a domandarsi, non per la prima volta, se il Preside avesse davvero bisogno della legilimanzia per conoscere i suoi pensieri. Probabilmente no.

“Non sarebbe mai venuto da te, Severus. Né da me. Noi non possiamo fare nulla per lui” Silente aveva allargato le braccia, scuotendo il capo, desolato.

“Ma, Preside, lei ha appena detto…”“Qualcuno deve guidarlo, sì” il Preside aveva annuito. “Ma non io, e nemmeno tu”.“E allora chi?”.“Qualcuno che può dargli qualcosa che non rientra nelle tue possibilità, o nelle mie” il

viso di Silente era stato rischiarato da un sorriso e la ragnatela di rughe si era estesa fino a sfiorare la barba. Il vegliardo appariva sereno, quasi trasfigurato.

“Che cosa, Preside?” aveva domandato Piton, colpito.“La speranza, Severus. La speranza”.

Speranza. Odiava quella parola.

Da ragazzo aveva sperato di scorgere negli occhi di una fanciulla lo stesso sentimento che animava lui, ogni volta che si soffermava a contemplarla, scivolando lungo il mare di fuoco che le contornava il viso.

Aveva sperato con tutto se stesso di essere capace di non rovinare tutto. Aveva sperato che vendicarsi lo facesse stare meglio, ottenendo in cambio solo il

rimorso che bruciava come sale negli occhi, il sale delle lacrime che non riusciva a versare. E la condanna inalienabile di scorgere per sempre, con una fitta di frustrazione, gli occhi che più aveva amato su un volto ostile.

Severus si sporse dal balcone, guardando verso il basso, da dove proveniva un vociare confuso. Gli studenti di ritorno da Hogsmeade affollavano il cortile, a gruppi o a coppie: lasciò vagare lo sguardo arcigno su quella folla ridente, colpito da un ricordo lontano. La rossa nel cortile, abbracciata a Potter, rideva di gusto.

Fissava i lunghi capelli rossi di Lily scorrere come lava tra le dita di Potter, mentre lui le sussurrava qualcosa all’orecchio ridendo. Lei era arrossita e aveva sorriso a sua volta, lasciandosi abbracciare.

I capelli erano rosso chiaro però, screziati di rame, e la figura ancora di ragazzina. Ginevra Weasley.

Scorse, più in là, un’altra fiammata di arancione vivo che sovrastava una stazza massiccia e robusta. Il ragazzo, Ronald Weasley, soprannominato il Re dagli inclementi studenti di Slytherin, aveva il braccio attorno alla vita di una sua compagna di casa, una bionda dall’aria svampita che sfoggiava un sorriso soddisfatto.

Naturalmente, mancava la Granger.

E Malfoy era scomparso. Assieme ad una fiala di dittamo dalla sua scorta personale.

Page 37: Choices: Path of Blood

Perché mai un ragazzo in fuga avrebbe dovuto rubare il dittamo? C’erano tante altre sostanze molto più utili, oltre a pozioni già preparate che avrebbe potuto prelevare tranquillamente dalla dispensa.

Il sole stava tramontando, una palla arancione che si fondeva con la linea scarlatta dell’orizzonte, e gettava ombre lunghe sul paesaggio, sfumando di amaranto le mura del castello e i mantelli leggeri degli studenti che si affrettavano a rientrare in tempo per il coprifuoco. Severus scorse una figuretta isolata, i cui capelli ricci e folti, così illuminati dalla luce crepuscolare, somigliavano ad un cespuglio in fiamme.

La Granger, da sola, che veniva dal giardino, camminando in fretta e furia con un involto stretto al petto, il fiato corto e l’aria circospetta.

Lei, di sicuro, sapeva a cosa serviva il dittamo.

Il soffitto era di un grigio spento, sporco e chiazzato di umidità: pezzi di ragnatele ormai inutilizzate pendevano qua e là, raccogliendo riccioli di polvere. Steso sul letto, le braccia incrociate dietro la nuca e la camicia slacciata, Draco li guardava ondeggiare nell’alone fioco e tremolante del lume che la Mezzosangue gli aveva lasciato sul comodino, prima di lasciarlo solo, prigioniero di una casa vuota.

Nella stanza aleggiava ancora il suo profumo, quel misto di cotone fresco e di pelle pulita che gli si insinuava nelle narici, impossessandosi dei suoi pensieri, trascinandoli verso l’alto in un volo vertiginoso che quasi lo stordiva.

Gli aveva chiesto se avesse bisogno di libri, una preoccupazione così tipica di lei da fargli scappare un sorriso, immediatamente nascosto dietro il palmo della mano a coppa. Lui aveva scosso il capo e quando lei gli aveva domandato cosa potesse servirgli aveva risposto la prima cosa che gli era passata per la testa.

“Sigarette”.

La ragazza aveva spalancato la bocca e aveva sbattuto ripetutamente le ciglia, scandalizzata.

“E dove pensi che potrei procurarmele, scusa tanto?” aveva domandato, con una punta di esasperazione, roteando gli occhi verso l’alto.

“Chiedi in giro” lui aveva scrollato le spalle, quasi sfidandola.

Erano rimasti a fissarsi a lungo, mentre l’eco di altre parole, più difficili da pronunciare e ancora di più da udire, risuonava tra loro, come un’onda che minacciava di travolgerli, prima lui e poi lei, o magari viceversa, in un ciclo infinito che si traduceva nel loro personale circolo vizioso.

“Permettimi di aiutarti”.

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PROPHECY

~ n o l l e n o c e r e ~

«Tu vas me détruire,j ’aurais pu le prédire,

dès le premier jour,dès la première nuit»

Luc Plamondon, Notre Dame de Paris

A notte fonda, Lavanda si rigirava nel letto, lamentandosi sommessamente; nel letto accanto al suo, Calì dormiva sonni profondi, con un sorriso sereno sul volto illuminato dal chiarore ambrato della piccola candela votiva, posta sulla mensola vicino al suo letto. La fiamma di quel piccolo cero non si spegneva mai né esso si consumava, per effetto della magia con cui la gemella Padma, di Ravenclaw, lo aveva incantato prima di donarglielo assieme ad una statuetta di argilla, raffigurante Ganesh, il dio elefante, la cui ombra sfocata e dilatata si proiettava contro contro la parete bianca.

Il dormitorio femminile di Gryffindor era immerso nel silenzio che caratterizza le ore dedicate al riposo: sporadici rumori, come il cigolare delle molle di un letto o un gemito, un sospiro che si levava di quando in quando da un giaciglio, si fondevano con la quiete notturna.

Nel letto sotto la finestra, Hermione era seduta a gambe incrociate, perfettamente sveglia nonostante l’ora tarda, lo sguardo rivolto al cielo, di una tinta fosca e insolita che virava dal violaceo al blu pavone. Su quel fondo così singolare che ricordava le sfumature dell’inchiostro annacquato, le stelle apparivano gialle come tuorli d’uovo, offuscate da una patina opaca. La ragazza contemplava lo spettacolo, affascinata al punto di abbandonare il libro che stava leggendo fino a poco prima, che giaceva sulle sue gambe, aperto a metà, alla pagina dedicata alle pozioni d’amore.

L’ennesimo grugnito di Lavanda la strappò bruscamente alla contemplazione di quell’insolito spettacolo: Hermione si voltò verso il letto della compagna, che stringeva tra le dita il lenzuolo e lo strattonava, forse nel tentativo di sfilare l’estremità inferiore da sotto il materasso. Improvvisamente, quando già Hermione stava chiedendosi se non fosse il caso di svegliarla, Lavanda si calmò e assunse un’espressione serafica, rilassando i muscoli e ricadendo all’indietro sul proprio letto. Poi, altrettanto repentinamente, balzò a sedere, strabuzzando gli occhi, pallida in volto a parte due chiazze scarlatte all’altezza degli zigomi.

“Ha funzionato!”.

Hermione la contemplò per qualche istante, a metà fra scetticismo e sorpresa: aprì la bocca per domandarle cosa, di grazia avesse funzionato e perché stesse strepitando così nel bel mezzo della notte, ma con suo sommo stupore, Lavanda si precipitò a svegliare Calì, scuotendola energicamente per una spalla. La ragazza sbadigliò e si rizzò a sedere a fatica, stropicciandosi le palpebre con i pugni chiusi, per poi lanciare alla compagna uno sguardo stizzito, con gli occhi di velluto scuro ancora velati dal sonno.

“Si può sapere che fai sveglia a quest’ora?” brontolò Calì, con la voce impastata.

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“Calì, la pozione ha funzionato!” Lavanda sedette sul letto dell’amica, gesticolando eccitata. “Ho sognato!”.

“Ma cosa...” Calì strabuzzò gli occhi, finalmente sveglia. “Sul serio?”.“Ti dico di sì! Oh, Calì” proseguì Lavanda, dominando a stento l’agitazione, “Ron mi dirà

che mi ama!”.“È fantastico” rispose quella, tiepida. “Ma sei sicura che non fosse solo... ehm... lo sai...”.

Lavanda scosse energicamente il capo, facendo ondeggiare i bigodini rosa con cui si acconciava i capelli la notte.

“Ti dico di no! Ho sognato anche altre cose, però, per cui dovranno succedere tutte prima che lui si dichiari” precisò, con voce sognante, sbattendo le ciglia in maniera civettuola.

Calì sbuffò, roteando gli occhi verso l’alto.

“Sentiamo, cosa dovrebbe accadere?” domandò, allargando le braccia, rassegnata.“Per prima cosa, Paciock ti bacerà in Sala Comune” cominciò ad enumerare Lavanda.

Calì la interruppe bruscamente.“Paciock?” ripeté, con lo stupore dipinto sul volto. “L’unica donna che abbia mai baciato

Paciock è sua nonna. E sarà anche l’unica che bacerà per il resto della sua vita, credo”.

Hermione si morse il labbro per trattenere una risposta mordace. Avrebbe voluto sottolineare che per lo meno Neville, per quanto ripiego, al Ballo del Ceppo non era stato scaricato su una sedia dalla sua accompagnatrice. Avrebbe voluto rimarcare che magari era goffo e timido e non giocava a Quidditch, ma era gentile e aveva qualità insospettabili. Avrebbe voluto, ma quelle due non parlavano con lei. Quando mai lo avevano fatto?

Frattanto, Lavanda era passata alla seconda profezia.

“Ti dico che la macchina fotografica di Colin si romperà, perché lui la farà cadere”.“Lavanda, tesoro” Calì parlava in tono conciliante, “sai quanto ci tiene a quell’aggeggio

infernale. Non la lascerebbe cadere neppure di fronte a Tu-sai-chi in persona armato di bacchetta”.

“Succederà” ribadì Lavanda, piena di sicumera. “Ma prima Piton...”.“Piton che cosa?”.

Lavanda, invece di rispondere, si voltò bruscamente verso Hermione: il movimento fece ondeggiare pericolosamente i bigodini, già piuttosto instabili. Un boccolo biondo, spirale morbidamente perfetta di seta aurea, sfuggì all’acconciatura da notte della ragazza e lei lo spostò dalla fronte con le dita.

“Ti vedi con qualcuno, vero?”.

Suo malgrado, Hermione avvampò violentemente. Portò le mani al viso, sulle gote in fiamme e si morse il labbro inferiore, sbuffando dalle narici.

“Non vedo come questi siano affari tuoi” rispose, piccata. “Vedi?” Lavanda si voltò trionfante verso Calì. “Piton la sorprenderà a baciarsi con un

ragazzo di nascosto”.

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La Patil esibì un’espressione incredula: si soffermò a studiare Hermione, che ricambiò lo sguardo, vagamente irritata da tanto scetticismo - e perché era arrossita? Incontri clandestini e camicie strappate non preludevano certo ad una relazione segreta, né a baci rubati nella penombra della stanza grigia. Erano solo un’esigenza dettata dalla situazione, qualcosa che lei non poteva evitare - oltre che dalla presunzione di Lavanda, la cui ammirazione per la Cooman doveva essere sfociata, evidentemente, in un serio disturbo mentale. Frattanto, Calì era tornata a fissare l’amica, il viso atteggiato ad una sorta di rassegnazione.

“Sicura che la pozione che hai preso non contenesse allucinogeni, vero?”.“Calì! Dubiti di me?” berciò Lavanda, indignata. “Ti ho appena dimostrato che non mi

sbaglio, lei non ha negato!” esclamò, tendendo l’indice verso Hermione.“Frena, frena” intervenne quest’ultima, “di quale pozione state parlando?”.

La Patil allargò le braccia e sospirò, roteando gli occhi verso l’alto.

“Lavanda ha scovato uno strano libro in Biblioteca, e ha deciso di provare una pozione che, ehm,” Calì si schiarì la gola, imbarazzata, “che indurrebbe sogni profetici”.

“Che genere di libro?”. “Non lo sappiamo” Calì scosse la testa, fissando ostinatamente il pavimento.“Ho fatto in tempo a copiare la ricetta della pozione” Lavanda si grattò il mento, “ma poi

la Pince ha visto cosa stavamo facendo e ci ha portato via il libro”.

Hermione sbatté rapidamente le palpebre, perplessa.

“Nessuna pozione può fare quest’effetto” sentenziò, recisamente. “La Veggenza autentica è rara e innata, non si può certo ottenere con questi trucchetti”.

“Parli proprio come un libro stampato” Lavanda fece una risatina. “Allora, sentiamo, come avrei fatto a sapere che ti vedi di nascosto con qualcuno?”.

“Hai semplicemente sognato” Hermione fece spallucce. “E comunque” aggiunse, tentando di suonare credibile, “non faccio proprio nulla di nascosto. Perché dovrei, oltretutto? Sono libera di fare quello che voglio”.

“È ovvio” replicò l’altra, cominciando a rimuovere i bigodini, uno dopo l’altro, sciogliendo via via le ciocche bionde, che le ricadevano morbidamente sulle spalle. “Non è un Gryffindor”.

“Mi sembra un’argomentazione un po’ forzata” obiettò Hermione, debolmente. “Ginny è uscita con dei ragazzi di Hufflepuff, ma nessuno l’ha mai accusata di nulla”.

“Ovviamente no, ma non credo che quello fosse di Hufflepuff” disse Lavanda, in tono allusivo.

“Lavanda, tesoro, non è che io voglia dubitare delle tue doti di veggenza” Calì espirò rumorosamente, “ma, ecco... magari hai solo sognato quello che vorresti”.

“Che cosa vorresti dire?” saltò sù, infuriata, la Brown. “Che desidero che Paciock ti baci? O che a Colin si rompa la macchina fotografica?”.

“Beh, ecco, magari non la storia di Neville” si spiegò la Patil, imbarazzata, lisciandosi ostinatamente una ciocca di capelli corvini. “Ma di certo desideri che Ron si dichiari” si bloccò, voltandosi a fissare Hermione, che si passò una mano sul volto e la esortò, con un gesto sbrigativo, a continuare. “E se lei trovasse un altro ragazzo, ti lascerebbe del tutto campo libero”.

“Ron sta con me perché mi ama!” strillò Lavanda, facendosi paonazza. “Nessuno può separarci!” aggiunse, con il labbro inferiore che tremava. “Lui mi ama, io lo so!”.

“Ma certo che ti ama, tesoro” Calì la abbracciò, tentando di confortarla. “Vedrai che con il tempo lo capirà anche lui” disse, dolcemente, accarezzandole i boccoli biondi. Hermione

Page 41: Choices: Path of Blood

si accorse che la ragazza stava guardando lei, con le palpebre spalancate, e che le sue labbra stavano formulando una muta richiesta di soccorso.

Dille qualcosa.

“Sta’ tranquilla” intervenne, allora, sforzandosi di suonare sufficientemente convincente. “Non voglio certo portartelo via. Se lui è felice con te... è giusto che stiate insieme” terminò, stringendosi appena nelle spalle.

Lavanda si voltò di scatto a guardarla, raggiante.

“Davvero?” domandò, speranzosa, afferrandole i polsi. “Oh, grazie!”.

Hermione abbozzò un sorriso imbarazzato, perplessa dall’espansività della compagna, le cui gote erano infiammate di eccitazione.

“Gli voglio bene” mormorò, rammentando l’adorazione che brillava negli occhi azzurri di Lavanda ogni volta che guardava Ron, anche solo quando lui veniva citato di sfuggita, che parlava di un sentimento che si discostava ampiamente dall’affetto familiare e rassicurante che sentiva lei. “Ma non provo per lui quello che provi tu”.

Si ritrovò travolta in un abbraccio soffocante, con il profumo leziosamente dolce della ragazza che le penetrava nelle narici, insinuando in lei l’idea di essersi improvvisamente materializzata in un negozio di caramelle. Lavanda le riversò addosso tutta la sua gratitudine, fatta di un fiume di parole che si susseguivano così rapidamente da essere quasi incomprensibili e di qualche isolata lacrima di felicità.

“Grazie, grazie, grazie” ripeté, quasi ossessivamente, “sono davvero felice che tu abbia trovato qualcun altro!” esclamò, con voce troppo acuta. “Non avrei voluto farti del male!”.

No, di certo Lavanda non era quel tipo di ragazza e nemmeno lei lo era, si disse, mentre si liberava delicatamente ma con fermezza da quella stretta troppo invadente. Il massimo accesso di rabbia che avesse mai avuto contro Ron era sfociato nel volo un po’ troppo irruente di un paio di canarini. Non era una persona violenta. Dovendosi vendicare, avrebbe scelto una maniera sottile, sofisticata, complessa.

“Certo, Lavanda, io... lo so” la rassicurò, guardandola negli occhi.

Lavanda le sorrise, illuminandosi, e tornò verso il proprio letto, per rimettersi a dormire. Calì, che non si era mai mossa da suo, scosse la testa, sbuffando, e si voltò dall’altra parte.

Hermione rimase seduta a lungo a fissare il soffitto immacolato, sfogliando distrattamente il libro di Pozioni.

Non aveva mai attaccato nessuno a sproposito. Aveva solo schiaffeggiato Malfoy, una volta, e lui se lo meritava, perché la faceva infuriare, calpestandola ossessivamente, come rispettando un rituale ben preciso in quella sorta di devozione al contrario, che inevitabilmente finiva per causarle un moto di ribellione che trascendeva il controllo che lei si era autoimposta in sua presenza.

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Il controllo che avrebbe inevitabilmente perduto, tra le ombre di fumo dei suoi occhi e il suono sommesso delle parole che lui avrebbe pronunciato, non più tardi di quella sera.

Aveva finto di non notare lo sgambetto che Lavanda aveva fatto quasi inavvertitamente ai danni del povero Neville. Non aveva certo voluto nuocere a nessuno, Lavanda Brown: era stato un nulla, poco più di un movimento appena accennato del ginocchio e il piede che si era sporto in avanti, a fare leva sulla caviglia di Paciock, il quale si era ritrovato, sbilanciato in avanti, ad adagiarsi quasi con grazia tra le braccia di Calì Patil, con il volto a pochi centimetri dal suo. La ragazza era avvampata furiosamente e aveva tentato di divincolarsi, ottenendo solo di ritrovarsi con le labbra incollate a quelle di lui.

Neville si era raddrizzato di scatto, balbettando qualche parola di scusa, ed era tornato, girando sui tacchi, nel dormitorio maschile, seguito dai fischi di approvazione e dagli applausi dei compagni. Le ragazze invece si erano accalcate tutte attorno a Calì, tutte tranne Hermione, che era scesa diligentemente per colazione, non prima di aver scoccato a Lavanda un sorrisetto eloquente.

A mensa, Ron continuava ad ignorarla.

Hermione registrò quell’informazione con una punta di fastidio, perfettamente consapevole che quella situazione non poteva durare molto a lungo. Prima o poi uno dei due avrebbe ceduto: presumibilmente, sarebbe stato lui, a giudicare dall’espressione malinconica che gli si stampava in volto quando credeva che lei non guardasse.

Lavanda, che sedeva di fianco a lui, gli porse premurosamente una fetta di pane imburrato con la marmellata, strappandogli un fuggevole sorriso che gli illuminò il volto - quel volto che era così buono e che poteva diventare così cattivo, certe volte, distorto dalla rabbia maligna che lo faceva assomigliare a quello di un folletto dispettoso -. Il ragazzo mangiò direttamente dalla mano di Lavanda, mandandola in solluchero.

“Ti manca?”.

Una voce amichevole interruppe il corso dei suoi pensieri.

“Non c’è nulla di male ad essere gelosa” continuò Harry, gentile. “Non sono gelosa” puntualizzò Hermione, stupendosi di quanta verità vi fosse in quelle

parole. “Vorrei solo che fossimo ancora amici”.“Ma io credevo...”.“Lo so” lo interruppe lei. “Lo credevo anche io, il fatto però è che...” Hermione sospirò,

passando l’indice sul bordo del bicchiere vuoto davanti a lei. “Guardali. Non sono carini?”.“Sì, beh” tossicchiò Harry, in imbarazzo. “Ma lui vuole te, Hermione. Ha sempre voluto

te!”.“No” la ragazza sorrise. “Lui crede di volere me, come io credevo di volere lui. Succede”

mormorò, alzando istintivamente lo sguardo verso l’alto. “Vedi qualcuno e pensi: ecco, questa persona mi piace. Oppure: questo lo odio. E te lo porti dietro per sempre”.

“Non c’è nulla di male” disse il ragazzo, premuroso.“No, nulla” convenne lei. “Solo che le idee si possono cambiare, quando si cresce”.“E allora?” domandò Harry, con preoccupazione palpabile.

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“E allora, io non voglio fargli del male. Sono felice che abbia trovato la ragazza giusta” concluse, stancamente.

“Ma lei...”.“Lei non è me?” Hermione inarcò un sopracciglio, scoccando a Harry un’occhiata

allusiva.

Il ragazzo annuì, riluttante, sbattendo rapidamente le palpebre.

“Ma lui è felice, con lei. Adesso, intendo, non prima” Hermione indicò in direzione di Ron e Lavanda, che si scambiavano effusioni discrete. “Noi saremo sempre amici. Sempre noi tre” proseguì dolcemente, notando lo sguardo velato di nostalgia che Harry aveva rivolto al loro amico. “Ma dobbiamo rassegnarci all’idea che ognuno di noi avrà anche altre persone nella sua vita. Tu hai Ginny, lui ha Lavanda”.

“E tu? Cos’hai tu?”.

Hermione abbassò rapidamente lo sguardo, per nascondere agli occhi attenti del suo amico la vampata di calore che le aveva colorato le gote di rosso vivo. Non aveva motivo di sentirsi così.

“Io ho i miei libri” replicò, fingendo una leggerezza che non provava. “E prima o poi avrò anche qualcos’altro. Qualcuno” sorrise, ottimista, “ma non lui”.

“Va bene” acconsentì il ragazzo, dando ancora qualche segno di scetticismo. “E tra noi è tutto a posto, vero?”.

Avevano fatto pace la sera prima, chiacchierando di fronte al camino della Sala Comune. Era stata una cosa molto carina. Lui l’aveva anche abbracciata.

“Tutto a posto sì”.“Allora vado. Ginny vuole stare un po’ con me, prima dell’inizio delle lezioni”. “Ma certo”.

Harry si voltò un paio si volte a guardarla, mentre si allontanava, con un cipiglio preoccupato stampato sul viso.

“Cos’hai tu?”.

Incontri clandestini e camicie strappate.

Era davvero così miseramente sola da ricercare emozioni in qualcosa che non aveva ragione d’essere se non nella segreta intimità di una stanza chiusa? Forse il suo rapporto ideale trovava la propria naturale essenza nell’irrealtà, nella sua strenua ricerca della perfezione. Nulla può essere davvero perfetto, a meno che non sia impossibile.

“Cos’hai tu?”.

Un appuntamento.✥

Gli ronzava in testa da quando l’Oscuro Signore lo aveva convocato senza preavviso.

“Questa storia potrebbe avere conseguenze spiacevoli, Severus”.

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“Mio Signore, sono certo che il giovane Malfoy non intendeva offendervi. Di certo gli è capitato qualcosa” aveva tentato di obiettare lui, prudentemente.

“Trovalo” aveva replicato l’Oscuro Signore con una smorfia crudele sul volto amorfo. “O risponderai tu, al posto suo. Tu e naturalmente...”.

La sagoma spettrale aveva sollevato una mano ossuta, indicando una sagoma raggomitolata su se stessa, che si teneva il capo e singhiozzava disperata. Dalle dita, che tremavano senza controllo, sfuggivano poche ciocche di capelli dorati. Accanto a lei, un’altra donna, con i capelli scuri e lo sguardo da invasata, la squadrava dall’alto in basso, impietosa.

“Sono certo che non sarà necessario, mio Signore”.

Severus si era inchinato, nascondendo l’orrore dietro il servilismo abietto che il suo Padrone tanto gradiva.

“È ammirevole, tanta sicurezza, quando ci sono in gioco delle vite” aveva commentato il Mago Oscuro, con una sorta di freddo divertimento.

“Non ti pare che il Prefetto Granger si comporti in modo strano, ultimamente? È scappata anche oggi, quasi correva lungo il corridoio, diretta alle scale”.

Piton si voltò per rimproverare la proprietaria di quella voce così leziosa, che quasi urlava, come se volesse farsi sentire, e si trovò faccia a faccia con Lavanda Brown, che gli rivolse un timido cenno di saluto. Dietro di lei, la Patil cercava di farsi più piccola possibile.

“Dov’è andata la signorina Granger?” domandò brusco.“Oh, credo andasse in giardino” replicò la Brown, in maniera affettatamente casuale.

“Forse doveva incontrare qualcuno”.

Severus voltò le spalle alle due ragazze, in uno svolazzare cupo della veste scura, e si diresse verso la scalinata, inseguendo il presentimento che lo tormentava dal giorno prima.

La Granger. Malfoy. Era impossibile.

No. Era un disastro.

Al suo appuntamento, Hermione giunse in ritardo, ansante, con il volto arrossato, gli occhi lucidi e i capelli scarmigliati.

Malfoy attendeva, inquieto, seduto sul letto con i gomiti appoggiati alle ginocchia e lo sguardo rivolto al pavimento; solo sentendola arrivare sollevò gli occhi sulla soglia, svelando il pallore del volto e i segni perlacei dei morsi con cui si era tormentato le labbra.

“Ho dovuto seminare il Professor Piton” si giustificò lei, nervosa.

Il ragazzo scrollò le spalle, quasi infastidito, e si sfregò la fronte, inspirando a fondo.

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“Se lo conosco almeno un po’, dubito che tu ci sia riuscita” commentò, a bassa voce. “Che vuoi dire?”.“Quell’idiota di Potter crede di poterlo fregare” rispose lui, storcendo le labbra in un

ghigno freddo, “ma pensavo che almeno tu fossi più furba. Severus Piton non è uno stupido, né un avversario da sottovalutare”.

“Perché dici avversario, Malfoy” domandò lei, non osando sedergli accanto, non osando neppure muoversi per portarsi vicina alla sedia che stava di fronte al letto, “lo consideri un nemico?”.

“Dimmelo tu” replicò sarcastico il ragazzo. “Io non so più chi è mio nemico. Lascia che ti dia un consiglio, però, Sanguesporco”.

Hermione fece una smorfia, infastidita da quell’appellativo.

“Ossia?” lo interrogò, slacciandosi con cura gli alamari che le tenevano chiuso il mantello.

“Non c’è da fidarsi di chi fa il doppio gioco”.

Il tono amaro e distaccato della sua voce la gelò, immortalandola immobile con le mani accostate alla gola, vittima indifesa offerta allo sguardo indagatore di lui, che la squadrò da capo a piedi, più d’una volta, prima che lei ritrovasse la forza di emettere un suono dalla gola, chiusa e riarsa.

“Lo dici per esperienza?” domandò, cercando di suonare disinvolta.“Io non ho mai fatto il doppio gioco” ribatté lui, con una punta di sarcasmo. “E il Professor Piton, invece?”. “Lo fa di continuo: lo fa con voi, lo fa con Lui. Oltre che con me. Ciò che non mi è

chiaro” aggiunse, sollevando di scatto un sopracciglio, “è per chi lo faccia”.“Sei assurdo” sbuffò lei, riscuotendosi dalla sua immobilità e lasciando cadere il

mantello scuro sulla sedia. “È una brava persona” affermò, convinta, raddrizzando le spalle.

Lui le restituì uno sguardo indecifrabile, attraverso la cortina di capelli biondi che gli gettavano un’ombra parziale sugli occhi grigi, e rimase in silenzio per qualche minuto, seguendo i suoi movimenti, mentre lei si interrogava su come fossero giunti a parlarsi così, senza filtri, in maniera onesta per quanto fosse possibile a due come loro, perennemente in conflitto.

“Non importa” sentenziò il ragazzo, alla fine, “io non posso fidarmi di nessuno”.

La voce gli si ruppe, verso la fine, tradendo un turbamento così inusuale per lui, che lei era abituata a vedere come una statua di ghiaccio impassibile, sempre con quel mezzo sorriso sarcastico sul volto e quella luce fredda negli occhi chiari. Soffocò l’impulso di avvicinarsi e confortarlo, perché non era Harry, non era Ron, non era soprattutto qualcuno che avrebbe accolto il suo gesto e lei non voleva sentirsi respinta, non di nuovo.

Il ragazzo si tormentava un ciuffo di capelli che continuava a ricadergli sulla fronte, lo stropicciava, quasi, tra le dita nervose e lo strattonava, con rabbia. Hermione agì d’impulso.

“Di me puoi fidarti” disse, quasi con veemenza.

Malfoy la guardò di nuovo, stupefatto.

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“Chi ti dice che lo voglia?”.“Nessuno” rispose lei, avvicinandosi cautamente. “Ma devi saperlo. Io voglio aiutarti,

non farti del male”.“E invece lo farai” ribatté lui, soffiando fuori le parole dalle labbra semichiuse. “Mi

distruggerai”.“Cosa... che vuoi dire?”.

Lui, ora, fissava il muro sbiadito, racchiuso nella spessa armatura della sua ostinata solitudine.

“Perché dovrei distruggerti?” insistette Hermione, accosciandosi d’istinto di fianco a lui, che, colto di sorpresa, distolse lo sguardo dalla parete per puntarglielo nuovamente addosso. “Sto cercando...”.

“Di salvarmi?” la interruppe il ragazzo, scettico. “Tu vuoi solo più informazioni per Potter” concluse, facendo spallucce.

“Io non ti piaccio” Hermione sospirò, scostandosi i capelli dal volto. “Non è una novità. Non ti piaccio e non ti piacerò mai”.

“Vuoi forse dirmi che per te è diverso?” le domandò lui, incredulo, con una strana espressione dipinta sul volto pallido. “Sei davvero così ingenua?”.

“Io aiuto chiunque abbia bisogno, non solo le persone che mi piacciono” ribatté lei, indignata, scattando in piedi. “Ma hai ragione. Non meriti il mio aiuto!” esclamò, voltandogli le spalle, e fece per allontanarsi.

Non si sarebbe mai aspettata che lui la trattenesse, che inquinasse la propria apparenza indifferente con un gesto così umano. Per questo, nel sentire le sue dita chiuderlesi attorno al polso, non riuscì a trattenere un gemito basso, a metà tra la sorpresa e il dolore, perché non era gentile il suo tocco, non era carezzevole. Era la stretta disperata di qualcuno che si aggrappa all’unico appiglio possibile, per non precipitare.

“Mia madre. Devi aiutare mia madre”.“È in pericolo?” gli domandò, senza voltarsi.“Ci ucciderà tutti” sbottò il ragazzo, senza più preoccuparsi di reprimere il tremito nella

voce. “Ci ucciderà tutti, se non faccio quello che mi ha detto”.

Hermione si divincolò a forza dalla sua stretta e si accucciò di nuovo, stavolta di fronte a lui, con le braccia ai lati delle sue gambe, quasi nel tentativo di avvolgerlo, anche contro la sua volontà, in un abbraccio protettivo.

“Che cosa ti ha detto di fare?”.“Non vuoi saperlo, credimi” rispose lui, senza degnarla di un’occhiata.“Dimmelo. Dimmi perché hai sempre quello sguardo spaurito. Dimmi perché ti guardi

sempre attorno come se temessi un agguato” lo incalzò, ostinata. “Dimmi perché sei pelle e ossa, dimmi perché hai le occhiaie come se non dormissi da mesi” proseguì, abbassando la voce sino a raggiungere un tono sommesso, quasi dolce, “dimmi cosa ti succede. Dimmelo” concluse in un sussurro.

“Perché fai così?” lui aveva spalancato gli occhi e la scrutava, interdetto.“Perché è così che deve essere. È giusto” disse Hermione, cocciuta. “Mentre non è giusto

che tu non abbia scelta” aggiunse, in tono flebile. “Non è giusto che tu sia solo”.“In questo modo mi rendi tutto più complicato” lui scosse la testa, in quello che le parve

un moto di frustrazione.

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“Io davvero non ti capisco” proruppe lei, espirando dalle narici, con rabbia. “Cos’è che ti rendo complicato? Cos’è che non mi stai dicendo? Cos’è che devi fare per... per Lui?”.

Gli attimi che seguirono, lo sguardo smarrito e terrorizzato di lui, prima che aprisse bocca, sciogliendo quel groppo che aveva in gola per poterle rispondere, le sarebbero rimasti impressi nella mente, immagini perfette e cristallizzate, dal vago sentore di profezia.

“Devo uccidere Silente”.

Quando Piton entrò nella stanza, poco dopo, li sorprese così, l’uno di fronte all’altra. Lei gli aveva afferrato i polsi, in un gesto pressoché involontario, di cui non si era neppure avveduta, e lui sfiorava la sua fronte con la propria.

Non erano mai stati così vicini. Mai.

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LOSING MY RELIGION

~ c h o o s i n g m y c o n f e s s i o n s ~

«Like a hurt, lost and blinded fool .

Oh, no, I ’ve said too much,I set i t up».

R.E.M., Losing my Religion

Aveva ancora l’impronta del calore delle mani della ragazza, tutto attorno ai polsi, e il suo respiro nelle orecchie, quasi assordante nel silenzio della stanza deserta. Ora le dita di lei giacevano quasi inerti sulle sue gambe; la gonna le era scivolata all’indietro, scoprendole le ginocchia, dove le calze erano appena più lise per l’uso, più trasparenti. Suo malgrado, si ritrovò ad inseguire con gli occhi quella smagliatura leggera, tra le pieghe della gonna dove l’oscurità s’infittiva, nascondendo ogni dettaglio alla sua vista. Rialzò lentamente lo sguardo, seguendo i contorni del corpo della ragazza, la cappa scura e la camicetta bianca fino al punto dove i due lembi si aprivano, poco costretti dal nodo allentato della cravatta, così rossa su tutto quel candore, come le labbra di lei, una macchia rossa di sangue - sporco, indegno, sbagliato - che spiccava sull’incarnato pallido del suo volto.

“Draco”.

Il ragazzo si voltò verso la soglia, senza far caso al sussulto di lei, quando le sfiorò la guancia con la fronte - in bilico sull’altalena che oscillava tra giusto e sbagliato, come sempre, desiderò prolungare quell’istante all’infinito e poi strapparsi via quel desiderio dal petto, dalle labbra che erano troppo vicine a quelle di lei, a quel fiore di sangue orgogliosamente impuro, che sbocciava quasi sfacciato nella sua innocenza su quel volto di contrasti - e posò lo sguardo sul viso esterrefatto, turbato, del suo padrino, la cui espressione era la sintesi di mille domande, per nulla dissimulate. Aprì la bocca per rispondere al richiamo e respirò il profumo della pelle della ragazza al suo fianco. Sorpreso, quasi stordito, la richiuse immediatamente, limitandosi a fissare l’uomo, in silenzio.

“Signor Malfoy” riprese il Professore, più formale, “signorina Granger” proseguì, con una nota percettibile di indignazione, sotto la superficie piatta della voce, “che cosa state combinando qui dentro?”.

“Professore” la ragazza balzò in piedi, rossa in volto, “io stavo solo... Lui...”.“Signor Malfoy, stai bene?” domandò Piton, aggrottando la fronte solcata di rughe.

Draco annuì, stancamente.

“Ti tengono prigioniero qui dentro, per caso?”.

Percepì quasi istantaneamente il corpo della Sanguesporco tendersi, alla prospettiva di ciò che sarebbe seguito: la punizione, magari l’espulsione per aver coperto un crimine grave come il ferimento di uno studente. Poco sarebbe importato che lo avesse curato,

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accudito, che avesse infranto più di una regola per aiutarlo. Avrebbe dovuto importare poco anche a lui. Allora perché non era così?

D’istinto, fece la cosa che gli riusciva meglio. Mentì.

“Il Prefetto Granger mi ha trovato ferito e mi ha curato” disse rapidamente, fissando nella mente l’immagine perfetta di lei, china sulle sue ferite, solerte, che gli cambiava le bende. L’unica immagine che avrebbe ritrovato Piton, indagando nei suoi ricordi. Vide lo sconcerto e il disappunto palesarsi sul volto austero del padrino.

“Avrebbe dovuto chiamare aiuto” commentò quello, spostando gli occhi, scuri e penetranti, sulla figura in trepidazione della ragazza. “Ma magari non lo ha fatto perché stava nascondendo qualcosa, vero signorina Granger?” la incalzò, senza distogliere lo sguardo.

Non era solo un tentativo di intimidazione, Draco lo sapeva bene: l’onice impassibile delle iridi di quell’uomo celava ben altro. Ancora, avrebbe dovuto non importargli. Ancora, non fu così.

Afferrò il polso della ragazza, troppo forte, troppo bruscamente, costringendola a voltarsi verso di lui per interrompere il contatto visivo che avrebbe reso vana la sua menzogna. Lei trattenne una smorfia, rivolgendogli un’occhiata a metà tra lo sdegno e la perplessità.

“Le ho detto io di non chiedere aiuto” replicò il ragazzo, posato. “Non so chi sia stato ad aggredirmi, non volevo correre il rischio che mi venisse a cercare per finire quello che aveva cominciato. Sa bene quanto me che in quella scuola i muri hanno le orecchie. Diglielo anche tu, Granger” la esortò, scuotendola dall’incredula abulia nella quale l’aveva precipitata lui stesso, prendendo le sue difese - dissimulando, mentendo, ingannando, conscio che lei avrebbe condannato comunque i suoi metodi. Mentendo persino a se stesso nel suggerirsi che non gli importasse di salvaguardare alcunché, a parte la propria vita -. “Digli com’è andata”.

“E sii convincente, se ti è cara la tua incolumità”.

Tacque quell’ultima parte, limitandosi a guardarla, con la speranza che lei gli leggesse dentro - come aveva dimostrato di saper fare poco prima, strappandogli dalle labbra il segreto che gli aveva scorto negli occhi - e la mano stretta attorno al suo braccio, tenuta ferma a stento, quando invece avrebbe voluto tremare, o scivolare sotto il polsino di cotone inamidato, strisciare come un rettile fino a trovare nell’incavo del gomito la pelle liscia da cui assorbire calore.

“L’ho trovato in una pozza di sangue” lo assecondò lei, pacata, sostenendo con una certa fermezza lo sguardo dell’insegnante. “La mia prima preoccupazione è stata impedire che morisse di emorragia” soggiunse, “ho fasciato le ferite e ho aspettato. Quando Malfoy si è svegliato...”.

“Dove?” la interruppe Piton.“Come?” domandò la ragazza, interdetta.“Intendo dire, signorina Granger” rispose il Professore, schiudendo le labbra in uno

sgradevole sorriso di soddisfazione, “dove hai trovato il signor Malfoy? Dove lo hai medicato, dove hai preso le bende?”.

“Io...” la Sanguesporco deglutì, nervosa.

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Draco attese, trattenendo quasi inconsciamente il respiro, i polmoni contratti come le dita serrate sull’esile polso di lei e l’irrazionale, inesorabile convinzione che la sua unica speranza fosse racchiusa in quella ragazza dall’odore giusto e dal sangue sbagliato. Vide le sue labbra schiudersi, senza tremare.

“L’ho trovato nel giardino, vicino al Platano Picchiatore. Questo è stato il primo posto a cui ho pensato, non ci viene mai nessuno e dovevo portarlo in un luogo tranquillo per poterlo curare. Per le bende ho usato l’incantesimo ferula”.

“Perché non l’hai portato subito in Infermeria, invece?”.“Non volevo metterlo nei guai” rispose lei, prontamente, quasi con veemenza. “Non da

incosciente, non senza avere la possibilità di difendersi” concluse.

Convincente, spontanea, sincera. Calda. Gli si rizzarono i capelli sulla nuca.

“Difendersi da cosa, signorina Granger?” Piton storse il naso, visibilmente irritato. “È stato vittima di un’aggressione, non mi pare che...”.

“Lei lo sa” proruppe lei, sollevando la mano che aveva libera, “non lo neghi. Per favore” sussurrò infine, in un rigurgito di timidezza che le tinse le guance di rosso.

Piton espirò rumorosamente e rilassò appena le spalle, corrugando la fronte.

“Va bene. Chi altri lo sa? Potter? Weasley?” l’uomo incrociò le braccia sul petto. “Per questo non siete più amici inseparabili?” domandò, con una smorfia di disgusto.

Ogni traccia di colore disparve dal viso della ragazza, lasciando dietro di sé soltanto il contrasto violento tra il pallore della pelle e le pozze scure, sbarrate, degli occhi, orlati dall’ombra densa delle ciglia.

“No” le uscì dalle labbra, quasi sussurrato. “Non ho detto niente a nessuno”.

Il Professore ammutolì, sorpreso. Parve soppesare tra sé le parole della Mezzosangue, occhieggiando distrattamente il paesaggio fuori dalla finestra. Lei invece attendeva, composta, entrambe le braccia rilassate lungo i fianchi. Solo le dita della mano destra, il cui polso era ancora avviluppato nella stretta di lui, tradivano il nervosismo che provava, tremando nonostante l’evidente sforzo che lei faceva per trattenersi. Draco allentò la presa sul suo polso, osservando quasi sgomento l’impronta rossa delle sue dita, che andava scurendosi sulla pelle della ragazza, e pensando che in tutto quel tempo, lei non aveva neppure tentato di sottrarsi alla sua stretta.

“Torniamo a scuola immediatamente” disse Piton, perentorio.“Aspetti” intervenne la Mezzosangue. “Non possiamo fare finta di niente, lui ha bisogno

d’aiuto”.“Ce ne occuperemo noi” la zittì il Professore. “Ma io...”.“Non discutere” la interruppe nuovamente l’uomo. “Seguitemi. Una volta dentro la

scuola, andrete ai vostri rispettivi dormitori e non parlerete con nessuno di tutta questa storia. Quanto a te, signorina” aggiunse, asciutto, “sarà il Preside a decidere il tuo destino. Aspettati di venire convocata”.

Draco rabbrividì. Preside. Occhi azzurri, barba lunga, sorriso buono, fin troppo. E lui doveva ucciderlo. Si alzò, malfermo sulle ginocchia, il cuore improvvisamente sprofondato troppo in basso per consentirsi di sperare, come aveva fatto, irragionevolmente, fino a

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qualche istante prima, che quella ragazza fosse la sua salvezza, col suo odore giusto, il suo sangue sbagliato e i suoi occhi troppo scuri, troppo profondi. Troppo e basta. Come lei.

Piton cominciò a scendere le scale, senza neppure voltarsi a guardarli, sicuro che lo avrebbero seguito. D’altra parte, dove altro avrebbero potuto andare? Niente smaterializzazione all’interno dei confini di Hogwarts, niente uscite secondarie. Nessuna di via di scampo.

“Io posso aiutarti” sbottò la Granger, a voce bassa, a stento udibile. “Posso aiutare te e anche tua madre”.

“Stronzate” ringhiò lui, tra i denti.“No” protestò lei, “so come fare. Ma devi fidarti di me” gli rivolse uno sguardo accorato.“Perché?” boccheggiò lui, preso alla sprovvista.“Perché ti ho curato e perché so come fare, ma se non mi dai ascolto perderemo l’ultima

occasione che abbiamo” replicò la ragazza, parlando in fretta.“No” lui scosse la testa, “perché lo fai?”.“Non c’è tempo per questo” protestò, corrucciata.“Devo saperlo” gli sfuggì dalle labbra, prima che potesse trattenerlo. “Dopo... ?”.“Dopo” si arrese lei, non senza un’occhiata colma di rimprovero.

Il ragazzo sorrise nervosamente.

Dopo significava rivedersi. Inghiottì aria e saliva inesistente, cercando di mandare giù il groppo che si sentiva allo stomaco, al pensiero di trovarsela ancora una volta di fronte, da soli, in un angolo appartato. Inebriarsi di lei, al di là del bene e del male, che improvvisamente andavano ribaltandosi, fondendosi in un unicum che rassomigliava alla follia, alla vita, alla morte, agli occhi di quella ragazza, terra scura e acqua, per affogarci dentro. Stava perdendo la testa.

Fu allora che lei intrecciò le dita a quelle della sua mano sinistra, rubandogli ogni sprazzo di coscienza e trascinandolo giù. Giù, con lei. Giù per le scale.

Di fronte al portone il capannello di presenti - una massa confusa di divise da Quidditch scarlatte e divise scolastiche - si aprì al passaggio di quella strana comitiva. Piton incuteva abbastanza timore da far retrocedere in silenzio i suoi studenti, tacitando i loro acuti schiamazzi. Colin Canon, che si stava lamentando della caduta della sua nuova, costosissima macchina fotografica, ammutolì istantaneamente scorgendo il cipiglio severo dell’insegnante. Lavanda Brown, che lo stava rimbeccando per la sua goffaggine, non si accorse quasi del passaggio del Professore: continuò a ciarlare indisturbata, al fianco del suo ragazzo, nel silenzio più assoluto, fino a che non si accorse del mutismo religioso nel quale era piombata la folla che la attorniava.

“Ma che diavolo sta succedendo?” domandò, con voce quasi stridula.

Ron sollevò lentamente una mano per posarla sulla sua spalla. La fece voltare senza troppo garbo, tanto che lei aprì la bocca per rimproverarlo, ma quando, rialzando lo sguardo, i suoi occhi si posarono sull’insolito spettacolo di fronte a lei, dalle labbra, atteggiate ad un ovale di perfetto stupore, non le sortì neppure un fiato.

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Quando il corteo fu passato, il gruppetto di Gryffindor si riformò, compatto com’era stato fino a poco prima, ma molto più silenzioso. Ron in particolare continuava a fissare il vuoto dov’era scomparsa la sagoma di Hermione, in uno svolazzo di fitti riccioli bruni. Boccheggiò a lungo, sentendosi estremamente simile nell’aspetto e, probabilmente, anche nei pensieri, ad un pesce al di fuori del suo elemento naturale. Privato della capacità di respirare normalmente, apriva e chiudeva la bocca, traendo boccate sincopate di aria viziata dal dubbio. Quando alla fine riuscì a parlare, ovviamente, pronunciò una domanda.

“Le stava davvero tenendo la mano?”.

Piton si era voltato indietro soltanto una volta, attento a non incrociare lo sguardo dei due ragazzi, solo per controllare che lo stessero seguendo senza deviazioni. Li aveva congedati in fretta senza degnarli di un’occhiata una volta oltrepassata la soglia del castello e aveva salito le scale che portavano all’entrata dello studio di Silente, turbato. L’immagine delle mani saldamente intrecciate dei due ragazzi lo turbava più di quanto avrebbe voluto ammettere, riportandogli alla mente le parole che gli aveva rivolto il Preside, non più tardi di un giorno prima.

“Qualcuno che può dargli qualcosa che non rientra nelle tue possibilità, o nelle mie. La speranza”.

“Speranza” mormorò, quasi parlando a se stesso.

Il volto grottesco del Gargoyle gli restituì uno sguardo cieco e un muto ruggito dalle fauci ferocemente spalancate, immortalate nel granito. Si udì un rombo cupo, che pareva provenire dalla gola della statua: il piedistallo si spostò, rivelando l’imbocco delle scale che si inerpicavano sù per la torre, in una spirale stretta che si perdeva nel buio.

Non appena ebbe iniziato a salire, Severus Piton si rese conto di aver commesso un errore. Si ritrovò sbalzato di lato, addossato alla parete convessa, mentre una sagoma confusa e trasparente lo oltrepassava, in un tramestio di passi disordinati, sù, verso l’alto, due, forse tre gradini alla volta. Due paia di piedi. Recuperò frettolosamente l’equilibrio e si arrampicò all’inseguimento del rumore, imprecando. Dalla porta, ora socchiusa, dello studio di Silente, fuoriusciva uno spicchio sottile di luce soffusa; Piton entrò, senza bussare.

Il Preside, seduto alla scrivania, fissava un punto al di là del tavolo, sorridendo.

“Preside...” esordì Piton, perplesso.“Oh, Severus” Silente si voltò verso di lui, mantenendo l’espressione distesa, “mi

domandavo quanto ci avresti messo ad arrivare. Aspettavamo solo te”.“Ma veramente...”.

La frase gli morì sulle labbra. Silente aveva estratto la bacchetta e l’aveva puntata, sempre senza smettere di sorridere

“Sarà bene fare una chiacchierata” disse, quasi ameno. “Guardandoci negli occhi. Finite Incantatem”.

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Draco, ora perfettamente visibile, stava in piedi in mezzo alla stanza e si stringeva contro la Granger, con fare che avrebbe persino potuto essere definito protettivo. Lei, rossa in viso, fissava il pavimento, lanciando al ragazzo di fianco a lei occhiate nervose.

“Disillusione” commentò Piton, storcendo la bocca. “Devo presumere che sia stata un’idea tua, signorina Granger?”.

“Via, Severus” il Preside aveva posato la bacchetta e aveva sollevato la destra, a palmo aperto, “è chiaro che si tratta di una cosa molto urgente, altrimenti la signorina Granger e il signor Malfoy non avrebbero mai fatto ricorso ad un mezzo così discutibile” gli occhi del Preside mandarono un lampo ceruleo. “Direi che dovremmo almeno dar loro la possibilità di spiegarci di che si tratta. A proposito” aggiunse, sollevando le sopracciglia, “dove hai imparato quest’incantesimo, signorina Granger? Sono molto impressionato”.

Malfoy sbuffò dal naso, impaziente, senza preoccuparsi di dissimulare la smorfia che aveva sul viso. Continuava a tenere la mano della ragazza, notò Piton incredulo, osservando con attenzione le dita dei due ragazzi, saldamente intrecciate tra loro.

“Ho letto dei libri” confessò lei, stringendosi nelle spalle, in imbarazzo, quasi cercando un riparo nel ragazzo che aveva di fianco. Lui le lanciò un’occhiata, di sottecchi, e se la portò più vicina, con un gesto talmente privo di calcolo da lasciare Piton completamente esterrefatto.

“Certo” il Preside la gratificò di un altro sorriso, “è naturale. Libri. Sei sempre stata una studentessa molto brillante”.

“Preside” intervenne Piton, “la signorina, qui, ha violato quasi tutte le regole della scuola, nel corso della sua permanenza qui e se l’è sempre cavata con un richiamo. Ma addirittura nascondere un ferito... Studentessa brillante o meno, questo è troppo, persino per lei”.

La Granger sbarrò le palpebre e reclinò il capo in obliquo, come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno volto. La sua tempia sfiorava la spalla di Malfoy, che non si ritrasse.

“È proprio come dici tu, Severus” Silente annuì, gravemente, mentre il viso della fanciulla diveniva più bianco di un lenzuolo, ad eccezione delle guance infiammate, “è davvero troppo. È per questo motivo che ritengo che debba essere un motivo molto serio per il suo comportamento” il volto del vegliardo si distese, “e sono proprio curioso di sentirlo da lei. Avanti, signorina Granger, ti ascolto”.

“Professor Silente, Malfoy era svenuto, aveva la febbre alta” rispose quella, flebile, “l’ho soccorso e ho aspettato che si sentisse meglio, non ho fatto niente di male, io...”.

“E perché non hai chiamato uno degli insegnanti, signorina Granger?” la interruppe il Preside. “O almeno Madama Chips”.

La ragazza si morse il labbro, interdetta e scambiò uno sguardo d’intesa con Malfoy, un’esortazione muta a sciogliere il silenzio che gli sigillava le labbra. Come se fossero complici da anni e non da pochi giorni. Lui raddrizzò le spalle e tirò indietro la testa, arricciando le labbra in un moto di stizza.

“Voleva proteggermi” intervenne, alla fine.“Ah, lieto che tu abbia deciso di unirti alla conversazione, signor Malfoy” Silente annuì

con il capo, compiaciuto. “Da chi e per quale motivo voleva proteggerti?”.

Piton incrociò lo sguardo ombroso del ragazzo. Somigliava decisamente troppo a suo padre, per l’espressione che aveva stampata sul viso: tutta quella preoccupazione non si

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addiceva alla sfrontata sicurezza dei suoi lineamenti. Gli conferiva un’aria spaurita, come i capelli arruffati e le occhiaie livide e l’ombra di barba sul volto troppo giovane per essere già così segnato dall’inquietudine. Si appoggiava alla Granger, come se il peso che aveva da portare fosse troppo grande per lui, e forse in fondo era così, ma sembrava anche farle scudo, in qualche strano modo, con quella mano che non lasciava mai la sua.

“Posso fidarmi?” chiese, incerto.

La domanda era rivolta al Preside, ma Malfoy guardava lui.

“Il Professor Piton è assolutamente affidabile” rispose Silente, tranquillo, “come tutti gli insegnanti di questa scuola, del resto. Perché suppongo che fosse questo il senso della tua domanda. Sbaglio?”.

Il ragazzo scosse la testa.

“Molto bene” continuò il Preside, “allora penso di averti risposto. Ora forse dovresti rispondere tu a me. Mi sembra equo”.

“Se io parlo con lei” riprese Malfoy, “lei mi assicura che non mi succederà niente? Che sarò al sicuro?”.

“Ogni studente di questa scuola è sotto la mia custodia, signor Malfoy” Silente allargò le braccia, come sottolineando l’ovvietà della cosa. “Inoltre, come ho avuto occasione di dire anche a tuo padre, a Hogwarts, chi chiede aiuto, lo trova sempre”.

Nonostante l’allusione a Lucius lo avesse fatto vacillare, il ragazzo annuì, composto.

“Può aiutare anche mia madre?”.“Posso dare disposizione che qualcuno si occupi di questo” il Preside si voltò a guardare

Severus, da sotto le sopracciglia aggrottate. “Immagino che il Professor Piton non possa esporsi più di tanto, ma troveremo una soluzione”.

Lui annuì. Era un gesto puramente formale, Silente non aveva bisogno di conferme. Non da lui.

“Vuoi sapere altro, signor Malfoy?” il reticolo di rughe sul viso di Silente si distese in un sorriso amabile. “O pensi di potermi finalmente rispondere?”.

Lo aveva fatto, in definitiva.

Si era quasi stracciato il polsino della camicia, con le dita che non volevano saperne di afferrare quel bottone maledetto. Poi lei lo aveva aiutato. Paziente, quasi dolce, si era chinata sul suo braccio, sfiorandolo con estrema delicatezza, e quando aveva sollevato la testa gli aveva rivolto uno sguardo incoraggiante e qualche parola appena mimata dal movimento delle labbra. Andrà tutto bene.

Si era fidato, in nome di chissà cosa: forse della stretta allo stomaco che gli dava lei, forse del caos ordinato di luci e ombre creato dai suoi lineamenti armoniosi e regolari del suo volto, forse del suo odore giusto. Non aveva importanza. Si era fidato e aveva

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scoperto il braccio, sentendosi addosso gli sguardi di tutti: quello del suo padrino, esterrefatto, quello di Silente, serio e posato, quello della ragazza, che era solo caldo.

Così aveva cominciato a parlare, per esorcizzare il singulto che minacciava di salirgli alla gola, e l’aveva fatto guardando fisso davanti a sé, in quegli strappi cobalto di cielo che erano gli occhi dell’uomo che gli avevano comandato di uccidere. L’aveva fatto per impedirsi di piangere di nuovo, alla ricerca un pezzetto di quella dignità che gli era stata predicata, ma di rado mostrata. Aveva raccontato ogni cosa, lentamente, con metodo: una parola in fila all’altra, perché se mai avesse corso troppo, gli si sarebbe rovesciato lo stomaco, e se si fosse fermato non avrebbe più trovato la forza di ricominciare. Aveva spiegato come, quando e perché - per quel poco che lui, con i suoi sedici anni e un’infanzia nella bambagia era riuscito a capire - quasi senza respirare, mentre Silente annuiva, a intervalli quasi regolari e la Sanguesporco vibrava come di rimando, al suono atroce, cacofonico, di parole come uccidere e morire.

All’improvviso, si era bloccato, nonostante tutte le cautele, e la bocca gli si era riempita di acido. Si era portato la mano davanti alle labbra e si era piegato in avanti, tentando di trarre aria dal naso per convogliarla nei polmoni che sembravano improvvisamente troppo piccoli, troppo costretti nella gabbia eburnea delle costole.

“Stai bene?”.

Anche la voce della ragazza aveva un suono atroce, capace di far sanguinare l’anima nel restituirle un frammento di empatia. Calda, così calda da poter bruciare sulla pelle, come la sua mano attraverso la camicia, sul petto, a sostenerlo. La domanda di Silente lo aveva colto mentre il suo cuore stava ancora tentando di riprendere un ritmo normale.

“È tutto?”.

Lui aveva annuito, sù e giù con la testa, senza parlare, tentando di rimettersi diritto.

“Molto bene” aveva commentato il Preside. “Ora ti dirò cosa devi fare” aveva aggiunto, ridonandogli la capacità di respirare, cosicché potesse riportarsi in posizione eretta e guardarlo negli occhi. Nel farlo, Draco aveva trovato il fiato della Sanguesporco a lambirgli la mandibola, il mento, le labbra, mischiandosi con il suo: era rimasto a guardarla, preda di un incanto struggente.

“E tu, signorina Granger, lo aiuterai”.

Tutto il suo mondo gli si era sfaldato attorno, mentre lui perdeva definitivamente la testa.

Per lei.

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LES LIAISONS DANGEREUSES

~ t h e m o n s t e r w i t h i n ~

«All the action is none that you control».

U2, Fall ing at your feet

Aveva sceso le scale che portavano fuori dallo studio del Preside, mantenendo un’andatura lenta e cadenzata, invischiata nella densità di quel momento in cui ogni cosa attorno a lei stentava a riprendere il ritmo normale. Persino i suoi passi risuonavano fiacchi, svuotati dalla violenza dell’impatto col pavimento, defraudati dall’aritmia frenetica della salita. La statua del Gargoyle aveva accolto il suo ritorno nel mondo normale salutandolo con il suo ghigno perpetuo e lei si era preparata a varcare quell’uscio, certa che l’incanto sarebbe svanito come avesse messo un piede oltre il piedistallo su cui era appollaiato il guardiano di pietra.

Poi Malfoy l’aveva afferrata. Si era sentita trascinare all’indietro, fino a cozzare con la schiena contro il torace asciutto del ragazzo: la bocca di lui, da cui era sfuggito un ansito soffocato a stento tra i denti serrati, si trovava a pochi centimetri dal suo orecchio.

“La mia bacchetta, Sanguesporco” aveva detto, producendo poco più di un sibilo basso che le aveva accarezzato il lobo, quasi dolcemente.

“Sotto... sotto la mantella. Aspetta” aveva cercato di voltarsi.

Mani nervose e ossute si erano insinuate sotto le sue vesti.

“Faccio da me”.

Aveva trattenuto il respiro, mentre lui le esplorava la schiena con le dita maltrattando la stoffa sottile della camicia sino a sfilarne un lembo. Aveva sussultato, preda di un brivido che risaliva lungo la sua spina dorsale, quando lui le aveva sfilato la bacchetta dalla cintola sfiorandole con l’indice la pelle nuda, indugiando forse un attimo di troppo sul bordo della gonna. La pressione del corpo maschile dietro il suo si era fatta stranamente urgente, facendola avvampare di un rossore violento che era per metà dubbio e per metà la consapevolezza di qualcosa a cui le era impossibile attribuire un nome preciso, come se le sfuggisse, come una parola svanita un istante prima di uscirle dalle labbra.

“Che cosa state combinando?”.

Il professor Piton, di fianco alla statua, li squadrava, con una smorfia di incredulo disgusto dipinta sul volto arcigno. Le mani del ragazzo si erano distaccate immediatamente da lei, spingendola in avanti, per farla avanzare di un gradino, quando prima se l’era attirata vicina. Un solo scalino a fare la differenza tra loro, a dividerli, ponendola più in basso, come era sempre stata nella considerazione di quel ragazzo strano, biondo e pallido, che l’aveva oltrepassata con fare altezzoso, senza degnarla di un’occhiata. Eppure, prima l’aveva tenuta per mano tutto il tempo, permettendo alle proprie barriere di cadere, infrangendosi silenziosamente su un suolo che li vedeva insolitamente l’uno di fianco all’altra, due paia di piedi che avevano corso assieme, facendosi coraggio a vicenda.

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Mentre Piton gli aveva passato un braccio attorno alle spalle con fare quasi paterno, il ragazzo si era voltato per un istante e aveva mosso appena le labbra, mimando una parola che lei aveva riconosciuto immediatamente.

“Dopo”.

“Come ha fatto Piton a scoprirvi?”.

Hermione scosse lentamente il capo, adagiandosi all’indietro, contro lo schienale del divano della sala comune.

“Non lo so, Harry” ribadì stancamente, sbuffando. “Insomma il Professor Piton non è certo uno sprovveduto: si è certamente accorto che mancava il dittamo. Chissà” meditò, stringendosi nelle spalle, “magari mi teneva d’occhio da un po’, ha anche detto qualcosa in proposito”.

“Sembra plausibile” Harry si stiracchiò. “Sono stanchissimo. Oggi all’allenamento c’è stato un gran trambusto, sai. Colin si è arrabbiato con Lavanda, dice che gli ha deviato un bolide addosso, così lui ha fatto cadere la macchina fotografica”.

“Ah” Hermione sorrise, “le sorprendenti profezie di Lavanda si sono avverate tutte, eh. Ora che ci penso” disse, facendosi d’un tratto più seria, “non mi sorprenderebbe se mi avesse messo lei il Professor Piton alle calcagna per questa sua stupida mania”.

“Quale mania?”.“Niente di importante” Hermione si produsse in un gesto stizzito, “ieri notte ha fatto un

bizzarro sogno nel quale Ronald le dichiarava il suo eterno amore, dopo una serie di circostanze e si è convinta che...”.

Dietro lo schienale del sofà, si udì un curioso trambusto, come di passi frettolosi ed impacciati, seguiti da un verso strozzato. I due ragazzi, convinti fino a poco prima di essere soli, si voltarono al contempo, ritrovandosi a fissare il volto slavato e gli occhi sbarrati di Ron Weasley, che li osservava sgomento.

“Io dovrei fare... che cosa?”.

Colta di sorpresa, Hermione non riuscì a trattenere una risatina.

“Non credo che tu abbia voce in capitolo, sai” lo prese in giro Harry, “mi pare che abbia già deciso tutto Lavanda”.

“Ma, ma, ma...” balbettò il ragazzo, stropicciandosi il volto con il palmo della mano aperta. “Miseriaccia!” esclamò alla fine. “E ora che faccio?”.

“Oh, Ron” Hermione scosse la testa, sorridendo. “Beh, mi sembra che lei ti piaccia, no?”.

Ronald abbassò lo sguardo, imbarazzato. Era arrossito visibilmente e si dondolava, spostando il peso da un piede all’altro. Un tempo neppure troppo lontano, questo sarebbe bastato a farla star male, perché era palese che il ragazzo sui cui lei aveva riversato tutte le sue speranze di adolescente fosse attratto da una bionda svampita: quando e in che misura fossero cambiate le cose, al punto di permetterle di provare a quella vista nulla più che una punta di nostalgia e una tenerezza quasi fraterna, era parte di un mistero che non le piaceva sondare, qualcosa che doveva per forza avere a che fare con un calore differente da

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quello che sentiva per Ron, con l’incastro perfetto di dita sconosciute, con il turbamento che le aveva serrato la bocca dello stomaco al contatto con una pelle troppo bianca. Hermione scacciò quel pensiero, costringendosi a rispondere all’implicita richiesta d’aiuto dipinta nell’azzurro degli occhi del suo amico, che ora la fissava, pensieroso.

“Non c’è bisogno che tu sia imbarazzato” lo tranquillizzò. “No?” Ron spalancò gli occhi, speranzoso.“No” Hermione sorrise di nuovo, rassicurante. Sentì Harry rilassarsi al suo fianco: la

crisi, in qualche modo, sembrava passata.“Io credo che mi piaccia, insomma...” Ron si strofinò la fronte, e strizzò gli occhi,

facendo una smorfia. “È che lei è... sai, un po’...”.“Frettolosa? Insistente? Invadente?” suggerì Harry, con una nota di divertimento nella

voce. “Ehi” Ron aggrottò le sopracciglia, offeso, “io con te non ci parlo” sbottò,

incamminandosi di nuovo verso il dormitorio maschile.

Hermione si alzò e andò a pararglisi davanti, per trattenerlo.

“Ron,” obiettò, dolcemente, “Ron ti prego. Questa situazione è totalmente assurda. Noi siamo amici!”.

“Gli amici si dicono tutto, non è così?” il ragazzo la squadrò, sospettoso.“Oh, Ronald” lei si mordicchiò il labbro inferiore, desolata. “Voi due mi nascondete qualcosa”.

Non suonava come una domanda, rifletté Hermione, sostenendo con fermezza lo sguardo di accusa che sembrava volerla trapassare da parte a parte. Anche Harry la scrutava, più ansioso, in attesa che lei facesse qualcosa per togliersi d’impiccio.

“Non è come pensi” esalò, rassegnata a non essere creduta.“Dici di no?” la aggredì lui, alzando la voce. “Prima confabulate, poi litigate e infine ti

vedo passare di ritorno da chissà dove tenendo la mano di Malfoy. E dici che non è come penso?”.

“Parla piano” lo pregò lei, allarmata. “Così sveglierai tutti!”.“Sì, beh” borbottò lui, a mezza bocca, “comunque credo dobbiate spiegarmi”.“Vieni a sederti” disse, tendendogli una mano. “Ti prego. Ti spiegheremo ogni cosa”.

Ci fu un attimo - un attimo sospeso fuori dalla comune percezione del tempo - in cui lei credette che Ron le avrebbe semplicemente girato le spalle e se ne sarebbe andato, mettendo fine ad un’amicizia che durava da anni. Poi il ragazzo sollevò titubante il braccio destro e intrecciò le dita alle sue, lasciandosi docilmente guidare verso il sofà. Quel contatto le riportò inevitabilmente alla mente un’altra stretta, analoga e quanto mai differente, per forma e sensazione: la mano di Ron era grande, calda e un po’ sudata, la mano familiare di un cugino, se non di un fratello, che stentava ad adattarsi alla sua. L’altra, asciutta in tutti i sensi possibili, racchiudeva in sé il tocco proibito e distante di un estraneo, di qualcuno diventato intimo troppo velocemente.

“Allora?” la incalzò Ron, quando si furono seduti.

Hermione deglutì, cercando il sostegno di Harry.

“È stata colpa mia” intervenne lui, prontamente. “Ho combinato un guaio e non volevo coinvolgerti. Hermione era contraria, ma mi ha aiutato per non farmi finire nei pasticci”.

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“Che genere di guaio? E perché non me ne avete parlato?” domandò Ron, con la voce che vibrava di risentimento. “Al diavolo, sono sei anni che ne vediamo di cotte di crude, ma l’abbiamo sempre fatto insieme. Perché stavolta no?”.

“Dovevamo limitare i danni” replicò Hermione, a denti stretti. “Mi dispiace tanto”.“Quali danni? Ma di che diavolo state parlando?” domandò Ron, paonazzo.“Io...” Harry esitò per qualche istante, abbassando lo sguardo. “Ho ferito Malfoy. Con un

incantesimo... illecito”.“Quando?”.“Circa una settimana fa”.“E perché non l’hai fatto secco, già che c’eri?”.“Ronald!” saltò sù Hermione, indignata. “Non dovresti incoraggiarlo, sai. Ha rischiato

parecchio, e io con lui. Se ci avessero scoperti, avremmo rischiato di finire ad Azkaban”.“Dovevate dirmelo comunque” ribadì Ron, notevolmente ammorbidito. “Meglio ad

Azkaban con voi che qui da solo”.“Oh, Ron” Hermione gli gettò le braccia al collo senza pensare e lui ricambiò l’abbraccio,

in quel suo modo tenero e un po’ goffo. “Comunque,” lo rimproverò, staccandosi da lui, “non devi dire certe cose. Se fosse morto davvero, sarebbe stato...”.

“Sarebbe stato fantastico! Un Mangiamorte in meno in questo mondo è sempre una buona notizia” commentò Ron allegro, assestando una pacca sulla spalla di Harry, che si grattò la fronte, a disagio.

“Non è un Mangiamorte”.

Aveva parlato prima di rendersene conto, facendo piombare i suoi amici in un silenzio rotto solo dai loro respiri sommessi: entrambi i ragazzi le rivolsero un’occhiata attonita.

“Vuoi dire...” Harry sbatté le palpebre, perplesso.”Tu stai dicendo che non ha il Marchio Nero?”.

“No” replicò lei, pacata, sperando di mascherare il bluff. “Sto dicendo che non è quello che voi pensate che sia”.

“Non solo passeggi con lui mano nella mano, ma lo difendi pure!” esclamò Ron, esasperato. “È il colmo”.

“C’era un motivo, se lo tenevo per mano” protestò lei. “L’incantesimo che avevo fatto per impedire che fuggisse poteva essere spezzato senza che nessuno se ne accorgesse solo se lui avesse varcato la soglia assieme a me, altrimenti il Professor Piton avrebbe visto lo tenevo prigioniero. Quanto al resto...”.

Si passò la mano sugli occhi, ripensando agli avvenimenti di quel pomeriggio. Le parole pronunciate da Silente le riecheggiarono nella mente, intrise dal sentore di condanna che permeava tutta quella faccenda, sin dall’inizio.

“E tu, signorina Granger, lo aiuterai”.

Aveva trattenuto il fiato, aspettando che il panico che l’aveva attanagliata nell’udire quella frase passasse. Invano. Le parole successive avevano fatto crollare le sue difese, impedendole di controllare il tremito che l’aveva colta. L’uomo davanti a lei aveva continuato a parlare di bugie bianche, mentre il ragazzo al suo fianco stringeva ancora la sua mano nella propria.

“Avete capito bene?” aveva chiesto Silente, alla fine.

Entrambi avevano annuito, ma lei aveva tentato di protestare.

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“Professor Silente, i Mangiamorte nella scuola potrebbero...”.“Oh lo so, signorina Granger. Sarà vostro compito collaborare per fare in modo che

non accada nulla di grave e che gli studenti siano tutti al sicuro. Mi rendo conto che si tratta di un incarico delicato,” aveva commentato il Preside, “ma al momento, posso contare solo su di voi”.

“Professore, forse Harry potrebbe...”.

Silente aveva scosso la testa.

“Il signor Potter è abbastanza occupato con altre faccende di cui sei certamente a conoscenza. Inoltre, ritengo che voi due siate molto più adatti per questo incarico” l’anziano mago li aveva studiati a lungo attraverso le lenti a mezzaluna. “Siete entrambi studenti che conoscono il valore della discrezione, non è forse vero?”.

Così le aveva sigillato le labbra, con un’osservazione del tutto innocente, che aveva rubato a lei la possibilità di dirsi tale. Il valore della discrezione. Quello che le impediva di dare un finale alla frase lasciata tronca, a morire nella penombra della Sala Comune e negli occhi, differenti per colore ed aspetto, ma identici per espressione, dei suoi migliori amici.

“Sì?” la incoraggiò Harry, esitante.“Beh, Silente lo protegge” spiegò lei, circospetta. “È inutile dire che è rimasto piuttosto

sorpreso quando ha saputo del suo ferimento. Fortunatamente, non ha fatto troppe domande...”.

“Meno male” Harry tirò un sospiro di sollievo.“... ma ho avuto la sensazione che sapesse più di quanto non ha detto e abbia taciuto

solo per non metterti nei guai di fronte a Piton. Devi fare qualcosa per quel libro, Harry”. “Quale libro?” intervenne Ron.“Quello del Principe. L’incantesimo con cui Harry ha attaccato Malfoy...”“Ehi” Harry allungò le braccia, come riparandosi da un colpo inferto all’improvviso. “Io

mi sono solo difeso!”.“Quello che ti pare” lo rimbeccò la ragazza, a denti stretti. “Comunque sia,

quell’incantesimo, Harry lo ha trovato nel libro del Principe Mezzosangue. Ecco perché deve liberarsene il prima possibile”.

“L’ho sempre detto che quel libro era una forza” commentò Ron, con un sorriso soddisfatto stampato sul viso.

Harry sorrideva, a metà tra l’imbarazzo e il compiacimento.

“Ron, piantala di incoraggiarlo” sbottò Hermione, tormentando l’orlo della gonna. “Ha già fatto abbastanza danni senza bisogno della tua approvazione, accidenti!”.

“Hermione, andiamo...” Ron scosse la testa, mortificato. “Lo so che ha rischiato di finire in un bel guaio, ma insomma, ha ferito Malfoy, lui non è uno di noi, è solo... beh...” il ragazzo allargò le braccia, impacciato.

“Lui è uno di noi, Ron” Hermione sospirò, desolata. “Ha la nostra età, studia in questa scuola. È sotto la protezione di Silente e di Piton, perché è coinvolto quanto noi in questa maledetta faccenda” aggiunse, accalorandosi. “Cos’è che lo rende così diverso? Il colore della sua cravatta?”.

“Ma è un maledetto razzista, è cattivo, è...” sbottò Harry, alzando la voce. “Insomma, suo padre un Mangiamorte! E lui ti maltratta da anni, perché ti ostini così a prendere le sue parti? Accidenti!”.

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Hermione scosse il capo e sospirò, cercando istintivamente la protezione del velluto di cui era rivestito il divano. Così rannicchiata su se stessa, con le mani a proteggersi le ginocchia e la testa incassata tra le spalle, si permise di fissare per qualche istante le braci morenti del camino, alla ricerca di una risposta accettabile. Per loro e per sé, per ricacciare la verità, oscura e inconfessabile, nel fondo nero del proprio animo, l’unica parte di lei che aveva imparato a convivere coi propri mostri: insicurezza, paura. Desiderio?

L’impronta che lui le aveva lasciato addosso era ben più duratura del segno delle sue dita attorno al polso.

“Perché potrebbe essere uno qualunque di noi” mormorò, mantenendo lo sguardo fisso sul focolare spento. “Ci avevi mai pensato? Potevi essere tu a nascere dalla parte sbagliata”.

“Hermione...”.

Il debole tentativo di protesta di Harry fu stroncato da un fruscio inatteso, alle loro spalle. I tre ragazzi, turbati, si voltarono verso la fonte del rumore. Da una finestra, evidentemente mal chiusa, un piccolo gufo grigio era volato dentro la stanza e ora fissava Hermione, con i suoi grandi occhi ambrati, comodamente appollaiato sullo schienale di una poltrona vuota. Harry tossicchiò, sistemandosi gli occhiali sul naso.

“Credi che sia per...”.“È per me” lo interruppe la ragazza, precipitosa. Allungò la mano verso l’animale, che,

come a voler confermare le parole di lei, spiccò il volo e andò ad accomodarlesi in grembo. “Lo aspettavi?” la interrogò Ron, curioso.“Più o meno” sospirò lei. “Perché voi due non andate a letto? Io dovrò stare sveglia tutta

la notte, il Professor Piton mi ha messa in punizione. Dovrò riordinare l’aula di Difesa, tutti i pomeriggi e non avrò tempo per studiare di giorno. Tanto vale che mi porti avanti”.

“Ma non è giusto!” Harry sbottò, indignato.“Giusto o no, lui è il professore, e io devo obbedire. Forza,” tentò di congedarli, “a letto,

voi che potete. E, Harry?”.“Sì?”.“Fa‘ qualcosa per quel libro”.

Harry e Ron presero commiato. Li sentì discutere, mentre si allontanavano, e sorrise tra sé. L’equilibrio delle cose era stato ripristinato, erano di nuovo in tre. Magari qualcuno di più, bisognava contare anche Ginny e Lavanda, e poi c’era...

“...il signor Malfoy ne approfitterà per recuperare le lezioni perdute”.

Sia lei che il professor Piton erano rimasti sbigottiti a guardare il sorriso soddisfatto stampato sul volto di Silente. Malfoy scuoteva la testa, mormorando spezzoni incomprensibili di frasi, un refrain di un vinile rigato dall’uso.

“Vorrebbe che io gli facessi... lezione? Lui mi detesta!”.“Preside, posso di certo pensarci io, insomma, i loro rapporti non sono certo...”.

L’anziano mago li aveva interrotti.

“Sono certissimo che i vostri non siano stati, negli anni, quelli che si potrebbero descrivere come rapporti idilliaci” aveva convenuto. “Tuttavia, soffermandomi a guardarvi ora” aveva fatto un cenno, all’indirizzo delle loro mani, ancora ostinatamente unite, “noto un cambiamento. Forse entrambi state cominciando a capire le ragioni

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dell’altro e non vorrei mai troncare l’inizio di quella che sembra una felice cooperazione fra case da sempre opposte. Quindi, vi chiedo di collaborare e spero che lo facciate di vostra spontanea volontà, perché non amerei costringervi” il viso del vegliardo si era corrucciato, per un attimo. “Ma troverei il modo di farlo, se lo ritenessi necessario” aveva puntualizzato, sollevando l’indice rugoso.

Malfoy guardava verso l’alto, ostentando indifferenza. La stretta della sua mano si era allentata, le dita restavano allacciate tra loro quasi per inerzia.

Nessuno dei due le aveva tirate via.

Il piccolo gufo emise un verso di insoddisfazione ed Hermione calò lo sguardo sulle proprie ginocchia, accorgendosi di averlo quasi intrappolato nella morsa delle dita. Gli permise di liberarsi da quella stretta e di appollaiarsi sul dorso del suo braccio e l’animaletto, dopo aver arruffato le piume, inclinò il capo di lato, porgendole il cartiglio che portava nel becco. Quando lei lo prese, il rapace le concesse una breve e cupa sillaba di approvazione e spiccò il volo, fuori dalla finestra.

La ragazza srotolò la pergamena, su cui era vergato un messaggio: la calligrafia inclinata, elegante nonostante la fretta che trasudava dalle sbavature dell'inchiostro, non lasciava dubbi sul mittente.

"Dopo è arrivato. Biblioteca, sezione proibita. Ora".

Non aveva mai notato quanto fosse tetra la Biblioteca, di notte. Con i suoi scaffali polverosi e l’odore di muffa stantia, somigliava al labirinto di un mostro mitologico che impregnava l’aria di buio denso come inchiostro e altrettanto soffocante. Varcando la soglia della sezione proibita, un brivido le percorse la schiena, partendo dalla nuca, giù, verso il basso. Stava per sguainare la bacchetta, quando si sentì afferrare per le spalle e spingere bruscamente contro la parete.

“Malfoy, lasciami” protestò, a bassa voce.“Sei in ritardo” la rimproverò. “Dovevo assicurarmi che non mi seguisse nessuno” spiegò Hermione, tentando di

divincolarsi.

Se lo ritrovò addosso quasi completamente, senza la possibilità di opporre un qualche tipo di resistenza. Con il naso quasi schiacciato contro la stoffa tesa sulla clavicola di lui, incapace di comprendere cosa stesse succedendo, respirò a fondo il suo odore, mentre si sentiva serrare ai lati da braccia che forse erano ossute, ma di certo non erano deboli.

“Pensavo che i tuoi amici ti avrebbero impedito di venire”.

Parlava direttamente al suo orecchio, sfiorandole i capelli con le labbra.

“Non lo sanno. Credono che stia studiando, loro...” Hermione deglutì, cercando di recuperare una qualche libertà di movimento. Rialzò il capo e lo inclinò di lato, sfiorando con la fronte lo zigomo del ragazzo.

“Loro?”.

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“Non capirebbero” ammise lei, in tono rassegnato.

Lui si scostò, facendo leva sulle braccia, e le voltò le spalle, passandosi nervosamente le dita aperte tra i capelli biondi, spettinati.

“Non capisco neppure io” sbottò, quasi ringhiando. “Hai messo a rischio tutto, per aiutarmi”.

“Così fanno i Gryffindor. Ci distinguiamo per coraggio e altruismo...”.“Questo non è coraggio, è una folle impresa suicida” obiettò lui, con rabbia. “Stai

sfidando il mago oscuro più potente di tutti i tempi. Io, se potessi, ne starei fuori”.“Ma non puoi. È questo il punto” gli si avvicinò, circospetta. “Io potrei starne fuori.

Potrei fuggire lontano, fingere di non essere mai stata una strega, lasciare i miei amici...” un singulto le chiuse la gola. “Potrei” ripeté, con un filo di voce.

“Allora perché non lo fai?”.“Perché non è giusto”.“Tutto qui?” Malfoy si voltò di nuovo a guardarla, con veemenza. “E chi lo decide, cos’è

giusto? Tu? Silente?”domandò, ostentando uno sguardo truce.“Non sono qui per Silente, se è questo che vuoi sapere” replicò Hermione, gli occhi fissi

in quelli di lui.“Allora perché? Avresti potuto portarmi infermeria e denunciarmi, avresti potuto

lasciarmi lì a morire come un cane!” esclamò, piombandole di nuovo addosso, il viso così vicino al suo da apparirle sfocato. I loro respiri che si mescolavano. Ancora. “Potresti essere nel tuo letto” aggiunse, con un’imprecisata nota di struggimento. “Però sei qui. Con me”.

“Sì”.“Perché? Fa parte delle tue stupide manie, come quella degli elfi domestici? Credi forse

che io sia una brava persona, sotto la maschera?” le domandò, e stavolta lei avvertì della sofferenza sotto la nota crudele e canzonatoria.

“Non sono una stupida” rispose Hermione, spingendolo indietro con i palmi delle mani aperte. “Sei solo un ragazzo viziato, che mi considera meno di niente. Questo lo so”.

“E ciò nonostante mi aiuti. Forse la tua intelligenza è un po’ sopravvalutata”.“Ti aiuto perché è giusto!” protestò la ragazza, esasperata.“Questo non è un motivo, accidenti!”.

Un pugno del ragazzo si abbatté a pochi centimetri dalla spalla di Hermione, che, aspettandosi di venire colpita, si era rannicchiata istintivamente su se stessa. Malfoy si fermò a fissarla, a bocca aperta, stranito.

“Pensavi che volessi picchiarti?”.“Io...” la ragazza boccheggiò, colta di sorpresa. “Stai piangendo” disse lui e non suonò come una domanda.

Hermione si portò la mano al volto, sorprendendosi di trovarlo umido; contemplò le dita, rese lucide dalle lacrime che le avevano bagnate, per qualche secondo, come in trance.

“Davvero pensi che potrei picchiarti?” domandò Malfoy, inusitatamente pacato.“Mi volevi morta”.“Ma sei tu, che hai schiaffeggiato me” ricordò lui, evocando il fantasma del ricordo che

aleggiava tra di loro. Nella piega delle labbra, semiaperte a scoprire un tratto di denti bianchissimi, le parve di individuare una sorta di nostalgia, come nella superficie traslucida dei suoi occhi, illuminata da sbieco dal fioco chiarore notturno che entrava da

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una delle finestre. Per un attimo, si permise di immaginare come sarebbero stati quegli occhi, se l’avessero guardata come lei, in quel momento, guardava lui.

“Cosa vuoi da me?” domandò la ragazza, ricacciando il mostro nel suo abisso. “Una risposta. Un solo motivo plausibile. Non chiedo poi tanto, non ti pare?”.

Lo scrutò a lungo, alla ricerca di un’insidia nascosta, senza trovarla: vide solo il ragazzo che aveva salvato da morte certa, quello che le aveva chiesto aiuto per sua madre, senza speranza di ottenerlo per sé. Allora comprese.

“Le cose cambiano” mormorò a voce così bassa che lui dovette avvicinarsi ulteriormente, per udirla. “Le persone cambiano. Tu ancora non lo sai, ma stai... in certe cose, forse poche, stai mutando. E allora mi viene da pensare...”.

“Cosa?”.“Che magari è possibile che tu diventi migliore di quel che hai sempre pensato di poter

essere. Che magari, senza questa assurda guerra di mezzo, potremmo non essere nemici. Non fraintendermi” aggiunse, smorzando sul nascere la protesta che gli vedeva scritta in volto, “so che non potremmo mai essere amici, ma forse potremmo essere soltanto... persone”.

“E quindi mi stai aiutando perché...”.“Perché voglio dimostrarti che hai un’alternativa. Non devi per forza essere quello che

gli altri vogliono che tu sia, puoi scegliere da solo. Ma se io...” s’interruppe, alla ricerca delle parole giuste. “Se io non ti avessi aiutato, magari saresti morto, o magari qualcun altro ti avrebbe salvato. Forse il Professor Piton, forse uno dei tuoi compagni. Se però io non ti aiuto adesso, non ci sarà qualcuno pronto a prendere il mio posto”.

“E a te cosa importa? L’hai detto tu, che potremo mai essere amici” obiettò lui, innaturalmente calmo, scrollando le spalle.

“Avrei potuto essere io”.“Scusami?” la interrogò lui, sollevando un sopracciglio.“Avrei potuto nascere dalla parte sbagliata” spiegò, “avrei potuto essere sola ad

affrontare una scelta troppo grande. Spesso mi sono fermata a pensare cosa avrei fatto io nei panni di Harry, con tutta quella responsabilità addosso, se ce l’avrei fatta o mi sarei arresa. Ma lui aveva noi, lui ha noi, me e Ron”.

Malfoy arricciò il labbro superiore e inspirò profondamente, corrugando la fronte.

“Adesso, quello che mi chiedo” proseguì Hermione, sempre cercando lo sguardo di lui, “è cosa proverei se fossi te: senza qualcuno di cui fidarti. Senza amici”.

“Io ho degli amici” replicò lui, meccanicamente.“E dove sono, adesso?” lo incalzò la ragazza, sfidandolo. “Perché non sono con te?

Perché non ti aiutano?”.“Non posso parlare di queste cose con loro” si arrese lui. “Non è che non mi fidi.

Semplicemente, non posso”.“Ma con me puoi” disse Hermione, spontanea. Un attimo dopo, si stava mordendo il

labbro, pentendosi di aver parlato. Altre lacrime le rotolarono copiose lungo le guance e lei girò il capo, per non mostrarsi così, commossa e vulnerabile per un motivo così complesso che lei stessa stentava a comprenderlo.

Perché lui era bello e quando le era crollato addosso, stremato dalla febbre, lei lo aveva abbracciato, sentendo il buono che lui cercava di tenere chiuso dentro di sé - il suo mostro personale che emergeva nell’incoscienza - e anche se non lo ricordava, anche lui l’aveva stretta, un istante prima di svenire. Perché non si era neppure accorto di esserlesi parato

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davanti, quando Piton le aveva puntato contro un dito accusatore. Perché quando lei gli aveva preso la mano, lui non si era sottratto, ma aveva intrecciato le dita alle sue senza mai lasciarle, finché non si erano dovuti separare.

Perché aveva preferito sfogare la rabbia contro il legno duro dello scaffale, piuttosto che contro di lei.

Si ritrovò a singhiozzare, incapace di imporsi il controllo di cui avrebbe avuto bisogno, soccombendo alla necessità di sfogare ogni emozione trattenuta durante i giorni in cui aveva temuto che lui morisse, in cui era sgattaiolata via da scuola in ogni momento utile, sfidando il rischio di poter essere scoperta, solo per vedere come stava. Lui, la sua nemesi, il suo opposto.

Lui, che ora la stava abbracciando.

Un braccio attorno alla vita, l’altro a circondarle le spalle, la teneva stretta, senza farle male, sfiorandole appena il volto con le dita. Lei sollevò il capo a guardarlo, cercando di placare i singhiozzi che le scuotevano il petto.

“Puoi piangere” sussurrò lui, calmo. “Cosa?” domandò la ragazza, smarrita.“Dici che io con te posso parlare” Malfoy sospirò, socchiudendo le palpebre. “Tu con me

puoi piangere. Se vuoi”.

Non oppose resistenza quando lei si divincolò.

“Sto bene”.“Già” replicò lui, pacato. “Non ho bisogno di piangere” ribadì Hermione, recuperando un poco di sicurezza.“Lo vedo”.

Si sentì di nuovo gli occhi lucidi e sbatté le palpebre, per ricacciare nuovamente il mostro nella sua tana.

“Sto bene, davvero”.

Il tono delle sue parole suonava come quello di una bugia ben detta. Vuoto, meccanico, ma fermo. Ci pensò lui a farla vacillare, di nuovo. Le stesse dita che l’avevano toccata più volte quel giorno, prima prepotenti, poi confortanti, ora le avevano catturato il volto. Un ciuffo di capelli biondi si intrecciava, quasi, con uno dei suoi riccioli castani.

“Io ti ho detto i miei motivi, Malfoy” mormorò, mentre la calma granitica della sua voce si sbriciolava, mutando le sue parole in sassolini e il suo discorso in una frana, precipitosa e irregolare come il moto del suo petto che si alzava e si abbassava al ritmo impetuoso delle domande che le vorticavano in mente.

Non riusciva a figurarsi perché le dita di lui dovessero tremare, mentre percorrevano febbrilmente il sentiero tracciato dalle sue lacrime, o da dove potesse trarre origine l’incertezza che gli leggeva negli occhi, nei gesti, che sembravano preludere ad uno sfogo di rabbia fino a quando non incontravano l’arrendevole contatto della sua pelle e allora, solo allora, prendevano consistenza per quello che erano: carezze, ricolme di qualcosa che

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lei stentava ad identificare, in cui lui poneva tutta la delicatezza di cui era capace, come se avesse timore di fare troppo forte.

“Ma tu” riprese, stentatamente, “tu perché lo fai? Dici di provare ribrezzo nei miei confronti, ma ti comporti come se importasse qualcosa di me”.

Come se non riuscissi a starmi lontano. Omise quella parte, seppure fosse il suo pensiero dominante, perché non avrebbe sopportato di sentirlo infuriarsi, non quando era così vicino, tanto che il fiato che gli fuoriusciva dalle narici scivolava quieto lungo la spirale di uno dei suoi riccioli, fino ad accarezzarle pigramente lo zigomo sinistro. Meno ancora avrebbe tollerato di sentirglielo ammettere, in quelle condizioni, con le sue mani che le racchiudevano quasi gelosamente l’ovale del viso e la fronte che quasi si appoggiava alla sua, perché lui era bello e con quella bellezza con cui fare i conti, era sin troppo facile commettere una qualche stupidaggine.

Le parve di udire la contrazione simultanea di tutti i suoi muscoli, come di corde di un violino tese allo stremo. Poi vide l’angolo sinistro della sua bocca guizzare verso l’alto e lo sentì rilassarsi, espirare, riprendere colore per quanto fosse possibile a quell’incarnato così diafano.

“Non è qualcosa su cui possa esercitare una qualche obiezione” disse, sottovoce, modulando attentamente ogni sillaba che gli usciva dalle labbra, come tentando di dominare le parole impazzite.

“Non sono certa di aver capito” obiettò debolmente Hermione, registrando quasi in maniera inconscia il pollice che le tracciava il contorno delle labbra, seguendone i movimenti quando lei parlava. “Non hai mai fatto mistero di odiarmi, mai, nemmeno una volta”.

“È così” ammise lui, in tono leggero, “io ti detesto. Rappresenti tutto ciò che vorrei calpestare, distruggere, annientare”.

“Allora perché stai asciugando le mie lacrime?” gli domandò, tentando senza di riuscirvi di cogliere il sottinteso che era certa albergasse nelle sue parole.

Il ragazzo la fissò a lungo, risalendo, con le dita, a sfiorarle la gota arrossata e bollente, sino a raggiungere la ciocca ribelle che era sfuggita alla sua acconciatura improvvisata e risistemarla con cura dietro l’orecchio, per poi percorrere la linea tesa della mandibola e arrivare a sollevarle il mento con due dita, conquistandosi il diritto di pretendere che lei ricambiasse il suo sguardo, prima di rispondere.

“È inevitabile” sospirò. “Trascende ogni mio controllo”.

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SAINTS AND SINNERS

~ s h e i s m y s i n ~

«Saints do not move,though grant for prayer’s sake.

Then move not, while my prayer’s effect I take.Thus from my l ips, by yours,

my sin is purged».

Will iam Shakespeare, Romeo and Juliet , Act I , Scene 5

“Devo tornare nel mio dormitorio”.

La ragazza si spostò di lato, sottraendosi alle sue mani, spezzando ancora una volta l’incanto creato dalla loro vicinanza.

“Bene” replicò lui, asciutto. “Buonanotte, Malfoy. Ci vediamo a lezione”.

Mentre la guardava andar via, gli venne da domandarsi se gli sarebbe stato possibile ignorarla, dopo averla avuta così vicina. Non fossero bastati i suoi giorni di prigionia - incontri clandestini e camicie strappate - o le loro mani divenute inseparabili, ad un certo punto, come se qualcuno le avesse stregate, l’istinto di stringerla, quella sera, l’aveva avuta vinta su tutto, spegnendo ogni barlume, pur vago, di certezza che gli era rimasto - che fosse sbagliata lei, come il suo sangue, come tutta quella assurda faccenda - e accendendo di colpo altre fiamme, di natura differente. E se bastava così poco per far vacillare i suoi intenti - giusto il tempo di rimirare le spalle di lei scuotersi a ritmo dei suoi singhiozzi, o il suono straziato del suo pianto - diventava pressoché impossibile illudersi di poter tornare alla strada che gli era stata destinata, da buon figliol prodigo pentito dei propri sbagli.

“Perdonami, Padre, perché ho peccato”.

Era improbabile che riuscisse ad ottenere un responso benevolo dal suo genitore. Tanto più che la sua colpa cominciava a somigliare sempre di più all’inevitabile conclusione di una follia che, da quando aveva avuto inizio, non gli aveva più dato tregua, portandolo a desiderare di porre fine ad ogni forma di pensiero razionale.

“Perdonami, perché peccherò di nuovo”.

La prima notte nel suo letto, dopo giorni di lontananza, Draco Malfoy la trascorse a fissare il soffitto, insonne, domandandosi se ci poteva essere perdono per un peccatore incapace di pentimento, se la terra scura degli occhi di lei celasse davvero un abisso infernale pronto a spalancarsi per inghiottirlo, punendolo per la sua colpa, o se costituisse il suolo su cui poggiarsi, a cui aggrapparsi per non sprofondare del tutto.

Lei naturalmente, sedeva composta tra Potter e Weasley, cuspide centrale di una piramide la cui base andava allargandosi. Alla sinistra del Re, la sua poco regale consorte

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lo vezzeggiava, il capo biondo poggiato sulla spalla di lui. Ginny Piattola Weasley, invece, rideva con lo Sfregiato, che annuiva, spesso distrattamente, alle frasi della sua ragazza.

Lo sguardo della Sanguesporco rimaneva fisso sul pasto intatto. Draco accartocciò con rabbia la busta che teneva in mano, piantando le unghie nella carta, che scricchiolò, come lamentandosi.

“Si può sapere che hai da fissare al tavolo di Gryffindor?”.

Se non fosse stato distratto a guardare la Granger - le sue braccia rigide, strette lungo il corpo e il pallore del volto che si intravedeva sotto la massa scura e disordinata dei capelli - avrebbe attribuito il profumo di viola, che saturava l’ambiente con la sua essenza dolce e un po’ nauseante, alla sua unica possibile proprietaria. Pansy Parkinson, evidentemente noncurante delle regole che lo vietavano, vi faceva il bagno ogni mattina.

Draco si alzò bruscamente, stringendo i denti nell’udire il rumore dei piedi della sedia che rigavano il pavimento lucido. La Parkinson, mani sui fianchi e visetto corrucciato, lo fissava, battendo ritmicamente un piede per terra.

“Non sono affari tuoi” la liquidò, alzando le spalle.“Dove sei stato?” domandò la ragazza, petulante.“Nemmeno questi sono affari tuoi”.“Perché sei così scostante?” piagnucolò lei.“Non sono tenuto a dirti quello che faccio, mi pare” replicò Draco, “né perché”.

Il ragazzo riportò lo sguardo sul tavolo di Slytherin: la maggior parte degli studenti fissava ostentatamente il suo piatto, come se avesse trovato improvvisamente qualcosa di molto interessante tra un’aringa e una cucchiaiata di pudding. Le uniche eccezioni erano rappresentate da Tiger e Goyle, che assistevano al battibecco con un’espressione di stolida curiosità. Irritato, scansò Pansy di lato e fece per dirigersi verso l’uscita della Sala Grande.

“Che lo lasci quello, Capo?”.

Goyle aveva messo gli occhi sul suo piatto, dove campeggiava la sua colazione, pressoché intatta.

“Sì” sbuffò lui. “Non ho più fame”.“Draco” si lagnò Pansy, aggrappandosi alla sua camicia.“Staccati, Pansy” le intimò lui, con un’occhiataccia.

Si divincolò con uno strattone, troppo violento per passare inosservato. Draco si sentì improvvisamente gli occhi di tutti puntati addosso; anche Pansy, naturalmente, lo fissava con le iridi sbarrate e le labbra semiaperte, muta ma eloquente nell’espressione del volto, che era di puro sbigottimento.

“Una ragazza...” rantolò Pansy, quasi inudibile. “Hai addosso... l’odore... di una ragazza!” esclamò, stridula, alzando la voce.

Piton si era alzato dal tavolo dei Professori e stava venendo loro incontro. Anche la McGranitt e Silente li guardavano, l’una scandalizzata e l’altro seraficamente calmo.

“Siediti, Pansy. Ci stanno guardando tutti”.

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“Signorina Parkinson” la voce di Piton li raggiunse, bassa e autoritaria, “Signor Malfoy, che cosa succedendo qui?”.

“Niente, Signore,” rispose Draco, posato, sistemandosi il nodo della cravatta. “Pansy mi stava salutando. Non ci eravamo ancora visti da quando sono tornato”.

“Per il futuro, signorina Parkinson, cerca di conservare questo genere di effusioni per i vostri momenti privati” suggerì Piton, impassibile, con una nota di disgusto nella voce.

Dall’altro lato della sala, l’impatto di una sedia ricaduta sul pavimento spezzò il silenzio venutosi a creare dopo l’ammonimento del Professore, che aveva smorzato il brusio di sottofondo. Draco si girò a guardare, cogliendo con la coda dell’occhio un movimento frettoloso ai margini del suo campo visivo, seguito da un levarsi di proteste soffocate.

Seguirono istanti insopportabilmente lunghi, in cui non gli restò che seguire con gli occhi la schiena della ragazza che si allontanava, a passo spedito, quasi rabbioso, e desiderare di poterle correre dietro, stringerla di nuovo come poche ore prima. Che gli lasciasse di nuovo addosso il suo odore, tormentando il suo sonno per tutte le notti a venire.

Potter, in piedi, si guardava attorno smarrito, invocando un nome che a lui non sarebbe mai stato concesso di pronunciare. Gli facevano eco altre voci, alcune irritate, ironiche, altre solidali.

La ragazza procedeva noncurante dei richiami, mostrando di sé soltanto un paio di polpacci torniti, la gonna scura, la camicia perfettamente stirata, il capo eretto con la nuca scoperta dai capelli, raccolti in una crocchia stretta. L’emblema rappresentativo del rigore, casto, virginale, affatto provocante. Nulla di eccezionale, tranne tutto l’insieme. Tranne lei.

Peccato.

Mai le lezioni gli erano sembrate più lunghe: in sottofondo, il professor Lumacorno cianciava di ingredienti rari e preziosi - veleno di acromantula, addirittura - e accanto a lui, uno per parte, Tiger e Goyle scarabocchiavano sulle loro pergamene.

Il terzetto ricomposto sedeva qualche banco più avanti, nella fila alla sua destra: Potter, la testa arruffata china sul banco e la posa sin troppo composta, artificiosa; Weasel, la mano aperta a sorreggere la testa e l’aria svagata di chi sogna ad occhi aperti. La Granger, che si agitava sulla sedia, nervosa, incapace di stare ferma.

“E allora, signor Malfoy” Lumacorno gli indirizzò un cenno che avrebbe voluto essere bonario, “come andiamo? Il professor Piton mi ha detto che sei dovuto tornare a casa per un po’. Come stanno i tuoi genitori?”.

“Mia madre ha avuto...” Draco deglutì, cercando una risposta che lo mettesse a tacere. Vagando nervosamente con lo sguardo, scorse due occhi scuri e ansiosi, posati su di lui. La Granger si era voltata, ignorando la protesta soffocata che, a giudicare dal tono lamentoso, doveva essersi levata da parte di Weasley.

Si preoccupava per lui.

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Doveva essere per forza così, non poteva essere per timore che lui la tradisse, non dopo che l’aveva coperta in quel modo di fronte a Piton.

Colse le emozioni nello sguardo di lei - rabbia, pena, preoccupazione - e ne intuì altre più segrete, che si potevano forse indovinare nella torsione quasi completa del busto - nella stoffa della camicia tesa sul fianco - e nelle nocche sbiancate delle mani che stringevano, quasi aggrappandovisi, lo schienale della sedia.

“Che cosa ha avuto tua madre?”.

Lumacorno attendeva, le mani in tasca e le labbra increspate in un sorriso artificiale, che mal celava la sua curiosità. Draco soffocò un’imprecazione e tornò a guardarlo direttamente in viso, sforzandosi di assumere un’espressione neutra.

“Un malore” disse, sorprendendosi della fermezza della propria voce. “È in pena per mio padre” proseguì. “Da quando lui non è più a casa, sta spesso poco bene”.

Come previsto, il professore distolse lo sguardo, imbarazzato; si limitò, anziché rispondergli, a sollevare una mano, in un gesto che voleva significare che bastava così, e gli girò la schiena. Draco sentì la tensione scivolargli via dalle spalle, quel tanto che gli permetteva di appoggiarsi all’indietro, abbandonare il capo per un istante e respirare profondamente, prima di rimettersi diritto.

“Tutto bene, Capo?” chiese Goyle, sottovoce.

Draco annuì e tornò a guardare avanti.

L’anta dell’Armadio cigolò, ruotando sui cardini poco oliati. Al suo interno regnava un forte odore di stantio - muffa e cadaveri d’insetti le cui uniche vestigia erano carcasse fragili in attesa di sbriciolarsi al passaggio d’una mano vivente - che lo investì, come un colpo in pieno viso. Draco si osservò le dita, ricoperte di una patina grigia di polvere e imprecò tra i denti.

“Maledizione”.

Estrasse dalla tasca dei calzoni la più recente delle lettere che aveva ricevuto quella mattina - l’ultima di una serie di tre, vergate da una mano sempre più certa e pervase da un crescendo di angoscia - e la dispiegò, cominciando a scorrerla febbrilmente con gli occhi.

«Draco,abbiamo saputo del tuo incidente da Severus e siamo stati tutti molto in pena.

Speriamo che ora tu stia meglio e che sia pronto a tornare ai tuoi impegni quotidiani, che sono più che mai importanti, in questo momento. Tuo padre ed io contiamo su di te.

I libri che ci hai chiesto arriveranno tra tre giorni al più tardi.

Sii oculato, figlio mio, il tuo bene viene prima di tutto».

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Si lasciò ricadere a terra, sedendo sul pavimento, incurante dello sporco che gli avrebbe macchiato la divisa.

Siamo stati tutti molto in pena.

Poche parole, in apparenza fredde, inoffensive, che celavano tutta la preoccupazione di una madre tra le pieghe dei formalismi, del retaggio delle tradizioni, e che invece erano un messaggio diretto a lui. Ti tengono d’occhio, e sono impazienti.

Tuo padre ed io contiamo su di te.

Qui la mano doveva aver tremato: la scrittura elegante di Narcissa, precisa sino al parossismo, si deformava leggermente, assumendo contorni approssimativi. Sua madre aveva paura.

Appallottolò il foglio di carta e lo gettò dentro l’Armadio, richiudendo lo sportello con un calcio; lo scatto della serratura risuonò nell’ampia sala con un cupo rimbombo, lo spostamento d’aria fece ondeggiare le ragnatele che penzolavano dal soffitto. Tutta la Stanza parve risentirsi di quel rumore improvviso, sollevando refoli di polvere dalle tende che si gonfiavano, sbuffando, come offese da tanta mancanza di riguardo.

“Maledizione!” ripeté, quasi ringhiando.

Si alzò di scatto e si avvicinò all’Armadio Svanitore, stendendo una mano tremante, che indugiò nel seguire l’intarsio di legno scuro, allungando il percorso che l’avrebbe condotta al pomello al centro dell’anta. Infine lo afferrò saldamente e tirò, con gli occhi chiusi, ascoltando il lamento dello sportello che si apriva. Inalò di nuovo il respiro del passato che il mobile custodiva dentro di sé, ritrovandosi a mormorare spezzoni di una preghiera senza aver qualcuno a cui rivolgerla, perché era un peccatore e il suo Signore non era certo una divinità benevola da invocare dal profondo della propria angoscia.

“Fa’ che abbia funzionato”.

Schiuse lentamente le palpebre, tormentandosi il labbro inferiore con i denti.

Sul fondo d’ebano, la piccola massa di carta bianca lo irrideva, silenziosa.

Harry sbucò dal ritratto della Signora Grassa, stringendosi il libro del Principe al petto. Percorse rapidamente il corridoio, sperando di non incrociare Gazza - o quella maledetta gatta che gli stava sempre appresso - e rimpiangendo ferocemente la perdita del suo mantello.

Naturalmente, anche quella era colpa di Malfoy.

Sbucò da un angolo, guardandosi attorno, circospetto. L’androne pareva deserto, salvo per i quadri, che parlottavano tra loro, indicandolo, e per qualche armatura disseminata qua e là. Traendo un gran respiro, Harry guardò verso l’alto, alla ricerca delle rampe che lo avrebbero condotto al quarto piano.

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Sapeva che non avrebbe dovuto parlarne con Ginny, ma Hermione era così strana di quei tempi e Ron, beh, era Ron. Gli avrebbe dato una pacca sulla spalla e gli avrebbe suggerito di tenersi ben stretto il libro del Principe, visto e considerato che aveva contribuito a salvargli la vita, oltre che ad imparare incantesimi che di dubbio avevano di certo la morale, ma non l’utilità. E poi nessuno sapeva che era stato lui, a ferire Malfoy. A parte Malfoy. E, a proposito, come mai era stato zitto?

Uno dei ritratti minori, nei dintorni del quadro di Sir Cadogan, si lasciò sfuggire una risatina. Harry si voltò a guardarlo, infastidito e notò che la fanciulla ritratta guardava in su, verso le scale, con la mano inguantata sollevata a schermarle educatamente la bocca ridente.

Ginny lo aveva aiutato senza nemmeno saperlo, con poche parole dette sovrappensiero, mentre fissava le fiamme nel camino della Sala Comune e il rosso e l’oro dei colori della loro casa parevano quasi pallidi rispetto alla massa infuocata dei suoi capelli. Lui era così concentrato a fissarla che per un breve istante aveva scordato qualsiasi cosa al di fuori della voglia di baciarla.

“Non puoi lasciarlo in giro. Potrebbe essere pericoloso” aveva mormorato, distogliendolo dall’incanto. “Devi metterlo da qualche parte dove nessuno lo possa trovare per errore. Tu dove nascondi le cose, in caso di necessità?”.

Allora lui l’aveva baciata per davvero, e non solo per ringraziarla di avergli fornito la risposta ponendogli la domanda, ma per avergli dato l’occasione di farlo senza sentirsi in colpa - perché avrebbe dovuto pensare a ben altro che ad amoreggiare con la sua ragazza - e anche perché raggomitolata sul tappeto, con una gamba piegata ed una mano dietro la nuca a giocherellare con una ciocca di capelli, lei era semplicemente stupenda e non poter approfittare della Sala Comune deserta sarebbe stato un vero peccato.

Avrebbe dovuto arrivarci da solo, alla Stanza delle Necessità.

La porta, come sempre comparsa dal nulla, si spalancò su una stanza polverosa, tetra e scarsamente illuminata. Diversi oggetti malandati giacevano sul pavimento. Una credenza di foggia antica, il cui legno sembrava essere stato eroso da una qualche sostanza acida, era stata ribaltata per terra, le ante spalancate e quasi divelte. Harry vi gettò un’occhiata dentro, perplesso.

“Che diavolo...” imprecò a mezza voce.

Qualcosa lo fece incespicare; abbassò lo sguardo, incuriosito, e vide dei frammenti di pietra sparsi a terra: un naso, una parte di volto. Una volta doveva essere stata una statua. Poco lontano, giaceva una parrucca grigiastra, semisepolta da un mucchio di macerie. Sullo sfondo, un armadio scuro, semiaperto, troneggiava imponente.

“Oh, chi se ne importa”.

Harry estrasse la bacchetta e la puntò verso la credenza, mormorando un incantesimo a fior di labbra.

Qualche minuto dopo, lasciava il quarto piano sentendosi molto più leggero, ignaro di aver trascurato particolari che avrebbero potuto salvare più di una vita.

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Peccato.

Imboccando il corridoio dinnanzi all’uscita dell’aula di Difesa, Draco aveva incontrato Theodore Nott. Si erano scambiati un saluto distratto - l’uno troppo preso dai propri pensieri, Narcissa, i Mangiamorte, la Guerra, Lei, l’altro occupato a fissare la porta sbarrata - e si erano voltati le spalle, scegliendo di ignorarsi a vicenda.

Dall’interno dell’aula si udì provenire una risata, acuta e nasale, che Draco riconobbe immediatamente. Pansy.

A Nott piaceva la Parkinson e questo era un fatto risaputo, giù, nei sotterranei, ma poiché quel che accadeva a Slytherin restava a Slytherin, la voce non si era ancora sparsa per tutta la scuola, come sarebbe accaduto per uno studente di altre case. Comunque, questo spiegava cosa ci facesse fuori dall’aula di Piton, composto come un cagnolino in attesa del padrone. Semplicemente, aspettava lei che, a detta di Tiger, era in punizione e ci era finita per lui.

Come la Sanguesporco.

“Sei qui per lei?”.

Nott lo squadrava, mani in tasca e spalle strette, sulla difensiva.

“No” rispose Draco, ed era una bugia ed una verità assieme. Certo che era lì per lei - anche se non avrebbe osato confessarlo neppure a se stesso - ma la lei in questione non era quella a cui alludeva Theo.

“Ah” il ragazzo si rilassò istantaneamente. Riuscì persino a rivolgergli un accenno di sorriso.

La porta si aprì e Pansy, ancheggiando come al solito, uscì dall’aula. Incrociando i suoi occhi, sorrise speranzosa e affrettò il passo per raggiungerlo. Fu Nott però, ad andarle incontro, e l’euforia svanì dal viso della ragazza, lasciando posto al livore. Non oppose resistenza al braccio di Theo che le si avvolgeva attorno alla vita e si lasciò condurre via, lanciando a Draco un’occhiata delusa da sopra la propria spalla. Lui non la guardò neppure: era il suo turno di fissare la soglia, non più sbarrata, né vuota.

“Ti lasci portare via la ragazza senza nemmeno protestare” commentò la fanciulla sulla porta. “Non è da te”.

“Sbagli” replicò lui, laconico.

Lei si strinse nelle spalle e avvicinò le braccia incrociate al corpo, come proteggendosi.

“Immagino che ora mi dirai che tu non insegui le ragazze, ma che sono loro ad inseguire te”.

“Non pensavo ragionassi per luoghi comuni, Sanguesporco”.“Io non lo faccio” lei scosse la testa. “Ma ho sempre pensato che lo facessi tu”.

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C’era, nell’ombra che le ciglia gettavano sui suoi occhi scuri, la traccia di vecchie ferite dell’anima. Una causa cui lui stesso non aveva mai lesinato il suo contributo.

“Fammi entrare” le disse, rovesciando il capo all’indietro, esasperato dai propri pensieri.

Lei girò sui tacchi e rientrò nell’aula, esponendogli la schiena. Draco la seguì, indugiando con gli occhi sulla sua nuca, che il colletto slacciato e la cravatta lenta lasciavano scoperta.

“Piton?”.“Ha mandato via la Parkinson in fretta e furia e si è ritirato nel suo studio” rispose la

ragazza, rimettendo un banco al suo posto.“Ti ha aiutato lei a riordinare?” chiese Draco, scettico, appoggiandosi ad uno dei tavoli

della prima fila.“Oh, sì” sospirò lei, con sussiego. “Tra un lamento e l’altro su quanto fosse ingiusto

dover respirare la mia stessa aria, credo abbia riposto un libro sullo scaffale. Immagino che per lei sia un’impresa eccezionale”.

“Non ne dubito” commentò lui, neutro.

Si esaminò i pugni posati in grembo, stretti e con le nocche livide.

“Perché sei qui?” gli domandò la Sanguesporco, raccogliendo da terra quelli che sembravano dei pezzi di stoffa bruciacchiati.

“Chi è andato a fuoco?”.“Un allievo del secondo anno ha pensato di mostrare al suo vicino di banco quanto era

bravo con l’incendio” spiegò la ragazza, fermandosi finalmente a guardarlo. “Ha finito per appiccare le fiamme alla propria camicia. Succede di farsi male, quando si gioca col fuoco”.

Sorrise amaramente, a quelle parole, come narrando qualcosa che avesse a lungo meditato, forse addirittura accarezzato con il pensiero. Il rumore di svariati oggetti che cadevano la fece voltare e lui rimase incantato ad ammirare la tensione dei muscoli del suo collo.

Tra le fiamme, infine, ci sarebbe finito anche lui, come conseguenza del suo peccato.

“La tua ragazza è un fenomeno. Non sa neppure mettere a posto un libro”.

Draco chiuse di scatto la mandibola e assaggiò il sapore del proprio sangue. La tua ragazza, la tua ragazza. Pronunciava quelle parole quasi sputandole, come se avesse fretta di togliersele dalla bocca per paura che potessero inquinarla.

“Continui a ripeterlo” sbottò, rigido.“Nulla che non sia vero,” si animò lei. “Guarda là che disastro...”.

Lui si sporse ad afferrarle le mani, che la ragazza aveva sollevato nell’impeto del discorso, bloccando il fiume di parole che sembrava volerle sgorgare dalle labbra. Se l’attirò vicina, fissando gli occhi nei suoi, sbarrati.

“Non è la mia ragazza” soffiò, a voce bassa, e la sentì tremare.“Perché sei qui?”.“Devi aiutarmi. Ricordi?”.

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La ragazza sottrasse i polsi alla sua presa e fece per indietreggiare, ma incespicò in uno dei banchi, che le impediva la ritirata rapida che doveva aver progettato.

“Cosa ti serve?” domandò, appoggiandosi al ripiano.“Devo aggiustare una cosa” rispose lui, di fretta. “È per... lo sai. Altrimenti il piano

salterà”.“Malfoy, io... ci ho pensato. Non può funzionare” la Granger crollò il capo, scoraggiata.

“Silente è un mago potente e non dubito possa tenerli a bada, ma dovremmo chiamare qualcuno, rischia di morire, anche con l’aiuto del Professor Piton!”.

“Io credo che lui lo sappia,” replicò Draco. “Credo che sapesse tutto da molto tempo”.“Che vuoi dire?” domandò la ragazza, sollevando la testa.“Ha un piano e un complice. Piton sapeva di sicuro quello che stavo... che stava

succedendo”.

Non avrebbe mai osato sperare che lei non notasse il suo lapsus, abituata com’era a rilevare ogni dettaglio. Oh, sì, aveva imparato a conoscerla bene, studiando le sue mosse come si esaminano quelle dell’avversario durante un duello. Del resto, il loro altro non era che uno scontro che si era esteso nel tempo per ragioni impossibili da ammettere e da comprendere del tutto.

“Quello che stavi... cosa?” domandò, scioccata, puntandogli addosso occhi pieni di accuse.

D’un tratto comprese che lei non lo aveva mai associato agli attentati che avevano minato la tranquillità di Hogwarts, nemmeno quando gli aveva visto la sua identità scritta addosso, perché accecata dalla purezza del proprio animo, che concepiva l’errore ma non la colpa di averlo cercato.

“Gli attentati...” boccheggiò, sconvolta. “Katie... Ron... Tu!”.

Perché sarebbe stato più semplice convivergli a fianco sapendolo un redento che un assassino fallito.

Gli si scagliò contro, armata delle unghie con cui gli graffiava il collo e della rabbia che l’accendeva. Fuoco. Catarsi. Grazia salvifica o furia distruttrice.

“Come hai potuto farlo” urlò. “Come?”.

La Virtù s’indignava dinnanzi al peccato altrui.

“Vigliacco, maledetto vigliacco!” strepitò, ancora, piantandogli le unghie nella stoffa della camicia.

Le pose le mani ai lati delle spalle e la bloccò, fermandosi ad osservare un secondo le sue gote arrossate. Arginò i tentativi di lei, che lottava per divincolarsi, spingendola contro il banco fino a farvela quasi sedere sopra.

“Lasciami, non toccarmi” ringhiò la ragazza. “Mi fai schifo”.“Non ho mai detto di essere un santo” ribatté lui, stancamente. “Perché l’hai fatto?” gli domandò la Sanguesporco, a corto di fiato.“L’obiettivo finale è sempre stato Silente” spiegò lui cercando di mantenersi asettico. “La

Bell era un veicolo come un altro, quanto a Weasel... non sono stato io a dargli il liquore”.

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“Avrebbero potuto morire!” inveì lei, strattonandolo. “Perché... ?”.

Perché non aveva mai pensato di avere un’alternativa, perché era esattamente quello che ci si aspettava da uno come lui. Perché voleva distruggerla, perché la odiava. Perché era la sua dannazione, il suo peccato.

“Eseguivo gli ordini” mormorò, spossato.“Non è una scusa valida”.“È l’unica che ho”.

Per la prima volta in una vita costruita sulle menzogne, Draco Malfoy si sentì un bugiardo.

“Sarebbe venuto anche il mio turno, vero?” domandò lei, asciutta. “Immagino non vedessi l’ora, già”.

“Smettila” le intimò e forse aveva negli occhi un segno di ciò che sentiva dentro, forse lei sapeva quale meticoloso lavoro di decostruzione su di lui svolgevano quelle parole. Forse si era pure avveduta del nodo di tensione che lui aveva all’altezza del ventre, perché fremette, mordendosi il labbro, quando lui le si accostò maggiormente.

“Scommetto che un po’ ci speravi, che ci andassi di mezzo io” continuò lei, imperterrita. “Quanto ti sarebbe piaciuto vedermi schiattare? Puoi dirmelo, sai,” lo provocò. “Tanto l’ho sempre saputo, che mi volevi morta”.

“Piantala, ho detto! Basta!”.

Si accorse di averla quasi sollevata, nella furia di smorzare l’impeto con il quale lei gli snocciolava davanti verità mischiate a cattiveria. Perché era vero che aveva sognato tutto il male che avrebbe potuto farle, millantando il potere di ottenere vendetta per torti innominabili. Che, nei momenti più bui, l’aveva voluta morta. Poi l’aveva voluta e basta.

Spostò una mano al lato del suo volto e le sue dita inciamparono in un ricciolo ribelle. Le labbra di lei tremarono, come può farlo il fuoco smosso da un vento irrispettoso, e forse era così che doveva andare. Forse l’unico posto per un peccatore erano le fiamme della dannazione.

“Malfoy...”.

L’ultima sillaba del suo nome gli si infranse sulle labbra, soffiandogli sui denti un respiro a metà.

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THE FALL

~ m y p l a c e a m o n g t h e a s h e s ~

«Say f irst , for Heav'n hides nothing from thy viewNor the deep Tract of Hell , say f irst what cause

Mov'd our Grand Parents in that happy State,Favour'd of Heav'n so highly, to fal l off

From thir Creator, and transgress his Wil lFor one restraint, Lords of the World besides?»

John Milton, Paradise Lost

Aveva ancora la sua mano rabbiosa aggrappata alla camicia, la sentiva chiaramente artigliarsi a gualcire la stoffa, non potendo scalfirgli la pelle.

Assaggiò la bocca di lei, appena schiusa, e se il suo odore era buono - giusto - il suo sapore era perfetto. Valeva la pena, dannarsi così, con le labbra premute su quella di lei, gli occhi che non osavano guardarla se non tra le palpebre socchiuse; gli parve che il suo inferno si stemperasse, come annullato da un fuoco catartico, che lo mondava del suo peccato. Tra le sue braccia, lei, da rigida si fece stranamente arrendevole, concedendogli di sentire il suo respiro affannoso mescolarsi col proprio.

Anche le dita di lei giacevano, non più contratte, fremendo appena sulla sua scapola. Con l’altra mano gli teneva il polso, delicatamente, come si potrebbe cogliere un fiore per non sciuparlo.

Affondò con i polpastrelli nell’intrico soffice dei suoi capelli e le circondò la vita con il braccio libero, pesandole addosso, con ogni muscolo del suo corpo teso a cercare quello di lei e la bocca che si muoveva sulla sua, incerta, oscillante tra l’esitazione e la fretta. Le sfiorò il labbro superiore con i denti e il suono basso e modulato che le sfuggì dalla gola gli annebbiò il cervello.

Avrebbe potuto cadere ai suoi piedi, implorandola di lasciarsi baciare ancora.

Si staccò dalla bocca di lei, facendo appello all’ultima traccia di autocontrollo che gli rimaneva, in tempo per cogliere un movimento ai margini del suo campo visivo.

“Ma che diavolo sta succedendo qui?”.

Severus Piton si sporgeva dalla porta che si apriva sul suo studio, il volto cereo ed esposto, scevro della maschera di impassibile rigore che gli era usuale. Quella che aveva negli occhi sembrava rabbia, forse incredulità, e non recava traccia del disgusto che Draco aveva immaginato di trovare nel farsi sorprendere intento a mescolarsi con quella che gente del suo calibro avrebbe definito feccia. Lui invece, non trovava per la ragazza che ancora stringeva con possesso un solo appellativo calzante, tranne quello che non avrebbe mai potuto pronunciare ad alta voce senza cadere in una trappola ordita da lui stesso.

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Aprì la bocca, cercando di dar corpo a una menzogna che sovrastasse la verità insopportabile urlata dai suoi pensieri; poi il palmo della mano di lei si abbatté sulla guancia - prendendosi nuovamente un privilegio mai concesso ad altre - e il rumore dello schiaffo gli fece strabuzzare gli occhi, ancor più del bruciore dovuto all’impatto. Si stava abituando, a bruciare per lei.

“Non riprovarci” gli intimò la ragazza, le labbra tremanti e le gote scarlatte. “Mai più”.

Si divincolò dalla sua presa ormai blanda e corse via, senza degnare d’uno sguardo né lui né Piton, che sostava sulla porta immobile, come colpito da un incantesimo di pietrificazione.

“In che razza di situazione ti sei impelagato?” lo interrogò, con aperta disapprovazione. “Non ti bastavano i guai che già avevi?”.

La voce aspra del suo padrino accompagnò lo scatto secco della porta che si chiudeva dietro le spalle della ragazza in fuga.

“Non posso farci niente” ribatté Draco, storcendo la bocca.

Piton lo affiancò, sospirando.

“Evidentemente no”.

La Signora Grassa non c’era.

Hermione si lasciò sfuggire un singulto di frustrazione nel contemplare il quadro privo della sua usuale occupante. Il tendaggio di velluto verde ondeggiava pacifico dinnanzi ad una finestra, aperta su un paesaggio grigio, dai contorni sfumati.

Grigio e verde. Curioso accostamento, per la Sala Comune di Gryffindor. Meno insolito sarebbe stato se posto all’ingresso di un’altra casa, per esempio quella di cui aveva ammirato il blasone poco prima, ricamato su una cravatta che, senza preavviso alcuno, lei si era ritrovata ad osservare sin troppo da vicino.

Un altro verso strozzato uscì dalla sua gola. Hermione si ricoprì il volto con entrambe le mani e si accosciò per terra, sbuffando. Voleva i suoi libri, voleva la confusione dei suoi compagni di Casa a riempirle la testa, ad impedirle di pensare. Voleva la routine e la Signora Grassa al suo posto. Chissà se si stava di nuovo ubriacando con Violet.

Rialzò lo sguardo verso il ritratto, ancora deserto, e imprecò tra sé.

“Maltafinocchia” bisbigliò, aggrappandosi all’assurda speranza che il quadro riconoscesse la parola d’ordine e la lasciasse passare. Quasi le parve di udire il consueto rumore della serratura che scattava.

“Stupido quadro” sbottò, vedendolo rimanere perfettamente immobile. “Io devo entrare, stupidissimo ritratto, fammi entrare, accidenti! Maltafinocchia! Mi senti? Maltafinocchia!”.

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Rituffò il volto tra le mani, cercando di frenare le proprie risa isteriche.

Ma chi diavolo le sceglieva, quelle assurde parole d’ordine?

“Hermione?”.

Una sagoma maschile, alta e dinoccolata, proiettava su di lei la sua ombra. Lei continuò a ridere, incapace di fermarsi.

“Dico, ma ti senti bene?” il ragazzo si chinò a prenderla per le spalle e cominciò a scuoterla energicamente. Hermione rialzò la testa, decisa a protestare e incontrò un paio d’occhi castani, che la fissavano ansiosi.

“Neville?”.“Chi pensavi che fossi?” domandò lui, corrucciato.“Nessuno, credo. Scusami,” tagliò corto lei, “sono un po’ sottosopra, volevo entrare ma

la Signora Grassa non c’è e così...”.“Così ti sei messa ad urlare qualcosa di incomprensibile al ritratto vuoto?” ironizzò

Neville, spianando la fronte.“Devo esserti sembrata una tale stupida...” gemette Hermione. “Più che altro, non capivo se stessi piangendo o ridendo. Insomma,” aggiunse il ragazzo,

stringendosi nelle spalle, “temevo che ti fosse successo qualcosa”.“Sto bene,” sorrise lei, cercando di suonare rassicurante. “Sono solo un po’...”.“Sottosopra, sì” concluse Neville, al posto suo. “C’entra per caso Ron e la sua rinnovata

relazione con una certa bionda?”.

Ron. Per anni aveva sperato che si accorgesse di lei, attendendo pazientemente com’era nella sua indole che le cose seguissero il loro corso e che i loro imbarazzi sfociassero in un’intimità sentimentale, in un rapporto nuovo. Doveva esserci arrivata vicina - dovevano, entrambi, aver quasi sfiorato quel momento - perché ne avvertiva la presenza sbiadita e flebile, quasi impercettibile in confronto alla portata di ciò che ora la turbava.

Ron, che aveva rischiato di morire per colpa di Malfoy. E Malfoy l’aveva baciata.

Le sfuggì un’imprecazione, sotto lo sguardo incredulo del compagno di casa.

“Non è per Ron, non del tutto almeno” si espresse alla fine, cercando di essere sincera, senza svelarsi troppo.

“Ah, capisco” Neville si infilò le mani in tasca. “Si dice che tu ti veda con qualcuno. È così?”.

“Più o meno” lo assecondò lei, abbassando gli occhi e serrando le palpebre. Un senso di oppressione le pesò addosso, facendola improvvisamente sentire in trappola, a dibattersi nella fitta rete di menzogne che qualcuno - forse lei stessa - le aveva avviluppato addosso, cercando di recuperare un po’ di spazio vitale senza lacerarne le maglie. Ma poi, quante e quali bugie erano davvero tali e quali invece erano soltanto verità mancate di un soffio?

Lui l’aveva baciata.

“Non volevo essere indiscreto” tossicchiò il ragazzo, imbarazzato. “È solo che Lavanda sta spargendo la voce in giro e volevo che tu lo sapessi”.

“Non mi aspettavo nulla di diverso, da lei” sbuffò Hermione, alzandosi da terra. “A proposito di Lavanda...”.

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“Se stai per dirmi che mi ha fatto lo sgambetto” la interruppe lui, risentito, “lo so già. Non sono stupido, sai”.

“Non ho mai pensato che lo fossi” obiettò la ragazza, scoccandogli un’occhiata in tralice. “Ma se lo sapevi, perché non le hai detto niente? Ora tutti credono che sia una specie di indovina”.

“Non è poi tanto male, sai” Neville fece spallucce. “Almeno adesso hanno smesso di guardarmi come se fossi una puffola pigmea”.

“Chi?”.“Tutti” rispose lui. “Beh, tutti tranne te”.

Hermione abbassò nuovamente gli occhi, contrita.

“Insomma,” aggiunse, “non fraintendermi, ma non è male essere considerato un ragazzo, una volta tanto. Ora le ragazze mi sorridono, mi guardano e gli studenti maschi mi danno pacche sulle spalle. Chi se ne importa se è per merito di uno sgambetto”.

“Mi dispiace, Neville. Lo so cosa intendi, ma continuo a pensare che quello che fatto Lavanda sia molto brutto” replicò Hermione, continuando a fissare il pavimento.

“Oh, ma lo è” accondiscese lui. C’era un sorriso nella sua voce ed Hermione si concesse di guardarlo. “Tuttavia” riprese Neville, “non è detto che da una cosa brutta non possa venirne del bene, non credi?”.

“Forse” disse lei, ammorbidendosi un poco. “Ma comunque Lavanda non dovrebbe spacciarsi per indovina, qualcuno dovrebbe dirle il fatto suo”.

“Perché non lo fai tu?” propose il ragazzo, noncurante. “Per lo meno puoi smentirla, voglio dire, o Piton ti ha sorpresa davvero a baciare Malfoy?”.

Le tre parole in sequenza - Piton, baciare, Malfoy - le si abbatterono addosso, una dopo l’altra, con la violenza di tre colpi di maglio diretti allo sterno. Hermione si irrigidì di colpo e si immobilizzò al centro del corridoio, mentre Neville le dava le spalle e si avviava verso il ritratto, dove la Signora Grassa doveva essere tornata in punta di piedi, senza farsi notare. Il viso florido della dama era atteggiato al suo solito, nobile distacco, ma le sue mani erano malferme e cercavano di nascondere qualcosa tra le ombre di chiffon dell’ampia gonna rosa.

Il crepitio sommesso della stoffa inamidata sotto le sue unghie corte e il suo debole tentativo di resistenza si erano spenti entrambi, lasciandosi dietro solo un impalpabile sentore di rimorso.

“Parola d’ordine?” li interrogò la Signora con sussiego.

Si udì un mugugno sommesso.

L’aria soffiata da una bocca all’altra nel contrasto fuggevole delle proprie labbra con la durezza dei denti di lui. Oh, quella che le aveva sospinto contro il ventre, estorcendole un ansito basso e quasi selvatico mentre premeva contro di lei alla ricerca di un sollievo impossibile da trovare e le induceva una smania simile, gettandola in un baratro di incertezze.

“Come diavolo era? Spillo e capocchia? Mais e pannocchia? Accidenti” si crucciava Neville. “Non me lo ricordo mai. Hermione...” la interpellò, voltandosi, “potresti...?”.

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Qualunque cosa stesse per aggiungere, gli si spense sulle labbra come il sorriso, timido ed abbozzato, con cui usava dissimulare l’imbarazzo. Strabuzzò gli occhi e le venne incontro, raggiungendola con poche rapide falcate.

“Hermione, santo cielo, ti senti male? Ti porto in infermeria?”.“No, certo che no” balbettò lei. “Sono solo un po’...”“Sottosopra?” Neville la squadrò, scettico. “Beh, non è da te. E nemmeno ripetere per tre

volte la stessa cosa, come hai fatto da quando abbiamo iniziato a parlare. Che ti succede?”.“Non lo so” ammise lei, lasciando penzolare le braccia lungo i fianchi. “Sono stanca,

credo. Scusa, Neville, non volevo farti preoccupare”.“Ti ho turbata, vero? Non volevo offenderti” si rammaricò lui, abbassando lo sguardo a

terra. “Non avrei dovuto impicciarmi”. “Perché hai nominato Malfoy?”.“Lo so, non avrei dovuto” replicò il ragazzo, continuando a fissarsi le scarpe. “Stavo solo

scherzando, nessuno crede davvero che tu l’abbia baciato, insomma... avrai avuto un buon motivo per tenerlo per mano e tutto il resto, per cui...”.

“Non ho baciato Malfoy”.

Ammirevole bugiarda, mentiva persino a sé stessa. Scacciò quel pensiero con fastidio.

“Certo che no”.

Neville la guardava dritta in faccia, ora, e lei si chiese se potesse scorgere i segni della sua bugia. Una parte di lei, residuo dell’infanzia, pestava i piedi, urlando, nel silenzio della sua mente, che era stato lui, a baciarla, e non il contrario.

“Maltafinocchia” disse, rivolta al ritratto.

La porta si aprì con un cigolio. I colori caldi della Sala Comune di Gryffindor li accolsero, dando loro il bentornato a casa.

Altrove forse, qualcuno stava sgusciando nella sua tana umida e fredda. Non per la prima volta, Hermione si chiese come poteva essere vivere nei sotterranei. Harry e Ron c’erano stati. Lei no, né ci sarebbe mai stata: non c’era posto nella sua vita per i sotterfugi di un covo di serpi, per angoli bui e passaggi stretti in cui trovarsi di nascosto, incontri clandestini e camicie strappate, il desiderio di toccare non stoffa, ma pelle e quel languore ad allentarle i muscoli delle cosce. Non poteva accadere di nuovo. Non poteva cadere di nuovo.

Varcò la soglia, sorridendo forzatamente a Ginny che le si faceva incontro, cercando di ignorare il brusio che si era levato al suo passaggio.

A Draco, Albus Silente era sempre sembrato un colosso.

Lo sguardo grave sotto le sopracciglia aggrottate, la barba folta e il naso adunco rimandavano alla statua di una divinità antica o di un mago leggendario, custode di incanti arcani sigillati tra labbra di marmo.

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Pure seduto, avrebbe potuto sovrastarlo soltanto raddrizzando la schiena e ciò nulla aveva a che fare con la sua statura. Era un sentore che derivava dalla sua persona, qualcosa di impalpabile che gli conferiva quell’aria di solenne grandezza. Albus Silente era alto dentro.

Il viso corrucciato del vegliardo si distese e il corpo perse tensione, appoggiandosi con sollievo malcelato allo schienale della sedia. Delle due mani, solo la destra era in vista; dell’altra era possibile scorgere la sagoma sotto la stoffa della veste e un brandello di pelle grigiastra all’attaccatura del polso.

Abbandonata la fissità dello sguardo, il Nume che gli pareva di avere di fronte acquisì l’apparenza umana e caduca della vecchiaia. Niente dura per sempre. Gli dei antichi erano tramontati, per lasciare spazio a idoli nuovi.

Albus Silente era un gigante in procinto di cadere.

“Se non io, chi?”.

Il Preside assunse un’aria interrogativa.

“Non capisco, signor Malfoy. Che vuoi dire?” gli domandò, in tono posato.“Ha detto che non sarò io ad ucciderla” si spiegò lui, quasi titubante. “Allora chi lo

farà?”.“Cosa ti fa pensare che qualcuno debba farlo?”.

Non c’era risposta a quella domanda, se non forse quella che lui aveva davanti agli occhi. Un pilastro incurvato sotto il suo stesso peso, la voce stanca e greve, la pelle nerastra dell’arto offeso. Il ricordo di un colloquio precedente, dita intrecciate saldamente con le sue, quasi temessero di poter perdere la presa.

“Non sarai tu ad uccidermi”.

“Non ha detto che non morirà” disse Draco, alla fine. “Solo che non accadrà per mano mia”.

“Capisco”.

Un sorriso triste incurvò le labbra di Silente, gelandogli il sangue.

“Non prova nemmeno a negarlo” constatò il ragazzo. “Perché?” domandò, nascondendo la paura dietro l’atteggiamento brusco.

“Non mi prenderei mai gioco della tua intelligenza” replicò il vegliardo. “Inoltre, abbiamo appena cominciato ad essere completamente onesti tra noi” aggiunse e una lieve scintilla di divertimento gli passò negli occhi azzurri come fiordalisi. “Sarebbe un peccato guastare tutto mentendo. O forse la tua domanda era un’altra?”.

“Perché vuole sacrificarsi? È esattamente quel che vuole il Signore Oscuro” obiettò Draco, deglutendo nervosamente. “Taglia la testa e il corpo muore. Senza di lei...”.

“Io non parlerei di sacrificio” lo interruppe il Preside, parlando con calma che a lui parve artefatta. “Ho visto che guardavi la mia mano” disse poi, puntando gli occhi nei suoi.

Draco non rispose.

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“La mia è una morte inevitabile” proseguì Silente. “È solo questione di tempo. Un mese in più o in meno non farebbe una gran differenza”.

“La farebbe, per chi conta su di lei”.“Il fatto è che contare troppo su qualcuno è spesso un ostacolo, anche se noi non ce ne

accorgiamo” Silente gli rivolse uno sguardo eloquente. “Ci fermiamo a chiederci se non sarebbe meglio lasciar fare a qualcun altro e ci nascondiamo all’ombra dei giganti, quando invece dovremmo salire sulle loro spalle”.

“Per cadere assieme a loro?” sputò Draco, con rabbia.“Per non essere sepolti dalle macerie”.

Si scambiarono uno sguardo ostile - no, ostile era il suo, si disse il ragazzo, quello di Silente era la calma sconfinata di una giornata estiva - e Draco si sporse in avanti, poggiandosi con le mani aperte sulla scrivania.

“Perché lo sta dicendo a me?”.“Potrei risponderti in molti modi” il sorriso del Preside tornò a palesarsi, stavolta più

franco, meno carico di dolore. “Potrei dirti che tu hai capito e per questo meritavi di sapere. Ma la verità, Draco,” continuò Silente, tornando serio, “la verità è che questo è ben lungi dall’essere un premio: è un peso che dovrai portare e quando giungerà il momento il tuo compito sarà di condividerlo con altri”.

“Non mi ascolteranno” sentenziò lui, cupo.“La signorina Granger lo farà” lo rassicurò l’altro. “E sai bene quanto il suo parere conti

per quei ragazzi. È lei che devi convincere a darti retta”.“Mi odia”.

La voce gli era uscita roca, graffiandogli la gola dall’interno come quel pensiero lo feriva a livello intimo ogni volta che veniva formulato. Piantò le unghie nelle venature del legno, desiderando di lasciarvi un’impronta, almeno lì, prima di cadere nel vuoto del proprio smarrimento.

Sullo sfondo, Silente sorrideva, scuotendo il capo.

Nel bagno delle ragazze, al secondo piano, Hermione Granger stava progettando un omicidio.

Lavanda l’aveva trascinata lì dentro dopo aver scoperto una macchia sulla gonna e averle chiesto disperatamente una mano. Evidentemente la sua veggenza non la proteggeva dagli inconvenienti mensili.

“Sei sicura che non ci abbiano viste?” la apostrofò, in ansia.

Avrebbe ucciso la nuova veggente di Hogwarts e ne avrebbe occultato il cadavere nel gabinetto.

Petulante com’era, lei e Mirtilla si sarebbero fatte ottima compagnia. E, a proposito, dov’era Mirtilla?

“Ma sì, dannazione” replicò lei, piccata, parlando rivolta alla porta chiusa. “Meno male” borbottò la sua interlocutrice dall’altra parte.

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“Lavanda, sono mestruazioni” protestò Hermione, “non hai mica ammazzato qualcuno”.“Sì, ma che figura ci avrei fatto con Ron... oh, mio Dio, non voglio nemmeno pensarci!”

squittì Lavanda.“Guarda che capita, di macchiarsi” la rassicurò lei. “Capita anche di non avere

assorbenti a portata di mano”.“Oh, meno male che c’eri tu” commentò Lavanda, saturando le parole di un sollievo

palpabile. “Ero assolutamente nel panico, insomma, una macchia sulla gonna non è nulla che non si possa risolvere con un gratta e netta, ma se qualcuno se ne fosse accorto avrei dovuto sotterrarmi in un buco e non uscirne più per i prossimi sei mesi!”.

“E sarebbe stata una vera tragedia” disse Hermione, sotto voce, levando lo sguardo esasperato al soffitto.

C’era una chiazza di umido che sfregiava l’intonaco bianco, serpeggiando tra una ragnatela e l’altra sino a raggiungere la colonna centrale in marmo, quella che celava l’ingresso alla Camera dei Segreti. Uno dei rubinetti perdeva, producendo un rumore costante di sgocciolio che disturbava la quiete del bagno, disertato persino dal fantasma che lo infestava.

Un fruscio attutito giunse da dietro la porta del gabinetto centrale.

“Okay” disse Lavanda qualche istante dopo, “puoi passarmi...?”.“L’assorbente?” Hermione sbuffò. “Guarda che non è una parolaccia”.“Sì, sì, come ti pare. Passamelo da sotto la porta”.

Espirando rumorosamente, Hermione si inginocchiò: le suole delle scarpe scricchiolarono nell’attrito col pavimento. Lavanda tossì, sfregando i talloni contro le mattonelle. Un crepitio di carta stropicciata accompagnò il passaggio di consegna del pacchettino azzurro cielo. Il rubinetto perdeva ancora.

“Grazie”.

Dopo fu un attimo, prima di sollevarsi, un battito di ciglia e un’occhiata distratta alla porta di legno bianco - il tempo di accorgersi dell’ombra che vi si stagliava contro, cupa - . Hermione ruotò su se stessa, estraendo la bacchetta, e si preparò ad attaccare. Qualcosa si mosse nell’aria, alla sua sinistra, e lei si ritrovò a puntare l’arma contro lo sterno dell’avversario, dove la striscia di seta verde scuro si inerpicava serpentina, annodandosi, su verso l’alto, fino a raggiungere un lembo di stoffa candida, stretta poco sotto il pomo d’Adamo del ragazzo, che si alzava e si abbassava senza tregua. La mandibola spigolosa tremava leggermente e le labbra sottili erano arricciate, più per l’apprensione, le parve, che per lo sdegno di essere stato aggredito. Draco Malfoy aggrottò le sopracciglia, guardingo, per il resto immobile, le mani lungo i fianchi e gli occhi chiarissimi ridotti a due fessure.

“Intendi uccidermi?”.

Le dita che reggevano la bacchetta ebbero uno spasmo. Lui aveva parlato a voce talmente bassa da far pensare di aver mosso soltanto le labbra. Contemporaneamente aveva sollevato le braccia, mostrandole le mani vuote. Sono disarmato.

Era bello anche così. Il ricordo vivido del modo in cui l’aveva baciata le mandò in fiamme le guance. Si stava abituando, a bruciare per lui, il Mangiamorte, l’assassino, il nemico. Poteva la Virtù cadere tra le braccia del proprio opposto?

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“Non saresti il primo a morire in questo bagno”.

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