CHISSÀ SE LO SAI -...

27
CHISSÀ SE LO SAI

Transcript of CHISSÀ SE LO SAI -...

CHISSÀ SE LO SAI

RON

CHISSÀ SE LO SAITutta una vita per cercare me

Con la collaborazione di Stefano GenoveSe

Redazione: Edistudio, Milano

ISBN 978-88-566-4354-1

I Edizione 2015

© 2015 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it

Anno 2015-2016-2017 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

A padre Silvano Fausti

TuTTA uNA vITA PER CERCARE… IL MIO vINO MIgLIORE 7

PREAMBOLO

Tutta una vita per cercare… il mio vino migliore

Curiosità, camaleontismo e inadeguatezza

Sono come appaio, come la gente mi vede. Non ho un lato nascosto, una personalità sul palco e una che tiro fuori nella vita di tutti i giorni. Non studio la mia imma-gine o i miei comportamenti in pubblico cercando di na-scondere un’indole diversa. Devo invece confessare che ho una personalità marcatamente “zelig”. Quando incon-tro una persona che mi affascina, che mi trasmette qual-cosa con il suo modo di essere e di muoversi nel mondo, con il suo modo di parlare o di pensare, allora istinti-vamente cerco di emularla e di carpire da lui – o da lei – il più possibile. un camaleontismo incontrollato che ho sempre interpretato come la massima attestazione di stima da parte mia verso quella persona. In generale, gli esseri umani mi incuriosiscono e con il mio lavoro ne in-contro tanti, di ogni tipo. Mi piace guardarli, osservare come interagiscono con me, se cercano di conquistarmi e in che modo lo fanno. Anche da parte di chi ha un disa-gio o un preconcetto verso di me, m’interessa comunque il suo modo di ignorarmi o di respingermi. Sono sempre molto proteso verso il mio interlocutore diretto. Molto più verso di lui che verso me stesso. Non penso mai a

8 PREAMBOLO

come mi pongo e a come appaio. Nessun occhio esterno su di me, insomma. Il tutto avviene senza calcolo, senza una vera consapevolezza. Cerco di leggere negli occhi la persona che ho davanti per cogliere i segreti che ha già intuito della vita. Poi li elaboro, per interiorizzarli.

Questo comportamento inconscio tira fuori, di volta in volta, sfaccettature diverse della mia personalità. Nell’im-mediato si traduce nella mia famosa abilità a imitare tutti i colleghi, almeno quelli che frequento o che ho frequen-tato. Nelle serate con gli amici mi capita talvolta di te-nere banco con le imitazioni. Ho un certo numero di cavalli di battaglia.

Questo mio “prendere dagli altri”, assimilando modi di essere e di vedere, mi ha aperto la mente. Ho un’in-consueta propensione verso il nuovo, col desiderio di lasciarmi stupire. Mi sorprendono le cose più semplici: dai miei cani appena giunti a casa mia da un posto lon-tano, la Bosnia, il cui comportamento sembrava inde-cifrabile fino a qualche tempo fa, alla reazione di un gruppo di adolescenti finiti per caso a un mio concerto e con i quali m’intrattengo a bere una birra. Dopo tanti anni vissuti un po’ ovunque, e in una posizione privile-giata, sono più disponibile all’ascolto.

Sempre desideroso di capire come sono fatto, di ca-pire cos’è l’amore per me, di capire cosa ho raggiunto, se e come sono apprezzato dalla gente, insomma, sempre in cerca di risposte a tante domande, ho provato nella mia vita anche un paio di psicologi. Probabilmente an-che a loro non ho saputo porre le domande giuste, non riuscendo a identificare le mie urgenze, a isolare le mie

TuTTA uNA vITA PER CERCARE… IL MIO vINO MIgLIORE 9

necessità. Dev’essere andata così, perché neanche con la psicologia ho raggiunto quella consapevolezza cui am-bivo. A sorpresa, invece, in questi ultimi anni, mi sto fi-nalmente trovando grazie alle risposte che ricevo dalla gente. Sempre più belle, sempre più calde, e con sem-pre maggiore meraviglia da parte mia. E grazie a que-ste risposte mi pare di aver intuito, piano piano, quale fosse la domanda. Non sono ancora in grado di formu-larla per esteso, saprei forse scriverci una musica, ma le singole parole devono ancora essere messe in fila.

Mi ritrovo oggi a salire su un palco in situazioni sem-pre diverse: un concerto vero e proprio, una partecipa-zione a un evento insieme ad altri colleghi, una conven-tion in cui il pubblico non ti ha scelto, e magari neanche si aspetta un concerto, oppure la serata in vaticano per Natale. Salire su un palcoscenico e non avere la minima idea di cosa possa succedere è una sensazione che sa-rebbe normalmente destabilizzante e che invece a me scatena l’adrenalina più pura. E lì scatta qualcosa den-tro di me, parlo con il pubblico, cosa che in passato fa-cevo pochissimo, tiro fuori me stesso e mi apro. Final-mente ho capito cosa vuole la gente da me e anche cosa voglio dare io a chi accorre ai miei concerti: me stesso.

In tanti anni di spettacoli, canzoni ed esibizioni, sono sempre andato in scena per cantare. E basta. Ero un can-tante e mi ero illuso che una cosa sola dovessi fare: can-tare bene. Nessuno mi aveva mai chiesto di fare qual-cosa in più. O forse sì, qualcuno me lo aveva suggerito, ma sono cose che uno deve capire da solo. Nessuno te le può insegnare o, peggio, imporre. Mi presentavo da-vanti a tutti e cantavo, nel modo più preciso possibile, con la voce più pulita possibile, con la giusta emozione

10 PREAMBOLO

per ogni canzone. un lavoro da primo della classe. Oggi, invece, ho finalmente capito che il pubblico vuole e si merita qualcosa in più, qualcosa di diverso, qualcosa di me. Ed è così che canto oggi, che mi do al pubblico, ogni sera, in qualunque occasione, dalla più ufficiale alla più festosa. Attacco con la prima canzone per sentire l’aria che tira, poi annuso l’atmosfera, mi presento e provo a “sentire” chi ho davanti. Perché è tutta qui la differenza rispetto allo studio di registrazione: davanti a me ho delle persone. E loro hanno davanti il cantante, non vogliono solo le canzoni. Dovrà pur esserci una differenza in quello che faccio e in come lo faccio. La differenza è l’istanta-neità, è la spontaneità del momento. Quello che ascol-teranno lo sentiranno solo qui, in questo teatro, in que-sta piazza, in questa serata. La differenza per me è che forse domani canterò di nuovo le stesse canzoni, ma non avrò mai più davanti le stesse persone, lo stesso umore, lo stesso calore o la stessa diffidenza. E così ci metto tutto me stesso, che è assai più delle canzoni. E allora parlo, scherzo, mi confido, racconto momenti della mia vita, forse legati a queste canzoni, o forse no, forse legati al luogo in cui mi trovo a esibirmi, dov’è probabile sia già stato vent’anni prima, un altro Ron.

A volte mi capita di condividere i sentimenti di quel giorno, di quel frangente della mia esistenza, perché ogni sera non è che appaio dal nulla su quel palco. Ogni volta arrivo da un viaggio, da uno spostamento, da un pro-blema, da una lite, da un amore, da una notizia sul gior-nale. Come tutti, arrivo da qualcosa, ed è ciò che sono che voglio portare in scena. Ho capito che oggi è così che voglio cantare. Connesso con le persone che sono venute ad ascoltarmi. L’obiettivo è conquistarle tutte e lo faccio

TuTTA uNA vITA PER CERCARE… IL MIO vINO MIgLIORE 11

senza avere troppa coscienza di questa determinazione. Ecco, finalmente, la risposta alle tante domande su me stesso: la gente. vera, verace, attenta, sincera. In quel tête-à-tête fatto di musica, di festa, di appagamento dei sensi, di ricordi che mi entusiasma e mi rafforza. Perché con più di quarant’anni di carriera, ogni volta che canto una delle mie canzoni so che qualcuno del pubblico legherà Joe Temerario o Vorrei incontrarti fra cent’anni a un ri-cordo personale, che non conosco, né mai conoscerò, ma che comunque in quella sera ci unisce. È un dato di fatto che percepisco quando all’uscita dal camerino la ragazza con gli occhi lucidi mi ringrazia per Il gigante e la bam-bina o il cinquantenne con il giubbotto di pelle mi stringe la mano per Piazza Grande. Lo so che quegli occhi lu-cidi e quella mano energica e tremante non sono per me, ma per quello che ho ricordato, e che forse ho “smosso” dentro. Ecco la terapia che sto mettendo in pratica: la gente. Che solo da qualche anno sto scoprendo sempre più affettuosa e vicina. Forse perché adesso sono quasi sempre in giro, perennemente in tournée. Cosa che fac-cio, proprio perché sento questo calore. Sta di fatto che qualcosa in questi anni sta succedendo, qualcosa di molto bello. E così il personaggio Ron a suo modo, con il suo la-voro, sta risolvendo un problema a Rosalino: gli sta dando quelle risposte che lo fanno sentire meno inadeguato.

Il “mio vino”

Era un pomeriggio come un altro. uno di quelli in cui con la mia Ducati Indiana 350 “svallavo” nell’Oltrepò Pavese. Finisco in un’osteria, per la merenda del mo-

12 PREAMBOLO

tociclista, dove mi si avvicina questo signore che così, a secco, mi propone di farmi un vino. Sì, di farlo pro-prio per me, a mia immagine, che nel caso di un vino sa-rebbe come dire “a mio gusto”. Cominciamo a parlare con passione, sonda i miei gusti, mi chiede cosa cerco in un vino, quali profumi, quali sensazioni. Ci confron-tiamo per tutto il pomeriggio e, alla fine, mi lascio con-vincere: «Perché no?! Facciamo questo vino». Ho già in mente il nome: Fra cent’anni.

Passa qualche tempo e il gentile avventore mi porta ad assaggiare una prima prova. Non ci siamo, c’è quasi tutto, ma manca “quel qualcosa”. Riproviamo una, due, tre, sei volte e, finalmente, eccolo! Dopo averlo cercato a lungo, fino all’ultimo retrogusto. Non mi sono accon-tentato del primo tentativo, della prima offerta. Ecco quello che con orgoglio posso chiamare il “mio vino”. Anzi, i “miei vini”: uno rosso e uno bianco. Il primo ha dentro del Barbera, della Croatina e della Bonarda, sta-gionato quattro anni in botti di rovere. Il secondo ha dentro Chardonnay e Pinot nero, anch’esso barricato in botti di rovere. un vino che, fino a quando l’ho pro-dotto, è stato un grande godimento. Era il mio vino. Che anzitutto piaceva a me e che poi, con mia grande sod-disfazione, è piaciuto molto anche ad alcuni sommelier che lo hanno provato.

Ho sempre amato il vino. una cultura che probabil-mente si nasconde già nel mio dna, dal momento che un ramo dei Cellamare, di origine pugliese come me, pro-duce vino da varie generazioni. Ma a prescindere dai geni, il vino mi mette gioia, credo ispiri le persone, rila-scia sempre una bella energia nelle cene, concilia, mette a proprio agio. E non ha nulla a che vedere con l’alcol.

TuTTA uNA vITA PER CERCARE… IL MIO vINO MIgLIORE 13

Infatti non mi sono mai ubriacato con il vino. È suc-cesso con altri alcolici, ma mai con il vino. È proprio il suo lasciarsi sorseggiare, la sua rotondità che smussa gli spigoli dell’impaccio, del nervosismo, dell’etichetta. Il vino è cultura, buona abitudine.

Il mio preferito è il gewürztraminer. Mi piace tutto di lui, a partire dal nome, che sembra darsi una certa importanza. vado matto anche per un certo Timorasso dell’Oltrepò Pavese, e per l’Arneis piemontese… e non posso dimenticare un vino fantastico che produceva Lu-cio Dalla, un bianco sui sedici gradi, che lui aveva chia-mato Stronzetto dell’Etna. Sono molti i vini della mia vita, e poiché in questo libro parlerò proprio di vita, so-prattutto della mia, dedicherò ogni capitolo a un vino richiamandolo nel titolo. A volte l’associazione sarà per-ché il suo aroma richiama le emozioni che racconto in quelle pagine. Altre volte sarà perché lo associo a quel momento della mia vita, magari proprio a una cena spe-ciale. Altre volte solo per assonanza con il mio stato d’a-nimo, armonia con le parole stampate. Senza armonia non so proprio vivere.

Quando rileggerò la prima copia stampata di questo libro, per ogni capitolo sorseggerò un bicchiere del vino che lo apre. In questo modo la lettura sarà sia una pas-seggiata nella mia vita sia una bella camminata per i vi-gneti. Se vorrete seguirmi in questo rito, al termine del libro avrete conosciuto un po’ più me, ma soprattutto vi sarete fatti una bella cultura sul nettare degli dèi.

QuEI CALCI IN CuLO DELLE “TEPPE” 15

PINOT NERO

Quei calci in culo delle “teppe”

Lentiggini e pantaloncino azzurro

Ecco un bambino di otto anni, pantaloncino azzurro, polo in filo di scozia e un enorme microfono che gli co-pre quasi tutta la faccia. Capelli rossi e leggerissime len-tiggini, difficili da vedere, ma io lo so che ci sono, per-ché sono le mie. È il primo ricordo che ho di me su un palcoscenico.

Mio padre mi portava a tutti i concorsi canori dei din-torni. un circondario molto ampio, a dire il vero, ovun-que arrivasse la sua Citroën DS Pallas (per capirci, quella che usava l’ispettore ginko per andare a caccia di Dia-bolik). Lo so, non è originale, ma furono proprio i miei genitori i primi sostenitori della mia carriera; quelli che – dopo di me – credettero più di tutti nella possibilità di un mio successo nella musica. Loro e la mia maestra di canto, Adele Bartoli, che non mi faceva saltare una ma-nifestazione. Fu così che iniziai a specializzarmi, a pren-dere confidenza con il palco, con il microfono, con il pubblico. E poi c’era la mia voce, che fin da allora si di-stingueva e che, a ogni concorso, seminava aria di scon-fitta sugli altri concorrenti.

16 PINOT NERO

–––––

una di quelle volte, avrò avuto dodici anni, mi ritrovo sul palco di un dancing a Pontecurone, un paesino a metà strada tra Tortona e voghera. Il palco è molto pic-colo, più piccolo del solito. Lo hanno ristretto per la-sciar spazio ai tavolini a disposizione degli spettatori che affollano il locale. Sono troppo lontano dal mio paese per avere amici o parenti che siano venuti a sostenermi. In pratica sto giocando “fuori casa”. E, prima della fine della serata, mi accorgerò di quanto fuori.

Ho appena finito la mia versione di Ventiquattromila baci, con tanto di mossette alla Celentano, e il presen-tatore mi si avvicina con una coppa non più alta di una spanna: quella del terzo classificato. Ci resto un po’ male, perché il mio cavallo di battaglia ha strappato tantis-simi applausi a quel pubblico scomposto, in cui ci sono persino ultras locali. Non ho neanche il tempo di rat-tristarmi, che subito la gente mi batte sul tempo. Quasi tutti si alzano in piedi, fischiano e urlano contro il pre-sentatore e la giuria. Tra le urla distinguo anche quelle di mio padre, ma faccio fatica ad attribuirle a lui. Non l’ho mai sentito lasciarsi andare così, non l’avevo mai sen-tito pronunciare quella parola – Camorra! Camorra! – arrotando così bene la doppia “r”. A me non resta che scoppiare a ridere, perché tutto sembra surreale e anche perché l’indignazione del pubblico è già di per sé la mia vittoria. La giuria non raccoglie le proteste e conferma il primo premio a un ragazzino di una spanna più basso dell’enorme coppa che gli viene consegnata. In quegli anni ai concorsi si risparmia su tutto, tranne che sulle coppe dei vincitori.

Mio padre era così: insieme a mia madre mi ha sempre

QuEI CALCI IN CuLO DELLE “TEPPE” 17

spronato nella mia ambizione di diventare cantante. Ho trovato sano questo loro spingermi verso il mondo del bel canto, non c’era l’ossessione malata per il successo o la competizione in sé, come raccontava Luchino vi-sconti in quel capolavoro di film che è Bellissima. Non era un loro sogno. Era il mio sogno accettato e appog-giato da loro. È una differenza che può sembrare pic-cola solo se non la si mette bene a fuoco.

Le “teppe”

Fuori dal contesto famigliare, nel topico e sempre at-tuale “scontro di civiltà” tra “bulli” e… “tutti gli altri”, ovvero quelli che prendono i calci nel culo, per inten-derci, io figuro tra quelli che prendono i calci nel culo. E non in senso figurato. Ho dodici anni e so distinguere i calci in senso figurato da quelli in senso proprio. E sono proprio grandi calci nel sedere che mi vengono assestati, ogni giorno, quando torno a casa da scuola. Non ho mai capito perché: non sono un tipo eccentrico e neanche un solitario, ho un gruppetto di amici con cui gioco e mi diverto. La mia famiglia non è né ricca né povera, ma è lampante che i bulli, che qui chiamiamo “teppe”, hanno una qualche ostilità nei miei confronti, mi sentono in qualche modo lontano da loro. Forse sono i concorsi canori a cui partecipo. La cosa non mi è molto chiara e quindi non so come correre ai ripari. Se prendessi calci perché sono grasso, mi metterei a dieta. Se fosse perché sono un solitario, mi sforzerei di trovare amici. Se fosse perché puzzo, mi laverei di più… ma se non capisco il perché non so come uscirne. Nella furia delle botte del

18 PINOT NERO

momento, cerco sempre di capire se c’è qualche insulto tra un calcio e l’altro, tra lo scherno di ieri e quello che mi aspetta oggi, ma non colgo nulla di rilevante per la mia indagine sulla “sopravvivenza alle teppe”.

Poi, un giorno, dopo circa un anno di calci, il capo di quella banda viene da me, mi mette un braccio in-torno alle spalle e così, senza che fosse successo nulla di particolare, mi chiede scusa. E basta. Non dice altro. E da quel giorno finiscono i calci in culo. un mistero. L’unica cosa che riesco a concludere è che, probabil-mente, neanche le “teppe” sapessero bene il perché di quei calci.

Viso angelico

Del resto devo confessare che a dispetto della mia calma apparente, del mio aspetto da “bravo bambino”, la mia infanzia è costellata di tanto in tanto da cattive-rie inaudite. Cose che un po’ mi vergogno di confessare. Deciderò nell’ultima revisione di questo libro se lasciarle al pubblico ludibrio o ributtarle in soffitta. Sarà forse un moto di ribellione che covo dentro, verso tutto e tutti, proprio a dispetto della mia fama di angioletto.

Quando mio padre fa scavare nel giardino di casa una grossa buca dove interrare la cisterna del gasolio, chiamo uno dei miei amici e lo invito a vedere. Quando poi lui si sporge sul ciglio della buca, lo spingo dentro. Così, per gioco, senza ragione. Risultato: un braccio rotto a lui e un sacco di botte a me. un’altra volta sono in un campo vicino a casa e a un altro dei miei amici più cari propongo di giocare al gioco dell’impiccato. Che non è

QuEI CALCI IN CuLO DELLE “TEPPE” 19

un gioco da tavolo o un gioco di ruolo con chissà quale meccanismo e regole. È proprio il gioco dell’impiccato: ramo d’albero all’altezza giusta, corda con nodo scorsoio, cassetta di legno per salire e lui che mette la testa dentro. A momenti ci resta. Risultato: paura e segni sul collo a lui e botte inenarrabili a me. Ecco, sono quel bambino con il viso d’angelo che ogni tanto s’inventa giochi da “anima nera”, che hanno tutti lo stesso finale che prevede un bel po’ di botte per me e, per fortuna, nessun’altra grave conseguenza sui miei compagni di gioco.

E poi c’è il rito del tè. Ho sempre avuto una passione per il tè e il cerimoniale delle cinque è qualcosa a cui non rinuncio, neppure a dieci anni, quando invito i miei amichetti a prendere parte alla strana “liturgia”. Proba-bilmente sotto minaccia, perché il tè piace solo a me.

Mia madre, che non ama molto avere disordine in cu-cina, mi ha proibito di preparare il tè da solo. Allora or-ganizzo tutto di nascosto, usando l’acqua calda del ru-binetto e biscotti immangiabili, pezzetti di pane secco rubati a pranzo. Il tè con le molliche inzuppate è dav-vero schifoso, ma almeno niente botte!

Il mio primo amore

E poi l’amore. La prima volta che m’innamoro ho quattordici anni. È la mia insegnante di italiano alla scuola media. una donna bellissima, di trent’anni, au-stera. Assomiglia così tanto a Jane Fonda – almeno nella mia testa – che quando, un paio di anni dopo, esce il film Barbarella non posso non pensare a lei. Riveden-

20 PINOT NERO

dola in quel film, così ammiccante, pure troppo dietro quei titoli di testa che coprono il giusto per passare la censura, è molto difficile per me placare le mie pulsioni adolescenziali, che infatti impazzano. un pomeriggio, senza dirlo a nessuno, prendo un treno diretto a Pavia, dove so che vive in viale della Libertà. Non conoscendo il numero civico cammino su e giù per il viale, facendo finta di cercare un negozio che non esiste e preparan-domi una battuta naturale, casuale, da buttare lì nel caso la incontrassi. Che poi, pure se sapessi l’indirizzo esatto, che potrei mai fare?

Anche se sono ancora molto lontano dall’essere un Laureato, uno spiraglio che lei potesse diventare la mia Mrs. Robinson personale si fa strada nella mia testa quel giorno a scuola in cui, davanti a tutti i miei compagni, si complimenta con me perché mi ha sentito cantare in uno di quei concorsi canori (che non mi perdo, cascasse il mondo!) e, a suo dire, le sono sembrato bravo e molto maturo sul palcoscenico. Ha detto proprio così, maturo. L’ho sentito bene. Maturo! È una professoressa d’italiano e la scelta di quella parola non può essere casuale. Con-tinuo a ripetermi quella parola in testa come un mantra. Maturo, maturo, ma-tu-ro. E allora, via di nuovo verso quel viale della Libertà di Pavia. Ancora una volta penso che la scelta di abitare proprio in quella via, da parte sua, non può essere casuale. E così, sull’onda degli anni Sessanta sono un ragazzo maturo che si incammina sul viale della Libertà. Niente stona in questa sceneggiatura così contemporanea. Niente. Tranne quel tipo che, con la scusa di metterle il cappotto sulle spalle, la stringe e la bacia mentre escono insieme da quel portone verde. Niente tranne un marito, insomma.

QuEI CALCI IN CuLO DELLE “TEPPE” 21

–––––

La vera svolta della mia vita è però il collegio. Finite le scuole medie, lasciata la “professoressa Barbarella”, mio padre decide di mandarmi a studiare in un presti-gioso collegio, a Saronno, lo stesso dove studia mio fra-tello Italo, di due anni più grande di me e già studente prodigio amato da tutti i professori. È una ventata d’aria fresca. A quattordici anni andare a vivere fuori casa in-sieme a tanti miei coetanei è un divertimento assoluto. Dormiamo in un’enorme camerata e passiamo le not-tate a fare scherzi.

Il professore di fisica la sera ci porta tutti all’ultimo piano, dove ha posto il suo osservatorio astronomico per-sonale. Da lì ci fa esplorare il cielo e le stelle. È innamo-rato del suo lavoro, quello di scienziato, non quello d’in-segnante. È così preso dalle sue costellazioni che non gli interessa in quanti restiamo lì ad ascoltarlo; infatti, appena spegne le luci, scappiamo tutti e ce ne andiamo in giro per il collegio, o addirittura fuori, al cinema. un anno di divertimento assoluto. Tanto divertimento. Troppo. In-fatti, vado malissimo a scuola. Così male che dopo il se-condo anno i miei genitori mi riportano a casa e torno a studiare (poco) in una normalissima scuola privata, di lingue, a Pavia.

Quella telefonata della rca

un giorno, mentre vivacchio in quella nuova scuola, il preside irrompe in classe. Mia madre mi vuole al tele-fono per una cosa molto urgente. Cuore a mille, preoc-cupazione per il silenzio che mi circonda. Neanche il

22 PINOT NERO

preside sa bene quale sia l’emergenza. Rispondo al te-lefono, e mia madre, con una gioia che non credevo le potesse appartenere, mi dice che ha telefonato uno dei talent scout delle case discografiche che bazzicano i con-corsi canori locali e ha chiesto di portarmi a Roma, alla rca, perché vogliono sentirmi per una nuova canzone. È Roma. È la rca. È una cosa seria, finalmente.

I miei genitori avrebbero potuto darmi la notizia un paio d’ore dopo, a casa, ma nella concitazione si perce-pisce che la speranza di vedermi cantante da professio-nista per loro è una cosa seria. Ci credono, perché hanno visto i risultati che ottengo nei concorsi. Pensano che la mia passione possa diventare una professione e non restare un semplice hobby. È una fiducia nel mio ta-lento che si è poi rivelata fondamentale per la fioritura di quello stesso talento.

E allora via, partenza per Roma. Mio padre e io in treno, entrambi vestiti a festa. Arriviamo finalmente alla stazione Termini. Poi taxi per Tiburtina, ai famosi studi della rca. Oltre al treno, anche la corsa in taxi ha il suo costo, e mio padre, che essendosi fatto da solo conosce bene il valore del denaro, inizia a fare i conti di quanto gli potrebbe costare questa mia carriera. Conteggio che viene subito messo da parte quando al signore che ci ac-coglie alla rca scappa di bocca la parola magica: San-remo. È il 1970 e Sanremo è il centro, la vetta della mu-sica italiana.

Mentre mio padre e io, parcheggiati in un’elegante sala d’attesa, fantastichiamo sul Festival della canzone, si apre d’improvviso una porta ed entra uno “strano es-sere”, alto, magrissimo, coperto di un vestito leopardato tanto attillato che sembra che gli sia stato cucito addosso.

QuEI CALCI IN CuLO DELLE “TEPPE” 23

Baffi finti, dritti e lunghi, da gatto, naso da clown e un paio di enormi occhiali a luci intermittenti. Sono diver-tito da questo tipo assurdo che cammina su e giù, mio padre molto meno, e questo suo disagio non passa inos-servato a quel personaggio che, divertito almeno quanto me, sussurra a mio padre: – Ciao ni’!

Ecco la prima delle tante volte che avrei sentito il sa-luto tipico di Renato Zero, all’epoca non ancora così fa-moso, che, tra una canzone e l’altra, recitava nel musical Hair, in tournée in Italia insieme alla futura Loredana Berté, a sua sorella Mimì e a Teo Teocoli.

Fatico non poco a convincere mio padre a restare. vuole andare via, non capisce cosa stia succedendo, pensa a uno scherzo, forse da un momento all’altro uscirà Nanni Loy da dietro uno specchio. E il fatto che non ci siano specchi in quella sala non lo rilassa per niente.

Finalmente arriva il musicista che dobbiamo incon-trare: è Lucio Dalla. Ci fidiamo sulla parola che sia lui, perché in seguito a un incidente d’auto è completamente ingessato, dalla testa ai piedi. una mummia su una sedia a rotelle. E mio padre ha sempre meno voglia di parlare. Sembra proprio uno scherzo di Specchio segreto.

In realtà Lucio lo avevo già conosciuto tre anni prima, quando era venuto a fare un concerto alle Ro-tonde di garlasco, uno dei locali più famosi d’Italia. Così famoso che ci fece capolino cantando una can-zone una ancora sconosciuta Madonna. In quell’occa-sione avevo aperto il concerto di Lucio cantando Nes-suno mi può giudicare di Caterina Caselli e lui mi aveva riempito di complimenti. Racconto l’episodio a Lucio e lui non si scompone.

24 PINOT NERO

– garlasco? Sì, sì, mi ricordo di te (non è vero). Ora veniamo a noi. voglio farti ascoltare questa canzone. Dimmi se ti piace.

Occhi di ragazza

Da un supertecnologico registratore Revox esce il suono di un pianoforte e una voce che inizia a cantare Occhi di ragazza. La canzone, in effetti, mi piace molto e così mi fanno registrare subito un provino. Lucio e i di-scografici vogliono sentire come suona con la mia voce. Evidentemente suona bene, perché decidono di presen-tarla alla commissione del Festival di Sanremo. Mio pa-dre sembra ora più rilassato, perfino sorridente. Hanno anche già scelto la voce femminile che la porterà con me al Festival: è Sandie Shaw, la cantante scalza. Perché San-remo è il Festival della canzone italiana in senso letterale. È la canzone ammessa al Festival, non il cantante. Ogni canzone viene proposta da due interpreti.

Mio padre e io rientriamo a casa. un viaggio che è pure più veloce dell’andata, con il petto gonfio di sod-disfazione e gli occhi che brillano di speranza. Sanremo è il Festival per eccellenza e può essere l’inizio di una grande carriera, il mio sogno che si avvera. È il Festival del bel canto, di gianni Morandi, di Claudio villa, di Massimo Ranieri. Lo specchio dell’Italia ottimista degli anni Sessanta, anche se le cose sarebbero cambiate da lì a poco, sia per la musica sia per l’Italia.

Occhi di ragazza non piace alla commissione del Fe-stival e viene scartata, per grande fortuna di Morandi. Lucio, infatti, dopo l’esclusione da Sanremo, la propone

QuEI CALCI IN CuLO DELLE “TEPPE” 25

a gianni che ne fa un suo cavallo di battaglia e la porta all’Eurofestival dello stesso anno. Ancora qualche tempo fa, quando ho incontrato gianni, alla festa per il tren-tennale degli Stadio, parlando di tante cose mi ha chie-sto se sapevo che storia avesse Occhi di ragazza.

– Perché sai, Lucio mi ha sempre detto che l’aveva scritta pensando a me.

Le bugie di Lucio. Ci vorrebbe tutto un libro solo per quelle. Quanto gli piaceva raccontare balle, si di-vertiva come un matto. Come quella che sapeva cuci-nare les escargots o che aveva fatto un viaggio in treno con Totò. Mica vero, ma le diceva così bene che finiva lui stesso per crederci e le sue balle diventavano realtà.

L’esclusione da Sanremo di quella canzone, e quindi mia, sbriciola un sogno. Tutto sembra finito, all’improv-viso, così com’è cominciato. Passa una settimana, alla fine della quale arriva un’altra telefonata dalla rca che mi chiede di tornare a Roma per provare un’altra can-zone. La mia felicità è incontenibile. Ho un’altra grande conferma. Se la rca mi ha richiamato vuol dire che forse sono piaciuto, che la mia voce funziona.

Tutti viviamo di conferme, che arrivino dal pubblico, dalla critica, dai nostri genitori, da chi ci sta vicino, non ha importanza. Ascoltare gli altri, appoggiarsi al feedback del mondo, è l’unico modo che abbiamo per capire se stiamo andando nella direzione giusta. Certo, è neces-saria una buona dose di consapevolezza e soprattutto un gran fiuto nel distinguere le approvazioni dalle adu-lazioni, così come le critiche costruttive dalla competi-zione.

Mio padre e io riprendiamo il treno verso Roma, ri-

26 PINOT NERO

prendiamo il taxi verso la casa discografica, riprendiamo la speranza di raggiungere il successo.

Questa volta la canzone s’intitola Pa’ diglielo a ma’ e la canterei in coppia con Nada, che ha la mia stessa età e che è già stata al Festival l’anno prima.

La canzone viene accettata e Sanremo avrà in gara due sedicenni, bellini, ben vestiti e con belle voci. Perfetti per l’Italia di quel 20° Festival della canzone italiana.

I giorni miei son tutti ugualicome granelli di un rosarioma sono stanco di pregaregiorni di festa non ne hostanotte faccio la valigianel portafoglio quattro lireè giunta l’ora di partireo questa notte oppure mai.

Pà diglielo a màche la porto nel cuoreche non la scorderòpà m’hanno detto che tualla stessa mia etàcominciasti cosìperdonami pàperdonami màadesso o mai piùqualcosa saràla vita è così.1

1 Pa’ diglielo a ma’, Jimmy Fontana, Franco Migliacci, Roberto gigli.

QuEI CALCI IN CuLO DELLE “TEPPE” 27

Per questo primo capitolo, pieno di ricordi d’infanzia ho scelto il Pinot Nero perché è un vitigno che da giovane è abbastanza “normale”, sembra un vinello, ed è versatile (per cui si fanno i vini bianchi frizzanti, gli spumanti e i vini rossi), ma che dopo anni diventa il miglior vino del mondo (con il Nebbiolo).