Chiara Briganti - Esprit de fenetre

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Le scatole di Chiara Briganti Esprit de fenêtre

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Le scatole di Chiara Briganti

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Chiara Briganti

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Il faut être léger comme l’oiseauet non comme la plume.

Paul Valéry

...riciclare le immagini usate in un nuovo contesto che necambi il significato.

Italo Calvino

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Esprit de fenêtreLe scatole di Chiara Briganti

Galleria Ceribelli, Bergamo10 novembre 2012 - 20 febbraio 2013

AllestimentoGraziano Gregori

Progetto graficoFrancesco Previtali

FotografieFederico Gnoli

StampaCastelli Bolis Poligrafiche, Cenate Sotto, novembre 2012

In copertinaIl n’y a dans l’invisible que les ruines de l’esprit. Merleau-Ponty, 1985

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Le scatole di Chiara BrigantiEsprit de fenêtre

testi di

Vincenzo FarinellaMarco Vallora

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Chiara Briganti e Graziano Gregori mentre osservano i modellini per l’allestimento della mostra a Bergamo.

Foto di Mario Dondero

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Vincenzo FarinellaI “giardini incantati” di Chiara Briganti

In una delle magiche “scatole” configurate da Chiara Briganti (n. 29) assistiamo alla messa in scena di una vera e propria rappresentazione orientalista: davanti ad un assolato campo di rovine, nell’Egitto appena riscoperto dalla spedizione napoleonica, in un paesaggio di sabbia dove aleggia il ricordo (o la speranza?) di un grande albero ombroso, campeggia in primo piano, sulla sinistra, una fanciulla dalla pelle ambrata, colta di schiena, immersa nella contemplazione di un passato lontanissimo, ormai irrimediabilmente trascorso. La fanciulla cela il suo volto e ci ignora: eppure è la sua posa a parlarci. Si tratta, infatti, di una figura estratta da uno dei massimi capolavori della pittura europea del primo Ottocento, capa-ce, ancora a metà secolo, di sedurre il giovane Edgar Degas, e poi, nel corso del Novecento, tanti artisti contemporanei: la Bagnante di Valpinçon, l’impensabile nudo dipinto nel 1808, con sprezzo delle regole accademiche e in particolare della correttezza anatomica, da Jean-Auguste-Dominique Ingres.

La citazione, ottenuta ritagliando, anzi “disegnando con le forbici”, una stampa in bianco e nero e colorando poi la pelle della fanciulla, è manifesta: un caso evidente di “arte allusiva”, non frequente in realtà nei teatrini allestiti da Chiara Briganti, dove solitamente si preferisce ricorrere a fonti più insolite, talvolta addirittura peregrine, tratte da incisioni perlopiù sette e ottocentesche, per dare vita a dei raffinatissimi sogni ad occhi aperti, ricolmi di cultura letteraria e figurativa. In questo caso l’osser-vatore viene chiamato in causa, con il suo bagaglio di conoscenze, per identificare non solo la fonte visiva, ma soprattutto per condividere con l’artista il gioco di sottili variazioni e metamorfosi messo in atto elaborando l’immagine di partenza.

Perché la Grande bagnante di Ingres ha cambiato pelle e contesto, lasciando l’at-mosfera claustrofobica e venata d’erotismo di un bagno turco per campeggiare da-

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vanti alle rovine di Luxor, come se stesse meditando sul tema del trascorrere ineso-rabile del tempo, in un improbabile memento mori? L’albero che appare al centro del-la scena come un fantasma è una promessa di nuova vita o un desiderio inappagato? I luminosi blocchi poggiati in primo piano sono materiali da costruzione dell’antico santuario cristallizzati dalla luce abbagliante del sole o simboli dell’astratta purezza della scienza architettonica?

Ci troviamo di fronte, come sempre nelle opere di Chiara Briganti, a domande senza risposta, ad allusioni che ci seducono, ma che ci sfuggono – proprio nel mo-mento in cui quasi ci sentiamo sul punto di afferrarle –, a suggestioni che non si lasciano tradurre in un discorso logico e compiuto: mondi fantastici ed enigmatici, immersi nella dimensione sospesa del sogno, ma al tempo stesso teoremi lucidissi-mi, governati da una mente che li ha progettati in ogni minimo dettaglio, prima di realizzarli con suprema perizia.

Anche il titolo, che a prima vista potrebbe venirci in soccorso, in realtà ci sfida ed inganna, eludendo risposte univoche: quasi sempre si tratta di raffinate citazioni letterarie, spesso in una relazione non immediata con il testo figurativo (come le parole, talvolta ambigue, in qualche caso volutamente enigmatiche, poste in calce ai Capricci di Goya). In questo caso l’autore della frase che dovrebbe illuminare la scena è il pittore e scrittore Eugène Fromentin, uno dei padri dell’orientalismo francese: potremmo quindi attenderci delle parole capaci di chiarire il senso di una scena che parrebbe quasi ispirata ad una composizione della pittura ottocentesca. Ma le parole di Fromentin (“Je voudrais émouvoir avec le souvenir de ce qui m’a ému”) alludono alla commozione dei ricordi e alla capacità dell’artista di trasmettere ad altri quel medesimo sentimento, limitandosi a sottolineare la dimensione mentale e la forza emotiva dell’immagine.

La composizione ci pone di fronte ad un enigma che, alla fine, non si svela: anzi, più la scrutiamo, più i diversi piani che la definiscono sembrano confondersi, allon-tanando la soluzione. Roberto Tassi sosteneva che “ciò che rende tanto originali,

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poetiche e moderne le opere di Chiara Briganti è soprattutto il loro mistero, la loro difficile decifrazione”.

Come mi ha confermato Chiara Briganti, in un’emozionante conversazione ro-mana di qualche mese fa, molte delle sue affascinanti scatole trasparenti, private del fondo e trafitte dalla luce, molti dei suoi “giardini incantati” (le chiamo così, parafra-sando il prologo del Botanic Garden di Erasmus Darwin evocato da Mario Praz, ma in realtà non hanno mai avuto un nome preciso ed univoco; chi se ne è occupato in passato le ha denominate in tanti modi diversi: “vetri”, “ideorami”, “contenitori di sogni”, “teatrini”, “trappole di legno e vetro”, “scatolette”, “delizie qualche volta terri-ficanti”, “vetrinette”, “reliquiari laici e onirici”, “miettes de mémoire”...), traducono e trasfigurano, come in un processo di autoanalisi, sogni, ossessioni, gioie e dolori pri-vatissimi dell’autrice, destinati a rimanere gelosamente confinati nella sfera privata: trasformando in immagini alcuni nodi emotivi di una vita lunga, operosa, ricca e complessa, dando vita e forma ad “una mitologia individuale di cui Chiara sola sem-bra avere la chiave” (cfr. Praz), si è voluto in realtà non costruire delle opere a chiave, dei rebus figurativi destinati ad essere prima o poi risolti, ma stimolare l’osservatore ad inventare e a raccontare infinite altre storie. Ogni osservatore, con la sua cultura e i suoi sentimenti, è chiamato dai mondi immaginati da Chiara Briganti a narrare la propria storia, una storia che cambia continuamente, mutando l’occhio che si posa su queste lucide superfici, e che si trasforma nel tempo (Giuliano Briganti infatti so-steneva, rifiutando le suggestioni dei titoli, “che ognuno deve vedervi ciò che vuole”).

Vorrei provare, allora, quasi per gioco, ad accennare anche alla mia storia, ine-vitabilmente segnata dalle passioni di una vita provate per l’archeologia e la sto-ria dell’arte. Un racconto che potrebbe seguire il viaggio in Egitto, alle radici del-la sapienza mediterranea, di un giovane pittore francese, sospinto dalle ambizioni dell’imperatore e dalla cultura enciclopedica di Dominique Vivant Denon, lungo un percorso geografico e spirituale che risale il corso del Nilo, abbagliato dalle rovine di una cultura millenaria sepolta dalla sabbia del deserto, allucinato dal riverbero

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del sole e dall’azzurro chiarissimo del cielo. Come nella Gradiva di Wilhelm Jensen, la novella resa celebre dall’interpretazione di Freud, dove una ninfa scaturita da un bassorilievo romano dei Musei Vaticani prende vita tra le case di Pompei, la figura femminile nata nella mente di Ingres sembra risvegliarsi alla vita tra le rovine dell’an-tico santuario. Un nudo che risorge, come l’albero frondoso evanescente al centro della composizione, silenzioso e seducente, quasi che un intero mondo trascorso po-tesse trovare in questa fanciulla, finalmente liberata dalla schiavitù del tempo, una possibilità di riscatto e di rinascita, incarnando le aspirazioni di un artista stregato dal mondo antico e sedotto dall’universo femminile.

Questa fantastica storia potrebbe trovare un seguito in altre due “scatole” di tema egiziano realizzate nel corso degli anni da Chiara Briganti: quella dominata dall’ap-parizione notturna di una gigantesca piramide di fronte agli occhi di un viandante minuscolo (n. 30), immerso in un’assorta contemplazione e ripreso di schiena come il Monaco in riva al mare di Friedrich, con la forma geometrica dell’antico sepolcro schermato da un cespuglio di bucaneve incongruamente spuntato dalla sabbia e vertiginosamente fuori scala, come in alcune delle Cento vedute di Edo di Hiroshige (d’altronde la citazione che accompagna la scena, di Francis Bacon, rimarca proprio che “There is no excellent beauty that hath not some strangeness in the propor-tion”); e quella dove una veduta della Valle dei Re, con l’ingresso della tomba risco-perta di Tutankhamon, vive nel contrasto tra i cristalli che emergono dal deserto e un’enorme rosa di stoffa (n. 31), campeggiante in primo piano fragile e solitaria, alludendo ancora una volta ad un tema di morte, redenzione e rinascita.

Una storia immaginaria, certamente, come le infinite altre storie che questo, e gli altri microcosmi costruiti da Chiara Briganti suscitano nella mente degli osservato-ri (“Mi adopero a rappresentare sentimenti, emozioni, citazioni”, scriveva qualche anno fa l’artista in un’affettuosa lettera-confessione al nipote): non ultima ragione della profonda suggestione suscitata da questi magici oggetti, fragili e misteriosi come sogni, eppure lucidi e luminosi come perfetti teoremi matematici.

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Marco ValloraJean-Jacques Rousseau: “Une longue rêverie divisée en chapitres.”

“E inventare non è altro che comprendersi.” Paul Valéry

Allora – anche se mi vedo sbucare da una di queste scatoline maliziose con una faccia tumefatta da cucù, malmenato dallo stupore della bellezza che non sapevo più dove stava di casa, boxeur suonato da una carriera malferma e sbandata – ebbene, devo subito, sputando fuori un po’ di luccicanti denti in vitreo giaietto e spuma di salubre dentifricio del sarcasmo, devo fare immantinente e preliminar-mente una confessione, pure un po’ solenne e patibolare, che mi giocherà la stima di quei pochi colleghi che ancora mi tenevano (o temevano) in qualche sospetto – gli altri chisseneimpipa (una pipetta lunga e metafisica, alla Morandi). Allora, schiarendomi la voce, ben scandito: “Mi spiace, signori neanche tanto cari, ma io preferisco mille le mille volte di più (bolle di vanitas, in stile Chardin o Ostade… glu, glu…) e trovo miriade di miriadi – ma davvero, non si sta celiando – mille che vuol dire mille volte più intrigante, e catturante, e profondo, questo ritagliato e stranito ditone marmoreo, che so, di Costantino legislatore (ot similari), planato giusto giusto dal cortile del Campidoglio (vediamo, arganiano o veltroniano? ma non importa… le date, la filologia, per carità…) e testé da semper finito qui dentro, entro questo espirante ventricolo-recesso quadrato di fantasia ed ironia miniatu-rizzata, di torbida innocenza e di maliziosa elementarietà diegetica, che si chiama “Faro 10” (n. 109), ebbene, sì, lo trovo mille volte più attraente (lascio persino andare in vacanza o congedo forneriano-esondato la sintassi, tanta è la soddisfa-zione nel proferirlo) del ditone sussiegoso e littorio, pretenzioso e modesto, im-piegatizio di fantasia e mediocre d’impatto cerebrale, che è stampigliato in nomen Cattelan nella Piazza Borsa di Milano, ch’è poi il suo nido fatale, visto che può

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esser nato soltanto grazie ai forcipi propizianti della Finanza, con tutto il codazzo di finanzieri sbigottiti e finanzieri finto-irritati e finazzier in estasi, tra viaggi in Usa per convincere il Divo Ombroso e dibattiti parlamentari per sapere se è più duchampista toglierlo o metterlo, il Dito, in groppa ai poveri piazzaroli di borsa guitton-vuitton, e dietro, in processione, tra ghingheri e catene, il servile deli-quio dei critichelli (schiavi della caverna Ray-Ban) e tutta la sofistica misurante, al millimetro, il grado di inclinazione, ed incidenza e Dunque (un dunque che sta già nella Maiuscola perorante) Dello Sberleffo Fatale Al Sistema, uh che paua! Ma davvero io preferisco adagiarmi qui dentro, entro gl’ospitali e taglienti “Ideorama” (il termine gliel’ha trovato l’Esegeta Temibile Mario Praz, e guai a toccarglielo, tra l’altro è un periodo che non faccio che bazzicarlo e non è che sto proprio benissimo. Ma il termine mi pare oggettivamente azzeccato). Sì, voglio accomo-darmi in uno di questi beati stanzini (delle scope: volanti e stregate) accolto e cullato, come un parassita ben pasciuto. Mettermi le ginocchia del divertimento una avvitata sopra l’altra come un automat, piuttosto che non confrontarmi con le scemenze bonamiane e poco bonarie, che vedo spasseggiare trionfanti per il mondo, dalle tasche grondando capezzoli d’oro. Meglio Wanderer nelle Wunder-kammerine brigantesche, che non coatto … nelle karovane low cost, verso le ku-menda Dokumenta della Demenza cosmopolita (davvero, non ho voluto trovare i denari per Kassel, e adesso forse scopro perché. Perché scopro molto di più in questo allevamento di sbizzarrite kassettine, che non nelle inutili peripezie fru-stantorie delle biennaliche peregrinazioni culturali-obbligate. Felice risparmio di carburante interiore. “Ah, non lo sa che a Bergamo hanno deciso di fare un muro di cassette di verdura, illuminate da dietro, e dentro ci mettono le mie scatole. Un’idea bellissima di questo simpatico scenografo Gregori, che è venuto a cono-scermi, una delizia”). “Eh, anche a me piaceva quel ditone, ma lo sa che me l’han-no rubato in casa. Io vorrei proprio sapere. Ad agosto era ancora qui, in settembre era scomparso. Dà proprio fastidio questa faccenda, non tanto perché non c’è

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più la scatola in sé, ma perché non sai mai chi ti passa per casa, e ti dà un senso d’insicurezza, questo. Quanto al dito… sì, sembra che sgridi, molte volte dentro le mie scatole, se uno guarda attentamente, le cose si muovono. Mi piace tanto Daumier, per quelle sfuriate improvvise, che scatenano i suoi personaggi…”. Sì: quelle specie di tempeste d’umori e di venti, ombrelli e cappelli che volano via, con le sagome che s’agitano, furiose. “Le furie… sa che anche io sono così arrab-biata e delusa per le cose che ci propinano oggi, davvero, ma questi ci prendono

Graziano Gregori con un modellino per l’allestimento della mostra di Bergamo. Foto di Mario Dondero

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per i fondelli… io dico, ‘arte concettuale’, va bene, ma mettono in mostra soltanto la loro povertà d’idee, e passi poi per le idee, se non ne hanno, ma via, almeno un po’ di sentimento, qualcosa… A me piace che le scatole raccontino qualcosa, una storia, un ricordo”. Intrappolare misteri, frammenti d’incipit germinali di ro-manzi, come nei castelli dei destini incrociati, di un autore a lei molto caro. “Sì: Esattezza, Rigore, Consistenza, a Calvino ho dedicato molte scatole, ed anche una all’ultima lezione, che non ha potuto ultimare, quella sul rifiuto, con Bartleby che dice: ‘grazie preferirei di no’. In realtà, è vero qualche segreto, bisogna tenerse-lo, preservarlo. Senza raccontare troppo. Giuliano mi consigliava di non metterli proprio, i titoli, così la gente che guarda le scatole vede quello che vuole vedere e si trovano più liberi, nell’immaginazione, forse è anche vero questo, però poi sono venuti Mario e Roberto Tassi, sì, che amico delizioso che era, morto così giovane! e ecco, loro invece erano entusiasti dei miei titoli, le mie citazioni, ci si divertiva-no un mondo, a scoprire degli indizi, dei riferimenti, si deliziavano”. Mario. Mario Praz? (al limite poteva anche essere Mario Tazzoli). “Sì, Mario Praz, certamente, era un amico fedele, coltissimo, e mi ha scritto una dotta prefazione per la mia prima mostra, alla Galleria Toninelli, nel ’78, questa l’aveva suggerita Giuliano. Giuliano Briganti, mio marito di allora. Ma, devo essere sincera, non che ne fossi così entusiasta, del testo. Certo, avere un’introduzione di Praz era cosa impor-tantissima, il massimo, l’ho tradotto io stessa in inglese, in francese, l’ho usato molto quel testo, ma penso che esagerasse troppo sull’aspetto concettoso, sugli emblemi, gli ‘emblemata’, e persino sui messaggi morali e allegorici, che non è che poi siano così importanti, nel mio lavoro. Ma era il suo mondo. Reagiva così”. Non saranno proprio messaggi morali, come quelli dei ‘proverbi’ fiamminghi, di Bosch, Brueghel, Steen, però… Il magro e il grasso, la zingara e il futuro, l’esame dell’orina, io qualcosa ci vedo… E poi è un elogio elegantissimo, quello dell’onni-scente Praz, per cui, andando a spulciare ovunque, tra codici, biblioteche, curio-sità ed antiquari, per individuare il nome ideale ed irreperibile per questi inediti,

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incomparabili “ideorama” (definizione ancora per lui provvisoria, tra ‘perspective picture’ e nordiche ‘Riefelbilder’, ‘ideoramas’ ispanici e ‘diascopie’ molto Ville Lu-mière, retro-illuminate) finiva poi per toccare magicamente, come in un flipper erudito, tutti i punti nevralgici di queste luminose caverne domestiche. Passando per Ignazio de Loyola e Fabrizio Clerici, transitando da Lautréamont a Man Ray, Roussel e Cornell, Gibran, Fulcanelli e Duchamp (che liquida via con ben poca simpatia. Mio stesso errore, epocale, con Cattelan?). “Ecco, guardi qui. C’è una frase di Bacone, che a me piaceva assai, ma non mi tornavano i conti del senso. La leggevo nella traduzione di Pavese. Allora ho chiamato Mario e gli ho detto: tu che ne pensi? Lui: aspetta un attimo. Sapeva tutto, pieno di libri, di cultura, dopo poco mi richiama, mi conferma: certo! Pavese si è dimenticato una parola. ‘Non vi può essere stranezza nella bellezza se non vi è diversità nella proporzione’. Se non ci metti ‘nella proporzione’, non ha nessun senso, quella frase”. Ed ecco qui la scatolina in questione (n. 30): un omino piccolo piccolo, la sagoma d’una gran-de ed ombrata piramide di fuligine seurattiana (lei, come aura di gusto, si aggira sempre in una toponomastica, che va dai quartierini di Vivant Denon a la Grande Jatte pointilliste, imperlata di sudore fumigante, tra l’Illuminismo tassonomico dell’Encyclopédie di Diderot d’Alembert – “oh, sapesse quanto Diderot d’Alembert ho ritagliato nella mia vita, vede quella pila? Sedici scatole piene di stampe…”, un Diderot proferito con la scioltissima pronuncia bilingue d’un’allieva di Trompeo, e pure nata a Montpellier – ed il Romanticismo di Blake e di Friedrich: “sì, certo, Friedrich, il mio grande amore. Le ha notate tutte quelle figurine viste di spalle, che guardano per noi che non possiamo entrare, e ci invitano sulla soglia ad en-trare? Ebbene sì, vengono dirette da Caspar David Friedrich, ma certo che vengo-no da lui, e bravo, vero, ci sono talvolta anche vedutisti danesi e qualche nazare-no! Del resto, non potevo non tirar fuori una scatola, da quella sua frase bellissi-ma: ‘Fai emergere alla luce quanto hai visto nella tua notte!’”) ma (nostra retro-marcia sintattica, a rivederci la scatola baconiana) allora, presentat’arm in se-

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quenza: omino, piramide, ed ecco poi le campanule in primo piano, che son molto molto più grandi ed invadenti della stessa Piramide, dondolandosi liliali, e ti trasmettono quel senso di grande disorientamento prospettico (sto pensando ai suoi ironici ‘fondelli’, che rompono le scatole chiuse, alla Cornell) e quasi di spalmato malessere. Le stesse sensazioni strane, che ti trasmettono le figure dif-formi e ‘sprospettiche’ di Robert Gober. Verrebbe voglia d’interromperla e render-la edotta per esempio del curioso, recente saggio di Ruggero Pierantoni, sul ‘Salto di scala’, che pare proprio dedicato a questi suoi concentrati sbalzi di pressione prospettico-piranesiana, cosa che dovrebbe incuriosirla molto, ma lei è troppo presa dai suoi racconti, per infiltrarcisi. È come se si muovesse nell’acquario inve-triato delle sue stanze portatili, fluendo tra solidi ricordi fragilissimi. “Chissà a che cosa pensava Pavese, mentre si dimenticava la parola ‘prospettiva’. Magari ai suoi drammi d’amore, chissà, ma guardi qui, che bella frase che avevo scovato, nei suoi diari: ‘Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia’ ed ecco qui che cosa è diventato”. Spesso le sue scatole sono piene di vetri e vetrini internati, di diaframmi trasparenti, d’intercapedini opache e luccicanti, che rim-balzano tra loro a ping pong l’immagine concettosa, investendo di striscio e rav-vivando trabocchetti a sorpresa e taglienti spettri, possiam definirli cata-ottici o rinfrangenti, che ci piace di più? (anche nel senso letterale o metaforico di spet-tri-fantasmi. Qui tutto si ribalta e rifrange, come nel Soane Museum di Londra. Le prospettive si allargano e si restringono, malleabili come metamorfosi, si sfon-dano, riverberano e rimbalzano, all’infinito. Come canguri) e la straussiana fan-ciullina senz’ombra (che però la signora dice d’avere prelevato più volte da un li-brino d’infanzia, firmato da certa Greeneway, e come non crederle?) pare spec-chiarsi, fiabesca, in un suo doppio di figurina, che la derelitta sosia dickensiana, in quegli spasmi di lumi, non può nemmeno intercettare. Ci verrebbe (a questo pro-posito pavesiano) di ricordarle, petulanti e saputelli, il tragico, bellissimo liberco-lo dell’architetto Ernesto Nathan Rogers, Lettere di Ernesto ad Ernesto e viceversa,

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epistole che si spediva da solo, durante il terribile isolamento delle leggi razziali, drammatico circolo ermeneutico di solitudine specchiata; ma le sue belle mani industriose sono già altrove, pattinando con maestria sull’ipod del nipote, allarga e sgrana e ritorce le sue immagini, come una pianista le ottave (io non so nemme-no bene come si scrive ipod, se ypod o ipad o ohi pud, un pudding carrolliano, addirittura. Già, come mai non abbiamo mai citato Edward Lear o Scialoja? La-scio qui dunque volentieri la confusione misoneista della grafia aleatoria) mentre lei, invece, novantadue anni vigilissimi, ti parla di Gavarni come di Baricco (“Sì, non vorrei proprio finire come quel suo personaggio, che si chiude in una camera, a fare tele tutte eguali, e tutte bianche”) di Stendhal come di Monti o di Schettino, in salsa però Carmontelle, il ritrattista della ‘idillica’ famiglia Mozart, e poi di Sterne e di Rousseau, per riapprodare infine alla Solitudine dei numeri primi: l’ha letto, ovvio, trovato abbastanza buono, e le ha ispirato pure una scatolina (n. 79), ma adesso diamole modo di raccontarci un poco di più della sua vita operosa, dopo la sua di solitudine dei numeri bambini. “Io ero finalmente felice, a quel tempo, ero uscita assai presto dal liceo, per liberarmi dalla stretta paterna, davo già lezioni di francese, lavoravo a due enciclopedie contemporaneamente, quella Cattolica e poi la Treccani, lì ho conosciuto Giuliano, e mi sono subito innamo-rata di lui, e come non? L’ho sposato ed ero al settimo cielo, non portavo più l’o-diato nome di famiglia (sì, mia madre è morta quando ero molto giovane, mio padre s’è risposato con la classica matrigna cattiva, che noi fratelli chiamavamo ‘la Signora Piva’, e dunque ero felice di non portare più quel nome odiato, ero anda-ta persino dal Presidente della Repubblica, per farmelo cambiare). Poi Giuliano era molto bello, affascinante, una grande intelligenza, lucida, un modo di scrivere accattivante, io lo aiutavo nel lavoro, trascrizioni in biblioteca alla Vaticana, met-ter a posto la fototeca, così mi sono laureata solo dopo il matrimonio. Era appena finita la guerra, ha presente quando i ragazzi tornavano dal fronte e c’erano quel-le tesi orali, un po’ improvvisate, non è che io avessi studiato molto, dovevo recu-

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perare il tempo perduto, tutti i romanzi che mio padre, rigido valdese, non m’ave-va permesso di leggere, mai. Nulla. I Tolstoj, i Flaubert, i Dostojevskij, che anno magnifico fu quello. Allora, Trompeo: la tesi era sulla Lettura critica degli Impres-sionisti, da parte di Huysmans, figurarsi che ne sapevo, io. Divoravo romanzi, an-che se Giuliano cercava di tamponare le mie lacune nell’arte, ma devo dire che io ho sempre amato moltissimo l’arte, e per miracolo, con tutti i mestieri che ho fatto: l’arredamento, il design, il riordino dei mobili del Quirinale, i libri scritti, il restauro dei quadri, però sono riuscita sempre a lavorare nel mondo dell’arte, un miracolo, pensi che orrore dover fare l’avvocato e non averne più voglia. Dunque, Huysmans dicevamo. Io penso che mi avesse suggerito qualcosa all’ultimo mo-mento Longhi, dal momento che ho fatto quel figurone, all’esame, tanto era tutto a voce. Sì, Longhi era un amico di casa, più che non un professore, non faceva il maestro con me, era nostro ospite, a Roma, si acciambellava sul letto della moglie, a casa nostra, la cosiddetta Anna Banti, e mentre io gli preparavo la colazione lui mi raccontava i suoi aneddoti, i suoi scherzi, era spiritosissimo, che amici che ho frequentato! Una stagione ricchissima, la più bella della mia vita, ma era anche l’anno terribile dell’occupazione nazista di Roma, c’era la resistenza, allora, e noi l’abbiamo fatta” (dice proprio così, ‘fatta’, come si può maneggiare un’opera d’arte) “l’abbiamo fatta ospitando gente in pericolo, mettendo materassi nell’ingresso di casa, ci arrivavano di notte delle persone che non sapevamo nemmeno chi fosse-ro, eravamo coinvolti tutti, amici adepti arrestati ammazzati implicati in questio-ni molto pericolose, eppure pensavamo anche a costruire il nostro bene, il nostro futuro. Giuliano durante quell’inverno scrisse il suo primo libro, sul Manierismo e Pellegrino Tibaldi, io tentai disperatamente la traduzione dal russo, che non sape-vo, delle Dodici sedie sì, di Petrov, insieme ad un’amica russa che non sapeva l’ita-liano, può immaginare il risultato. Mio fratello, che è poeta oltre che medico, avrebbe dovuto rimettere un po’ in sesto la traduzione, ma finì tutto in nulla. Poi io mi occupai di giornalismo, con Giuliano, che creò il ‘Cosmopolita’ (l’antesigna-

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no dell’‘Espresso’: fondato nel ’44 alla liberazione, con l’anti-quario Morandotti, dove fir-mavano già Antonioni, Bassa-ni, Guttuso, Benedetti, Forcel-la, ecc., questo l’ho aggiunto io) e lì lavorai come redattrice, e poi anche alla ‘Libera Stam-pa’, infine m’innamorai del re-stauro della pittura antica. In questa veste fu richiesto il mio lavoro al Quirinale, per riordi-nare il Palazzo, che Einaudi non aveva toccato, dopo la partenza del Re: scovare i qua-dri e i mobili dispersi qui e là, ordinarli, scegliere tra quelli buoni e quelli no, occuparmi dell’illuminazione, dei fiori, di tutto insomma, e per tutto il settennato di Gronchi. Che mi chiese di diventare conserva-trice del palazzo, ma io prefe-rii la mia libertà”. Ovvero, fi-nalmente, ‘fare le scatole’. Così

come adesso disfa e ricompone, inscatola e riannoda, i periodi della sua vita, sen-za troppa apparente nostalgia, ritagliando a cesoiate la stoffa dei ricordi. “Per esempio, vede questa fotografia di Henry Moore, io la vorrei proprio, nel catalo-

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go, perché è l’unica che ho, con un grande artista. A parte Attilio Bertolucci, che è stato un grande amico, e ha scritto delle cose bellissime, su di me. Io ho lavorato molto tempo a Parma, dopo il Quirinale, perché volevo ritrovare quei mobili che i francesi, gli antiquari, i conservatori del Louvre, gli esperti, cercavano ansiosa-mente, e che Maria Luigia aveva portato con sé, a Parma, io li ho cercati, indivi-duati, schedati, ho scoperto tante cose, perché uno magari non ci pensa, ma se sollevi il marmo di certi cassettoni, ecco che scopri che nascosta ci sta la firma, quella che tanti di loro cercavano. Anche qui ho schedato gli argenti, 11.000 voci, è vero, non ero un’esperta, ma se uno studia diligentemente gli oggetti, riconosce i punzoni, gli stili, alla fine ce la si fa. Ho scritto pure un volume curioso d’itinera-ri nelle collezioni ducali parmensi, beh, certo, mi sono guadagnata molte gelosie, ma è inevitabile, ho avuto molti amici ma anche nemici. Ho cercato le fatture negli archivi, trovato la documentazione, redatto le schede, insomma è arrivato persino il direttore del Louvre, Pierre Verlet, che già aveva mandato in avansco-perta i suoi ispettori. Grandi complimenti, che brava, bene, vede i mobili, verifica le firme, voleva pubblicare lui, tutto, ma io gli scrissi, testuale: ‘Cher Maître, ma li ho trovati io, i mobili, mi lasci la gioia di pubblicarli’, e lui, cortesissimo, subito d’accordo, un gentiluomo. Siamo rimasti in contatto per anni, potrei dire che l’ho accompagnato sino alla morte, stando al telefono. Però poi io, che volevo da sem-pre fare l’architetto (ma mio padre non voleva, perché diceva che non era onore-vole, per una signorina, al massimo potevo insegnare, ma io non volevo insegna-re) ed allora, quando ho potuto, ecco che sono diventata arredatrice, ed ho avuto la mia fortuna. Perché si stava in un momento di boom, così gli architetti altezzo-si mai si sarebbero abbassati a fare un lavoro tanto vile e da signora snob, tipo arredare le case e così io ho incominciato a progettare, non proprio a disegnare, perché avevo i miei architetti, nello studio in Piazza di Spagna, ma io fornivo gli schizzi, le idee, li controllavo, correggevo i loro errori ingenui, non conoscevano le case, qui il lavello, lì il fornello, puoi mica metterli così lontani... Giuliano, che

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era un magnifico disegnatore, diceva che però i miei avevano più storie da raccon-tare, non erano tecnici, c’era la fantasia. Insomma, mi sono occupata di tante case, a Tokyo, in America, anche in Italia: ero il punto di riferimento di Franco Cristaldi, per esempio, il produttore, ma anche, che so, di Giorgio Bassani e di molte sue case. Quella di Maratea, per esempio, in cui stava con l’ex-moglie d’un generale francese, che era molto gelosa, ed un giorno Bassani le disse: ‘Ma cara, non hai capito che con Chiara ho un rapporto letterario, con te è un’altra cosa?’ ed io: ‘Bravo Giorgio, in un sol colpo hai dato a me della racchia e a lei dell’oca’. Ci si divertiva così”. Eh, già, le oche, che sono così starnazzanti e presenti, nei suoi serragli allegramente concentrazionari (non si confondano però con i cigni di von Kleist, di cui Tassi ha scritto così affettuosamente. Saranno stati gli anni della Marquise von O di Rohmer?). Pascolo gli occhi sul tavolino stipato di libri, accanto a noi, dove il registratore malconcio sta ronzando felice – fa davvero le fusa, mai stato così soddisfatto d’inscatolarsi racconti tanto ghiotti – e due lampi mi colpi-scono, che mi paiono rivelatori, due piccoli fari adescanti. L’edizione economica francese di Bouvard et Pécuchet, a cui poi avrei voluto comunque agganciarmi, e, altrettanto, un catalogo di Cornell, di cui alla fine andremo poi a parlare. “Il Bou-vard, sì, meraviglioso, l’ho letto abbastanza tardi, mi ricordo mio fratello e mio cugino che si insolentivano a colpi di Bouvard et Pécuchet e se lo gettavano con-tro”, proprio come in un film di Godard, litigandosi a furia di titoli. Ma già dire ‘insolentire’ riassume tutto il suo mondo. “Mentre ho riletto da poco, era un mio libro amatissimo, Madame Bovary. Flaubert è un artista di riferimento, per me, io dormo pochissimo ormai, la notte, e allora leggo molto, e poi ho un libricino in cui stipo le mie citazioni, tante, tante, ma è un libro terribile, non dico che non sia bello, ma mi ha ferito a morte, ne sono uscita fuori pestata. Sì, è un libro davvero crudele”. Chirurgico, quasi. Del resto, scatolina n. 18 (come sono ipnotici quegli occhietti volanti, come pipistrelli, che scannucciano da delle trifore molto Viol-let-le-Duc, però in salsa Monk Lewis): “Pour qu’une chose soit intéressante, il

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suffit de la regarder longtemps”, ma qui, da questa frase, nasce Proust, il Nouveau Roman, Perec… Vita, istruzioni per l’uso, ma anche Tentativo di esaurimento di un luogo parigino e poi magari anche Queneau, che pare così vicino, come Prévert, con i suoi giochi di parole surrealisti: “De deux choses lune, l’autre c’est le soleil” (c’è sempre uno strano sole crepuscolare, dentro questi suoi interni/esterni, spor-ti alla soglia della notte. Magari anche un solicello stregato e lunare. Simulato da lampadine di sagra paesana). “Ah, no, senta, questa è ancora più bella, perché viene dal Vangelo, quello di San Marco: ‘Perché mai questa gente mi chiede un sogno? In realtà vi dico, non sarà dato un sogno a questa generazione’. In verità nasce tutto da un errore, perché invece di leggere sogno bisognava leggere segno, ma io mi sono divertita, ho usato questo errore per fantasticare e ho usato il ver-derame, lo vede qui”, e mostra una splendida visione biblica incendiata d’azzurro tutto tarlato, come negli acquarelli antichi bacati, un sacrificio in stile Füssli, o Giani, neoclassico, dove tutti si prostrano di fronte ad un idolo invisibile. Un so-gno impossibile di fede. “Füssli? Non penso, mah, chissà. Vede, io non avrei mai pensato di arrivare a novantadue anni e di dover rammemorare ancora queste cose, sì, certo, avrei dovuto segnarmi dietro quello che ritagliavo, prelevavo, in-collavo, anche io mi diverto molto quando qualcuno scopre le mie fonti, magari nascoste, capisco che è troppo poco, qui, per individuarlo, però Füssli non direi, non è che l’ho usato così tanto come invece Blake, che mi piace da morire, così visionario, e così cattivo, lo sa, no, che è anche cattivo, però ha le idee chiare, guardi qui questo profeta che scrive insieme con due mani, com’è deciso, non le pare, bellissimo. E poi Newton, che misura col compasso” (sempre in un’aura molto cenotafio, Ledoux e Boullée). “Füssli poco, e dire che ne avevo uno in casa, di autentico, ma me lo sono dovuto rivendere. Quanto al sogno, mi chiede, no, non è che mi piaccia molto il surrealismo, nemmeno l’onirico, in effetti, tutte quelle cose, l’inconscio, la psicoanalisi. Per carità, no no, penso sia qualcosa che divida le famiglie, mette strane idee addosso, delle durezze, Freud proprio non mi

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va, Giuliano era junghiano, piuttosto. Credo di sì, lui Bernhardt lo conoscesse, in-vece di Bobi Bazlen, eh sì, certo, addirittura Bazlen! mi sono presa questa bella frase per farne un paravento, aspetti un attimo: ‘Un tem-po si nasceva vivi e a poco poco si moriva, adesso si na-sce morti e solo alcuni rie-scono a vivere’, dura no, che dice? Qui in effetti ho usato il collage, molto brava? Beh, sa, sono una vergine, un ca-rattere molto applicato, abile di mani, perfettina, lo vede, questo era nato come pa-rafuoco, però era così pesan-te, che non lo spostava nes-suno. Il gallerista non l’ha voluto per la mostra, forse pensa che il collage diminui-sca il valore delle scatole, ma le avanguardie, allora? La cosa divertente è che davanti c’è un presepio messo all’incontrario, così gli racconti quello che vuoi, ai bambini, dietro ci sono le cose per gli adulti, le fiabe per i genitori”. Questi genitori… “Eb-

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bene sì, con mio padre non era un gran rapporto, era freddo, severo” (a evocarlo così sembra proprio un personaggio scostante, raggelato, di Dreyer) “doveva fare il pastore protestante, era valdese, ma poi ha incontrato mia madre, cattolica, ed allora si è convertito, come se un nero potesse diventare bianco, sempre rimasto valdese, difatti è sepolto al Cimitero evangelico degli Allori, a Firenze… Mia ma-dre frequentava gli ambienti intellettuali calvinisti di Montpellier, io credo che fosse addirittura giansenista, insomma l’educazione era così severa, che io ne sono uscita ribelle, e mio fratello schiacciato. Voleva fare il poeta e ora si trova medico. La cosa più divertente, se così si può dire, è che poi mio padre è entrato al Ministero, con Bottai, e si è occupato di ‘orientamento professionale’! Ma come, con il risultato dei tuoi figli!!”. Ecco qui dunque “Educazione valdese”, ma perché gli scheletri di Vesalio? “Sono degli scheletri, ma che continuano a vivere, ad azio-nare delle cose, a soffrire. Era un ricordo mio d’infanzia, io che andavo a piangere dietro la porta di mio padre, invocando il bacio della buonanotte, che però non arrivava mai”, ma come, non è che è un ricordo della Recherche, questo? “Macché, sono quei ricordi che ti rimangono addosso e te li porti dietro sino ai 92 anni, sì, altro che edipo, la psicoanalisi…”. Un tempo però scriveva, io l’ho letto in france-se, prosa elegantissima: “Vi fu un tempo nella mia vita, in cui i miei sogni erano in colore”, Bertolucci ne era entusiasta. “Beh, poi si sono rotti, questi sogni, fatti un po’ più scuri, monocromi, e io stessa non ci entravo più dentro facilmente. Allora il rapporto tra colore e felicità era più manifesto, ma poi i colori sono tornati e questo delle scatole è stato per me anche un rimettere a posto le cose dei senti-menti, qualche cosa che mi ha aiutato”. Leggo qui, infatti, di Jung: “Non tutte le porte vanno aperte” (ove l’ossessa di Füssli, questa volta sì, l’incubo capelluto, si trova addirittura catapultata già sul lettino di Freud, e dietro tutto un gran cespu-glio incendiato di giaietti)… La storia di Barbablu. “Certo, meglio riservarsi qual-che difesa, qualche sorpresa, io per esempio, invece di andare in analisi, preferisco articolare tutto qui dentro e poi ci scendo un vetro davanti”. Ghigliottina o pre-

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serva-memoria? Paravento di ricordi da camino, che brucia il passato come un labile papier d’Armenie? (Sentite che geniale questa citazione, da Brodsky: “Non dimenticarmi, disse la polvere”. “Ah, sì, peccato come è morto giovane, Brodsky, l’ho amato tanto, che poeta geniale”. E ancora, di lui, questa: “Liberté, Egalité, Fraternité. Ma perché mai nessuno aggiunge Culture”? “Eh, sì bisognerebbe pro-prio”. Vedi ‘La Scuola coranica’, elegantissimo, tutto orientalismo, un po’ Pasini un po’ Fromentin – pittore-letterato, che però lei usa soprattutto come fonte di saggezza, pescando da Dominique soprattutto: “Je voudrais émouvoir par le sou-venir de ce qui m’a ému” – ed intorno tutte quelle ornamentazioni traforate, “dio solo sa che cosa ci insegnino mai, solo a distruggere quello che hanno appena costruito”, speriamo che non ci ascolti nessun Imam!) “Anche a Giuliano ho dedi-cato una scatola, ovviamente. Una bella testa, sì, a stelo, e basta, sullo sfondo del Tempio di Minerva Medica, ed io che arrivo come su una macchinetta, tutta com-posta di molle d’orologio rotto, che però è a pezzi, sì: tutto si rompe”. Lei come un ectoplasma di fumo e di spini, sagoma alla Klee, che va come deteriorandosi. “Giuliano mi ha lasciato con mia figlia in braccio, che aveva solo due anni, io sen-za arte né parte, era così, come dire, un uomo enigmatico, con un cervello straor-dinario, un senso della qualità eccezionale, un’elevata arte di scrivere ed anche piacevole, ma nello stesso tempo conservava dei lati segreti, si è innamorato di una ragazza giovanissima e non si è voltato indietro, poi ci si è frequentati tutta la vita, con grande affetto, civilmente, ma qualcosa si era rotto definitivamente, quella completezza di coppia che tutti avvertivano di primo acchito e non voleva-no credere a questa frattura imprevista, ma lui era così, talvolta ci si incontrava per la via e lui mi presentava: ‘Ecco mia moglie’, ‘Ma Giuliano, non sono più tua moglie’, anche se è vero che per trentacinque anni ho usato il suo cognome e l’ho detto più volte, per scherzo. Sulla tomba scrivetemi: ‘Clair Pivà, detta Chiara Bri-ganti’”. Poco amore per le famiglie moderne, allargate, dunque. Basta svicolare nella scatolina n. 93, che ha appunto quel titolo malizioso. “Beh, ci voleva. Ho

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preso una stampina di Annibale Carracci, sì, è vero, spesso ne ho tagliate molte, anche di originali, di stampe preziose, ma ero così furiosa, in quel periodo, che avrei tagliato qualsiasi cosa, e poi è così bello, rilassante ritagliare la carta antica, poi certo mi sono pentita e ho usato le fotocopie, non te ne accorgi quasi, se la carta è buona, comunque quella volta ho preso la famiglia esemplare di Carracci, le ho tolto le aureole, e ho messo la zuppa Campbell vicino alla Madonna, che deve preparare l’ultima cena e non ne ha voglia, intanto Giuseppe rapito sta gene-rando dei trucioli d’oro, che paiono delle note dorate, per questo c’è lì a portata di mano il tromboncino vero e se guardi bene c’è all’estrema destra una donnina nuda, che vuole entrare a tutti i costi e rompere questo sacro legame. La donnina l’ho presa da una contadina che pota l’uva dell’Encyclopédie, ma guarda qui come vuole entrare. Anche Giuliano, forse, era vittima di un’educazione paterna troppo severa, pareva uscito dalla carta velina, uno apre un pacchetto, tutto ben confe-zionato, ed ecco, era così, difficile talvolta da decifrare, tutto testa, proprio come in questa scatola, che gli ho dedicato. No, non ha mai scritto su queste mie scato-le, forse nella sua fragilità non voleva suscitare gelosie, però appena ho iniziato a farle, avevo grandi dubbi sul loro valore, non sapevo se avessero senso, se conti-nuare, e allora l’ho convocato: ‘Solo tu mi puoi dire che ne pensi’. Lui viene, infor-ca gli occhiali che aveva, me lo ricordo benissimo, guarda dentro con attenzione, si volta e mi dice, con una voce come imbarazzata: ‘Che cosa vuoi che ti dica? mi piacciono tanto!’ e io: ‘se tu mi dicessi che mi ami ancora, non sarei altrettanto felice, perché se una cosa a te, che hai così acuto senso della qualità, piace, vuol dire che qualche cosa sono riuscita a trasmettere’”. Ma come nasce, allora, questa passione persistente, da bricoleur-saltimbanco della fantasia? “Intanto io ho sem-pre cercato di occupare le mani e di costruire degli oggetti tanto semplici, direi quasi di design istintivo, che potessero servire da modello a degli artigiani, che non sapevano bene che costruire, e così lo potessero fare in modo quasi meccani-co, industriale, imitando. Allora, una volta, andanto in Toscana, dove ero consu-

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lente di una grande ditta di marmi, la Henraux, sempre nel senso di risparmiare, presi dei sassi nel torrente Serravezza, che però venivano giù dalle cave di Miche-langelo, ed erano bellissimi, e decisi di farne delle scatoline, tutte con i loro bravi coperchi. Li esposi, ma nessuno degli artisti li notava, gli scultori americani, giap-ponesi, italiani ecc. che passavano di lì, nessuno che li degnasse d’uno sguardo, poi passa Henry Moore e si ferma a guardarli, ecco la foto, è chiaro che ne ero orgogliosa, li ha notati lui, finalmente, ma era perplesso e mi ha fatto notare che le scatole è meglio farle più leggere, di legno. Io capii che quelle scatole, oltre a non dover essere destinate a contenere nulla di utile, dovevano soltanto trattene-re dei ricordi, dei rimpianti, e magari rimorsi. Io queste cose le ho anche scritte, vede, ma qui mi bocciano tutto, le trovano porcherie letterarie, che ne dice lei? Senta: ‘I minuti del sole stavano tramontando tramortiti dalla prepotente luce della luna piena, allitterazione permettendo, la notte era comunque densa dolce e rassicurante, confondendo le sagome degli alberi con il paesaggio circostante e poiché lo spazio esterno e lo spazio interno costituivano un ambiente unico iso-lato, dal resto del mondo, da una grata che poteva aprirsi e chiudersi, onde poter permettere alle parole dette di cambiar posto con quelle non dette, c’era un gran andirivieni di memorie, di rimpianti e perché no anche di rimorsi, quei rimorsi che secondo un adagio francese sono più significativi dei rimpianti, testimonian-do che desideri appagati, infrangendo tabù proibitivi, avevano però elargito sen-sazioni indimenticabili’”. Io lo trovo davvero superbo questo ritratto di luce, e mi pare che descrizione migliore delle sue scatole non si possa dare, aspetti che tra-scrivo parola dopo parola, meticolosamente, mi sa che ci facciamo bocciare tutte e due, ma non importa, mi creda, anch’io scrivo di queste porcherie litteratissime, con tante tante allitterazioni soperchie (però a ‘allitterazioni permettendo’ non ci ero mai arrivato, grazie, gliela ruberò). E poi, a leggere, par proprio di vedere già, aspetti, ecco, la boîte à joujoux (Debussy permettendo) che è poi la n. 96, dove par proprio di assistere (perché di teatro congelato pur sempre si tratta) ma guarda

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qui, si chiama per l’appunto “Les minutes du soleil”, ma allora tutto torna. Eccolo, questo conventino portatile, ove una grata claustrale sta serrando in trappola un sospiro hoffmanniano di luna. (Beniamino Placido l’aveva capito, che queste di Chiara Briganti son trappole romanzesche, dove vari personaggi smarriti si trova-no spesso adescati, chi da una foglia di lattuga, chi da un marchingegno di sveglia esplosa, chi da una tazza di thè – proprio quella lewiscarrolliana, posata dispetto-samente sulla vetta irraggiungibile d’un cimelio archeologico in pieno dèjeuner in via Appia – o ancora, sedotti da un imeneo improvvisato tra l’ubiquo Klee ed il non meno omaggiato Pinelli, scambiandosi loro le vicendevoli tavolozze. Sì, per-ché siamo sempre “più vicini del consueto al cuore della creazione”, come soste-neva morendo il pittore svizzero, “ma ancora troppo poco vicini”. Ed infatti son larve, ova romanzesche, queste, docili, che attendono di svilupparsi, saprofita-mente, nei bulbi acquiferi-oculari, stregati, degli ‘scoptofili’ perenni affacciatori). “A proposito di quella grata, che è un autentico shoji giapponese, soltanto ribalta-to in orizzontale, mi son detta: ma se a Duchamp è stato permesso di rovesciare un orinatoio facendolo diventare ‘Fontana’, ma perché io non posso prendere uno shoji e disporlo orizzontale, in modo che si muova avanti e indietro come una tagliola?” Già, Duchamp, il dada, il ready made, tutti a ripeterglielo, nelle prediche definitorie… E non è del resto MD che ha sostenuto: “Dal momento che i genera-li non muoiono più a cavallo, anche gli artisti non sono più obbligati a morire al loro cavalletto” (cassettina n. 35). Meraviglioso corto circuito ed inesplicabile, con quella sfuriata improvvisa del militare di Daumier, che parrebbe di Duchamp vo-ler fulminare a vita e calciare il suo Grande Vetro, per altro già periclitante, ma c’è a sinistra come un ariostesco cavaliere anatomizzato, che pare voler placcare quella sua collera salendo al cielo grazie ad un argano ronconiano (‘ariostesco’, sì: da qualche parte ce lo volevo pur mettere questo attributo, perché mi pare pro-prio questa l’atmosfera, d’officina stralunata della fantasia). Ma che tristezza ve-dere che lo spazio si sta ormai restringendo, e finiremo così di trascurare gli omìni

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bruegheliani che scrutano il nulla zzzzanzaroso, e il Dio Tevere, che scruta libidi-noso dei giovani ginnasti Sandro Penna nella ‘vedutina’ del Tempio di Minerva Medica (“meglio non indagare troppo”) e la solita fanciulletta senz’ombra, questa volta vonchamissiana, che scopre, dietro una colonna goethiana, i tremori caval-lini dei sensi, e lascia scorrere giù per terra le meline sbigottite della nascente sensualità, proprio come Atalanta. “Le meline sono delle semplici biglie trovate per strada, ma luccicano”. Commento borgesiano, fanalino di coda: “Senza l’in-canto, il resto è nulla”. Vero. E poi i rocchetti che tessono l’urbanistica stralunata di Klee, la donna che bagna la pioggia con l’innaffiatoio Biedermeier e la pioggia che bagna il concerto-silhouette senza slavarlo, mentre il guardiano del faro so-gna l’aranceto triccottato d’arazzo ed il Seurat falciatore si porta via tutta l’Arca-dia pinelliana d’osteria romanesca, stornelli e ciocie. Infine il dolente ricordo di Ernesto, tra i sacchi di farina di Saba e Saba che dice: “Alla poesia non resta che fare la poesia onesta”. Persino la linea didattico-Bauhaus di Klee si commuove e si piega. Colpa, sempre la ‘buona educazione’. Le brave ragazze fanno tutto tutto per bene, ma dietro di loro si materializza, spettrale – natura diafana di Novalis – la sagoma promiscua d’odalisca della Venere desnuda di Goya, in puntinato Paul Klee. Oh quante gioie, ancora, le si vorrebbe ricordare tutte: il mare in tempesta di quarzo rosa, il giardino dei birilli tra piante rosso melone, il Prometeo (o è il Newton) di Blake che misura col compasso la distanza tra maschile e femminile, il divino e l’umano, mentre l’elefante si ‘balanza’ come un acrobata sul tutù della ragnatela à la Tiepolo, ma non vediamo che i goffi zamponi. Insomma fanta-sia-Grandville a tutto spiano e sprone. Eppure ci tocca di fare i pedanti. “La prima in assoluto? In realtà l’ho dedicata a Giangiacomo Feltrinelli, eravamo molto ami-ci, sin da giovanissimi, lo chiamavamo Giangi, noi, sì, molto simpatico, no, la Giannalisa Barzini proprio no. Gli avevo sempre promesso qualcosa per la sua Fondazione Feltrinelli in Via Andegari, ma non avevo mai trovato il tempo. Poi quando è morto, nel ’72, mi è tornato a mente, ero piena di complessi di colpa e

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così mi son messa subito a fare questa scatola enorme, lunghissima, due metri, sì, la scatola più lunga del mondo, dove mettere dentro tutte le storie che riguarda-vano la Commune di Parigi e che a lui stavano molto a cuore. Dunque nasce tutto in ricordo di Feltrinelli. Poi me la sono messa sul tetto della macchina e gliel’ho portata su a Milano, ma lui non c’era più. Boom, anche l’altro giorno mi è succes-sa una cosa terribile, il computer mi è morto tra le mani, una bomba! Tutto per-duto, io stavo scrivendo il mio curriculum, che del resto nessuno vuole e tutto mi è sparito di colpo, adesso che faccio? l’altra mia idea della mia vita è rimasta den-tro il compiùter, morto. Ma è già la seconda volta che mi fa questo dispetto”. Io credevo, aprendo la porticina introvabile di Piazza Scanderbeg (Placido mi addot-trina, ripetendomi che si chiamava anche Giorgio Castriota, un guerriero albane-se umanista. Certo lui, che ha ispirato pure un’opera di Vivaldi, oltre che poemi di Byron e di Ronsard) io pensavo di trovarmi di fronte una ‘vecchia signora’, più Compton-Burnett (raccontata da Arbasino) che non Dürrenmatt, tutta tazzine di thè, centrini, crocchia e spocchia (‘zignora mia, l’allitterazione quanto me fa’ sof-frì’, alla Zeri, insomma…) ma questa no, è meravigliosa, e mi propone subito un gin and tonic, respinto. “Io spero tanto che le persone le possano capire, queste mie scatole, visto che non le posso accompagnare di persona. Cosa vuole, sono caduta, le vertebre, non esco quasi più, ma poi per vedere che cosa? l’arte che ci propinano? Ma ha visto poi a che prezzi, la gente spende ancora miliardi?! Il pro-blema è questo, e per questo non ho fatto più mostre: chi potrebbe apprezzare queste mie cose, non ha quattrini, chi ha quattrini certo non guarda queste mie cose, capisce perché ho smesso di darmi da fare?”. “Questa l’ho presa da un augu-rio, che mi ha mandato la Fondazione Longhi” (mi sa che è il logo della mostra su Maccari, che ho curato ad Acqui…) ci sono Longhi e la Banti, in barchetta, e lui che proferisce: “Se una di queste splendide notti lunari vedessimo profilarsi una falce d’argento, combatteremmo anche contro la luna”, me lo ricordo così, Lon-ghi. Già, ma stavamo dimenticando le oche, Flaubert ed il Bouvard. In fondo an-

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che il suo è uno sciocchezzaio di sentimentali bêtises, che si son trovate coagulate in macro-tabacchiere di felice contenzione ed espiazione. “Eh, già. ‘Oh! Pas d’uto-pies, pas de rêves!’ diceva il caro Flaubert, però poi tormentava in questo modo i suoi confusi Bouvard et Pécuchet: ‘La création est faite d’une manière ondoyante et fugace; mieux vaudrait nous occuper d’autre chose’”. Scartare via tutto: ecco le oche, allora, la “Deplorevole distrazione delle oche, nei sotterranei del Campido-glio” (che si lasciano portar via tutta Roma). Ma anche nella scatola dedicata ai due copisti, le signorine oche-Verdurin non potevano mancare, perché quei due vogliono portarsi sempre dietro tutta la cultura e loro sono lì pronte, col carretti-no dell’insipienza. L’avventura sempre in agguato. Kavafis: “Quando ti metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga / fertile in avventure e in esperienza”. Il timore felice di penetrare ogni volta nella trappola della finzione e non sai dove andrai a finire. Peguy: “J’ouvre le Grand Meaulnes et déjà j’ai peur de ce qu’il va y avoir”. E che importa se non capisci tutto sin da subito? Karen Blixen: “Non è un cattivo segno, per una storia, se la si capisce soltanto a metà”. Anche perché (Valéry insegna): “Confesso ancora una volta che il processo di lavoro mi interessa infinitamente più del prodotto del lavoro”. Ma questi pensieri bisogna poi anche ‘vederli’ incarnarsi, in una metamorfosi ombreggiata e mobile. “C’è una scatola che ho amato molto ed era legata a Jole Graziani, molto amata da Unga-retti, che le ha dedicato 400 poesie d’amore, lei aveva tradotto Thibaudet ed era molto sensibile, ed è morta in modo misterioso, ammazzata, un giorno mi ha consigliato una frase di Merleau-Ponty, che mi ha subito suscitato questa scatola: ‘Il n’y a dans l’invisible que les ruines de l’esprit’”. Mi pare perfetta, per congedarci. Ma non abbiamo ancora parlato di Cornell, un artista che tanto la infastidisce, quando glielo avvicinano, nelle presentazioni. Io ce lo ritrovo soltanto, quasi in omaggio, nella n. 43, con la Piramide Cestia sullo sfondo, e quel bicchierino in primo piano, che pare pieno di dolenti, magrittiane uova del sogno. Così insolita-mente tetro, per lei: monocromaticamente tabaccoso. “Sia chiaro, io ho molto

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amato Cornell, non equivochiamo. In quella scatola di cui lei parla, non so se c’è un vero omaggio, ma c’è un uovo che si muove, con sopra disegnato uno schele-tro, che si porta via le persone, e che cammina verso il Cimitero inglese. Si muove: dunque la morte racchiude la vita e si porta via la tristezza”. “Il faut que l’on sente toujours la marche des heures” (Alain). “Un giorno Arnaldo Pomodoro, che è un amico, e che ha fatto per me, a Tokio, un bassorilievo di almeno 15 metri quadrati, un giorno torna dall’America e mi ha portato una bellissima monografia su Cor-nell, e mi ha detto: ‘guardalo ma non copiarlo’. Ma come faccio a copiarlo, con quella tristezza che ha dentro? Per me rappresenta un artista che ha la possibilità di staccarsi da me come un boomerang, che va dalla sua scatola e che poi torna contro di me e mi ferisce. Davvero, la tristezza di Cornell mi fa stare male, è uno dei motivi per cui ho creato le mie scatole in un certo modo, domandandomi: ma non si potrebbe levare il fondo ai cassetti di Cornell e far entrare un po’ d’aria e di luce, e soprattutto metterci delle figurine, sia pure dei pupazzi, che so, come que-sti, giapponesini, che guardano una certa cosa, la quale, dal momento che sta lì, tra due vetri – uno almeno l’ha detto – l’ha vomitata fuori, insomma, e quella cosa va oltre, ormai, verso il fondo sfondato. Uno cammina e va al di là, ed invece di quella tristezza trova la luce. Come si chiama, oddio, ogni tanto mi mancano le parole, come si chiama quello che andava a cercare l’uomo, sì, Diogene, ecco, quello con la lanterna, eccolo lì, cerca, cerca, ma non vede nulla, perché l’uomo è ancora lì sotto, piccolo piccolo, non ci sono che delle scarpine minuscole. Sì, l’uo-mo che Diogene cerca è ancora lì, a quello stadio minimo, piccolo-piccolo” (e fa la voce bambina, stridula, come se raccontasse una fiaba maligna a dei genitori di-stratti).

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DOPO IL DILUVIO

Dalla prima delle Illuminations di Arthur Rimbaud

Io credo l’abbia scritta dopo aver visto una cassettina di Chiara Briganti **. Gliela dedico, comunque, come un mazzolino malizioso di fiori, troppo vasto per esser contenuto nel mio testo. M. val.

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Non appena l’idea del Diluvio si fu seduta,una lepre sostò tra i trifogli e disse fra le campanule ondeggianti la sua preghiera all’arcobaleno, attraverso la tela del ragno.

Oh! le pietre preziose che si celavano – i fiori che già occhieggiavano.

Nella via principale, sporca, si rizzarono i banchi delle botteghe, e vennero trascinate le barche verso il mare, digradante, lassù, come nelle stampe.

Il sangue scorse, in casa di Barbablù, sin nei macelli, nei circhi, ove il sigillo di Dio illividì le finestre. Scorsero sangue e latte.

I castori edificarono. I masagrans di peltro fumigarono nelle bettole.

Dentro la gran casa di vetri, ancora grondante, i fanciulli in gramaglie guardarono le meravigliose immagini.

Una porta sbatté; e sulla piazza del villaggio, il fanciullo ruotò le braccia, rapito dalle banderuole e dai galletti dei campanili d’ogni luogo, sotto lo sfavillante acquazzone.

La signora ** collocò un pianoforte sulle Alpi. Ai centomila altari della cattedrale, furono celebrate la messa e le prime comunioni.

Partirono le carovane. E lo Splendide Hôtel fu costruito nel caos di ghiacci, di notte del polo.

Da allora la Luna ascoltò gli sciacalli piagnucolanti nei deserti di timo – e le egloghe in zoccoli bofonchiare nel frutteto. Poi, nella boscaglia violetta, germogliante, Eucari mi disse che era primavera.

Sgorga, stagno; o schiuma, rotola sul ponte e salta al di sopra dei boschi; drappi neri e organi, lampi e tuono, salite e rotolate; acque e tristezze, salite e rianimate i diluvi.

Poi che da quando si dissiparono – oh, le pietre preziose che si sotterrano, e i fiori aperti! – è, una gran noia davvero! E la Regina, la Strega che accende la sua bragia nel vaso di terra, non vorrà mai raccontarci quello che sa e che noi ignoriamo.

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Opere

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1. La Commune (particolare), 1950/1972

200 x 30 x 30 cm, Collezione Istituto Feltrinelli, Milano

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2. Le lit… c’est le symbole de la vie. Guy de Maupassant, 1978

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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3. Il faut que l’on sente toujours la marche des heures. Alain, 1978

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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4. Ma perché indugio qui? Si direbbe che indugiamo come chi ha modo di godersi un periodo di tranquillità. O non aspetto solo di essere un po’ più vecchio? Senofonte, 1978

32,5 x 23,5 x 12,5 cm, Collezione privata, Ginevra

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5. Fai emergere alla luce quanto hai visto nella tua notte. Caspar David Friedrich, 1978

77,5 x 55,2 x 10,6 cm

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6. Essi sono la natura diafana. Novalis, 1978

78 x 49,2 x 10,6 cm

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7. Cette légère teinte de corruption sur des sentiments parfaitement candides. Eugène Fromentin, 1978

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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8. La promeneuse de petits chiens, 1979

40,5 x 23,5 x 14 cm, Collezione privata, Roma

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9. Più vicino del consueto al cuore della creazione e ancora troppo poco vicino. Paul Klee, 1979

78 x 49,2 x 10,5 cm, Collezione privata, Parma

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10. Perché questa generazione chiede un segno? In realtà vi dico, non sarà dato un segno a questa generazione. Vangelo di Marco, 1979

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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11. Encore une fois, mon cher Dominique, la vie, le possible, le raisonnable. Eugène Fromentin, 1979

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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12. Anche una favola è un arduo impegno. Novalis, 1979

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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13. Non le sarebbe apparso come un demonio se alla sua prima apparizione non le fosse sembrato un angelo. Heinrich von Kleist, 1979

40 x 24,5 x 11,4 cm

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14. La linea ha bisogno di gioco, perché è commossa. Paul Klee, 1980

15 x 25 x 10,6 cm

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15. Al poeta resta da fare la poesia onesta. Umberto Saba, 1981

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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16. I giardini di Adone, 1982

93 x 52 x 44,5 cm, Collezione privata, Tivoli

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17. È difficile infondere novità nelle cose vecchie, autorità in quelle nuove, splendore in quelle sciupate, luce in quelle oscure e misteriose, grazia in quelle noiose, fede in quelle

incerte, dare naturalezza ad ogni cosa adattandola alla propria natura. Plinio il Vecchio, 1985

71 x 49 x 10,8 cm

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18. Pour qu’une chose soit intéressante il suffit de la regarder longtemps. Gustave Flaubert, 1985

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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19. La poesia è fatta solo di bei particolari. Voltaire, 1985

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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20. Il n’y a dans l’invisible que les ruines de l’esprit. Maurice Merleau-Ponty, 1985

36 x 37 x 9 cm

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21. Essere operose, e sole. Novalis, 1985

39 x 36,9 x 9 cm, Collezione privata, Roma

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22. Egli faceva parte del mio sogno, d’accordo, ma anch’io facevo parte del suo sogno. Lawrence Carroll, 1985

39 x 36,6 x 9 cm, Collezione privata, Roma

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23. Quando ti metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga / fertile in avventure e in esperienza. Constantinos Kavafis, 1986

45 x 31 x 14,5 cm

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24. Confesso ancora una volta che il lavoro mi interessa infinitamente più del prodotto del lavoro. Paul Valéry, 1986

50,5 x 30,7 x 12 cm

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25. La risuonanza conta più della causalità. Paul Valéry, 1986

23,5 x 32,5 x 12,5 cm

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26. Le Bon Dieu est dans le détail. Gustave Flaubert, 1986

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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27. Hanno avuto in sorte la stagione del godimento. Platone, 1992

34 x 37 x 9,5 cm

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28. J’ouvre le Grand Meaulnes et déjà j’ai peur de ce qu’il va y avoir. Charles Péguy, 1992

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29. Je voudrais émouvoir par le souvenir de ce qui m’a ému. Eugène Fromentin, 1992

51,5 x 31 x 11 cm, Collezione privata

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30. There is no excellent beauty that hath not some strangeness in the proportion. Francis Bacon, 1992

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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31. Le propre du style est de ne résulter jamais d’une règle. Alain, 1992

40 x 22,5 x 14 cm

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32. La chiave della prigione mentale… consiste nel gioco libero e illuminato delle analogie. André Breton, 1992

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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33. Liberté, Egalité, Fraternité, perché nessuno aggiunge Culture? Josif Brodsky, 1992

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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34. Un coup de dés n’abolira jamais le hazard. Stéphane Mallarmé, 1992

15 x 23 x 10,5 cm

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35. Depuis que les generaux ne meurent plus à cheval les peintres ne sont plus obligés de mourir à leur chevalet. Marcel Duchamp, 1992

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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36. La leggerezza. Italo Calvino, 1993

15 x 25 x 10,5 cm

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37. La rapidità. Italo Calvino, 1993

15 x 25 x 10,5 cm

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38. L’esattezza. Italo Calvino, 1993

15 x 25 x 10,5 cm

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39. La visibilità. Italo Calvino, 1993

25 x 15 x 10,5 cm

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40. La molteplicità. Italo Calvino, 1993

25 x 15 x 10,5 cm

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41. La consistenza. Italo Calvino, 1993

25 x 15 x 10,5 cm

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42. Il treno che trasportava l’oro sfiorò il tempio di Minerva Medica, 1993

25 x 15 x 10,5 cm

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43. Il simbolo della vita scivola lentamente verso il cimitero degli Inglesi, 1993

25 x 15 x 10,5 cm, Collezione privata, Roma

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44. Scrivani e giocolieri si esibiscono al Palatino, 1993

25 x 15 x 10,5 cm

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45. Tra le rovine del Tempio si esercitano i ginnasti, 1993

25 x 15 x 10,5 cm

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46. Deplorevole distrazione delle oche nei sotterranei del Campidoglio, 1993

25 x 15 x 10,5 cm

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47. Ladri di biciclette al Portico d’Ottavia, 1993

25 x 15 x 10,5 cm

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48. Guida al Foro Romano, 1993

25 x 15 x 10,5 cm

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49. L’amore occupa più spazio nella mente che nel letto. Josif Brodsky, 1993

25 x 15 x 10,5 cm, Collezione privata, Roma

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50. Colombe in gabbia al Colosseo, 1993

15 x 25 x 10,5 cm

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51. Musica sotto il portico dell’anfiteatro, 1993

15 x 25 x 10,5 cm

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52. Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia. Cesare Pavese, 2002

29,5 x 29 x 7,4 cm

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53. Les rêves ne se réalisent pas toujours. Gustave Flaubert, 2002

29,5 x 29 x 7,4 cm

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54. Senza l’incanto il resto è inutile. Jorge Luis Borges, 2002

29,5 x 29 x 7,4 cm

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55. Essere vivi è come essere in un territorio nemico, 2002

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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56. “Si le rétablissement des sciences et des arts a contribué à épurer les moeurs”. Quesito posto ad un concorso dall’Accademia di Digione nel 1749, 2002

50 x 30,5 x 12 cm

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57. Senza titolo, 2002

ø 17 x 23 cm

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58. Senza titolo, 2002

ø 16 x 23 cm

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59. La storia della donnina che annaffiava la pioggia, 2002

19 x 14 x 7,5 cm

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60. Tra razionale e irrazionale, 2002

32,5 x 23,5 x 12,5 cm

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61. Tessere una città. Paul Klee, 2002

29,5 x 29 x 7,4 cm

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62. Le violon d’Ingres, 2002

19 x 13,5 x 9,3 cm, Collezione privata

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63. Concertino sotto la pioggia, 2004

18 x 12,5 cm

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64. Et la lune perfide élève son miroir. Paul Valéry, 2004

17,5 x 12,5 cm

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65. Sopra la mia casa ovviamente la luna. Paul Klee, 2004

Collezione privata

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66. Senza titolo

28,7 x 28,7 x 7,3 cm, Collezione privata, Roma

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67. Roma si retro legis Amor, 2005

60 x 60 x 30 cm

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68. Sostantivo oberato dagli aggettivi, 2007

21,5 x 27,5 x 26,5 cm

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69. Nessun Napoleone è comparso, ma solo napoleonidi. Paul Klee, 2007

30 x 21 x 10 cm

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70. Di madri ce ne sono anche troppe. Paul Klee, 2007

32,5 x 23 x 12,4 cm

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71. E se davvero ce n’è sempre / quanto allora ce n’è? Giorgio Bassani, 2008

2 pannelli cernierati, 15 x 25,5 x 2 cm

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72. Capitano! Oh mio capitano! Walt Whitman, 2008

25,5 x 25,5 x 7 cm

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73. La cattiva educazione, 2008

21 x 16 x 4 cm

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74. La cattiva educazione, 2008

21 x 16 x 4 cm

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75. Sono riuscita a conservare al luogo l’incanto delle cose remote, del sogno e del decadimento. Karen Blixen, 2008

16 x 21,3 x 3,8 cm

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76. La memoria era un naviglio leggero. Francesco Biamonti, 2008

19,3 x 8,4 x 14 cm

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77. Nell’arte non è tanto essenziale il vedere quanto il rendere visibile. Paul Klee, 2008

19,3 x 14 x 8,4 cm

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78. Un occhio che vede, l’altro che sente. Paul Klee, 2008

18,5 x 13,5 x 5 cm

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79. Et la lune perfide élève son miroir. Paul Valéry, 2008

16,5 x 16,5 x 4,5 cm

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80. C’era un vecchio che da piccolo era / precipitato dentro una teiera… Edward Lear, 2008

19 x 14 x 8,7 cm

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81. “È un racconto?” chiese Ewald. “No, risposi, è un sentimento”. Rainer Maria Rilke, 2008

23,5 x 33 x 12,7 cm, Collezione privata, Roma

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82. L’educazione valdese, 2008

20,5 x 26,5 x 4 cm

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83. Ti sono piaciute le corse? 2008

16,5 x 16,5 x 4,6 cm

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84. Elogio della stupidità, 2008

16,5 x 16,5 x 4,5 cm

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85. Paesaggio dei sensi. Lorenza Trucchi, 2008

16,2 x 16,2 x 4,6 cm

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86. Je fais des gestes blancs parmi des solitudes. Guillaume Apollinaire, 2009

42,7 x 18 x 16 cm, Collezione privata, Pietrasanta

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87. Nessuno che io ami più di me stesso. William Shakespeare, 2009

42,7 x 18 x 16 cm

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88. Viaggio in Italia, 2009

20,5 x 15,5 x 4,5 cm

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89. Il divino nell’uomo. William Blake, 2009

33,5 x 24,5 x 10 cm

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90. Ricordati di me, sussurra la polvere. Josif Brodsky, 2009-2010

33,5 x 24,5 x 10 cm

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91. L’imagination n’est pas un don, c’est par excellence objet de conquête. André Breton, 2010

26,5 x 20,5 x 3,5 cm

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92. L’uccello ribelle, 2010

35 x 27 x 14 cm

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93. Des deux choses lune, l’autre c’est le soleil. Jacques Prévert, 2010

32 x 23,5 x 7 cm

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94. El màs terrible de todos los sentimientos es el sentimiento de tener la esperanza muerta. Federico Garcia Lorca, 2010

52 x 21 x 24 cm

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95. L’unité avec la difference et l’égalité sans equivalence. William Blake, 2010

40,5 x 22,5 x 12 cm

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96. Les minutes du soleil, 2010

43 x 22,5 x 12,5 cm

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97. Il y a toujours dans un tableau un point lumineux; mais il doit être unique. Jean-Baptiste Corot, 2010

25,5 x 25,5 x 5 cm

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98. Se in una splendida notte lunare, vedessimo la sottile falce unita ad un minuscolo argenteo martello, combatteremmo anche contro la luna. Roberto Longhi, 2010

15 x 15 x 4 cm

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99. Al cuore chiesi: “Come va?” e il cuore rispose: “A burro e alici”, il mentitore. Hilair Belloc, 2010

28 x 17 x 5,5 cm

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100. Faro 1, 2010

16 x 16 x 4,5 cm

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101. Faro 2, 2010

16 x 16 x 4,5 cm

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102. Faro 3, 2010

16 x 16 x 4,5 cm

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103. Faro 4, 2010

16 x 16 x 4,5 cm

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104. Faro 5, 2010

21 x 21 x 5 cm

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105. Faro 6, 2010

15,5 x 21,5 x 7,5 cm

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106. Faro 7, 2010

25,5 x 25,5 x 9 cm

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107. Faro 8, 2010

25,5 x 25,5 x 9 cm

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108. Faro 9, 2011

25,5 x 25,5 x 4,5 cm

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109. Faro 10, 2011

21 x 21 x 5 cm

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110. Faro 11, 2011

32,5 x 23,6 x 4 cm

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111. Il viandante si affretta nella sera. William Blake, 2011

20,4 x 15,5 x 3,5 cm

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112. Non tutte le porte vanno aperte. Carl Gustave Jung, 2012

40 x 27,5 x 14 cm

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113. Il n’y a pas d’amour, il n’y a que des preuves d’amour. Denis Diderot, 2012

27 x 12,5 x 5 cm

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114. Colloquio difficile, 2012

13,5 x 18,5 cm

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115. Ce sont les idées, disait-il, qui ont perdu l’Italie. Stendhal, 2012

21,5 x 21,5 cm, Collezione privata

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116. La poesia si fa viva perché dipinge immagini. Eugenio Montale, 2012

20,8 x 20,8 x 5 cm, Collezione privata

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117. Indecisione, 2012

15,5 x 20,5x 3,5 cm

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118. Educazione musicale, 2012

20,8 x 20,8 x 5 cm

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119. Non è un cattivo segno per una storia se la si capisce soltanto a metà. Karen Blixen, 2012

25 x 25 x 8,5 cm

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120. Consentitemi di fare il meglio che posso. Karen Blixen, 2012

32,5 x 23,5 x 7,5 cm, Collezione privata, Roma

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121. La création est faite d’une manière ondoyante et fugace; mieux vaudrait nous occuper d’autre chose. Gustave Flaubert, 2012

25 x 25 x 4,5 cm

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122. Oh! Pas d’utopies, pas de rêves! Gustave Flaubert, 2012

40 x 24,5 x 11,4 cm

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Chiara BrigantiLettera per Federico nel giorno del suo compleanno

Ieri sera mi hai chiesto di “attualizzare” il mio lavoro rompendo e scompigliando le immagini e le composizioni delle mie cosiddette “scatole”, cosa che già tanti anni fa Arnaldo Pomodoro mi incitava a fare diffidandomi al tempo stesso dal copiare Joseph Cornell del quale mi aveva portato da New York una bellissima monografia.

Constatato che questo gesto è stato già ampiamente compiuto (vuoi perché fosse un’esigenza intima degli artisti, vuoi perché fosse nello spirito dei tempi) e compiuto proprio da quegli artisti oggi considerati tra i più validi e rappresentati-vi, va detto anche che bisogna ricordare che l’arte è figlia del suo tempo e che nel corso dell’ultimo secolo molte sono state le correnti espresse da artisti che spesso si influenzavano tanto che a volte il gesto dell’uno provocava, con valenza diversa, l’opera dell’altro (vedi, ad esempio, i collages di Braque seguiti a ruota dal “cubi-smo” di Picasso). A partire da quel periodo molti artisti si sono espressi in modo innovativo e/o contestatorio per sfociare nell’informale e nell’astratto, ciascuno con modalità diverse.

Burri bruciava i suoi sacchi di iuta studiando accostamenti di colore, Fontana aggredì le tele addirittura con una lama efficientissima (non dimentichiamo die-tro un gesto apparentemente impulsivo e rapido una sapientissima struttura), Baj distrusse gli specchi onde veder tutto frantumato, Rotella strappava i manifesti incollandoli poi alla rinfusa, Arnaldo Pomodoro arrivò a distruggere l’interno di una sfera ed a costruire superfici con frammenti di bronzo, Bacon dipingeva ritrat-ti illeggibili deformando volti e corpi: bisognerebbe parlare di Duchamp e del suo Grand Verre. Ma non voglio dilungarmi oltre, anzitutto perché dovrei analizzare più dettagliatamente le ragioni di questi artisti: ed a questo punto ti segnalo uno scritto di tuo nonno intitolato L’arte povera (lo troverai nel suo libro Il viaggiatore

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disincantato) oltremodo illuminante perché egli sapeva dire cose forse un po’ dif-ficili in modo semplice, letterariamente raffinato e criticamente comprensivo e poetico.

Ma devo ricordarti che c’è un’altra coorte di artisti che proprio la loro opera non l’avrebbero mai frantumata: ma t’immagini Morandi alle prese con il solo spo-stamento da sotto il tavolo delle bottiglie di cui dipingeva fin la polvere accumu-lata nel tempo? E se suo fratello Arnaldo martirizzava le sue sculture, Giò creava enormi Folle di marmo liscissimo, Gauguin e van Gogh non pasticciavano mai i colori anche se tormentavano le loro anime e Rothko stemperava dolcemente, ma con la morte alle spalle, il perimetro dei suoi grandi quadrati.

Per tornare alla tua richiesta di frantumare le mie composizioni per essere più attuale e forse andare così incontro al mercato, devo confessare che a me del mer-cato non me ne importa nulla. Il mio schedario mi ricorda che sono più numerose le scatole che ho regalato a chi le amava molto, che quelle che ho venduto attra-verso i galleristi.

Ti ho fatto il nome di alcuni degli artisti che mi sono venuti in mente e del modo in cui sconvolsero le loro composizioni. Non dimentichiamo però gli out-sider, tra i quali citerò subito Joseph Cornell (di cui Piero Dorazio – che l’aveva conosciuto – diceva che ne ero l’erede diretta), perché è a lui che devo l’impellente desiderio di fare “scatole”. Fu, dopo una mostra in via del Paradiso, un amore a prima vista anche se mi parve inizialmente problematico.

C’era qualcosa dentro di me (ammirazione? curiosità?) che, partendo dalle mie considerazioni, s’infrangeva sul fondo della composizione di Cornell e come un boomerang di ritorno mi colpiva direi quasi dolorosamente. Pensando alle mie scatole, le ho immaginate prive di fondo poiché volevo non solo rappresentare qualcosa, ma anche procedere oltre. Ma devo far un passo indietro e raccontarti come sono arrivata a questo genere di espressione perché all’inizio Cornell non c’entra per niente.

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Negli anni cinquanta avendo restaurato per un antiquario un mobile d’“arte povera” (si chiama così la decorazione di piccole stampe ritagliate ed incollate pra-ticata a Venezia nel ’700, quella di cui parla tuo nonno è ovviamente tutt’altra cosa), mi trovai in possesso di stampe di quell’epoca con cui incominciai a decora-re, con intenti tra surrealismo e simbolismo, pannelli e scatole. Tuttavia economi-camente la cosa non funzionò e cambiai binario andando a lavorare al Quirinale e aprendo uno studio d’architettura interna e di design che ha funzionato per più di vent’anni. Ad un certo punto mi è tornato il desiderio di far qualcosa con le mie stampe che ormai avevo accumulato in modo incredibile e, ahimè, continua-to a ritagliare, gesto che calmava le mie ansie, mi lasciava il tempo di pensare e mi stupiva allorché l’immagine si liberava del fondo bianco della carta: era come disegnare con le forbici. Studiando una delle scatole di tanti anni prima pensai di rovesciarla, levarci il fondo, far scorrere dei vetri nello spazio intermedio e usufru-ire della luce che il vetro di fondo avrebbe lasciato trasparire. Ho fatto così oltre 200 scatole e anche se le ultime differiscono da quella prima formula, ho sempre ricercato l’effetto luce.

Ho saccheggiato le mie memorie specie quelle infantili, ripreso in mano i li-bri che mi avevano appassionato nelle varie stagioni della mia vita, fatto appello a quegli artisti che prediligevo invitandoli ad entrare in quel mondo che volevo creare, sia pure per l’espace d’un matin, quel tanto che bastava per incuriosire, sor-prendere, sottolineare, forse analizzare e criticare, perché no? A richiesta avrei dato giustificazioni.

Non ho ancora detto la cosa principale e cioè la presenza della luce da me ri-cercata come componente necessaria delle mie composizioni. La luce favorisce un costante happening che trasforma, con maggior o minor intensità e diversità anche di colore, la scena; a volte mi aiuto anche con i prismi, che mi permettono di far apparire e scomparire le immagini sempre molto ritagliate onde inserirsi agevolmente, e soprattutto con leggerezza, nello spazio luminoso.

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Per quanto riguarda i soggetti di queste mie composizioni, generalmente de-sidero rappresentare un luogo, un avvenimento, un personaggio (spesso visto di schiena per suggerire che se io guardo lui, lui guarda dinnanzi a sé e va oltre uscen-do di scena); si può trattare di un oggetto legato alla citazione o alla mia fantasia mentre è frequente il ricordo, il desiderio o la rinuncia a qualcosa d’importante avvenuto nella mia vita: come faccio a frantumarla se è già di per sé abbastanza a pezzetti raccolti, rincollati e messi sotto vetro?

Ti lascio con questo interrogativo e con gli auguri per i tuoi 22 anni.

Roma, 11 settembre 2008

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Antologia critica

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Attilio Bertolucci

“Vi fu un tempo nella mia vita, molto felice, in cui i miei sogni erano in colore…”. Così Chiara Briganti presenta la sua mostra di scatole, o contenitori, a Roma. In queste poche, semplici parole c’è la chiave degli strani oggettini: si tratta di sogni “in colore”. Ora, trovata la chiave (sono sogni) ci servirebbe un’ulteriore chiave, quella appunto “dei sogni”, che ne apra il significato. Potremmo scegliere una di quelle cabale popolari che vendevano nelle bancarelle d’un tempo, oppure, alla pari, e non suoni sacrilegio, L’interpretazione dei sogni del dottor Freud. Ter-za chiave, minuta, che ci gioverebbe se volessimo toccare con mano le pietruzze (vere), i rametti (veri), le lenzuoline fragranti di bucato (vere), la pasta appena impastata (falsa), la chiave, che non c’è, delle scatole medesime. Ma guai cercarla, guai voler entrare: questi interni, o esterni, o interni-esterni, o esterni-interni, sono tabù. Guardare sin che si vuole, mai entrare, pena la perdizione.

Non serve, per me, la chiave degli eventuali precedenti ricuperabili nell’arte moderna, specie nel surrealismo, o in certe o certi, bravissimi superartigiani d’A-merica… Io semmai, e non so quanto sia d’accordo l’autrice di queste delizie qual-che volta terrificanti, mi rifaccio ai teatrini che mi regalavano per Santa Lucia, e io li montavo perché la scena figurasse ora una sala del trono, ora una foresta. Le ma-rionette neppure le toccavo, non possedevo evidentemente alcuna attitudine per il teatro. Non avevamo la luce elettrica nella nostra bella casa di campagna, così illuminavo quei troni cremisi, quelle querce così verdi a lume dorato di candela.

Ecco un’altra sottile chiave, per i manufatti di Chiara Briganti: la luce. Diurna, di sole, o notturna, di lampadine, non importa, o soltanto sul piano d’un gioco d’ambiguità previsto, se non calcolato. Altri, più dotti di me, troveranno exempla in angoli remoti dell’arte antica, con risultati sorprendenti. Io qui vorrei afferma-

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re però una cosa: la Briganti, che gioca quasi sempre con immagini crudelmente sottratte al Sette e all’Ottocento (una volta sola arriva verso il 1913 con uno stu-pendo abito di Lanvin) e da lei con malizia adibite a diverso uso, affascinante o stregante (Chiara opera con “mani di fata”, leggi “mani di strega”), e artista mo-derna. Si è guardata e letto Duchamp, anche, e da lui ha appreso a non pasticciare mai, come fanno tanti incauti imitatori. Qui tutto è ordine, lusso, eccetera. Stra-volti, ma rispettati, però. Allora, le scatole sotto vetro sono sogni a colori illumi-nati, pure il bianco e nero di certe fantastiche figure della Grande Enciclopedia, illuministiche e tenebrose, sono luce e colore. La frase che sta scritta sotto una scatola, ed è del gran Caspar David Friedrich, “…fai emergere alla luce quanto hai visto nella tua notte…” potrebbe dare il titolo a tutta la mostra.

Le scatole sono a muro, ma si possono estrarre, portare verso una finestra, ricavando lontananze prospettiche prima trascurate, sfuggiteci, e d’improvviso beate per la luce assorta di un tempo perduto e ritrovato.

Chiara Briganti, ex Convento S. Paolo, 20 settembre - 6 ottobre 1979

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Jean-Marie Dunoyer

“Que la vitre soit l’art, soit mysticité…”. I vetri di Chiara Briganti hanno esaudito il desiderio di Mallarmé. Le finestre incantate, paradossalmente spalancate su di un Eden fatato, peraltro da loro stesse sigillato ermeticamente, non finiscono mai di riconciliare due presunti mondi di natura diversa per non dire opposta. Ognuna di queste boîtes – che mi sembra più pertinente definire in francese – è, così come le presenta la loro autrice, “la traduzione figurativa di un’idea, di un sentimento”. In altre parole, la citazione apposta sotto le immagini ritagliate e le altre sensibili illustrazioni, si salda con un fermo sull’immagine. In questo modo la ricerca pla-stica di un Paul Klee ansioso di “gettare un ponte tra l’interiorità e l’esteriorità”, illumina al tempo stesso tutta l’estetica di Chiara Briganti, il suo ruolo regolatore teso a far circolare imponderabili scambi tra l’astratto ed il concreto, nel sottile passaggio dallo spirito alla materia, e viceversa, attraverso pareti compatte, tra muraglie che un ectoplasma può penetrare senza danno.

Il riferimento al maestro della Bauhaus non è che un modesto saggio di una prodigiosa cultura cui Chiara Briganti sembra essere ricorsa al solo fine di servir da supporto alla quasi totalità delle sue brillanti idee creatrici. Pedanteria? Niente affatto.

Non appena la citazione, scelta con competenza, ha dato un buffetto alla me-ditazione dell’artista, l’immaginazione si mette in movimento ed immediatamen-te spunta una gran folla di paesaggi, di giardini, di palazzi, d’interni, di acquari, di bestiari, di allegorie, di sketchs vari ed inattesi.

Seguendo l’esempio del Favoleggiatore, Chiara Briganti, ha messo in scatola una “semplice commedia dai cento, diversi atti” e miniaturizzato il suo teatro per-sonale con il rigore, la precisione, l’eleganza di una rappresentazione. Si può af-

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fermare che ci troviamo di fronte a vere maquettes in cui il sogno, perfino il sogno nel sogno, la poesia, l’humour, la malizia, riescono ad inoculare nello spettatore l’impazienza di vedere alzarsi il sipario che nasconde tanta ricchezza.

E quali sono gli attori di questo teatro del silenzio e della trasparenza? André Chenier sembra dare la replica a Jean-Jacques Rousseau, Kleist a Caspar David Friedrich, Merleau-Ponty a Charles Peguy, Fromentin a Marcel Duchamp, Cha-misso a Francis Bacon messi sull’avviso che “Non vada al sole chi non possiede ombra”. Bel consiglio che val bene in risposta questa lezione di dissonanza e cioè che non esiste bellezza perfetta senza l’intrusione dell’insolito nell’armonia delle sue proporzioni.

Parigi, 1998

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Beniamino Placido

Le “scatole” di Chiara Briganti? Le conosco. Le ho viste nascere. E ne ho un po’ paura.

Una sera ero andato a trovare Chiara nella sua casa di piazza Scanderbeg, a Roma. Piazza Scanderbeg non è una piazza come le altre. Non dovrebbe nemmeno stare a Roma. Potrebbe trovarsi ad Heidelberg, a Salisburgo, a San Pietroburgo. È una piazzetta quasi inaccessibile, nascosta nel groviglio di viuzze che avvolgono la Fontana di Trevi. Non sempre si riesce a raggiungerla. A volte si gira e si rigira e ci si ritrova sempre di fronte o al Quirinale o alla piazza della Pilotta, dove c’è l’Uni-versità Gregoriana, un altro dei luoghi profondi – e misteriosi – di Roma.

Quella sera ero riuscito ad arrivarci, a piazza Giorgio Scanderbeg. Che non è stato, del resto, nemmeno lui, un uomo come tutti gli altri. Si chiamava, a volte, Iscander Beg; si chiamava (altre volte) Giorgio Castriota. Dapprima musulmano si fece poi cristiano (metamorfosi) e nel 1443 “dalla fortezza di Croia guidò la re-sistenza antiturca per 24 anni contro gli attacchi di Maometto II” (così è scritto nell’enciclopedia tascabile).

Quella sera, una volta arrivato (con affanno) sulla piazzetta, mi fermai, rassicu-rato. Alzai gli occhi in alto a guardare la luna. Come sempre, era evidente il profilo ricurvo della scimitarra di Iscander Beg che poi diventava – così in un momento: altra metamorfosi – la dritta spada cristiana di Giorgio Castriota.

E mentre stavo ancora con la testa per aria, cominciai a sentire intorno dei colpi di tosse, delle prudenti soffiate di naso, dei mormorii, dei borbottii, delle risatine soffocate. Mi girai. E la piazzetta era piena. Erano tutti lì, aspettando che si aprisse il portone.

Erano tutti lì felici e contenti (o incoscienti?), i personaggi che sarebbero finiti

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dentro le trappole di legno e vetro di Chiara Briganti. Erano tutti lì aspettando che qualcuno bussasse a quel portone.

C’erano una Colombina e un Pulcinella. C’era un (o una, come volete) Fidelio. C’era un barbiere (credo di Siviglia). C’era Hansel, sempre con Gretel a portata di mano. C’era Papageno con un flauto magico (“oh! Papageno! Papageno! Papage-no”), un pappagallo e due pesci.

C’era un tenore intabarrato. C’era un baritono raffreddato. Erano appena stati all’Opera. Commentavano la rappresentazione.

C’era Sancio Panza che si batteva, contento, le mani sul ventre. Don Chisciotte no, non c’era. S’era messo in mente di risalire con Ronzinante la vicina salita del Quirinale, che è irta così – e si sentiva il caparbio sferragliare degli zoccoli.

C’erano, con la faccia pallida (o incipriata?), Les Enfants du Paradis. C’erano i figli del Capitano Nemo. C’era un figlio del Capitano Grant. Parlavano fra di loro di Michele Strogoff che a quell’ora cavalcava nella steppa. Chissà dove sarà arrivato, si chiedevano. C’erano il pittore Friedrich e il pittore Klee. Si scambiavano, confron-tando, tavolozze e pennelli.

C’era un Uomo senz’ombra (da Chamisso). C’era una Donna senz’ombra (da Hofmannsthal). C’era un bambino poverissimo, con un’ombra di tristezza sul viso, che veniva senz’ombra di dubbio da Dickens.

C’erano tanti personaggi del primo, del secondo e forse anche del terzo roman-ticismo. C’era Lohengrin che parlava con Floria Tosca. C’erano tanti studenti va-gabondi (ma coltissimi) che erano usciti dai romanzi di Eichendorff e stavano per entrare in un film di Wim Wenders. C’era una talpa che era appena fuoriuscita dalle pagine di Marx (che fatica, dicevano, sempre a scavare in quei cunicoli) e voleva entrare nella prosa di Kafka.

Non appena mi fu aperto il portone, sciamarono su per le scale squittendo e sgo-mitando (e borbottando: la talpa). Ma quando arrivai lassù, nella soffitta di Chiara (vi risparmio il particolare banal-romantico dei tetti di Roma), non c’erano più.

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Erano finiti – imprudenti, incoscienti – nelle trappole di legno e vetro, che Chiara aveva preparato per loro. Attirandoli in modo diverso. Chi con una pianta, chi con una foglia di lattuga (irresistibile per la talpa), chi con una corda di panni stesi al sole (particolarmente attraenti per i romantici tedeschi); chi con un Eldo-rado pieno di pesci.

E lì debitamente trasformati fino a renderli a volte irriconoscibili, Chiara li ave-va ficcati. E lì stanno. Li avete guardati? Ma non sono del tutto immobili. Se guar-date bene, se vi fermate a guardare fissi, davanti ad una “scatola” – senza distrarvi, senza chiacchierare con il vicino – vedrete che qualcosa si muove. Dopo un po’, si avverte un sospiro sottile. Un occhio ammicca. Una palpebra sbatte.

Del resto, nessuna metamorfosi è mai completa. Sennò, che metamorfosi sa-rebbe? Si dirà che questo non è possibile. Che queste cose possono accadere ad Heidelberg, magari a Pietroburgo o a Salisburgo; non a Roma, città pagana e mi-scredente. Ma chi l’ha detto? Lo dice chi Roma non la conosce e non la capisce. Roma è pur sempre una città barocca. E il barocco viene pur sempre – dritto per dritto – dalle Metamorfosi di Ovidio (questo lo so per certo, perché l’ho letto in un libro straniero, rilegato, importante).

Chiara Briganti, L’esprit de curiosité ou les contenants du rêve – boîtes-objets, collages et transparences, Centre

Culturel Français de Rome, l986, edizioni Carte Segrete

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Mario PrazI “vetri” di Chiara Briganti

Che nome darebbero i visitatori agli oggetti qui esposti? Teatrini? È facile ma anche troppo generico. Assegnarli alla classe dei piccoli teatri di marionette per bambini, o a quella, più nobile, di boccascena e figurette di cartone dell’opera mozartiana che si possono vedere in Austria, non rende affatto conto delle carat-teristiche strutturali, di scatola accogliente una serie di vetri figurati il cui insieme crea un’impressione di profondità.

Alcune di queste scatole possono contenere anche piccoli objets trouvés, altre potrebbero addirittura far pensare a sismografi nella loro teca di cristallo. Abbia-mo subito scartato la denominazione inglese di perspective pictures (in tedesco Riefelbilder), quadri prospettici, che designa figure dipinte su una superficie pie-ghettata, sicché guardate da un lato presentano un’immagine diversa da quella presentata dall’angolazione opposta: genere affine all’anamorfosi, cioè a una im-magine caotica che si ricompone in figura leggibile solo grazie a un accorgimento ottico (cilindro specolare collocato al centro della pittura, o punto obbligato da cui la figura va osservata). Invano abbiamo cercato la definizione nel volume Ku-riositäten, Antiquitäten di Eugen von Philippovich (Braunschweig, Klinkhardt & Biermann, 1966): nel capitolo sui Glasschichten-Bilder (quadri a strati di vetro) de-scrive sì la classe o almeno una classe assai simile a quella degli oggetti qui esposti, pur ignorandone il luogo d’origine, che è olandese e non tedesca come egli sem-bra credere dai pochi campioni da lui descritti, tutti dell’Ottocento: una marina con la nave sui flutti in primo piano nel primo vetro, e il resto del mare con altre navi più piccole in un secondo vetro, i vetri montati in solchi o scanalature nella cornice che funge da contenitore; l’altro campione rappresenta fiori dipinti su vari vetri disposti uno dietro l’altro in modo da creare un effetto di profondità.

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Osserva che questa tecnica deve risalire a tempi molto più remoti, come prova una scatola descritta nel catalogo del Museo Nazionale di Copenaghen ove su vari vetri in un contenitore di 32 x 27 centimetri è rappresentato Orfeo che suona la cetra circondato dagli animali: risalirebbe al Seicento.

Parecchi anni fa (nel 1968) acquistai sul mercato antiquario romano (prove-nienti da Parigi) quattro scatole di 33,5 x 27,5 cm di perimetro, contenenti rap-presentazioni di feste con fuochi d’artifizio, in tre casi per celebrare i matrimoni di sovrani olandesi, Guglielmo IV o Guglielmo V di Orange, in uno per una festa francese: di quest’ultimo è stato trovato il modello in un’incisione: Illumination et feu d’artifice donné à Monseigneur le Dauphin à Meudon le 3 Septembre 1735, e senza dubbio si dovrebbe trovarlo per gli altri in qualcuno dei tanti volumi di festività di cui ha redatto la bibliografia John Landwehr (Splendid Ceremonies, State En-tries and Royal Funerals in the Low Countries, 1515-1791, A Bibliography, B. de Graaf, Nieuwkorp; A.W. Lythoff, Leiden, 1971). Altri oggetti dello stesso tipo acquisto presso un antiquario fiorentino, Fabrizio Clerici, rappresentanti marine, scene di pattinaggio, ecc., e alcune marine furono esposte alla Fiera Antiquaria di Roma nel 1967. Sia questi che i miei eran fatti per essere illuminati dal retro, perché le figure son dipinte sui vetri con colori trasparenti, e se questo doveva avvenire a luce artificiale, è chiaro che l’effetto risulta più vivace oggi che disponiamo di mezzi d’illuminazione superiori a quelli in uso nel Sei-Settecento.

Le mie richieste di più precise informazioni dall’Olanda han confermato l’esi-stenza di tali oggetti in parecchi musei, ma nessuna indicazione mi è stata fornita sul nome che veniva dato loro al tempo in cui furono di moda. Ma già la colloca-zione di tale voga nel Seicento è significativa: è l’epoca della visività, della religio-ne e della morale propagandate con le figure degli emblemi e delle imprese, della costruzione di luogo degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio. Bisognoso com’era di certezze sensuali, il secentista non si fermò all’idoleggiamento puramente fan-tastico dell’immagine, volle estrinsecarla, proiettarla in un geroglifico, un em-

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blema, si compiacque di rincalzare la parola con una rappresentazione plastica aggiunta. Questo io scrivevo nei miei Studi sul concettismo nel 1934, e mi pare di dover aggiungere oggi a questa classe di oggetti che danno veste figurativa a un concetto, a un’idea, anche queste scatole a sorpresa che chiamerei col nome di “ideorama”. S’era prima affacciato il nome di “diascopie”, ma la parola aveva associazioni cliniche poco attraenti; d’altronde “diorama” – veduta attraverso – designava già quella veduta in rilievo che si ottiene guardando attraverso uno speciale dispositivo con opportuna illuminazione due immagini dello stesso qua-dro disposte verticalmente. Ma siccome le scatole prospettiche di cui qui si parla sono state spesso adoperate nello spirito dei “technopaegnia” alessandrini, cioè di quegli scherzi d’arte che per mezzo della disposizione dei versi volevano suggerire l’oggetto stesso della poesia (la “Scure” e l’“Ala” di Simia, la “Siringa” di Teocrito, l’“Altare” di Dosiada), scherzi ripresi nel Seicento dal poeta inglese George Her-bert a scopi devoti, e al principio del nostro secolo da Guillaume Apollinaire (Cal-ligrammes) per effetti estetici, si potrebbe trovare in “ideorama”, voce che unisce la visione prospettica al concetto, la parola appropriata per la scatola a sorpresa di cui vedete qui raffinati campioni.

E dico raffinati per distinguerli – e tale qualifica avrà forse segno negativo per i dadaisti e i surrealisti ortodossi – da creazioni come il Grand Vitre di Marcel Du-champ, e i “technopaegnia” di Man Ray e di Joseph Cornell. Per questi ogni pic-colo oggetto o frammento del medesimo, un elastico, un bicchierino rotto, una molla spezzata, può diventare objet trouvé, e dar l’avvio a una catena di associazio-ni più o meno suscettibili di decifrazione: come il cane randagio trova rimasugli d’alimento nella spazzatura – o per un paragone più nobile che è stato fatto, un bambino custodisce gelosamente nelle sue tasche o tesaurizza in uno scatolino palline, anelli, conchiglie, frammenti di sughero o di legno, una chiave smarrita, un fermaglio, immagini ritagliate da giornali o da libri, – e si direbbe dunque che in tali casi il potere suggestivo è il massimo e più meritorio, essendo il pregio

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d’una metafora, agli occhi d’un secentista, in ragione diretta della distanza del riferimento, ossia quanto più lontano e marginale è il rapporto tra i due termini della metafora, quanto più inattesa la conjunctio oppositorum, tanto maggiore è la meraviglia e l’acutezza dell’ingegno del combinatore. Blake e Lautréamont fanno testo; il primo coi versi: “To see a world in a grain of sand…”, “vedere un mondo in un granello di sabbia, e un cielo in un fiore selvatico, tener l’infinito nel palmo della tua mano, e l’eternità in un’ora”; il secondo con “l’incontro fortuito di un ombrello e di una macchina da cucire su un tavolo da dissezioni anatomiche”. Onde per Man Ray tre pere vere e proprie chiuse in una scatola contro un fon-dale di cielo con nuvolette bianche è un’opera di creazione, e in via di principio, essendo l’arte per questi “trovatori” il regno dell’inutile, basterà stravolgere, dis-sociare un oggetto d’uso comune (per esempio un water-closet) dalla sua naturale destinazione perché esso diventi oggetto d’arte. Maurizio Calvesi ha scritto una sottile esegesi del capolavoro di Duchamp, il Grand Vitre, La Mariée mise a nu par ses célibataires, risalendo alle fonti magiche, Fulcanelli e Conseliet, e ai giochi di parole di Raymond Roussel, finendo coll’identificare questo prezioso oggetto con l’Assunzione di Maria. Un processo per aspera ad astra con un rincaro di dose su quell’aspera. Ora è risaputo che la decontestualizzazione di un oggetto può confe-rirgli valenza artistica, e si potrebbe osservare che questa pratica è vecchia quanto l’opus asarotum romano, le strane creature di Hieronymus Bosch, o di Arcimbol-di, i quadri olandesi di Vanitas che accompagnano, come nel verso del Burchiello, “nominativi fritti e mappamondi”.

Joseph Cornell, un seguace americano della corrente dadaista, del quale c’è stata una recente esposizione romana (alla galleria L’Attico in via del Paradiso, una località quanto mai appropriata a un artista che abitava in una stradina dal nome di Utopia Parkway in uno dei quartieri periferici di New York, Queens), aveva adottato il formato “scatola” per isolare, come Duchamp nella sua Valise, i suoi “incontri fortuiti” di oggetti, di frammenti di oggetti e d’immagini, come in

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reliquiari atti a conferire loro un’intensità espressiva d’un concetto. Una molla agganciata a un trapezio di regoli bianchi contro uno sfondo di battigia sugge-risce “un segno di evasione nel tempo e nello spazio (spirale), con un senso di scacco di questo tentativo, una tristezza certa”. Si è detto (da Henri Coulonges in un articolo su “Connaissance des Arts” del dicembre 1973) che “non utilizzando i suoi oggetti favoriti che per il loro potere di transfert Cornell si immobilizza in composizioni la cui sobrietà, densità, sentimento acuto del vuoto, dello spazio, perfino del trompe-l’oeil sono così perfetti da produrre un vero e proprio senso di malessere”. Mi pare che qui il critico esageri la perfezione delle orchestrazioni di frammenti di Cornell; c’è, a mio parere, invece, una certa discontinuità di tessitu-ra, una certa rozzezza di rifinitura in Cornell, che posson formare il loro fascino puerile, ma che non depongono in favore del loro valore artigianale.

Questo invece risulta in modo così patente nelle scatole di Chiara Briganti, che si capisce subito che essa è giunta a risultati analoghi a quelli dei surrealisti per una strada affatto diversa. Abbiamo assistito ai suoi principi. Una trentina d’anni fa essa decorava l’esterno di scatole chiuse con ritagli d’immagini crean-do prodotti d’“arte povera”. Illustrazioni di vecchi manuali di botanica, figure di Grandville, si associavano in combinazioni decorative sotto una spessa laccatura senza alcuna pretesa di suggerire qualcosa di metafisico. Nulla del cadavre exquis in questi suoi lavori, che potevano stupire per la loro eleganza formale, ma non per le loro implicazioni concettuali. Non si poteva davvero applicare a questi suoi prodotti la frase di Erasmus Darwin: “The soft intaglio thinks”. Erano sì boîtes a joujoux, ma a quali joujoux il loro interno fosse destinato, era lasciato al benepla-cito del fruitore.

Poi venne l’idea, non certo da conoscenza che Chiara avesse dei “technopae-gnia” dei surrealisti, e neppure forse di quei “quadri-scatole a comparti di vetro” olandesi di cui si parlava dapprincipio, ma probabilmente per evoluzione spon-tanea (un po’, a voler essere faceti, come nel celebre monologo di Ermete Novelli

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che scopriva l’ombrello), l’idea delle scatole trasparenti, con le lastre di vetro non dipinte, ma bensì come campi di collages, di quegli stessi collages che essa aveva praticato da tempo sui coperchi e i fianchi delle scatole, secondo la tradizione dell’“arte povera” veneta del Settecento. I ritagli si organizzavano in simbiosi feli-ci, cui ora partecipava anche la luce, come acquari le scatole si popolavano d’una flora e d’una fauna delicate e favolose. L’abilità artigianale poteva fermarsi lì, e si sarebbe potuto vedere in questi prodotti altrettanti accessori eleganti per la sala di prova di una Coco Chanel. Ma i raccostamenti dei ritagli e dei reperti non avve-nivano per caso, seppure da un incontro fortuito poteva sprigionarsi una scintilla di pensiero.

A un certo momento il quadro si è messo a pensare. E i vetri di Chiara Briganti hanno raggiunto l’antica e nobile famiglia degli emblemi. Immagine, lemma, e perché no? una morale. Si potrebbe dire a questo punto quel che scriveva Daniel Meisner a proposito dei suoi emblemi desunti da vedute di città (Thesaurus philo-politicus, Francoforte 1623-26): anche se non fossero piaciuti al lettore gli emble-mi, sicuramente lo avrebbero soddisfatto le vedute delle città: “Sive enim demas Emblemata, supererunt oppida sive castella et ita habebis velut argentum purum. Sive auferas oppida, restabunt Emblemata et eorum sensus mysticus”.

Le immagini a volte illustrano un passo di un autore introducendo però un particolare inatteso quale la figura femminile di Gavarni che, appoggiata ad uno stipite, con aria complice, invita al silenzio in quella stanza ove “des glaces se faisaient echo et se renvoyaient à perte de vue, dans les murs, des enfilades de boudoirs roses” (Huysmans). Il lemma è un testo di Gibran: “And though of mag-nificence and splendour your house shall not hold your secret nor shelter your longing”. A volte sono rappresentazioni di particolari momenti storici (La Com-mune), racconti fiabeschi (C’era una volta in Umbria…), allegorie degli Elementi, altre ancora sono evocatrici di personaggi, paesaggi e situazioni dedotte certo da una mitologia individuale di cui Chiara solo sembra avere la chiave: quella chiave

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che, generalmente, è però costituita dal lemma come, ad esempio, in quel “j’aime les mystères simples” (J. Rostand), ove la manina settecentesca che si sporge ad offrire uno stelo d’erba, è quanto mai pertinente o in quel “je refais a ma façon quelques paysages nécessaires” (A. Gide), in cui dietro il misterioso muro in pie-tra dalla rosea porticina, è intuito il giardino amato da Tennyson. Appropriate citazioni corredano a volte le immagini dotate così di una doppia chiave, come, ad esempio, il Vrai amour ne se change, motto di Vespasiano Gonzaga inscritto in un’imbotte a Sabbioneta e qui sullo stendardo di un cavaliere: verso di lui si protende un’anitra in volo inseguita da rapaci volteggianti attorno ad un letto dalle cui cortine s’intravedono Tobia e l’Angelo in un paesaggio di Brueghel: il lemma di questa composizione così densa di significati è Le lit… c’est le symbole de la vie (Guy de Maupassant), ma la presenza di un’arancia che, crivellata di chiodi garofano, sprigiona un particolare profumo, potrebbe anche evocare il verso di Baudelaire “nous aurons des lits pleins d’odeurs légères”.

Altre piccole scatole offrono, attraverso feritoie, sorprese simili a quelle che si ottenevano in certi orologi da tasca del Sette-Ottocento, con minuti automi che al sollevare del coperchio mimavano una scena galante.

Se un rapporto vuol vedersi tra le scatole-ideorami di Chiara Briganti e le sca-tole di Marcel Duchamp, Man Ray e Joseph Cornell, si potrebbe dire che in lei la rivoluzione rossa dei surrealisti si è attenuata e raggentilita (sassolini politi, sabbie preziose, “ombre di vegetabili” – Largo di Handel – e objets trouvés delicati, invece di scarti e rottami) in una rivoluzione rosa, che così, come tutte le rivoluzioni, è tornata alle origini, ai “technopaegnia” del Seicento, agli emblemi, alle decorose iconologie, alle aggraziate fabulazioni. Per citare ancora Erasmus Darwin nel pro-logo al suo Botanic Garden: “Se tu hai tempo disponibile per un divertimento così ozioso, entra e guarda le meraviglie del mio Giardino incantato”.

1980, Roma, Grafiche Step-Parma

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Eugenio Riccomini

Somigliano, queste vetrinette di Chiara Briganti, a piccoli spazi scenici, a luoghi di teatro; o, appunto, a vetrine di cose di cui non si può fare commercio: sogni, suggestioni, accostamenti strani e indecifrabili. Somigliano, e non sono: del te-atro, della scenografia non hanno la pretesa al mistero, né la forzatura emotiva; della vetrina non hanno la fatuità, l’offerta. E neppure sono tiroirs secrets, che sve-lino intimità a lungo nascoste, frammenti di taciuta biografia. Ciò che tutte le collega, nella sempre nuova e diversa invenzione, è il tratto di una intelligenza sottile, esercitata su infinite ed amate letture, abituata a giocare con citazioni raffinate ed inattese, e sempre pertinenti, luminose, con lo spirito di quei lumi, di quel loro tempo, di quel loro secolo che Chiara conosce ed ama.

Un’intelligenza sottile, ma usa all’ironia e al bricolage delle idee, senza un bri-ciolo di spocchia, mai: e così l’allusione, e perfino l’allegoria, non si fa mai mistero, e le forme e le figure e gli oggetti e gli spazi entro cui si dispongono continuano a far parte di un gioco, che diverte e solletica e affascina senza mai intimorire.

Un gioco dell’intelligenza con se stessa, e con i mille frammenti di memoria che una vita porta con sé, su cui torna a trascegliere, con curioso ritrovare, e con la gioia del mettere insieme, del fare: cioè della poesia.

Chiara Briganti, L’esprit de curiosité ou les contenants du rêve – boîtes-objets, collages et transparences, Centre

Culturel Français de Rome, l986, edizioni Carte Segrete

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Maria Luisa SpazianiLe scatole magiche di Chiara Briganti

Che cosa sarà mai, vorrei dire anche visivamente, il velo di Maja di cui parlano e favo-leggiano filosofi e poeti, dagli antichi a Schopenhauer e oltre? È forse semplicemente la rosa rilkiana, quel “sonno che nessuno dorme sotto tante palpebre”: ossessionante immagine di struggenza assoluta che ci mostra l’accumularsi variopinto e allettante delle illusioni su un duro nocciolo di vuoto, impassibilità dell’innocenza, dell’igno-ranza, dell’oltredisperazione.

Chiara Briganti vi accenna con grazia – non può non essere così – nelle sue scatole magiche esposte allo Studio S (via della Penna 59, Roma) che con variatissimi giochi di prospettive presentano vetrini di successivo accumulo, tre generalmente, ma in po-tenza infiniti. Certo, l’accumulo, la profondità, la prospettiva coesistono sullo stesso piano in ogni pittura che non sia naïf, che sapientemente (intellettualmente) rimandi i suoi ritmi documentabili a emblemi paralleli di alta o difficile decifrazione. Ma qui la trovata consiste nel mostrarceli in successione concreta, nel farci entrare nel segreto di una struttura che contiene nucleo-perla, il senso di una citazione letterale.

L’affascinante Chiara, insomma, con spirito e poesia gioca al Creatore come il bambino della gozzaniana Cocotte: si ricorda della Genesi che per prestare qualcosa di temporale e di umano a Dio – per rendercelo più comprensibile e simpatico sul-la misura della settimana lavorativa con tanto di domenica garantita – ce lo mostra mentre inventa la luce, gli astri, i mari, le foreste, gli animali, l’uomo e la donna. Vetri-ni successivi appunto, che da miliardi d’anni ci siamo abituati a vedere in prospettiva, in sintesi. Come quando, appunto, vediamo frontalmente le scatole di Chiara, senza cedere alla tentazione già meno innocente di dare un’occhiata di sbieco tra le quinte.

‘L’Umanità’, 21 novembre 1980

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Roberto Tassi

Comincerò anch’io con una citazione da Baudelaire: “On a souvent répété: le style c’est l’homme, mais ne pourrait-on dire avec une égale justesse: le choix des sujets, c’est l’homme?”. La scelta dei soggetti che Chiara Briganti compie per le sue opere sta quasi sempre entro un’area che ha come suo centro il romanti-cismo e che da quello non si allontana mai di molto; e anche quando i soggetti, le idee, le suggestioni provocate dai titoli, sono di area contemporanea, per qual-che verso poi paiono quasi sempre riconducibili a quel centro e ai suoi dintorni. Questa partenza dal cuore romantico per creare opere modernissime non finisce di affascinarmi, anche perché credo che lì stia la sorgente di molti fatti, idee, pro-blemi e comportamenti del nostro tempo. Già Max Ernst, la cui poetica deriva, più di quello che solitamente si creda, da C.D. Friedrich, aveva scoperto quan-to aumentasse il potere surrealista di un collage l’usare stampe dell’Ottocento, e aveva creato così con Une semaine de bonté una delle opere più originali dell’arte contemporanea. Chiara Briganti usa stampe o immagini ottocentesche, e anche del Settecento, e ottiene con esse, estratte dal loro contesto e violentemente im-messe entro la trama di nuovi rapporti, quel trauma, quell’attesa e quel mistero, che il loro uso in una tecnica d’avanguardia, di originale e del tutto nuovo collage, contribuisce ad ingrandire fino alla poesia.

Bisognerebbe ora dire cosa sono queste opere. Ci si è provato, con tutta la cul-tura, l’intelligenza e la sensibilità che fanno di lui il maggior critico italiano con-temporaneo, Mario Praz, ed è riuscito, in uno splendido saggio, a tracciare tutta la tradizione a cui appartengono e i rapporti antichi e moderni che le situano e le definiscono. Resta da descriverle. Entro una inquadratura di legno, che non è scatola, ma una cornice comprendente anche la dimensione della profondità,

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sono inserite alcune lastre di vetro, di solito tre, che portano figure di collage; ma il collage vero o definitivo avviene nella lettura complessiva di tutte le figure dei tre vetri, quindi per sovrapposizione; sono aggiunti poi vari oggetti, intercalati ai vetri, e varie fonti illuminanti. Dalle combinazioni così dei tre elementi principa-li, spazio, immagine complessiva e luce, si ha il totale complicato e ricchissimo dell’opera. L’unione di molti di questi “oggetti” per formare un altro oggetto an-cora più ricco e complicato, crea nuove suggestioni e nuovi significati.

Ciò che rende tanto originali, poetiche e moderne le opere di Chiara Briganti è soprattutto il loro mistero, la loro difficile decifrazione, la loro “apertura” non soltanto in rapporto allo spazio che sul fondo può indefinitamente espandersi, ma in rapporto al significato. La prima chiave dell’opera è il titolo, quasi sempre una citazione; ma ce ne sono molte altre; e alla fine del tentativo di decifrare, si resta spesso con l’impressione di non averle avute tutte in mano. Del resto una delle citazioni-titoli suona così: “Non è un cattivo segno per una storia, se la si capisce soltanto a metà”.

Per esemplificare tentiamo l’interpretazione di un’opera, quella intitolata: “…non le sarebbe apparso come un demonio, se alla sua prima apparizione non le fosse sembrato un angelo”. Questa è la frase sublime con cui finisce il racconto La Marchesa di O… di Heinrich von Kleist; l’opera illustra, con i due cigni bian-chi o neri a seconda della visione anteriore o posteriore, un momento centrale e simbolico del racconto, quando il conte F. riferisce di una sua allucinazione in cui confonde la donna amata, la marchesa O., con un cigno e in cui ricorda come “una volta s’era divertito a buttare del fango sul cigno, il quale si era tuffato silen-zioso nei flutti, per riemergere di nuovo candido”; questa immagine simboleggia la condizione della marchesa di O., che, violentata durante un lungo deliquio dal conte, risulta “infangata” e pura nello stesso tempo; i due lati dei cigni rappresen-tano questa dualità, ma anche la dualità angelo-diavolo; anche i sassi lisci, lucidi e neri possono riferirsi al dilemma purezza-impurità, luce-buio. Mentre il legno

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scuro con quel nodo-occhio porta, entro la luminosità dell’immagine, l’ombra che sovrasta anche tutto il racconto, la passione naturale, il diabolico. Ma c’è an-cora molto di più, poiché le piante lacustri che completano l’immagine, e non sono nel racconto ma inventate dall’autrice, richiamano alla memoria la morte di von Kleist, quel suo suicidio così “poetico” e tragico attuato insieme all’amata sulle sponde di un lago. Il tutto dato in una attenuazione cromatica che, pur nel forte contrasto bianco dei cigni / nero dei sassi, dà all’immagine come una patina, o atmosfera, di cosa sognata.

L’opera di oggi rende perfettamente, e modernamente, il significato profondo dell’opera romantica, basato sulla duplicità-dialettica della natura umana e dell’a-more, e attua così quel trasferimento, quella configurazione, dal romanticismo a noi, che mi sembra appunto la radice segreta e nuova del lavoro dell’artista. In pa-rallelo però a questa lettura, che richiede la conoscenza del racconto di von Kleist e della sua vita, c’è la lettura diretta, quella che coglie l’immediato fascino poetico dell’immagine, degli oggetti, il rapporto tra le varie materie, il “lavoro” della luce, la sorpresa che nasce dall’accostamento tra realtà e surrealtà e, nel totale, l’atmo-sfera poetico-fantastica dell’opera. Resta alla fine il sospetto di non aver esaurito del tutto il chiarimento, e che siano possibili altre letture o altri frammenti di lettura.

In ogni sua applicazione la critica, come la psicoanalisi, è “terminabile e in-terminabile”, ma qui più del solito, per ragioni inerenti alle opere, con tutto il loro corredo di immagini mescolate, di rapporti cercati e intuitivi, a volte perfino casuali, di luce che col variare della fonte e della natura (solare o artificiale) fa variare il significato. “Sento che nel mio lavoro c’è qualcosa che andrà perduto, proprio come vanno perduti i sogni meravigliosi. Bello sarebbe poterli trarre alla luce; ma forse questo è illusorio”; così dichiarava Joseph Cornell, il grande artista americano, la cui ricerca, pur con tutte le diversità di natura, origine, intenti e poesia, a volte non è lontana da quella di Chiara Briganti. Le opere di Chiara dei

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sogni hanno spesso l’atmosfera incantata, la difficoltà di interpretazione, il po-tere di condensare e di parlare per simboli, di creare uno spazio immaginario, di abolire, o sovvertire, il tempo. Sullo schermo che esse ci presentano può nascere a volte il senso “perturbante” che si accompagna all’apparizione dell’inconscio; come nell’opera che ha per titolo un frammento di frase di Friedrich, non dissimi-le da quella di Cornell, “…fa emergere alla luce quanto hai visto nella tua notte”; opera formata da nove elementi, in tre dei quali, disposti trasversalmente, sembra di assistere al processo, misteriosissimo fra tutti, del passaggio di un’immagine attraverso il filtro, faticosamente vinto, della censura, rappresentata qui da una grata di prigione.

Per ognuna delle quarantasette opere della mostra possono in tal modo molti-plicarsi il piacere della visione abbandonata, il fascino sottile dell’interpretazione, la lieve angoscia dei margini di incertezza e di mistero. Il visitatore dunque si prepari a un viaggio nel meraviglioso, attraverso il sentiero dei reliquiari laici e onirici di Chiara Briganti.

Chiara Briganti, ex Convento S. Paolo, 20 settembre - 6 ottobre 1979

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Lorenza Trucchi

Chiara Briganti non dipinge, né disegna, crea delle scatole. Genere di piena attua-lità. Il revival del dadaismo e del surrealismo, che per primi portarono il ready-made e gli oggetti quotidiani sul piano dell’opera d’arte, e l’aumento nella nostra società consumistica di ogni tipo d’imballaggi e di contenitori sono senza dubbio tra i maggiori incentivi alla proliferante produzione di scatole verificatasi in que-sti ultimi anni nelle arti figurative. Ma vi sono anche ragioni più sottili, di caratte-re psicologico. Torna, ad esempio, a galla l’analisi di Freud sul Caso Dora: la borsa e la scatola come figurazione della “conchiglia di Venere” e, in parallelo, come ritorno al grembo materno. Inoltre, la scatola con il suo spazio chiuso, protetto, dove radunare memorie e oggetti affettivi o dove svolgere delle brevi azioni come in un provatissimo palcoscenico, sarebbe espressione tanto di desideri inappagati e di nostalgie represse quanto di un bisogno d’ordine, di delimitazione, di occul-tamento protettivo.

Insomma, come ha spiegato Roland Barthes nel suo Impero dei segni, ogni sca-tola joue au signe, vale cioè “per quanto nasconde, protegge e ciò nonostante indi-ca”. Anche la mise en boîte della Briganti può dunque essere letta come un test del quale la stessa artista ci ha dato la chiave… “Vi fu un tempo della mia vita, molto felice, in cui i miei sogni erano in colore”. Ebbene tutti i sogni a lungo repressi, tanto da non trovare neppur più il drenaggio dell’onirico, sono condensati e rac-chiusi in questi contenitori di aria e di luce che nel loro delizioso ed inquietante insieme finiscono appunto per essere un unico “lungo sogno diviso in capitoli”. Del sogno mantengono l’aurea magica e struggente, la vaghezza della dimensio-ne spazio-temporale, l’enigmaticità della rappresentazione che i titoli, per lo più raffinate citazioni letterarie, non riescono a svelare del tutto.

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Stilisticamente le scatole della Briganti si diversificano dalla maggior parte de-gli artisti contemporanei (Cornell in testa) per la preziosità dei materiali usati, la nettezza miniata dei dettagli, il gusto degli effetti speciali (lucciole, neve, pioggia, arcobaleno) e l’impaginazione spesso scenografica, da teatrino di corte. Ma nati da un’irrefrenabile pulsione dell’inconscio sia pure corretta e sorretta dal piacere di fare e di fare sorprendentemente bene, nei teatrini di Chiara non leggeremo mai dei veri racconti, ma piuttosto dei sentimenti.

Chiara Briganti, L’esprit de curiosité ou les contenants du rêve – boîtes-objets, collages et transparences, Centre

Culturel Français de Rome, l986, edizioni Carte Segrete

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Federico Zeri

Chi, per ragioni di lavoro e di mestiere, è obbligato a vivere in un perpetuo e incessante bombardamento di quadri, disegni, stampe, miniature, libri illustrati, fotografie, diapositive, avvisi pubblicitari, eccetera eccetera, finisce con l’alberga-re in sé una netta ripulsa verso le immagini, le decorazioni, gli ornati, siano essi dipinti, stampati o disegnati: viene cioè a coltivare un horror pleni, contrapposto nettamente all’horror vacui nel quale trova rifugio, aiuto e consolazione.

Da un’indagine risulta che, ad esempio, storici e critici d’arte mostrano una spiccata tendenza a recarsi in luoghi deserti (dune del Sahara, ghiacciai, tundre, isole disboscate) ad abitare in case dalle pareti imbiancate a calce, a costituire un arredamento in formica bianca, ad utilizzare piatti senza ornati, bicchieri lisci, lenzuola senza ricami. Nascosta e poco pubblicizzata, una siffatta forma di asce-tismo è tuttavia un dato innegabile. Anche i più tenaci e inflessibili ricercatori del silenzio visivo conservano però, in un angolo recondito della loro memoria, una sorta di privatissimo hortus conclusus, un rifugio personale e al quale si volgono nei momenti più tristi, come ad una camera segreta immune da coordinate cultu-rali, e dalla quale restano esclusi motivazioni, motivi e spinte professionali.

Debbo dire che io posseggo una piccola Wunderkammer del genere: accanto ad una tavola incisa con un fiore delle Antille, vi si trova un colossale piede in marmo di Cesarea Marittima, il tetto in legno di una Chiesa di Kolomenskoe presso Mo-sca, una lastra di marmo del Proconneso della Chiesa di San Salvatore in Cora a Costantinopoli, gli occhi di una bambola donati dalla fotografa Jeannine Le Brun, la copertina di un libro che appartenne al Re di Francia Enrico III, e, infine, le sca-tolette (come le chiamo io) di Chiara Briganti. Soprattutto ce ne è una, che Chiara, mia amica di antica data, mi donò molti anni fa, e che, munita di una esigua fes-

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sura, mi spinge, al solo ricordarla, verso la curiosità, anche inopportuna, e verso la scopofilia, verso cioè i più spericolati voli fantastici.

Su quelle che sono le origini dei prodotti di Chiara, il mio interesse è nullo: lascio ad altri di pronunciare e soppesare i nomi di Marcel Duchamp, di Man Ray, di Joseph Cornell, di parlare su temi quali surrealismo, fantasia onirica, e simili. Per me, e mi basta, ognuna di queste sottili, imprevedibili creazioni costituisce il punto di avvio per un romanzo (che non scriverò mai), per un racconto (che resterà alla fase gestatoria), per una lunga serie di domande tutte senza rispo-sta. Alle scatolette di Chiara sono debitore di uno dei più efficaci stimoli (parola brutta ma necessaria) che mi consente di evadere da un’esistenza, tutto sommato banale e monotona. Mi si consenta tuttavia di affermare che quel tanto di sedi-mento della memoria presente in Cornell (nome che si sente spesso pronunciare) diviene in Chiara Briganti il punto di partenza, lo spunto, l’avvio per quel che la memoria ricorderà molto più tardi. È anche vero che senza memoria non si può vivere, ma senza volare sulle ali della fantasia senza freni è impossibile sopportare il succedersi dei giorni, dei mesi e degli anni che ad una certa età sono prevedibili in ogni minimo particolare. Scriverò mai un romanzo? Chissà. Se lo farò, il mio debito verso Chiara Briganti e le sue immagini sarà enorme; se non altro per la eccezionale, sottile eleganza che le sostiene.

Chiara Briganti, L’esprit de curiosité ou les contenants du rêve – boîtes-objets, collages et transparences, Centre

Culturel Français de Rome, l986, edizioni Carte Segrete

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Chiara Briganti con Graziano GregoriFoto di Mario Dondero

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Ringraziamenti

Desidero ringraziare tutti coloro che hanno contribuito a realizzare questa mo-stra ed il relativo catalogo: innanzitutto il gentile ed efficientissimo Arialdo Ceri-belli, il “regista” e bravissimo scenografo Graziano Gregori, Vincenzo Farinella e Marco Vallora per le loro acute presentazioni.

Debbo molta gratitudine ad Antonio Gnoli che per primo ha avuto questa idea e a Federico Gnoli che con molta bravura ha condotto, tra vetri luccicanti, la complicata realizzazione fotografica, a mia figlia Barbara che sopportando le mie ansie, ha ordinato il numeroso e fragile materiale assicurandone la protezione; un ringraziamento infine a Mario Dondero per il suo contributo, a Giuseppe Riva per l’attenzione con cui ha rivisto il catalogo e a Marco Mazzoleni per la preziosa collaborazione.

Quanto al mio lavoro posso dire che è fatto della stoffa dei sogni, cucita con il filo dei ricordi e dei rimpianti. Ho chiesto agli scrittori ed ai poeti che ho amato nel corso della vita di aiutarmi a trasmettere ciò che desideravo esprimere attra-verso un sentiero segreto, misteriosamente silenzioso. Anche la luce con ombre e riflessi è stata, io penso, una buona mediatrice.

C.B.

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Indice

7 Vincenzo Farinella I “giardini incantati” di Chiara Briganti 11 Marco Vallora Jean-Jacques Rousseau: “Une longue rêverie divisée en chapitres.” con una poesia di A. Rimbaud 39 Opere

161 Chiara Briganti Lettera per Federico nel giorno del suo compleanno 167 Antologia critica

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