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CHI HA UCCISO DON SERAFINO?

ANNO 2007

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Chi ha ucciso don Serafino?

Giallo scritto da don Stefano

01. Il paese di Grattamisù

02. L’osteria

03. La canonica

04. Voci nella notte

05. Il benvenuto

06. Il toro

07. I duchi di Pratofiorito

08. Il giorno del Signore

09. Le paure dell’avaro

10. Occhi nella notte

11. Ricordi dolorosi

12. Il mercatino del venerdì

13. La sfida

14. La casa sul fiume

15. Una lettera da Napoli

16. Il duca di Pratofiorito

17. Il castello

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18. Un pranzo cordiale

19. La cappella del castello

20. L’avvertimento

21. La verità uccide

22. Un’idea

23. Lo scopone scientifico

24. La rivincita

25. La sagra dei morti

26. La cattura

27. Sussurri e grida

28. La quiete dopo la tempesta

29. Un figlio ci è stato donato

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Capitolo 01

Il paese di Grattamisù

Grattamisù è un paese piccolo sulla sommità di un monte, direi quasi come in una antica canzone, “sul cocuzzolo della montagna”, incastrato tra le rocce. Le case addossate le une alle altre, quasi artistico presepe, fanno corona all’unica chiesa del paese che domina sovrana sulla piazza, luogo di ritrovo per la domenica pomeriggio. Un bar con qualche tavolino all’esterno e delle sedie di paglia, segno che il tempo è passato anche lì e poi è fuggito via.

Un campo di bocce alla periferia della grande piazza, quasi nascosto, vede gli uomini gareggiare per un bicchiere di vino e bestemmiare quando il colpo non va a segno.

I pochi giovani rimasti nel paese, seduti sulla sommità dell’an-tica scalinata che dal sagrato conduce alla piazza, chiacchie-rano di calcio, di lavoro e di ragazze e di un futuro che là è più incerto che altrove. Un sentiero di pochi chilometri consente la discesa nella valle dove tra campi scorre un fiume quasi sempre in secca e un ponte ultracentenario e a stento affida-bile ti consente di giungere all’altra riva. E’ il ponte del Dia-volo, perché nel passato un uomo si era là impiccato.

Una strada solitaria, tra filari di alberi secolari ti porta alla vi-cina stazione ferroviaria. Una sala con quattro sedie e una cas-sapanca, la casa cantoniera, il passaggio a livello quasi sempre incustodito, tre vacche che pascolano in lontananza. Ed è là che ferma per pochi minuti il treno sgangherato su cui ho viaggiato.

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E’ l’imbrunire. Uno spettacolo meraviglioso e strano per chi ha sempre vissuto in una grande città numerosa e caotica. Un senso di tristezza e forse di paura mi assale. Giorni nuovi e sereni mi aspettano. Poi una domanda bruciante: ed ora?

Il casellante è un uomo maturo, quasi completamente calvo, un naso più grosso del solito, particolarmente magro. Mi av-vicino sperando che capisca il mio parlare. Chiedo se il paese è molto lontano e se c’è qualche mezzo, un auto per esempio, che mi possa portare lassù. Sono don Stefano, il nuovo par-roco. Mi guarda sorpreso. Non capisco se è perplesso per l’abito borghese che porto oppure per la mia corporatura massiccia e la bocca quasi sdentata.

- Lieto di conoscerla, signor Curato, se vuole io e mio fratello le daremo un passaggio fin su la piazza. Portiamo un carro di fieno per i cavalli di don Giuseppe, per gli amici Pizzicasem-pre.

Un pensiero mi fulmina: donne o leccornie? Quasi avesse letto nel pensiero continua: -Lo chiamano così perché litiga sempre e sempre le prende.

L’idea di fare un viaggio su un carro di fieno non mi sorride ma non ho alternative. E allora lo seguo. Il carro è pronto per la partenza. A cassetta c’è Remo il fratello del casellante, qual-che anno in meno e qualche capello in più. Cicciotello e pa-cioccone. Due buoi pezzati tirano il carro. Sarà davvero un’av-ventura salire sul fieno. Sono in preda al panico. Con queste gambe sarà impossibile. Eppure ora sono sul fieno. Hanno abbassato lo sportello posteriore e mi hanno tirato su. Dimen-

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ticavo, c’era anche una sedia traballante su cui son dovuto sa-lire. E mentre mi tiravano prendendomi per i fondelli, non ci giurerei, ma ho sentito una bestemmia. Forse mi sono sba-gliato. In lontananza due donne apparse all’improvviso dai campi vicini ridevano di me a crepapelle.

Come inizio non è male! E camminando, più volte, si son fer-mate a guardare e a ridere, ridere, ridere!

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Capitolo 02

Nell’osteria

Lentamente il carro si muove. Remo fischietta. Seduto su una balla di fieno mi guardo intorno. Alberi secolari rendono il sentiero abbastanza stretto. Ed il dondolio del carro è così dolce che devo farmi violenza per non addormentarmi. Si sta facendo buio. E nella mia immaginazione gli alberi si animano e minacciosi agitano i loro rami. Un fruscio di foglie mosse da un vento forte che a tratti si riposa, sembra dirmi: Non era meglio a Napoli?

In lontananza c’è il ponte del Diavolo. Per un attimo mi è sembrato di vedere in alto, volteggiare su di esso, un essere alato dalla lunghissima coda. Ma è solo un’allucinazione, nata dalle mie paure. L’abbaiare di un cane si fa sempre più vicino e gli occhi che ormai si abituano al buio hanno intravisto, al termine del ponte, una baita di lamiere contorte, cartoni e pa-glia, una squallida abitazione per una giovane donna, incinta, e il suo giovane uomo. Ci guardano, si avvicinano e chiedono. Sono Rom. Zingari! Anche qui? La donna è carina e cosa ab-bastanza strana ha un incedere regale.

Al nostro rifiuto l’uomo abbraccia la donna come a proteg-gerla e ritornano lentamente a quella miserabile abitazione se-guiti dal cane che continua ad abbaiare. E mentre i due fratelli imprecano contro i forestieri perché ladri e sfaticati, il carro incomincia a salire per il sentiero che ci porterà al paese, in alto.

Finalmente, ormai è buio, quasi notte, sulla piazza fiocamente

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illuminata scendo. Anche questa volta sono stato aiutato. La sedia della vicina cantina, le mani callose di Remo e del fratello e due grossi giovanottoni un po’ alticci mi hanno consentito di mettere piede sulla terra ferma.

- Mi sa indicare dove la canonica?

Sono stanco e ho voglia di dormire. Non c’è vita all’intorno. Poche finestre illuminate parlano di famiglie ancora deste. Forse cenano? E la domanda risveglia in me un dolorino allo stomaco. E’ fame. Troverò qualcosa nell’osteria? La signora che si attarda tra stoviglie da lavare e rimasugli di cibo da por-tare ai porci è gentile, soprattutto quando sente che sono il nuovo curato.

Una tovaglia fresca di bucato è stesa con prontezza su un ta-volo. Pane paesano da tagliare a grosse fette. Un’ampolla di vino rosso, generoso e sul piatto salumi e formaggi locali. Ho mangiato con avidità e ho bevuto così velocemente che parte del vino mi è colato sul mento. Ottimo, dico. Davvero ge-nuino! E così nasce un’amicizia.

- Sigi! strilla la donna, quando ho finito di cenare e dal retro-bottega entra Sigismondo, uno dei suoi otto figli, il più pic-colo, ventenne, occhi intelligenti e vivaci.

- Accompagna il signor Curato alla canonica, le chiavi le chiedi ad Eufemia.

E quando Sigi mi mostra dov’è la canonica impallidisco. Len-tamente mi segno e appoggiandomi a lui incomincio a sa-lire…uno, due, tre, quattro…cinquanta, cinquantuno. E’ ve-ramente la via crucis.

Respiro a stento. Dovrebbe mettersi a dieta, padre! Lo guardo

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e lo odio! Anche tu?

E mentre gli occhi scoccano dardi infuocati che se fossero veri avrebbero fulminato all’istante l’incauto, un pensiero mi gela il sangue nelle vene: I bagagli, mio Dio, i bagagli! E mi appaiono accanto alla vecchia cassapanca, nella sala di attesa della stazione! Li troverò mai?

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Capitolo 03

La canonica

Seduto su un piccolo muretto tra due grosse piante, vicino al portale seicentesco della chiesa, nel buio appena squarciato da un pallido raggio di luna, con la testa appoggiata al muro penso a quanto accaduto nella giornata e mi dò del buono a nulla.

Sono senza forze e stressato, preoccupato per questa nuova vita che ho voluto, respiro affannosamente, desidero un letto per dormire, le vene delle tempie pulsano selvaggiamente, i bagagli sono stati dimenticati altrove. Perché dunque son ve-nuto solo? Se mi fossi fatto accompagnare come mi era stato proposto da buoni amici, tutto questo non sarebbe accaduto. Ora assaggerei il candore delle lenzuola e dormirei serena-mente.

E mentre mi dò dell’inetto, ritorna Sigi con la chiave della ca-nonica e dei ceri. Stupore nel vedere la chiave. E’ quella che tranquillamente si può custodire nella tasca dei pantaloni, trenta centimetri di lunghezza e mezzo chilo di peso. E nel guardare i ceri domando a che serviranno.

- Nella canonica non c’è elettricità! La fornitura è stata sospesa pochi giorni dopo la morte dell’ultimo parroco circa tre anni fa.

- E chi vi ha spezzato il pane della parola di Dio, in questo tempo?

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- Don Luigi Gambacorta il parroco del paese vicino Gratta-migiù! Non lo amiamo molto, non perché sia balbuziente ma perché ha le mani lunghe. In giro lo chiamano l’Afferratutto!

Incuriosito incalzo con le domande mentre la chiave scende nella toppa e sono accesi i due grossi ceri. Il pesante portone della casa canonica si apre lentamente. L’ingresso è piccolo con un attaccapanni. Sento l’odor di chiuso che certo non è piacevole e un grosso disagio interiore.

E voce d’oltretomba, inattesa, rompe il silenzio:

- Le camere sono a destra, a sinistra è lo studio dell’ultimo curato. E’ qui che è stato strangolato. Un caso insoluto. Non hanno rubato niente. Lo abbiamo trovato seduto alla scrivania con la testa riversa all’indietro.

E continua Sigi, a parlare, ma io non ascolto. Incapace di sen-tire, incapace di capire. Qualcosa mi soffoca. Sarei caduto se le braccia pronte del mio accompagnatore non mi avessero prontamente sostenuto e non mi avessero accompagnato all’interno aiutandomi a distendermi sul letto e mentre ho perso i sensi, la porta è stata chiusa, i passi si sono allontanati e ora sono solo in questa casa che forse cela diversi misteri. La notte è a metà del suo corso.

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Capitolo 04

Voci nella notte

Il sonno è pesante ed è pieno di incubi. Il ponte dell’impiccato e il diavolo che sogghigna, odioso burattinaio che muove i fili di molti poveracci, il prete strangolato che si alza dalla scriva-nia e sedendosi sul mio letto, ridendo, gira la testa al contrario. Remo e il fratello che entrano nella stanza portando una cassa da morto e guardandomi esclamano-

- Neanche una notte è lo hanno già ammazzato. E poi rintoc-chi nella notte, lenti e solenni, funebri e un urlo, un grido, una risata, un pianto. Qualcosa di indecifrabile.

Mi sveglio sudato e impaurito. Il bagno, dove è il bagno? Ecco, è la cucina! Si, questo è il bagno! Oh no! La porta dà sul giardino. Luci deboli e fioche a terra, un po’ ovunque! Mio Dio è il cimitero del paese. Le ombre nere si ergono lenta-mente dai sepolcri, si alzano nell’aria, si avvicinano, si allonta-nano, si avvicinano ed è una danza vorticosa intorno a me è il grido strano risuona nuovamente nell’aria. E’ la civetta che canta, mi diranno domani.

Il bagno, dove è il bagno? Finalmente. Mi asciugo il sudore e ritorno a dormire. Non ho più forze e io che volevo giorni sereni. Ora il ponte dell’impiccato è solennemente addobbato a festa con mille bancarelle colorate sui due lati. E tu cammini e guardi, sospiri e desìderi. Seduto dietro una bancarella un omone grasso e grosso con una lunga barba rossiccia e occhi fosforescenti grida ai passanti:

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- Cornetti, cornetti ballerini, comprate, comprate.

E i cornetti si alzano in piedi, una lunga fila che balla il can-can cantando all’ unisono: siam belli, siam gustosi, di crema appetitosi. E tu allunghi la mano per prenderli ed essi ti sfug-gono ridendo, saltando, ridendo, cantando: siam belli, siam bellissimi, gustosi, gustosissimi. E un fiume di panna scorre sereno sotto il ponte mentre il cielo minaccia una pioggia ab-bondante di struffoli. Mi giro e rigiro, il canto del gallo mi dice che è l’alba. E’ ora di alzarsi!

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Capitolo 05

Il benvenuto

Per qualche giorno non celebrerò. Desidero prima ambien-tarmi, conoscere il paese e la sua gente, mettere ordine in que-sta che è la mia nuova e forse ultima casa della mia vita, siste-mare diversamente lo studio poiché così com’è mi ricorderò spesso del curato strangolato e nel pensare a lui istintivamente la mia mano tocca la mia gola.

Nel pomeriggio entrerò in chiesa per vedere se c’è tutto l’oc-corrente per una celebrazione dignitosa dei sacramenti. Poi mi assale il pensiero dei bagagli lasciati nella stazione. Li tro-verò?

Immerso in tali pensieri mi dirigo verso il giardino che questa notte mi ha alquanto terrorizzato. E’ una vasta distesa di terra con mura perimetrali. Tombe ornate di fiori e di ceri ma anche alberi e piante stupende. Ma non ho intenzione di guardare altro. Sento solo l’aria del mattino, dolce e pura e i ricordi mi assalgono. Sono le stesse sensazioni che provavo a venti anni quando con un prete cieco e un amico di seminario scendevo da Opi, un paesello come questo, a Val Fondillo. Una lunga strada, sotto un sole che solo a tarda mattinata sarebbe diven-tato cocente, ridendo e scherzando di amici e superiori, strada che gradualmente ti immetteva in una terra solcata da un fiu-miciattolo d’acqua corrente, fredda, quasi gelata, ma pura e sassi taglienti. Un prato sulle due rive con moltissimi campeg-giatori provenienti anche dall’estero. E ti sentivi parte viva di un universo stupendo. Si, questa mattina l’aria è la stessa ma

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io non ho più vent’anni! Solo una gran voglia di caffè, una buona e bollente tazza di caffè.

Qualcuno bussa? Qualcuno entra, la porta questa notte non era stata chiusa. E’ Eufemia, la donna che aiutava anche don Serafino, l’ultimo parroco. E’ corta, magra, con una grossa coda di cavallo nera, e una gobba abbastanza pronunciata.

Reca un vassoio, e meraviglia, un caffè generoso, un bricco col latte e una fetta di panettone casalingo, quello duro che ho mangiato in gioventù e che mai più ho poi gustato. Dietro bela una capra o un capro! Dovrò imparare!

Fortuna inaspettata. Desiderio prontamente esaudito.

- Grazie, cara.

Insieme a lei esco sul sagrato. Ora dall’alto il paese rivela tutta la sua bellezza. Una piazza quasi circolare e dei vicoli che por-tano altrove: un bar, c’è anche un jukebox, una farmacia, un caseificio, l’osteria col pergolato e i tavolini, due contadini che bevono un bicchiere di vino campagnolo e il comando dei carabinieri. Chiederò loro se possono portarmi i bagagli.

Scendo lentamente badando a non cadere. Non vorrei pro-prio.

- Buongiorno, signor Curato!

Sono i due Rom, Josip e la moglie incinta. Il cane è poco lon-tano.

- Noi, senza lavoro. Noi, bisogno. Noi aiutare in chiesa!

- Ora non è possibile!

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- Dare tu moneta?

E come sempre nella mia vita, la moneta passa dalle mie mani nelle sue.

Tre uomini in divisa escono dal Comando. Sono meridionali. Dall’accento, uno, il maresciallo, mi dirà che è napoletano, anzi del borgo, confessando di aver da piccolo giocato a pal-lone sul sagrato di s. Antonio abate e di aver anche suscitato più volte la mia ira. Ma io non ricordo.

- La vita, qui, è monotona, concordano i tre. L’ultimo delitto tre anni fa, ma noi non c’eravamo. E’ da poco che ci hanno trasferito. La giornata è insopportabile e le ragazze non ci guardano neanche, e scattando sull’attenti mi lasciano con:

- Reverendo se ha bisogno di noi, ci chiami. A sua disposi-zione.

In lontananza un carro col fieno e sempre canticchiando Remo, solo questa volta. Sul carro insieme al fieno le mie va-lige. Gioia profonda. Un abbraccio quasi ci conoscessimo da sempre e poi

- Gliele porto sopra io.

Infine nel bar a offrirgli un caffè. Era doveroso.

- Mi chiami se ha bisogno di me!

La trattoria, a mezzogiorno, è quasi piena di avventori. Sono operai stagionali dei campi vicini. Molti motorini ma senza catene.

Entro anch’io. Il sorriso amichevole della proprietaria, Betta, l’occhiolino di un altro figlio, Ottavio, che è però il settimo,

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un cenno con la testa di uno sconosciuto, mi accolgono.

- Buongiorno, padre. E’ Sigi che porta del buon vino a un tavolo dove si ride a squarciagola.

- Desidera? La voce mi colpisce. Alzo gli occhi e guardo. Stu-pore immenso davanti a tanta bellezza. La ragazza non ha niente da invidiare alle attrici più belle del cinema odierno. Bionda, occhi luminosi con riflessi dorati, lineamenti gentili e ogni altra cosa debitamente proporzionata. Non si direbbe proprio che Bella, è il suo nome sia anch’essa figlia dell’ostessa.

Bella è bella e corteggiata, saprò in seguito dalle linguacciute zitelle del posto.

Tagliatelle al sugo con piselli e funghi porcini, arrosto di vi-tello e patatine fritte. Un vinello gustoso. Mi sento un re.

- Cosa devo? Domando.

- Nulla. E’ il nostro benvenuto.

Bella! ma quanto sei bella!

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Capitolo 06

Il toro

Dall’alto del sagrato si domina il paese. La piazza è deserta. L’auto dei carabinieri è parcheggiata davanti al Comando. Lentamente scendo, non tanto spinto dal desiderio vespertino del solito caffè quanto dal desiderio di incontrare qualcuno per fare quattro chiacchiere.

Quando finalmente sono al bar vedo dal Comando uscire e il maresciallo e i suoi due accoliti. Salutano e chiamano.

- Padre, nella fattoria di Bastìa Gambacorta, il fratello di Af-ferratutto, mi scusi, non avrei dovuto, di don Luigi c’è stato un incidente mortale. Un toro ha ucciso sua moglie. Fanny, la francesina.

- “Chi di corna ferisce, di corna perisce”, aggiunge a mezza voce uno dei carabinieri, mordace come tutti quelli di S. M. Capuavetere, e l’altro aggiunge: “povero ‘o chinu e corne.

Ammutolisco!

Vuol venire, Padre, son cose che qui accadono molto rara-mente, e così, su un auto veloce, a sirene urlanti, passando per il campo di bocce giungiamo ad una amena pianura, attraver-sando prima un sentiero acciottolato e poi una strada asfaltata non molto larga. A sinistra c’è la fattoria del Pizzicasempre, a destra, la fattoria d’ ‘o chine e corne.

Il cancello è spalancato. Un uomo cerca di contenere i curiosi che vorrebbero vedere, un altro ci invita a recarci sul luogo

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dell’incidente, ma il maresciallo vuol prima parlare con don Bastìa.

- Perché tanta fretta? La signore è morta e il toro è stato am-mazzato.

Nello studio del fattore un uomo elegante nel vestito, anche se abbastanza sgualcito per l’accaduto, istruito nel parlare, sconvolto siede con il volto tra le mani. Singhiozza tanto da intenerire i cuori, anche i più duri. Quanto dolore, penso!

- Ci racconti, come è successo, sig Bastìa.

A stento, quasi balbettando, racconta:

- Non riesco ancora a crederci. Il toro è stato sempre man-sueto. Oggi siamo entrati nel recinto, come al solito. A un certo punto ha assalito Fanny. Non so cosa gli sia preso. Sem-brava impazzito. L’ho abbattuto a picconate. Ma per lei non c’era più nulla da fare. L’adoravo, la mia Fanny. Come potrò vivere senza di lei. Ormai la mia vita non ha senso. Sono solo. E giù lacrime, tante.

- Ragazzi, andiamo a vedere.

La donna è a terra in un lago di sangue, la schiena squarciata. Il toro è più in là, abbattuto.

Alcune lettere sono poste accanto al cadavere e foto sono scattate nel silenzio quasi irreale. Solo un giovane uomo lon-tano piange amaramente ed io, nella mia cattiveria penso. Sarà l’ultimo?

Ciò che vedo però non mi convince.

- Maresciallo, venga.

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- Dica.

E sottovoce, molto sottovoce, indicando la donna e il toro faccio notare una incongruenza. Se il toro si fosse accanito sul corpo di Fanny fino a farne scempio avrebbe dovuto avere tutto il muso e parte del corpo ricoperto di abbondante san-gue. Invece, guardi, sull’animale c’è ben poco. Poco sangue fuoriuscito dalla fronte per la picconata e poche gocce sulle corna. Bastìa ha mentito. Non è un incidente ma un delitto.

Mi guarda meravigliato e sorpreso il maresciallo:

- Ha ragione.

Uno dei suoi uomini viene lasciato sul luogo del delitto per vigilare e con l’altro ritorna nell’ufficio di don Bastìa.

- Signor Bastìa, basta con le commedie. “L’ha ammazzato lei” e ammanettatolo lo conducono via.

Sono certo che nell’intimo il maresciallo gongola e starà can-tando: Un delitto! Un delitto è meglio di un incidente.

Non mi è consentito usare la macchina per il ritorno.

- Madonna del Soccorso, invoco, mandami un pronto soc-corso. Poi preciso. Ho detto “un pronto soccorso” non “al pronto soccorso”. E mentre preciso, dalla fattoria di fronte, quella per capirci del Pizzicasempre, una voce chiama: Salga, Reverendo, la riporto a casa. Questa volta sono a cassetta e mentre cammino mi sento nel selvaggio West, la diligenza corre, i cavalli son frustrati duramente perché corrano ancora di più, Remo guida insultandoli ed io col fucile Winchester 95 sparo. Un colpo dopo l’altro e nessuno più ci insegue. Poveri Sioux.

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Dopo due ore eravamo nella piazza ed è ora di cenare. I pochi avventori dell’osteria sanno già tutto. Ormai sono famoso. Sul tavolo una bottiglia di vino bianco e Sigi fa l’occhiolino: Com-plimenti, ispettore. E tutti ridono a crepapelle.

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Capitolo 07

I duchi di Pratofiorito

Domani è domenica e non posso non celebrare. E’ pertanto importante che io visiti l’intera chiesa per assicurarmi che ci sia tutto per una celebrazione dignitosa dell’Eucarestia. Verrà certamente tanta gente.

Dalla canonica alla sacrestia il percorso è breve: tre gradini da salire e sei in chiesa.

La sacrestia è ampia con mobili antichissimi che farebbero la gioia di un antiquario.

Sulla parete principale, trovo difficoltà nell’esprimermi, l’ar-madio per i paramenti contiene quanto serve per i sacramenti, roba antica e vecchia di nessun valore, ma le porte sono intar-siate, la moltiplicazione dei pani e la guarigione di un sordo-muto. Guardo tutto ammirando l’arte di questo sconosciuto ebanista del passato. E ricordo il papà di mio padre. Anch’egli grande scultore di legno e i mobili che le mie zie vendettero per pochi centesimi: la grande tavola tonda su un’aquila con le ali spiegate. Stupide veramente.

Su un’altra parete un crocifisso grande di nessun valore arti-stico, un inginocchiatoio per le confessioni, un tavolino per scrivere qualche nota, e in fondo uno sgabuzzino. C’è un ba-gno molto mal ridotto, ripostiglio di vasi per gli addobbi ma-trimoniali e una robusta fune per suonare le campane. Il cam-panile? Già, il campanile! Dovrò pur visitarlo qualche giorno.

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E ora che ricordo, in questi giorni non ho mai sentito le cam-pane e nessuno si è ancora lamentato.

La chiesa è a croce greca. Dall’altare guardo e ammiro in alto il cassettonato del seicento, direi quasi in ottimo stato, con la gloria di san Pantaleone, il protettore della parrocchia. Statue di santi a me sconosciuti e due cappelle. Guardiamole. Quella a sinistra è una cappella funeraria perché ci sono le tombe. Ed è qui incuriosito che mi fermo a guardare con particolare attenzione: sono sepolti i notabili del paese.

Sulla parete di fondo c’è la tomba dei duchi di Pratofiorito, i signorotti di una volta. Un’ urna di marmo rossiccio sormon-tata da un angelo seduto con una spada sguainata. Un angelo vestito da crociato? In alto uno stemma gigantesco, memoria di glorie passate. Una banda trasversale azzurra in campo-bianco, con in alto una quercia con leone rampante e in basso tre anfore, Ai quattro lati del sarcofago quattro angioletti in marmo bianco scolpiti in pose varie con delle chiavi in mano. Una chiave nel primo, seduto con le ali chiuse, due chiavi nel secondo inginocchiato con le ali aperte, tre nel terzo sdraiato con ali appena accennate, quattro chiavi accanto all’ultimo in piedi.

A destra una gigantesca lapide racconta in latino che è sepolto il fondatore del ducato, duca Alberto di Prato fiorito 1624 1668 e parla dei suoi discendenti. Tutti sepolti in questa cap-pella. E guardo e leggo. Saranno stati nobili ma anch’essi dor-mono, dormono come tutti i mortali come dormirò anch’io un giorno.

Del sarcofago mi ha colpito la bellezza del marmo rossiccio, veramente puro e soprattutto la larghezza. Chi è stato sepolto

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in quel loculo doveva essere abbastanza grande di corpora-tura, soprattutto le spalle mi sembrano esagerate.

- Buongiorno, signor curato. E’ Eufemia e la sua capra. Il vas-soio è tra le mani.

- E’ bella la nostra chiesa, vero? E’ antica. Qui giacciono gli antenati dei signori di Pratofiorito. L’ultimo duca vive in un castello a tre chilometri dal paese, gli faccia visita qualche volta. Ha due figli, Rossana e Alberto, il secondo. Sono pro-prietari di una cava di marmo e di un grosso negozio di cera-miche nel vicino paese di Collefiorito. Rossana è dolcissima, ma Alberto è irrequieto. Ora è all’estero.

E mentre Eufemia racconta quasi contenta di sparlare rien-triamo in casa, in cucina. Il vassoio è appoggiato sul tavolo, ma la fetta di torta è già sparita. Del caffè non c’è più traccia. Ingordo.

- Permesso? Posso?

E’ il sindaco di Grattamisù.

- Che onore, la visita del primo cittadino.

- Son venuto a salutarla e mi scuso per non essere venuto prima. Sa, gli impegni, il lavoro. C’è tanto da fare anche al Comune.

- Si segga. Eufemia, cortesemente, porta un caffè al Sindaco.

Ed Eufemia si allontana e per la prima volta mi accorgo che zoppica anche. OH!

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Capitolo 08

Il giorno del Signore

Giorno di riposo e di santità! Ricordo un canto catecumenale che così descrive la bellezza della domenica. Sul sagrato c’è già gente in attesa della celebrazione, l’unica.

Qualcuno fuma, le donne chiacchierano. Tutti vestiti a festa. Filiberto e Fiodoro, i due quattordicenni figli del farmacista, il dottor Stillaveleni, due gemelli dai capelli biondi e occhi az-zurro mare, vivacissimi e intelligenti, nello sgabuzzino, attac-cati alla corda fanno volare le campane. Quasi volteggiano e i loro rintocchi cantano la vittoria di Cristo sulla morte.

Quando in chiesa, prima della celebrazione il dottor Stillave-leni e la moglie si presenteranno a salutare, non potrò fare a meno di pormi una maliziosa domanda. Avrò la risposta più tardi quando contemplando l’assemblea mi accorgo che la si-gnora farmacista, donna di classe, guardi più volte e timido è il sorriso, un uomo della sua stessa età che risponde a sua volta con un sorriso complice. Eufemia mi confermerà nei giorni successivi che i due hanno una tresca e i gemelli sono la dol-cissima conseguenza. D’altra parte tutto il paese ne è a cono-scenza. Credo anche lui, lo Stillaveleni, lo sappia.

- E poi se non ci fossero queste cose la vita sarebbe insoppor-tabile. Sapienza paesana!

Preceduto da Filiberto e Fiodoro entro. Il canto. Una ragazza in jeans, una chitarra e un bel gruppo di cantori. E la chiesa, non me lo aspettavo, gremita. Certamente venuti tutti più per

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la curiosità di vedermi che per altro. In un angolo l’ostessa Betta con la figlia Bella, sorridono! In prima fila il sindaco, grasso e panciuto più di me, con i suoi occhiali spessi e quel ridicolo codino alla moda, con la moglie, dallo sguardo as-sente, il farmacista con la moglie che guarda i figli con com-piacimento, il maresciallo con gli accoliti, abbastanza occupati a sbirciare le ragazze del coro, Eufemia con la sorella e la ca-pra, e poi Remo e molti altri che non conosco.

Il canto si innalza. Incomincio a parlare. Un applauso sottoli-nea i miei ringraziamenti, l’elogio del mio predecessore, don Serafino, l’invito a collaborare e poi fuori tutti sul sagrato in attesa del pranzo. I ragazzi sciamano lontano. Molti saluti e poi solo, con Eufemia e la capra.

I rintocchi di un orologio piccolo sulla facciata esterna e il mio appetito mi dicono che è ora di pranzo.

Sotto il pergolato dell’osteria sono stati preparati almeno venti tavoli e sono quasi tutti occupati. Le molte macchine parcheg-giate dicono che la trattoria è nota anche nelle vicinanze.

Mi seggo anch’io accolto da un “Buongiorno, padre, che bella predica, oggi”

E’ Bella che porge la sedia. Al tavolo acanto seggono una cop-pia con due bambini capricciosi e piagnucolosi. A un altro do-dici persone festeggiano un compleanno.

Si aggirano tra i tavoli anche Josip e la moglie. Il cane li segue ma non è solo. E’ una cagna ed è in calore. Un cliente visibil-mente infastidito incomincia a blaterare a voce alta contro gli stranieri, gli slavi, il governo, le tasse e il lavoro e si infervora tanto che se non fossero intervenuti Sigi e Ottavio certamente

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avrebbe malmenato il malcapitato mendicante.

Oggi ai tavoli servono Gianluca e Marianna, il terzo figlio di Betta e la moglie. Sul lungo marciapiede due bambini, uno di sette anni e l’altro direi di tre corrono su due biciclette. Quella del più piccolo ha tre ruote. Sull’ingresso, Bella, quasi urla:

- Non vi allontanate troppo, ragazzi, e tu Leoluca, rivolgen-dosi al più piccolo attento a non cadere, e avvicinatasi al mio tavolo mi chiede.

- Che desidera, padre?

- Il mio vino di sempre, ed un bicchiere solo, mi raccomando.

E poi, con aria complice, sussurro:

- Che bei bambini ha tuo fratello.

E Bella sorridendo precisa:

- Il piccolo, Leoluca, è mio! Ha quasi tre anni Ed è tutta la mia vita.

Sono sorpreso e lo ha capito.

- Non sono sposata, e sul volto cala un velo di tristezza. Con difficoltà accenna:

- Mi hanno violentata in tre e non so neanche chi è il padre. Tre sconosciuti. E si allontana con le lacrime agli occhi nel ricordo di un avvenimento che sarà indimenticabile.

Sono ammutolito ma, onestamente, l’appetito non è andato via.

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Eufemia conferma tutto raccontando con cattiveria altri par-ticolari, poi non capisco perché aggiunge in maniera sibillina: “un mese dopo don Serafino viene strangolato”.

Perché questa precisazione?

Mentre rimugino il tutto mi sdraio sul letto per riposare!

- Perché è stato strangolato don Serafino? Cosa ha visto? Cosa ha fatto?

Un balzo e sono in piedi (non ridete, vi prego) e più veloce del fulmine (beh, fatelo pure) sono nello studio a rovistare nei cassetti.

- Cosa cerco?

La scrivania ha visto giorni migliori. E’ malandata quanto me ma certamente non soffre alle gambe come soffro io. I cassetti sono accessibili. Non ci sono chiavi. Apro e chiudo: libri vec-chi e sgualciti, fogli intestati, penne che non scrivono, i timbri della parrocchia, agende vecchie. Apro l’ultima, pagina per pa-gina. Niente, nessuna nota di rilievo. Gli impegni soliti di un parroco.

E’ la volta della libreria. Non cito il titolo dei libri perché non interessa, ma in uno di uno scrittore inglese, “lo stupro e la vergogna”, c’è una busta ed in essa, impallidisco, una foto. E’ Bella ripresa su un prato verdeggiante, con una dedica: A te, che amo moltissimo. Nessun nome e tanti pensieri: don Sera-fino era l’amante di Bella? Strangolato, forse da uno spasi-mante rifiutato? E perché a suo tempo non è stata fatta un’ac-curata perquisizione dello studio?

Continuo a cercare ulteriori indizi. In questi libri ci sarà forse

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la soluzione del mistero.

Giù, nell’ultimo cassetto della libreria, in uno dei tantissimi libri, ma quanto leggeva quest’uomo? un biglietto. Sarà di don Serafino?

Tre nomi e due con l’interrogativo.

La vecchiaia deve avermi reso vile.

- Non voglio fare la fine di don Serafino. Chiudo la porta che immette nella sacrestia, quella che dà sul giardino. Le finestre e l’ingresso sono sbarrate.

Per questa notte dormirò tranquillo.

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Capitolo 9

Le paure dell’avaro

A Napoli ho sempre avuto un sonno leggero ma sereno. In questi giorni ho degli incubi, così veritieri da svegliarmi inzup-pato di sudore. Sono spesso mani che mi strangolano e il mio assassino è don Serafino che ride ed urla: La verità uccide.

Tornatene a Napoli, urlano nel sonno voci mefistofeliche. E poi è un correre per castelli tenebrosi, attraverso segreti pas-saggi e sotterranei bui e il demonio che ti corre dietro e mille colori assordanti: è la fine del mondo.

Ma grazie a Dio c’è l’alba. Il gallo canta e fuga le paure. Il giorno è nuovo. Sarà sereno.

Un bussare discreto ma deciso interrompe il mio pregare. Apro la finestra: è il maresciallo, Tommaso.

-Parroco, mi aiuti!

-Volentieri, che posso fare? Venga in cucina, poi passando al tu, dai, entra, mentre racconti, ti preparo il caffè.

-In piazza accanto alla farmacia vive da sempre Giuseppe Semprevivo, in un appartamento abbastanza grande nel quale non si può entrare per la sporcizia. Immagini, padre, che le domestiche dopo due giorni, tutte, si licenziano. Non è pos-sibile lavare i panni intimi e poi con l’acqua sporca lavare i pavimenti.

Eppure è un uomo ricchissimo, con un solidissimo conto in banca. Unico erede sarà un suo nipote alquanto scioperato,

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direi delinquente, che per un po’ ha vissuto con lui e poi dopo frequenti litigi e minacce si è trasferito altrove. Da alcune set-timane mi telefona più volte al giorno perché ha paura che il nipote lo uccida. Vorrei che lei gli parlasse per rasserenarlo e così rasserenerà anche me che non lo sopporto più.

E mentre racconta stiamo bussando alla porta del vecchio. L’androne è decisamente sporco. La porta sulla destra è pron-tamente spalancata. Ci aveva intravisto dalla finestra che dà sulla piazza. Un tugurio. Sulle pareti vecchi giornali tappez-zano le mura e un disordine così eccessivo da toglierti la voglia di sederti. E un odore nauseabondo.

- Commissario, entri. E anche lei, parroco. Mi aiutino. Mi vo-gliono ammazzare.

- Racconti. Perché è così sicuro di quanto dice?

- Ogni giorno un uomo giovane ferma sul marciapiede di fronte la sua macchina e poi per parecchio tempo guarda vero di me. Ho paura.

Mentre racconta visibilmente emozionato la porta rimasta socchiusa si spalanca e una ragazza carina entra presentandosi come la domestica, assunta il giorno prima per telefono

- Signorina, vada in cucina e prepari la colazione. Parroco, maresciallo, gradite un caffè?

- No, grazie. Il rifiuto è immediato e all’unisono.

Il maresciallo molto gentilmente ma alquanto infastidito cerca di rasserenarlo e anch’io.

- Alla nostra età la fantasia galoppa e vediamo nero dov’è bianco e ci tormentiamo inutilmente.

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Sul tavolo intanto è stato posto il vassoio con la colazione: latte bianco senza caffè e frutta a pezzettini.

Nel guardarlo il mio sesto senso mi avverte che qualcosa non quadra. Istintivamente mi fermo, additando il vassoio

- Don Giuseppe, per amor di Dio, non tocchi nulla, e poi ri-volto a Tommaso,

- Tom, con una scusa metti la domestica sotto custodia e manda qualcuno a prendere il vassoio. Deve essere analizzato. Don Giuseppe ha ragione, qualcuno ha tentato di avvelenarlo.

Mi guarda e obbedisce. Deve avere veramente molta stima di me.

In cucina sento un’accesa conversazione, poi Tommaso e la donna, bloccata fermamente dal suo braccio, si recano di fronte al comando mentre anch’io esco raccomandando al vecchio di non mangiare nulla perché la colazione è avvele-nata.

- Siete un genio. Dirà Tommaso, dopo che ha affidato la donna ai colleghi.

- Mi ha insospettito l’atteggiamento della domestica al suo primo giorno di servizio.

Una qualunque avrebbe chiesto cosa preparare. La donna sa-peva già cosa piaceva al vecchio. Era chiaro che qualcuno le aveva fornito indicazioni precise sui gusti del vecchio avaro, il nipote è chiaro.

E così era. Il piano sarebbe stato perfetto, se in quel momento non ci fossimo trovati noi. Uomo fortunato! A che serve ac-cumulare tanto se poi la tua vita non è dignitosa? - E poi,

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Tom, quell’uomo che ha impaurito il vecchio e che continua-tamene guarda nella direzione di don Giuseppe è solo un in-namorato che spera si affacci la ragazza del suo cuore.

- Ha ragione, parroco, al primo piano sulla farmacia, abita la prima figlia del farmacista, Shana. Questa è veramente sua!

- Maligno, taci!

E una risata, la mia che tutti voi conoscete, corre per la piazza, s’alza verso il cielo e fugge lontana alla cava di marmo dei du-chi di Pratofiorito provocando una frana. Nessuna vittima per fortuna.

Questa volta ad accogliermi sull’uscio dell’osteria ci sono tutti e ridendo salutano, inchinandosi: buongiorno, ispettore Cor-dier.

Sul tavolo è posta la tovaglia, quella buona, segno di deferenza per un’ospite gradito.

Chiedo a Bella, se vuole e non l’addolora, se vuole raccon-tarmi la sua storia.

Qualche istante e la risposta è decisa:

- Appena posso verrò a raccontarla. Mi aiuterà a smaltire la rabbia che ho dentro. Vorrei poter dimenticare tutto e to-gliermi il peso dal cuore. Il rancore mi rende sospettosa. Sof-fro ancora.

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Capitolo 10

Occhi nella notte

- Maledetta scala, mormoro, salendo e riposandomi più volte. Respiro a fatica come sempre. Eufemia è seduta fuori casa, la capra è sempre accanto a lei. Mi fermo e gentilmente le chiedo, sperando che non si accorga del mio interesse, perché quando accennò allo stupro di Bella, terminò il racconto con “un mese dopo don Serafino fu strangolato”.

- Eufemia, dimmi, ma don Serafino era l’amante di Bella?

- Parroco, cosa dice? Don Serafino, senza offenderla, era un ottimo prete. E’ cresciuto in paese sotto gli occhi di tutti. La mamma, poverina, rimasta vedova ha fato sacrifici immensi per questo suo unico figlio. Mille mestieri per poterlo mante-nere agli studi.

Un mese dopo è morta stroncata da un dolore senza fine. Un uomo intelligente e di preghiera. Molto attento alla vita del paese e molto amato dai giovani che da lui si sentivano capiti e protetti.

- Ma se uno è strangolato, un motivo deve esserci.

- Parroco, nessuna minaccia se non un biglietto trovato nello studio dalla polizia. Diceva: La verità uccide. Scritto con que-gli aggeggi moderni, il computer, a lettere molto grandi. Quella mattina ci siamo impensierite perché essendo molto puntuale, sempre, all’ora della messa il tempio restava chiuso. Impensierita ho dato l’allarme e, per entrare, il fabbro ha do-vuto abbattere le finestre.

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Era in pigiama, gli occhi fuori dalle orbite. Mio Dio che im-pressione. Noi donne, credo, abbiamo pianto molto e forse anche gridato. Ricordo la mamma. Neanche una lacrima. Ma un volto che diceva senza parlare: perché, che ha fatto di male questo mio figlio?

- Eufemia! Certamente doveva conoscere l’assassino, se gli ha aperto la porta di notte.

- Padre, no! Ed è questo che ha sorpreso tutti e nessuno riesce a spiegarselo.

Come abbia fatto ad entrare ed a uscire? Porte e finestre sprangate dall’interno e così le hanno trovate. E se pure lo avesse fatto entrare, come avrebbe fatto l’assassino ad uscire, chiudere la porta, abbassare il grosso maniglione che è dietro, nella stanza!? E’ stato il diavolo! Il diavolo.

- Eufemia non dire sciocchezze ti prego. Nei giorni prece-denti, tu che gli sei stata sempre molto vicina, non hai notato nulla di strano?

- Una cosa ma la dico solo a lei, a nessun altro l’ho detta, per-ché ho paura di fare la stessa fine.

- Racconta, sarò muto come un pesce. Fidati.

- Una notte, circa dieci giorni dopo l’incidente capitato a Bella, sento camminare sul sagrato. Sa, non dormo molto e poi spesso guardo fuori. Non vorrei che rubassero Bianchina, la mia capra. Col suo latte faccio ottimo formaggio. Lei li ha as-saggiati. Come li ha trovati?

- Gustosi, direi!

- Allora sento i passi e il bussare deciso alla porta del curato,

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ma quando ho socchiuso le imposte, fuori non c’era nessuno. Era già entrato. Ho pensato sarà qualcuno che il curato cono-sce molto bene. Un’ora dopo, circa ho sentito dei passi che si allontanavano, ma non mi sono alzata, in fondo non sono fatti miei. Il mattino successivo, don Serafino era pensieroso, poco loquace, anche sgarbato. Era preoccupato. E alla predica ha tuonato contro lo stupro dicendo che era una vergogna non per Bella che l’aveva subita ma per il paese tutto, che certe cose non le avevamo ancora sentite, che i colpevoli paghe-ranno e terminò dicendo e queste parole le abbiamo sentite tutti, “oh, se solo potessi parlare”.

E così, pensai, allontanandomi, in cerca del mio adorato letto, per il riposo pomeridiano, uno dei colpevoli si è confessato. E nel timore che parlasse lo hanno ucciso

- I tre nomi che sono sul foglio che ho trovato sono quelli dei colpevoli. Uno, quello con l’esclamativo è colui che ha par-lato. Gli altri due con l’interrogativo sono solo supposizione del prete. Colui che ha parlato, ha parlato solo di sé e non ha fatto i nomi degli altri due complici.

Mentre mi aggiusto le lenzuola penso che Eufemia quella sera ha visto chi è entrato e ha paura.

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Capitolo 11

Ricordi dolorosi

E’ ottobre inoltrato e son passati quasi due mesi dal giorno in cui ho messo piede in questo paese, pensando di poter tra-scorrere in serenità e tranquillità gli ultimi anni della mia vita e così godermi quei quattro centesimi che lo stato mi passa quale pensione. Ora le giornate sono autunnali. Si sente che è autunno. Il sole riscalda solo per alcune ore al giorno. Ho messo la maglia di lana e le coperte sul letto. A sera è neces-sario ricoprirsi con un soffice maglione, anzi due, se non vuoi ammalarti di bronchite. D’altra parte non posso permettermi di ammalarmi. Sono solo. Chi mi curerebbe?

Le serate sono diventate noiose. Anche le giornate, direi. Tommaso, il maresciallo, ha avuto il desiderato trasferimento ed è andato via. Lo sostituisce Mirko Bassotto, un veneto che quando usa il dialetto, non lo capisco. E’ giovane e avvenente, soprattutto in divisa; credo che si sia innamorato di Bella, per-ché il suo tempo libero lo passa nell’osteria. Da buon veneto al mattino più che il caffè come noi, sorseggia un buon bic-chiere di vino bianco frizzante e freddo, un Canè, che dalle nostre parti, dico a Napoli, non si trova più. Era buono, ve lo assicuro.

La chiesa è nella penombra: E’ l’ora del Rosario. Sono solo nella cappella dei duchi di Pratofiorito che per la sua bellezza e l’arte sempre mi affascina. Sento passi di un bambino e una voce che conosco bene.

- Leoluca, in chiesa non si corre!

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Mi volto! E’ Bella, elegante come sempre nel suo jeans e quella maglietta rossa che evidenzia le sue grazie nascoste.

Il bambino corre un po’ dovunque, tocca tutto, s’arrampica dove può, e Bella, parla, parla, parla, rievocando quella sera fatale singhiozzando e le lacrime, credo, sono liberatorie.

- Avevo trascorso quel giorno a casa di mio fratello, il primo. Lavora nella cava dei duchi di Pratofiorito. E’ un ottimo ope-raio. Ha una casa in campagna come tanti, poco lontana dalla cava. Si festeggiava la prima Comunione del più piccolo. Era-vamo tutti sereni e pieni di gioia. A sera una telefonata. Al-berto mi diceva che quella sera non poteva incontrarmi. Quanto l’ho amato, quell’uomo! Sussurra.

E continua:

- Pensai allora di rincasare prima perché veramente stanca. Avevo aiutato mia cognata nelle cucine. Sulla strada del ri-torno il buio come voi sapete è totale. Non c’è illuminazione e correre è pericoloso. Spesso le vacche che pascolano in li-bertà si fermano proprio sulla strada e investirle sarebbe grave. Dopo una curva che è chiamata “la curva della morte”, improvvisamente si presenta ai miei occhi un incidente: un uomo è a terra con la faccia sul selciato. Quando mi chino per un aiuto inorridisco. Una calzamaglia nera gli copre la testa. Mi agguanta e mi immobilizza e mentre urlando cerco di di-vincolarmi altri due, anch’essi con una calzamaglia nera, sbu-cati improvvisamente da un viottolo, l’aiutano a zittirmi tap-pandomi la bocca prima con le mani e poi con un grosso ade-sivo.

La baracca dove mi conducono è lontana un centinaio di me-tri, ben nascosta nella boscaglia ed è disabitata.

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A questo punto si ferma e non riesce più a parlare. Il ricordo ora è diventato nuovamente realtà e ferisce il cuore. Quasi a chiedere coraggio per la vita, afferra il piccolo Leoluca che nel frattempo si è avvicinato vedendola piangere e se lo stringe teneramente al seno, forte, molto forte.

- A turno subisco violenza e, quando si sono appagati, un faz-zoletto con cloroformio mi addormenta. Mi troveranno verso le otto del mattino a quaranta km di distanza oltre Gratta-migiù, nella mia macchina, delirante, impaurita, incapace di parlare.

- Scusa, ma a mente fredda non ti è mai venuto in mente qual-che particolare che ti possa far risalire ai tuoi violentatori.

- No. L’unica cosa che posso dire perché né sono certa è che conoscessero bene il paese e le mie abitudini.

Pensando di consolarla, le dico che certe cose anche se sono spiacevoli possono renderci migliori e che nonostante un fi-glio l’avvenire può ancora essere roseo. Mirko…

- Padre, mi corteggia, è anche un buon ragazzo molto affet-tuoso ma io non l’amo. Come si fa a mettere su casa quando c’è solo dell’affetto?

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Capitolo 12

Il mercatino del venerdì

Il quarto venerdì di ogni mese la piazza grande di questo paese arroccato sul monte, si anima. E’ il mercato. Venditori ambu-lanti che secondo un calendario vecchio di anni girano per i vari paesi della zona non solo per vendere ma anche per com-prare prodotti che venderanno altrove.

Sono bancarelle multicolori e c’è musica moderna per tutti i gusti, anche a volume alto che è una violenza per i miei orec-chi.

La bancarella col torrone e mandorle tostate e caramelle di vario genere attira la mia attenzione. Il camioncino che vende bibite e panini vari. E poi tendaggi, suppellettile per la cucina, scarpe, jeans, maglie, salumi e formaggi dei paesi vicini. Tutto insomma. E allora guardo, seduto ad un tavolo dell’osteria, ormai sono di famiglia, guardo interessato la gente.

E’ un via vai di persone. Si fermano, guardano, domandano e poi oltre. Il prezzo deve essere abbastanza caro per le loro tasche. I bambini corrono senza soste. C’è perfino una giostra con sei sedili che girano forte all’intorno. Insomma, è un mo-mento gioioso per tutti. D’altra parte è una comodità. Scen-dere a Grattamigiù per delle compere chiede molto tempo e una machina a disposizione non sempre è possibile soprat-tutto per i vecchi.

A Grattamigiù che è una piccola città, quasi 5000 abitanti, vi-vere è diverso. C’è tutto: discoteca, maneggio, una stazione

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per lo sci invernale, un cinema, vari bar e anche giardini molto ampi e trattorie e negozi. Un vero posto di villeggiatura per chi si può permettere di spendere molto.

Sulla soglia, accanto a me, appoggiata alla porta di ingresso c’è Bella e l’inseparabile veneto col bicchiere di vino in mano. E parliamo delle solite cose che spesso non hanno senso perché non interessano nessuno.

Dalla farmacia di fronte esce Francesco, il secondo figlio del dottor Stillaveleni, laureando in farmacologia, che veloce-mente, gettando a terra con disinvoltura il mozzicone acceso, entra nel vicino bar, dal quale quasi subito esce sorseggiando il caffè. E’alto, slanciato, veste alla moda, quella che ti fa ap-parire uno straccione, all’orecchio sinistro due orecchini, due anellini, uno al lobo inferiore e l’altro al lobo superiore. E ride parlando con qualcuno che è dentro e che non riesco a intra-vedere.

Improvviso un clacson richiama la nostra attenzione. E’ una fuoriserie certamente, ma non conosco il marchio. E’ bella ed è rossa, il colore che io preferisco. Al volante un giovane ele-gante, capelli ricci e neri, fisico asciutto. Istintivamente lo sento antipatico.

Parcheggia quasi sotto la scalinata della chiesa, esce e a voce alta, forse perché tutti sentano, guarda verso di noi e chiama: Francesco! E’ un incontro affettuoso tra due che da tempo non si vedevano. E arriva anche l’altro, Gustavo, sì, il figlio del sindaco.

Nel guardarli penso: il trio di nuovo insieme, ho paura che canterà ancora.

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Mi volto e Bella non c’è. C’è solo Mirko che dice:

- Parroco vada da Bella, è fuggita piangendo

- Dov’è?

La trovo, nel retro della cucina dove c’è un rustico lavello per i panni e più in là, la stalla con i maiali e le galline ruspanti.

- Perché piangi?

Lo ha rivisto. Ama ancora quel farabutto che dopo due anni di fidanzamenti, osteggiati anche da suo padre, la lasciò senza neanche una parola, la settimana dopo quel doloroso avveni-mento.

Ora è nuovamente qui e speriamo che non la infastidisca di nuovo.

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Capitolo 13

La sfida

Sono certo che è stato Francesco, in quella notte, a parlare col curato. Ha parlato. Certamente non si è confessato, altrimenti Serafino non avrebbe mai scritto quei tre nomi sulla carta. Noi preti abbiamo una cura particolare nel non rivelare, neanche per sbadataggine, particolari di una confessione. Siamo stati uccisi per non aver voluto parlare.

E così pensando affondo voracemente il cucchiaio nel piatto: tortellini in brodo, una squisitezza, preparata dalla buona Eu-femia.

- Eufemia, ma ‘sta capra, lasciala fuori. Sporca.

- Parroco, o me e la capra, o niente. Pensi ai tortellini

Argutamente risponde e posa il bicchiere, l’ampolla del mezzo litro bianco e dalla credenza una abbondante porzione di for-maggio portata al mattino da un’altra zitella.

- Eufemia, il Curato ti ha mai parlato di una foto trovata una notte sui gradini che portano dalla cucina alla sacrestia?

- Per niente. Era discreto. Non diceva mai tutto. Una sola volta mi ha impressionato quando al mattino mi ha raccontato di aver sentito dei passi in chiesa nel cuore della notte. Deve aver sognato, disse. Ed è così. La parrocchia è blindata dall’in-terno. Nessuno può accedervi di notte.

Non è stata una allucinazione uditiva, rifletto.

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E’ la notte in cui fu trovato in cucina il biglietto con “la verità uccide”. E porgo la domanda.

- No, il biglietto fu trovato successivamente e passi in quella notte non furono sentiti.

- Probabilmente, penso, quella notte il curato stanco doveva dormire così profondamente da non sentire nulla. Poi, conti-nuando, mi dico: come faranno ad entrare?

- Eufemia, eri in chiesa, questa mattina?

- Perché non mi ha visto?

- Certo, volevo solo sentire se, parlando dell’omicidio come opera che grida vendetta al cospetto di Dio, sono stato abba-stanza chiaro nel sottolineare che si può uccidere anche in maniera diversa, soprattutto quando al prossimo toglie il gu-sto di vivere. Nello stupro, per esempio.

- Parroco, non avrebbe dovuto. In chiesa ho visto molti stu-pìti nell’ascoltare, soprattutto quando ha detto: La verità, prima o poi, viene a galla e chi ha sbagliato pagherà. Chi rompe paga e i cocci sono suoi.

- Impari da don Serafino. Impari a tacere. Lei parla troppo. Il silenzio è buona cosa per vivere in pace.

E mentre ascolto, ricordo il volto di Gustavo che, solo in chiesa, era enormemente impallidito.

Un’idea, ma non la manifesto!

- Hai visto per caso oggi Josip o la moglie?

Certo, si aggirano sempre infastidendo molti. Perché non

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trova un lavoro nella campagna? La gente qui è generosa. An-che per dare una maggiore sicurezza al bambino che nascerà credo, nei giorni natalizi.

- Se lo vedi, digli che gli voglio parlare.

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Capitolo 14

La casa sul fiume

Ho pregato Mirko di accompagnarmi, in macchina, al fiume. A piedi per me è una distanza insormontabile. Ho fretta di parlare con Josip e non posso aspettare.

Mirko da vero gentiluomo non fa domande e quando siamo giunti scende e mi lascia libero, allontanandosi per fumare una sigaretta.

La baracca è in lamiera e cartone, proprio sotto il ponte. L’arena dopo cento metri diventa un acquitrino di canne e acqua stagnante, abitazione di rane e girini, vera orchestra nella notte. Infine si entra nel fiume che incomincia ad aver un po’ di acqua in più rispetto all’estate per qualche timida pioggia dei giorni passati. Su una barca Josip pesca e che cosa? Non lo saprò mai. Che cosa potrà trovare? Forse trote.

Nella baracca materassi senza reti, una cassapanca in buone condizioni, un televisore collegato abusivamente alla rete co-munale e fuori un cucinino a carbone con pentole da lavare e piatti sporchi della sera prima, un lavello con acqua appanta-nata e il cane, anzi la cagna, prossima a partorire che tocca tutto e che ora mi scodinzola intorno.

Sono nauseato da tanta povertà. Ma siamo noi che senza vo-lerlo li riduciamo così, poveracci!

- Josip, Josip chiamo e la barca si avvicina e l’uomo anche. Venti minuti di attesa seduto su un grosso scatolone riu-scendo più volte a rifiutare una tazza di brodo nero che Marì

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vuol far passare come caffè.

- Buongiorno, padre.

- Josip ho qualcosa da darti. Ti piacerebbe avere la bicicletta nuova che don Serafino aveva comprato alcune settimane prima della sua morte?

- Certo, piacerebbe.

- Vieni in parrocchia. Te la darò. A me non serve.

In cambio, voglio che tu faccia qualcosa per me. Se accetti avrai anche monete. La parola infiamma il cuore e la mente di Josip.

- Per monete, si, per monete

- Bene, ma nessuno deve sapere. Segui Albero dei duchi di Prato fiorito. Lo conosci?

- Si, l’ho visto per la prima volta. Al mercato del venerdì. Quello che guida l’auto rossa. Fortunato lui.

- E Francesco? E Gustavo?

Francesco, mi è antipatico. Guarda mia moglie con interesse. Prima o poi lo prenderò a calci nel sedere.

E visibilmente soddisfatto, augurando alla donna un parto non complicato, chiamo Mirko per essere riaccompagnato in piazza.

- Padre, metta una buona parola con Bella, la prego.

Vorrei fare colazione! Eufemia si starà chiedendo che fine ab-bia fatto, ed è meglio che non sappia.

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Capitolo 15

Una lettera da Napoli

In questi due giorni Josip cammina su una splendida bici. E’ orgoglioso di questo suo mezzo di locomozione. E così in poco tempo, tutto è relativo è chiaro, percorre il paese in lungo e in largo. Dalla casa dei duchi alla piazza. Curioso di sapere per avere molte monete. E tutto quello che sa dirmi e che il trio a sera si incontra in casa di Alberto. Questa infor-mazione mi è costata 50 euro. Tanto per niente.

Che cosa avranno in mente?

Dalla finestra in questo giorno piovigginoso, siamo all’inizio di novembre, pini e castagne, occhio di lince, l’occhio che tutto vede, Eufemia, ha intravisto “Peppe, a quaglia” che con la sua potentissima e rumorosissima moto consegna la posta. E’ avvenimento per tutti. Anche per me.

- Eufemia, è una lettera per il parroco, da Napoli, grida Peppe.

- Parroco, una lettera da Napoli, ripete Eufemia e corre, te la immagini, per darmela.

La prendo. E’ possibile, Qualcuno si è ricordato di me? Qua-rant’anni in quella parrocchia e subito dimenticato! La grati-tudine umana.

Apro, chiedendomi chi sia a scrivere. Per poco non mi moz-zico la lingua. Sbianco! Una sola pagina e nessun mittente. Solo una frase a grossi caratteri: Fatti i c… tuoi!

Inviperito la sgualcisco e la getto nel cestino, poi mi chino, la

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raccolgo, la sistemo e la conservo. Potrà servire. Le impronte? Saranno state cancellate.

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Capitolo 16

Il duca di Prato fiorito

- Eufemia, ascolta! Vorrei inviare a mio fratello, a Napoli, come regalo per il Natale, il tuo formaggio e i salumi del paese che è tutto cibo genuino. Se vieni a conoscenza di qualcuno che si dovrà recare là, dimmelo che gli chiederò il piacere della consegna.

- Parroco, lo chiederò a Gustavo. E’ l’unico che può esserle utile e poi è un giovane gentilissimo. Spesso si reca alla Biblio-teca nazionale di Napoli perché ci sono dei documenti antichi, utili per la sua tesi di laurea in lettere antiche.

- Grazie! E dentro di me rido, perché ho saputo quello che volevo sapere. E rido anche a crepapelle quando lo racconto a Mirko.

Mirko conosce il passato di Bella e quanto penso sulla morte di Serafino glielo ho rivelato. Perché è la legge, perché è un amico di cui ti puoi fidare, perché inoltre è intelligente.

- Don Stefano, dobbiamo entrare nel castello!

- In che modo? Non penserai certo come nei films che io mi arrampichi sulla cancellata agilmente, la scavalchi, scenda pre-cipitosamente dall’altra parte, corra verso il salone a piano-terra e rompendo la vetrata entri?

E immaginando la scena ci guardiamo negli occhi ed una ri-sata scuote la stanza, corre per il paese e arriva lontano. Tutti sanno quanto è potente il mio ridere. Ti comunica l’allegria

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anche se non hai capito perché rido.

Sull’uscio lo sgorbio s’affaccia: “chi ride oggi, domani pian-gerà”

E Mirko, sottovoce, iettatrice!!

E poi, serio, appena è uscita: “bisogna essere discreti”. Pensa, rifletti, agisci, è il mio invito, un comando. E Mirko, metten-dosi sull’attenti, scherzando: Main fhurer (non conosco il te-desco), ai suoi ordini. Ridendo va via e so già dove lo incon-trerò. A mezzogiorno nell’osteria di Betta.

L’ampolla col vino, un quartino, e pasta e fagioli con le coti-che di maiale e cipollina novella che io frettolosamente scarto. Pochi avventori, oggi. Qualche camionista di passaggio e due turisti francesi che riprendono i luoghi. Si saranno smarriti in questo deserto.

- Betta, appena puoi, siediti accanto a me, fammi compagnia.

- Come è gentile, signor Curato, ha da sapere qualcosa?

Le contadinotte! Scarpe grosse e cervello fino.

- E’ vero, ho da parlarti, ma sottovoce.

Betta ha un otosclerosi e tende a parlare naturalmente a voce alta. Sarà una fatica per lei accontentarmi.

- Parlami di don Eusebio, il duca di Prato fiorito, il padre di Alberto.

- Don Eusebio è un vero gentiluomo, direi gente del passato. Un galantuomo, istruito, religioso, un amministratore prodigo dei suoi beni. Anche sfortunato. Bianca, la prima moglie,

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erede di un grosso patrimonio immobiliare a Grattamigiù, morì di parto e anche il bambino. Un dolore enorme per cui si rifiutava di vivere, disinteressandosi anche del lavoro, tutto intento alla lettura e alla collezione di libri antichi, fino a quando non conobbe Nerina, ironia della sorte, che gli ha dato due figli, Rossana e Alberto, poco seguiti dalla madre, assente, amante dei concerti, delle mostre e della moda. E’ da dieci anni, poverino che è immobilizzato su una sedia a ro-telle, in seguito ad una caduta da cavallo. Da allora non lascia più il castello ed è diventato ombroso e irritante.

- Betta, sei un tesoro, grazie!

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Capitolo 17

Il castello

Il clacson suona più volte per avvertirmi che Mirko è pronto ad accompagnarmi

- Un momento, grido.

Esco con il caffè nella destra e una busta con due cornetti nella sinistra.

Li mangeremo in auto.

L’auto veloce costeggia il campo di bocce, prende decisa il viottolo scalcinato, imbocca la strada provinciale e poi, pas-sando oltre la fattoria del ‘o chinu e corne, a destra, quella del Pizzica sempre, a sinistra, un tornante a sinistra, uno a destra, di nuovo a sinistra dopo venti minuti circa giungiamo in una conca tra i monti. La strada è senza sbocchi. Così mi sembra. Due enormi cancelli a distanza di circa cento metri l’uno dall’altro. Parcheggiamo vicino al secondo che è aperto. Uo-mini in divisa manovrano una sbarra per consentire il passag-gio delle auto autorizzate. E’ la cava dei duchi di Prato fiorito. Un muretto cementato di fresco e la curiosità ci spinge ad af-facciarci.

Una cava, mai vista. Dall’alto gli uomini sembrano alti quanto i folletti delle fiabe. Mi ricordano i nani di Tolkein, quelli de-scritti nella trilogia di successo, il Signore degli anelli. E tutto ridimensionato visto dall’alto. Lo spogliatoio, il piccolo bar, il deposito della dinamite che serve per far sbriciolare la mon-tagna di marmo. Autocarri giganteschi per il trasporto delle

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lastre e i capannoni dove grosse seghe li tagliano.

Incuriosito vorrei scende a vedere ma non si può. Sono le dieci del mattino.

Decisi ci avviamo verso l’altro cancello.

Bussiamo. Una voce ci chiede:

- Desiderate? Guardiamo. Una telecamera ci spia.

- Sono il parroco e vorrei incontrare il duca per una visita di cortesia.

- Domanderò se può ricevere.

Poi, dopo un minuto, il cancello elettronicamente si apre e noi che nel frattempo eravamo risaliti in macchina imbocchiamo il viale alberato che ci conduce dopo duecento metri all’in-gresso del castello. Prati e siepi ben curate denotano l’amore per la natura. Fontane, al centro dei prati, fanno salire l’acqua verso l’alto. Artistiche e antiche come solo nei films si ve-dono.

Il castello è antico e ben tenuto. Devono aver restaurato la facciata di recente.

Due scalinate, una a destra e una a sinistra, semicircolari, si incontrano sulla sommità davanti all’ingresso del castello

- Maledetti gradini, mormoro, che ti rende il cammino fati-coso. Se ne incontrano dovunque.

Il portone è chiuso. Di bronzo. Sei formelle abbastanza grandi raccontano forse, la storia della famiglia. Il ritorno del cro-ciato, forse l’antenato che in oriente ha fatto fortuna e qui si

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è costruito la masseria che il primo Alberto, il fondatore, avrebbe trasformato successivamente in castello. Una scena di caccia, una coppia che si abbraccia e altre immagini che ora non ricordo parlano di un passato glorioso.

Si apre e un uomo molto distinto ci invita:

-Vengano, il signor duca è molto onorato della visita.

Entriamo e almeno io, alquanto stupito, guardo. Non ho mai visto tanta eleganza e ambienti così sontuosi. Ho abitato sem-pre in due stanze e cucina.

Il salone è enorme, ampio, elegante. Lampadari di Murano, ciascuno con quaranta luci, almeno. Deve essere il sole quando sono accesi. A destra tre finestre ampie danno sul giardino. Tende pesanti rosso Bordeaux impediscono, se vuoi, alla luce del giorno di entrare. Uno scalone solenne, a sinistra, porta al primo piano. In fondo al salone, una porta: è la cappella di famiglia, mi diranno.

Su una sedia a rotelle sorride un uomo sui settant’anni che amabilmente ci invita a sedere. Due uomini tarchiati, alti, con grossi baffi all’insù, sono gemelli, gli sono vicini, inseparabili. Uno per spingere la carrozzine, l’altro per esaudire i desideri.

- Gelsomino, prendi le sedie per gli ospiti.

Pochi secondi e siamo seduti su comode poltrone.

- Gelsomino, Ciclamino, lasciateci soli.

Guardo i due omoni che si sono allontanati abbastanza per non sentire, non tanto per essere pronti ad intervenire qualora occorresse.

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Il duca, uomo chiaramente colto, chiudendo il libro che ha tra le mani, sorridendo dice:

- Gelsomino, Ciclamino, due nomi insoliti per due gorilla così. Cosa vuole. Sono i nomi dei nonni. E intanto certe tradizioni rovinano la vita dei figli.

E poi si parla del paese, degli abitanti, degli antenati, dei libri antichi, della storia e del casato e si finisce:

- Vuol visitare, padre, la nostra biblioteca? Colleziono libri che sono una rarità. Alla mia morte saranno donati alla biblioteca dell’Università di…. I miei figli non li amano.

Era quello che desideravo.

Gelsomino ci accompagna al primo piano. Il corridoio di de-stra ci immette nella grande biblioteca e pinacoteca. Guar-diamo con molto interesse i quadri. Neanche uno sguardo ai libri. E’ la storia del casato. Sono i signori di Prato fiorito. E poi a meravigliarci per il loro valore, quadri abbastanza recenti di autori famosi. La signora Nerina compra e don Eusebio paga. Il corridoio di sinistra ci conduce alla sala delle armature. Mirko è interessato. Armi del passato chiuse debitamente con lucchetto in vetrine di cristallo. Mirko si ferma e parla con se stesso, così molte hanno un nome.

Una vetrina conserva fucili da caccia funzionanti e pistole e proiettili. La famiglia ha il porto d’armi?

Gelsomino è vicino, discreto e non ci perde d’occhio. Sento che riferirà al duca quanto sentirà da noi.

Si ritorna giù.

- Uno, due, tre…quaranta, quarantacinque. Maledetti scalini!

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- Don Eusebio volevamo ringraziarla perché oggi ci ha con-sentito un tuffo nel passato.

- Padre, non è tutto. Lei non ha ancora visto due cose: la cap-pella e la cucina di palazzo. Se capisco ancora, e ride, a lei interessa più la cucina che la cappella.

Malizioso, il duca!

- E allora, consentitemi, in paese siamo abitudinari e in casa mia più che altrove. E’ la mezza e l’orologio del castello ha mandato il rintocco. Il pranzo è pronto. Sarei lieto di averla come ospite. L’invito è esteso, si capisce, al simpatico suo ac-compagnatore.

Ci guardiamo in volto, decisi accettiamo. E’ un’occasione da non perdere.

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Capitolo 18

Un pranzo cordiale

La sala da pranzo non è molto ampia. Sul tavolo una tovaglia bianca ricamata. Lungo il bordo piccole margherite gialle e foglioline verdi. Mi commuove, per un istante, il ricordo di mia madre. Era questo il motivo ornamentale che ella aveva ricamato su quella che era la tovaglia buona per i nostri giorni di festa. Posate d’argento. Piatti in ceramica

- Parroco, è ceramica di Capodimonte. Un regalo per le mie seconde nozze.

Bicchieri di cristallo purissimo. Non ho potuto fare a meno di prenderne uno e pizzicarlo con le dita come faceva mio padre per sentire il suono proprio del cristallo.

- Papà era un artista. Sul cristallo, con la mola, ricamava motivi ornamentali stupendi.

- Cristallo di Boemia.

- Complimenti, un ricordo del mio viaggio di nozze.

- Bene, poi con orgoglio aggiungo: papà lavorava cristallo pu-rissimo.

Gelsomino e Ciclamino solevano l’anziano don Eusebio e lo adagiano delicatamente su una sedia e la sospingono verso il tavolo, la signora Nerina entra e saluta con un bacio il marito scusandosi per il ritardo.

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- Rossana, non verrà perché andata alla cava. Alberto è al te-lefono e sarà qui tra poco. Desidera ossequiare il parroco.

E siede accanto a don Eusebio. Anche noi ci sediamo, Mirko accanto a me. Alberto tarda e il duca infastidito risolve:

- Servite pure.

La domestica, abbastanza anziana poggia al centro una zup-piera piena di maccheroni leggermente conditi di sugo. Poi con un mestolo molto piccolo ognuno aggiunge al piatto la quantità di salsa desiderata. Ed ecco Alberto. Per deferenza ci alziamo. Si avvicina, un inchino del capo, una stretta di mano, un “Benvenuto, parroco” e, voracemente, più di me, consuma il pasto.

Carne alla brace e contorni vari. Si chiacchiera, si sorride, si beve l’ottimo vino paesano e per finire una torta al cioccolato buonissima.

- Complimenti, parroco, per le omelie, dice Alberto. Mi hanno detto: semplici ed interessanti.

Le parole, vere o false che siano, solleticano la mia vanità. E quando il discorso, in attesa del rosolio, si ferma sulla salute sento dirmi da Alberto:

- Si riguardi, padre. La canonica è umida e l’inverno è pun-gente, potrebbe ammalarsi di bronchite.

- Non temere. Chiederò al dottor Tisano di guarirmi. Il dottor Tisano è il veterinario del paese. E la battuta piace.

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Capitolo 19

La cappella

- Rosolio casalingo esclamo, portando il bicchierino contro luce per osservare da intenditore il suo colore.

I rintocchi dell’orologio ultracentenario scandiscono le ore. Sono le tre del pomeriggio ed io sento la stanchezza. Mi alzo di scatto quasi spinto da una molla:

Don Eusebio, Signora, vorrei andare via perché è tardi. Però, è vero, che preferisco le cucine alle cappelle, non vorrei an-dare via prima di aver dato una sbirciatina ad un’opera d’arte. Me lo consente?

L’accompagno. E Alberto ci precede alla cappella degli avi: sei panche tarlate, un ambiente molto piccolo. Un altare a parer mio molto ampio, sproporzionato certamente per quell’am-biente. Non parlo, guardo, penso.

- E’ bella.

- Mirko, andiamo?

- Certo.

Alla porta Alberto si congeda. E’ un vero gentleman. Nel sa-lutarmi mi porge una lettera con i saluti del padre.

- Papà gradirebbe molto che lei accettasse quest’assegno. E’ per le opere della parrocchia.

Ringrazio e accetto. Non rifiutare mai quanto ti viene dalla misericordia di Dio. In macchina possiamo comunicarci le

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impressioni, ottima l’accoglienza, don Eusebio è un galan-tuomo, la moglie una donna vuota e spendacciona, Alberto un vero attore. E poi comunico le mie perplessità.

- Perché un altare così grande in un ambiente così angusto? Perché una lastra di marmo così ampia rispetto alla base? Per-ché l’architetto ha evidenziato nell’altare gli stessi particolari che sono sulla tomba di famiglia nella mia chiesa? Hai visto l’altare? Ha quattro angioletti. Stesse dimensioni, stessa fat-tura. Solo posizioni diverse ma tutti con le chiavi in mano. Una al primo, due al secondo, tre al terzo, quattro all’ultimo. E sono sistemati ai bordi dell’altare come sulla tomba di fa-miglia che è in parrocchia.

- E’ veramente un altare? E se invece fosse una tomba? Nel passato gli assassini per le eredità non erano infrequenti.

- Don Stefano, non tormentatevi oltre. Voi non dovevate fare il prete ma l’investigatore. Siete un malpensante, e sorride.

In piazza, mentre scendo, ricordo la busta che apro e gioisco: duemila euro, è una bella sommetta.

- Mi raccomando, mi interrompe Mirko, un occhio a Bella, vado a casa per tre giorni. Mamma non sta bene.

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Capitolo 20

L’avvertimento

La notte sulla montagna è sempre gelida. Immagina quanto deve essere duro dormire in una baracca, sotto un ponte, vi-cino ad un fiume quasi in piena.

I due sventurati, Josip e Marì, dormono abbracciati sotto tre coperte, perché si amano ma anche perché c’è più calore. E dormono pesantemente, camminare per ottenere dalla mise-ricordia altrui quanto serve a malapena a vivere è faticoso.

Improvvisamente un calcio a Josip, negli stinchi, forse due. Un dolore ed è la sveglia. E’ un delirio? E’ realtà? Due uomini, una pila in mano che illumina alquanto la baracca, e una pi-stola nell’altra. Minacciosi, la voce corrotta dalle maschere che hanno sul volto: Topolino e Minnie.

- Non muovetevi e non urlate o vi faccio fuori!

La donna è immobilizzata con una corda ed è messa in con-dizione di non parlare da un grosso adesivo sulla bocca. Un calcio e si ritrova a terra sul sudicio materasso.

E sono calci e son tanti, ovunque. Josip si abbatte e si con-torce per terra sotto gli occhi sbarrati della moglie le cui urla le muoiono in gola. Pestato a sangue che cola abbondante dal naso, un occhio tumefatto, dolori immensi in tutte le artico-lazioni, Josip giace a terra svenuto, respirando a stento e la-mentandosi tanto. Marì guarda smarrita e piange. Lacrime e molta paura. Josip non si muove, non dà segni di vita.

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- Lo hanno ucciso? Non lo permettere o Dio! E’ il padre di mio figlio. Poi il pensiero è del bimbo che nascerà: Aiutaci, Signore, non permettere che nasca prematuro.

Il Signore ascolta gli umili e li protegge. Un’ora dopo lenta-mente Josip riprende conoscenza. Barcollando si alza e ricade, si rialza e a stento resta in piedi. Si tocca delicatamente il naso dal quale gocciola ancora un filo di sangue e si guarda inorri-dito le mani. Quanto sangue! Sul vestito, a terra!

In fretta col suo coltello a serramanico taglia la corda che lega Marì, le toglie l’adesivo e si abbracciano forte. Hanno paura, pensano di essere entrati a far parte di un gioco superiore alle loro forze. Sono spaventati, avviliti, impauriti

- Andiamo via, presto, suggerisce Marì.

- A quest’ora, non è neanche l’alba. E dove, se vogliono po-tranno raggiungerci!

- Ma perché lo hanno fatto?

- Non lo so. Senti, Marì, copriti bene e corri a nasconderti sotto il ponte. Vado in paese con la bicicletta, al comando, per denunciare l’aggressione. I colpevoli devono essere assicurati alla giustizia perché non facciano altro male.

- Sei coraggioso, Josip, io no, ho paura. E’ notte e se ti incon-trano nel paese, quelli ti ammazzano.

- Devo, risponde coraggiosamente Josip, uscendo dalla ba-racca in cerca della bici. Il cane in un angolo non si alza e non si è mosso neanche durante l’aggressione.

- E’ stato avvelenato, mormora addolorato, Josip

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- E la bici, dove l’hai messa la bici? Aggiunge Marì

- Era qui, non la trovo.

La bici è più lontana, in un cespuglio, appoggiata per terra, bucate le gomme, anzi stracciate con un coltello.

- Andrò a piedi.

E allontanandosi si volta più volte dicendo ala donna: nascon-diti, ti prego, tornerò con i carabinieri.

Quando busserà alla porta del Comando è l’alba. Ancora buio, ma è l’alba. Bussa forte, più volte e quando apriranno è a terra, svenuto di nuovo.

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Capitolo 21

La verità uccide

Il racconto di quanto è successo nella notte corre velocemente di casa in casa e intimorisce tutti.

- E’ stato sempre un paese tranquillo, mormora lo sgorbio, seguita dalla antipaticissima capra, versando nella tazza un profumato caffè, e poi, direi con cattiveria:

- Da quando lei ha messo piede in parrocchia non c’è più tran-quillità in paese.

- Eufemia, irritato rispondo.

Eufemia capisce di aver detto troppo e di aver detto male.

- Le indagini non hanno approdato a nulla, mi dirà Mirko, al suo ritorno, tre giorni dopo. Non ci sono impronte e nella baracca ci sono solo i segni della violenza subita.

A lui posso confidare i miei timori.

- Il pestaggio di Josip è un avvertimento per me. La prossima volta toccherà a me. Quando?

Non sono mai stato coraggioso e ora mi trovo anch’io a ge-stire un gioco che si è fatto pericoloso. Sento di essere in pe-ricolo. Il giorno non mi spaventa perché sono sempre in com-pagna di qualcuno, spesso con Mirko che si è affezionato a me, ma la notte, nella solitudine della canonica quella sì che mi spaventa. E’ vero, la canonica è blindata dall’interno ma i passi nella notte don Serafino li ha avvertiti. Sogno o realtà, io

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ho paura. La notte mi spaventa, ma non mi toglie l’appetito. In televisione un giallo ambientato in Inghilterra, in una casa signorile con tanto di maggiordomo e 13 invitati a pranzo che uno dopo l’altro saranno trovati ammazzati, mi appassiona e fuga le mie paure, ma quando spengo la TV i fantasmi tornano e allora sento l’esigenza per la prima volta in vita mia di in-goiare un sonnifero. Voglio dormire. Non voglio trascorrere un’altra notte in piedi perché poi di giorno mi sento così de-bilitato da non poter neanche camminare. E appoggiato la te-sta sullo schienale del letto, come è abitudine, immediata-mente mi addormento. Il bussare insistente alla porta mi dice che il mattino è inoltrato, che è tardi e c’è gente in attesa.

-Un momento, grido, ed apro le finestre.

-Eufemia entra!. Nel frattempo mi vesto

Dalla cucina, un urlo!

Spaventato accorro: sul tavolo un biglietto scritto con un pennarello rosso a grossa punta: la verità uccide.

- Svelta, dico, chiama Mirko. Digli che corra!

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Capitolo 22

Un’idea

Al Comando siamo in quattro a discutere sugli avvenimenti notturni. Mirko alla scrivania, io su una sedia piuttosto sco-moda, gli altri due in piedi.

- Mirko questa notte abbiamo avuto la conferma che si può accedere alla canonica. Ci deve essere un sottopassaggio se-greto. Ma dove?

- Bisognerebbe guardare all’esterno, forse in qualche grotta nelle vicinanze.

- Non credo. Un’idea mi assale e la espongo.

- Hai una cartina geografica della zona?

- Forse, guardo, e scartabbellando negli armadi, in fondo al cassetto di una scrivania, c’è in effetti una cartina geografica ma non è utile perché non c’è traccia alcuna del paese, d’altra parte Grattamisù è solo una frazione di Grattamigiù, arroccata sui monti.

- Questa mappa non mi serve. Vorrei una mappa dettagliata del paese e della zone limitrofe.

- In comune dovrebbe esserci. Antonio corri in comune e vedi se puoi averla per poco tempo.

Dopo mezz’ora Antonio ritorna agitando nell’aria, con aria trionfante, la mappa.

- Eccola, esultiamo.

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In un batter d’occhio dalla scrivania sparisce ogni oggetto per poterla dispiegare tutta e poi con calma guardiamo.

- Che meraviglia! E’ abbastanza precisa e dettagliata.

Il mio dito è puntato sulla canonica poi cammina piano

- Ecco, qui, abito io, questo è il campo di bocce, guarda, la fattoria del Pizzicasempre e poi la cava, il castello.

Ci guardiamo senza parlare, ma forse il pensiero è univoco.

Il castello e la chiesa, in linea d’aria, rompe il silenzio Mirko, il castello e la chiesa sono vicini, al massimo un chilometro.

- Un sotterraneo?

L’appuntamento è per questa notte, in chiesa.

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Capitolo 23

Lo scopone scientifico

- Questa sera ho invitato Mirko e gli amici per una partitina a carte.

- Nelle carte, lo dovrebbe saper, balla il diavolo.

- Eufè, molto stizzito, anche nella solitudine balla il diavolo. E’ per trascorre una serata diversa dalle altre. A sera non è più possibile uscire per incontrare qualcuno. C’è gelo nell’aria e qualche volta nevica anche, quando non piove. Il bar è de-serto, solo i giovani per quelle slot machine, vere diavolerie.

- E allora? Contrariata interroga la donna, forse gelosa (che faccio io alle donne che si innamorano tutte di me?)

- Vorrei che prima cenassero. Che possiamo preparare?

- Non speri su di me che a sera sono stanca. Comperi for-maggi e salumi, il nostro pane paesano, un fiasco di vino, quello di Bella (citazione innocente?) e la cena sarà ottima. La frutta è quella di ieri che lei, toppo viziato, non mangia per niente. E’ matura ed è buona. Perché comprarla se poi quasi sempre finisce nell’immondizia? Sprecare soldi è peccato e dovrebbe saperlo.

- Che male ho fatto per incontrare il diavolo, mormoro tra me quando è uscita sbattendo la porta. Guardami dall’ira delle donne respinte è la mia preghiera ironica.

Scende la sera sulle umane miserie ma non ricordo chi lo ha detto. E scende gelida, tanto che ho chiesto di mettere legna

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nel caminetto. Fuori c’è nevischio. E’ un bussare gioioso, i tre dell’eterno riposo, così li ho chiamati ma essi non lo sanno, perché hanno un’aria sempre funerea. Tristi e si capisce anche il perché: la solitudine e la lontananza sono martellate per il cuore dei giovani lontani da casa. Uno sguardo alle fondine: hanno con sé le pistole d’ordinanza e in un angolo grosse pile furtivamente son deposte.

Si tolgono la giacca e si siedono. La tavola è francescana, non c’è cioè la tovaglia, i piatti e i bicchieri di carta, pane tagliato a fette, il vino troneggia accanto a diversi tipi di salumi e for-maggi. E divorano affamati, si parla, si ride, si commenta. Or-mai conosciamo tutti.

- Buonasera, riverisco signor curato e si allontana zoppicando più che mai, agitando più che mai quella orribile oda di cavallo di cui è fiera. Esce disapprovando. Le carte hanno fatto il loro ingresso e sono sul tavolo. La cena è finita e inizia il gioco.

Ora, penserà Eufemia, il diavolo incomincia ballare. E balle-remo anche noi perché come sentiamo l’uscio socchiudersi, in silenzio, sbarriamo porte e finestre, le pistole nelle fondine, le pile che potrebbero servire e tutti in chiesa per una severa perlustrazione.

In chiesa avevo messo nel pomeriggio piccoli martelli con te-sta di legno, Ci sono serviti per picchiare sulle pareti, per sen-tire se al di là di esse ci fosse il vuoto. Alcune cose le ho viste nei films. Delusi e sfiniti ci siamo seduti su una panca per de-cidere se smettere o continuare a cercare.

- Ragazzi, continuiamo, il passaggio segreto c’è e noi lo trove-remo e poi, deciso, è il momento di perlustrare la cappella in cui sono le tombe della famiglia dei duchi di Pratofiorito.

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- Subito, ispettore, aggiunge Mirko, quasi serio.

- Mirko ho la sensazione che quei quattro angioletti siano fon-damentali per la nostra ricerca.

- E allora?

Sono quattro e noi siamo quattro. Disponiamoci in modo che ognuno ne manovri uno e tutti contemporaneamente. Potreb-bero essere la chiave che apre il passaggio.

- E’ una buona idea.

E quando ognuno di noi ha il suo angioletto tra le mani, il comando:

- Girate a destra… tutti a sinistra

- Riproviamo, prima a sinistra…poi a destra

Un consiglio: due a destra… due a sinistra e così oltre.

- Fetecchia! È il commento di Antonio che è di S. Maria di Capua Vetere. Traduco per gli altri: bersaglio fallito.

- Niente si smuove, niente si muove.

- Muoviamoli uno alla volta, suggerisce il romano che parla sempre poco, secondo l’ordine delle chiavi.

Sbalorditi tutti nel vedere che gli angioletti, uno alla volta cam-biano posizione e quando il quarto si è voltato completamente dall’altra parte un rumore ci travolge ed è sinfonia per le no-stre orecchie. Il coperchio della tomba si sposta lentamente e se Mirko non fosse stato lesto lo avrebbe sentito sulla pancia. Ecco il passaggio segreto.

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La tomba è vuota, il buio è totale ma si intravedono, grazie alle pile, degli scalini che portano lontano. E noi sappiamo dove.

- Chiudete ragazzi, è mezzanotte. E’ tardi.

- Scendiamo, è la proposta.

- Un’altra volta, domani, faremo un’altra partita di scopone. Dovete andar via perché Eufemia deve potervi vedere uscire,

- Perché?

- Perché se uscite da questa casa, diciamo verso l’alba, tutto il paese saprà che avremo giocato per l’intera notte e perderò la stima della gente. E quei delinquenti capiranno che siamo vi-cini alla verità e questo non deve accadere.

- Ha ragione.

Ogni cosa è al suo posto. Domani nessuno saprà che cosa veramente abbiamo fatto.

Li accompagno alla porte e a voce alta perché senta:

- Domani sera voglio la rivincita!

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Capitolo 24

La rivincita

Il mio volto è incollato ai vetri della finestra. E’ ottobre inol-trato ed è sera. Freddo intenso: la legna scoppietta nel camino e sulla brace ho messo le castagne. Speriamo che non brucino. Fuori mi affascina la neve. E’ una tormenta che tutto im-bianca. Il vento scuote gli alberi così che le chiome sembrano toccare il terreno. Dall’alto non vedo nessuno che cammini. E come potrebbero? Eppure qualcuno esce dal comando. Sono i tre dell’eterno riposo. Una corsa rapida verso l’osteria e poi una sosta brevissima. Escono e corrono verso casa mia. Sembrano i tre re magi perché ognuno ha in mano qualcosa. La cena? Se è Bella che ha provveduto mangeremo qualcosa di buono: capretto al forno e contorni vari. Ha mandato vino rosso, torta e rosolio.

Ma il desiderio di continuare l’esplorazione del sotterraneo ci spinge a consumarla in fretta. Di nuovo in chiesa ma questa volta sappiamo come scendere.

Il coperchio slitta con lo stesso rumore di ieri sera e appare all’interno della tomba una scala angusta nel buio più com-pleto.

- Attenti, ragazzi, nello scendere. Potremmo ruzzolare.

E uno alla volta si introducono nel budello.

Avrei voluto scendere anch’io incuriosito. Ma è impossibile alzare la gamba destra per entrarvi. Sono anchilosato.

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- Ragazzi, grido, prima di inoltrarvi ispezionate bene il posto in cui siete. Trovate la leva che mette in moto il meccanismo. E’ importante!

Dopo dieci minuti circa, il coperchio della tomba ritorna al suo posto, poi nuovamente si muove ed io ho capito che la leva che comanda il meccanismo è stata trovata e mi rasse-reno.

L’attesa è snervante, sempre, ma ora più che mai!

Le dieci…le undici…mezzanotte…l’una. Sono impaziente, sconvolto. Poi voci che si avvicinano sempre più chiare e uno alla volta gli amici salgono. Rimettiamo al suo posto il coper-chio e di corsa in cucina:

- Siamo infreddoliti e impolverati. Dov’è cortesemente il ba-gno? Vorremmo lavarci le mani.

- Siamo anche un po’ stanchi, preparateci qualcosa di caldo!

- Che giornataccia, aggiunge Antonio.

E che passeggiata, fa eco il romano.

Una buona e gigantesca tazza di latte e caffè, con una spolve-rata di cacao, come al bar, è loro offerta e gustosamente be-vuta.

- Ottimo, grazie!

- Nel sotterraneo si cammina agevolmente, il pavimento non è asfaltato ma in buone condizioni. E’ solo interminabile, quasi un chilometro. La leva per il comando del meccanismo è alla parete destra e si muove agevolmente. Deve essere stata oleata più volte in questi ultimi tempi.

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Quello che ti nausea è la mancanza di aria pura per lunghis-simi tratti e il buio. Per il buio abbiamo provveduto con le lampade alogene che avevamo con noi ma per la purezza dell’aria non c’è nulla da fare. In certi momenti ti senti male.

- Per lunghissimi tratti? Domando.

- Lungo il tragitto devono esserci delle crepe che dall’esterno non sarà mai possibile individuare.

- Continuate, sono curioso di sentire.

- Quando incominciavamo a spazientirci abbiamo intravisto dei gradini che portano in alto e una leva al muro. Come da noi. E abbassatala abbiamo capito anzi sentito che in alto qualcosa si muoveva. Saliamo e sbuchiamo nella cappella del castello. La lastra dell’altare si era mossa. Il meccanismo di apertura è come il nostro. D’altra parte, l’architetto è lo stesso.

- Ed ora?

- Lo incastreremo aggiunge Mirko.

Lo spinge ad agire non tanto il senso di giustizia proprio di chi milita nell’arma, ma anche un sentimento di vendetta.

- E’ un assassino. Un disgraziato perché allo stupro ha parte-cipato anche lui, ed era la sua ragazza! Forse è proprio lui l’or-ganizzatore. Un delinquente!

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Capitolo 25

La sagra dei morti

Ogni anno il due novembre c’è l’usanza per i defunti andare al cimitero, così scrive Totò, in una sua celebre lirica, la livella. E’ un dovere per molti, un’abitudine per altri. E anche qui a Grattamisù è così. Due giorni di festa nel paese, gente anche da lontano e il paese si popola, si anima, gioiosamente si anima, nonostante il freddo e un cielo plumbeo.

Ho aperto per l’occasione l’unica porta del cimitero che è sbarrata dall’interno per tutto l’anno. Lumini e fiori in quan-tità. La piazza è gremita di gente, l’abito buono, gli occhi lu-cidi, tuttavia non trascurano il pacchetto di torrone da portare casa, regalo per le persone che si amano.

Le campane con i mesti rintocchi invitano a messa. E’ solenne oggi la liturgia. La chiesa è gremita. Non manca nessuno. Dall’altare ho guardato la gente cercando i volti desiderati: Al-berto c’è, anche Gustavo. Francesco con i genitori seduto di-stante. Mirko, in borghese, e Bella nella terza panca. Leoluca il piccolo fa difficoltà a star fermo. Ci sono anche dei lattanti e di tanto in tanto il loro frignare fa sobbalzare. Al vangelo, come abbiamo deciso nell’ultimo consiglio di guerra, lancio la bomba.

L’omelia è davvero una bomba. Il volto severo, la voce è ferma:

- Nessuno di noi può sfuggire al giudizio di Dio. Il male com-messo sarà punito e non solo nell’altra vita ma spesso anche

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in questa. Nessun dorma sereno dopo un delitto. Prima o poi la verità uccide, e gridando forte, è vero uccide ma uccide il colpevole.

Un brusio, un mormorio, Mirko stringe forte a sé Bella, Eu-femia si alza di scatto dicendo ad un amico: testardo. Fiodoro dà una gomitata a Filiberto che sottovoce dice: Non capisco! Qualcuno guarda il vicino, Francesco abbassa a testa, Gustavo si alza ed esce. Inutilmente la mamma cerca di trattenerlo prendendolo per un braccio.

- I discorsi politici, dall’altare, non li sopporto.

Alberto ascolta e sorride, poi mentre tolgo i paramenti sacri, si avvicina, saluta cordialmente, porge l’ossequio del genitore, e si congratula per il discorso che condivide totalmente. Un bacio sulla guancia e un arrivederci a presto.

Speriamo non subito, penso, non siamo preparati ad acco-glierti. E ti giuro, sarà un’accoglienza favolosa. La ricorderai finché vivrai. Arrivederci, amico, saluto di nuovo mentre Al-berto si allontana.

Questa sera non dormo in canonica, non desidero una visita inaspettata. Voglio incontrare Mirko e gli amici per varare un piano di accoglienza.

- Eufemia, cortesemente, cerca Mirko e digli se può accom-pagnarmi alla vicina stazione ferroviaria. Vado a Napoli per un paio di giorni, per deporre anch’io un fiore sulla tomba dei miei genitori. In realtà ho chiesto alle suore del Sorriso che si interessano della terza età di darmi ospitalità per questa notte ed è a Grattamigiù che Mirko mi accompagna. In macchina prepariamo l’accoglienza per i nostri cari amici. Una sorpresa!

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Capitolo 26

La cattura

- Speriamo che sia questa la notte decisiva per chiudere una storia che mi sta alquanto debilitando. Onestamente rim-piango la comunità napoletana. Si lavorava tanto, non si era capiti, ma almeno la mia vita non era in pericolo. Il piano dell’accoglienza è stato preparato meticolosamente dai miei tre amici, i miei angeli custodi. Ma è bene chiedere anche l’aiuto del cielo.

- Manda Signore i tuoi angeli sul mio sentiero. In fondo sento di aver paura. Madonna del Soccorso, questa volta specifico a voce alta, mandali al pronto soccorso. E’ una cattiveria, lo so, ma l’ho detta!

Sbarazzarsi di Eufemia non è stato facile e trovare una bugia che regga anche. In ogni caso è andata via. E noi ci organiz-ziamo. L’armadio che è in sacrestia è l’unico in cui ci si può nascondere e dalla sacrestia alla mia camera da letto la strada è breve.

Mirko attenderà, spero sveglio, nello studio, le luci spente e la porta socchiusa. E starò a letto fingendo di dormire.

- Che tutto si svolga secondo il previsto!

Contiamo molto sull’elemento sorpresa. Il tempo trascorre lentamente e nessuno di noi si muove. Solo il sottoscritto si volta a destra, a sinistra, a destra, si alza più volte per il bagno che purtroppo non si può evitare. E poi ecco: il rumore, noto, di una lastra che si muove e i passi felpati della morte che si

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avvicina. E la vedo, incubo terribile, scheletro gigante con falce affilata in mano e viene a mietere. Il cuore mi batte forte e non lo controllo più. Speriamo che non mi venga un acci-denti. Mi riterranno un eroe, ma non ho vissuto tanto per di-ventare un eroe morto! Un cigolio sottile. E’ la porta che im-mette nella cucina che si apre! Sono dunque vicini ed io mi volto dall’altra parte. Non voglio vedere. Sono un vigliacco.

Nell’oscurità: maledetto prete ficcanaso. Non ti hanno inse-gnato a farti i c…fatti tuoi!

Due mani poderose, quelle di Alberto incominciano a strin-gere la gola quando improvvisamente la luce è accesa, proprio come in un film, e una voce tranquilla ma decisa: fermi o sparo.

E’ Mirko, l’angelo vendicatore, con l’arma in pugno deciso ad uccidere: il sorriso sulle labbra, gli occhi vivi, l’odio nel cuore.

Il tentativo di fuga è prontamente bloccato dagli altri due che sono apparsi alle loro spalle. E qualche pugno vola e ha la mia approvazione. Scattano le manette. Strattonati e spinti sono condotti al vicino Comando dei carabinieri per il doveroso interrogatorio. Finalmente solo mi seggo in cucina, ho freddo, la bocca arida e mi sento privo di forze come se avessi com-battuto anch’io. Un thè bollente mi ristorerà. Ma dormire non sarà possibile. Ho nella mente il volto di quei due delinquenti. Alberto, freddo, sprezzante, Gustavo sconvolto. Ambedue sorpresi, mai avrebbero pensato che avessimo trovato il pas-saggio segreto. Sono andati via, l’odio era nei loro sguardi e un “me la pagherai” è il loro saluto. Devono pagare anche per Josip e Marì, ma incriminarli per quella violenza è più difficile. Ci vogliono le prove.

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Capitolo 27

Sussurri e grida

Il paese è in subbuglio, incredulo e sgomento soprattutto per la notorietà delle due famiglie. Mi attardo a guardare dalla fi-nestra dello studio la piazza che nonostante il freddo ed un vento che io sento sempre gelido, si anima.

La prima a bussare è Eufemia. Me l’aspettavo. Farà domande. Vorrà sapere. Invece mette sul tavolo il vassoio con la cola-zione del mattino e neanche una parola. Solo occhi tristi e il volto oscuro.

- Mi dispiace. Poveri genitori!

Una ulteriore sbirciatina dalla finestra mentre sorbisco il latte bollente e un giovane lentamente sale, quasi un condannato a morte, e bussa alla mia porta. Apro. E’ Francesco che chiede di parlarmi. Una sola domanda su un volto impaurito:

- Cosa devo fare?

Non c’è bisogno di dire alto. Ci siamo capiti. Mi intenerisce.

- C’è una sola cosa da fare, costituirsi. E’ una decisione dolo-rosa ma coraggiosa. Quando i due saranno interrogati faranno il tuo nome e sarai arrestato. Credo che sia meglio presentarsi. D’altra parte uno stupro non è un assassinio.

Ora non ci sono più parole. C’è solo un giovane che piange pentito del male fatto e del dolore che darà ai suoi, impaurito per gli avvenimenti futuri, consapevole di aver distrutto pro-babilmente il suo avvenire.

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Lo vedo allontanarsi, attraversare la strada e sparire poco dopo nel Comandi dei carabinieri. Venti minuti dopo il dottor Stillaveleni col camice corre accanto al figlio.

Verso le undici del mattino una lussuosa macchina nera si ferma in piazza. Alla guida c’è Rossana, che vedo per la prima volta. Capisco che è lei perché accanto siede Ciclamino. L’uomo che è dietro, elegantemente vestito, accompagnato da una ragazza che pare più una fotomodella che donna di legge, è l’avvocato per Alberto.

Insieme a Rossana spariscono velocemente all’interno del Co-mando. Ciclamino invece sale verso di me. E’ latore di una lettera che il duca mi ha scritto deplorando l’accaduto e chie-dendo perdono per l’operato del figlio. Non avrebbe mai im-maginato che fosse l’autore di tali efferatezze.

L’unico ad essere stato abbandonato al suo destino è Gustavo. Il sindaco, suo padre, temendo per il suo futuro politico, non ha neanche voluto vederlo.

Sulle ali del vento la notizia giunge anche ai paesi vicini e al pomeriggio l’incaricato per la cronaca nera di un giornale della vicina città di… vorrebbe sapere da me i particolari. Ho chie-sto ad Eufemia di sbarazzarsi di lui, non desidero pubblicità.

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Capitolo 28

La quiete dopo la tempesta

Ancora qualche giorno ed è Natale. Marì è prossima a parto-rire, l’ecografia diceva che è maschio. Josip gioisce. Ormai quella notte è solo un triste ricordo.

In parrocchia prepariamo il presepe. Abbiamo pensato di al-lestirlo in piazza sotto il porticato esterno di un vecchio pa-lazzo di proprietà di Rossana.

Costruire una grotta abbastanza grande per contenere pastori a grandezza naturale gentilmente prestati dalle suore di Valle-piana non sarà un’impresa insormontabile. Pizzicasempre ha promesso di prestarmi un asino e dalla fattoria d’ o chinu e corne ci sarà data una mucca.

Un’idea abbastanza originale che stimola la collaborazione di tutti. Gli animi sono sereni. L’atmosfera è decisamente nata-lizia. Amo da sempre questi momenti. Il ricordo della mia fan-ciullezza mi stringe il cuore. Vorrei rivivere quei giorni per godere nuovamente la presenza dei miei genitori. Quanti ri-cordi dolcissimi. Quelle statuette di creta, i pastori, che ave-vano tutti un braccio o una gamba rotta!

Affacciato alla finestra, dietro ai vetri, mentre nel camino le-gna arde, guardo la piazza e gli alberi innevati, qualcuno spala la neve per rendere il cammino più facile, la grotta non è an-cora completata, Sigismondo e Ottavio che sotto l’uscio dell’osteria, tovaglioli in mano, aspettano clienti che forse non verranno. Anch’io non andrò. Non mi và di scendere e soffro

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troppo il freddo. Un uomo in lontananza agita più volte la mano ed io capisco: il bambino è nato. Marì sta bene.

- E Dio che nonostante tante miserie, continua a sorridere su di noi. E mi sento allegro.

- Avrebbero però bisogno di una casa degna di questo nome, concludo, parlando ad alta voce.

A Natale, ho deciso, al temine dell’Eucarestia della notte scen-deremo tutti in piazza per deporre il bambinello nella mangia-toia con una solenne fiaccolata. E se ci saranno critiche per la novità passeranno.

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Capitolo 29

Un figlio ci è stato donato

Così si canta in tutte le chiese del mondo, nella liturgia della notte e così canteremo anche noi. I rintocchi gioiosi delle campane annunciano ai filiani che è l’ora di incontrarsi in chiesa per la celebrazione del natale nella carne del nostro Dio e Salvatore. Suonano abilmente manovrate da Fiodoro e Fili-berto, i miei ministranti fedeli. E piano piano la chiesa si riem-pie di gente. Incappottati per ben perché in montagna non si scherza col freddo e poi nevica anche ed è bellissimo. Questa è la notte della meraviglia, in essa tutte le cose ringiovani-scono. E nevica, a tratti dolcemente scende come batuffoli d’ovatta che nel vento della notte si lasciano andare ad una danza di gioia. Anche la natura questa notte è complice.

Prima di iniziare la messa mi sono sentito in dovere di avvi-sare l’assemblea che la grotta in piazza era priva di pastori. Alcuni amici avrebbero sistemato i pastori quando noi sa-remmo stati alla fine della celebrazione. Poi insieme con una fiaccolata ci saremmo recati a dare il bacio al bambinello così come è tradizione da secoli. Un ringraziamento ai proprietari per il bue e l’asinello prestati. Senza di essi il presepe non è completo.

E non racconto la bellezza dei canti tradizionali che riscaldano il cuore.

Mentre al termine li invito ad uscire ordinatamente e senza creare confusione per recarci in piazza alla grotta, un bambino entra e a voce alta urla: I pastori si muovono. Non l’avesse

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mai detto. E’ un precipitarsi di persone meravigliate, incre-dule, desiderose tutte come noi del resto di incontrare il so-prannaturale. Ed è un miracolo che nessuno si sia fatto del male. Qualche candela è accesa, molte sono cadute a terra.

Quando arrivo nella piazza, questa è gremita. Mi faccio largo a stento, ho un sorriso sornione di chi sa tutto con anticipo.

- Permesso, fatemi passare, urla Fiodoro, facendosi strada a gomitate.

E qui è l’incanto che tutti lascia senza fiato. Marì, seduta a terra vicino a un fuoco tiene al petto, perché lo allatta, il pic-colo di pochi giorni. Una coperta sudicia le copre la testa e le spalle per darle calore. Josip ravviva il fuoco. E nessuno s’ac-corge che ci sono anch’essi, il bue e l’asinello.

Nella piazza c’è silenzio, nei cuori commozione, sui volti qual-che lacrima.

Eufemia si avvicina a Marì e le affida la capra.

- Tienila, ti servirà per il latte!

Il dottor Stillavelini dice alla moglie: aspettami, torno subito. Quando tornerà, minuti dopo, mette a terra uno scatolo con omogeneizzati, Bella dice a Mirko: seguimi, e Mirko come un cagnolino obbedisce. Ritorneranno con il carrozzino di Leo-luca, vecchio di due anni ma in ottimo stato.

- Noi, se serve, lo ricompreremo.

L’avaro si commuove così tanto che lascia cadere, immaginate un po’, dieci euro. Mai accaduto. Anche qualche altro che abita nei pressi della piazza sente l’esigenza di allontanarsi per ritornare poco dopo con qualche dono.

Page 86: CHI HA UCCISO DON SERAFINO? - Padre Stefano ha ucciso Don Serafino.pdf · Il casellante è un uomo ... L’abbaiare di un cane si fa sempre più vicino ... comprate, comprate. E i

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Marì guarda il bambino che si è addormentato e lo bacia te-neramente. Guardo Josip e mi accorgo che il volto improvvi-samente è diventato serio.

- Josip?

- Si padre.

- A cosa pensi.

- Guardi.

E divento serio anch’io. Tra i doni offerti qualcuno approfit-tando della ressa ha lasciato cadere due maschere di carnevale: Topolino e Minnie.

- Ora puoi anche tu ottenere giustizia. Ecco le prove.

- A che serve la vendetta? Risponde Josip gettando nel fuoco le due maschere perché bruciassero.

Questa risposta mi paralizza, non me l’aspettavo. Una mano mi stringe e mi richiama alla realtà, mentre la piazza gradual-mente si spopola. E’ Rossana.

- Padre, sono la proprietaria di questo palazzo. Al primo piano c’è un piccolo appartamento, vuoto, una stanza e una cucina. Possono abitarvi fino a quando lo vorranno. E’ un modo per risarcirli del male ricevuto. Una preghiera per quei tre.

Salgo anch’io. Domani è un altro giorno, così disse Rossella O’Hara.

Domani dirò dall’altare che ritorno a Napoli!