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1 In viaggio sulle orme del condottiero che sfidò Roma Prima tappa Sant'Antioco, in Sardegna, la Sulkì della tradizione punica Sardegna, l'isola che profuma di oriente Perla contesa da Romani e Cartaginesi Il Porto di Sant'Antioco IL VENTO africano si sveglia a mezzogiorno sull'isola di Sant'Antioco, a Ovest di Capo Teulada. Picchia rovente sul porto fenicio semisommerso e il castello sabaudo in cima alla collina, strapazza le bandiere dei pescherecci, fa ondeggiare le agavi, disidrata i lentischi come un enorme asciugacapelli. Ti cucina dentro. Quando succede, è meglio non uscir di casa e aspettare la sera, finché il mare diventa "color del vino" come quello descritto da Omero, gli osti stendono bianche tovaglie sotto i pergolati e sull'Iglesiente si sveglia la brezza di terra. Sant'Antioco la Sulkì dei fenici e dei cartaginesi non appartiene all'Europa. Lo dicono le vigne millenarie venute dal Libano, i leoni di pietra africani che guardano le porte della città perduta, i bronzi e i cocci sparsi nei campi. Lo confermano gli uomini, irsuti e taciturni come naufraghi di un mondo perduto; e le donne, olivastre, dagli occhi duri, cloni inconsapevoli della dea Demetra. Qui tutto sembra venire da oltremare, persino il mucchio selvaggio di olivastri, corbezzoli e mirti sparsi sul pendio. Anche la laguna interna, che al mattino s'incendia come un tempo a Cartagine. Se l'Africa è vicina, Cartagine alla periferia di Tunisi è vicinissima. 105 miglia appena, meno della Sicilia. A bordo di una trireme ci avrei messo, per andarci, un giorno e una notte soltanto, con l'aiuto del maestrale. Un posto a bordo l'avrei trovato subito, il traffico era continuo. Oggi è tutto finito. Non esistono più linee passeggeri dirette: con l'aereo dovrei fare scalo a Roma e col traghetto a Trapani. Questi peripli infami sono il regalo della globalizzazione: l'Africa è

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In viaggio sulle orme del condottiero che sfidò Roma 

Prima tappa Sant'Antioco, in Sardegna, la Sulkì della tradizione punica 

Sardegna, l'isola che profuma di oriente Perla contesa da Romani e Cartaginesi 

 Il Porto di Sant'Antioco 

 IL VENTO  africano  si  sveglia  a mezzogiorno  sull'isola  di  Sant'Antioco,  a Ovest  di  Capo  Teulada. Picchia rovente sul porto fenicio semisommerso e il castello sabaudo in cima alla collina, strapazza le  bandiere  dei  pescherecci,  fa  ondeggiare  le  agavi,  disidrata  i  lentischi  come  un  enorme asciugacapelli. Ti cucina dentro. Quando succede, è meglio non uscir di casa e aspettare  la sera, finché il mare diventa "color del vino" come quello descritto da Omero, gli osti stendono bianche tovaglie sotto i pergolati e sull'Iglesiente si sveglia la brezza di terra.  

Sant'Antioco  ‐  la Sulkì dei  fenici e dei cartaginesi  ‐ non appartiene all'Europa. Lo dicono  le vigne millenarie venute dal Libano,  i  leoni di pietra africani che guardano  le porte della città perduta,  i bronzi e i cocci sparsi nei campi. Lo confermano gli uomini, irsuti e taciturni come naufraghi di un mondo perduto; e le donne, olivastre, dagli occhi duri, cloni inconsapevoli della dea Demetra. Qui tutto sembra venire da oltremare, persino il mucchio selvaggio di olivastri, corbezzoli e mirti sparsi sul  pendio.  Anche  la  laguna  interna,  che  al  mattino  s'incendia  come  un  tempo  a  Cartagine.   Se l'Africa è vicina, Cartagine ‐ alla periferia di Tunisi ‐ è vicinissima. 105 miglia appena, meno della Sicilia. A bordo di una  trireme  ci avrei messo, per andarci, un giorno e una notte  soltanto,  con l'aiuto del maestrale. Un posto a bordo l'avrei trovato subito, il traffico era continuo.  

Oggi è tutto finito. Non esistono più linee passeggeri dirette: con l'aereo dovrei fare scalo a Roma e  col  traghetto  a  Trapani.  Questi  peripli  infami  sono  il  regalo  della  globalizzazione:  l'Africa  è 

 

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diventata  lontana,  le  isole  hanno  perso  importanza,  il Mediterraneo  s'è  spaccato  in  due,  Islam contro Cristianesimo.  

Proprio per questo cominciamo da qui, dove pure Annibale non è stato mai. E'  in Sardegna che misuriamo  la decadenza dalla gloria di allora. Qui comprendiamo  il "grande gioco" che scatenò  il secondo, micidiale conflitto punico. A differenza dell'Italia di oggi, Roma non  trascurava  le  isole. Voleva fortissimamente la Sardegna perché stava al centro del mare, e quel mare era il volano del suo dominio nascente. Per questo  la rubò a Cartagine alla prima occasione, approfittando di una crudele guerra civile  scoppiata  in Africa dopo  il primo conflitto punico. Fu allora che  il padre di Annibale, Amilcare Barca, capì: con Roma la coabitazione era impossibile.  

Piero Bartoloni è il governatore‐ombra di Sulkì. Come archeologo, regna incontrastato sui tremila anni  di  storia  dell'isola,  le  rovine  cartaginesi  e  la  sterminata  popolazione  di  trapassati  di  un territorio dove  case e necropoli  si  toccano,  in  labirinti  sotterranei  inestricabili. Ma  il professore non è solo questo. E' anche l'unico romano di Roma tenacemente filo‐annibalico che esista. Lui a Sulkì ci abita apposta per stare  lontano dalla Dominante. Si sente a casa sua solo  in quest'ultima periferia, accanto al suo mondo perduto.  

"I Fenici ‐ racconta ‐ venivano dal Medio Oriente, erano gente di mare come i Filistei, i palestinesi. Commerciavano  la  porpora  e  il  bisso  color  dell'argento.  Navigavano  fino  alla  latitudine  dei Quaranta  Ruggenti,  quando  ancora  i  Romani  abitavano  in  capanne  di  fango".  Poi  vennero  i Cartaginesi,  che  erano  Fenici  africanizzati,  intrisi  di  cultura  greca.  Anche  loro  erano  navigatori indomiti. Con l'ammiraglio Annone spinsero le loro navi fino al golfo di Guinea approfittando degli alisei.   Ma Roma  imparò presto a usare  il mare, entrando  in conflitto con Cartagine e battendola nello scontro navale delle Egadi.  Il mare era  la  grande  autostrada,  la  ricchezza,  la misura del mondo conosciuto. Quando se ne allontanavano, gli antichi provavano vertigine da  ignoto. Per questo  le legioni,  dopo  aver  sconfitto  Annibale,  avrebbero  atteso  decenni  a  conquistare  la  Padania,  pur avendo  già messo  le mani  sulle  coste  di mezzo Mediterraneo.  Roma  soffriva  di mal  di  terra.  Per  i  Greci  non  era  diverso.  "Pontos"  ‐  da  cui  "ponte"  ‐  era  la mitica  passerella  per  l'altrove. "Andrai fin dove i popoli non hanno mai visto il mare", aveva detto un indovino a Odisseo col tono di una tremenda condanna. La paura della profonda terraferma e delle sue montagne era tale che gli elleni la battezzarono Epiro, cioè "il non misurabile". Solo un figlio di quelle selvagge Terre del Limite, Alessandro,  sarebbe  riuscito  a  rompere  il  tabù,  spalancando  ai Greci  ‐  con  la  conquista dell'Asia ‐ una dimensione terrestre mozzafiato.  

Vento,  scampanìo,  agavi  che  ondeggiano  come  alberi  maestri.  Saliamo  sul  castello  sabaudo, costruito  su un basamento di  gigantesche pietre puniche.  "Ecco, qui  sei  sull'ago del  compasso. Intorno hai Trapani, Cartagine, Roma, le Baleari. Tutte a un tiro di schioppo. Più lontano, Marsiglia dei Greci. Dall'altra parte  il  faro d'Alessandria  sul Delta del Nilo. Un po' più a Nord,  la  favolosa Colchide in fondo al Mar Nero. A Occidente, le porte dell'Oceano, le Colonne d'Ercole.  

 

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Traguardi  questo  smisurato  campo  d'azione  e misuri  tutta  la  potenza marittima  di  Cartagine".   Ceniamo  all'aperto  con  tonno  fresco e  vino  fenicio, un Kanai  robusto e denso  come  la  terra di Sardegna.  Il viceré mastica  in  silenzio, un  sole albicocca  tramonta nel mare  color prugna.  "Vuoi davvero capire quel mondo?" chiede a bruciapelo. "Pensa a ciò che mangi. Questo tonno l'hanno preso stamattina. Sapevi che a Sant'Antioco c'è una delle ultime tonnare? E da chi credi che qui abbiano  imparato  la  tecnica della  tonnara?". Lascia  la domanda  in  sospeso, poi  stringe  il pugno come per quagliare un concetto, e risponde a se stesso: "Dai Fenici".  

Sono uscite  le  stelle,  la macchina del  tempo  s'è messa  in moto  alla  grande.  "Prendi  i nomi dei pesci. Anche quelli vengono da Oriente. Salpa, da "Shelba". Murena, da "Mrina". Triglia da "Trilia". Orata era  "Orata" già  tremila anni  fa". Con  l'espansione dell'Islam,  l'arabo  ‐ parente  stretto del fenicio ‐ si limitò a far breccia sulla strada già segnata dai cartaginesi. Ammiraglio viene da "Al amir al bakhr", il capo del mare. Feluca, da "Fluka", barca. Cassero è figlio di "Al Kasr", il castello. E poi arsenale, generato da "Dar assina",  la  fabbrica. Roma avrà anche dominato  le  terre emerse, ma forse è stata solo una parentesi  in un mare tutto segnato dall'Oriente. Fenici, Cartaginesi, Arabi, Greci, Turchi. E Venezia.  

Luna,  silenzio.  Alture  con  rocce  sommitali  grigie,  squadrate  come  fortezze,  coperte  di  licheni arancione, disseminate di piccole  lapidi. Saliamo verso  il "Tofet",  il cimitero dei bambini.  In posti così  i  cartaginesi  seppellivano  i  loro  morti  prematuri,  dolcemente,  in  pentole  da  cucina  in terracotta, con accanto giocattoli e piccoli doni. Il mondo punico è disseminato di queste necropoli infantili, riservate a chi non aveva passato ancora il rito dell'iniziazione.  

Ebbene, su questi  teneri monumenti alla pietà s'è consumato uno dei più sporchi  imbrogli della storiografia.  I cartaginesi,  si disse,  sacrificavano  i  loro primogeniti,  li  sgozzavano da bambini e  li gettavano nel  fuoco, per  ingraziarsi  il dio Molok.  L'idea prese piede nell'Ottocento e  fu  in gran voga fino alla fine del ventesimo secolo. Nessuno osava contestarla. Tutto congiurava a tenerla in piedi.  La  "damnatio  memoriae"  dei  Romani  contro  il  "perfido"  Annibale  e  la  sua  gente,  la diffidenza  latina  contro  i  levantini  "imbroglioni",  il pregiudizio  cattolico  contro  i pagani. Perfino l'accusa dei  sacrifici  rituali di bambini, mossa  contro  gli ebrei, e poi  trasferita pari pari  sui  loro cugini naviganti.  

"Era, ovviamente, una balla colossale. Non ci volle molto a capirlo. Allora la mortalità era altissima, sette  bambini  su  dieci morivano  nel  primo  anno  di  vita;  se  avessero  sacrificato  i  sopravvissuti, l'intero popolo fenicio si sarebbe estinto". Bartoloni raccoglie una piccola pietra incastrata in una fessura, la soppesa, la alza verso le stelle. Mormora: "Chissà chi l'ha messa, e quando". Poi sillaba: "Bet‐El".  Casa  di  Dio.  E'  il  nome  di  quel  sasso.  Nel  mondo  semita  bastava  una  pietra  a rappresentare il Tutto. Chissà quanto peseranno le ceneri di Annibale, si chiedevano ironicamente i Romani a guerra finita. La domanda era costruita apposta per ricevere in risposta un'unica parola: "Niente". La conferma, cioè, che il grande babau era diventato nulla, era sparito dalla storia. Ma i Romani non avevano  fatto  i conti col mito. La  leggenda che  ‐ come vedremo  ‐ avrebbe  invaso  il Mediterraneo per secoli dopo la sua morte.  

 

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Nella città più africana d'Europa Luogo che non ha un'anima bellica, ma musicale 

Quel bimbo di Cartagena La Spagna che vide crescere il mito 

"CARTAGENA, destino final Cartagena". E' quasi l'una, mi sveglio di soprassalto. Ho russato un bel po', da quando il treno ha preso la strada della notte. Esco imbambolato, la piazza della stazione è invasa da un vento secco profumato di origano. Oltre le vecchie mura e la baia, intravedo le gobbe nere,  inquisitorie, del monte Galeras e del San  Julian che  finora ho visto  solo  sui  libri, e per un attimo ho la netta sensazione che Lui ci sia. Come se tra noi fosse cominciato un gioco a guardie e ladri. Destino  final... un altro presagio! Già c'è stata quella partenza a Madrid all'ora  fatale delle corride ‐ le cinque della sera ‐ dalla stazione di Atocha, sovraffollata come il giorno dell'attentato, nel marzo 2004. E poi, quel vuoto inquietante e un po' funebre della Castiglia, fatto di pale eoliche, mandrie  e  praterie.  Ora,  questo  sbarco  al  buio,  questo  mare  come  un  sipario,  questa  città silenziosa dove un tempo è cominciata la prima guerra "mondiale" della storia.  

Un  tassista  pazzo  mi  porta  a  cento  all'ora  tra  le  ramblas,  rompe  l'incantamento,  sgomma, bestemmia, evita un frontale, per un attimo mi mette davanti al mio "destino final". Quando arrivo all'hotel ‐ un bunker afflitto da un arredamento mortuario da catena americana ‐ sono di pessimo umore. Ho perso anche  l'orientamento: secondo  le cronache di duemila anni fa dovrei essere su una  laguna alle  spalle della città.  Invece  sono  su un  fottuto  interramento del  secolo ventesimo. Intorno,  cemento  senza  storia.  E  la  sensazione  che  qui  non  ci  sia  niente  da  cercare.   Al mattino trovo  in soccorso nel cellulare un messaggio di mio  figlio. "Ama Cartagena come  l'ho amata  io. Non  troverai mai più una  Spagna più  Spagna di  questa. Vai  sulla piazza degli  eroi di Santiago  de  Cuba.  Il  tuo  viaggio  comincia  lì".  E'  un  delizioso  preludio  di  tapas,  vino  fresco  e atmosfere forti. Finora è stato Michele a seguire  le mie orme nei viaggi. Oggi scopro di essere  io sulle sue, e subito la giornata prende la piega giusta.  

Nell'atrio dell'hotel c'è una gigantografia color seppia di Cartagena nel 1876, ancora simile a quella narrata da Tito Livio. Le barche a vela dei pescatori sono quasi le stesse, le mura e il mare interno sono ancora al loro posto. Ora mi oriento. Sto cercando un mondo scomparso solo l'altroieri, non duemila anni  fa. Anche Pilar Ceniza, guida della  regione Murcia  che ho prenotato dalla Tunisia, m'illumina  la giornata. Arriva con un casco di riccioli matti e una sporta di documenti sul passato 

 

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punico della città. Ha capito al volo che il nostro sarà un viaggio dell'anima. "El sangre de la ciudad es su puerto ‐ è il suo grandioso esordio ‐ Cartagena es una ciudad naval".  

Fuori c'è una gran brezza, luce forte e limpida, e quando usciamo sulla rambla mi spiega che da lì bisogna guardare  le alture della città vecchia "immaginando di  stare con  l'acqua alla cintura", a mollo nella  laguna. "El viaje es  imagination" sorride. "Giusto Pilar", penso fra me, e poi "la vita è sogno", no? Lo diceva nel Seicento un tale Calderon, di cognome Barca come il nostro eroe. Sento in mano la chiave della storia.  

E'  brevissima  l'epopea  di  Cartagena.  Ne  ricapitoliamo  la  storia  davanti  a  un  caffè.  Dunque: Amilcare sente che il partito filo‐romano vuol fargli la pelle, scappa dall'Africa e fa vela a Ovest e, con Annibale ancora bambino, approda a Cadice, ai margini del mondo conosciuto. Soggioga tribù, s'impossessa  di  miniere,  trasforma  il  Sud  dell'Iberia  in  una  colonia,  manda  alla  madrepatria favolosi  carichi d'argento,  riacquista  il  consenso perduto. E' qui  che  il  cognato Asdrubale  fonda Cartago  Nova,  la  più  grande  colonia  africana  in  Europa.  Ma  dopo  pochi  anni  dopo,  mentre Annibale devasta  l'Italia  spadroneggiando  in  casa del nemico,  Scipione  lo beffa marciando  sulla Spagna e prendendo Cartagena. Erano così le guerre di una volta: più facili da vincere in trasferta.   Entriamo in città fra rondini in fregola e immigrate marocchine ciabattanti dai vicoli, lungo quello che fu "el camino de entrada de Escipion". Qui, spiega Pilar, prendono tremendamente sul serio la storia. Ogni  fine  settembre una  confraternita  celebra uno  spettacolare  scontro  armato  romani‐cartaginesi. E quando la città deve chiedere autonomia alla Murcia, lo fa sbandierando la "diversità punica" esattamente come i "lumbard" fanno con i Celti per battere cassa a Roma. "La antiguidad ‐ spiega ‐ es un valor economico". Ma Annibale è anche fascino, e Pilar non sfugge al rapimento per l'uomo del mistero.  

La città cartaginese non è fatta di pietre. E' un vuoto, un'impronta, uno stampo su cui è cresciuto tutto  il  resto:  mondo  arabo,  Bisanzio  e  altro.  Sopra  le  mura  puniche  sono  sorte  quelle settecentesche  di  Carlo  III;  sul  porto  militare  è  nato  il  primo  grande  arsenale  della  Spagna moderna. Oggi sull'arena dei gladiatori c'è la Plaza de Toros. E sulle orme dei cartaginesi passano ‐ onnipresenti  ‐  i  loro nipoti maghrebini, comparse perfette di un  film d'epoca. Nel grande sonno dell'ora media a Cartagena non senti tamburi di guerra. E' come se rullassero sempre altrove. A Sagunto, a Nord di Valencia, che Annibale assedia nel 219 per costruire il suo casus belli con Roma. O  magari  sugli  immensi  altopiani  fra  Tarragona,  Valladolid  e  Albacete,  verso  la  Sierra  de Guadarrama, dove poco prima di partire  il Nostro sconfigge gli  indomiti Carpetani, due volte più numerosi di lui. Il grande africano non è mai dove lo cerchi.  

Oleandri,  cannoni  arrugginiti,  l'ombra  di  un  portico  dietro  l'Arsenale.  Mangiamo  bottarga  e mandorle,  piatto  ‐  garantisce  l'oste  ‐  di  nobile  origine  punica.  Intorno,  panni  stesi  al  vento, postriboli in disarmo e ficus grandi come case. "La ciudad tiene un aire napolitano" sorride Pilar, e cerca di ignorare la modernità blasfema che si fa strada. Un centro fitness sopra il foro e, sul cardo romano, orribili case gialline finanziate dalla Cassa Murcia.  

 

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Ma il senso del luogo resta più forte del cemento. In un'androna suona un pianoforte, sul colle di Esculapio  con  la  cisterna  araba  gridano  i  pavoni  reali,  sul  lungomare  comincia  il  vocìo  dello struscio. Le comari si chiamano dai balconi e agavi enormi cantano nel vento. Ora capisco a pieno il messaggio  di mio  figlio.  Cartagena  non  ha  un'anima  bellica, ma musicale.  Si  lascia  trascinare controvoglia in questa pazzesca avventura.  

Ma Lui dov'è? Se il porto è davvero il "Corazon de la ciudad", è là che dobbiamo cercare. Andiamo dritti all'Arsenale,  in  fondo alla baia, all'imbocco del canale d'accesso all'ex  laguna  interna. E' un posto dove i turisti non entrano, ma in Spagna lo stato è meno "spagnolo" che in Italia, e i militari ci  fanno  passare.  All'ingresso,  la  scritta  "Valor,  lealtad,  disciplina  y  honor".  Dentro, cacciatorpediniere e sommergibili transoceanici al posto dei galeoni. La banchina è la stessa dove attraccava la flotta cartaginese.  

L'ammiragliato è una meraviglia. Scaloni scricchiolanti di mogano con rinforzi antiscivolo di ottone, azulejos  con  l'effige della Madonna del Pilar e un modellino del primo  sommergibile,  costruito dall'ebreo spagnolo Isaac Peral. Ma l'elenco dei caduti "per la patria" è solo quello dei falangisti di Francisco Franco, che pure attaccò Cartagena operaia con i battaglioni di "primera limpieza", orde di assassini  incaricati di spianare  la strada all'esercito. C'è anche  il nome dell'ammiraglio Carrero Blanco, fatto saltare  in aria dai baschi nel dicembre del  '73. Ma sono dettagli, rispetto a duemila anni di storia.  

Vado nella sterpaglia verso l'ultima banchina dimenticata, dove sorge il "Penal de reos y galeras", l'antico carcere dei galeotti, diroccato e deserto, verso  l'uscita della baia. Ne faranno  ‐ che dio  li stramaledica  ‐ un museo e una  "business  school", e  io  sono  forse  tra gli ultimi a  vivere questo incanto. Mi siedo sulla riva a fiutare il vento africano. A Est si spegne l'incendio del tramonto sulla Sierra Minera, dove Amilcare Barca  trovò  il suo argento, e  in un  lampo  la pietraia diventa color cenere, poi azzurra di luce lunare.  

Che  capolinea.  Sono  nello  stesso  tempo  a  Casablanca,  Trapani, Haifa  e Marsiglia.  E'  tutto  così chiaro: Cartagine fu la Venezia del Mar d'Occidente, e Cartagena la sua base in Europa. Pilar se n'è andata, ora sono solo con i gabbiani. Domani comincia la lunga marcia. 

   

 

7  

Verso l'Italia, evitando le strade facili Nel 218 a. C. il condottiero ha 26 anni e comanda 90mila uomini 

Seguire un'ombra sui Pirenei tra fantasmi di cavalieri e stelle 

MA c'è differenza fra cercare Annibale e  il mullah Omar? Forse no. Forse  i duemila anni di storia che separano quei due non contano niente. Annibale e il mullah: sempre di un'ombra si tratta. Mi vengono pensieri così, nella meseta solitaria, mentre viaggio verso i dei Pirenei sotto piccoli scrosci di pioggia.  

E'  il  218  avanti  Cristo,  il  dado  è  tratto,  il Nostro  è  già  in marcia  verso  l'Italia  con  novantamila uomini, dodicimila cavalli e decine di elefanti. Cerco di immaginare quella massa in movimento, il polverone che solleva, l'odore che lascia, il rumore che fa. I bagagli, le scarpe, i vestiti, il foraggio, le  cucine.  Calcolo  che  tra  la  partenza  dei  primi  e  degli  ultimi  dal  campo  debbano  intercorrere almeno  cinque  ore. Uno  sforzo  logistico  pauroso. Novantamila  uomini  e  dodicimila  animali  da nutrire, accampare e proteggere. Senza elicotteri, strade o ferrovie.  

Bivio Lerida‐Barcellona, primi cartelli in lingua catalana, illeggibili per le troppe "L" e "X". Raggi di sole, mucche,  il  paesaggio  che  si  fa  più  verde.  Verso  Est,  in  direzione  di Manresa,  le  guglie  di Monserrat escono dai vapori. Sembrano un'istrice mitologica, penso che  forse  il nome di queste montagne  viene  da  lì.  "Peiro"  in  greco  vuol  dire  infilzare,  e  i  Pirenei  sono  un  gigantesco forchettone  puntato  verso  il  cielo. Ma  c'è  anche  un'altra  spiegazione.  La  leggenda  della  ninfa Pirene  la  quale,  amata  da  Ercole,  partorisce  un  serpente,  scappa  sconvolta  sui monti  e muore sbranata dalle fiere. L'eroe, avvilito, chiamerà quei monti col suo nome.  

Ho con me tre monetine in peltro regalatemi da Pilar, la brava guida di Cartagena. Mi tintinnano in tasca  come  amuleti,  insieme  agli euro e  alla minutaglia  color  rame.  Sono  la  copia di esemplari punici  e  portano  stampate  ciascuna  la  testa  di  Annibale,  del  padre  Amilcare  e  del  cognato Astrubale. Annibale non ha la barba e mostra un naso forte, simile a quello di Alessandro Magno. Della sua vera faccia si sa pochissimo. Esiste solo un busto al museo di Napoli, riprodotto su tutti i libri  di  scuola. Ma  è  già  un  Annibale  tardo,  con  un  occhio  solo.  Il  resto  sono  soltanto  ipotesi.   

 

8  

Risalgo a Nord  in direzione di Andorra, poi taglio su Berga per strade complicatissime  in mezzo a foreste.  Su  e  giù,  su  e  giù,  con  davanti  l'immenso  deretano  dell'elefante  immaginario  che mi precede.  L'auto ha preso già  la  sua andatura.  L'ho battezzata  "Dumbo", a gloria dei pachidermi antichi,  per  propiziarmi  la  traversata  dei  precipizi  pirenaici,  del  Rodano  e  delle  Alpi.  Ormai  è montagna  selvaggia:  non  incontro  più  nessuno,  salvo  boscaioli  e  tecnici  dell'azienda  elettrica. Secondo i sacri testi la strada dovrebbe essere questa.  

Il racconto di Polibio è impressionante. Il gran generale non marcia diretto verso la Gallia e le Alpi. Disdegna  le  strade  facili. Non  cerca una  verdeggiante Roncisvalle. Combatte ancora, assoggetta altri popoli a  Sud dei Pirenei.  Lascia diecimila uomini dalle parti di  Lerida,  come  guarnigione di difesa oltre l'Ebro. Poi offre a pavidi e incerti l'occasione di tornare a casa, rispedendone indietro altri  diecimila.  Perché  lo  fa? Annibale  non  vuole  zavorre  in  viaggio. Ma  a  chi  rimane  promette gloria, e le sterminate ricchezze d'Italia.  

Leggo su Polibio che egli condusse un'armata "non tanto numerosa quanto valida ed esercitata in modo eccellente dalla serie ininterrotta di combattimenti sostenuti in Iberia". La lunga marcia era stata trasformata nell'allenamento alla grande prova. Geniale. "El mejor general ‐ mi aveva detto Pilar alla vigilia della partenza ‐ no es el que tiene el mejor ejército, sino el que sabe utilizar mejor el ejército que tiene".  

A Ripoll,  l'ultimo paesone sotto  i Pirenei,  improvvisamente  lo sento. Capita  la sera,  in un grande albergo sulla strada cantonale, abitato da rumorosi operai di un cantiere. Sto aspettando di cenare in una sala semivuota,  in compagnia del fedele Polibio. Gli altri sono già  in camera a bere birra e guardare la Tv, e un cameriere spiccio mi intima di ordinare in fretta. Fuori rombano camion verso la Francia, sull'erba si condensa nebbia.  

"Annibale  dunque  affrontava  i  passi  dei  monti  Pirenei,  temendo  molto  i  Celti  per  la  natura impervia  dei  luoghi".  Tutte  le  strade  hanno  una  voce,  e  anche  la  "Cantonal  17"  comincia  a raccontare. Bastano due righe di Polibio e  i camion non sono più camion, ma cavalli che vanno. Novemila cavalli imbottigliati nella valle, un fiume animale che va nelle brume in una scia di nitriti, fra urla di  gauchos ed escrementi,  verso  il  campo  già drizzato poco oltre  la  confluenza  tra due fiumi chiamati Ter e Freser.  

Sento  l'odore dei bivacchi, vedo  i fuochi,  le scintille verso  le stelle. C'è anche Lui tra  le ombre. E' vestito come gli altri, un semplice mantello. Ha solo 26 anni, ma gli uomini  lo adorano come un padre. Li sento che ridono e parlottano  in greco e altre  lingue che non capisco, forse fenicio e  la lingua dei celtiberi. Qualcuno  intona una canzone malinconica  (numidica?), altri giocano a dadi. Intanto il cameriere porta un pezzo di capretto al rosmarino di squisitezza assoluta e duemila anni di  storia  cominciano  a  vorticare  in  un  bicchiere  di  brandy  Xeres  de  la  Frontera.   Guardo la sala da pranzo. Mi sembra di essere in Afghanistan o in Bosnia durante la guerra. Anche lì,  locande di provincia con gente strana, cene  in solitudine a rimuginare voci e  indizi,  insonnia e apprensione  sul domani o  su  cosa  ci  sarà oltre  le montagne. Stessi appunti,  stesso quadernino, stessa giubba scolorita senza maniche, piena di tasche con mappe, soldi e passaporto.  

 

9  

E poi quel senso di irrealtà, di sogno, che accompagna le guerre, quando tutto pare un film, anche le macerie e i morti ammazzati. Identico anche quello.  

Fuori nebbia. Penso che seguire Annibale è assai meglio che seguire una guerra vera. Non corro il rischio di essere embedded, finire intortato dai bugiardi uffici stampa degli stati maggiori. E poi, le rovine di un passato millenario non sono forse molto più eloquenti che il deserto contemporaneo dei non  luoghi? E non sarà che,  in un mondo dove tutto è diventato vicino con  Internet e  la Tv, stare lontano dagli eventi è diventato l'unico modo per capire le cose?  

Mattino  limpido, brume che si diradano, dalla vicina Ripoll arriva uno scampanio a distesa. Vedo passare gente vestita a festa. "Ma come, non va a vedere la benedizione delle greggi in piazza?" mi chiede  una  simpatica  concierge.  Esco  e,  senza  accorgermene,  resto  intrappolato  con  "Dumbo" dentro un migliaio di pecore  che  risalgono  lente  la  valle  verso  il Pic de  Finestrelles  e  il  grande Canigou, il Mons Jovis dove gli antichi collocavano la "scala di Annibale". Sto andando nella stessa direzione, alla stessa andatura millenaria, in mezzo a uomini a piedi che lanciano gli stessi richiami. Di nuovo la strada racconta di quel favoloso viaggio. E io ci sono dentro.  

La festa è sul sagrato del monastero di Ripoll, ne vedo il campanile da oltre il fiume, ha il profilo di una  solida  bellezza  romanica.  Sopra  di  me,  una  via  lattea  di  santuari  medievali  persi  nelle montagne.  La  piazza  è  già  piena  di  pecore,  attorno  ai  chioschi  la  gente  beve  vino  da  orci  di terracotta  e  addenta  salsicce.  Sul  frontone,  vecchio  di  milleduecento  anni,  uno  stupefacente dispiegamento di santi, eserciti, cavalli e agnelli, schierati sotto un umanissimo Cristo‐boscaiolo, che mi sovrasta, compatto e potente. Allora  il Cristianesimo non aveva tolto  l'anima agli animali.   Devo prendere  le misura del tempo. M'accorgo che sono passati meno anni tra  la costruzione di quel monastero e Annibale che non tra quel monastero e l'età contemporanea. Per capire meglio, decido  di  non  dividere  il  tempo  in  secoli, ma  in  segmenti  di  sessant'anni,  l'età media  in  cui  si diventa nonni e  la memoria passa ai nipoti. Bastano  trentasei nonni per arrivare ad Annibale.  I monaci medievali di Ripoll ne dovevano contare solo quindici. Forse ricordavano ancora l'evento. E forse quei cavalli e soldati sul frontone sono i nipoti di quella memoria.  

La carretera brulica di immigrati moriscos ‐ in libera uscita per la festa di paese ‐ nordafricani come la  truppa  del  218.  Donne  velate  passano  senza  saperlo  sotto  le montagne  traversate  dal  loro progenitore, e tutte stanno alla larga dal sagrato. Non è il più il buon tempo antico, quando ancora non c'erano gli dei unici a complicare  le cose tra  i popoli. Allora Melqart  ‐  il fondatore di città,  il divino eroe dei punici ‐ diventava Ercole senza imbarazzi. Entrambi abitavano lo stesso pantheon, entrambi si riconoscevano figli dello stesso mito. Ed era solo trentasei nonni fa. 

 

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Annibale traghettò quaranta pachidermi attraverso il corso d'acqua Un'impresa passata alla storia: forse non voleva solo spaventare i romani ma fare qualcosa di memorabile 

Oltre il fiume Rodano Sulle tracce di Ercole

In un silenzio impressionante il Rodano va verso la stretta di Beaucaire dove Annibale traghettò  i suoi  40  pachidermi;  scena  raccontata  magistralmente  da  Polibio  e  immortalata  in  secoli  di grandiose  iconografie. Poco prima dello sbarramento di Vallabréguès un cartello nell'erba  indica "263", duecentosessantatré  chilometri per  la  foce. Da una piazzola posso  vedere  le  chiatte  che entrano nelle chiuse e le famigliole ‐ molti nonni e bambini ‐ che vengono a sentire la voce antica del fiume. Il mio "Dumbo" russa esausto con le ventole al massimo, e se fosse davvero un elefante si succhierebbe il Rodano intero.  

All'ombra di un pioppo tiro le somme di una giornata incendiaria dai Pirenei fino a qui attraverso le terre  dei  Catari,  devastate  dai  papisti  cento  volte  peggio  che  da  Annibale.  "Come  facciamo  a distinguere  gli  eretici  dagli  altri?"  pare  abbiano  chiesto  i  soldati  al  pontefice,  che  rispose: "Bruciateli  tutti,  Dio  saprà  chi  salvare".  Una  giornata  di  gran  vento,  con  le  pietrose  Corbières battute da diafane nubi atlantiche. E poi l'abbazia di Fontfroide, il Canal du Midi e l'impressionante acquedotto romano detto Pont du Gard, immobili nella canicola.  

Sul  lato  francese  dei  Pirenei mi  ha  offerto  riparo  il  piccolo  "Café  de  l'Union",  stupendamente piazzato  tra  un  tornante  e  il  ponte  sul  Tech.  Lì  ovviamente  non  lo  sanno, ma  per me  il  luogo resterà immortale per via di una fornaia ambulante ‐ bella come la dea Cerere ‐ che mi ha salutato dal  furgone,  una  ruvida  ostessa  di  paese  e  una  baguette  al  paté  di  cinghiale  placidamente consumata sotto un platano, con birra e cetriolone d'ordinanza, i piedi quasi a mollo nel torrente.   Poco prima, sul colle di Arès, quello valicato nel 218 dai cartaginesi, non c'era nessuno. Solo una moto  ogni  tanto.  Nella  locanda  ero  l'unico  avventore,  e  il  gestore  era  sul  depresso.  Gli  ho consigliato di disegnare  fuori un bell'elefante e scrivere  in grande: "Annibale è passato QUI". Lui non sapeva niente della storia, e non so se mi abbia preso per matto.  

Quando  alla  stretta  di  Beaucaire  vedo  arrivare  una  chiatta  di  nome  "Passaat",  probabilmente olandese,  con  un  marinaio  francese  a  bordo,  mi  prende  voglia  di  attaccar  discorso.  Da dove venite?  

 

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"Rotterdam, monsieur". L'uomo sta fissando le gomene, mentre i portonazzi della chiusa tornano a  chiudersi.  Gli  chiedo  se  sa  di  Annibale  e  del  suo  passaggio  qui.  "Ici?  Hannibal?  Vraiment?  Racontez‐moi, monsieur".  Sì,  gli  dico,  è  passato  con  cinquantamila uomini e quaranta elefanti. E poiché  i bestioni non amano  l'acqua fonda, ha coperto  le chiatte di terra  e  foglie,  poi  li  ha  legati  per  bene  e  ha  mandato  avanti  le  femmine.  "Formidable, Jumbo che passa  il Rodano, che spettacolo! Le femmine davanti e  i maschi dietro... era un furbone Hannibal".  

Gli  ricordo  che  Annibale  era  un  maghrebino,  dunque  l'Africa  invadeva  l'Europa.  "Un  africano,  sicuro... Qua  è  pieno  di  africani  anche  oggi. Non  è  cambiato  niente, monsieur".  Mi accorgo che intorno, a guardare le chiatte, ci sono anche famiglie immigrate dal Nordafrica. Eh, la  Francia  non  è  più  la  Francia,  gli  dico  mentre  il  livello  dell'acqua  comincia  a  scendere.  "Vero. Ma  non  sono  loro  ad  averci  invaso,  siamo  noi  che  li  abbiamo  fatti  venire. Noi  abbiamo ridotto la Francia a un ipermercato".  

Ora  la chiatta è cinque metri più  in basso, per sentirci dobbiamo parlare forte. Suona una sirena. Lui  canticchia qualcosa.  "C'est pas Hannibal,  c'est pas Hannibal qui  a détruit  la  France". Non  è Annibale, non è Annibale che ha distrutto la Francia. Seguono altre parole incomprensibili. Faccio in tempo a chiedergli come si chiama. "Hercule, mi chiamo Hercule" quasi grida mentre le chiuse si aprono  con  cigolii  spaventosi.  Fantastico.  Hercule,  un  nome  introvabile  oggi.  "C'est pas Hannibal, c'est pas Hannibal..."  

Lo sento che canta il suo refrain, mentre la chiatta scende con la corrente verso il bianco castello di Tarascon. Ed è a Tarascon, subito oltre il ponte, che trovo il monumento ‐ appena inaugurato ‐ alla  Tarasca, mitologico mostro  anfibio  alato  che  divora  i  viandanti  appostandosi  sui malpassi, guadi o gole di montagna. La municipalità  tarasconese  l'ha voluta simile a un'enorme  tartaruga, gonfia come un pallone aerostatico e la pelle coperta di spuntoni tipo mina galleggiante. Tartarino è  l'eroe  liberatore,  il  cacciatore  che  esorcizza  la  belva  sanguinaria,  ma  il  moderno  racconto burlesco  è  solo  l'ultima  trasformazione  di  una  grandiosa  leggenda  antica.  Quella  di  Taras,  o Taranis, corrispondente celtico della sfinge.  

Dal  Rodano  fino  al  Po  la  rappresentano  ancora,  in  mille  varianti,  in  modo  simile  al  drago thailandese sputafuoco che cammina, colorata gualdrappa portata da decine di persone. Una volta me  ne  parlò  un mitico  cacciatore  di  storie  delle  valli  cuneesi,  gigantesco  pure  lui  come  una Tarasca. Sergio Maffioli  si  chiamava, e  in una  sera di  temporale mi  raccontò per ore di  come  il mostro fu sconfitto da Santa Marta e da Maria Maddalena e poi scappò volando, per morire alla falde del Monviso.  

Leggo che un tempo in tutta la Gallia era costume uccidere i viaggiatori e che toccò a Ercole ‐ che poi avrebbe  fondato  la città di Alesia  ‐  interrompere  la barbara usanza. Ercole, come  il marinaio della chiatta olandese. Chissà, mi chiedo, se fu lui a uccidere anche la Tarasca... Sarebbe logico: a pensarci, è  la  terza  volta  che  incontro  il  Forzuto  in questa  strada annibalica. Nella  sua  variante fenicia di Melkqart, lui è già a Cadice, punto d'arrivo spagnolo della famiglia Barca da Cartagine. E' lì che uccide Gerione dalle tre teste, poi ruba le mele d'oro guardate da un drago nel giardino delle 

 

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Esperidi, dolci creature del tramonto. "Espera", in greco è la sera, e il giardino delle Esperidi segna le mitologiche "Porte della sera", dove l'Europa finisce nel Fiume Oceano.  

È attorno alle colonne d'Ercole che  tutto comincia. È al  tempio di Ercole‐Melkqart che Annibale celebra prima di  imbarcarsi nella  sua avventura. È  la  strada di Ercole  che  lui  fa quando passa  i Pirenei, chiamati così dall'eroe greco dopo  la morte dell'amata Pirene. Forse è di Ercole anche  il passaggio del Rodano abitato dalla Tarasca. Ma certo! Ercole di lì è passato di sicuro! Ercole dove va dopo i Pirenei? Sulle Alpi! Va sulle Alpi con la mandria di buoi dal pelo fulvo rubata a Gerione! Ma le Alpi non sono la strada di Annibale?  

Mi  siedo  sulla  riva del  fiume. Mi  gira  la  testa, non  sento nemmeno  le  zanzare. Che  viaggio  sto facendo? Ho con me  il dizionario mitologico, un  libretto che spesso mi toglie d'impiccio. Sotto  la voce "Ercole" ci sono tre pagine di imprese complicatissime, stampate in caratteri minimi. Devo ‐ a questo punto è chiaro ‐ sapere dove va Ercole dopo le Alpi. Dove va, dannato lui? Sul Tevere va. E sul Tevere che fa? Uccide un pastore sputafuoco con tre teste, detto Caco, gli ha rubato due tori e quattro manzi  tirandoli  per  la  coda  in modo  da  confondere  le  tracce.  Di  nuovo  la  strada  di Annibale. E poi? Alle porte dell'Averno va,  in Campania, dove Annibale si gode gli ozi di Capua. E Poi? A Locri, dove il Nostro parte per tornare a Cartagine, quindici anni dopo.  

Pazzesco. E se Annibale avesse fatto APPOSTA la strada di Ercole uccisore di mostri e fondatore di città? Leggo ancora che lui aveva sempre con sé un centro‐tavola d'oro raffigurante l'eroe. "Ercole Epitrapezios"  si  chiamava,  e  aveva  accompagnato Alessandro  il Grande nel  suo  cammino  verso l'ignoto. Ma  allora  è  chiaro:  questo  che  sto  facendo  non  è  un  viaggio, ma  un  pellegrinaggio. Annibale gli elefanti non se  li porta dietro solo per spaventare  i Romani, ma per fare qualcosa di MEMORABILE. Forse ‐ anzi, sicuramente ‐  lui affronta apposta  le erculee fatiche, per segnare per sempre  l'immaginario dei posteri. Le studia,  le pianifica con cura. Lo fa per diventare un Grande, anche agli occhi dei suoi soldati, e legarli a sé per la vita.  

Parto verso Carpentras, col Mont Ventoux violetto nella sera che mi  indica  la strada come  il faro dei naviganti. Ora lo so: sto seguendo un genio, che ha costruito un'epopea ricalcando uno schema immortale. Cielo verde, falcetto di Luna con Venere accanto, luci di villaggi verso le Alpi. 

 

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Gli storici lo prendono per imbecille, come se avesse  affrontato i monti alla cieca. Ma lui aveva l'intelligence" 

La leggenda delle Alpi gli elefanti e la memoria

Un tuono cupo, poi una gigantesca valanga deborda dai picchi, precipita, esplode, riempie l'aria di pulviscolo  iridescente, genera un soffio gelido che mi  investe e alla  fine mi sveglia  in un  lettone francese  che  non  conosco.  E'  l'effetto  ipnotico  delle  letture  di  Polibio:  sono  ancora  vicino  al Rodano, sulle colline attorno a Vaison‐la‐Romaine, ma  la mente è già sulle Alpi. Ho addosso una strana  inquietudine. E' come se  fossi sempre  in  leggero ritardo su di Lui. Trovo  la cenere ancora calda dei  suoi bivacchi,  l'eco delle voci della  sua  retroguardia,  l'odore delle bestie da  soma; ma Annibale ‐ magari per un soffio ‐ è regolarmente più avanti di me.   E' chiaro,  sto andando alla cieca. So a malapena che, passato  il Rodano, Lui non  imbocca  la via maestra della Durance, ma fila a Nord lasciando con un palmo di naso i Romani che l'aspettano in Provenza. Va là dove nessuno oserebbe inseguirlo, tra i Celti transalpini. Ma qui nasce il problema: dopo Orange ogni strada diventa buona. L'Isère, la Drome, l'Aigues, le valli della Tarantaise e della Maurienne.  Ho  individuato  almeno  otto  passaggi  divisi  in  infinite  varianti,  ciascuna  delle  quali sostenuta  da  questo  o  quello  storico,  da  questa  o  quella  azienda  di  soggiorno.  Dalle Marittime  alle Graie,  venti passi  alpini mi  chiamano dicendo:  "HANNIBAL EST PASSE'  ICI".   ...   Nella stanza che madame Houvel mi ha apparecchiato la sera prima c'è un manifesto con la mappa delle  leggende provenzali. Sulle Alpilles è disegnata  la capra di monsieur Séguin e  il  lupo che  l'ha mangiata; più  in basso c'è  la mula del Papa, protagonista di un altro bel  racconto di Daudet. Ci sono pure due elefanti: uno ben piazzato sopra Avignone e l'altro a Buis‐les‐Baronnies, sui meandri del  fiume Ouvèze. Vorranno pur dire qualcosa. Di elefanti  sulle Alpi ne  trovi dappertutto, nelle insegne degli alberghi e sulle grandi strade. A Lubiana, per esempio. O a Bressanone, dove secoli fa transitò  un  pachiderma  donato  dall'imperatore  d'Austria  a  uno  zoo  italiano.   Ma se basta un singolo elefante da circo a fare leggenda, figurarsi quaranta. Gli elefanti sono fatti per restare nella memoria, e nessuno mi toglie dalla testa che Annibale se  li è portati dietro per questo. Lui sapeva che, dopo  la sua performance, qualsiasi altro esercito sulle Alpi non avrebbe avuto  lo  stesso  effetto.  Cosa  che,  puntualmente,  accadrà  già  con  suo  fratello  Asdrubale,  che nessuno ricorda e che pure passa dopo qualche anno, col doppio di elefanti e molte meno perdite. Lo  stesso  con Giulio Cesare, Carlo Magno  e Napoleone.  Tutti  degradati  al  rango  di  imitatori  di 

 

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un'idea.  Da quando è in pensione, monsieur Raymond Rozet ha un solo pensiero: Annibale. Rifare la strada del Grande  Cartaginese.  Da  sette  anni  viaggia  e  raccoglie  documenti  a  quest'unico  scopo.  Per Annibale ha abbandonato la sua Parigi e s'è ritirato a Buis‐les‐Baronnies, un posto fuori dal mondo dove, egli ne è certo, le "grand général" è passato nel 218. L'Europa, scoprirò presto, è piena di tipi così,  febbrili apprendisti‐storiografi a caccia di  indizi, cui  il mito del Nostro ha regalato un senso nuovo e più entusiasmante dell'esistenza.   

  Raymond Rozet 

 Lo incontro un mattino di "grand soleil" sul ponte romano di Vaison‐la‐Romaine, un capolavoro di solidità  a  prova  di  camion,  che  "da  solo  ‐  esordisce  sorridendo  il  francese  ‐  basterebbe  a  farci piangere per  l'apocalisse che fu  la fine del mondo antico". Insieme andiamo a goderci  il fresco al Café des Arts, per confabulare sul nostro uomo.   "Ecoute‐moi, Paolo,  le strade di una volta erano  i  fiumi. Ma  i  fiumi cambiano strada. Se cerchi  i fiumi di oggi sbagli tutto. La Durance, per esempio, si buttava nel Rodano molto più a Sud, oltre Beaucaire".    E  il  Rodano?    "Anche  quello  era  diverso...  Le  rive  erano malariche,  paludose,  si passava per un arcipelago di colline...".   Già, ma Annibale? "Che senso aveva che andasse tanto a Nord? A Nord c'erano gli Allobrogi, e lui li temeva. Gli bastava poco per dribblare  i Romani, che si allontanavano sempre poco dal mare...".   Ma  Tito  Livio,  obietto,  parla  del  fiume  Isère.  "Tanto  per mettere  le  cose  in  chiaro,  io  sono  un integralista  di  Polibio.  Tito  Livio  raccontava  balle,  rispondeva  alle  esigenze  della  propaganda romana.  L'Isère... C'è qualche demente oggi  che parla persino del Grand Saint Berndard  ... Une connerie...". Ho la sensazione di fare un salutare bagno di buon senso. Vista dal Rodano persino la salita del Col Clapier, da cui è iniziato questo viaggio, mi appare improbabile.   "Gli storici prendono Annibale per un  imbecille, come se avesse affrontato  le Alpi alla cieca... Ma figurarsi. Lui sapeva tutto, aveva le sue guide, le sue basi; sapeva dove trovare vettovaglie e aveva i  soldi  per  pagarle...  Aveva  la  sua  intelligence...  era  in  combutta  con  i  Celti  della  Padania...".   Vabbé, ma io domani dove vado? "Mon ami, se uno deve partire da qui per andare lì, che cosa fa: un periplo? No, si informa sulla strada più semplice. Provaci anche tu".  

 

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  Il  latino è micidiale, si scolpisce nella mente. La sera commetto  l'errore di rileggere  i sacri testi, e Tito Livio mi frega togliendomi il sonno. "Postero die profectus adversa ripa Rhodani mediterranea Galliae petit...". Non  capisco, perché dovrebbe  andare  sull'altra  riva del Rodano  se  l'ha  appena passato con gli elefanti? "Non recta regione  iter  instituit, sed ad  laevam  in Tricastinos flexit". Ma come a sinistra? Lì c'è  la Savoia, troppo  lontano! "...  inde per extremam oram Vocontiorum agrit tendit  in Tricorios...". Chi sono  i Tricastini,  i Vocontii e  i Tricorii? Dove diavolo abitano? "... haud usquam  impedita via, priusquam ad Druentiam  flumen pervenit". Ma come? Se va a Nord verso Grénoble, come si ritrova sulla Druentia, cioè la Durance?   Il giorno dopo, esausto davanti al café au lait, non ho ancora un'idea della strada da fare e così, per disperazione, decido di seguire il consiglio di Raymond. Mettermi nei panni di Annibale e cercare la strada chiedendola ai locali.   

  Una veduta delle Alpi 

 Trovo un anziano alla Brasserie du Siècle. Monsieur, gli chiedo, quelle est  la  route du Piémont? Quello  non  ha  un  attimo  di  esitazione.  "Tout  droit,  mon  ami.  Vai  a  Nyons,  segui  la  "D  94" sull'Aygues, riprendi  la Durance per  la Route Napoléon e ti cali su Cuneo per  il Col de Larche...".   Ah... Di  colpo  tutto  fila.  La D 94 è  solitaria e magnifica,  con  rocce  laterali e piccole praterie  sul fiume. Dopo Curnier  faccio pediluvio  sul greto e  sento un'eco di bestie all'abbeverata. Ma  l'eco non è una divinità greca? Non si riproduce all'infinito anche dopo il disfacimento dei corpi? E se è la  memoria  delle  voci,  perché  la  strada  non  dovrebbe  conservarlo  come  un  "file"  qualsiasi?   Viaggio  con  Polibio  in  testa  e  piccoli  rapaci  che  roteano  alle  zenith. Mi  fermo  a  una  fontana, l'acqua è buonissima. Mentre bevo, m'accorgo che sopra c'è scritto "SISTE VIATOR BIBE", "fermati viandante  e  bevi",  in  lingua  latina.  Quello  che  sto  vivendo  è  infinitamente  meglio  di  una navigazione erudita.  

Dopo Serres  tutto  si  riapre e Lui è con me. L'armata  si distende e pascola per praterie,  ruscelli, cicale. Allucinazione? Forse. Ma che importa?  

Mi fermo in un paese di nome Barcillonnette. Penso: "E se c'entrasse Lui?". C'è la radice "Barca", il suo cognome, come  in Barcellona, battezzata dai punici... E se Annibale avesse  lasciato sul posto 

 

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delle  guarnigioni?  M'accorgo  che  sulla  mia  strada  c'è  un  altro  paesone  dal  nome  simile, Barcelonnette.   Vivo una perfetta allucinazione. Sono dopato, avverto piccole esplosioni nel diaframma ‐ come un colpo di  fulmine  ‐ come quando si rivede tra  la  folla una persona perduta tanti anni prima. Non sento  la fame,  la sete,  la fatica. A un distributore, una mora rapinosa dal viso andaluso mi  indica montagne roventi simili a quelle di Cartagena.  

Prendo  i  tornanti  verso  il  Col  de  Larche,  ed  è  un'ascensione  in  un  cielo  opale,  tra  enormi fortificazioni. Dopo un cartello "Si affittano asini da gita", compaiono le prime nevi, poi un camion di  legname  che  sale  in  prima,  uno  skilift  tra  le margherite,  l'Hotel  de  la  Paix,  il  Relais  d'Italie. Ritrovo  la stessa emozione del Col Clapier, dove è nata  l'idea del viaggio. Mi stendo sull'erba del passo a guardare le nuvole, in stato di perfetta felicità, e decido che non mi importa niente sapere se quello che ho visto è vero. 

 

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Alla fine di settembre del 218 il condottiero rincuora  i suoi uomini, rimasti in 30 mila, un terzo di quanti erano partiti 

In cima al passo alpino alla conquista dell'Italia 

Annibale che scorge le terre italiche per la prima volta, Francisco Goya 1771 

"Soldati? A chi  l'Italia!". A noiii!  "E a  chi Roma?". A noiii! Chissà  se andò  così, quando Annibale arrivò in cima al passo alpino e rincuorò i suoi uomini distrutti dalla fatica. Era la fine di settembre del 218 e i soldati erano rimasti in trentamila, un terzo di quanti erano partiti. Molti erano restati a presidiare i Pirenei, altri erano tornati a casa. Tanti erano caduti nei burroni o erano stati uccisi dei Celti durante la salita. Si fa presto a dire "Italia", penso guardando il pendio verso Cuneo dal Col de Larche, detto della Maddalena. Come sul Col Clapier, dove sono passato con gli alpini, scarpate, canaloni innevati, strettoie. Rileggo Livio e Polibio: discesa infame, con neve fresca sopra scivoli di neve vecchia gelata che fa affondare gli animali da soma e rischia di far precipitare gli elefanti. Se questo  è  il  passo  più  facile  delle  Alpi  Occidentali,  dio  solo  sa  come  si  facciano  a  immaginare attraversamenti altrove.   ...   "Inde  ad  rupem muniendam  per  quam  unam  via  esse  poterat milites  ducti...". Qui  Livio  narra l'inverosimile: una rupe che ostacola il passaggio, dopo essere stata scaldata con un enorme fuoco di  legna,  viene  fatta  "esplodere  con  l'aceto".  La  descrizione,  che  ha  provocato  bollori  di emulazione  in  generazioni  di  allievi  ufficiali,  è  stata  rielaborata  all'infinito,  generando  specie  in epoca napoleonica esplosioni retoriche ‐ Ah "le fracassant vinaigre"! Ah "les rochers petardés!" ‐ ben più terrificanti di quelle reali, innescate dai genieri di Annibale.   Vento caldo, fischiar di marmotte. Scendo ex summis Alpibus assieme a camion stracarichi,  in un miagolio  di  freni.  Sono  travolto  dall'ammirazione. Ma  come  faceva  Annibale,  a  26  anni,  a  non avere mai dubbi, a dormire  la notte, con  tutto quell'ambaradan al  seguito? Come  faceva a non dirsi: in che follia mi sono imbarcato? Come manteneva l'ordine in quella babele di africani, celti, iberici,  greci  e  frombolieri  delle  Baleari?  Quale  infinita  autostima  lo  sorreggeva?  Aveva  uno terapeuta al seguito?  ...   La sera, alla locanda "La Randoulina", poco fuori Demonte, racconto alla piccola Eleonora, figlia dei gestori,  la  storia del grande generale e dei quaranta elefanti  che passarono davanti a  casa  sua, 

 

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tanto tanto tempo fa. Dalla casa, che ha preso il nome dalle rondinelle che un tempo nidificavano nella  stalla,  posso  sentire  la  voce  della  Stura  che  galoppa  verso  il  Po  e  i  Galli  Insubri  (leggi Lumbard),  con  i  quali  Annibale  è  già  in  combutta  per  la  sua  marcia  su  Roma.   Cammina  cammina,  arrivarono  nella  grande  pianura  dove  li  aspettava  l'esercito  nemico...  La piccolina ascolta  in  silenzio, non  c'è  videogioco o  cartoon giapponese  che  valga  il  fascino di un racconto. C'è  stato  un  gran  temporale,  la  valle  è  diventata  una manica  a  vento,  gonfia  di  luce giallo‐oro. E' strepitosa  la Valle Stura: anche  la Val Susa sarebbe così, se non fosse stata stuprata dal cemento e dalle tangenti.   

  Nella valle anche la protesta anti‐Tav ricorda il passaggio di Annibale 

 Demonte, sulla scarpata dell'altra riva, è un gioiello assoluto, memoria viva di un Piemunt estinto altrove.   Vado  sul  greto  a  dare  una  tirata  di  pipa.  Penso:  e  se  il  Nostro  fosse  passato  per  più  passi contemporaneamente? Barbarossa, che pure aveva meno uomini, per venire in Italia divise il suo esercito in quattro passi tra Lombardia e Piemonte, perché i suoi cavalli non soffrissero di carenza di foraggio. Perché non dovrebbe averlo fatto Annibale?   ...   Comincia la piana degli italioti deambulanti con telefonino, in apnea sotto nubi monsoniche, persi in una viabilità demenziale. Sulla  tangenziale di Cuneo mi  invade un senso di  incommensurabile decadenza ‐ anzi di sfacelo ‐ rispetto al mondo antico, poi una strana nostalgia per Cartagena e il suo golfo con la Sierra Minera. La contemporaneità mi è diventata intollerabile. Penso che i soldati di Annibale morirono guardando in faccia il nemico e noi, nell'arrogante terzo millennio, moriremo per uno starnuto da febbre aviaria.   Devo andare a Torino, che Annibale assediò e dove, scrive Polibio, egli "fece passare a filo di spada tutti coloro che gli si erano opposti". Una spedizione che "gettò tra i barbari vicini un terrore così grande, che questi vennero spontaneamente ad arrendersi". Cerco  la segnaletica per Torino, ma tutto ‐  letteralmente ‐ mi tira da un'altra parte. Le acque della Stura,  le nervature del terreno,  la segnaletica, le strade, la politica, l'immaginario collettivo, tutto sembra voltare le spalle a Torino e guardare  verso  Alessandria  e  Pavia,  alla  confluenza  fra  Po  e  Ticino.  Esattamente  la meta  del cartaginese.   E' insolubile il mistero per cui Cuneo ignora Torino. Ma una cosa è certa. Se dal Rodano Annibale punta  sulle  terre degli  Insubri,  è questo  il  grande passaggio  a Nordest.  La  Stura. Non  è  solo  la strada più breve, ma anche la più facile, visto che non ci sono da guadare grossi fiumi come la Dora 

 

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Baltea e il Sesia. E poi, prima dell'età di Augusto, Torino non esisteva. Cherasco, invece, sì. Proprio negli  anni  di  Annibale  ci  sono,  nelle  sue  antiche  pietre,  i  segni  di  una misteriosa  distruzione.   ...   In un viaggio mitologico è rischioso  incontrare uno storico. Puoi uscirne con  le ossa rotte. Tu gli dici, per esempio, che l'ascia di tuo nonno resta sempre l'ascia di tuo nonno, anche se tuo padre gli ha  cambiato  il manico  e  tu magari  la  lama.  Lui  ti dirà  che non  è  vero,  spezzerà  l'incanto,  e  tu nutrirai per lui un inevitabile rancore.   Silvia Giorcelli, professoressa di storia romana all'università di Torino, mi spiazza in senso contrario già prima di aprir bocca. Busso alla porta del suo ufficio e mi si para davanti una bionda e delicata creatura iperborea ‐ l'esatto contrario di un topo di biblioteca ‐ con un ipnotico anello basculante al dito e, accanto, una gigantografia di Russel Crowe, protagonista del "Gladiatore". In background, la Mole Antonelliana con un trionfo alpino.   

 

 "Del passaggio di Annibale in Piemonte non ci sono prove ma solo leggende", mette in chiaro, ma poi accetta entrare nel terreno sdrucciolevole della mitologia. "Nei panegirici romani ‐ racconta ‐ Annibale era visto come un empio arrogante, che per questo penò tanto sulle Alpi". Era  il segno, mi spiega, che  il metus punicus,  la grande paura dell'invasione cartaginese, secoli dopo non era stata  ancora  superata.  "Imperatori  come Massimiano,  invece,  superando  agevolmente  i  valichi, dovevano mostrare pietà e rispetto per la sacralità dei luoghi..."  

Strano ascoltare una prof di storia romana che pare uscita da una saga germanica e si muove a suo agio tra gli avversari più tosti della Dominante. La Giorcelli mi porta per mano tra i temibili Celto‐Liguri, indica le ombre dolenti dei Salassi di Val d'Aosta ‐ grandi controllori di passi, fiumi e miniere ‐ che  furono sterminati dai Romani  (i pochi superstiti  furono venduti come schiavi al mercato di Ivrea), m'accompagna  fino  alla  corte  di  re Cozio  a  Susa,  quello  che  incontrai  al  ritorno  del Col Clapier,  e  che  eresse  con Augusto  un  arco  di  trionfo  dopo  l'accordo  sulla  sicurezza  dei  transiti alpini.   ...   "... Nulla finora / resistergli poté. Tremò l'Iberia / da lui percossa, e fu scampo a lui / sottometter se stessa:  invano  i Galli / gli s'oppongon  frequenti,  invitti, ei passa / vede, vince, debella: ergesi invan  l'ostacolo  dell'Alpi  /  che  confinan  col  ciel:  le  non  tentate  /  ripide,  anguste  vie...".   Non ci sarà magari nulla di annibalico nelle misteriose fondamenta di Torino, ma dagli archivi del 

 

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Teatro  Regio  spunta  una  sorpresa:  un  libretto  di  Jacopo Durandi musicato  nientemeno  che  da Giovanni Paisiello, messo in scena il 26 dicembre 1779 sotto il titolo: "Annibale in Torino".  

Un successone, a giudicare da quanto scrive Alberto Rizzuti  in una brochure prodotta per conto dell'Associazione per  la Musica. Un drammone oggi  indigeribile  ‐ troppi colpi di scena, battaglie, amori, ninfe e sfolgoranti apparizioni di dei ‐ che però dimostra la testarda vitalità di una memoria corsara.   Ma  che  fece Annibale,  disceso  in  Italia  per  le Alpi  dei  Taurini"?  "Accampossi  in  vicinanza  della costoro città, e cercò di  far  lega cò medesimi". E che disse, alla vista della pianura?  "Compagni invitti, ecco l'Italia a cui / fra l'armi e fra contrasti / di popoli nemici, e di frequenti / rapidi fiumi e dirupati monti / mercè del valor vostro alfin siam giunti".  

Ormai ci siamo. Verso Piacenza ci attendono le legioni. 

 

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La battaglia campale nel Piacentino. La mappe di oggi  non coincidono con gli spostamenti delle truppe nel 218 

Alla ricerca del fiume Trebbia che nei secoli si è spostato 

 Una curva della Trebbia 

 MALEDETTA  Trebbia.  Sono  fermo  da  ore  in  un  caffè  di  piazza  Vittorio  a  Torino,  a  rileggere  la battaglia e i movimenti delle truppe in quel nevoso dicembre del 218. Appena li confronto con la carta del Touring al 200mila, mi  inchiodo,  sempre  sullo  stesso punto.  Il  fiume,  che mi mette di fronte a infernali controsensi. Esempio: le legioni venendo da Oriente attraversano la Trebbia con zattere per andare a Piacenza.  Impossibile. Oppure: dalla  riva  sinistra, a  fine battaglia,  i  soldati ripiegano sulla città senza passare il fiume. Egualmente impossibile. Traccio febbrilmente schemini sui tovaglioli di carta, ma non ne vengo fuori.  

Guardo  il Po  in grigioverde  che marcia verso  il  luogo  fatale e  chiedo a me  stesso  che  senso ha andarci, se non sono in grado ‐ scorno massimo per un cartografo maniacale come me ‐ di leggere le mappe.  Sono  paralizzato  davanti  alla  prima  grande  battaglia  campale,  come  se  non  volessi prendere atto della prima sconfitta di Roma. O come se avessi paura di verificare  la  fondatezza storica di un mito troppo grande per me. Ho la tentazione di rinunciare a Piacenza, e di chiudermi nella lettura di Polibio e di trasformare la ricerca di Annibale in un comodo viaggio tutto virtuale.   Sandra  Piana,  amica  di  letture  e  passeggiate  padane, mi  ricorda  che  a  Torino  c'è  la  scuola  di guerra. Grandiosa  idea! Cercare Annibale tra gli ufficiali di oggi! Chiedo un permesso e, mezz'ora dopo, sono già atteso al portone d'angolo di un edificio settecentesco dalla potenza prussiana, a due passi da Porta Nuova. Un militare dai gloriosi baffi risorgimentali mi accompagna per scaloni, corridoi  e  cortili  di  quello  che  fu  l'arsenale  di  Torino,  fino  a  un  tenente  colonnello  che  resta interdetto dalla mia  febbre annibalica e mi spiega amorevolmente che negli eserciti è cambiato tutto in pochi decenni.  

"E' un grande tema, ma sa,  le battaglie campali non esistono più". Mi commemora El Alamein, la Marna e lo scontro corazzato russo‐tedesco a Kursk‐Orel, tutto è straordinariamente interessante, ma mi accorgo che non sto ascoltando, perché sono stupefatto dal  luogo. Sono  in un  fantastico luogo  della memoria,  tra  i muri  di  quelle  che  furono  le  Regie  Scuole  Teoriche  e  Pratiche  di Artiglieria e Fortificazione, anno di fondazione 1739. Sono nella prima grande  industria di Torino, nata secoli prima del Lingotto. La sapienza metalmeccanica e quella militare del Piemonte nascono qui. Qui s'è costruita l'unità d'Italia.  

 

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Una  galleria  di meraviglie.  Stampe  di  grandi manovre,  la  pagella  con  i  voti  dell'allievo  Camillo Benso  di  Cavour,  il  tavolo  della  commissione  d'inchiesta  su  Caporetto.  Nella  biblioteca monumentale,  incunaboli del Quattrocento e  l'Enciclopedia di Diderot e d'Alembert  in originale, 33  volumi.  Nell'annuario  del  Regio  Esercito  scopro  persino  il  nome  di  mio  padre,  nominato sottotenente il primo ottobre 1939, giusto in tempo per la guerra. Poi, una targa di bronzo, che mi conferma quanto so da tempo: le guerre stellari sono niente rispetto ai millenni. "La disciplina dei Romani li fece trionfare delle astuzie dei Greci, della forza dei Germani, dell'alta statura dei Galli e di tutte le nazioni della Terra". Tutto come allora.  

"Ma adesso venga a vedere  il Crispillo", mi dice un ufficiale,  invitandomi a entrare  in un archivio con  un'occhiata  complice.  Estrae  da  un  cassetto  uno  scatolone,  e  ne  toglie  nientemeno  che  il capostipite  del  Risiko.  Il  nobile  e  sconosciuto  "Crispillo",  versione  sabauda  del  "Kriegspiel", complicatissimo  gioco  prussiano, munito  di  tavole  di  tiro,  regoli, mappe,  abachi  per  i  calcoli, tabelle, istruzioni e centinaia di rettangolini in piombo, coperti di carta colorata, a rappresentare i reparti in movimento.  

Eccolo,  lo strumento giusto per capire  la battaglia della Trebbia e  i suoi demenziali controsensi! Provo a sistemare in fretta i rettangolini sulla carta, di qua e di là di un fiume immaginario, sposto le legioni di Publio e Tiberio, ripasso a memoria i passi di Livio e Polibio, la carica degli elefanti, la ritirata verso Piacenza sotto la neve del solstizio d'inverno. Ma nemmeno così funziona. Maledetta Trebbia. Comincia nel peggiore dei modi la mia campagna d'Italia.  

Rivergaro  sulla  Trebbia,  caldo da bestie,  leggo Polibio  sotto un platano davanti  alla piana della battaglia.  Il  testo  è  di  una  bellezza  esaltante,  ha  la  potenza  di  un  training  autogeno.  Annibale spiega ai soldati che combattere lontano dalla patria è un enorme vantaggio, perché non c'è via di fuga, dunque non esiste altro che  la vittoria o  la morte. Eccola,  la genialità del condottiero, che trasforma gli svantaggi in forza vincente.  

Mi chiedo che ci faccio qui, con  le mie miserabili questioni topografiche. Sono venuto a fare che cosa?  Quale  istinto mi  spinge  a  fiutare  ancora  il  terreno  in  questa  giornata  d'agosto?  Il mio sguardo è catturato dal curvone del fiume, che all'uscita dell'Appennino piego improvvisamente a sinistra, pur  in assenza di ostacoli. Capire una battaglia può essere un'ossessione, e quel  fiume maledetto  mi  fa  sentire  impantanato  come  nelle  paludi  del  Mekong.   D'un tratto ci penso. I fiumi possono spostarsi! Ma certo... non me ne ha parlato anche monsieur Rozet prima della traversata alpina? "Écoute‐moi, Paolo ‐ ha detto ‐ le strade di una volta erano i fiumi. Ma  i  fiumi  cambiano  strada".  Come  non  ci  ho  pensato  prima? Hanno  cambiato  strada  i meandri  del  Po,  figurarsi  la  Trebbia!  Forse  ho  trovato  la  chiave  dell'enigma.   Difatti  è  un  geologo,  non  uno  storico,  a  soccorrermi  come  un  cherubino  del  cielo.  Arrivo  a Giuseppe Marchetti con un giro acrobatico di  telefonate su rete cispadana:  lui s'accomoda nella mia  auto  impolverata  dalla  traversata  alpina  e  pirenaica,  e mi  spiega  subito  che  il  tema  l'ha studiato  così  a  fondo  che ora  è  in  grado di  leggere ogni nervatura del  terreno. Viaggiando, mi 

 

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racconta  che  anche Gianni Granzotto,  anni  avanti,  inchiodatosi  sulle  stesse  contraddizioni nella scrittura  del  suo  "Annibale",  aveva  tratto  giovamento  dalle  sue  spiegazioni.   Dunque sì, certo: la Trebbia s'è spostata, come un serpentone, per dribblare i suoi stessi detriti. S'è spostata, e di tanto, quindici chilometri a Ovest, traslocando lo sbocco sul Po a monte di Piacenza. Nel 218 avanti Cristo costeggiava ancora la Statale 45 per Bobbio, che arriva dritta in città e che, se guardi bene, viaggia da Rivergaro in giù sull'orlo di una scarpata coltivata a grano, come l'argine di un fiume che non c'è. In campagna, segnato sulle carte rinascimentali tra Verza e Niviano, trovi il nome del rigagnolo superstite:  la Trebbiola. E  in città  individui facilmente  l'antica confluenza: sta nel punto in cui via Benedettine entra come in un fossato, accanto alla sede del giornale "Libertà".   Dal piccolo cimitero di Niviano, alto sulla scarpata del fiume scomparso tra i campi di erba medica, tutto è perfettamente  leggibile.  Il campo dei Romani ad Ancarano. La valletta verso Rivalta dove Magone, prima che  facesse giorno, appostò  i suoi cavalieri per  l'agguato decisivo.  Il meandro di Rivergaro, improvviso, secco come lo scambio di un treno in una stazione, con le acque cristallina della Trebbia  che piegano a Ovest  in direzione di Rivalta e del  campo di Annibale. Tutto  torna: Polibio aveva ragione.  

Ora  li  sentiamo  e  li  vediamo,  come  nelle  stampe  delle  grandi  manovre  esposte  nei  corridoi dell'Arsenale  a  Torino.  Sulla  piana  è  tutto  un  attestarsi,  dispiegarsi,  arroccarsi;  un  gioco  di convergenze,  ripiegamenti  e  avanzate.  Il  campo  della  prima  grande  sconfitta  romana  è  un cimitero, dove  ‐ mi racconta Marchetti  ‐ da sempre  i contadini sussurrano di zanne di elefante e ferri romani sepolti. A Campremoldo ci sarebbe un ossario romano e cartaginese... A Rottofreno Annibale avrebbe rotto le briglie della sua cavalcatura, da cui il nome del paese... Tutti sanno, tutti scavano, e nessuno racconta nulla, nella ricca piana piacentina.  

Hanno ragione: tanto  il Palazzo se ne fotte. La Padania ha altro da fare che ricordare battaglie di duemila anni  fa. Meglio mettere  in batteria altri cinque milioni di maiali,  irrigare nuovi campi di angurie con  l'acqua del Po che muore. A Rottofreno, davanti a un bar, un caustico pensionato  in canottiera ci dice che lì, davanti alla chiesa, c'era la tomba di un generale russo, morto in un'altra battaglia della Trebbia nel Settecento, ma ci hanno fatto sopra un parcheggio. "Curia, Comune e Soprintendenza tutti d'accordo".  

Sul ponte della Statale 10 trovo un monumento austriaco del 1820. Un tronco di colonna in granito rosa  di  Baveno,  che  trema  al  passaggio  dei  camion.  C'è  scritto  in  latino  che  di  là  passarono, vittoriosi,  i generali Hannibal, Liechtenstenius, Souvaroff et Melas. Per  il resto, a Piacenza, niente che ricordi la leggenda. 

   

 

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La strada che è la chiave delle vittorie di Roma Costruita alla fine della seconda guerra punica: il condottiero fa ancora paura 

La forza della via Emilia linea di frontiera lastricata 

 La strada romana sotto il livello attuale della via Emilia 

 PIACENZA,  pilastro  d'inizio  della  via  Emilia.  Intorno,  zanzare  e  la  Padania  intera  che  crepita  di temporali  erranti.  Sono  fermo  come  un  ramarro  tra  i  camion,  in  asse  sul  rettilineo  che  dovrà spararmi  come una palla di  fucile  in direzione di Bologna‐Rimini. Non un  ramarro: peggio, una mosca  in  una  ragnatela.  Dopo  duemila  chilometri  clandestini  da  Cartagena,  improvvisamente sento che l'ordine romano mi cattura e mi paralizza.  

Se Roma aveva un marchio, era  la sua allergia alle foreste, terreno d'elezione delle  imboscate, e questa paura nei secoli ha generato un'ansia quasi patologica di ordine territoriale. Roma dunque è,  a  pieno  titolo,  la  via  Emilia;  questo  stradone  fiancheggiato  per  quasi  trecento  chilometri  da campi  ossessivamente  rettangolari,  quelli  che  Roma  usava  dare  in  premio  ai  centurioni  in pensione. Lo è quasi più delle arene della Provenza, o dei giganteschi acquedotti spagnoli che ho incontrato sul mio cammino.  

Leggo la data di costruzione: 186 avanti Cristo. La seconda guerra punica è appena finita, lo choc dell'invasione  è  ancora  diffuso,  la  Penisola  sfiancata  da  quindici  anni  di  battaglie,  scorrerie  e reclutamenti; ma soprattutto Annibale è ancora vivo, circola nel Mediterraneo alla ricerca di alleati contro Roma. La via Emilia fu fatta in questo clima. Forse fu addirittura generata da questo clima.   Barrito di  freni,  clacson,  autoarticolati  in  coda nella piana  ipermercata. Nulla,  apparentemente, che mi colleghi all'ombra maledetta che cerco. E invece no, proprio quella via è la traccia. Ora ne sono certo. Lo stradone dove si  imbottiglia  il traffico della regione più opulenta d'Italia, costruito ventidue secoli fa dal console Marco Emilio Lepido, è stato generata dalla grande paura annibalica. E' nata a causa di Annibale.  

Nessuno più, aveva deciso il Senato, avrebbe dovuto passare impunemente gli Appennini. I Barbari avrebbero potuto provarci ancora, magari arrivando dai valichi facili delle Alpi Orientali. Occorreva dunque una barriera, ma una barriera  intelligente. Non una miserabile muraglia  ‐ come  la Linea 

 

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Maginot, ridicolizzata dalla Blitzkrieg nazista ‐ ma una strada. Una strada veloce per le legioni, che collegasse  le  colonie‐avamposto  da  Rimini  a  Piacenza,  attraverso  Forum  Julii  (Forlì),  Bononia (Bologna), Mutina (Modena) e altre.  

Parto nel temporale, incrocio Tir e supercilindrate dirigenziali, attraverso odore di erba e porcilaie, e a un tratto me ne accorgo. La Via Emilia non è una strada. Non è un vettore di espansionismo come  saranno  le arterie  romane verso  le Gallie o  il Danubio. La via Emilia non  serve ad andare "verso"  qualcosa,  ma  a  segnare  un  territorio.  E'  una  linea  d'arroccamento,  un  "Limes". Un'incredibile,  funzionale,  efficacissima,  avveniristica  e  geniale  frontiera.   "Mi scusi, dovrei salire al dipartimento di storia antica, ho un appuntamento col professor Brizzi".  Università  di  Bologna,  via  Zamboni  38,  ora  della  siesta.  L'usciere  alza  lentamente  gli  occhi dall'interno  del  chiosco,  in  fondo  al  corridoio. Mi  guarda  con  stupore,  sono  l'unico  umano  di passaggio a quell'ora infernale.  

"Il professor Brizzi ‐ insisto, temendo l'uomo non abbia capito ‐ quello che si occupa di Annibale". L'impiegato  sorride,  e  intanto  lo  stupore  del  suo  viso  s'orienta  decisamente  verso  l'ironia  e  il compatimento.  Poi  con  accento  emiliano  profondo,  strascicando  esageratamente  le  zeta, risponde:  "Guardi  che  il  professor  Brizzi  non  si  occupa  di  Annibale...".   Sto per replicare no, lei si sbaglia, ho davvero un appuntamento con lui, quando l'usciere finisce la frase  lasciata  appositamente  a  metà.  "...  il  professor  Brizzi  è  Annibale".  Poi,  dissimulando  la soddisfazione  per  la  battuta,  aggiunge  meccanicamente:  "Brizzi  ascensore  quarto  piano  scala interna  fino  al  quinto  prima  porta  a  destra  accanto  alla  segreteria".   Salgo in una facoltà che è un labirinto si scale e retropassaggi, chiedendomi che faccia avrà l'uomo che è diventato Annibale. La porta al quinto piano è socchiusa. Dentro, un uomo della mia età, riccioluto  e  mite,  sguardo  ironico  incompatibile  col  topo  di  biblioteca,  che  scatta  come  un attendente per aprirmi la porta e mi fa accomodare. "Piacere Brizzi", ed è quanto basta per intuire un tosto accento bolognese.  

Ride della battuta del portinaio, e ammette che c'è del vero. "La mia identificazione in Annibale è tale che per capire certi angoli bui della sua storia devo mettermi nei suoi panni. A  tanti storici verrebbe  l'orticaria. A me no". Gli racconto del mio viaggio. Lui ascolta con qualcosa di più forte dell'interesse.  Invidia.  "Che meraviglia,  quei  luoghi  li  dovrò  vedere  anch'io  un  giorno  o  l'altro".   Dice cose che non mi aspetto da un professore di storia antica. "Ah,  la verità storica... è un'isola‐che‐non‐c'è, ti spalanca buchi neri che puoi riempire solo col condizionale...". Con Annibale svela un rapporto intimo. Io con Lui sono andato oltre, ho scritto dei libri in cui mi sono messo nelle sue scarpe, uno addirittura in prima persona".  

Penso  sia  anti‐romano,  come  tanti  filo‐cartaginesi,  ma  mi  sorprende  anche  qui:  spiega  che l'africano  fu, anzi,  il grande collaudo della grandezza di Roma. "Nessun popolo avrebbe  resistito 

 

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dopo tutte quelle sconfitte sul campo. Con Annibale la storia cambia marcia: quando Roma supera lo  choc  della  guerra  punica,  rompe  ogni  diga  e  dilaga  nel  Mediterraneo".   Passa  senza  fermarsi  dall'italiano  al  latino, mantenendo  inalterato  l'accento  bolognese.  "Roma però  non  si  limitava  a  conquistare,  sapeva  anche  gestire  i  territori...  non  come  noi  oggi  in Afghanistan  e  in  Medio  Oriente...  Provincias  difficilius  est  optinere  quam  facere...  Provinciae viribus parantur, jure retinentur...". Traduce: "Le province si prendono con la forza, ma si reggono col diritto. Facile conquistarle, difficile tenerle...".  

Un giorno Ryzsard Kapuscinski mi disse che i generali americani avrebbero dovuto leggere Erodoto e Senofonte prima di affrontare l'Iraq. Ora il conto tornava.  

"Ma  lei verrebbe con me sulla strada del Cartaginese?", chiedo a bruciapelo al Brizzi sempre più infervorato nel racconto. Lo chiedo sapendo già che accetterà. E' un buontempone, acchiapperà l'occasione al volo e sono certo che mi divertirò come un matto. Resta interdetto, poi fa un po' di melina: mi lasci pensare, forse, vediamo, devo spostare degli impegni, domani ho un colloquio... E' fatta! E'  chiaro  che è  fatta. Non ho dubbi. Per qualche giorno  l'uomo  che divenne Annibale mi porterà alla ricerca di se stesso.  

Andiamo a  studiare  il percorso  sull'enorme atlante  storico del Barrington, magnifica palestra di viaggi  virtuali,  inchiavardato  a  un  leggio  nella  biblioteca  al  quarto  piano.  Dentro,  profumo  di praterie,  foreste,  e  i  colori  di  un'Italia  vergine,  appena  segnata  da  qualche  strada.  La  Flaminia, l'Emilia, la Cassia.  

Vedo tutto, come se navigassi con un lettore satellitare. I bracieri fumanti degli Insubri a Nord del Po. Le ridotte fortificate dei Sanniti nelle  irsute montagne  irpine. Le città greche del Metaponto, trafficate e piene di navi. Sibari, con  la casa dove morì Erodoto, da qualche parte sotto  il monte Pollino  in  Calabria.  I  palazzi  rossi  e  giallini  degli  etruschi  e  i  templi  dei  loro  aruspici  chini  sulle interiora  degli  animali.  I  campi  di  grano  e  gli  ulivi  dell'Apulia.  Vedo  anche  l'accampamento  di Annibale, i quartieri d'inverno, il freddo padano terribile, la nebbia, e gli elefanti che muoiono uno per uno.  

"Quelle  strade  ‐  sussurra  il  prof  per  non  disturbare  gli  studenti  ‐  sono  la  chiave  della  forza  di Roma...  lastricate,  indistruttibili,  sopraelevate  lontano dal  fango,  capaci di  far passare  le  legioni anche d'inverno, anche sulle montagne...  le  legioni andavano avanti disboscando e costruendo  la strada  della  loro  stessa  avanzata...  una macchina micidiale... Quei  fanti  erano  dei mostri,  con trenta chili sulle spalle erano capaci di tutto".  

L'Italia ci aspetta, oltre l'Appennino. 

 

 

 

 

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Laddove si scopre che i Romani furono alfieri della razza bianca e Annibale lascia tracce ovunque nei nomi 

Dentro al mistero dell'Appennino dove il gran Generale perse un occhio 

  

È  fatta.  Si  va  per  l'Appennino.  Il  superesperto  professor  Giovanni  Brizzi,  dopo  una  cena memorabile  a  base  di  lasagne,  lambrusco,  bolliti  in  salsa  verde  e  quantità  impressionanti  di aneddoti  conditi di  latinorum, ha accettato di  imbarcarsi nell'avventura annibalica non prima di avermi solennemente nominato "Viator", il viaggiatore. Starà con me ‐ ha promesso ‐ almeno fino a Canne, per narrarmi la strage più spaventosa del mondo antico: sessantamila morti in un giorno, il macello applicato per  la prima volta agli umani. Canne,  il  capolavoro  tattico  che ha  incantato generazioni di allievi alle scuole di guerra.  

Aspettando  la  partenza  sulle  orme  del  Nostro,  vago  nel  labirinto  universitario  bolognese;  un arcipelago di scalette  interne, cunicoli, porte sbarrate, pareti di  libri, ballatoi, muri trompe‐l'oeil, studenti  prigionieri  di  stanzette  senza  finestre.  Come  nella  biblioteca  del monastero  dove  Eco ambienta "Il nome della rosa", anche nel dipartimento di storia antica si fanno scoperte intriganti. Sugli scaffali di una sala di lettura trovo per esempio la "Storia di Roma" in trenta volumi voluta da Mussolini  negli  anni  della  conquista  d'Etiopia.  Mi siedo accanto a una studentessa giapponese tutta concentrata a ticchettare sul suo computer, e apro il primo volume.  

Intestazione  maiuscola:  "ISTITVTO  DI  STVDI  ROMANI",  con  fastidiose  V  al  posto  delle  U.  Le consonanti, è chiaro, erano più maschie delle vocali. Segue foto del Duce abbronzato, con inusuale giacca  e  cravatta,  sguardo  diagonale  sinistro,  vagamente  mistico,  rivolto  a  chissadove.   Vergata  a mano,  la  dedica:  "Al  camerata  prof.  Carlo  Galassi‐Patuzzi,  all'inizio  della  finalmente romana e  italiana storia di Roma, con  fervido sincero augurio. Roma, 9  febbraio XIII, Mussolini".   Due pagine dopo,  fortificato dal viatico,  il suddetto Galazzi‐Patuzzi dilaga. "... un popolo che nel nome di Roma è rinato ad unità e potenza...", popolo "posto alla testa della civiltà europea dalla 

 

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rivoluzione fascista" e che "sotto la guida di un condottiero romano ha infranta la coalizione di 52 stati e fondato un impero...".  

È un crescendo di vanagloria privo di senso del ridicolo, lontanissimo dalla brevità romana e dalla modestia della Repubblica. Doveva essere un affarone ‐ penso ‐ insegnare storia romana ai tempi del  Fascio.  Potevi  prostrarti  al  regime  fingendo  di  ammirare  Roma.  Leggo avanti: "Roma ha sempre esercitata una missione normalizzatrice nei confronti della razza bianca..."   Falso! Prevedibile e  falso. Roma  fu aperta a  tutti  i popoli della Terra. Ebbe  imperatori  spagnoli, africani,  dalmati,  asiatici.  "Roma,  fonte  di  una  civiltà  cristiana  che  si  diffonde  in  tutto  l'orbe".  Falso anche questo! Il cristianesimo diede a Roma il colpo di grazia. Distrusse il Pantheon politeista che consentiva ai diversi popoli di essere rappresentati con pari dignità.  

I trenta volumazzi fascisti ‐ ora mi appare chiaro ‐ vennero messi in cantiere per sdoganare le leggi razziali  e  suggellare  l'alleanza  col  Vaticano.  Le  premesse  dell'antisemitismo,  poi,  c'erano  tutte. Proprio  in  quegli  anni  usciva  sugli  schermi  "Scipione  l'africano",  dove  Annibale  è  il  prototipo dell'infido levantino, grasso, ributtante, con un occhio solo. Macellaio di popoli, traditore dei patti, sleale  tessitore  di  inganni.  Tutto  quadra:  i  fenici  parenti  degli  ebrei,  dunque  razza  inferiore. Figurarsi i cartaginesi, fenici imbastarditi con gli africani.  

In cima a una scaletta di  ferro da sommergibili, sbuco  in un altro  recesso accademico, popolato stavolta di sole donne, nel numero fatidico di tre. E' lì che Patrizia Tabaroni, sapiente sacerdotessa di cose antiche, m'illumina sulla  leggenda dell'uomo nero, aprendomi una mappa dell'Appennino Tosco‐emiliano dove il nome di Annibale ‐ segnato in rosso ‐ punteggia come la scarlattina valli e fiumi oltre ogni limite dell'immaginazione, radiografando dal Po in giù un'epidemia toponomastica che non ha eguali rispetto agli altri Grandi della storia.  

Casteggio:  fontana di Annibale. Modigliana: pozzo di Annibale. Due ponti d'Annibale  sull'Arno e due sul Sieve. Un canto d'Annibale nel Mugello. Un monte Annibolina verso  le spiagge di Rimini. Una singolar, polarissima tenzone medievale a Faenza, chiamata "palio del Niballo". Pievepelago passa ogni  limite: passo di Annibale, ponte d'Annibale, via d'Annibale, campi d'Annibale. Poi un paese di nome Magona (da Magone, si dice,  il fratello minore di Annibale), una frazione di nome Tàrtago  e  un'altra  di  nome  Zerba,  fantasticamente  attribuite  a  Cartago  e  Djerba  dai  valligiani piacentini.   Pazzesco.  In Emilia e Toscana  il Nostro è  rimasto pochissimo  ‐  le ha  tagliate  in  fretta nella  sua Blitzkrieg  ‐ eppure  il suo nome è ovunque. Perché? Cosa accadrà verso Sud, dove  lui è stato per quattordici  anni?  Come  sulle  Alpi,  dove  almeno  venti  passi  si  contendono  la  palma dell'attraversamento, anche  in Appennino tutti vorrebbero far passare Annibale da casa  loro. Ma mentre  sulle  Alpi  la  memoria  si  sorregge  più  su  dibattiti  accademici,  qui  essa  affonda nell'immaginario ‐ nel subconscio quasi ‐ della nazione. Entra nella carne del Paese. Annibale è  il Gramling, l'uomo nero nelle fiabe per bambini.  

 

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"Se c'è fosco mistero in un luogo, Annibale viene invocati a dargli un senso", sussurra Patrizia nella penombra del suo "sancta sanctorum". Annibale è la risposta perfetta agli enigmi. C'è un vecchio ponte medievale? Invece di chiamarlo ponte del diavolo lo chiamano ponte d'Annibale.  

Esiste una  località di nome  Sanguineto? Deve averci  combattuto Annibale...  Si  scopre un altare votivo  con  punte  di  freccia  sulla  cima  del  Falterona?  Roba  cartaginese  di  certo.  L'osso  di  un mastodonte? E' uno dei suoi quaranta elefanti. Uno scheletro nel sotterraneo di casa? Un soldato sbandato della guerra punica.  

Non c'è una delle valli da Piacenza a Cesena che non rivendichi il blasone del transito illustre. Liti furibonde  sul  tema  avrebbero  diviso  persino  i  sapienti  dell'illustrissima  Accademia  degli Incamminati. Giogo della Scarperia! Ma no, non esiste, il posto giusto è il Sasso di San Zenobio. La Futa! Fu sicuramente la Futa! Macché Futa, a quei tempi la strada migliore per l'Arno era il valico di  Porta  Collina,  poco  oltre  Porretta. Niente  affatto,  giurano  alcuni:  la  strada  è  Forlì, Meldola, passo del Muraglione. No, no e poi no, giurano altri, Lui è passato per Castel dell'Alpi. Oppure  in Val Lamone.  

"Né la freddura poté far riparo / con la gran neve al giogo d'Appennino, / benché il passar assai li costò caro; / né fu tal ventura né 'l distino / di Flaminio mio e dè compagni / che potesson por fine al  suo  cammino". Così  Fazio degli Uberti descrive nel Trecento  il passaggio dall'Emilia alla  valle dell'Arno. Un  viaggio  disastroso:  bufere  di  neve  peggio  che  sulle Alpi,  paludi, morte  di  tutti  gli elefanti. Il Nostro perderà anche un occhio, per un'oftalmia mal curata, e da allora resterà per tutti "il  losco". Petrarca  ci  costruirà  rime un po'  scontate,  scrivendo del  "gran Cartaginese"  che  "l'un occhio avea  lasciato  in mio paese, / stagnando al  freddo tempo al  fiume tosco, / sì ch'egli era a vederlo strano arnese / sopra un grande elefante un duce losco".  

Un  grande  elefante.  L'ultimo,  secondo  la  leggenda.  L'unico  di  razza  indiana.  Il  leggendario "Saurus",  che  portò  Annibale  verso  Firenze  durante  la malattia,  e  che  Plinio  definisce  "il  più valoroso di tutte  le guerre puniche". Guidando verso Firenze, penso che forse anche Saurus morì nel pantano dell'Arno,  sotto  la pioggia, prima della battaglia del Trasimeno. Maledetto Arno. Di tutti  gli  spostamenti  annibalici,  quello  fu  il  più  penoso.  Peggio  dei  Pirenei  e  persino  delle Alpi. Quattro  giorni  di  cammino  ininterrotto  nel  fango,  senza  riposare  un  attimo.  Polibio  scrive  che "delle  bestie  da  soma  la maggior  parte,  cadendo  in mezzo  alla melma, moriva  lì,  recando  agli uomini,  nel  cadere,  un  solo  vantaggio:  sedendosi  su  di  esse  e  sui  bagagli  ammucchiati,  essi restavano al di sopra del pelo d'acqua, e in tal modo dormivano per una piccola parte della notte".   Ma  il "Losco" va avanti, anche con un occhio solo ci vede benissimo, ha capito che dopo  lo choc della Trebbia Roma è nel panico, vive ‐ azzarda Brizzi ‐ una sindrome "da 11 settembre". Studia il terreno, sa che uno dei due consoli, Flaminio, è accampato ai bordi dell'Arno, e con una mossa ardita  lo  supera  in  direzione  di  Roma,  saccheggiando  le  campagne  per  "suscitare  la  rabbia  dei nemici". Sa che da quel momento l'avversario sarà costretto a inseguire, per non perdere la faccia davanti al Senato e ai suoi stessi soldati.  

Cosa che puntualmente avviene.  

 

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La scarpata che scende sul Trasimeno. Il malpasso  che inghiottì le legioni romane attirate con l'astuzia dal generale 

La tomba del console un fantasma senza testa 

 Una battaglia tra romani ed esercito di Annibale in un'antica stampa 

 DOPO  aver  rifatto per  l'ennesima  volta quel brutto  sogno,  il  conte  Teodorico Moretti Costanzi, luminare di filosofia teoretica all'università di Bologna, decise di fare qualcosa. Arpionò Giancarlo Susini, allora giovane assistente di storia romana, e gli ordinò di passare qualche giorno nella sua villa sul Trasimeno, dove abitava la fonte dei suoi incubi. Perplesso, questi accettò, ben sapendo di non potersi negare a un principe del senato accademico.  Quando arrivarono al palazzo del Capra, nobile costruzione  in arenaria con cipressi poco  fuori  il paese di Tuoro, il conte mostrò il ritratto di una giovane antenata del sedicesimo secolo, uccisa ‐ si vociferava  ‐  per  una  questione  rusticana.  Costei,  disse,  gli  appariva  di  notte  e  gli  sussurrava: "Teodoricooo, le mie ossa non trovano requie... sono sepolte fra ceneri di infedeli... Mi troverai nel viale, sotto il terzo cipresso. Vieni... aiutami a riposare in pace".   Ci  aveva  provato,  il  conte,  a  scavare  sotto  quell'albero, ma  non  aveva  trovato  niente.  Solo  il giovane Susini avrebbe potuto risolvere  l'enigma, per amore o per forza. E Susini venne; perse  il sonno,  deambulò  col  sole  e  con  la  luna  nel  viale  dei  cipressi,  finché  capì.  L'albero  dove  si  era cercato non era quello giusto. Era il quarto, perché il terzo era stato tagliato molti anni prima. Lo spazio vuoto c'era ancora: lì bisognava scavare. E lì, infine, si scavò.   La  trovarono  subito. Uno  scheletro  di  donna  con  una  croce  d'argento,  in mezzo  alle  ceneri  di migliaia di maschi di epoca romana. Non ci volle molto a capire che erano  i morti del Trasimeno. Dopo  la  battaglia  Annibale  vittorioso  aveva  fatto  costruire  un  "Ustrinum",  una  camera  di combustione,  per  cremare  una  parte  dei  ventimila  caduti  della  seconda  battaglia  campale  fra Roma e Cartagine.   Venne  il prete, vennero  i Carabinieri col magistrato,  la dama  infelice  fu esumata e nuovamente sepolta in terra consacrata, con tutti gli onori, davanti alla famiglia Moretti Costanzi. Invece per le ossa dei romani uccisi cominciò, come vedremo, un tempo senza pace.    

 

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"Ecco qui"  fa Giovanni Brizzi,  l'esperto annibalico che m'accompagna  in viaggio, e s'accuccia alla base di una scarpata erbosa, presso una porticina simile a un  forno di pizzeria. A vedere ciò che resta  della  fossa  cinquant'anni  dopo  la  scoperta,  sono  venuti  Ermanno  Gambini,  specialista  di geografia storica, e Lorenzo Borgia, assessore alla cultura del Comune di Tuoro. C'è pure il custode della villa, serissimo  in canottiera, col mazzone di chiavi alla cintura.  Intorno, ulivi contorti, quasi squartati, come mezzene di bue.   Cinque‐sei metri  più  in  alto,  in mezzo  alle  cicale,  come  sospeso  in  una  luce  bianca  acciecante, l'imbocco  della  voragine  cilindrica della  fornace. Guardiamo  dentro:  le  ceneri  dei  caduti  non  ci sono  più.  "Le  hanno  portate  a  Firenze  ‐  mi  spiegano  ‐  ma  si  teme  che  siano  sparite  dopo l'alluvione, che devastò gli  scantinati della  soprintendenza". Non  so  interpretare  l'evento. Morti insepolti? Ombre dannate per  sempre? Ma  forse no: dopo  il  fuoco era  semplicemente arrivata l'acqua purificatrice, come il Gange a Benares sui resti degli indù.   

 Pian di Marte 

 "Chissà se tra quelle ceneri c'era anche Flaminio...", chiedo a Brizzi. Flaminio era il console caduto nell'imboscata, ucciso in combattimento da un guerriero insubro partito a testa bassa contro di lui. "Anche il conte Moretti Costanzi voleva che questa fosse la tomba di Flaminio, ma così non era... Il console del Trasimeno  resta  il grande assente  fra noi. E' un  fantasma  che vaga,  come quello di Harry Potter... Ma per capire è giusto che andiamo a vedere cosa accadde sul lago".   Zanzare, canneti, aria di temporale, una scarpata che scende sul Trasimeno. Eccolo il malpasso che inghiottì  le  legioni.  E'  l'unico  punto  dove  strada,  ferrovia,  superstrada  e  pista  ciclabile  si imbottigliano in uno spazio di pochi metri.   Lo  guardi  e  pensi:  solo  un  idiota  poteva  cacciarsi  lì  dentro.  Ma  Flaminio  lo  fece.  Perché?   "Semplice  ‐  risponde  Brizzi  ‐  i  romani  ritenevano  che  le  battaglie  campali  non  dovessero comportare  trucchi.  Le  regole d'ingaggio dovevano  essere  trasparenti. Ci  si  schierava  in  campo aperto e ci si confrontava".   E Annibale?   "Annibale  è  cartaginese  ed  è  intriso  di  cultura  greca.  L'astuzia,  per  lui,  fa  parte  della  guerra. Quando sulla Trebbia ordina al fratello Magone di acquattarsi in una valletta con i suoi cavalieri, gli dice: vai tranquillo, Romani nihil ad hoc genus belli adsueti... i Romani non sono abituati a questo tipo di guerra...".  

 

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Ma  il  corpo del  console?  "Ci ho messo anni a  scoprire  cosa accadde.  Sapevo  solo  che  l'insubro l'aveva  ucciso  per  vendicare  i  suoi morti,  e  il  saccheggio  delle  sue  terre  da  parte  dello  stesso Flaminio in terra lombarda"   Ci fermiamo a bordo lago. Un treno passa sferragliando, il rombo della superstrada aumenta, una ragazza urla tra i canneti.   "Ho trovato un passo di Livio che spiega tutto. Un flash back del Trasimeno, ambientato anni dopo. Annibale è scontento dei suoi soldati, sfiancati dagli ozi di Capua, e si lamenta: Ubi ille miles meus est, qui derepto ex equo Caio Flaminio consuli caput abstulit? Dov'è  finito quel mio soldato che fece cadere da cavallo il console e gli tagliò la testa?".   Ecco  perché  Flaminio  vagava  senza  pace.  Era  un  fantasma  senza  testa,  come  Carlo  primo d'Inghilterra.   Tuoro è un paese  segnato da una gran vista e una querula atmosfera papalina. Dappertutto,  la Gran  Memoria.  Hannibal  Café,  agriturismo  Annibale,  centro  di  documentazione  Annibale.  Il Comune ci dà dentro alla grande: visite guidate, esposizioni, convegni. In un'osteria ci dicono: "Se cercate ossa di  cartaginesi,  andate  al poggio di Pian di Marte. C'è una  chiesa  sconsacrata, e  la cripta ne è piena... Le hanno trovate pochi anni fa".   Il Trasimeno è pieno di misteri. Li trovi narrati nelle cronache di un certo abate Liverani; raccolti nella "Wunderkammer" dell'abbazia di Farneta,  la stanza delle meraviglie  riesumate dal defunto priore; persino evocati dai  fuochi di San Giovanni accessi  fino a cinquant'anni  fa  sul  luogo della battaglia.   

 Alessandro 

  

 

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Pian di Marte, che bel nome di guerra. Come Sanguineto, poco lontano. O la fonte d'argento, detta anche di Annibale, sulla strada per Roma. Oppure  la Casa delle Vedove, dove  la tradizione vuole che che  si  trovassero  le mogli dei  legionari caduti. "Vox populi" ce n'è quanta  se ne vuole  sulla sconfitta  del  Trasimeno. A  Pian  di Marte,  dicono  in  paese,  si  sarebbe  rifugiata  una  parte  della cavalleria  romana, ma  il generale Maharbal avrebbe costretto alla  resa  i  fuggitivi e annientato  i rinforzi guidati da Gneo Servilio.  

Il posto è fantastico, fuori dal mondo. Una grande locanda, una stalla resa abitabile e la chiesa di San Cristoforo, col  tetto appena  rifatto e,  sotto, un altare con  le  insegne dei Cavalieri di Malta. Alessandro,  proprietario  del  luogo,  è  un  tipo  trimalcionico  con  un  testone  riccioluto  così straordinario che se avesse accanto un grappolo d'uva sarebbe Bacco perfetto. Ci accompagna a vedere le ossa, apre una botola di legno sul pavimento della chiesa, ingombra di attrezzi destinati al restauro, e con una torcia illumina lunghi femori nel buio.  

"Non avvicinatevi troppo,  là sotto  l'aria è mefitica", avverte. "Sono ossa gigantesche,  le abbiamo misurate con una microcamera; appartengono a uomini di due metri. Quando  li abbiamo trovati, la gente ha subito detto: sono cartaginesi. Ma io non ci credo affatto. Questa chiesa è costruita su ruderi precedenti, sta su una piccola necropoli. Quando il posto era abbandonato, veniva gente a fare  messe  nere.  I  pastori  qui  intorno  hanno  visto  i  fuochi  da  lontano".   Il profumo della cena ci richiama imperiosamente al mondo dei vivi: rigatoni alla pagliata, scottiglia mista  di  carni,  crostata  all'amarena,  vino  Ciliegiolo  di  Narni.  Ce  la  scodella  Angela,  la  bionda compagna di Bacco, che Brizzi identifica subito nel "perfetto archetipo di Flora", la dea della natura che segue le tre grazie nella Primavera di Botticelli.  

Dormiremo qui. Intorno lucciole e stelle, lampi lontani, ombre nere di colli, nebbie azzurrine negli avallamenti. Nessuna  luce.  La  foresta  risuona  come un'Arca di Noè. Rane,  grilli, pecore,  voci di pastori. Su tutto, il richiamo dell'assiolo, regolare come un "S. o. s.". 

   

 

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Dove il Nostro devasta le campagne più vicine  all'accampamento di Fabio per sottolinearne l'impotenza 

Le Termopili d'Italia 

 poco oltre le Forche Caudine 

 MANDRIE di bufale, caldo turco, aria di tempesta che scende dal Sannio, il Volturno che va come un serpente ubriaco. Stiamo  facendo una cosa da pazzi: seguiamo un'ombra di duemila anni  fa, ignorando  il  presente.  Piloni  in  cemento,  caselli  autostradali,  tralicci  ad  alta  tensione:  tutto cancellato. L'Appennino è ridotto alla sua nudità primordiale e l'umanità ne emerge con l'aura del mito. Da quando  abbiamo  lasciato  il  Trasimeno,  è  come  se  avessimo  la  febbre. Dal parabrezza vediamo eburnee gigantesse africane in agguato, accanto a roghi violetti nella sterpaglia, ombre di nere proserpine  confabulanti nei  villaggi,  torvi  sanniti al pascolo  sulle praterie, baccanti  italiote dagli occhi da  lupa che si svegliano al  tramonto. Sul sedile del passeggero,  il professor Giovanni Brizzi  ‐  l'uomo che volle essere Annibale  ‐ ormai  fiuta  l'Ager Campanus come un bravo cane da punta.   Dopo la batosta del Trasimeno è successo di tutto.  Roma  è  nel  panico,  Annibale  potrebbe  assediarla, ma  di  nuovo  spiazza  tutti,  snobba  la  preda, allunga  il  passo,  punta  sull'Adriatico  e  le  ricche  terre  dei  Piceni.  Forse  cerca  di  mostrare all'avversario di poter  fare  ciò  che  vuole, per  attirarlo  in nuove  trappole. Pascola  i  suoi uomini nell'Italia felix,  li rinvigorisce, mostra  il paradiso conquistato, scende verso  la Puglia, fa  il pieno di vino  e  olio,  poi  ‐  non  contento  ‐  traversa  l'Appennino  in  diagonale  e  piomba  sulla  Campania verdeggiante  di messi,  a  far  razzia  di  buoi  sotto  il  naso  dei  Romani.  L'anno  217  per  lui  è  una pacchia colossale.    "Nunc est bibendum".    E' ora di bere, annuncia Brizzi nella canicola, alla vista di un bar.  

 

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 Cerco  di  rispondere  a  tono:  "Appropinquiamoci".  Il  latino  è  entrato  in  noi,  dunque "appropinquarsi" è meglio di "avvicinarsi".  Abbiamo un  lessico nuovo. "Age", per dire sbrigati, muovi  le chiappe. "Sursum", alziamoci. E poi "Pedibus calcantibus", di goliardica memoria.   Spunta  anche  il  greco:  "Veneri  callipigie",  per  segnalare  donne  dalle  rotondità  ragguardevoli.   Dopo Cassino, il paesaggio gronda storia già dai nomi. Cerreto Sannita e Gioia sannitica, Sant'Agata dei  Goti,  Forche  Caudine,  Cuma  della  Sibilla,  Taburno  Camposauro,  Casagiove,  Guardia Sanframondi, Piedimonte Matese, e anche quel benedetto Teano dove re Vittorio fermò Garibaldi. E'  come  sfogliare  le  pagine  gialle  del  tempo.  C'è  di  tutto,  da  Romolo  al  Risorgimento.  ...  Se dalla Casilina pieghi per  la S 372  in direzione di Benevento,  subito  trovi alla  tua  sinistra una montagnola  con  sotto  il  paese  di  Pietravairano. Gli  aerei  per Napoli  le  passano  sopra  prima  di virare  alle  falde  del Vesuvio.  Il Volturno  le  sta  un  po'  dietro,  nascosto  da  una  barriera  di  altre collinette che sbucano come isolotti dalla pianura. Tra un'altura e l'altra vedi aprirsi gole profonde ‐ tante piccole Termopili ‐ che la natura stessa ha messo a guardia della terra più fertile d'Italia. La nostra altura è la prima della serie e il suo nome è Callicula. Il luogo dove, un anno prima di Canne, Annibale compie il suo capolavoro.   

  Succede  che  il Nostro  saccheggia  la Campania, mentre  Fabio Massimo  ‐  il  comandante  in  capo soprannominato Temporeggiatore ‐ lo segue dalle alture senza mai farsi sotto. Il Cartaginese sa dai suoi servizi segreti che il Romano è criticato per la sua prudenza, e si muove con astuzia luciferina. Devasta  le  campagne  più  vicine  all'accampamento  di  Fabio  per  sottolinearne  l'impotenza  e suscitarne la rabbia.  

Sceglie  i  luoghi per  la  loro visibilità scenografica più che per  la  loro  importanza strategica. Vuole essere  visto,  fa della Campania  il  suo palcoscenico.  E'  furbo  come  il diavolo:  rapina ogni  luogo tranne i poderi campani dello stesso Fabio, per far credere al Senato di essere in combutta con lui.   Un giorno passa  il  limite della sfrontatezza.  Il Romano ha messo  il campo sulla cima del colle di Callicula, e lui gli si mette sotto, a poche miglia. Si sente così sicuro che non gli importa nemmeno 

 

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di essere in trappola, circondato di montagne. Fabio capisce che è il momento di attaccare, blocca tutte le uscite dalla conca, ma Annibale non gli dà il tempo di agire. Fa radunare duemila buoi e fa legare torce alle loro corna.  

Quando arriva il buio, le accende e fa spingere la mandria verso la collina. I romani pensano che i cartaginesi li attacchino, sguarniscono le gole e salgono a combattere. Ma quando si accorgono del trucco, Lui è già passato con l'esercito per la strettoia.  

La sera scende sulla conca di Teano, con un odore ubriacante di terra fertile. Come allora, mandrie al pascolo. Vediamo tutto, leggendo Plutarco. "Le vacche, finché il fuoco era scarso e bruciava solo i sarmenti, avanzarono tranquillamente lasciandosi sospingere verso i piedi del monte; le fiamme che  risplendevano  sull'estremità  delle  corna  ...  e  ...  sembrò  che  un  esercito marciasse  in  file ordinate alla  luce di molte torce; ma quando  il fuoco, bruciate le corna fino alle radici, si appiccò alle carni, gli animali sconvolti dal dolore ... si precipitarono di corsa verso i monti, tutti una vampa dalla cima della testa all'estremità della coda, incendiando gran parte dei boschi attraverso i quali fuggivano".   Annotta.  Lontano,  piccoli  incendi  verso  il  Volturno. Odore  acre  della  pianura  attorno  a  Capua.   Brizzi continua. "Fu questo uno spettacolo terrificante per i Romani di guardia ai valichi; infatti le fiamme parevano  fiaccole portate qua e  là da uomini  in  corsa; grandi  furono  la  confusione e  il panico perché credettero che il nemico li attaccasse da un lato e dall'altro e li circondasse da ogni parte. Non  osarono  quindi  resistere  al  loro  posto, ma  si  ritirarono  verso  il  grosso  dell'esercito, abbandonando le gole".  

A distanza, nell'ultima luce, oltre le Termopili campane, bianche contro il cielo nero, lente come i mulini  a  vento  di  Don  Chisciotte,  pale  eoliche  ruotano  sulla  sommità  dei  colli.  ...  La  Campania  profonda  è  terra  di  agguati,  e  la  sera  talvolta  ti  prendono  oscuri  presentimenti. "Castel Morrone Termopili d'Italia" ammonisce un cartello a monte di Caserta,  in un  labirinto di montagnole infestate di ginestre. Sotto i ruderi di Castello Limàtola, forte sannitico poi longobardo e poi angioino, finiamo in un terrificante fondo cieco. Poco oltre, eccoti le Forche Caudine, dove i Sanniti  ‐ gli eterni  sconfitti  ‐ attirarono  le  legioni  in una  tremenda  imboscata cent'anni prima di Annibale. A  Sud  i  "passi"  scompaiono;  sui monti esistono  solo  "selle" e  "forche", dall'etimo più trasparente.   Tra Dugenta e Caserta (strada per Telese) ci fermiamo sotto un grandioso acquedotto borbonico, costruito dal Vanvitelli  sulla  traccia di un acquedotto  romano preesistente. Sotto un'arcata, una femmina di cane‐lupo abbandonata ci viene incontro, esausta, scodinzolando come per dire "Non fatemi del male" e "Non abbiate paura di me". Gli animali abitatori di antichità e rovine si caricano spesso di simboli, e questa cagna ci porta via l'anima. E' troppo smunta per essere la lupa di Roma. E' semmai  il monumento a una maternità dimenticata. Le  lasciamo  i panini, mentre  loschi  figuri parcheggiati lì accanto ci guardano come fossimo pazzi.  

 

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Vaghiamo  sotto  le  stelle  fino  all'eremo  fortificato  di  Sant'Angelo  di  Palombara,  alto  su  un promontorio di  roccia,  raggiunto dopo una  strada piena di  trappole, buche, strettoie, bivi senza segnaletica e ingannevoli fondi ciechi.  

Da quassù,  l'Agro Campano è visibile come  in nessun altro  luogo, demenziale  ingorgo di umani, bufale,  strade  e  industrie.  Sopra,  l'Orsa Maggiore. Davanti,  un  nero  cancello  sbarrato,  un  nero Cristo  in ferro. Siamo sul ponte di comando di una nave solitaria. Sulla nostra destra,  lontano,  la strada per Benevento. A sinistra quella per Avellino e l'irsuta Irpinia.  

"Secondo te siamo pazzi?" chiedo al compagno.  

Hannibal  risponde dal buio:  "Tutto questo è magnifico". Poi aggiunge:  "Se  si  insegue un mito è normale smarrirsi".  

Nell'aria c'è un forte odore di assenzio.  

"Ma oggi ‐ dico ‐ il mito non c'è più. Nessuno lo cerca".  

"La morte del mito è la cosa più oscena dell'oggi. E' la fine dell'incantamento, dell'immaginazione, del desiderio".  

Verso Capua, davanti alla Luna, nubi in corsa come un incendio azzurro.  

"Senza  quella  cosa  l'uomo  si  perde,  diventa  un  grande  invalido.  E  perciò  andiamo,  siamo  sulla strada giusta". 

   

 

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Il ricordo di morti insepolti e divorati da cani, l'epitaffio della bella morte omerica, quella dei corpi profumati 

L'inferno di Canne, la strage e l'epifania di una morte sconcia 

  VENTO e praterie. Lontano,  lo scintillio dell'Ofanto e  la striscia del mare davanti al Gargano. Non vedo  che  questo,  mentre  risaliamo  a  piedi  la  vecchia  ferrovia  Barletta‐Canosa‐Minervino. Nient'altro che vento, cicale, e  il nostro "paso doble" sulle traversine. E poi ancora silenzio, ulivi, filari  di  vigne  come  eserciti,  sudore,  respiro  pesante,  sete.  Intorno,  solitarie masserie  dai  nomi incompatibili col sole libico che ci sovrasta: Maltempo, Epitaffio, Lamacupa.   Canne va  raggiunta  così,  controvento,  lontano dalle grandi  strade,  col  sole di mezza estate allo zenith,  nella  controra  quando  l'ombra  è  pesante,  i  fantasmi  escono  come  a  mezzanotte,  e  i trapassati ‐ come temeva Pitagora ‐ si arrampicano per le radici delle fave. Caldo tremendo: come quel  2  agosto  186  avanti  Cristo,  quando  in  un  pomeriggio  il  generale  Annibale  distrusse  otto legioni.   "Guardati da questa bellezza" esala esausto Giovanni Brizzi. Non è solo  la sete che gli abbassa  la voce; è l'emozione. Della battaglia sa tutto, ma per lui ogni volta è come la prima. Ci sediamo nel cono  d'ombra  della  stazioncina  "Canne  della  Battaglia",  magnifica  nel  suo  rosso  pompeiano d'ordinanza.  Sopra  di  noi  rotea  un  falco.  Il  luogo  dell'ecatombe  è  davanti  a  noi,  chiuso  fra  la vecchia linea e una barriera di colli sui sessanta metri.   Basta  salire  di  poco  verso  il  Monte  San  Mercurio  e  subito  pare  di  affacciarsi  su un'incommensurabile  nulla,  una  voragine  di  luce  che  inghiotte  ogni  cosa  e  ti  spara  in  una dimensione  senza  tempo.  Siamo  sul  luogo  dove  la  morte  in  battaglia  raggiunse  dimensioni inimmaginabili. Un evento fuori scala.    Sessantamila morti fanno seicento cataste di cento corpi ciascuna.  Il doppio di Austerlitz. Più dei caduti americani in anni di guerra in Vietnam. E' la più orrenda strage del mondo antico, l'epifania di una morte sconcia, deturpante. Una morte "moderna";  la stessa che Remarque racconta nella Grande Guerra. A Canne  si  celebra  l'epitaffio del duello omerico, quello  che  finisce  con  i  corpi lavati e profumati da consegnare all'eternità. Brizzi: "La battaglia di Cheronea fu un trauma per  i Greci, ed ebbe quattromila caduti. Al confronto, Canne è l'inferno".   Leggiamo da Tito Livio cosa si vide il mattino dopo. "Alcuni, cui le ferite morse dal freddo avevano 

 

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fatto riprendere i sensi, nell'atto di alzarsi in piedi coperti di sangue furono annientati dal nemico... Altri erano distesi a terra anche se vivi, poiché avevano  i femori e  i garretti tagliati, scoprivano  la nuca e la gola e invitavano i nemici a bere il sangue che rimaneva loro... Certuni furono trovati con le teste affondate in buche, ed era chiaro che da soli se l'erano scavate e che, seppellendo i volti, col gettarvi sopra la terra si erano soffocati".   

  Ma  l'immagine  più  atroce  è  un'altra.  La  leggano,  quelli  che  credono  alla  bellezza  della  guerra. "Attrasse l'attenzione di tutti un Numida ancor vivo, tratto col naso e gli orecchi mozzati di sotto a un Romano  che gli  si era  steso  sopra morto; questo, non  servendogli più  le mani per afferrare un'arma, aveva  trasformato  in  rabbia  la sua  ira ed era spirato straziando con  i denti  il nemico".   Canne è  il macello di una  classe dirigente  che vuole  combattere  in prima  linea,  la morte di  tre consoli  ed  ex  consoli,  di  otto  questori,  quaranta  tribuni,  ottanta  senatori.  Il  fratello minore  di Annibale, Magone, portò a Cartagine tre canestri di anelli, tolti dalle dita degli "equites" in quella sola battaglia.  

Canne è morti  insepolti, divorati dai cani e spogliati delle  loro armature; è gambe sgarrettate dal colpo  di  gladio  dei  cavalleggeri  spagnoli;  è  "Detruncata  corpora",  ferite  che  "ultra  mortem patebant"; è agonia di settimane per  infezione e setticemia senza un medico o un'infermiere sul campo.  Non  c'è  la  Croce  Rossa  a  quei  tempi;  Canne  è  anche  scannamento  dei  sopravvissuti, all'alba del giorno dopo, Un'ammucchiata sanguinolenta di vivi e morti.  

Dalla cima del monte uno guarda  la piana accanto alla ferrovia e dice:  impossibile. E'  lo spazio di uno stadio. Invece no: a Canne tutto avviene davvero nello spazio di uno stadio. O meglio, di una tonnara. Avviene con la tecnica e i tempi di una tonnara. Per capire, devi averne visto una, con il mare che ribolle,  le vittime che si ostacolano a vicenda e gli uomini come posseduti che cantano "alamoa alamoa, janzù janzù", lanciano colpi d'arpione alla cieca.  

Penso: ma la tonnara non è una pesca rituale inventata dai fenici e dai cartaginesi? Perché in tutte le altre battaglie, i morti sono dispersi su una scia, e invece qui sono concentrati in un fazzoletto di 

 

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terra?  Sessantamila  caduti  in  un  fazzoletto.  Perché  i  Romani  non  si mossero  di  un  pollice  e  si lasciarono massacrare?  

Fa  caldo  da  bestie,  non  è  facile  ragionare  sotto  un  sole  che  accieca.  Con  un  bastoncino  Brizzi traccia segni nella ghiaia, parla di "superamento della falange macedone di Alessandro Magno", di nascita della  "manovra  avvolgente", di  valorizzazione della  cavalleria  contro una  legione basata sulla  fanteria pesante. Ma di  tutto, sotto  il sole di Canne, capisco una cosa soltanto. Tre parole.   "Annibale‐vinse‐arretrando". Vedo sulla ghiaia il fronte cartaginese convesso che si lascia investire, diventa concavo, poi si richiude, finché le cavallerie alle ali sigillano lo spazio rimanente, formando una  camera  della  morte  imperforabile  come  quella  di  una  tonnara.  Ma ancora non basta, dico.  I Romani erano novantamila, buon dio, più del doppio del nemico.   Come poterono soccombere?  

"Il numero eccessivo fu il limite. Combatterono in novantamila nello spazio in cui erano abituati a combattere  in  quarantamila.  Si  ostacolarono  a  vicenda  e  non  riuscirono  a  reagire".   Non basta ancora...  

"La cavalleria romana era inferiore e i fanti erano quasi tutti reclute, dopo le stragi sulla Trebbia e sul Trasimeno".  

Ma l'organizzazione romana era comunque una macchina mortale...  

"Però i due consoli erano in disaccordo tra loro, e la tecnica del comando a giorni alterni giocava a favore di Annibale".  

La  tonnara,  la maledizione  della  tonnara...  Forse  Annibale  non  fece  che  applicare  su  terra  le tecniche secolari di una civiltà di mare...  

"Ti rispondo con Polibio: dopo Canne  'risultò evidente ai posteri che  in tempo di guerra è meglio avere  la metà  dei  fanti  rispetto  ai  nemici  e  un'assoluta  superiorità  in  cavalleria,  piuttosto  che affrontare la battaglia con le forze più o meno uguali a quelle dei nemici'. Canne cambiò la storia della strategia".  

Beviamo  limonata  fresca sulla  terrazza del museo, ascoltando  il  rumore del  trenino per Barletta che  taglia  la  campagna.  Manifesti  dell'associazione  "Pro  Canne"  annunciano  escursioni  e ricostruzioni storiche sul campo. Ci ha raggiunto Vincenza Morizio, professoressa di storia romana all'università  di  Foggia,  e  discutiamo  della  suggestione  ipnotica  del  luogo,  di  questo maledetti campi della morte che sono spesso di una bellezza sconvolgente.  

Mi tormenta un dubbio. E se i generali avessero scelto questi luoghi non solo per motivi strategici, ma anche per costruire una cornice mitologica "indimenticabile"? Se così non  fosse, come mai  il campo di Waterloo  riesce  a emanare una pace  arcadica  anche  sotto  la pioggia? Non  si  spiega, 

 

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altrimenti,  come mai Gettysburg, dove gli americani ebbero nella guerra  civile più morti  che  in Giappone o  in Normandia,  sia un  idillio  assoluto. Per non dire del mare di  Lepanto,  fra  Itaca e Patrasso: divino spazio blu di quiete e maestrale.  

E  se  fosse  solo  suggestione?  E  se  Canne  fosse  altrove? Nel museo  vedo  che  nella  vallata  si  è trovato poco o niente che confermi l'ecatombe. Ma qui sono tutti d'accordo. Delle grandi battaglie non rimane mai nulla. Già di Waterloo non si trova più nulla. I corpi vengono spogliati di tutto ciò che  serve,  i  contadini  fanno  il  resto.  Proprio  la  battaglia  di  Canne  lo  dimostra:  i  fanti  libici  si presentano, terribili, davanti alle  legioni,  indossando  le armi tolte ai romani uccisi nella battaglia del Trasimeno. Mostrano al nemico la sua stessa morte.  

E poi, qui o altrove  fa poca differenza. "Canne è un  luogo della mente" ammette  la Morizio che proprio  lì ha  imparato  ad  amare  la  storia  antica.  "Ricordo  il  generale  Ludovico  che  illustrava  la battaglia ai bambini delle elementari, rumorosissimi, poi questi scappavano fuori a mangiare fave, ma alla fine, davanti alla valle, si fermava il respiro anche nel loro petto di mocciosi". 

   

 

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Dell'eterna questione del cambio di strategia E di quando Maharbal lo esorta a saper approfittare della vittoria 

La forza, la prudenza e l'acume del grande condottiero 

  

NOTTE di levantazzo duro in un albergo di Canosa di Puglia, cittadina abitata dall'ombra terribile di Asdrubale (qui la sua testa venne recapitata al fratello dopo la battaglia del Metauro) e da quella triste  del  longobardo  Boemondo,  sepolto  in  cattedrale.  Faccio  un  brutto  sogno:  uno  spettro gommoso, che vola come un giornale spiegazzato nel vento, si rintana nelle fessure, s'  impenna, sparisce di nuovo, poi si riforma come inchiostro di seppia negli avvallamenti.   Al mattino, quando vado a chiamare Brizzi per la colazione, lo trovo già pronto come un vigile del fuoco di turno. L'uomo che volle essere Annibale vive in stato d' allerta perenne: sbirciando nella sua stanza, noto che il lenzuolo è perfettamente liscio, come se vi si fosse coricato un uomo senza peso. Tre giorni prima, già  la  locandiera sul Trasimeno mi aveva avvertito ridendo: "Diavolo, nel tuo  letto  pare  ci  abbiano  dormito  in  cinque.  In  quello  del  tuo  amico  nessuno".   Normale, penso, per uno vissuto duemila anni fa. Sono un po' suonato: il sole è già alto sugli ulivi e la  sera abbiamo  tirato  tardi a masticar pensieri  sulla battaglia delle battaglie. Abbiamo evocato l'ombra di Pirro e dei suoi elefanti, parlato dei favolosi Daunii, divagato su Federico secondo. Ma su  tutti noi gravava un'unica, grande domanda. Come mai Annibale non approfittò della vittoria per  calarsi direttamente  su Roma? Cosa  fermò  l'uomo della Blitzkrieg? Una  certezza o un nero presentimento?   Livio racconta quello che accade il mattino dopo lo scontro. "Mentre intorno ad Annibale vincitore tutti  i comandanti si rallegrano, cercando di persuaderlo a far riposare  le truppe per un giorno e una notte, Maharbal, comandante della cavalleria numidica, ritenendo che non si debba mollare sul  più  bello,  esclama:  per  capire  cosa  sia  questa  battaglia,  tra  cinque  giorni  banchetterai  in Campidoglio".   Die  quinto  victor  in  Capitolio  epulaberis.  "Seguimi  ‐  gli  dice Maharbal  ‐  io  ti  precederò  con  la cavalleria, perché  i Romani  sappiano  che  sei arrivato prima di  sapere  che  stai per arrivare" Ma Annibale esita, chiede tempo per riflettere sul da farsi. Al che Maharbal gli risponde con una frase immortale:  "è  chiaro  che  gli  dei  non  danno  tutti  gli  doni  a  uno  stesso  uomo.  E  tu  sai  vincere, Annibale,  ma  non  sai  approfittare  della  vittoria".  Vincere  scis,  Hannibal,  victoria  uti  nescis.   Questa rinuncia e questo giudizio hanno fatto impazzire generazioni di studiosi di strategia. Il capo della cavalleria aveva  ragione o  torto? Tutte  le battaglie campali della  storia  si  riassumevano  in 

 

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quell'unica domanda. "Maharbal was right" dichiarò vanaglorioso  il generale Montgomery,  forse equiparandosi  al  numida,  dopo  aver  vinto  senza  gran  merito  a  El  Alamein.  Azzardo:  "E  se Montgomery avesse ragione?". "Montgomery was wrong!" reagisce Giovanni come punto da una vespa. "Anzi, Montgomery era un cretino".   

  Ecco, succede quello che aspetto dall'inizio del viaggio:  l'identificazione totale dello studioso con l'oggetto del suo interesse: Annibale. Ora è il momento. Il bolognese afferra la tazza del caffellatte, la  saliera,  il barattolo della marmellata, e comincia a  spostarli vorticosamente  sulla  tovaglia per rappresentare i movimenti di truppe. "Cosa fai con quattromila cavalieri sotto le mura di una città? Le evoluzioni? Cosa fai senza fanteria pesante? Avanti, che fai?". Taccio; non so se mi ha preso per Montgomery o Maharbal. "I tuoi imprendibili cavalieri sotto le mura te li massacrano tutti. Roma è blindata,  e  i  Romani  son  gente  tosta,  aggrappata  a  quelle  loro  zolle.  Testardi  e  tignosi,  non molleranno".  Come  immaginavo,  il  vaso  della marmellata  di  albicocche  e  la  tazza  del  caffè  si scontrano,  fragorosamente.  Ora  tutta  la  sala  ci  guarda.  "Roma  ha  sedici  chilometri  di  mura.   Se‐di‐ci‐chi‐lo‐me‐tri... Che facciamo, senza le macchine da guerra con cui prendemmo Sagunto! E poi,  come  lo  controlli  il  fiume?  Il  Tevere  è  navigabile~  Che  fai,  ci  passi  in  mezzo  per  farti ammazzare? Dividi  l'esercito  in due?" Non so replicare. Ha vinto Annibale, dannato  lui. Lui fa ciò che è  logico: aspetta che Roma si arrenda. Chiunque si arrenderebbe dopo tre disastri campali e centomila morti. Livio riassume in una riga sola le conseguenze della gran rinuncia: "Mora eius diei satis creditur saluti fuisse urbi atque imperio", si crede universalmente che l'indugio di quel giorno abbia salvato Roma e  la sua potenza futura. Quel giorno  il mondo poteva cambiare e  invece non cambiò. Ma Roma non si arrende. Non riconosce nemmeno  la sconfitta. Nel panico, reagisce nel solo modo possibile. Dice: match non valido,  l'avversario ha barato. Peggio: Annibale non è una persona, è un mostro, un demonio.  Il mondo  latino, abituato allo scontro  leale  in campo aperto, non ha altre strade di fronte alla superiorità di un uomo che non ha schemi d' ingaggio trasparenti. Roma  arranca,  alla  ricerca  di  una  risposta  all'astuzia  e  agli  agguati,  e  intanto  si muove  come l'Occidente  contemporaneo  di  fronte  al  terrorismo  suicida.  Parla  di  "guerra  asimmetrica". Condanna, demonizza, rivendica pateticamente la propria innocenza. Fuori si è risvegliato il vento polveroso che scende dal Vulture, il monte di Melfi.   Penso che tutto finisce qui, sul Tavoliere  inondato di  luce:  le strade degli eserciti e  i destini degli uomini. Finisce qui, con  la stessa  inevitabilità del corso dell'Ofanto e della discesa degli armenti lungo i tratturi. Ascoltando Brizzi mi rendo conto di essere alla grande svolta della storia. "Nessun altro popolo avrebbe sopportato quello che sopportarono  i  romani" stava scritto più o meno  in una lapide fatta mettere dal Duce sul campo di Canne. Una volta tanto, i fascisti dicevano il vero. 

 

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Vincenza Morizio,  la prof di storia antica che ci ha accompagnato a Canne, svela di aver perso  il sonno  attorno  a  questo  enigma.  E  anche  lei,  come  Brizzi,  ammette  di  aver  trovato  la  risposta "immedesimandosi"  nella  storia,  vivendola  da  dentro  come  un  "insider".  "E'  straordinario  ‐ mormora  ‐ Roma ne viene  fuori semplicemente negando  l'evidenza della sconfitta. Ed è proprio questa  consapevolezza  cocciuta,  quasi  ottusa,  che  rende  Annibale,  nel  pieno  della  vittoria, oscuramente consapevole della propria sconfitta  finale". Davanti a Canosa si stende  il granaio d' Italia che nutrì il grande africano. Poco è cambiato.   

  Lontano,  su  un  colle,  biancheggia Venosa  dove  nacque Orazio.  Poco  in  là,  il  paesotto  di  Barile popolato di grotte‐cantine, dove Pasolini girò  la Passione secondo San Matteo. Vincenza, che di solito è di un'allegria debordante, ora è seria. "Col suo rifiuto ad attaccare Roma, Annibale si svela un grandioso eroe tragico. Ha stravinto, ha umiliato militarmente l'avversario, ha spinto gli alleati a passare dalla sua parte, ma sa di aver mancato il suo obiettivo finale: costringere Roma a trattare. E trovare un'alternativa credibile alla sua rete di alleanze".  

Autostrada  per  Bari,  vento  forte,  navi  che  vanno  a  Nordovest.  Siamo  sulla  grande  linea  delle battaglie: Lepanto, Azio, Canne, Mostar, Sarajevo, Vienna. è, anche, la linea che separa Oriente e Occidente  nel  cuore  dell'Europa.  Anche  Roma  si  è  scontrata  con  qualcosa  di  orientale,  anzi  di "greco": lo stratagemma. è qualcosa che ancora non conosce. In latino, il termine "stratagemma" non esiste. In guerra l'astuzia non è contemplata. Dunque, il callido Annibale è "perfidus", perché è violatore della "fides", cioè  la fiducia. Ma Annibale fu davvero un  imbroglione, se vinse  in campo aperto contro forze superiori? è fondata l'accusa di Roma? Il termine "perfidus" dovrebbe mettere in allarme. La Chiesa l'ha usato per duemila anni contro parenti stretti dei cartaginesi ‐ gli ebrei ‐ e fu un trucco miserabile. Un modo per mascherare  il timore,  l'invidia, talvolta  la rapina. Certo:  la forza nobile è del leone, e l'astuzia è della volpe. Ma se una volpe batte un leone, chapeau. Se poi il leone ferito impara gli odiatissimi trucchi della volpe e diventa imbattibile, due volte chapeau. è esattamente ciò che accade dopo Canne. Roma impara gli stratagemmi e se ne serve a man bassa, 

 

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in modo anche più cinico di Annibale. Diventa orientale ‐ anzi, greca ‐ e così conquista  il mondo. L'incredibile è che sia stato proprio Annibale a toglierle ogni freno inibitore. 

Del fatto che dopo Canne il Nostro non andò subito a farsi sconfiggere a Zama ma restò tredici anni al sud, come recita l'orgoglio "terrone" 

Noi, figli di Annibale 

Oggi a Bari  succede di  tutto nel  cielo. Prima un  Levantazzo umido e  snervante. Poi un  risveglio incendiario di Scirocco che trasforma  il mare  in una prateria di schiume. Verso  le tre, dal  lato di terra, piomba sulla città un Ghibli desertico e abrasivo, che fa tremare i vetri, entra in ogni fessura, si porta dietro il profumo africano della Numidia e di Cartagine. Ma ecco che verso le cinque tutto si scioglie  in un Ponente calmo e regolare, che riempie  le prime vele al  largo verso  le terre degli Illiri e degli Epiroti. E non è  finita, perché d'improvviso,  verso  le nove,  il  segnavento di  tutte  le barche  in  rada  si  sposta  verso  Nord  a  indicar  la  Tramontana,  che  invade  il  lungomare  d'una corrente ristoratrice.  

Siamo  inchiodati  in  Puglia,  terra  di  messi  e  oscuri  presagi.  Anche  Annibale  trovò  qui  il  suo capolinea,  in questo  tavolato  spazzato dai  venti  che par navigare  verso  l'Africa,  segnato da  tre colori, il giallo del grano, il blu del mare e il verde‐grigio metallico degli uliveti. Sarà stato il vento di Puglia, o la polvere mangiata dal Trasimeno fin qui, ma siamo in preda a una grande stanchezza. La corsa è finita,  le grandi vittorie anche. Ora  la storia cambia marcia. Dopo Canne, ci spiegavano a scuola, Annibale partì dall'Italia per andare a farsi sconfiggere a Zama. Poco o niente ci dicevano dei  tredici  anni  che  passò  nel  Sud  ‐  soprattutto  in  Puglia  ‐  prima  di  imbarcarsi  per  l'Africa.  Non ci quadrava mai troppo, questa seconda parte della storia.  

"Africa, Africa Africa... / Annibale Annibale gran generale nero / restò in Italia da padrone ... / ecco perché molti italiani hanno la pelle scura / noi siamo figli di Annibale / tutti quanti figli di Annibale / capelli neri... / di pelle scura... / con gli occhi scuri... / sangue mediterraneo... / sangue d'Africa... / Africa, Africa, Africa...". A volte la storia la si riscopre millenni dopo. Come in questa canzone di orgoglio "terrone" cantata dagli "Almanegretta".  

Al  Sud,  soltanto  al  Sud  capisci.  Tredici  anni  sono  una  vita,  la misura di  un  destino.  In  Puglia  si scopre che Annibale è più italiano che africano, vive nella Penisola più tempo che in Africa, la terra da dove è partito a soli nove anni. In Puglia si vede che a Canne non finisce un bel niente, semmai inizia  una  storia  nuova.  Annibale  non  ha  navi  per  partire  ‐  Roma  è  padrona  dei mari  ‐  ed  è prigioniero del luogo. Ma la prigionia è anche la sua forza oscura, perché i suoi mercenari, privati di ogni via di fuga, sono condannati a essergli fedeli e non hanno alternative tra vincere e morire. Per questo egli si attacca come una zecca alla carne del Paese, segnandola nel profondo con una guerra di  logoramento e saccheggio  le cui conseguenze  ‐ come vedremo  ‐ saranno visibili anche oggi.   La casa di Mara e Antonio Mallardi, alta sul mare,  trema come un bastimento nei vortici d'aria. Appesi  alle pareti  fra  una  libreria  e  l'altra,  tre  violoncelli,  un'infinità  di  carte  nautiche,  un  gran timone di paranza e disegni di scafi a vela. Sopra  la scrivania,  inchiavardato su  tubi Dalmine, un letto sospeso come quello di una nave, dal quale è possibile vedere al tempo stesso i libri e il mare. Questo luogo dell'anima è un approdo fisso, ogni volta che scendo in Puglia. Antonio, conoscitore profondo del Sud, ha fatto di tutto nella vita: il costruttore di barche, il contadino in un kibbutz, il 

 

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violoncellista accanto a Pablo Casals,  l'abitatore di un casello  ferroviario,  il dirigente del  settore vendite della Einaudi, il viaggiatore mediterraneo in compagnia di Fosco Maraini.  

Stiamo nel salone del biliardo a parlare di questo pazzesco viaggio nel  tempo e dare ogni  tanto qualche colpo di stecca. Fuori, un torrido splendore che consuma gli occhi, abbaglia specie noi del nord;  anche  il  padano  Giovanni  Brizzi,  l'esperto  annibalico  che  s'è  imbarcato  con me  verso  le lucenti terre del Sud.  

Viviamo l'ora in cui ‐ scrive Norman Douglas in "Old Calabria" ‐ uomini e bestie sono incatenati dal sonno  e  gli  spiriti  si  aggirano,  come  a mezzanotte,  sotto  platani  sussurranti.  Ed  è  a  quest'ora inquieta,  in bilico  fra  scirocco e maestrale, che  rievochiamo  le pagine più  terribili della  seconda guerra punica.  Il dopo Canne. Gli anni della paura, delle terra bruciata, delle rappresaglie e degli agguati.   Succede, racconta Brizzi, che poco dopo la battaglia, a Nord, in una foresta impenetrabile sacra ai Celti e denominata Selva Litana, poco lontano da Modena, i Galli Boi alleati di Annibale attirano in una trappola il console Postumio Albino e i suoi quindicimila uomini, massacrandoli tutti. Il console viene  ucciso,  decapitato,  la  sua  testa  scarnificata  viene  placcata  in  oro  e  argento  per  essere trasformata in coppa da vino.  

Accade,  in  quella  landa  della  Padania,  qualcosa  di  terribile  e  soprannaturale:  gli  alberi  stessi partecipano allo scontro, si avventano sui  legionari paralizzati dalla paura. Sono, probabilmente, Galli mimetizzati nella brughiera; e sono, anche, alberi segati in modo tale da precipitare al primo contatto  e  schiantarsi  sulla  compagine  in  marcia,  spezzandone  l'assetto  di  difesa.   E' peggio, molto peggio del Trasimeno, dove i Romani, acciecati dalla nebbia, finiscono in trappola per ansia di combattere. Qui è  la stessa situazione della Selva di Teutoburgo, dove Varo andrà a cacciarsi  in bocca al nemico  in un terreno difficile e  inesplorato, per essere sterminato con tutti  i suoi  uomini  dai  Germani  di  re  Arminio.  Ma  è  anche,  a  ben  guardare,  un'anticipazione  del "Macbeth" di Sheakespeare, tragedia di sangue che si conclude con  la visione della "foresta che cammina", il bosco vendicatore di Dunsinane in marcia contro il castello del regicida. È lo scenario barbarico degli  alberi  combattenti,  caro  al mondo  celtico: quello  che  viene  evocato del poema epico bretone "Cad Goddeu", dove i soldati si trasformano in alberi e sconfiggono il nemico dopo aver alzato le loro voci in "quattro toni d'armonia".  

Ora il vento s'è quietato un po' e nella casa navigante è sceso il silenzio. Le paratie piene di libri, gli oblò  verso  il  mare,  i  violoncelli,  il  biliardo  e  il  letto  sopra  la  scrivania  hanno  smesso  di beccheggiare. Siamo arrivati come sull'orlo di una voragine, nel buco nero del racconto: la paura di Roma,  il panico che  si  raggruma attorno al Foro Boario e al Campidoglio e  spinge  le matrone a spazzare la terra con i capelli.  

Episodi  inspiegabili  come  la  Selva  Litana,  stragi  spaventose  come Canne, unite a  segni del  cielo come grandinate, pestilenze o nascita di bambini deformi innescavano fiammate di superstizione e timor  religioso,  con  appassionati  ritorni  alla  ritualità  arcaica.  Quella  dei  sacrifici  umani.   Cominciò con le vestali, che in tempi come quelli era facile accusare di sacrilegio per lesa verginità. Un  "corruptor"  lo  si  trovava  sempre,  e  quello  per  primo  finì  al  patibolo  ‐  Lucius  Cantilius  si chiamava ‐ flagellato a morte col collo sulla forca, nudo,  in pieno comizio. Ma erano  le vestali, ci 

 

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raccontava  Vincenza Morizio,  la  "cartina  tornasole  della  purezza  della  Res  Publica"  ed  erano soprattutto  loro a dover morire.  La punizione  venne  inflitta  "con una  ritualità  cupa": un  corteo attraversò  la città con  la colpevole chiusa dentro un carro, poi  la vestale  fu chiusa  in una stanza sotterranea  per morire  di  fame.  Lo  Stato  non  doveva macchiarsi  della  colpa  di  uccidere  una sacerdotessa: per questo non usava il ferro e, per scaricarsi definitivamente la coscienza, lasciava nella camera della morte appena un po' d'acqua e pochissimo cibo.  

Era  chiaro:  si  trattava  di  un  sacrificio  umano  giuridicamente  mascherato  da  condanna  ed esecuzione  capitale.  Due  furono  le  vestali  accusate,  Opimia  e  Floronia.  La  prima  fu  sepolta secondo  il costume presso  la porta Collina. La seconda si sottrasse al seppellimento col suicidio.   Ma il peggio venne dopo.  

Nel  clima  di  disfatta militare,  un  inviato  speciale  fu  spedito  a Delfi  a  consultare  l'oracolo  degli oracoli.  Al  suo  ritorno,  venne  riesumata  un'antica  profezia  etrusca,  secondo  la  quale  Roma sarebbe  stata  invasa  dai Galli  e  dai Greci. Ora,  poiché  le  profezie  erano  di  per  se  stesse  vere, dunque  inevitabili,  si  poteva  soltanto  depistarne  l'effetto,  facendole  avverare  in  parte,  in  una situazione, per così dire, "sotto controllo".  

Galli e Greci avrebbero  invaso Roma? E Roma decise di seppellire vivi,  in pieno Foro Boario, una coppia di incolpevoli Greci e una di Galli, destinati a "conquistare" il cuore della città morendo nel peggiore dei modi. A suggello di questa "no stop" funeraria, il Senato proibì ogni manifestazione di lutto per  i morti  in battaglia. Era vietato piangere e urlare. E alla  fine Roma  tutta  fu  invasa dal silenzio.  

   

 

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L'epopea della ricca Capua granaio di Roma Sonno, amplessi e vino sbaragliano un esercito. Ma Annibale non abusò mai delle italiche 

Grande madre Campania terra di donne e Giunoni 

  

"Attento  alla  femmina  dell'Ager  Campanus",  mi  avverte Marino  Niola  con  una  telefonata  da Napoli. Sto andando a Capua,  la  terra degli  "Ozi" di Annibale, e  so  che gli antropologi  sono dei visionari che sparano  immagini estreme; quelli napoletani  figurarsi. "La donna capuana  ‐  incalza Marino ‐ è allo stesso tempo Persefone e Demetra, luogo di morte e di fertilità". Mio dio, penso, chissà quali esperienze avrà avuto. Ma lui galoppa ancora: "Capua è il ventre caldo delle madri che toglie le forze ai Cartaginesi".   Quando arrivo scopro che la donna dell'Ager Campanus esiste eccome. Ne vedo subito una oltre il traffico e  la plebe, davanti al numero 22 di via Alessio Simmaco Mazzocchi a Santa Maria Capua Vetere (nelle terre dei Borboni un nome di due sole parole non è degno di considerazione): una matrona del Volturno dagli occhi come braci, dominatori e  indifferenti, adorna di una cascata di riccioli  neri  e  un  peplo  di  bianco  lino  plissettato,  aperto  con  generosità  sulle  sue  bellezze. Praticamente Giunone.   La Campania è piena di donne così, simili alle Grandi Madri, le antiche gigantesse di pietra cariche di spighe e bambini che quando entri al museo di Capua sembrano saltar su e urlare tutte insieme "Attento, questa è la terra delle donne!". Certo, tutto è cambiato da quando l'antica Capua aprì le porte  ad  Annibale  invitandolo  a  godersi  la  vita:  eppure,  tutto  è  rimasto  lo  stesso.  Antico  e moderno generano intrecci da mal di testa. Quando ti siedi al caffè non sai se al tavolo vicino c'è Socrate o Peppino de Filippo. Per strada confondi satiri e bottegai, comari e torbide Clitennestre, ombre di aruspici e parroci di campagna, ninfe delle  fonti e commesse di supermercato, parche tessitrici di destini e cameriere russe capaci di sparare ordinazioni con  la durezza di una fucilata.   "Amplexu multoque mero  somnoque  virorum  / profliganda acies...". Silio  Italico, nel  suo poema sulla guerra punica, scrive della vecchia Capua che "è con gli amplessi, il molto vino e il sonno che va sbaragliato un esercito che né spade né fiamme, né Marte sfrenato hanno potuto abbattere". Aggiunge  perfidamente:  "Gusti,  il  condottiero,  i  piaceri  che  si  insinuano  nel  profondo  delle viscere...".  Come  dire: muori  Cartaginese. Dimenticava  che  nel  grembo  delle Madri  gli  africani lasciarono anche figli. Il seme della rinascita, e quindi della rivincita.  

 

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"Ah ‐ sospira Giovanni Brizzi, la mia inclita guida annibalica, subito catturato dal fascino del luogo ‐ dovettero godersela assai  i  soldati da queste parti...  In quattro anni, di donne ne avevano viste poche...". Beh, gli dico, ci saranno pur stati degli stupri. "Difficile. Annibale su questo era severo. Proibiva di toccare le donne del nemico". Non ci credo, come li tieni dei soldati vincitori? "Lui era inflessibile.  Chi  trasgrediva  era  duramente  punito.  Sapeva  che  se  tocchi  il  nemico  nell'onore, scateni  l'impensabile. Trasformi  in  leone anche un agnello. E  soprattutto, dopo  la guerra,  rendi impossibile un'alleanza duratura con l'avversario. Era una scelta politica".   

  Africano anomalo questo tuo generale... "Il suo modello era greco: Alessandro Magno, che dopo la vittoria non  toccò un  capello  alla moglie  e  alle  figlie del  re persiano Dario.  Tutta  la  famiglia di Annibale era così. Talmente continenti che gli altri clan cartaginesi  li accusavano di pederastìa". Annibale non ebbe donne? Non ci credo. "La moglie Imilké era lontana, in Spagna, ma questo non cambia le cose. Nella sua vita le donne sono quasi assenti". Non si concesse una prostituta? "Plinio il Vecchio racconta che ne ebbe una in Puglia, in un paese di nome Salapia, poco lontano da Canne, nei mesi del campo invernale". E che dice Plinio? "Dice che gli abitanti di Salapia erano ancora così orgogliosi di questo primato, che secoli dopo portavano ancora i viaggiatori a vedere la casa degli amplessi.  Significa  che  nessun  altro,  in  Italia,  poteva  vantare  fughe  amorose  di  Annibale".   Davanti  all'anfiteatro  dei  gladiatori  c'è  un  cane  bianco  e  nero  che  dormicchia  sotto  le  arcate. Occupa platealmente  la passerella d'accesso, poi ci fa passare con uno sguardo pigro da usciere. Scavalcare questo metafisico abitatore di rovine è come varcare la soglia dell'altro mondo. Siamo con due universitari napoletani buoni osservatori del terreno, Giacomo de Cristofaro specialista di storia romana, e Osvaldo Sacchi studioso delle fonti del diritto romano.   Rievochiamo,  gesticolando,  la  storia.  In  principio  fu  Capua,  la  più  meridionale  delle  colonie etrusche. Il punto di contatto con le terre selvagge dei Sanniti. La città più ricca d'Italia. La terra del vino falerno, del giurano e del massico, dolceamari come il sangue, inimmaginabili ai palati di oggi. Terra di argentieri, profumi e frutta formidabile, bestiame e unguenti come il meli‐loto della rosa. Qui Roma impara il rituale gladiatorio, qui Spartaco formerà l'esercito dei suoi ribelli. Qui nasce la commedia  popolare  detta Atellana. Qui  è  il  granaio  di  Roma,  fino  alla  conquista  della  Sicilia  e dell'Egitto.   C'è  la defezione della città  italica dall'alleanza con Roma, ci sono gli "ozi", poi  la riconquista e  la punizione  terribile.  La  classe  dirigente  si  suicida  o  viene messa  a morte.  Da  allora,  una  lunga decadenza e  l'oblio. Ma Capua  resta egualmente  così  ricca e  invidiata  che  le usurpano anche  il 

 

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nome. La vicina Casilinum diventa Capua per decisione vescovile, e la capostipite viene declassata a Santa Maria Capua Vetere. Poi, a due passi, nasce Caserta, con la reggia dei Borboni.  Due  città  figliastre  in  trenta  chilometri.  E  in  mezzo  lei,  prolifica  come  una  grande  madre.   Non c'è nessuno oltre a noi. Fruscio di passeri nella sterpaglia, passerelle, voragini che si aprono sugli inferi dei gladiatori e delle belve. Il moncone sud dell'anfiteatro che si staglia nel cielo bianco come  il  teschio di un bisonte. Questo non è  il Colosseo,  infestato di orde  in bermuda.  Tutto è infinitamente  più  intrigante,  come  sulla  Trebbia  o  a  Canne. Dove  è  passato  Annibale  la magia resta,  e  la  peste  dei  non‐luoghi  non  attecchisce.  C'è  un'energia  primordiale  che  percepiamo ovunque. Qualcosa di molto più vecchio di Roma.   

  "Qui  l'antico  riaffiora  persino  nella  circolazione  stradale"  spiega  Osvaldo  Sacchi  mostrando dall'alto  un  fittissimo  labirinto  di  mura  medievali,  viabilità  borbonica,  ville  romane  e  chiese barocche. "Qui  l'asse egemone dovrebbe essere quello Est‐Ovest,  la via Appia" dice  indicando  la "N 7" tangente al centro storico. "E  invece no! Quando sono arrivato qui ho capito che  le strade laterali  avevano  tutte  la  precedenza  e  spezzavano  l'onda  verde  della  via  Appia...  Era  chiaro: comandava un asse molto più antico, quello Nord‐Sud, che parte dal tempio di Diana sul Monte Tifata! Qui Cardo e Decumano  sono  invertiti  rispetto al normale. Che  roba è questa  se non un inconscio rifiuto dell'impianto spaziale romano?".  

Ci inghiottono gli inferi del Mitreo, un sotterraneo dove si sacrificava il toro bianco del dio Mitra. Nel semibuio intravediamo l'affresco dell'uccisione, la vasca del sangue, il serpente e il cane che lo bevono,  lo  scorpione  che  punge  i  testicoli  dell'animale,  il  corvo  vaticinante,  le  costellazioni. Usciamo  muti  di  meraviglia  dal  secondo  secolo  dopo  Cristo,  un'epoca  che  ha  già  alle  spalle Annibale e l'eruzione di Pompei. I barbari sono ormai alle porte, Capua è già l'ombra di sé: ma la luce  abbacinante  dell'esterno  ci  sbatte  in  un  presente  così  volgare  che  persino  quel  tempo  ci sembra una meraviglia di "humana pietas". Brizzi ha capito e sorride. Ora vorrebbe viaggiare come Don Chisciotte, hidalgo fuori‐tempo fra i cialtroni.  

Ormai  è  Calcutta.  Caldo monsonico,  fiori  e  cumuli  di  immondizie,  roghi  di  sterpaglia,  nebbie rossastre della sera. Una negra statuaria e altissima ci taglia la strada; pare Atropos, la gladiatrice che aveva  il nome della parca che taglia  il filo della vita. Non torneranno più per Capua  i fasti di Annibale. Quando ebbe in mano la resa senza condizioni della città, il console Quinto Flavio Flacco mandò a morte i 53 maggiorenti che non si erano già suicidati, fregandosene del parere del popolo 

 

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romano. Una lettera del Senato gli raccomandava clemenza, ma lui la tenne chiusa apposta fino a esecuzione avvenuta. 

Allorquando la città passa ai Cartaginesi  Archimede organizza la difesa e poi viene trafitto 

La svolta di Siracusa e il genio dei teoremi 

 Morte di Archimede, mosaico di Ercolano 

 Siracusa. Impossibile lasciar fuori Siracusa da questa storia. Me ne rendo conto a Capua, leggendo Tito Livio in una sera languida color melograno. La colonia greca è una svolta della guerra: nel 214 la città passa ai Cartaginesi, ma i Romani reagiscono immediatamente, capiscono che, se il nemico s'insedia  in Sicilia,  il  loro dominio sul mare è  finito, e così ne attaccano  la città più splendida. La stringono d'assedio con quattro legioni.   Ma  Siracusa  è  soprattutto  Archimede.  E'  il  genio  dei  teoremi  e  delle macchine  da  guerra,  dei rompicapi  e  dei  codici  perduti,  che  organizza  la  difesa,  incendia  con  specchi  ustori  le  basi  del nemico,  ne  solleva  le  navi  con  enormi  gru  arpionanti,  e  poi  muore,  ucciso  da  un  legionario distratto nel giorno della capitolazione, anno 212. Una grande storia da raccontare.   Ma ha senso, mi chiedo, una deviazione così lunga? Temo che il viaggio si complichi e perda ritmo. E poi oltremare Annibale non ci va mai: il lavoro in Sicilia lo fa fare ad altri al posto suo. Gli Stretti non  li  passa,  resta  abbarbicato  al  Continente  fino  al  giorno  del  ritorno  in  Africa.  Che  ci  vado dunque a fare tra gli Iblei? E come faccio a staccarmi dal mio uomo dopo averlo seguito fin qui?   Non  mi  resta  che  chiedere  consiglio  al  compagno  d'avventura,  l'esperto  di  cose  cartaginesi professor Brizzi Giovanni da Bologna. Lui mi gela: "Caro "viator"  ‐ risponde come  la Sibilla  ‐ non posso venire. E' ora che ci separiamo".   Resto  interdetto  dalla  risposta  a  bruciapelo.  Chi  parla:  il  professore  o  l'Annibale  che  è  in  lui?  Spiega sornione: "Mi fermo a studiare un po'".   Continuo a non capire: deve davvero lavorare, oppure non può staccarsi dal suo mitologico "alter ego"?  

 

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 Concede: "Tu puoi andare; anzi devi andare".   Gli chiedo perché.  "Questo abbrivio del viaggio ti aiuterà a capire l'allargamento degli scenari, la trasformazione della guerra".   Spiega che dopo Canne tutto si complica: Scipione l'Africano marcia sulla Spagna e conquista Nova Cartago, Annibale si allea con  i Macedoni, suo fratello Magone corre  in Africa a chiedere rinforzi, flotte romane battono il Mediterraneo in ogni direzione.   Insomma, dalle Colonne d'Ercole all'Egeo è tutto un rullar di tamburi.   Parto  verso  Scilla  e Cariddi  per  le  terre  dure  degli  Irpini,  degli Alburni  e  dei  Lucani,  giù  fino  al Pollino  e  alle  nocche  del Ditone  calabro. Un  saliscendi  terrificante; nel  quale  dio  solo  sa  come Annibale  potè muoversi  a  suo  agio,  e  nel  quale mai  i Romani  osarono  affrontarlo.  Tra  Palmi  e Bagnara Calabra, un colpo di vento quasi mi butta nel Tirreno, duecento metri sotto. Asperrimo Mezzogiorno. Per questo l'Africano la elesse a ultimo rifugio.   Sud, Sud, Sud. Valli, nubi  intrappolate nelle gole,  camion a  centro‐strada,  foreste  impenetrabili, lampeggiare di sguardi diffidenti sui picchi controllati dai Bruttii e dai Greci di Locri. Che avrebbe fatto Alessandro  il Grande, conquistatore dell'Asia,  in un  terreno simile? "Che avrebbe  fatto  ‐ si chiede orgogliosamente Tito Livio nel nono libro delle Storie ‐ se avesse visto le balze dell'Apulia e i monti della Lucania" e magari avesse avuto di fronte consoli come Quinto Fabio Massimo e Lucio Papirio Cursore?".   

  Ricostruzione dello Stomachion 

 Livio deborda.  L'Italia non è  la Persia di  re Dario,  che  si  trascinava dietro  "eserciti di donne ed eunuchi, gravati di porpora e oro..., più simili a una preda che a un nemico". L'Italia, proclama  lo storico  passando  il  limite  del  buon  senso,  non  è  l'India,  nella  quale  Alessandro  "avanzò gozzovigliando  con  l'esercito  ebbro".  Italia  Italia  Italia...  par  di  leggere  la  Storia  romana  di  era fascista.   Livio non dice una cosa: proprio questa Italia fu affrontata da Annibale Barca, il quale la domò, la percorse e vi batté moneta affrontando  i migliori consoli romani per tredici anni. Non può dirlo, perché il suo libro è un lavoro in lode di Roma. Ma oggi, qui, traghettando fra spaventose correnti 

 

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sullo stretto fra i Nebrodi e l'Aspromonte, il declassamento liviano di Alessandro mi appare in una luce tutta nuova.   Un'indiretta, splendida "laudatio" del grande cartaginese.  A  Siracusa,  ci  vuol  poco  a  capirlo,  di  Archimede  se  ne  fottono.  Al  massimo  lo  usano  come "acchiappa‐citrulli",  per  intitolar  convegni  sull'energia  pulita  e  le  pale  eoliche.  Povero  genio dimenticato,  ridotto a  testimonial  (defunto e dunque gratuito) di un business miliardario. Di  lui trovo  solo  un  riquadro  in  acciaio  inossidabile,  sporcato  di  graffiti  blasfemi,  in  un'androna  dello "scoglio"  Ortigia.  E'  una  ricostruzione,  per  giunta  sbagliata,  dello  "Stomachion",  il  rompicapo geometrico che anticipò di duemila anni il cubo di Rubik, e che è possibile trasformare in centinaia di  forme  diverse.  "Stomachion"  si  chiamava,  appunto  perché  era  così  difficile  da  provocare  i crampi.   "Siracusa non merita un genio simile" brontola Umberto Di Marco, un  innamorato di Archimede che ha ricostruito alcune delle sue incredibili macchine da guerra.   Gli chiedo se questa dimenticanza è cosa di oggi.   "Niente affatto. Quando Cicerone andò in Sicilia un secolo dopo la sua morte e chiese di vedere la sua tomba, scoprì che i siracusani non sapevano dov'era e nemmeno CHI egli fosse".   Chi fu davvero Archimede?   "La cosa più grande che ci ha lasciato la Grecia. Il grande teatro ellenico, per esempio, è cosa non trapiantabile  fuori dalla nostra cultura.  Il  teorema sul galleggiamento dei corpi,  invece,  funziona ovunque.  Siamo di  fronte a un genio più universale persino di  Leonardo. Ma non  se ne parla".   La sua morte fu davvero come la raccontano?   "Dicono  che  lui  tracciasse  formule  sulla  sabbia,  che  vivesse  fuori  dal mondo,  e  il  legionario  lo uccise perché esasperato dal suo straniamento. Ci credo poco".   Cosa accadde?   "Fu un delitto di stato. Lui era il Von Braun della situazione. Una mente militare del nemico. Era il prototipo di ciò che i Romani detestavano: un Greco costruttore di stratagemmi e inganni. Ai loro occhi soprattutto un imbroglione".   

 

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  Ortigia 

 

Dicono che il console Marcello pianse alla notizia...  

"Francamente mi sembra una balla, come il pianto di Scipione Emiliano sopra le ceneri di Cartagine che lui stesso aveva bruciato. Quando una città cadeva, non c'era pietà. Si scannava tutto ciò che si muoveva".   Il  vero  specchio  ustorio  di  Siracusa  è  l'alba.  Il  sole  che  esce  sul mare  immobile  del mattino  ti schianta come un faraone egizio. E' il disco incandescente di Ammon‐Ra sopra le teste rapate dei costruttori  di  piramidi  puzzolenti  di  cipolla  e  sudore.  Non  hai  scampo.  A Ortigia, d'estate, l'unica attività che ti viene concessa è scegliere quale percorso fare per evitare il  sole,  sempre  ammesso  che  tu  non  preferisca  una  sovrana  immobilità.  In  quest'isola‐transatlantico con la prua a Sud, altro non puoi fare che passeggiare sul lato Ovest al mattino e sul lato Est alla sera. Tertium non datur.  

Persino raggiungere il castello Maniace, lì a 500 metri, è un'impresa. C'è di mezzo la chiacchierata dal barbiere  con  lo  specchio  floreale  fine‐Ottocento,  la  sosta al mercato da Tito Cappuccio  che affetta  pesce  spada  come  nessuno,  il  caffè  con  Totò  che  discetta  sulle  ultime  de  "La  Sicilia".   Scrivo sulla sabbia una grande parola: OTIUM. Questo sono le Sirene: il metabolismo che rallenta, la deriva verso l'Africa. La giornata che si riduce all'attesa della sera.  

Sulla  terrazza  di  Aldo  Palazzo  ‐  artista‐fotografo  dalla  ruvida  chioma moschettiera  ‐  aspetto  il tramonto  con due olive, un pomodoro e una  coppa di bianco  fresco.  Il  sole  indora architetture arabo‐normanne, sveve e  ispaniche. Mi sento a Cartagena; col viaggio che torna al suo punto di partenza. Non c'è più niente di greco qui,  se  si esclude  il  fantastico duomo, cresciuto dentro  le colonne doriche di un tempio a Minerva.  

Incontro stranieri drogati di sublime  lentezza. Come Kali Jones, che viene a tuffarsi con me dagli scogli. Kali non chiede altro dalla vita. I tetti, le rondini, il mare; e il rumore di stoviglie nella sera. 

   

 

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Quando il generale passa il Volturno nella speranza  che i nemici corrano in difesa della loro città mollando l'assedio di Capua 

I popoli del lupo e gli ozi di Capua 

  TORNO sul Volturno da Siracusa e, come temevo, trovo  il compagno Brizzi  infiacchito dagli ozi di Capua.  Il  professore  che  volle  essere  Annibale  s'è  sistemato  da  pascià  alla  fattoria  Colombaia, accudito da generose cuoche campane, felice tra libri e casse di zucchine biologiche. Ah, "Otium", nobilissima parola! Ma dove sta scritto che  l'ozio è dei  fannulloni?  In  latino vuol dire altra cosa: "tempo  libero  utilmente  impiegato"  in  studio,  giardinaggio,  camminate.  E'  la  più  sublime  delle attività  umane.  Se  così  non  fosse,  il  lavoro  quotidiano  non  si  chiamerebbe  "Negotium", degradazione (o negazione) dell'ozio.   Ozio  per  noi  stasera  è  discettare  sul  senso  delle  parola  "Capua",  forse  etrusca,  accanto  a  un fumante  sartù  di  riso;  è  scacciare  pigramente  i moscerini  rimasticando  il  nome  "Volturno"  che tanto fa pensare a gorghi, meandri e giravolte, e poi scoprire che discende dalla dea "Volumna", portatrice  del  vento  di  scirocco.  A  Santa Maria  Capua  Vetere,  ci  conferma  la  cuoca,  la  gente chiama  "ò Vortice"  la nuova  area mercatale  costruita  su un  crocicchio battuto dal  vento di  cui sopra.  Ma  "Otium"  per  noi  stasera  è  soprattutto  studiare  sulla  carta,  discutendo  fino  allo sfinimento il blitz di Annibale su Roma.   E'  l'anno  211  e  le  legioni  ‐  ingelosite  dalle  delizie  offerta  ai  cartaginesi  ‐  si  son  calate  sull'agro campano per assediare Capua. Annibale cerca di spezzare  la  tenaglia, ma  il nemico è  tosto, non molla. Allora il Capo attua una mossa geniale. Passa platealmente il Volturno in direzione di Roma nella speranza che i romani corrano in difesa della loro città mollando l'assedio di Capua. Già, ma come arrivare a Roma? Ci sono otto legioni che lo cercano.  

 

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Fa così: dopo  la partenza "coram populo" s'infratta nell'Appennino. Sparisce dagli schermi radar, poi sbuca a sorpresa da Rieti e si cala sulla città da Nordest.   "Hannibal ante portas!" è l'urlo dei Romani. Ma Annibale non cerca affatto di entrare. Vuole solo alleggerire la pressione su Capua. Compie evoluzioni sull'Aniene, devasta, incendia, fa bottino, poi riparte, e Roma  tira  il  fiato. Ma  tutti  continuano a  chiedersi:  come ha  fatto, quel  satanasso, ad arrivare fin qui senza farsi intercettare dalle legioni?   Mattina di brume, vecchia Capua addio, risaliamo il Volturno in cerca del santuario di Sant'Angelo in  Formis,  l'ex  tempio  di  Diana  Tifatina  dove  Annibale  sacrificò  un  elefante.  Il  teschio  del mastodonte,  si  vocifera  in  paese,  sarebbe  stato  conservato  dai  monaci  per  secoli.  Dico: dura scannare un bestione simile. No problem, spiega Brizzi. Basta un martello nella cervice.   Un benzinaio ci indica la strada. "Passate 'o ponte r'Annibbale, poi a destra su per la montagna".   

  

Ponte di Annibale?  

"Sì, nun ci sta nessun cartello, ma si chiama 'o ponte r'Annibbale. Tutti lo chiamano a' cussì. E' bello grande.  Ma  a  Cusano  Mutri  ce  ne  sta  n'ato  c'a  fa  ancora  cchiù  impressione".  Me  lo  faccio mostrare  sulla  carta.  Intanto  il  treno Caserta‐Piedimonte Matese  ci passa  accanto sferragliando. "A Faicchio sul Titerno ce sta pure o' ponte e' Fabio Massimo".  

Ah. Fabio  il Temporeggiatore, che sfiancava  il Cartaginese senza attaccarlo mai. Pago  la benzina.  Di  nuovo  toponimi,  di  nuovo  un  passato  che  sembra  ieri. Ma  qui  sono  di  fronte  a  qualcosa  di speciale.  La  rappresentazione  teatrale  della  storia,  come  o'  presepe  napolitano.   

A  Sant'Angelo  comincia  di  colpo  la montagna  aspra  di  Frà Diavolo,  del  cinghiale  e  del  lupo.  Il santuario sorge a bell'apposta sulla frontiera millenaria tra pastori e agricoltori. Una tipa riccioluta ci apre  il pesante cancello e ci schiude, oltre un frutteto, una vista pazzesca sul gran teatro della memoria.  Sul frontone, un patchwork di epoche: capitelli corinzii, un arcangelo Michele dagli occhi azzurri, il vescovo longobardo Desiderio, gesticolanti statue barocche, nomi di principi normanni, mosaici di barbuti  patriarchi  bizantini. Ma  l'insieme  è  coerente:  rappresenta  la  stessa  chiesa  trionfante, orientale, dove l'uomo è nulla.  

 

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Ora la cordigliera del Matese ci sovrasta, e i Sanniti che l'abitano scendono per strade inverosimili a bordo di Api, trattori o furgoni. Hanno facce larghe di campagna; Napoli è lontanissima. Chissà se Annibale passò di qui, mi chiedo davanti alle mura di Alife, romane quanto si vuole, ma recanti un elefante quale civico emblema.  

"Sì che è passato ‐ conferma Geppino Buonomo, che sorveglia i beni storici della zona ‐ la città gli si  è  consegnata  senza  colpo  ferire  e  così  ha  evitato  la  distruzione".  Mi  dicono  che  vicino  a Montelatone  sta  emergendo  una  città  sannitica  bella  come  Micene.  Sta  per  piovere,  l'alta  valle  del  Volturno  è  segnata  da  mandrie  di  bufale  inquiete.  Passa  un contadino  sul  trattore, ma  io  vedo  un  centauro, mezzo  uomo mezzo  cavallo,  garretti  lucidi  e zoccoli infangati. Tuona.  

Saliamo  verso  il  lago  e  la  sella  del  Perrone.  Siamo  su  un'acropoli,  una  roccaforte dell'autosufficienza appenninica, un mondo ricco di legna, acqua, frutta e mandrie.  

Ora piove, e Brizzi mi racconta una storia tremenda. C'erano una volta sull'Appennino  i popoli di montagna. La loro terra non bastava a sfamarli tutti. Per sopravvivere, decisero di sacrificare i loro figli  in primavera, ogni certo numero di anni. Era  il sangue del cosiddetto "Ver sacrum",  l'atroce "primavera sacra" dei popoli italici.  

Nei  secoli  il  rituale  si  umanizzò  e  si  scelse  di  espellere,  anziché  uccidere,  gli  uomini  in sovrabbondanza. Partivano a eserciti, nelle primavere stabilite, accompagnati dall'emblema di un animale totemico. "Hirpus", il cinghiale; "Picus", il picchio; "Luk", il lupo. Così nacquero popoli che furono  il nerbo d'Appennino: gli  Irpini,  i Piceni,  i Lucani. Ora  siamo entrati  in una gola paurosa. Sulla strada non c'è spazio nemmeno per i paracarri. Un'insegna addita il "Saloon dell'impiccato".   Brizzi  continua:  "Per  sfamarsi,  questi  cominciarono  a  premere  su  città,  coste  e  pianure,  ma vennero ricacciati indietro. E quando Roma cominciò a espandersi, si arroccarono sulle montagne adottando  una  tecnica  "afghana"  di  agguati,  senza  mai  scontri  in  campo  aperto.  Spesso  si federarono, comunicando fra  loro con una rete di tratturi". Forse gli stessi che Annibale avrebbe attraversato.   C'è  il  fuoco acceso nella  taverna molisana di Mario Di Meo, e  il  suo  vino Tintilia, bevuto  tra  le lucciole  del  giardino,  provoca  allucinazioni  tipo  Lsd.  Brizzi  canticchia  "Lucy  in  the  sky  with diamonds", io fantastico sul tratturo come collante di un'Italia federale, Mario ‐ più praticamente ‐ affetta funghi con occhio da fauno e spiega che la pernacchia è nata duemila anni fa tra i Sanniti, come manifestazione di spregio verso i Romani invasori.  

Penso che se  i vettori  transumanti erano anche spazi di sedizione armata,  forse Roma costruì  le sue  vie  consolari  ‐  come  la  Flaminia  ‐  apposta  per  tagliare  le  comunicazioni  degli  irrequieti Highlanders d'Appennino. Ma sì! Ecco perché i tratturi non corrono quasi mai paralleli alle strade! Ecco perché Annibale  riuscì a passare  invisibile  fino a Roma e a nascondersi per  tredici anni nel nostro Sud!  

 

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Il mattino dopo salita dolce, motori al minimo, per Pietrabbondante, il grande santuario dei popoli italici nati dal cinghiale, dal picchio e dal lupo. Fratelli dei boschi, che continuarono ostinatamente a ribellarsi prendendo feroci bastonate. Prima con Pirro, poi con Annibale, poi con la guerra sociale e la guerra civile che furono il massacro finale.  

Arriviamo  a quota mille  tra  i boschi,  tra  rotear di  farfalle,  api, e  falchi  a  grande  altezza.  Siamo perfettamente soli. Pietrabbondante è un'assemblea di spuntoni  in bilico tra  i due mari. Sotto,  in un pendio coperto di  funghi prataioli, un  tempio, con davanti un anfiteatro protetto da Sfingi e massicci Telamoni  in pietra. I Sanniti se  la curano ancora,  la  loro capitale segreta. Falciano  l'erba, tolgono ogni cartaccia. Macché Pontida. Pietrabbondante è meglio di Stonehenge. Che vengano qui, gli italioti, a vedere quanto fu grande l'Appennino. 

   

 

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Sulle sponde del fiume Metauro, dove i Romani, memori di Canne, restituiscono pan per focaccia ai Cartaginesi 

La corsa delle legioni 

 Emil Zatopec era detto la "locomotiva umana" 

 OGGI  il  generale  comandante  prof.  Giovanni  Brizzi  se  ne  va:  torna  a  malincuore  tra  i  Celti dell'Emilia dopo una settimana di scorribande appenniniche. E' silenzioso, mentre lo accompagno verso la riviera adriatica, la lunga linea azzurra che già ci cattura allo sbocco delle valli d'Abruzzo. L'uomo‐ombra di Annibale vorrebbe dirmi che non è una ritirata la sua, ma solo... una corsa verso il Metauro. Sì,  il fiume delle Marche, dove  i Romani restituiscono pan per focaccia ai Cartaginesi, sconfiggono Asdrubale alla grande e ne spediscono la testa tagliata al fratello accampato a Canosa. E noi al Brizzi gliela diamo per buona, purché racconti un'altra delle sue favolose istorie.  

San Trigno, San Buono, San Salvo. Di nuovo rullar di tamburi. E' in questo Appennino dal pantheon barbarico che nel 207 il console Claudio Nerone passa con le truppe in direzione delle Marche, in una delle avanzate più fulminee della storia bellica mondiale. La sua è una strada trans‐collinare di estenuanti  saliscendi: Canosa, Termoli, Atri, ponte  sul Tronto. Fermo, Loreto, Senigallia, Urbino. Cinquecento chilometri, in meno di una settimana: una marcia a tappe forzate, senza dormire mai. Appena il tempo per mangiare, defecare, pulirsi, decongestionare i piedi. Erano questi gli uomini di una volta.  

In  latino  si dice  "quam maximis  itineribus",  e  a noi  sembra una  formuletta  scolastica.  Invece  è fatica,  disciplina,  sudore.  Il  latino  è  un  concentrato  di  tutto  questo.  "Itineribus  expeditis",  per esempio: vuol dire  che gli uomini viaggiano non  "im‐pediti",  cioè  senza bagaglio. E  il bagaglio  ‐ udite  ‐ è  roba di  trenta chili: armi, cibo, coperta, borraccia, pali dell'accampamento. E' così che viaggia  la  legione  in  corsa  verso  il  Metauro.  Senza  portarsi  niente  appresso.   Già, ma come nutrire una simile moltitudine? La scelta  logistica è  iper‐moderna. Claudio Nerone manda avanti dei corrieri a spron battuto "ut omnes ex agris urbibusque commeatus paratos militi 

 

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ad  vescendum  in  viam  deferrent",  affinché  tutte  le  popolazioni  dalle  campagne  e  dalle  città preparino  lungo  la strada vettovaglie per  il nutrimento dei soldati. Allerta  i Larinati,  i Marrucini,  i Frentani  e  i  Petruziani  perché  facciano  trovare  cavalli  e  altre  bestie, per  aiutare  gli  uomini  più stanchi. Sta per affrontare Asdrubale: un fulmine di guerra anche  lui, che ha passato  le Alpi assai più velocemente del fratello.  

"Erano decatleti" quasi digrigna i denti Brizzi, quasi gli duolesse ammettere la sua ammirazione per Roma. "Erano belve. Macchine di morte".  

Stiamo  chiacchierando  al  bar  della  stazione  di  Pescara, ma  il  professore  ‐  in  partenza  di  lì  a mezz'ora dal binario due ‐ non sente e non vede Pescara. E' già sul Metauro.  

"Avrebbero massacrato qualsiasi gladiatore".  

Rivedo  l'immagine  di  Russel  Crowe,  nei  panni  del  generale  iberico  che  scende  nell'arena, riprodotto alle spalle di Silvia Giorcelli, prof di storia romana a Torino. Dal mare arriva un po' di vento di bora. "I veterani,  i veterani... erano degli  invincibili... Gli ebrei di allora, che erano gran combattenti, lo sapevano: non attaccavano mai i veterani. Mai mai mai".  

Veterani. Penso  che una  volta  il mondo era  alla  rovescia.  I  vecchi erano più  forti, e  i  giovani... comandavano. Condottieri giovanissimi, come Napoleone, Gengis Kan, Annibale  stesso. Figli che comandavano i padri. Oggi sarebbe inconcepibile, oggi spadroneggiano gli ottantenni.  

"Ah, la Quarta Decima Legio... ‐ incalza Brizzi ‐ una leggenda... la quattordicesima legione di stanza a Carnuntum, sul Danubio presso Vienna, a guardia del Limes orientale". 

La disciplina? I prussiani erano dilettanti al confronto. Non gli ammutinamenti, ma già le proteste sono  punite  con  la morte.  Brizzi  legge  da  Livio  un  passo  della  guerra  di  Scipione  in  Spagna.   "L'esercito batté con  immenso  strepito  le  spade  sugli  scudi...  i condannati  furono portati nudi... mentre si preparavano gli strumenti del supplizio... poi furono scudisciati a morte e decapitati con le scuri, senza che un solo gemito o mormorio di protesta si levasse dalle file".  

Regnava  il terrore, più che  la disciplina. Contempliamo affranti  i nostri pallidi garretti sedentari. I superlativi non bastano per  le  tabelle di marcia di duemila anni  fa. Come quella di Cesare,  che porta i suoi dalla Toscana all'Andalusia in ventotto giorni. Ven‐tot‐to‐gior‐ni.  

"Non parliamo del resto... L'esercito  inglese ha tentato di rifare  il ponte di Cesare sul Reno con  i mezzi  di  allora:  ne  è  uscito  a  pezzi...  Gli  svizzeri  hanno  provato  a  viaggiare  "quam  maximis itineribus", e sono finiti all'infermeria".  

Si parte, Brizzi ora parla dal portello dell'Eurostar. Non prende atto che viaggerò da solo verso  le Calabrie. "Ricordati. Il mondo ha prodotto tre grandi fanterie corazzate: gli opliti greci,  i  legionari romani  e  gli  svizzeri  con  le  alabarde... Quando  Carlo Quinto  vince  a  Pavia  e  scende  su  Roma, trattiene  i  suoi Tercios manda avanti  tredicimila  lanzichenecchi  svizzeri, guidati da un  capo  che tiene con sé indovina cosa... un laccio d'oro per strangolare il Papa".  

 

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Il portellone  si chiude,  l'uomo delle meraviglie continua a  raccontare, ma non  sento più niente.  Meno male  che mi  resta Tito  Livio per  immaginare  la  fine della  lunga marcia.  "Et, Hercule, per instructa omnia ordinibus virorum mulierumque, undique ex agris effusorum, inter vota ac preces et  laudes  ibant". E, per Ercole, tra ali di folla, uomini e donne da ogni dove, tra voti, preghiere e lodi  essi  passavano...  erano  chiamati  difesa  dello  Stato,  vindici  dell'Urbe...  nelle  loro mani  era posta la salvezza e la libertà loro e dei loro figli...  

Era ormai chiaro, la fortuna era girata, la maggioranza dei popoli italici non accettava di passare ad Annibale.  La  vittoria  del  Metauro  era  già  nell'aria.   Ridiscendo a Sud, verso  la Lucania e  la Calabria, ultime  roccaforti di Annibale, per  raccontare  la fine dell'epopea  italiana. Roma ha tenuto duro, c'è una macchina micidiale che cresce dentro di lei:  l'espansione mediterranea,  l'impero,  l'efficienza delle  legioni che con Annibale si è affinata e già viaggia verso la grande stagione di Cesare e degli Antonini, gli imperatori filosofi che daranno a Roma la più perfetta macchina militare della sua storia.  

Nell'area di servizio di Vasto vedo un titolo di giornale: gli americani manderanno  in prima  linea dei  robot,  macchine  con  la  licenza  di  uccidere.  Non  leggo  nemmeno  l'articolo  per  paura  di riflettere su ciò che questo significa. Mi tornano in mente, in compenso, i bravi alpini della scuola di Aosta che ho incontrato sulla neve del Col Clapier, dove è partito il viaggio a caccia di Annibale. E' stato bello  lassù.  Insieme abbiamo  letto Polibio, parlato del generale passato di  là, ascoltato  il tuono di valanghe lontane, persino incontrato due amazzoni di passaggio. Ho voglia di chiamarli e sapere come va. Telefono.  

"Le passo  il generale Bruno Petti" mi dice una voce. Per Ercole, mi bastava un  sottopanza, non volevo  scomodare  un  generale, ma  dopo  dieci  secondi  ecco  già  in  linea  "penna  bianca"  dalle Grandi Alpi d'Occidente.  

"Allora, l'ha trovato questo suo Annibale?", mi chiede sornione. Ha evidentemente letto il giornale e visto le foto dei suoi uomini.  

Gli  spiego  che  sto  cercando Annibale da  settimane ma quello è più  furbo e mi  scappa  sempre.  "Vada  sulla  Sila  ‐  mi  suggerisce  ‐  forse  lo  troverà  nelle  valli  dei  Bruzii".  E' esattamente dove sto andando. Ho alla cornetta un uomo colto. Gli regalo un detto spagnolo imparato nel viaggio: "El mejor general no es el que tiene el mejor ejército, sino el que sabe utilizar mejor el ejército que tiene".  

Sud,  Sud. Bivio per Matera, bivio per Taranto.  Scendendo  sullo  Jonio,  sento  il  generale  guercio ancora più vicino. Ora che perde, ne misuro ancor meglio la grandezza. Penso al fantastico terrore riflesso  che  ha  emanato,  un  terrore  che  duemila  anni  dopo  è  ancora  capace  di  trasformarsi  in fascino  e  ammirazione.  Mi  piace  questo  suo  andare  per  zone  d'ombra,  traendo  vantaggio dall'ombra medesima per diventare leggenda, evitando la noia della storiografia. Nel buio lo vedo seduto al bivacco con i soldati, sempre venerato e sempre solo, tempra d'acciaio, lupo senza amici e senza amori. 

 

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 Di quando Annibale venne ospitato dai Brettii sulla Sila  Una volta tornato in Africa, per il popolo dei boschi fu il tempo delle punizioni 

I montanari maledetti 

Tra Puglia e Basilicata  finisco  in un  trappolone  segnaletico, un  labirinto di  cartelli  con direzioni tentatrici tipo Eramo Marzagaglia, Pizziferro Monsignore, Gemmabella o Masseria Bellaveduta.  

Tutte mi sussurrano "Vieni" come le sirene, e mi allontanano dalla mia meta, lo Jonio e le Calabrie, ultimo  rifugio  di Annibale  in  Italia. Chiedo  la  strada  a  degli  anziani  seduti  a  filosofare  sotto  un pergolato. E'  Italia del Sud, ma potrebbe essere Grecia profonda. "E che ci vai a  fare  in Calabria Saudita?"  ghignano.  "I  calabri  bestie  sono. Hanno  crocefisso Nostro  Signore".  Sto  al  gioco:  "M' hanno detto di questa storia, e mi piacerebbe saperne di più". Ovviamente non ne ho mai sentito parlare.  "Hai  presente  quelli  che  hanno  piantato  i  chiodi?  Erano  calabresi".  E  giù  a mimare  il martello  ridacchiando  come  comari.  Il  viaggiatore  inglese  Patrick  Fermor  ebbe  istruzioni altrettanto  allarmanti  quando  chiese  notizie  del  selvaggio  monte  Taigeto  ai  contadini  della Laconia. Ora fiuto la stessa diffidenza "altimetrica" dei Greci.  

"Prendi  per  San  Basilio,  poi Madonna  del  Carmine,  e  poi  giù  a Marina  di  Castellaneta.  E  poi nnand...  nnand...  chiù  nnand  sciam  e  chiù  n'  Calabr  sciam",  più  avanti  siamo  e  più  in  Calabria siamo. E con la mano indicano una fosca direzione mitologica oltre la malaria del Metaponto, oltre le  frane  della  Lucania,  le  fiumare  desertiche  del  Pollino  e  le  terre  roventi  del  Crati.   L'ultima  roccaforte  del  Cartaginese,  il  bastione  della  Sila.  Annibale  e  Cristo  si  incontrano  in Calabria? Mah. Scendo verso lo Jonio e il mistero aumenta. La segnaletica ignora la direzione Sud. C'  è  solo  l'Est.  Taranto.  Brindisi.  Lecce.  La  Calabria  scompare.  Ecco  perché mi  sono  perduto.   C' è mare violento dopo Marina di Amendolara, le raffiche strapazzano le magnolie sul guard rail. Un paesaggio spettacolare, segnato da vuoti sinistri. A Sibari è morto Erodoto, il più grande storico dell'antichità, ma gli  italiani non  lo sanno. Erodoto desaparecido: come Pitagora, dimenticato da Crotone, e Archimede, ignorato a Siracusa. I più grandi pensatori greci sono vissuti qui, ma l'Italia se ne fotte.  

In  Francia  leggerei maxi‐cartelli:  "La  ville  d'Hérodote",  "L'ile  d'  Archimède". Qui  tace  anche  la segnaletica. Mi sta inghiottendo uno dei numerosi buchi neri della memoria nazionale. Le vetrate del museo di Sibari tremano controvento; dentro c'è la folla che il mare grosso ha sloggiato dalla battigia. Chiedo di un archeologo, e dietro montagne di libri sbuca Silvana Luppino, che ‐ mi dicono ‐ conosce anche la Sila a menadito.  

Subito mi apre il gran vaso di Pandora della Magna Grecia: ne svela il lusso e le periodiche crisi, i segreti dei  favolosi Enotri,  la  ricchezza e  l'oblio di Sibari  la potente, protetta per  secoli da dune costiere  e  poi  inghiottita  della  malaria  per  duemila  anni,  fino  alle  bonifiche  del  Fascio.   E Annibale?  "Fu ospitato dai Brettii,  i montanari della Sila"  replica  la Luppino mentre  le vetrate lasciano  passare micidiali  spifferi  di  scirocco. Avevo  sentito  parlare  dei  Bruttii  e  dei  Bruzii. Ora scopro  una  terza  versione  del  nome.  "Era  un  popolo  indipendente  ‐  narra  l'archeologa  ‐  che procurava ai naviganti alberi maestri e  la miglior pece del Mediterraneo". Cosenza era  il quartier generale,  che  in  latino  vuol  dire  "Consentia",  il  luogo  del  consenso,  del  "patto  di  alleanza".  

 

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Temuti  dai Greci  e  invisi  ai  Romani,  furono  duramente  puniti  quando  Annibale  se  ne  tornò  in Africa.  I  loro  terreni  vennero  requisiti.  I  loro  diritti  aboliti.  Nelle  legioni  fu  consentito  loro  di svolgere solo le mansioni più infami. Come gli zingari nell'esercito ottomano, obbligati a occuparsi dei supplizi. "Di sé non hanno  lasciato quasi nulla, tranne  la pessima reputazione tramandata dai Greci e dai Romani".  

Comincio  a  sentire  il  profumo  di  una  storia.  Azzardo:  "Dicono  che  abbiano  crocefisso  Nostro Signore".  "Se  è  per  questo,  qualcuno  ha  appiccicato  la  loro  identità  anche  a Giuda",  risponde l'archeologa,  e  proprio  in  quell'attimo  il  vento  fa  sbattere  rumorosamente  la  porta  dell'ufficio.   Apriamo un  libro dell'archeologo Pier Giovanni Guzzo:  c'è  scritto  che  appena nel  Settecento  la Chiesa ha assolto  i boscaioli della Sila da queste calunnie  infami. Ma allora è chiaro! Per duemila anni  i Brettii  sono  stati maledetti da Dio e dagli uomini.  E' quanto basta perché  il  conto  torni. Cristo e Annibale si toccano davvero sulla Sila. L'ombra brigantesca del secondo s'allunga sul primo sotto forma di un boia che inchioda un innocente alla croce.  

A  Rossano  la  strada  s'impenna  e  l'abitacolo  trema  nel  maestrale.  Ho  con  me  una  mappa archeologica punteggiata di  fortificazioni  ("Castra") con su scritto "Bruttium",  la terra dei Brettii. Appena fuori dagli orrori cementizi comincia un Eden dimenticato. Torrenti costeggiati di magnolie e mentuccia, villaggi arroccati, ponti a schiena d'asino.  

Ma  la bellezza si sposa di nuovo, misteriosamente, a un vuoto sinistro. Gli uliveti sono chiusi da reticolati e piantonati da torve sentinelle venute da chissaddove. Il segno duro del  latifondo. "Mi scusi,  le  rovine di Castiglione di Paludi?". Due uomini  si girano, affranti di  fatica e  sudore. Sono albanesi,  non  capiscono  cosa  sto  chiedendo.  A  Paludi  mi  soccorre  una  brettia  monumentale affacciata  al  balcone.  Le manca  solo  la  treccia  per  arrampicarsi  su.  "Scendi  fino dove  la  strada finisce  ‐ ordina con un gesto  imperativo  ‐  lì trovi un cancello chiuso,  lasci  l'auto e passi a piedi".   Scendo fino a un cartello che parla di un restauro con fondi europei, poi più nulla. Custodi, orari di apertura: niente. Erbe alte, fiori violetti grandi come cactus, il vento, la Sila e il mare in lontananza. Scavalco il cancello. Oltre i lentischi, i cardi e gli ulivi, in un coro assordante di cicale, la roccaforte. Muraglie nerastre, dalla robustezza  incaica. Malinconiche, come quelle degli  Incas. La malinconia dei  popoli  vinti:  Liguri,  Osci,  Lucani,  Boi,  Sanniti,  Salassi.  Una  cittadella  intera  che  i  Romani costringono  allo  sgombero,  come  cento  altre. Un mondo  che  raggiunge  la massima  gloria  con Annibale e dopo Annibale sparisce nel nulla.  

La  casa  di  Antonio  Milano,  professore  di  latino  a  Lamezia,  pare  la  torre  di  controllo  di  un aeroporto. Altissima con  la terrazza sulla città, vi si danno appuntamento tutti  i venti del Sud. Ai tuoi  piedi,  perfettamente  leggibile,  la  trigonometria  del mito.  Lassù  c'è  Cosenza  "senza mura, come  l'antica  Sparta",  laggiù  il  posto  dove  uno  zio  di  Alessandro Magno  fu misteriosamente sbranato da donne. Lì c'è un ponte di Annibale; lì i marosi di Squillace, il grande capolinea da dove il Cartaginese  lasciò  l'Italia nel 203. E  là  in fondo, tra  le nubi,  la strada dove, con un nero cavallo, arrivò  per  morire  Alarico  re  dei  Goti,  intrappolato  pure  lui  in  Calabria.   Lo sguardo vola, la mente galoppa, passa da Demostene a Senofonte, da Diodoro Siculo alle rivolte degli schiavi nel Sud. Parliamo dell'età ellenistica, "che non  fu affatto decadenza come vogliono farci  credere".  Rievochiamo  soprattutto  i  Bretti,  e  don  Antonio  ne  conosce  ogni  segreto,  ogni cittadella nascosta  tra gli ontani e  le  fiumare della  roccaforte chiamata Sila. Gli chiedo qual è  la 

 

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versione giusta: "Brettii, Bruzii o Bruttii?" "Brettii, per carità, viene dal greco Brettioi". Poi chiede: "A proposito, il tuo Brizzi, mi sa tanto che è un Brettio di origine. Sulla Sila fanno un pecorino che porta il suo nome". Rivelazione come un fulmine!  

E  se  davvero  22  secoli  di  rancore  antiromano  avessero  fatto  il  nido  in  un  ignaro  professore bolognese,  trasformandolo  in Annibale? Chiamo Brizzi al  telefono. "In effetti  ‐ gracchia  il nostro alla cornetta  ‐  i  'brizzì nel mio Appennino  sono  'montanarI'  , e  l'origine potrebbe essere quella. Perché no?". Non ci possiamo credere. Antonio ride: "Con un Brettio travestito viaggiavi... dannato te!". Nei viaggi le sorprese non finiscono mai.  

   

 

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Di quando il condottiero africano lasciò l'Italia per sempre per raggiungere a malincuore la natìa Cartagine 

Il saluto del vulcano 

  

Stelle filanti sullo Jonio, così grosse che fanno rumore. Oltre i canneti e la ferrovia, la linea pallida del golfo di Squillace, l'immenso anfiteatro di sabbia da dove nel 203 l'africano lascia per sempre l'Italia e  l'Europa, portandosi dietro parecchie migliaia di calabresi. Se ne va a malincuore, spinto dal vento di Maestro, per raggiungere Cartagine. Laggiù c'è un console romano, Scipione, che ha osato attaccare la sua patria, esattamente come fece lui quindici anni prima, passando le Alpi per sfidare la Dominante.   Volevo aspettare la notte a Capo Colonna, presso Crotone, sulle rovine del tempio di Era Lacinia, là dove Egli incide le sue gesta su un bronzo che Polibio leggerà prima che vada perduto. Volevo, ma non  ho  potuto,  perché  a  Capo  Colonna  non  si  vedono  le  stelle.  C'è  troppa  luce. Una  funebre processione di  lampioni simili a capestri ha sconciato  il promontorio più bello del Mediterraneo. Pomposi manifesti glorificano la Provincia che ha ucciso la notte. Il mito richiede penombra, e qui nulla più dice del  gran  fuoco  lacinio  che dava  la  rotta  ai naviganti  tra  le  coste  illiriche,  il  tacco d'Italia e il cratere fiammeggiante dell'Etna.   Oggi  troppe  cose  devo  ignorare  per  carpire  quella magia:  la  devastazione  edilizia  di  Crotone,  i bottini stracolmi di immondizia, i bimbi protervi che ostentano impennate in motocicletta, le radio a  tutto  volume,  il  parcheggio  nuovo  già  a  pezzi,  la  strada  che  porta  a  un  ristorante  anziché  al tempio. E poi quell'irrigazione a pioggia col sole alto mentre i giornali locali alzano pianti greci sulla grande sete.   Ma  il  peggio  è  scoprire  che  il  Capo  è  superiore  a  tutto  questo:  se  ne  sta  con  la  sua  solitaria colonna,  appoggiato  ai  faraglioni,  come  un  oggetto  celeste  indifferente  agli  umani.  Astronave immobile sotto l'ultimo cielo italiano di Annibale.   Non  dormo  stanotte.  Resto  a  guardare  il  mare  sulla  strada  costiera,  perfettamente  deserta, all'altezza di San Leonardo di Cutro. Qui niente spot, niente  luci arroganti. È bastato scavalcare  il guard‐rail e traversare le erbe alte nel buio, fin'oltre la ferrovia jonica. Colgo un fico da un albero, lo mangio, annuso l'aria ferma. Il mare è nero. All'orizzonte, le luci della Locride.  

 

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A monte, le costellazioni dei Brettii. Forse i "Castra Hannibalis", le ultime basi fortificate, erano qui, dove mai i Romani osarono venire in presenza dell'africano.   Apro il dizionario mitologico, lo esploro con la torcia, cerco di Crotone, e scopro con un brivido che Capo Lacinio, o Capo Colonna che dir  si voglia, è  il punto  terminale del viaggio di Ercole, prima dell'imbarco per  la Sicilia. Ancora Ercole!  Il viaggio di Annibale è tutto sulle sue tracce. Parte dal suo  tempio a Cadice, continua per  la  "Via haerculea", valica  i Pirenei dove  l'eroe ha amato una ninfa, passa le Alpi sempre sulla sua strada, e così avanti fino in Lazio.   

  Capo Colonna 

 Se avevo dubbi che Annibale avesse costruito la sua strada apposta per entrare in un mito erculeo, ora non ce l'ho più. Crotone DOVEVA essere il suo imbarco. Lì due ricchi mandriani di nome Kroton e Lakynos rubano al gigante parte delle mandrie, e quelle mandrie vengono... da Cadice. A Crotone lui  li  ammazza,  costruisce  il  tempio di  Era  ‐  la dea  contenuta nel  suo nome  "Era‐kles"  ‐ e quel tempio è puntato verso  le porte dell'alba esattamente come  il  tempio di Cadice è aperto verso l'Oceano, sulle leggendarie "porte della notte". Simmetria perfetta.   Povero Jonio. Era il re dei mari, oggi è un lago di terza classe, più dimenticato persino dell'Adriatico della grande Venezia. Roma di oggi guarda solo al Tirreno. E tu Crotone, come ti sei perduta, dopo che Pitagora cercò in te le leggi dell'universo... Crotone, dove gli uomini giusti partivano per l'Aldilà con  in bocca  istruzioni su  foglie d'oro, e dove Evemero da Messina spiegò che gli dei erano solo uomini  che  avevano  lasciato  memoria  immortale  di  sé.  Esattamente  come  Annibale.   "Latifundia perdidere Italiam", il latifondo ha rovinato l'Italia. Lo aveva capito già il vecchio Plinio, grandissimo storico dell'antichità. La sentenza mi batte  in testa da giorni, da quando ho ricevuto uno straordinario regalo di Roberto Cerati, glorioso patriarca di casa Einaudi. Un doppio volume 

 

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dell'82:  L'eredità  di Annibale  di Arnold  Toynbee,  studioso  inglese  che  ha  speso  trent'anni  sugli effetti della guerra punica in Italia. Da quando ce l'ho, ci spendo ore d'appassionata lettura. Anche in questa notte sul Grande Imbarcadero.   Un  conflitto  durato  il  quadruplo  della Grande Guerra  non  può  che  lasciare  segni  indelebili  nel territorio in cui si gioca. E' quanto accade all'Italia del Centro‐Sud. A piegarla, più delle distruzioni e delle  rappresaglie,  sono  gli  arruolamenti  in  massa  dei  liberi  contadini  allontanati  dalle  loro campagne  e  le  vendette  romane  contro  i  popoli  e  le  città  passati  ‐  o  costretti  a  passare  ‐  ad Annibale.   Alla  fine della guerra  la piccola proprietà contadina del Mezzogiorno è  in ginocchio e  la nobiltà italica diventa padrona di terreni immensi requisiti agli "infedeli". È allora che esplode il latifondo, il grano soppianta orti e  frutteti,  i contadini scappano nelle città,  i pastori transumanti dilagano, l'Appennino  si  riempie  di  schiavi‐mandriani,  pastori  armati  pronti  a  diventar  banditi.   Forse  la questione meridionale non nasce con  i Borboni o  l'unità d'Italia, ma molto prima. Negli anni di Annibale.   Non  sempre  i  Romani  portarono  ordine,  legge,  acquedotti  e  strade.  Nel  204,  col  Cartaginese ancora  in  Italia,  eccoteli  a  saccheggiare  le  coste  greco‐calabre  esattamente  come  lui,  e  ad aggiungere anarchia alla distruzione.   

  Un  esempio?  Presa  Locri,  Scipione  consegna  la  città  al  suo  agente  Quinto  Pleminio  perché  la punisca "non con la sferza ma con flagelli chiodati". Una feroce vendetta appaltata. Locri è sempre stata filo‐romana ed è caduta combattendo nelle mani di Annibale, ma poco importa: ora Roma se ne  sbatte del  tradimento della  "fides"  (la  lealtà  reciproca),  infrazione  tanto  spesso  invocata  ‐  in tempo di sconfitte ‐ contro il presunto "fedifrago" Annibale.  

Pleminio  non  si  limita  a  infliggere  tormenti  ai  locresi.  Saccheggia  il  tempio  di  Persefone,  il  cui tesoro persino Pirro il terribile aveva spontaneamente restituito dopo una tempesta ammonitrice. Ma la divisione del bottino scatena una guerra tra cosche militari talmente feroce che due tribuni sono spediti a riportare  l'ordine. Questi si muovono con  la stessa  ferocia, e puniscono Pleminio, "tagliandogli naso e orecchie e spaccandogli  le  labbra". Ma Scipione  interviene,  rimette  il  reo al 

 

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suo posto. Costui subito si vendica, sottopone i tribuni a tortura e li fa ammazzare. Lo stesso fa dei locresi che si sono lagnati di lui col Senato.  

Sembrano storie di  'ndrangheta, ma è una  'ndrangheta romana. È un andazzo generale: dopo  la partenza di Annibale, i governatori locali cominciano a trattare le popolazioni italiche come colonie sub‐sahariane. Saranno  i  fratelli Gracchi  (poi uccisi) a  lamentarsene  in Senato  in un discorso del 173 a. C. riportato da Aulo Gellio. Ne trovo nel libro dei passi illuminanti.  

"Un console andò a Teano. Sua moglie disse che voleva servirsi dei bagni degli uomini e si ordinò al questore di cacciarne quelli che  li stavano usando. Ma  la signora riferì al marito che  i bagni non erano  stati messi prontamente  a  sua disposizione e  che non erano puliti. Per questo motivo  si piantò un palo nel  foro e vi si condusse Marco Mario,  il membro più autorevole della comunità, che fu spogliato e frustato. Quando gli abitanti Cales ne furono informati, introdussero una regola per cui nessuno doveva usare i bagni quando un magistrato romano si trovava in città".  

"L'arbitrio dei  giovani nobili  ‐ protesta Caio Gracco  ‐  arriva  a estremi  sconcertanti. Uno...  stava tornando  dall'Asia  dove  aveva  compiuto  una missione  come  legato.  Viaggiava  in  lettiga,  e  un pastore di Venosa incontrò il gruppo per la strada. Non sapeva chi fosse il viaggiatore e chiese per scherzo se dentro c'era un cadavere. Sentito ciò,  il giovane ordinò di mettere a terra  la  lettiga e frustare  l'uomo  con  le  cinghie.  La  fustigazione  continuò  fino  alla  morte  dello  sventurato".   Esce dal buio una  littorina, bella e disperata come  il Sud. E' anche  lei una stella filante, e si porta dietro un soffio di ruggine, erba e salsedine.  

Sopra il Mediterraneo poche stelle di nome latino; la toponomastica del cielo parla arabo e greco.  

Sulle  loro navi,  i veterani di Annibale avvistano  l'Etna  in eruzione, girano attorno a Capo Passero, puntano nella notte su Pantelleria.  

Tornano a casa dopo quindici anni.  

   

 

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A Zama i romani costretti all'inseguimento Ma infine i veterani di Scipione sconfiggeranno il nemico 

Il momentaneo capolavoro in quella grande battaglia 

 La battaglia di Zama in un dipinto di Cornelis Cort, 1567 

 Tunisia. Colline steppose, mulinelli di polvere, greggi. Lo stradone per Zama punta a Sud, decolla e plana  nelle  turbolenze  d'asfalto  tra  venditori  di  galline  e meloni  enormi  come  turbanti,  s'infila sotto le arcate di un acquedotto romano (restaurato dagli Arabi) rimasto in funzione fino al 1300. Il campo di battaglia è annunciato da donne berbere, ragliare di asini nei campi infuocati, villaggi con piccoli minareti quadrati e nude montagne. La Numidia è tutta un campo di battaglia, terreno per cavallerie e grandi manovre.   Fiume Medjerda, ponte di Fahs, l'antica Sicca Veneria col tempio di Astarte dove sacre prostitute si diedero  ai  forestieri.  L'archeologo Piero Bartoloni  guida  in  stato di  trance  sulla  stessa  strada di Scipione,  indica alla sua sinistra ‐ oltre una montagna detta Zaghouan ‐  la "linea di convergenza" seguita da Annibale dalla costa fino al nemico, sull'altopiano di Numidia. Potrebbe guidare anche a occhi  chiusi;  conosce  il  posto  come  nessuno.  Scava  il  campo  della morte  dal  '96,  primo  dopo duemila anni di oblio.   Paracarri di pietra indicano "Jema", un grosso villaggio su una valle oblunga coltivata a orzo. Lì si è combattuto, giusto sotto le rovine sepolte di Zama Regia, su una terra che ha masticato e digerito centinaia di migliaia di punte di freccia senza restituire più nulla. "Dimmi se questa non è una valle per  cavallerie!"  esulta  Pietro.  Ed  è  vero:  Zama  è meglio  di Waterloo, meglio  di  Solferino.  E' l'archetipo  perfetto  dei  campi  di  battaglia. Ha  un'eco  speciale,  come  se  portasse  impressa  per sempre l'acustica dell'evento.   "Io li vedo", sussurra Bartolini nel vento. "E se chiudo gli occhi li sento".   Una  cicogna  ci  sorvola,  ali  larghe,  e  plana  nell'orzo.  Siamo  seduti  nell'erba  alta,  sulla  collina di Zama  Regia,  con  i  testi  di  Polibio  e  di  Tito  Livio  in mano. Dall'alto  la  dinamica  dello  scontro  è leggibile  come  un  diagramma. Nulla  avviene  di  ciò  che  ci  si  aspetta.  Scipione  ha  rinunciato  da tempo alla lealtà romana. E' diventato più callido di Annibale. Ha occupato mezza Tunisia fregando i cartaginesi con spie travestite da ambasciatori, operazione che gli consente di dare alle fiamme gli accampamenti del nemico. 

 

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Da  Annibale  ha  imparato  anche  la manovra  avvolgente,  la  stessa  che  ha  stritolato  i  Romani  a Canne tredici anni prima. La perfeziona, la adatta alla fanteria pesante romana. Per la prima volta è  in  vantaggio  come  numero  di  uomini  e  anche  come  cavalleria,  il  tradizionale  "pivot"  delle manovre cartaginesi.   Può  farlo,  ha  con  sé  i Numidi  di Massinissa,  ex  alleati  di Annibale, ora  passati  dalla  sua  parte.   "Massinissa, quel maiale  traditore"  ringhia Bartoloni,  il  romano più  filo  annibalico  che esista  in Terra.   

 La tomba di Salal Ben M'hammed 

 Ma Annibale è una volpe, compie proprio a Zama il suo capolavoro. Attira Scipione in una trappola statica.  Manda  i  suoi  Numidi  in  fuga  e  costringe  le  cavallerie  romane  all'inseguimento, dirottandole  dalla manovra  a  tenaglia.  Poi  lascia  i  suoi  "invincibili"  ‐  i  veterani  della  campagna d'Italia ‐ fermi in retroguardia, per schiantare i romani già stanchi dall'assalto.   Scipione è in difficoltà, ma i suoi non mollano. Sono anche loro uomini anziani, ma a differenza dei cartaginesi mai hanno sentito in bocca il gusto della vittoria. Sono i superstiti al carnaio di Canne. Uomini cui Roma mai ha espresso gratitudine: reparti di punizione, tenuti in Sicilia per dieci anni, lontano  da  casa,  a  purgare  la  sconfitta.  Si  faceva  così  allora:  compassione  zero  per  i  perdenti. Cartagine non puniva i soldati, ma crocefiggeva i generali sconfitti.   Quei  veterani  il  giovane  Scipione  se  li  è  visti  assegnare  dal  Senato,  ed  è  un  regalo  al  veleno. Gliel'hanno fatto  i molti  invidiosi che a Roma sperano  in una sua sconfitta. Ma  lui trasforma quei disperati  nel  suo  percussore.  Ha  capito  che  i  "vecchietti"  sconfitti  da  Annibale  hanno  due motivazioni in più: la vendetta e la voglia pazza di tornare a casa.   Così accade. Le legiones cannenses tengono duro finché le cavallerie romane, sconfitto il nemico, tornano  sul  campo  a  dare  la  bastonata  finale,  come  il  generale  Bluecher  a Waterloo  contro Napoleone.   "Venga a vedere  la  fonte di Annibale" sorride Ahmed Ferjaoui, archeologo epigrafista, che scava Zama Regia da dieci anni assieme a Bartoloni. Sotto una  tettoia  stanno emergendo una basilica cesariana,  mura  bizantine  e  vasi  cartaginesi.  L'équipe  al  lavoro  ha  appena  fatto  emergere un'anfora  fenicia  da  una  profondissima  trincea,  ma  oggi  Ahmed  vuole  mostrarci  "la  Source d'Hannibal".  

 

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 "Appiano e Vitruvio ne parlano... pare che chi beveva quell'acqua riceveva in dono una bella voce".   Siamo soli tra le cicale, camminiamo finché nella sterpaglia si apre una fessura. Scendiamo per una scala. Oltre una porta, ecco una grotta trasformata in cantina, col segno di una vecchia fonte. Per terra, tracce votive chiaramente femminili. Fazzoletti annodati, strani geroglifici  in tintura henné. Segno che l'acqua‐femmina era invocata dalle donne perché portatrice di fertilità.   "L'acqua  non  c'è  più,  perché  hanno  catturato  la  vena  a  monte,  e  l'hanno  dirottata  su  un acquedotto", lamenta Ferjaoui sorridendo. I tunisini sorridono sempre, anche se dununciano cose orribili. "Qui Annibale vive ancora, la gente del posto l'ha santificato, un po' come voi fate con San Giorgio, quello che uccide il drago".   E  come  si  chiama  in  arabo  questo  santo?  "Si  chiama  Sidi  n'bil",  risponde  Ferjaoui mentre  una cicogna passandoci sopra proietta su di noi la sua ombra portatrice di fortuna.   

 "Le tombe si affollano attorno a un recinto di pietra" 

 "Il  signor Annibale". A  Zama  "Sidi n'bil"  è  come dire  "Apriti  sesamo". Pronunci quel nome  e  la memoria si mette  in moto. "Andate a vedere  la sua tomba" esorta a gran voce uno degli operai locali dal fondo della trincea di scavo.  

La tomba di Santo Annibale?  

"Certo", sorride Ferjaoui, che conosce il posto.  

Torniamo nella luce abbacinante e traversiamo a Sudest, sulla schiena di quella che fu Zama Regia e oggi è solo una collina. Settanta ettari di rovine annegate nella sterpaglia. Ne è stato scavato uno soltanto,  anzi  la  metà  di  uno.  C'è  ancora  tutto  da  fare  quassù:  foto  satellitari,  prospezione magnetica. Mancano i soldi.  

"Ecco, laggiù".  

C'è uno spazio di  tombe, ai margini della città, verso quello che  fu  il campo cartaginese. Tombe anche  recenti, con date  fino al 1990, ma dalla  forma  inequivocabilmente  fenicia. Sullo spazio  in 

 

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maiolica, ornato in caratteri arabi, c'è scavata una coppa per le libagioni. Un segno di almeno 1200 anni più vecchio di Maometto.  

M'hamed Hassin Fantar, gran professore di Tunisi, mi aveva avvertito: "Qui Annibale è un mito, conserva un'aureola e un prestigio immenso nonostante la sua sconfitta militare".  

Le tombe si affollano attorno a un recinto di pietra, come se  la gente di Zama volesse dormire  il Lungo Sonno proprio accanto a quel  luogo, sopra  la collina delle rovine. Sul marmo di Salal Ben M'hammed,  10.10.1910  ‐  2.6.1983,  c'è  scritto  "Dio  chiede  all'anima  di  tornare  a  lui  calma  e serena".   Un cancello arrugginito e, dentro, altre tombe in una foresta vergine di cardi blu, coperti di piccole lumache. In fondo a sinistra, il "kodesh kodeshim", il sancta sanctorum, il recinto con la tomba di Lui.   Ferjaoui:  "Narrano  che una  lupa venne qui una notte d'inverno per  spegnere  la  candela accesa sulle  sue  ceneri, ma  la  luce  divenne  così  forte  che  la  lupa  fuggì  per  sempre,  e  ancora  la  senti ululare di dolore sui monti dell'Atlante".  

 Una  lupa?  Qui  ci  sono  solo  sciacalli!  La  lupa  non  può  essere  che  Roma.  Abbiamo  i  brividi.   Il  cancello  è  aperto, ma  non  riusciamo  a  entrare.  E'  come  sporgersi  su  un  baratro. Una mano invisibile ci respinge.  

Torniamo al mare e a Cartagine. Un numida  ci galoppa accanto per qualche  centinaio di metri. Sappiamo  che  Annibale  non  muore  affatto  a  Zama,  e  a  Zama  non  finisce  un  bel  niente.   Al contrario. Il viaggio più lungo e misterioso comincia ora. Verso Oriente.  

   

 

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E' il 189 e il condottiero approda sull'isola Si dice cerchi rifugio dai pirati ma ormai la sua storia è nel mito 

L'ombra del minotauro Strani sogni a Creta 

  

Isola di Creta, alba sul porticciolo di Agios Pelàgia. Unico rumore, i pesci che saltano dall'acqua. C'è la stessa luce gialla di Cartagena, tra Bahia Escombreras e il Mar di Mandarache con i sommergibili ai moli. Ho sonno, orde di inglesi hanno fatto baldoria tutta la notte impedendomi di dormire, ma ormai  è  giorno  e  decido  di  aspettare  il  ritorno  dei  pescatori.  E  così,  al  tavolo  del  primo  caffé aperto, solo con i cormorani e una mappa dell'Egeo, m' accorgo di essere letteralmente assediato dal mito. A Est, Eraklion e  il palazzo di Cnosso  con  l'ombra del Minotauro. A Nord,  il mare  che inghiottì Atlantide e mezza Santorini. A Sud, altissimo nelle nubi,  il Monte  Ida culla di Giove, con una scarpata di 2500 metri. A Ovest,  il bastione del Levka Orì con  le "termopili" di Samaria e  le bianche rovine di Lissos sul Mare Libico. A Nordovest, sulla rotta del Peloponneso, Citera  isola di Venere, con  i suoi  fantastici galli che svegliando  i piumati confratelli di Anticitera  ‐ giura Patrick Fermor nel libro Mani ‐ possono trasmettere onde di "chicchirichì" fino a Creta, in giornate senza vento come questa. E'  il 189. Sono passati tredici anni da Zama e Annibale è approdato a Creta. Che ci  fa da queste parti? Si dice cerchi rifugio presso  i Fratelli della Costa, pirati  in azione sulle grandi  rotte  del Mediterraneo  Orientale.  Si  dice  che  si  attrezzi  una  sua  Tortuga  al  riparo  dai 

 

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Romani  che  lo  cercano  ancora.  La  sua  storia  è  scivolata  da  tempo  nella mitologia. Di  lui  si  sa pochissimo, salvo che compare qua e là come una meteora nel buio.  

Ricapitolo le tracce del vecchio leone dopo la sconfitta di Zama. Nel 201 lui spiazza di nuovo tutti e diventa il miglior garante della pax romana. Fa di più: sorveglia il pagamento dei danni di guerra e riesce a risanare le finanze di Cartagine. Attacca i privilegi dei ricchi, ne denuncia gli abusi, scopre scandali finanziari, e per questo si mette in urto con la classe dirigente che comincia a complottare contro di lui. Patria ingrata! Un'ambasceria è mandata a Roma, dall'ex nemico, perché il vincitore di  Canne  sia  tolto  di mezzo, ma  lui  fiuta  il  pericolo,  salta  sa  una  nave  e  scappa  fino  a  Tiro nell'attuale Libano. Anche  lì non ha pace. Si sposta a Efeso e  incontra Antioco, re di Siria. Gli dà consigli  strategici,  torna  per  suo  conto  in  Libano  ‐  l'antica  Fenicia  ‐  e  gli  procura  una  flotta.  I Romani s'inquietano,  temono che  il nemico  risorga dalle ceneri, e ne richiedono  la consegna ad Antioco. Spiegano che "numquam satis liquebit nobis ibi pacem esso Populo Romano, ubi Hannibal erit", mai sarà pace sicura per i Romani là dove ci sarà Annibale. Così lui è costretto a scappare e rifugiarsi a Creta, perfetta "no man' s land" del Mediterraneo.  

Faccio strani sogni in questo viaggio. E' come se smuovessi i sedimenti di un mare profondo. L'altra notte  ho  visto  un  esercito  al  campo.  Portava  divise  della  Grande  Guerra.  Ogni  compagnia  si apprestava a macellare una pecora sotto una tenda, solo che le bestie erano grandi come elefanti. Pecore enormi e tranquille,  in piedi a gambe  larghe, mentre  il coltello  lampeggiava e altri soldati arrivavano di corsa con ceste ricolme di spighe fruscianti. Ma a un tratto tutti corsero nella stessa direzione:  c'  era  un'elefantessa  che  partoriva,  e  dal  suo  ventre  uscì  una Venera  nera,  una  dea nilotica di stupefacente bellezza. Da quando sono partito, nel sonno non vedo più figure solitarie ma grandi scene di gruppo. Mandrie, greggi, eserciti transumanti. Sogno spesso cavalli, è come se un centauro mi abitasse. Parto al galoppo, saltando di groppa in groppa con Dioniso in corpo, fino a dove il branco rallenta per l'abbeverata. E poi, sempre più spesso, quella sveglia prima dell'alba senza sapere cioè se il sogno è veritiero o ingannevole, "uscito ‐ come dice Omero ‐ dalla porta di corno oppure da quella d' avorio".  

Anche Annibale sognava, e spesso erano brutti sogni.  Il più orrendo  lo  fece prima dell'avventura italica, un anno prima di valicare i Pirenei con i suoi novantamila uomini. Cicerone ne scrive nel suo De Divinatione, dedicato ai presagi. "Dopo la presa di Sagunto Annibale sognò che era chiamato da Giove al concilio degli dei. Lì gli venne ordinato di portar guerra all'Italia e gli venne dato un dio come guida. Seguendo le sue indicazioni, cominciò a marciare col suo esercito. Quel dio, allora, gli ordinò di non voltarsi e non guardare mai  indietro. Ma  lui non  riuscì a  resistere e, cedendo alla bramosia di vedere, si voltò".  

"Tum visam beluam vastam et immanem circumplicatam serpentibus...".  

Vide una belva enorme e orrenda, circondata di serpenti,  la quale, ovunque passava, abbatteva ogni albero, ogni virgulto, ogni casa. Annibale stupefatto chiese al dio che  lo guidava cosa  fosse mai un mostro simile, e il dio rispose che quella era vastitatem Italiae, la devastazione dell'Italia, e gli ordinò di  continuare  il  cammino  senza  curarsi di  ciò  che avveniva alle  sue  spalle, quid  retro atque a tergo fieret ne laboraret". Chissà se Annibale partì davvero tranquillo.  

 

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E chissà se qui a Creta, all'ombra egualmente mostruosa del Minotauro, ebbe tempo di ripensare a quel  sogno  riavvolgendo  il  filo  d' Arianna  della  sua  vita.  Il mostro  era  davvero  la  devastazione dell'Italia, oppure altro? Che cosa lo aveva sconfitto in quella campagna militare, se Roma non era mai  riuscita  a  batterlo  in  campo  aperto?  Il mostro  deforme  non  era  piuttosto  la  resistenza  di Roma, la sua testarda volontà di resistere nonostante la ripetute sconfitte? L'uomo senza pace era nascosto a Creta, e  intanto Roma vinceva  in tutto  il Mediterraneo, aveva conquistato  la Spagna, vinto  in  Africa,  battuto  i Macedoni  impegnandosi  in  una  nuova  durissima  guerra  subito  dopo quella con  i Cartaginesi. E allora quel mostro non era forse  la micidiale forza organizzativa di una potenza capace di affrontare qualsiasi sacrificio? Non era  la durezza  implacabile e  la disciplina di una classe dirigente  in grado non solo di conquistare ma anche di governare  i territori tessendo relazioni  d'  élite? Ma  certo. Ora  ne  sono  sicuro.  L'idra  era  semplicemente Roma  imperiale,  cui Annibale aveva tolto ogni freno inibitore.  

Salgo ad Anogia, ultimo paesone sotto  il Monte  Ida. Sulla piazza, platani  immensi che sembrano entrare nelle case. Nelle giornate d' inverno ‐ giura la gente di qui ‐ i rami si agitano come braccia di Titani, giganti incatenati alla montagna dove Giove fu allattato dalle capre. Fa freddo d' inverno ad Anogia, e l'Ida si copre di un mantello di neve. Qui, nell'aprile 1944 avvenne uno degli episodi più  romanzeschi  della  seconda  guerra  mondiale.  Patrick  Fermor,  allora  trentenne,  era  stato paracadutato  in  zona  per  coordinare  la  resistenza  antinazista,  e  decise  una mossa  inaudita:  la cattura  del  generale Heinrich  Kreipe,  comandante  della  guarnigione  a  Creta. Un  commando  di partigiani greci travestiti da tedeschi mise a segno  il colpo e nascose  l'alto ufficiale  in una grotta. Un giorno Fermor vide che il tedesco, seduto sul bordo della caverna, guardava incantato il Monte Ida ancora coperto di neve e mormorava in latino versi di Orazio: "Vides ut alta stet nive candidum Soracte", guarda il monte Soratte candido di neve alta. L'inglese, che conosceva bene il greco e il latino, proseguì  il verso: "Nec  jam sustineant onus silvae  laborantes geluque flumina constiterint acuto". Il tedesco si voltò, stupefatto. "Ach so, herr Major", disse. E Fermor, emozionato: "Jawohl herr General". Significava: vedi, qualcosa ci accomuna, vecchio mio, anche se siamo nemici. Al che Kreipe, con un sorriso: "Vedo che abbiamo bevuto alle stesse fonti". "Da quel momento  in poi  le cose furono diverse fra noi", mi raccontò Fermor sessant' anni dopo. "Pensi ‐ commentò pensando alla grossolana distruzione del patrimonio iracheno ‐ quant' erano preparati i militari una volta~ Io ero stato mandato in Grecia perché avevo studiato Omero, e Kreipe aveva fatto otto anni di studi classici.  Sono  cose  che  non  esistono  più". Mentre  penso  alla  straordinaria  forza  di  quelle  fonti millenarie, capaci di avvicinare anche acerrimi nemici,  il cameriere mi porta una birra "Mythos" con  un'occhiata  complice.  E'  come  se mi  dicesse:  "Non  avere  dubbi,  il  tuo  non  è  un  viaggio visionario".   Grandiosa  birra  greca  con  vista. Ho  in  tasca  un  biglietto  aereo  per  l'Armenia,  ultima  pazzesca frontiera della nostra storia. 

   

 

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Dalle mappe è sparito, il suo nome è stato rubato Poi, nelle prime luci del mattino, eccolo svettare il grande monte di Noé 

Terminator sull'Ararat la città in capo al mondo 

 

Il monte Ararat 

Il gate "H 46" dell'aeroporto di Monaco è già Armenia profonda. Gli uomini dalle folte sopracciglia aspettano il volo della notte per Erevan con facce da guerrieri, fermi sulle loro Termopili, reduci da infiniti  diluvi,  abbarbicati  alle  loro montagne  alle  porte  dell'Asia.  Facce  ossute,  alla  Aznavour, segnate  da mille  invasioni: Cimmerii,  Sciti,  Parti,  Persiani,  Tartari, Russi,  Turchi.  Parto  con  loro, perché anche Annibale andò su quelle montagne, e fu  ‐ nessuno se  l'aspetta  ‐  l'unico ad andarci senz'armi. Un blitz il suo, una meteora. La resurrezione di un uomo che un giorno smise di fare la guerra e volle fondare una città: Artaxata, sotto le nevi dell'Ararat dove sbarcò Noè.   L'aereo decolla nella pioggia sopra piccole luci azzurre, poi emerge come l'Arca su un mare di nubi illuminate dalla Luna. M'accorgo che tutto  l'equipaggio è femminile; anche  il pilota è una donna, una dea del terzo millennio che mi guida verso un chiarore  in  fondo ai secoli,  in capo al mondo verso un'Atlantide perduta. Dove sto andando? Non esistono guide dell'Armenia nemmeno nelle fornitissime  librerie  di Monaco.  Solo  poche  pagine,  in  volumetti  sul  Caucaso  in  generale.  Sulle mappe l'Ararat è sparito: il monte‐simbolo del Paese sta in territorio turco, a un passo dal confine, e i padroni gli hanno cambiato il nome, ribattezzandolo Buyukagri Dagi.   Li sento parlottare, gli armeni, con quella loro lingua crepitante di "R" e di "T", mentre sotto di noi passano  lenti  i  Balcani,  il  Bosforo,  l'Anatolia. Ma  quanta  strada  ha  fatto Annibale? Ogni  tanto, un'isola di luce come un segno zodiacale: uno scorpione, una lira, un granchio. Non so a che tempo appartengano,  se  siano  cielo  terra  o  mare,  costellazione  montagna  o  arcipelago,  oppure  un alfabeto assiro ingigantito, un lineare‐B per tavolette d'argilla proiettato su dimensioni stellari. Poi l'ombra dell'Ararat chiarisce tutto, testone di drago color rosa‐cenere nella prima luce del mattino.   Odore di carburante e albicocche, polvere e montone. Nei chioschi già aperti le albicocche hanno lo stesso colore forte e  lo stesso nome dell'alba; gli armellini  lo stesso profumo e  lo stesso nome dell'Armenia. Donne ex‐sovietiche infagottate spazzano le strade ancora in ombra, poi la bruma si 

 

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dissolve e la montagna di neve emerge, immensa, sui palazzi stalinisti di Erevan; immateriale su un materasso  di  vapori;  dio  vicinissimo  e  intoccabile,  come  il  Sinai  degli  ebrei,  segregato  oltre  i reticolati di quella che fu la cortina di ferro.   "La guardo e mi carico d'energia" esulta l'architetto Arà Zarian, respirando a pieni polmoni. Poi mi accompagna al museo archeologico tra tori di bronzo e poderose bipenni, carri solari dell'età del ferro  e  archi  da  guerra  più  antichi  della  guerra  di  Troia.  Tutto  emana  forza:  le  barbe mesopotamiche nelle monete, certe teste coniche del mille avanti Cristo simili a quelle del Nemrut Dagi,  soprattutto un  focolare  zoroastriano del  terzo millennio,  splendido, con gli alari a  testa di montone.  Il  primo  stato  cristiano  del  mondo  nacque  da  questa  sovrabbondanza  di  energia barbarica segnata da roccia, acqua e fuoco.   

  Il pastore 

 Arà è amico di Antonia Arslan, l'autrice del libro La masseria delle allodole sulla tragedia armena in Turchia; è stata  lei a  indicarmi questa guida coltissima e appassionata che mi aiuterà a ritrovare Terminator nel posto più lontano e impensabile della sua odissea. Mi insegna a scrivere "Hannibal" in alfabeto armeno, poi mi apre un testo di Plutarco. "Il re Artassa ‐ c'è scritto ‐ rimase contento dell'idea di Annibale e lo pregò di assumere lui stesso la direzione dei lavori.   Sorse così un modello di città grande e assai bella che, assunto il nome stesso del re, fu proclamata capitale dell'Armenia".   ***   La città di Annibale sorge su un arcipelago di colline basse, poco oltre il monastero di Khor Virap, sul punto d'incontro di tre colori: a Sud il bianco abbacinante dell'Ararat, a Est il verde smeraldo di un  grande  acquitrino  coperto  di  canneti,  a Ovest  il  giallo‐polvere  della  steppa. Aveva  130 mila abitanti Artaxata, ed era segnata su tutte le carte dell'antichità. Oggi il vuoto e il silenzio sono tali che sul  lato verde, verso  il fiume Mezamòr, sento  il gracidar delle rane e  il tuffo delle carpe tra  i papiri,  e  sul  lato  giallo  distinguo  una  per  una  le  aggressive  formiche  armene  muoversi  con l'addome inarcato tra i cavalli di frisia. La cortina di ferro che qui ‐ unico posto al mondo ‐ nessuno s'è mai sognato di togliere.   Maledetto africano, ci ha spiazzato ancora. Una domanda ci perseguita sotto il sole del Caucaso, in mezzo alle rovine coperte di origano e capperi rampicanti. Perché Egli volle costruire una città  in capo al mondo? Perché non  la progettò per se stesso ma per un  re straniero? Camminiamo nel 

 

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vento fra escrementi di mandrie verso grappoli di fazzoletti votivi annodati agli arbusti in cima alle colline.  Cosa cercava Annibale su queste montagne? Forse niente di diverso da ciò che lo spinse a sfidare la morte  in battaglia. L'immortalità della memoria. Ma se così è, forse c'era ancora Ercole,  il suo mito, a indicargli la strada. Eracle uccisore di mostri e costruttore di città.   "Andiamo un po' sulle montagne,  la vera Armenia è quella", annuncia eccitato Zarian spingendo l'acceleratore  della  vecchia  Zigulì  su  per  una  rampa  desertica  bestiale.  Siamo  subito  soli  tra montagne giallo‐ocra e rosso‐bauxite. Già Asia profonda: Persia, Hindukush, Amu Darija.   Gli armeni sentono come rabdomanti l'energia dei luoghi e qui la topografia del sacro è fittissima: in ogni gola, sotto ogni parete, c'è una chiesa medievale. Ahimé anche i confini sono onnipresenti ‐ Karabakh,  Iran,  Turchia  ‐  come  se  una mano  perfida  li  avesse  disegnati  apposta  per  suscitar discordie.   Dopo  un'oretta  lasciamo  la  strada  principale  e  prendiamo  a  destra  una  gola  nascosta  di  nome Noravankh, un Eden di  frescura, alberi da  frutto e  torrenti. Da  lontano arriva profumo di  carne arrostita: è la casa di un pastore su una radura. Si chiama Vardges e ha due occhi neri accesi come braci. Sotto uno strapiombo ha sistemato tre tavoli di pietra sconnessa e prepara merende per  i viaggiatori.   

  La città 

 

Yogourth, formaggio, pomodoro e pane tipo "carta musica".  

Una donna porta una brocca di terracotta con un rosso chiamato Arenì, denso come il sangue, che ci spinge subito in stato di estasi. Non ho mai bevuto niente di simile. E' aromatico, dolce, amaro e frizzante  nello  stesso  tempo.  Sa  di  violetta  e  ciliegia  e  svela  tutta  l'anima  della  terra  da  cui proviene. Forse, penso, è l'archetipo del vino. La prima vendemmia di Noè.  

Il pastore mi  chiede perché  sono  venuto.    "Sto  cercando un uomo  chiamato Annibale, passato duemila anni fa".  

"Ah ‐ risponde ‐ quello che ha fatto il giuramento contro Roma".  

 

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Resto di stucco. Un pastore che conosce Annibale,  in Armenia. L'uomo mi guarda come per dire: ora devi dirmela la storia. Mi accorgo che anche il resto della famiglia sta aspettando che cominci. C'è un silenzio che si taglia col coltello.  

Racconto la fuga da Cartagine, l'Oceano, i Pirenei, le Alpi, gli elefanti. Zarian traduce felice, Vardges porta altro vino, il piccolo Armen dai capelli rossi ascolta con occhi sbarrati.  

"Ma lui raggiunse il suo scopo?" chiede alla fine il pastore.  

"Sì ‐ gli dico ‐ se è vero che oggi parliamo ancora di lui. Annibale credeva solo nell'immortalità della memoria". E poi: "Vedi Vardges, se quell'uomo non fosse esistito 2200 anni fa, noi non ci saremmo mai conosciuti".  

Il pastore diventa serio di colpo. Si alza in piedi, versa a tutti altro rosso di Arenì, alza il bicchiere e inizia un  lungo discorso sulle vie misteriose del destino. Chiama a  raccolta Mosè, Elia, e  tutti gli angeli raffigurati su un tappeto oro, rosso e albicocca appeso alla parete. Poi conclude: "Forse Lui non credeva  in Dio, ma se non  fosse stato  in contatto con  le stelle non avrebbe  lasciato questa traccia".   L'ha evocato! E' chiaro a tutti che  l'ha evocato e  la sua ombra è scesa tra noi per bere  lo stesso vino. Il piccolo Armen è mortalmente serio, sua madre ha smesso di affettare mentuccia, il nonno dondola il capo come in un mantra. Tutti aspettano il brindisi.  

"Che tu beva con me, Anush, e ciò che hai bevuto ti sia di gradimento".  

E' come se si rompesse una diga. Esplode l'allegria, arriva un agnello arrosto con cipolle e patate, tre  nuovi  ospiti  bevono  alla  salute  del  focolare  e  giurano  amore  eterno  per  l'Armenia,  poi raccontano  di  re  Tigran  il  Grande  e  di  Crasso  decapitato  dai  Parti.  Siamo ubriachi e felici. Ora anche Noè è tra noi, mentre scende l'ora dei grilli.  

 

   

 

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Per le strade della Turchia sulle tracce  del mistero della tomba e del tradimento ad Annibale 

La beffa della profezia 

 Dalla Turchia verso Oriente 

 Strada  per  l'Iran,  stelle.  Ogni  tanto  un  camion  esce  dalla  notte  armena,  oltrepassa  l'ombra dell'ultima frontiera, la muraglia di ferro e ottone che ‐ secondo una leggenda ‐ Alessandro Magno eresse contro Gog e Magog, mostri dalle grandi orecchie al servizio del diavolo. Qui l'Oriente è la direzione maestra; è profumo di gelsomino, spazio per cavallerie, orizzonte di carovane, pastori e fuggiaschi.  Anche  Annibale  potrebbe  prenderla,  nulla  lo  fermerebbe.  Invece,  proprio  qui  sotto l'Ararat,  egli  compie  un'altra  delle  sue  imprevedibili  giravolte  e  piega  verso  il  Bosforo,  dove  si compie la parabola della sua vita.   Perché  lo  fa? Come mai torna sul  luogo del delitto? Per quale motivo non riesce ad allontanarsi dallo  spazio dove  i Romani  lo  cercano?  La domande mi vengono  incontro  in  fondo a una notte profumata di tabacco e melone. Non so cosa dire. Ma poi spunta la Luna sopra la bianca montagna di  Noé,  ed  ecco  arrivare  le  risposte.  È  chiaro.  Annibale  NON  va  a  Oriente  per  NON  seguire Alessandro, per non essere la copia di nessuno. Le strade altrui non gli interessano. Vuole aprirne di nuove, come il suo grande modello, Ercole uccisore di mostri e fondatore di città. Se andasse a Oriente,  sparirebbe nella  steppa. A Occidente,  invece,  sa di  tornare visibile e di poter  seminare altre briciole di leggenda.   Ed è appunto una città che egli  fa costruire. La seconda, dopo  l'armena Artaxata.  Il suo nome è Prusia,  in onore di Prusa,  il  re di Bitinia  che accetta di ospitarlo, ma nei  secoli diventerà Bursa, prima  capitale  dell'impero  ottomano.  Se  esiste  davvero  una  traccia  del  suo  passaggio  in  terra, eccola: sta sull'acropoli di Bursa. Non sul campo di Canne o di Zama, dove non è rimasto nulla, ma in Anatolia,  a  due  passi  dall'antica  Troia,  dove  l'Asia  finisce  sul Mar  di Marmara. Un  luogo, mi dicono, di bellezza folgorante, a metà strada fra mare e montagna, in mezzo a fiumi abbondanti e sorgenti  termali.  Annibale  fu,  in  guerra  come  in  pace,  un  insuperabile  interprete  dei  luoghi.   Volo Erevan‐Istanbul, il viaggio va all'ultimo capolinea in un'alba color rame che indora i monti del Tauro.  È  lì  che  la  storia  finisce,  nel  183  avanti  Cristo,  vent'anni  dopo  la  partenza  dall'Italia.  Il cartaginese s'è costruito un buen retiro a Libyssa,  l'attuale Gebze, 40 chilometri a Est di Bisanzio, ma i Romani non lo lasciano in pace nemmeno lì. Un'ambasceria guidata da Tito Quinzio Flaminino 

 

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è andata dal  re Prusa per  chiedere  la  testa dell'illustre protetto, e questi, per non  inimicarsi  la Grande Potenza, ha accettato di tradirlo. Quando Annibale si scopre circondato, si fa dare il veleno "tenuto in serbo da tempo per un evento del genere".   "Liberiamo  il popolo romano dalla sua angustia  ‐ esclama, prima di morire, nella cronaca di Tito Livio ‐ se esso trova che duri troppo l'attesa della morte di un vecchio. Né grande né gloriosa è la vittoria che riporterà Flaminino su un uomo inerme e tradito. Basterà questo giorno a dimostrare quanto sia mutata l'indole dei Romani. I loro avi misero sull'avviso il re Pirro, loro nemico insediato con un esercito in Italia, che si guardasse dal veleno. Questi di oggi, invece, istigano... a uccidere a tradimento un ospite". Poi, continua Livio, "dopo avere  imprecato contro  la vita... e  invocato gli dei ospitali a testimoni della fiducia violata dal re, vuotò la tazza".   

  Hic vitae exitus fuit Hannibalis. Questa fu la fine di Annibale. Aveva 64 anni.   A Istanbul, la sorpresa: nessuno sa nulla di lui. Niente di niente, nemmeno che è morto in Turchia. Se ne parlo, la gente si stupisce: i ricchi dei club esclusivi di Besiktas, e i poveri agli imbarcaderi di Karakoy e Uskudar. Tutti, semmai, chiedono a me le informazioni che cerco e che non posso dare. Di Gebze  riesco unicamente ad apprendere  che  c'è un ponte a  tre arcate del grande architetto Sinan e che in quella zona il Mar di Marmara è "good far sailing and boating", buono per la vela e per  la  nautica  da  diporto.  Anche  qui  il  turismo  di  massa  è  passato  come  un  diserbante.  Ho pochissimi elementi per trovare la fine della storia. So che da quelle parti l'imperatore romano Settimio Severo,  intorno al 195 dopo Cristo, trovò un tumulo di pietre col nome di Annibale e  lo fece ricoprire di marmo bianco. Non era solo un gesto tardivo di "pietas". Era anche un segno di rivincita dopo  il grande tradimento: Settimio era nato  in Africa come  il cartaginese, e non aveva più imbarazzi a ricordare il grande conterraneo dopo secoli di "damnatio memoriae".   Il monumento è segnalato fino al 1700, poi più nessuna traccia. Appena una riga su una guida: da qualche parte, tra Gebze e  il porticciolo di pescatori di Eskihisar dove sbocca  il fiume Dil (l'antico Libyssos), esiste una "tomba di Annibale". Sì, ma quale tomba? Costruita da chi? Non c'è verso a saperne  di  più. Non mi  resta  che  andare  sul  posto  alla  disperata.  Scrivo  su  un  foglio  a  grandi caratteri  "Anibal  Mezar",  che  in  turco  vuol  dire  la  tomba  di  Annibale,  e  in  un  mattino  di tramontana  parto  per  la  riva  asiatica  determinato  a  estorcere  l'informazione  giusta.  

 

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Il  vaporetto  "Mehmet  Pashà",  impavesato  nel  vento,  taglia  il mare  più  trafficato  del mondo, s'inclina  nelle  raffiche  tra  i  gorghi,  incrocia  pattuglie  di  migratori  a  volo  radente  e  carrette mitologiche  in  rotta  per  gli  ultimi  recessi  del Mar Nero. A  poppa  di  una  chiatta  nera  di  nome "Volgo‐Balt  38"  faccio  appena  in  tempo  a  vedere  una marinaia  russa  stupenda  e  ferocemente triste. C'è una collisione continua  fra  il  traffico delle mercanzie e quello degli uomini. Ho già gli occhiali  offuscati  dalla  salsedine  e  penso  che  non  esiste  al  mondo  posto  più  perfetto  per ambientare la fine di una storia.   A  bordo  c'è  una  giovane  pantera  in  tailleur  bianco  e  nero,  la  testa  inguainata  in  un  velo  dello stesso colore e  i piedi con stivaletti tacco a spillo.  I suoi occhi dicono "sono  io  la nuova Turchia, l'unica combinazione possibile fra progresso e tradizione", ma un lampo di malizia lascia intuire un messaggio parallelo: "Sotto questi sigilli c'è un giardino di delizie destinato a un uomo solo". Una parte del traghetto le rivolge occhiate di fastidio. La Turchia laica non crede che Islam e modernità possano andare in pace.   

  A Uskudar la strada per Annibale comincia in un turbinar di gabbiani sulla banchina della stazione di Hayderpasha, costruita dal Kaiser Guglielmo Secondo prima della Grande Guerra. È un perfetto set per  gialli  alla Agatha Christie; un  carillon  annuncia partenze per  favolose destinazioni  come Diyarbakir, Gaziantep e Konya; tradotte da 24 o 48 ore di viaggio, con i binari traslucidi che vanno verso  il Grande Oriente. Un venditore di frutta secca mi  indica  la metropolitana di superficie per Gebze, mentre una voce di donna  ripete  le soste del Pammukkale Express. Parto per  l'immensa periferia asiatica di  Istanbul  con  la netta  sensazione di andare  controcorrente,  in un Paese  che emigra in massa solo verso Ovest.  

"Anibal mezar". Guardo il biglietto con la meta e mi chiedo se saprò trovare il mio uomo. Annibale, chi era  costui. Ho paura  che  il  viaggio  finisca nel nulla, nella nube d'oblio di un narghilè. Nelle stazioni di Feneryolu, Pendik, Erenkoy, l'antica anima mercantile di Costantinopoli è già scomparsa sotto  l'urto delle masse anatoliche.  Il  treno  fa dondolare donne  infagottate e  in dieci chilometri Istanbul è già un sogno  lontano. Con Annibale  il cartaginese sono  finiti anche  i greci,  i  fenici, gli ebrei,  gli  armeni,  i  siriani.  Un  mondo  mediterraneo  che  esisteva  ancora  non  mille,  ma  solo cinquant'anni fa.  

   

 

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Plutarco, vita di Flaminio, capitolo 20, paragrafi 5 e 6. "Sembra ci fosse una vecchia profezia sulla sua morte. Così recitava: 'una zolla libissa ricoprirà il corpo di Annibale'. L'interessato credette che il riferimento  fosse alla Libia e dunque a una sua sepoltura a Cartagine, e che  là avrebbe  finito  i suoi giorni. Ma vi è in Bitinia una regione sabbiosa presso il mare e lì un piccolo villaggio chiamato Libyssa...". L'uomo che non aveva mai dato retta agli dei venne beffato dall'unica profezia che si era deciso di ascoltare, quella del santuario africano di Giove Annone, lo Zeus dalle corna d'ariete.  

Era stato tradito da un gioco di parole.  

"Gebze  stazione  di Gebze  fine  corsa".  Scendono  tutti.  Sulla  strada  solo  tre  taxi,  con  gli  autisti assopiti sul volante. Busso al primo e mostro il cartello.  

"Anibal mezar".  

Il driver si sveglia di colpo, legge, annuisce e parte nel vento. 

   

 

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A Gebze, Turchia: su una collina coronata di cipressi  ecco la roccia, quel volto e una scritta: è tutto ciò che resta del condottiero 

Sulla tomba del generale la leggenda non finisce mai 

 Annibale in una stampa del XVI secolo 

 "ANIBAL MEZAR".  Il  tassista  legge  il biglietto  che gli ho messo  in mano, annuisce e parte  senza esitare  per  una  strada  a  tornanti,  in  discesa  verso  il Mar  di Marmara.  Che  fortuna,  penso,  ho trovato l'unico turco che sa dove è la tomba di Annibale.   In cinque minuti siamo nel villaggio costiero di Eskihisar; un  forte vento di  tramontana spazza  il mare verso  le  isole dei Principi.  Il driver esce,  interroga  il gestore di un chiosco di bibite, poi mi indica,  sul  lato  della  collina,  un  pendio  alberato  con  una  decina  di  vecchie  tombe.   Gli dico di aspettare e salgo tra le erbe alte. I sepolcri sono di epoca ottomana, portano ciascuno un pilo con un turbante di pietra e una lapide con "sure" del Corano in caratteri arabi. Il più antico appartiene a un certo Osma Hamdi Bey. No, non può essere questo  il posto.  Il mio vecchio non può  dormire  tra  gli  imam.  Ridiscendo  al  taxi,  faccio  capire  all'autista  che  è  altro  che  cerco.   Per spiegarmi, scrivo su un altro foglio: "GENERAL ANIBAL MEZAR". Spero che la parola "generale" lo  galvanizzi:  gli  alti  gradi  hanno  sempre  avuto  effetti  adrenalinici  sui maschi  di  qui,  abituati  a servizi di leva interminabili fin dai tempi del sultano.   Infatti il turco s'illumina, scatta come un attendente davanti al superiore. Non conosce una parola di  lingue straniere, ma ce  la mette tutta. Nulla deprime un  turco più di un cliente  insoddisfatto, così  lo  chauffeur  riparte  sgommando  in  salita  per  la  stessa  direzione  da  dove  è  venuto.   Dopo un po' siamo davanti al cimitero comunale.  

 

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L'autista  si  volta  verso  di me  con  un  gran  sorriso.  Vorrei  ridere, ma  non  posso,  so  che  potrei offenderlo. Che  fare?  Le pie donne all'ingresso del  camposanto mi guardano  curiose.  Il  tassista aspetta che mi decida.  Faccio  un  ultimo  tentativo.  Strappo  un  altro  foglio  del  notes  e  disegno  un  guerriero  antico completo di scudo, lancia ed elmo piumato. Ci riscrivo accanto "GENERAL ANIBAL" e glielo passo.   Con  violenza  l'uomo  batte  sulla  fronte  il  palmo  della mano  destra,  poi  se  lo  passa  con  le  dita aperte  sul  cuore.  Significa:  tu  cerchi  qualcosa  di  speciale,  e  io  ti  giuro  sul mio  onore  che  te  la troverò. Riparte, raggiunge un ufficio turistico, entra, e dopo due minuti ne esce più cupo che mai. Nemmeno lì sanno qualcosa di Annibale.   E' qui che inizia la caccia al tesoro. Entriamo in una strada tortuosa piena di oreficerie e donne alle vetrine. Il turco non molla. Ormai è in uno stato di ansia ipercinetica. Appena vede un anziano ben vestito dall'aspetto colto, lo punta, gli si ferma accanto e gli mostra il foglio col guerriero antico. E' evidente:  cerca  un  intellettuale  che  lo  tolga  dall'impiccio.  Seguire  dal  finestrino  i  suoi  approcci surreali è uno spasso.   Anibal mezar, Anibal mezar. Dài che funziona.   

 "Non è una tomba ma è tutto quel che resta di lui, sei stradine concentriche che portano a una roccia" 

 Alla  fine  il  colpo  riesce. Aydin  ‐  così  si  chiama  l'autista  ‐  arpiona un distinto  signore  in blu  che annuisce sorridendo e indica, oltre la periferia orientale di Gebze, una collina coronata di cipressi, con gran vista sul Mar di Marmara.   In fondo a un viale di pini marittimi una sbarra con una garritta di poliziotti ci blocca il passaggio. Alle  loro  spalle,  un  enorme  cartello  con  la  scritta  "Tubitak  Gebze  Yerleskesi",  una  fondazione scientifica voluta da Ataturk. Più oltre ancora, un college popolato di giovani. Noto che nessuna delle  donne  è  velata.  Spieghiamo  agli  agenti  della  nostra meta,  loro  annuiscono, mi  chiedono "How  are  you", poi mi  fanno  lasciare  il passaporto e mi danno  venti minuti per  la  visita. Venti minuti per chiudere un viaggio di un mese.   Scendiamo tra i pini, la costa asiatica del Mar di Marmara è tutta ai nostri piedi, l'acqua blu cobalto è spazzata dalla tramontana. Sulla destra una rampa, poi, in cima, il luogo. Non è la tomba, è solo un monumento, ma  è  tutto  quello  che  rimane  di  lui.  Sei  stradine  concentriche  portano  a  una roccia, con  incisa  la sua  faccia sul  lato del  tramonto.  Intorno, una corona di cipressi. All'inizio di 

 

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ogni  sentiero,  una  lapide  in  una  lingua  diversa.  Ecco  alcune  righe  del  testo.   "ANNIBALE 247 A. C. ‐ 183 A. C. QUESTO MONUMENTO E' STATO COSTRUITO COME ESPRESSIONE DI APPREZZAMENTO PER  IL GRANDE GENERALE NEL CENTESIMO ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI  ATATURK.  ANNIBALE  SCONFISSE  I  ROMANI  DOPO  AVER  RICEVUTO  COME  RINFORZI  DEGLI ELEFANTI A BARLETTA. QUANDO SEPPE CHE PRUSIA RE DI BITINIA STAVA PER CONSEGNARLO AL NEMICO,  SI  SUICIDO'  A  LIBYSSA  (GEBZE)  NEL  183  A.  C.  QUESTO MONUMENTO E' STATO COSTRUITO NEL 1934 SU ORDINE DI ATATURK."   Il sole è allo zenith,  i cipressi si agitano,  il mare si gonfia nel vento,  i minareti di Gebze chiamano alla preghiera. L'energia del  luogo è fortissima. La  lapide è stata eretta dopo  la morte di Mustafà Kemal, ma  su  suo preciso ordine,  segno che  l'idea era contenuta nel  suo  testamento  spirituale. Penso che in Annibale c'era qualcosa di laico che piaceva al padre della patria turca. Annibale non si  prostrava  davanti  a  nessun  dio,  credeva  solo  nella  memoria  delle  cose  fatte.  Ed  è  quella memoria che Ataturk ha voluto tenere in vita.   E poi quel monumento protetto da guardie, circondato da una fondazione scientifica, cioè da un mondo agli antipodi della moschea: Annibale non è consegnato a una cripta buia ma a un  luogo illuminato  della mente. Ma  c'è  un  altro  dettaglio  che  commuove.  La  storia  degli  elefanti  fatti arrivare  a  Barletta.  Indica  il  desiderio  di  istruire  il  popolo  sulla  vita  di  un  Grande.   Peccato  che  tutto  questo  sia  finito.  Oggi  i  turchi  hanno  dimenticato  Annibale.  Il  passato antecedente all'Islam non  conta più niente  in Turchia.  Il politeismo pagano  figurarsi,  con  la  sua grande  lezione  di  democrazia  laica.  Oggi  i  muezzin  gridano  ogni  giorno  più  forte,  ogni  anno qualche negozio in più chiude per il ramadan e rinuncia al piacere del vino.   

  M'accorgo che l'autista del taxi s'è tolto il cappello leggendo la lapide in lingua turca. Non sapeva, 

 

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Aydin,  di  avere  un  simile  personaggio  sotto  casa.  Soprattutto  non  sapeva  dell'ammirazione  di Ataturk. Mi guarda con gratitudine per avere imparato tutto questo.  

Alle 17 il traghetto Okmeydani si stacca dalla riva di Eskihisar quasi senza bisogno dei motori, tanto forte è la tramontana che lo spinge al largo. Guardo dal mare la collina con i cipressi che segna la tomba di Annibale. Sono l'unico a bordo che sa cosa c'è lassù, e sento che questo mi dà una forza visionaria enorme rispetto agli altri passeggeri. Tutto il Mar di Marmara ha per me un senso nuovo e invisibile, di cui la gente accanto a me non ha la minima idea. Certo, non ho trovato le sue ceneri, ma il suo mito sì, ed è quello che conta.  

Passa  un  sommergibile  nero,  silenzioso  e  immateriale  come  una  balenottera,  identico  ai sottomarini ancorati all'ammiragliato di Cartagena. Mi  sporgo dalla murata e ho gli occhi umidi non so se di salsedine o di commozione. Ora sarà dura fare a meno del sogno, ma forse, grazie a quell'uomo,  qualcosa  di  nuovo  è  entrato  per  sempre  nel mio modo  di  viaggiare. Vorrei  dire  ai turisti accanto a me: buttate via guide e tour operator, costruitevi da soli i vostri sentieri invisibili. Ritrovate la dimensione fantastica del viaggio.  

La  collina  dei  cipressi  sparisce  all'orizzonte.  Sono  gonfio  di  ammirazione.  Hai  vissuto  in  piedi, Hannibal, fino all'ultimo dei tuoi giorni. Hai preferito morire alla grande piuttosto che svanire nel nulla. Mi torna  in mente un motivo di Neil Young che gli si attaglia alla perfezione: "It's better to burn out, than to fade away".  

Il  traghetto  taglia  le  onde  controvento  verso  il  Bosforo.  Anche  un  analfabeta,  qui,  potrebbe scrivere  la parola  "fine"  su un  romanzo.  Istanbul  ti  regala mille  finali possibili  ‐ Yalova, Kadikoy, Kaydarpasha, Ortakoy,  Besiktas,  Rumeli  Feneri  ‐  ognuno  più  sensazionale  del  precedente.  Ecco perché  Lui,  ineguagliabile  regista  di  se  stesso,  ha  scelto  di morire  qui:  perché  la  leggenda  non finisca  mai.  Siamo  al  capolinea,  Annibale  ha  vinto  la  sua  scommessa  con  la  memoria.   Ma la storia non finisce qui.  

   

 

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L'ultima tappa alla scoperta di chi sconfisse Annibale Lo invochiamo e lo cantiamo negli stadi, ma di lui sappiamo poco o nulla 

Dell'Elmo di Scipio vincitore a Zama 

 Piatto decorato con il busto di Scipione l'Africano 

 ANNIBALE addio. Un  sipario di pioggia  si chiude  sul Mar di Marmara  lasciando una domanda  in sospeso.  E  Scipione?  Tuona  sul  Bosforo,  dalla  finestra  dell'albergo  vedo  i  traghetti  bucare  il monsone che viene dal Mar Nero e penso che è strano: il Paese che "dell'elmo di Scipio s'è cinta la testa" sa poco o niente di come si chiude la storia del vincitore di Zama. Non sa che fece una fine ingloriosa, in esilio, tra le paludi dell'Ager Campanus, condannato dal parlamento dei senatori per aver  coperto  le malversazioni  di  un  parente. Una morte  triste,  lontano  da  Roma  ingrata,  nella proprietà di famiglia a Literno, tra Napoli e il Volturno.  

E' vero: sappiamo poco o niente dell'uomo che invochiamo a squarciagola negli stadi, e forse non c'importa nemmeno di saperlo. Scipio è stranamente assente come mito nel Paese dei santi e dei navigatori.  Nel mio  viaggio  ho  incontrato  decine  di  ponti  e  fontane  di  Annibale.  Il  nome  del Cartaginese  si annida ovunque nel  territorio  italiano e  talvolta  riscuote  simpatia come quello di Robin Hood e dei suoi arcieri di Sherwood. Perché non succede con Scipione?  

Giochi del destino. Il vincitore della guerra muore nello stesso anno di Annibale, pare dopo avere appreso la fine del grande avversario. Per 35 anni egli è stato la sua unica ossessione e ora, senza di lui, è possibile che si sia sentito solo all'improvviso. E' vero: Annibale gli ha rubato tutto, il padre e lo zio in battaglia, la gioventù e la bellezza. Ma è stato anche il suo modello. Gli ha insegnato le regole d'ingaggio nella battaglia campale,  la micidiale manovra avvolgente,  l'uso della cavalleria, l'abilità diplomatica nel rubare alleati al nemico,  la passione per  la cultura ellenica e tanto altro. Non a caso, dopo la battaglia di Zama, è su Annibale che Scipio fa riferimento come garante della pace con Cartagine.  

 

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Ebbero,  Scipione  e Annibale,  spericolate  vite parallele:  ciascuno  andò  audacemente  a  sfidare  il nemico  in  trasferta, e ciascuno  lottò contro  le  invidie della classe nobiliare. Entrambi  finirono  in esilio, costretti ad andarsene dalla patria che avevano reso grande. E come il romano fu l'unico dei consoli a fregiarsi del nome di un popolo vinto, così Annibale spese più tempo  in  Italia che nella sua Cartagine. Se Scipione era  l'Africano, Annibale era sicuramente  l'Italiano. Ora ne sono sicuro. La storia non può finire così, sotto la pioggia di Istanbul, lontano dal grande teatro degli eventi che fu l'Italia. Al racconto manca l'ultimo sigillo: la tomba di Scipione in Campania. Per trovarla ho con me solo un passo di Plinio che narra di un uliveto piantato dalle mani stesse del console, e di un gigantesco mirto accanto a una grotta abitata da un serpente.  

"Ma  che  ci  andate  a  fare  a Villa  Literno?" mi  avvertono  a Napoli. Chiedo perché non  ci dovrei andare. "E' il peggio del peggio, con Giugliano e Casal di Principe". Capisco, cumpà, ma io è lì che devo andare, ci abita Scipio. "Ah, nù parente vostro...". Sì, nu parente mio. Nel Sud è impensabile smentire le ragioni della famiglia accampando quelle della storia. Ancor più difficile è spiegare che non vado a Villa Literno, capitale degli inquieti mandriani da bufale, ma nella vicina e sconosciuta Liternum, sulle rovine di una piccola colonia fondata dagli Scipioni.  

Passo Cuma della Sibilla,  i  fumanti Campi Flegrei,  l'antica Via Campana  tra Capua e  il Tirreno,  il margine  dell'Ager  Campanus  punteggiato  di  roghi  di  munnezza,  e  a  un  tratto  la  segnaletica comincia a sparare un nome squillante: patria. Marina di Patria, Lago di Patria, Quadrivio di Patria. Liternum è lì in mezzo, dimenticata tra svincoli, canali, sfasciumi, canneti, prostitute e alberghi non finiti. E' questa la patria che circonda le ceneri di Scipione.  

Il nome invocato negli stadi qui non se lo fila nessuno. Non c'è nessun pantheon, nessuna tomba, nessun monumento, nessun  cartello  a  ricordarlo.  Il  turco Mustafà Kemal ha  fatto per Annibale molto di più di quanto l'Italia ha fatto per il suo Napoleone. Liternum è solo un ammasso di rovine coperto d'erbacce e recintato dalla  locale soprintendenza. Le rovine più degradate dell'Italia, ma nobili e  indifferenti allo sfascio che  le circonda, all'immondezzaio che  le ricopre e al grande nulla che ci inghiotte tutti.  

Canneti, vento, mandrie immobili nel cielo nero verso Baia Domizia, Suessa Aurunca e le Termopili del  Sannio.  Il  fiume  va,  solenne,  pigro,  grigioverde,  diventa mare  aperto  oltre  Castel Volturno, piccola  isola di ordine nel caos campano. Mi chiedo perché non è rimasto niente della romanità negli italiani di oggi. Perché la più grande classe dirigente del mondo antico è scomparsa nel nulla senza lasciare eredi? Che cosa ha cancellato quell'ineguagliabile senso della res publica che segnò Roma  al  tempo  di  Annibale?  Lavorando  su  Annibale  ho  misurato  la  forza  di  Roma.  Ciò  che sconfigge  il Cartaginese non è  la potenza militare, ma  l'incredibile rete di collegamento costruita tra  le  classi dirigenti delle province  italiane. E' una  struttura  solidissima e aperta,  che  consente anche a un notabile umbro, etrusco o dell'Apulia, di diventare senatore o console e di imparentarsi con le grandi famiglie. Mai, invece, un principe numidico avrebbe potuto entrare nel "Gerontion" di  Cartagine,  e  mai  un  tessalo  o  un  epirota  avrebbero  potuto  diventare  cittadini  ateniesi.   Dopo  il trionfo di Canne, nel 216, Annibale sente odore di sconfitta. Perché? Si è reso conto che 

 

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uno Stato capace di non arrendersi di fronte a una simile disfatta è un grandissimo Stato, capace di qualsiasi cosa. E' per lo stesso motivo che, anni dopo, durante il suo blitz su Roma, egli devasta un santuario  italico  ‐  quello  di  Scorano,  l'antica  Lucus  Feroniae  ‐ macchiandosi  di  sacrilegio.  Lo  fa perché è esasperato dai popoli della Penisola che si ostinano a non schierarsi con lui nonostante la sua netta superiorità militare.  

Radici  cristiane dell'Occidente? Prima delle  radici  cristiane  ci  furono  le  radici  greche e  romane, fondamento di un concetto di governo basato sulla "lex" e la responsabilità dal basso. Un'idea che fu semmai smantellata dal cristianesimo, portatore di un'idea teocratica orientale che smantellava i legami trasversali fra élites e trasformava i capi supremi in "unti del Signore". "Quel mondo ‐ mi ha detto un giorno  l'inestimabile compagno di viaggio Giovanni Brizzi  ‐ non  finì con  le  invasioni barbariche ma con la morte di Giuliano l'Apostata, l'imperatore che tentò inutilmente di tornare ai vecchi dei".  

E'  finito un viaggio nel  tempo,  il più  lungo della mia vita. Dall'Atlantico all'Ararat,  rivedo un  film pieno di facce antiche: Sanniti, Armeni, Celtiberi, Numidi, Insubri, Cretesi. Si accendono altri roghi, a  Liternum  è  l'ora  dei  viados  e  delle  lucciole  venute  dall'Africa.  E'  penoso  ripensare  al mondo antico dal  fondo di questo disastro.  L'impero  romano  aveva diecimila  ‐ dicansi diecimila  ‐  città munite  di  anfiteatri,  terme,  acquedotti  e  fognature.  Le  frumentazioni  mobilitavano  quasi  un milione di persone.  La  sola Roma  aveva  tredici  acquedotti per un  totale di 16 milioni di  litri  al giorno,  livello  superato  solo  nel  1960. Nulla  vi  fu  di  lontanamente  paragonabile  nel medioevo, nemmeno nella favolosa Spagna degli arabi. Solo  la Londra vittoriana riuscì a essere come Roma, ma 1700 anni dopo.  

Il mondo ha nella memoria due apocalissi mitiche ‐ il Diluvio e la fine dell'Atlantide ‐ e un'apocalissi reale: la fine del mondo antico. Ne possiamo leggere i segni monumentali ovunque, dalla Britannia alla  Libia,  e  quei  segni  svelano  la  nullità  dell'oggi.  Il  dominio  di  Roma  sul mondo  era  di  tipo imperialistico fin che si vuole, ma gli dei altrui erano rispettati e  inglobati nel Pantheon. Le élites dei Paesi  conquistati  entravano  a  far parte della macchina di  governo:  anche  africani  e  asiatici potevano diventare  imperatori.  La  leadership non era  fatta  solo di  legioni, ma di  strade, ponti, sicurezza, e la sua "auctoritas" mai avrebbe consentito anarchie di tipo iracheno dopo una vittoria militare. Al largo s'è accesa una luce verde pallido, le bufale nei canneti sono immobili come statue di bronzo.