"Che cos'è una famiglia"
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Nelle pagine che seguono è riportato un dibattito sulla famiglia, se si possa
considerare famiglia anche quella in cui i genitori sono omosessuali, e che
si è svolto sulle pagine del Corriere della Sera, aperto il 30 Dicembre 2012
da Ernesto Galli della Loggia. L’articolo di Galli della Loggia, in perfetta
malafede, richiamandosi ai concetti, per lui scontati di natura e di
divisione dei ruoli fra maschile e femminile, in un certo senso benediceva
gli interventi e i richiami della Chiesa contro le famiglie di omosessuali, e
addirittura Galli della Loggia ricordava il Gran rabbino di Francia Gilles
Bernheim intervenuto contro il matrimonio omosessuale, chiaramente nel
contesto della legge francese sul matrimonio “per tutti”, che dovrebbe
arrivare a giorni alla discussione in parlamento, ma Galli della Loggia
omette questo fondamentale riferimento, e si rivolge poi ai rappresentanti
di quella che lui reputa un’altra Chiesa, quella degli psicoanalisti perché si
facciano sentire, a suon di dogmi, che cosa insegna la psicoanalisi. E’
intervenuta Silvia Vegetti Finzi e ci fa proprio una magra figura…… Per
fortuna è seguita poi la voce di Fulvio Scaparro.
L’articolo che chiude di Bernard - Henri Levy non appartiene al dibattito
italiano, anche se il Corriere l’ha pubblicato come tale: è una riflessione su
quanto sta accadendo ora in Francia.
EBREI E CATTOLICI EBREI E CATTOLICI
le Religioni che sfidano il Conformismo sui Gay Quando le religioni
sfidano il conformismo sui gay - 30 Dicembre 2012
Ernesto Galli Della Loggia
Nel XVIII secolo, nella sua battaglia contro le religioni ufficiali, equiparate
senza tanti complimenti ad altrettante superstizioni, l'illuminismo francese,
destinato a far scuola in tutta l'Europa continentale, non se la prese certo
solo con il cattolicesimo. Anzi. L'ebraismo, per esempio, fu un suo bersaglio
forse ancora più consueto: basti pensare alle tante pagine di Voltaire piene
zeppe di contumelie contro la religione mosaica.
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Poi però tra '700 e '800 le cose cambiarono rapidamente. Soprattutto
perché cambiò l'ebraismo. Accadde infatti che nell'Europa (soprattutto
occidentale) un gran numero di ebrei cominciasse a inoltrarsi su un
percorso di radicale emancipazione-secolarizzazione che li portò ad
integrarsi in pieno con le élites laico-liberali sulla via di prendere dovunque
il potere: della religione dei padri conservando al massimo qualche vestigia
rituale. Da allora la critica antireligiosa d'ascendenza illuministica cominciò
a prendere di mira, in ambito occidentale, pressoché esclusivamente il
cattolicesimo, quasi che esso fosse la sola religione rimasta sulla faccia
della terra. Una tendenza andata sempre più affermandosi, specie in Italia,
e molto spesso ? bisogna dirlo ? con il tacito assenso di molta intellighenzia
d'origine ebraica, più o meno concorde nell'avvalorare implicitamente l'idea
? bizzarrissima ma molto «politicamente corretta» ? che in fin dei conti
l'ebraismo non sia neppure una religione. Ovvero lo sia, ma così diversa da
tutte le altre, così diversa, alla fine da non esserlo! Specie in Italia, ho
scritto. E infatti quando da noi si parla di temi che in qualche modo
coinvolgono la fede religiosa l'ebraismo tenda a non avervi e/o prendervi
alcuna parte. E quindi a non essere mai menzionato. Basta porre mente a
tutta la discussione sulla liceità dell'ingegneria genetica, dell'eutanasia o
del matrimonio tra omosessuali. Dibattendosi di queste cose è come se
l'ebraismo fosse disceso nelle catacombe tanto la sua voce è tenue o
assente. Con il risultato che la voce della Chiesa cattolica, invece, è
facilmente presentata come la sola che in nome di una visione religiosa
arcaica sia impegnata a difendere posizioni che la vulgata democratica
qualifica come «reazionarie».A ricordarci che le cose invece non stanno
affatto così, e che proprio sui temi che citavo prima sono viceversa assai
profondi i legami teologici e dottrinari tra l'ebraismo e il cattolicesimo (e il
cristianesimo in generale, direi) soccorre un recente importante documento
di un'autorità dell'ebraismo europeo quale il Gran Rabbino di Francia
Gilles Bernheim, dal titolo «Matrimonio omosessuale, omoparentalità e
adozione». Bernheim inizia con il punto decisivo, e cioè contestando che tali
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temi abbiano come vera posta in gioco un problema di eguaglianza dei
diritti. In gioco invece, scrive, è «il rischio irreversibile di una confusione
delle genealogie, degli statuti e delle identità, a scapito dell'interesse
generale e a vantaggio di quello di un'infima minoranza». In un modo che a
me sembra condivisibile anche dal punto di vista di un non credente egli
smonta uno ad uno gli argomenti abitualmente usati a favore del
matrimonio omosessuale: dall'esigenza della protezione giuridica del
potenziale congiunto, all'importanza del volersi bene («non si può
riconoscere il diritto al matrimonio a tutti coloro che si amano per il solo
fatto che si amano»: per esempio a una donna che ami due uomini); alle
ragioni affettive che giustificherebbero l'adozione di un bambino da parte di
una coppia omosessuale. «Tutto l'affetto del mondo non basta a produrre le
strutture psichiche basilari che rispondono al bisogno del bambino di
sapere da dove egli viene. Il bambino non si costruisce che differenziandosi,
e ciò suppone innanzi tutto che sappia a chi rassomiglia. Egli ha bisogno di
sapere di essere il frutto dell'amore e dell'unione di un uomo, suo padre, e
di una donna, sua madre, in virtù della differenza sessuale dei suoi
genitori». Ancora: «il padre e la madre indicano al bambino la sua
genealogia. Il bambino ha bisogno di una genealogia chiara e coerente per
posizionarsi come individuo. Da sempre, e per sempre, ciò che costituisce
l'umano è una parola in un corpo sessuato e in una genealogia». Bernheim
non solo prende di petto il proposito caro a molti militanti omosessuali di
sostituire al concetto sessuato di «genitori» quello asessuato e vacuo di
«genitorialità» e di «omoparentalità», ma sostiene che non può parlarsi in
alcun modo di un diritto ad avere un figlio: «la sofferenza di una coppia
infertile non è una ragione sufficiente per ottenere il diritto all'adozione. Il
bambino, sottolinea, non è un oggetto ma un soggetto di diritto. Parlare di
diritto a un figlio implica una strumentalizzazione
inaccettabile».Naturalmente le pagine più dense del documento sono quelle
in cui opponendosi all'idea sempre più diffusa che il sesso, lungi dall'essere
un dato naturale, rappresenti una costruzione culturale, il Gran Rabbino,
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forte del racconto della Genesi, afferma viceversa «la complementarietà
uomo-donna come un principio strutturante del giudaismo»
corrispondendo essa al piano più intimo della creazione. «La dualità dei
sessi ? egli scrive ? appartiene alla costruzione antropologica dell'umanità»
ed è voluta da Dio anche come «un segno della nostra finitezza». Nessun
individuo può pretendere di essere autosufficiente, di rappresentare tutto
l'umano, dal momento che con ogni evidenza «un essere sessuato non è la
totalità della specie».Il lettore avrà notato la forte somiglianza di molte delle
cose dette da Bernheim con quelle sostenute dal magistero cattolico ( non a
caso di recente Benedetto XVI ha citato calorosamente il documento del
Gran Rabbino francese). In realtà le voci congiunte dell'ebraismo e del
cattolicesimo, nel momento in cui evocano ciò che è effettivamente in gioco
in questo caso ? vale a dire le basi stesse della società in cui vogliamo
vivere, l'esistenza ontologica di due sessi distinti, l'alleanza dell'uomo e
della donna nell'istituzione chiamata a regolare la successione delle
generazioni, nonché il rischio di cancellare in modo irreversibile tale
successione ? nel momento in cui fanno ciò, sembrano confermare quanto
sostenuto a suo tempo da Jurgen Habermas circa l'importanza che ha e
deve avere il punto di vista della religione nel discorso pubblico delle nostre
società. Tale punto di vista, infatti, è spesso prezioso per comprendere ? da
parte di tutti, credenti e non credenti, di ogni persona libera ? ciò che
queste società hanno oggi il potere di fare. E dunque, per misurare la
rottura che le loro decisioni possono rappresentare rispetto alle radici più
profonde e vitali della nostra antropologia e della nostra cultura. Ma dal
Gran Rabbino Bernheim viene anche un'altra lezione. E cioè quanto è
importante che la discussione pubblica sia condotta con coraggio, sfidando
il conformismo che spesso anima l'intellettualità convenzionale e il mondo
dei media. Quanto è importante che personalità autorevoli (per esempio gli
psicanalisti) non abbiano paura di far sentire la loro opinione: anche
quando questa non è conforme a quello che appare il mainstream delle idee
dominanti. È una lezione particolarmente essenziale per l'Italia. Dove è
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sempre così raro ascoltare voci fuori dal coro e provenienti da bocche
insospettate, dove è sempre così forte la tentazione di aver ragione
appiccicando etichette a chi dissente invece di discuterne gli argomenti,
dove sono sempre pronti a scattare spietatamente i riflessi condizionati
delle appartenenze. Dove ? in specie quando si tratta di certe questioni ?
non manca di farsi puntualmente sentire il pregiudizio che tende a fare del
cattolicesimo la testa di turco più adatta per essere additato alla pubblica
esecrazione dalle vestali dell'illuminismo e per vedersi piovere addosso tutti
i colpi ( e tutte le presunte colpe ) del caso.
RIPRODUZIONE RISERVATA - Galli Della Loggia Ernesto
Pagina 01/36
(30 dicembre 2012) - Corriere della Sera
http://27esimaora.corriere.it/articolo/freud-e-i-figli-di-coppie-gay-il-dibattitotra-il-papa-
arcobaleno-e-la-psicoanalista/
LE RAGIONI A FAVORE DEI GAY
«Mia figlia sta bene con i suoi due papà»
di Tommaso Giartosio, Famiglie Arcobaleno 1
1 o Associazione genitori omosessuali http://www.famigliearcobaleno.org/Default.asp
Caro direttore,
mia figlia vorrebbe che i suoi due papà potessero sposarsi. Di questo sono
certo. Ma so anche che mia figlia ha solo sette anni, e certe cose ancora
non le capisce. Non capisce, per esempio, che il suo desiderio è
«conformista», come scrive Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 30
dicembre. In effetti per lei è difficile cogliere questo conformismo, visto che
vive nell’unico Paese occidentale completamente privo di leggi a tutela dei
gay.
Privo in primo luogo del matrimonio egalitario, cioè aperto anche alle
coppie dello stesso sesso. Ma il matrimonio egalitario porterebbe secondo
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Galli della Loggia (che cita in parte Gilles Bernheim) a una «confusione
delle genealogie, degli statuti e delle identità», a un tracollo della
«complementarietà uomo-donna», all’azzeramento dell’«esistenza ontologica
di due sessi distinti», alla devastazione delle «radici più profonde e vitali
della nostra antropologia e della nostra cultura». Anche questo è difficile da
capire… E sì che abbiamo già sentito frasi simili.
Circolavano a voce e a stampa, per esempio, nel dibattito sul voto alle
donne. L’esclusione delle donne dalla politica non aveva anch’essa radici
millenarie? Non esprimeva una profonda complementarietà uomo-donna,
ricca di tanti significati preziosi e fragili, e anche molto ontologica? Non era,
perbacco, parte della nostra antropologia?
La retorica del discorso discriminatorio è sempre la stessa. Questo
minacciare apocalissi vaghe o sommamente improbabili ricorda i discorsi di
chi, nel 1946, profetizzava che le donne ora non avrebbero voluto più
occuparsi dei figli. Mia figlia, per inciso, intende averne sei. Un altro vizio
logico di questa retorica è la fallacia della «brutta china»: Galli della Loggia
pensa che il matrimonio egalitario apra la porta alla poligamia, così come
un tempo si temeva che dopo il voto alle donne anche bambini, pazzi e
scimmie avrebbero rivendicato l’elettorato attivo e passivo.
La forma stessa di queste analogie manifesta il retropensiero
discriminatorio, l’idea che la donna sia inferiore all’uomo, o che un amore
gay sia inferiore a un amore etero. Terzo (e ultimo, per non eccedere) tic di
queste argomentazioni: ignorano del tutto il dato di realtà. Così diventa
possibile argomentare che i figli delle coppie dello stesso sesso mancano
delle «strutture psichiche basilari», nonostante decenni di ricerca scientifica
mostrino il contrario. Certo, esiste un folkloristico drappello di studiosi che
non si rassegna all’evidenza. C’è il professor Regnerus, che a posteriori
confessa che mamme lesbiche e papà gay da lui esaminati forse non erano
davvero gay e lesbiche; c’è il professor Cameron, autore di una ventina di
dotti studi, espulso dalle associazioni professionali e condannato dai
tribunali per distorsione dei dati. Un giorno mia figlia riderà di storie simili.
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Nell’attesa, però, avrebbe bisogno di godere degli stessi diritti di cui già
godono i suoi coetanei cresciuti in famiglie antropologicamente corrette.
Degli stessi diritti, e – altrettanto importante – della stessa dignità.
IN NESSUNO DEI TRE CASI che prende in considerazione il signor Giartosio
confuta nella sostanza – ripeto: nella sostanza, cioè con argomenti inerenti alla
natura delle cose in questione – le affermazioni che intende contrastare. Si limita a
stigmatizzare le opinioni che non condivide mediante analogie improprie e
definizioni negative: entrambe prive di qualunque reale valore argomentativo.
Egualmente deplorevole, a mio avviso, è il vezzo di considerare ciarlatani o
delinquenti tutti gli studiosi che non condividono il pensiero gay in base al
semplice fatto (peraltro da accertare) che un paio di costoro sono stati colpiti da
sanzioni o scoperti a mentire. Come dire che siccome sono stati scoperti due
dentisti che imbrogliavano le carte sostenendo l’esistenza di carie dove non c’erano,
allora l’intera odontotecnica è priva di fondamenta. Se mi è permesso, consiglierei
l’associazione delle Famiglie Arcobaleno di discutere in modo più adeguato
all’importanza dei problemi in questione.
Ernesto Galli della Loggia
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FREUD E IL SENSO DELLA DIVISIONE DEI RUOLI
«Ai bambini servono entrambe le figure» di Silvia Vegetti Finzi
Da tempo la psicoanalisi ha perso la capacità di sollecitare la riflessione
collettiva sulle strutture profonde che reggono l’identità individuale e
sociale e ciò proprio nel momento in cui si delineano radicali
trasformazioni. A rompere questo silenzio giunge quanto mai opportuno
l’invito che Ernesto Galli della Loggia rivolge agli psicoanalisti perché non
temano di far sentire la loro opinione, anche quando non è conforme al «
mainstream delle idee dominanti».
Ormai le psicoanalisi sono tante e non parlano «con voce sola» ma, come
storica e teorica del campo psicoanalitico, farò riferimento a Freud, che non
credo abbia esaurito il suo compito di fondatore e di maestro. Poiché da
oltre un secolo i suoi eredi raccolgono e interpretano, attraverso la pratica
dell’ascolto e della cura, i vissuti consapevoli e inconsapevoli della nostra
società, mi sembra doveroso interrogare un sapere che si fonda sull’Edipo,
così come è stato tramandato dalla tragedia di Sofocle. L’Edipo, che Freud
definisce «architrave dell’inconscio», è il triangolo che connette padre,
madre e figlio.
Entro le sue coordinate si svolgono i rapporti inconsci erotici e aggressivi,
animati dall’onnipotenza Principio di piacere, «voglio tutto subito», che
coinvolgono i suoi vertici. Per ogni nuovo nato il primo oggetto d’amore è la
madre ma si tratta di un possesso sbarrato dal divieto dell’incesto, la Legge
non scritta di ogni società. Questa impossibilità è strutturante in quanto
mette ognuno di fronte alla sua insufficienza (si desidera solo ciò che non si
ha) e alla correlata impossibilità di colmare la mancanza originaria.
Il figlio che vuole la madre tutta per sé innesca automaticamente una
rivalità nei confronti del padre, che pure ama e dal quale desidera essere
amato. La contesa, che si svolge nell’immaginario, termina per due motivi:
per il timore della castrazione, la minaccia di perdere il simbolo dell’Io, e
per l’obiettivo riconoscimento della insuperabile superiorità paterna. Non
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potendo competere col padre, il bambino s’identifica con lui e sceglie come
oggetto d’amore, non già la madre, ma la donna che le succederà.
Attraverso questo gioco delle parti, il figlio rinuncia all’onnipotenza
infantile, prende il posto che gli compete nella geometria della famiglia,
assume una identità maschile e si orienta ad amare, a suo tempo, una
partner femminile. Tralascio qui il percorso delle bambine, troppo
complesso per ridurlo a mera specularità. Ma già quello maschile è
sufficiente a mostrare come l’identità sessuale si affermi, non in astratto,
ma attraverso una «messa in situazione» dei ruoli e delle funzioni che
impegna tanto la psiche quanto il corpo dei suoi attori. Se, come sostiene
Merleau Ponty, «noi non abbiamo un corpo ma siamo il nostro corpo», non
è irrilevante che esso sia maschile o femminile e che il figlio di una coppia
omosessuale non possa confrontarsi, nella definizione di sé, con il
problema della differenza sessuale.
La psicoanalisi non è una morale e non formula né comandamenti né
anatemi ma, in quanto assume una logica non individuale ma relazionale,
mi sembra particolarmente idonea a dar voce a chi, non essendo ancora
nato, potrà fruire soltanto dei diritti che noi vorremo concedergli.
Tra questi, credo, quello di crescere per quanto le circostanze della vita lo
consentiranno, con una mamma e un papà.
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tratto da Corriere della sera del 03/01/2013
intervista a Fulvio Scaparro a cura di Luisa Pronzato
http://www.nicodemo.net/NN/giornali_pop.asp?ID=2089
Niente guerre sui bambini, niente fanatismi né da parte di chi sostiene le
famiglie omoparentali né da parte di chi non le accetta. Fulvio Scaparro,
psicoterapeuta e neuropsichiatra che sulla famiglia lavora da una decina
di lustri, non prende parte. «Concordo con Silvia Vegetti Finzi sul
Corriere di ieri: i bambini hanno diritto di crescere per quanto le
circostanze della vita lo consentiranno con una mamma e con un papà»,
dice. «Ma non seguo il discorso di Ernesto Galli della Loggia che nel suo
editoriale di domenica ha sostenuto che i genitori omosessuali non
possono creare buone famiglie». I genitori, sostiene Scaparro, non sono
buoni sulla base del loro orientamento sessuale. Due mamme, due
papà. Genitori dello stesso sesso. La società sta attrezzandosi a
considerarli al pari di ogni padre e ogni madre. La politica (le leggi) e
l'etica spesso non trovano accordo. Galli della Loggia nel suo editoriale
ha investito la psicanalisi perché legga, al di là delle morali, le dinamiche
che si creano crescendo con genitori dello stesso sesso.
Silvia Vegetti Finzi, seguendo le teorie freudiane, ha rimesso il punto
sulla necessità della figura maschile e femminile nella costruzione
dell'identità. «Per dirla con Freud, è costruttivo crescere con modelli nei
diversi generi», dice Scaparro. «Ma oggi l'identità non si costruisce solo
nel rapporto con i genitori. Si diventa grandi attraverso un'intensa rete
di persone di ogni sesso, dagli zii all'allenatore, agli amici dei genitori
che diventano affettuosi riferimenti al di là del grado di parentela».
Scaparro riporta al pensiero di Winnicott e alla definizione di «ambiente
sufficientemente buono». Necessario per uno sviluppo cognitivo e
psicologico equilibrato», dice Scaparro. L'elenco è lungo qualche
decennio di studio ma si sintetizza con il contenimento, la stimolazione
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cognitiva e affettiva, l'attendibilità e coerenza degli adulti, l'empatia,
l'ascolto, la flessibilità.
In pratica la sicurezza e guida della famiglia. «Un clima attento anche a
dire no quando è il momento. Un ambiente non dico privo di tensioni ma
dove si imparano le regole della convivenza tra diversi e la difficile arte di
non trasformare i conflitti in guerra né il confronto in opposizione muro
a muro. Non c'è una di questevoci che genitori dello stesso sesso non
possano garantire». È una questione di diritto alla famiglia più che di
genere dei genitori... «Si parla delle nuove famiglie ma la discussione è al
calor bianco quando si tocca il tema, ormai la realtà, delle famiglie
omoparentali», insiste lo psicoanalista. «Di fronte ad attacchi forsennati
come quelli di chi sostiene che crescere con genitori omosessuali è
un'aberrazione che produrrà psicotici e psicotiche, ci sono studi che lo
smentiscono. Come quello del francese Boris Cyrulnik che mostra come i
bambini cresciuti con genitori omosessuali non abbiano più difficoltà
psicologiche degli altri. Forse il problema è che i loro genitori devono
dimostrare di essere migliori degli altri. Devono essere perfetti. E perfetto
non è nessun genitore». E allora, continua lo psicoanalista «non
gridiamo allo scandalo, non fa bene ai bambini. Ascoltiamo piuttosto chi
queste esperienze le vive, i genitori gay e i loro figli. Loro sono in grado di
dirci come si cresce con due mamme o due papà. Forse non sempre
bene. Esattamente come con una madre e un padre che non riescano a
essere genitori sufficientemente buoni». Mi ha colpito, conclude Scaparro
la testimonianza di un bambino. «Sto bene in questa casa con i mie due
papà, peccato che non possa parlarne. Mi prendono in giro». Luisa
Pronzato
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4 gennaio 2013
Ora il filosofo Adriano Pessina, cattolico, ordinario di Filosofia Morale presso
la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano, Direttore del Centro di Ateneo di Bioetica dal 2007, anno della sua
istituzione a seguito della trasformazione del precedente centro di Bioetica., che
ritiene l’omosessualità :
«una scelta libera, un certo modo di essere e di esistere che va rispettato»
lasciando però aperta la questione, «che vale per qualsiasi altra scelta di
vita», di come debba essere valutata e di come, e se, debba essere
socialmente e giuridicamente tutelata.
«Nel dibattito sull’omosessualità si tende a negare che esista una
differenza fra maschile e femminile, sostenendo che sia indifferente
essere maschio o femmina e che sia dunque indifferente che una coppia
sia formata da un uomo e una donna oppure da due donne o da due
uomini — premette —. Tanto l’importante sarebbe amarsi…». Ma il
maschile e il femminile, continua, sono necessari per la definizione
stessa della condizione umana,
«e non si può certo sostenere che la differenza fra uomo e donna sia una
teoria cattolica: è invece fondamentale persino per l’evoluzionismo».
Dove ci porta tutto questo? «All’idea che la complementarietà fra i due
sessi è decisiva per tutti: una società matura deve valorizzare la
differenza, non mortificarla. Gli omosessuali negano l’importanza di una
relazione con un partner di sesso differente. Scelta libera, che va
accettata. Dobbiamo però convenire che, come qualsiasi altra scelta,
l’omosessualità deve poter essere valutata e giudicata». E la valutazione
che Pessina ne dà è in chiaro scuro. «Ogni libera scelta comporta delle
conseguenze. I figli nascono da relazioni eterosessuali, non omosessuali.
Quando si sceglie il proprio comportamento sessuale bisogna tenerne
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conto e assumerne le conseguenze con serena responsabilità. È forse
una banalità, ma va detta».
La scienza ci consente di raggiungere risultati un volta difficili da
immaginare: questo ha cambiato notevolmente le cose. «La scienza e la
tecnologia hanno trasformato in modo profondo la nostra esperienza —
concorda Pessina —. Ma dobbiamo essere noi a gestire la tecnica, non il
contrario». Le tecniche di procreazione assistita, per esempio: erano nate
all’interno di un disegno che voleva agevolare la relazione di coppia,
continua il bioeticista, «ora però siamo passati da un’idea di aiuto a
quella di un indiscriminato diritto ad avere figli».
Se sono omosessuale devo dunque rassegnarmi a non avere figli: è così?
Quali scelte una società deve tutelare e quali lasciare aperte alla
discussione?
«È giusto che lo Stato tuteli con maggior vigore la famiglia eterosessuale
come luogo della nascita. Un conto è parlare del riconoscimento di
alcuni diritti giuridici degli omosessuali (che ritengo giusti), un conto è
sostenere il diritto ad avere figli (come se esistesse, poi, questo diritto:
nessuno ha diritto a un figlio, perché i diritti si hanno sulle cose, non
sulle persone)».
Il rischio e che si dica che una cosa «è buona solo perché è frutto di una
libera scelta. Ma la vera domanda è: qual è il “valore aggiunto” proprio
dell’omosessualità che lo Stato può tutelare?». Lei come risponde? «Non
credo che nell’omosessualità ci sia un “di più”, ma sono disposto ad
ascoltare dialogare. Vedo però qual è il “di più” dato dall’eterosessualità:
il difficile equilibrio di una relazione che comprende le differenze fra
maschile e femminile, che va anche al di là della questione dell’avere
figli».
Il primo studio sui figli di genitori omosessuali risale al 1972:
quarant’anni di lavori scientifici, in larghissima parte favorevoli a queste
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coppie e alle famiglie che hanno creato, vorranno dire qualcosa. «Come
tutti i dati della scienza vanno verificati, ma il problema va posto
all’origine e non guardando i risultati. Di fatto ci sono bambini
equilibrati che sono stati allevati da famiglie poligamiche, o che sono
cresciuti in orfanatrofio. Il problema resta un altro: qual è il contesto
ideale nel quale pensare lo sviluppo della persona? Le differenze fra
maschile e femminile sono un aspetto decisivo dell’umano. Che non può
essere negato».
In Europa molti Paesi sono più avanti di noi in materia di diritti, per
tutti. «Questa è una valutazione di cui discutere. Le differenze non
possono essere viste sempre e solo come un problema, ma anche come
una possibilità. Perché invece di copiare dagli altri paesi non maturiamo
insieme una scelta argomentata, non ideologica, in cui contino i valori
umani e non solo la lotta per difendere i propri interessi più ancora dei
diritti condivisi?».
Il punto d’arrivo del discorso di Pessina è questo: discutiamone, impariamo dagli errori che sono stati fatti, «apriamo un tavolo, senza ideologia». Un tavolo dove? «Il luogo più adatto è quello della cultura alta: l’università, dove però oggi si rivendicano diritti più che affrontare, in modo serio, le discussioni (ma noi siamo il paese delle emergenze, le discussioni su gay e figli diventeranno materia da campagna elettorale, dunque sono già bruciate. E intanto non ci rendiamo conto che, in questo genere di cose, o vinciamo tutti o perdiamo tutti)».
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Il dibattito, unioni omosessuali e figli
La filosofa Francesca Rigotti esplora e cerca la risposta a una domanda:
Avere figli è un diritto?
«Le coppie con due papà sono vissute come diverse, i miei figli non
capiscono» - 7 gennaio 2013
di Daniela Monti
Tags: dibattito, interrogativi, unioni omosessuali
L’impressione, discutendo di famiglie omogenitoriali e diritto delle coppie
gay e lesbiche ad avere figli, è di essere, prima ancora di partire, in
controtempo e superati dalla storia: nella realtà, queste famiglie ci sono
già e sono molte, i loro bambini crescono negli asili, nelle scuole, nelle
comunità accanto, ed uguali, a tutti gli altri.
Francesca Rigotti, filosofa e saggista, parte dai bambini: i suoi. Quattro
giovani adulti che, interrogati quando ancora erano adolescenti sullo
scandalo (se oggi si può ancora chiamare così) di avere due papà o due
mamme, restituivano lo stesso disagio sintetizzato da una piccola fan di
Barack Obama nella lettera inviata, un paio di mesi fa, al suo
presidente: a scuola mi prendono in giro perché ho due papà, che posso
fare?
«Mi colpirono molto le osservazioni dei miei figli, che mai avrebbero
voluto trovarsi in quella stessa situazione, con quel tipo di famiglia, per
paura di essere esclusi dal gruppo, canzonati, per il terrore del ridicolo,
della diversità. Mi colpì perché penso che, prima di ogni cosa, i bambini
debbano essere tutelati e protetti».
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Poi a quelle riflessioni ne sono seguite altre. Oggi Rigotti torna ad
affrontare il tema delle coppie e delle famiglie omosessuali forte di molte
certezze, anche se restano nodi da sciogliere, grumi teorici da appianare.
«Ho superato le titubanze iniziali dicendomi che da qualche parte
bisogna pur iniziare, che le coppie più coraggiose devono aprire la strada
anche per le altre che verranno. Se ci si adegua sempre, non vedremo
mai reali progressi nel nostro vivere comune. Quando insegnavo
all’università di Göttingen, in Germania, nei primi anni mi capitò di
subire aggressioni verbali. Per strada parlavo in italiano ai miei bambini
e, immancabilmente, qualcuno mi richiamava: signora, siamo in
Germania, qui si parla tedesco. A quel tempo i miei figli avrebbero voluto
essere come tutti i loro compagni, senza complicazioni legate alle origini.
Ora sono ben felici di essere bilingui. Allo stesso modo fra vent’anni
nessuno si stupirà più di famiglie che oggi ci appaiono così “diverse”».
Se il bioetico Adriano Pessina, intervenendo nei giorni scorsi nel
dibattito aperto sul Corriere, aveva insistito a lungo sul termine
«differenza» — «Non è indifferente che una coppia sia formata da un
uomo e una donna oppure da due uomini o due donne, maschile e
femminile sono necessari per la definizione stessa della condizione
umana» — Rigotti ribalta la prospettiva.
«La mia parola d’ordine è eguaglianza. È la parola/concetto che sta alla
base della visione del mondo in cui parità e equità contano più di
diversità e differenza. Certo che il motto “tutti gli uomini sono uguali” è,
letteralmente preso, privo di senso. Certo che siamo tutti diversi, ma
anche, in quanto persone, tutti uguali in dignità e diritti. Diritti non su
cose e/o persone, bensì diritti a idee e ideali come la libertà, la vita e,
ancora, l’eguaglianza».
Ma c’è una diversità naturale fra i due generi, quella che i filosofi
chiamano essenzialismo. «Il linguaggio della differenza (magari
ontologica, per natura dunque, così da essere inchiodata
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inesorabilmente sulla pelle di ognuno) e le differenze di sesso o di
preferenze sessuali le vedo sempre in agguato a ribadire il ruolo
pertinente a ciascuno: alla donna l’accoglienza, la cura, l’accudimento e
l’affettività, all’uomo l’uscita all’esterno, la vita pubblica, l’azione».
È il problema dei ruoli. Per Rigotti riconoscere la differenza porta a
cristallizzare uomini e donne ciascuno dentro il proprio «destino»,
facendone una gabbia da cui è difficile evadere. È così?
«È proprio l’assegnazione dei ruoli — riprende la filosofa — a motivare le
posizioni di alcuni avversari della libertà per le coppie omosessuali di
formare famiglie e avere bambini: chi svolgerà il ruolo femminile, chi
quello maschile? A chi toccherà rendere il nido caldo e accogliente, a chi
invece accompagnare l’uccellino al pontile per insegnargli a volare, se
non, rispettivamente, alla madre/femmina e all’uomo/maschio? Non
prendo queste immagini a caso, le abbiamo introdotte, Duccio Demetrio
e io, nel nostro recente libro Senza figli. Una condizione umana, ma non
pensando che si tratti di ruoli connotati naturalmente e
ontologicamente, quanto di ruoli storicamente e socialmente creatisi e
che come tali possono anche essere mutati».
In quello stesso libro, però, affrontate anche un altro tema: l’ossessione
del figlio. Un assillo trasversale, che sembra coinvolgerci tutti,
omosessuali e no.
Avere figli è un diritto?
«Il figlio a tutti i costi, spesso da esibire come trofeo, è un’ossessione da
respingere, perché espressione di una società malata. Fa parte del
narcisismo per cui vanno soddisfatti tutti i nostri desideri, tutti i nostri
piaceri. Ma il diritto non è quello ad avere tutto. C‘è stata l’epoca dei
diritti politici e civili, poi quella dei diritti sociali. Ora la nuova
generazione è alle prese con i diritti virtuali, condensati attorno all’uso
della rete. Forse la prossima sarà la generazione che chiederà il diritto
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alla soddisfazione di ciascuna esigenza per raggiungere la realizzazione e
pienezza umana».
La diversità naturale fra i generi, che le crea disagio in quanto, sostiene,
presenta un lato pericoloso per la parità, viene continuamente erosa. Le
giovani coppie sono distanti anni luce da quelle dei loro nonni anche su
un terreno che le è particolarmente caro: la vita domestica e
l’accudimento dei figli. Lei sostiene che il pensiero nasce ed è formato
dalle pratiche che le persone esercitano. La maternità — non biologica,
ma metaforica — può essere un’esperienza anche maschile? E in questo
caso: è una fertile condivisione o una espropriazione? «Insistere sulle
differenze fra i generi, come fa anche un certo femminismo, soprattutto
italiano, può portare a conseguenze gravi e spesso a scapito delle donne
stesse. Meglio dunque correre il rischio di venire espropriate di un ruolo
tradizionalmente legato alla femminilità che non rischiare di rimanerne
invischiate (e limitate) per l’intera vita. C’è una tendenza generale, da
parte maschile, all’espropriazione, cioè all’appropriarsi di ogni
incombenza e di ogni capacità delle donne. Se questo si riduce ad una
mera esibizione, tipo i tanti divi che si presentano in pubblico con i figli
appesi al collo, è ovviamente da condannare; è invece condivisione
fertile, fertilissima, se fatta in maniera sentita e partecipe, da parte del
padre, non soltanto nei pochi giorni di congedo parentale, ma in tutto il
percorso della crescita dei bambini, che tra l’altro sarebbe enormemente
favorito dalla possibilità di svolgere il tempo parziale al lavoro, tutti,
madri e padri, omo e etero che siano».
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La dignità necessaria alle unioni gay
Bernard-Henri Lévy - 11 gennaio 2013
Il dibattito sul matrimonio gay ha preso una piega strana e talvolta
inquietante. Sorvolo sugli ipocriti che fingono di rimpiangere i bei tempi
dell’omosessualità deviante, ribelle, e refrattaria a «entrare nella norma».
Sorvolo sulla condiscendenza delle anime belle secondo cui «il popolo», in
tempi di crisi, avrebbe altre gatte da pelare piuttosto che queste storie di
borghesi bohémien (non si osa dire di pederasti). Sorvolo infine sul comico
panico di chi ritiene che il matrimonio gay (ribattezzato a torto matrimonio
«per tutti» dai suoi sostenitori troppo prudenti, e privi del coraggio di dire
pane al pane, vino al vino) sia una porta aperta alla pedofilia, all’incesto,
alla poligamia.
Non si può invece sorvolare su quanto segue.
1) Sul modo in cui è percepito l’intervento delle religioni in tale baruffa. Che
le religioni debbano dire il loro parere su una vicenda che è sempre stata, e
lo è ancora, al centro della loro dottrina, è normale. Ma che questo parere
si faccia legge, che la voce del gran rabbino di Francia o quella
dell’arcivescovo di Parigi sia più di una voce fra tante altre, che ci si
nasconda dietro alla loro grande ed eminente autorità per chiudere la
discussione e mettere a tacere una legittima domanda di diritti, non è
compatibile con i principi di neutralità sui quali, da almeno un secolo, si
suppone sia edificata la nostra società. Il matrimonio, in Francia, non è un
sacramento, è un contratto. E se è sempre possibile aggiungere il secondo
al primo, e ciascuno può stringere, se lo desidera, un’unione
supplementare davanti al prete, non è di questo che tratta la legge sul
matrimonio gay. Nessuno chiede ai religiosi di cedere sulla loro dottrina.
Ma nessuno può esigere dal cittadino di regolare il proprio comportamento
sui dogmi della fede. Si crede di andare in guerra contro il comunitarismo
ed è la laicità ad essere discreditata: che cosa ridicola!
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2) Sulla mobilitazione degli psicoanalisti o, in ogni caso, di alcuni di loro,
che si ritiene dovrebbero fornire agli avversari della legge argomentazioni
scientifiche e, forti della loro autorità, provare che questo progetto
causerebbe un altro malessere, stavolta mortale, nella civiltà
contemporanea. Bisogna dirlo e ripeterlo: la scienza freudiana non è uno
scientismo; l’ordine simbolico che opera nell’inconscio non è un ordine
biologico; e fare del complesso di Edipo l’altro nome del triangolo ben noto
dei servizi familiaristi (papà, mamma ed io, la «piccola famiglia incestuosa»
dell’ordine eterosessuale di cui parlava Michel Foucault…) fu
probabilmente un peccato di gioventù della psicoanalisi: ma da tempo essa
lo ha scongiurato e non esiste ormai un analista serio che riduca filiazione
e trasmissione a questioni di pura «natura». Leggete la letteratura
sull’argomento. Non ci sono indicazioni, per esempio, che suggeriscano una
predisposizione all’omosessualità in caso di adozione da parte di una
coppia gay. Non ci sono effetti perversi particolari quando si strappa un
bambino da un sordido orfanotrofio e lo si trasferisce in una famiglia con
un solo genitore o con genitori omosessuali amorevoli. E se pure questo
dovesse provocare un turbamento, lo sguardo che la società impregnata di
omofobia porta sul bambino sembra sia infinitamente più sconvolgente
della apparente indistinzione dei ruoli nella famiglia così composta…
3) Sulla famiglia, appunto. La sacrosanta famiglia che ci viene presentata,
a scelta, come la base o il cemento delle società. Come se «la» famiglia non
avesse già tutta una sua storia! Come se ci fosse un solo modello, e non
invece molti modelli di famiglia, quasi omonimi, che si succedono
dall’antichità ai nostri giorni, dai secoli classici ai secoli borghesi, dall’età
delle grandi discipline (quando la cellula familiare funzionava, in effetti,
come ingranaggio del macchinario del controllo sociale) a quella del «diritto
alla ricerca della felicità» di cui parlava Hannah Arendt in un testo del 1959
sulle «unioni interrazziali» (in cui il matrimonio diventa un luogo di
pienezza e di libertà per il soggetto)! Come se la banalizzazione del divorzio,
la generalizzazione della contraccezione o dell’interruzione volontaria di
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gravidanza, la moltiplicazione delle adozioni e delle famiglie single, il fatto
che oggi siano più numerosi i bambini nati fuori dal matrimonio che da
coppie sposate, come se la disgiunzione, infine, del sessuale dal coniugale,
non avessero fatto vacillare il modello tradizionale ben al di là di quello che
mai farà una legge sul matrimonio gay che, per definizione, riguarderà solo
una minoranza della società!
La verità è che gli avversari della legge sempre più difficilmente riescono a
dissimulare il fondo di omofobia che governa i loro discorsi.
Preferiamo una posizione di dignità (perché fondata sul principio di
universalità della regola di diritto), di saggezza (talvolta il diritto serve a
prendere atto di una evoluzione che il Paese ha già voluto e compiuto) e di
fiducia nell’avvenire (chissà se non toccherà ai gay sposati, non di
impoverire, ma di arricchire le arti di amare e di vivere di una società alla
quale, da mezzo secolo, hanno già dato tanto?).
Possa il legislatore decidere serenamente e senza cedere alla pressione delle
piazze né all’intimidazione dei falsi sapienti: è in gioco, in effetti, ma non
nel senso che ci viene detto, l’avvenire di quella bella illusione che è la
convivenza democratica.
Bernard-Henry Lévy, Corriere della Sera, 11 gennaio 2013