Cgil Ires: economia e lavoro 2013 in Emilia-Romagna
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Transcript of Cgil Ires: economia e lavoro 2013 in Emilia-Romagna
Osservatorio dell’Economia
e del Lavoro
in Emilia-Romagna A cura di
Ires Emilia-Romagna
Presidente: Cesare Minghini
Coordinatore progetto: Davide Dazzi
Responsabile banche dati: Carlo Fontani
Gruppo di lavoro: Roberto Buonamici, Davide Dazzi,
Gianluca De Angelis, Daniele Dieci, Tiziano Draghetti, Carlo
Fontani, Daniela Freddi, Luigi Luccarini, Florinda Rinaldini,
Giulia Rossi, Marco Sassatelli, Marco Trentini, Valerio
Vanelli.
SOMMARIO
La demografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2
Attrattività e dotazione infrastrutturale economica e
sociale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3
Struttura produttiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4
Le imprese nella Regione Emilia-Romagna......................4
Un territorio vario, dei confini da ripensare:
l’aggiornamento dell’analisi cluster .................................5
Le trasformazioni del sistema produttivo........................6
Tematiche ambientali ed energetiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7
Il lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8
Occupati e persone in cerca di occupazione in Emilia-
Romagna .............................................................................8
Il lavoro parasubordinato in Emilia-Romagna.................9
Gli sbocchi professionali dei laureati: evidenze
dall’Indagine Almalaurea ................................................10
Le comunicazioni obbligatorie: un’analisi di flusso ......10
Avviamenti e legge Fornero.............................................10
Cessazioni e legge Fornero ..............................................11
Ammortizzatori sociali e malessere occupazionale . . . . . . . .11
Un copertura in deroga e in trasformazione .................11
Indicatori di malessere occupazionale ...........................12
Welfare e reddito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12
Condizione economica: tra dati soggettivi e oggettivi .12
I differenziali retributivi ...................................................13
Istruzione: una domanda sempre più straniera ............13
Pensioni .............................................................................13
Indicatori di povertà e vulnerabilità sociale nel BES .....14
Obiettivi L’osservatorio dell’Economia e del Lavoro in Emilia-Romagna si propone di offrire strumenti di analisi e strumenti di lettura delle dinamiche che hanno attraversato il territorio regionale negli ultimi anni e di piegare le scelte tematiche per rispondere alle necessità sindacali. Sul piano analitico si insiste nella proposizione di
strumenti che sappiano restituire una mappatura delle
similarità e differenze territoriali nella convinzione che la
regione non sia un unico soggetto territoriale ma la
composizione di aree produttive, demografiche e sociali
tra loro molto diverse.
Diversamente dagli Osservatori costruiti insieme alle
diverse Camere del Lavoro dell’Emilia-Romagna,
l’Osservatorio regionale vuole uscire da una stretta logica
congiunturale piegata sulla urgenza dell’ultimo dato
disponibile e si propone di aprire riflessioni, sviluppare
linee interpretative e lanciare chiavi di lettura per poter
cogliere la complessità di un territorio in trasformazione.
L’analisi si focalizzerà senza dubbio sulla crisi ma non solo.
Esistono ancora strozzature strutturali sul piano sociale ed
economico che la crisi ha solo palesato in tutta la sua
evidenza ma non ne è la causa primaria. Le differenze di
genere, il confronto con le generazioni, un sistema
produttivo in trasformazione e la persistenza delle
disuguaglianze insieme ad un aumento della fragilità
sociale sono tutti elementi su cui la crisi ha posto una
accelerazione ma che dalla crisi non hanno origine. Per la
prima volta viene inserito nell’Osservatorio un capitolo
interamente dedicato alle politiche ambientali e alla
sostenibilità nella convinzione che qualsiasi idea di
sviluppo economico non possa prescindere da queste
tematiche. Altro approfondimento tematico introdotto per
la prima volta nel nostro Osservatorio è quello dedicato al
welfare con un focus sulle pensioni, sull’istruzione e sugli
indici di povertà e vulnerabilità sociale.
La possibilità di leggere in forma sistematica una ampia
serie di banche dati (Istat, INPS, Siler, Movimprese,
Unioncamere, Banca d’Italia ecc…) consente di mettere in
relazione le diverse dinamiche economico-sociali che
attraversano la nostra regione dandone una lettura nuova
e propositiva. Allo stesso tempo l’utilizzo ragionato delle
diverse fonti informative fornisce una base di conoscenza
su cui la stessa Cgil, come organizzazione sociale di
rappresentanza e come attore negoziale, può calibrare e
orientare opportunamente le proprie politiche sindacali.
2
La demografia La popolazione residente in Emilia-Romagna al 1° gennaio
2012 (ultimo dato disponibile) ammonta a 4.459.246
persone. Essa ha continuato a crescere anche negli ultimi
sei anni (+5,6%) ed altresì nell’ultimo biennio (+0,6%).
L’aumento è più marcato di quello medio nazionale.
L’espansione della popolazione nel periodo 2007-2012 ha
riguardato quasi tutte le province della regione: unica
variazione di segno negativo è quella – di appena 308
unità – della provincia di Ferrara nell’ultimo biennio. Gli
incrementi più consistenti hanno riguardato le province di
Reggio Emilia (+6,5% fra il 2007 e il 2012), Parma (+6,0%) e
Rimini (+12,9%, +6,8% se si esclude l’Alta Valmarecchia).
Si registra un aumento più marcato per le zone collinari
(+6,0%) e di pianura (+5,6%) e uno decisamente meno
significativo per la montagna (+2,3%), in decremento
nell’ultimo biennio (-0,4%), specie nelle province di
Piacenza e Parma.
La crescita ha riguardato meno le aree urbane e i
capoluoghi di provincia (+4,3%) e maggiormente i comuni
non capoluogo (+6,3%), grazie soprattutto all’espansione
della prima e seconda cintura urbana (ciò non si verifica
però per le province di Parma e Reggio Emilia).
L’aumento della popolazione residente è da attribuirsi
principalmente al contributo migratorio, dato che il saldo
naturale (nascite - decessi) in Emilia-Romagna è rimasto
negativo anche per tutti gli anni Duemila. I saldi migratori
totali di segno altamente positivo non sono la risultante
esclusiva dei flussi migratori dall’estero, ma anche da un
saldo migratorio interno di segno positivo.
Figura 1 - Saldi naturali e migratori (Fonte: Statistica ER)
La struttura per età della popolazione residente in Emilia-
Romagna è caratterizzata da una marcata incidenza della
componente – specie femminile – che ha superato i
settanta anni, per effetto dell’allungamento della vita
media (la vita media in Emilia-Romagna è più elevata di
quella media nazionale: 80,0 anni per gli uomini contro il
79,4 medio nazionale e 84,7 anni per le donne contro
84,5).
Mentre la popolazione complessiva, fra il 1991 e il 2012, è
cresciuta del 13,6%, quella di almeno 65 anni è aumentata
di oltre il 32%. In parallelo, però, si è avuto anche un
incremento della popolazione di meno di 15 anni,
cresciuta negli ultimi venti anni di oltre il 30%.
Ciò ha determinato la progressiva flessione, a partire dal
2001 fino al 2011, dell’indice di vecchiaia . Nell’ultimo
anno si è invece registrato un nuovo, leggero, incremento
dell’indice di vecchiaia, attestato al 1° gennaio 2012 a 168
(era pari a 165 nel 1991, a 194 nel 2001).
Valori più elevati – dunque situazioni più critiche – si
ravvisano per Ferrara (232,5) ed anche Piacenza (188,8),
Ravenna (184,2) e Bologna (182,4).
L’indice di dipendenza totale mostra un progressivo
peggioramento: il dato regionale al 1° gennaio 2012
risulta pari a 56,1 (56 persone in età non lavorativa ogni
100 in età lavorativa), in netto incremento rispetto agli
anni Novanta (44,9 nel 1991), ma anche rispetto agli anni
più recenti (54,8 nel 2007 e a 55,2 nel 2011).
Scomponendo l’indice fra dipendenza giovanile e
dipendenza senile, si ravvisa nel periodo preso in esame un
aumento di entrambi i valori.
Si è proceduto a una ridefinizione dell’indice di
dipendenza che, da una parte, alza la fascia della
popolazione giovanile dipendente da 14 a 24 anni, sulla
base del fatto che dai dati dell’indagine Forze lavoro Istat
emerge chiaramente come il tasso di occupazione inizi ad
assumere una certa consistenza soltanto a partire dai 25
anni; dall’altra prova a tenere conto delle recenti
modifiche normative relative all’età pensionabile, fissando
il livello della dipendenza senile per gli uomini a 66 anni e
per le donne a 62 anni. Così calcolato, l’indice di
dipendenza si attesta, a livello regionale, su un valore pari
64,1. Se dunque, stando all’indice ufficiale, si stimano 56
persone in condizione di potenziale dipendenza ogni 100
potenzialmente attive, così ricalcolato l’indice segnala
oltre 64 persone dipendenti ogni 100 attive.
Il tasso di fecondità totale indica il numero medio di figli
per donna in età feconda (15-49 anni) e nel 2011 risulta
pari a 1,50 per l’Emilia-Romagna e a 1,42 per l’Italia.
Il tasso di fecondità ha raggiunto il suo valore massimo
verso la metà degli anni Sessanta (2,70) e da quel
momento ha cominciato a diminuire, fino alla metà degli
anni Novanta. Dopodiché, a livello nazionale ed emiliano-
romagnolo, si è avuto un nuovo incremento della
fecondità, in Emilia-Romagna consistente soltanto a
partire dal 2004, con un certo ritardo rispetto allo scenario
nazionale. Da quell’anno il tasso regionale risulta
superiore anche a quello medio nazionale.
L’ultimo dato disponibile – aggiornato al 1° gennaio 2012
– indica un’incidenza di cittadini stranieri residenti (Fig. 2)
sul totale della popolazione residente in Emilia-Romagna
pari a 11,9%, a fronte di un dato medio nazionale inferiore
all’8%.
Figura 2 - Residenti stranieri (Fonte: Statistica ER)
Il dato emiliano-romagnolo è il più alto fra le regioni italiane. La crescita del tasso non accenna a fermarsi,
3
anche se si deve sottolineare un certo rallentamento nell’ultimo triennio. Rispetto all’incidenza media regionale, si registrano tassi
più elevati, nell’ordine, nelle province di Piacenza (14,1%),
Reggio Emilia (13,5%), Modena (13,4%) e Parma (13,1%).
Tre comuni hanno superato il tasso di incidenza dei
residenti stranieri del 20%: Galeata (Fc), con il 22,5%,
Luzzara (Re), con il 21,6% e Castel San Giovanni (Pc), con il
21,3%.
Nel periodo 2007-2012 le zone montane sono quelle che,
in generale, hanno registrato gli incrementi più contenuti
di residenti stranieri: +54,3%, a fronte del +65,3% delle
zone collinari e del +67,8% della pianura. Nei comuni
capoluogo la crescita dei residenti stranieri è stata
superiore al 68% a fronte del +65,7% dei comuni non
capoluogo. Parallelamente nei primi la popolazione con
cittadinanza italiana è diminuita (-1,6%), mentre nei
comuni non capoluogo è aumentata (+1,8%).
Gli oltre 530mila cittadini stranieri residenti in regione al
1° gennaio 2012 appartengono a 172 paesi differenti.
Il paese di cittadinanza più numerosa risulta, nel 2012
come per tutti gli anni presi in esame, il Marocco (quasi
14% degli stranieri residenti in regione). Segue, assai
ravvicinato, la Romania. Al terzo posto si conferma
l’Albania. Questi primi tre paesi di cittadinanza
costituiscono quasi il 40% del totale dei cittadini stranieri
residenti in regione.
Oltre alla Romania, l’altro paese che ha registrato un
incremento particolarmente significativo in questi ultimi
anni è la Moldova (+200% fra il 2007 e il 2012), divenuta la
quarta comunità più numerosa in regione. Anche l’Ucraina
ha mostrato un’espansione considerevole (+102,5%).
Proprio le comunità moldove e ucraine – a netta
prevalenza femminile – sono fra quelle che mostrano una
più spiccata tendenza all’urbanizzazione, insieme alla
Cina.
Indicatore di un fenomeno migratorio ormai stabile è la
crescente rilevanza delle acquisizioni di cittadinanza: il
numero di cittadini stranieri che ha acquisito la
cittadinanza in Emilia-Romagna è passato dai circa 4.300
casi del 2006 ai quasi 8mila del 2010.
Si è considerato anche il Censimento sulla popolazione e le
abitazioni dell’Istat. Dopo un’espansione ininterrotta fino
al 1981, con di fatto un raddoppio della popolazione
censita come residente in Emilia-Romagna, è seguito un
leggero calo rilevato dal censimento del 1991, compensato
tuttavia da una minima ripresa nel 2001. Con la
rilevazione del 2011 si evidenzia una nuova crescita
demografica rispetto al 2001, con un incremento
dell’8,5%, il più alto in termini relativi fra le regioni
italiane, dopo il Trentino-Alto Adige.
La popolazione dell’Emilia-Romagna risulta concentrata
per quasi il 42% del totale nei tredici comuni maggiori
(oltre 50mila abitanti).
Nel decennio intercensuario la popolazione di cittadinanza
italiana residente in Emilia-Romagna è aumentata appena
dello 0,6% e dunque l’incremento è quasi esclusivamente
attribuibile alla crescita della popolazione con cittadinanza
straniera (oltre 316mila residenti in più, pari a un aumento
del 232,5%).
Attrattività e dotazione infrastrutturale
economica e sociale
L’Emilia-Romagna mostra un elevato grado di dotazione
infrastrutturale economica e sociale. I buoni risultati della
regione riguardano innanzitutto le infrastrutture per la
mobilità, principalmente grazie alla rete stradale e
ferroviaria. Un’altra dimensione con risultati altamente
soddisfacenti per la regione Emilia-Romagna è quella
relativa alla dotazione di impianti e di reti energetiche. Superiore alla media nazionale risulta poi l’indice relativo
alle cosiddette «infrastrutture sociali». In particolare si
notano valori superiori alla media nazionale per quanto
riguarda le strutture culturali, ricreative e sanitarie.
Si deve poi sottolineare la presenza e l’attrattività degli
atenei emiliano-romagnoli, ossia, in ordine per numero di
iscritti, Bologna (e relativi poli della Romagna), Parma,
Modena e Reggio Emilia, Ferrara ed anche le sedi di
Piacenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e del
Politecnico di Milano. Gli iscritti a questi atenei sono oltre
150mila; nell’anno solare 2011 sono stati più di 26mila i
laureati.
Gli atenei emiliano-romagnoli sono, in Italia, fra quelli
maggiormente in grado di attirare studenti residenti in
altre regioni: da un lato, quasi il 40% degli immatricolati
dell’anno accademico 2009/2010 presso università
emiliano-romagnole è costituito da residenti in altre
regioni, contro il 21% circa medio nazionale. Dall’altro lato,
gli studenti universitari emiliano-romagnoli tendono ad
avere una limitata mobilità territoriale, inferiore alla
media nazionale: per l’anno accademico 2009/2010,
infatti, si sono immatricolati in una regione diversa da
quella di residenza oltre il 20% degli studenti italiani e
meno dell’11% di quelli emiliano-romagnoli.
L’Emilia-Romagna si posiziona ai primi posti fra le regioni
italiane per dotazione di capitale sociale (così come
rilevato da Putnam, Cartocci, ecc.) ed anche per dotazione
di capitale territoriale (RegiosS). A segnalare la capacità
attrattiva dell’Emilia-Romagna, si può segnalare che il
saldo tra investimenti e disinvestimenti diretti esteri (IDE),
ad eccezione del 2009, è sempre stato positivo tra il 2008 e
il 2011, con una considerevole crescita nell’ultimo biennio.
Tabella 1 - Indici di dotazione di infrastrutture e di infrastrutture sociali per regione Emilia-Romagna (Italia=100)
2001 2009 2011
Infrastrutture per la mobilità
- strade 113 120 121
- ferrovie 131 145 146
- porti 124 130 145
- aeroporti 80 77 78
Dotazione impianti e reti energetico-ambientali 132 134 136
Dotazione strutture/reti telefonia e telematica - 96 97
Dotazione reti bancarie e servizi 119 116 117
Indice infrastrutture economiche 114 117 120
Strutture per l’istruzione 103 98 99
Strutture sanitarie 76 108 107
Strutture culturali e ricreative 134 111 106
Indice infrastrutture sociali 104 106 104
Indice generale totale 111 114 115
4
Struttura produttiva
Le imprese nella Regione Emilia-Romagna
In Emilia-Romagna alla fine del 2012 erano iscritte alla
Camera di Commercio 424.213 imprese attive, pari
all’8,1% del totale italiano . Il numero complessivo delle
imprese in Emilia-Romagna è passato da poco più di
400.000 nel 1998 a quasi 432.000 nel 2008, anno in cui ha
raggiunto un picco, per poi iniziare, nei quattro anni
successivi, un progressivo calo.
Figura 3 - Imprese attive in Emilia-Romagna, dinamica valore assoluto e tasso di crescita, 1998-2012 (Fonte: Movimprese)
Come avevamo già messo in luce nell’Osservatorio
precedente, l’Emilia-Romagna è la quinta regione italiana
per numero di imprese attive, dopo Lombardia, Campania,
Lazio e Veneto. Gli anni della crisi economica, ovvero dal
2008 al 2012 (ultimi dati disponibili), sebbene abbiano
avuto pesanti ripercussioni sul numero delle imprese
attive in tutte le regioni italiane, non hanno modificato la
posizione relativa dell’Emilia-Romagna.
Durante gli anni della crisi le società d i capitale hanno
continuato a crescere in modo costante raggiungendo nel
2012 quota 78.785. Le società di persone invece, che
presentavano un trend in crescita nel lungo periodo,
segnalano una contrazione tra il 2008 e il 2012, con una
riduzione di circa 3.500 unità. Diversamente, le ditte
individuali presentavano un trend decrescente nel lungo
periodo, ad eccezione di una crescita avvenuta tra il 2004 e
il 2005, che si è confermato tra il 2008 e il 2012.
I settori che durante la crisi economica, tra il 2009 e il
2012, hanno registrato contrazioni maggiori della
numerosità d’impresa nella regione Emilia-Romagna sono
il Settore Primario (-4.205, -6%), le Costruzioni (-2.060, -
2,7%) e Trasporto e Magazzinaggio (-1.081, -6,5%). In
generale la contrazione della numerosità d’impresa si
concentra soprattutto nell’Industria mentre i Servizi, nei
primi anni della crisi, hanno sperimentato un aumento del
numero delle imprese attive.
Tra il 2011 e il 2012, ovvero nell’ultimo anno per il quale
sono disponibili i dati, il calo complessivo è stato molto
significativo, basti considerare che in un solo anno si sono
perse più imprese che negli anni tra il 2009 e il 2011. Per
molti settori è proprio l’anno 2012 che fa segnare la
caduta maggiore: le Costruzioni perdono oltre 1.500
imprese (-2%), l’Industria in senso stretto ne perde quasi
1.000 e ad essere maggiormente colpiti sono i settori del
Tessile-Abbigliamento e quello della Metallurgia . Anche
l’ampio settore dei Sevizi, tra il 2011 e 2012 fa segnare
una contrazione del numero delle imprese, laddove negli
anni precedenti si era registrato un aumento. Nell’ambito
di questo settore è soprattutto il comparto del Commercio,
sia all’ingrosso che al dettaglio, a perdere un numero
elevato di imprese (oltre 800), ma anche quello del
Trasporto e Magazzinaggio che prosegue il calo registrato
nei primi anni della crisi.
Durante gli anni della crisi, tra il 2009 e il 2012, si sono
perse 4.561 imprese artigiane in Emilia-Romagna. Essendo
il calo delle imprese artigiane decisamente superiore a
quello del totale delle imprese, si evince come la
diminuzione delle imprese total i sia stata fortemente
trainata dall’andamento negativo del comparto artigiano.
Tale andamento si è confermato anche nel corso
dell’ultimo anno in analisi, tra il 2011 e il 2012, dove sono
state chiuse quasi 2.500 attività.
La crisi economica ha avuto un impatto sul tessuto
produttivo di tutte le province emiliano-romagnole. Nel
2008, anno in cui la crisi si è manifestata nell’ultimo
trimestre, la quasi totalità delle province, ad eccezione di
Reggio Emilia e Forlì-Cesena, registrava ancora una
crescita delle imprese attive, particolarmente spiccata a
Piacenza e Parma (+1,6% in entrambe le province). La
perdita di imprese attive durante il 2009 è stata maggiore
a Ferrara e Reggio Emilia, pari a -1,5% rispetto all’anno
precedente e più contenuta a Rimini (-0,2%). Nel 2010 e
2011, anni che hanno visto un moderato attenuarsi della
crisi, a mostrare tuttavia una dinamica positiva del tessuto
imprenditoriale sono nel 2010 solo Bologna e Piacenza,
che registrano rispettivamente un +0,1% e un +0,2%, e nel
2011 Modena, Piacenza e Rimini (rispettivamente +0,6%,
+0,1% e +0,6%). L’anno 2012, che ha portato ad una nuova
acutizzazione della crisi economica, ha generato un calo
delle imprese attive che in alcune province si è dimostrato
di intensità superiore persino a quello del 2009. Sebbene il
calo tenda ad essere generalizzato, la provincia di Piacenza
è quella che ha registrato la contrazione maggiore, pari a
quasi -2,5%, seguita da Forlì-Cesena (-1,7%), Ravenna e
Reggio Emilia (entrambe -1,4%).
Figura 4 - Imprese attive, periodo 2008-2012, province dell’Emilia-Romagna, variazione % su anno precedente (Fonte: Movimprese)
Nel complesso l’analisi delle variazioni della numerosità
d’impresa, ha evidenziato che la crisi economica ha avuto
un impatto piuttosto trasversale e solo limitatamente
differenziato per settore e per territorio. Tendenzialmente
si confermano le linee già tracciate nel precedente
385.000
390.000
395.000
400.000
405.000
410.000
415.000
420.000
425.000
430.000
435.000
1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012
Imp
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o d
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sc
ita
(%
)
Imprese attive Tasso di crescita
5
Osservatorio regionale: sono le imprese di minori
dimensioni ad essere state maggiormente colpite e
prevalentemente nei settori della Manifattura e delle
Costruzioni. All’interno della Manifattura, anche
nell’ultimo anno analizzato, i comparti maggiormente
interessati da contrazioni del numero di imprese hanno
continuato ad essere quelli della Metallurgia e del Tessile-
Abbigliamento.
L’elemento di novità, nell’anno 2012, è rappresentato dal
comparto dei Servizi, che segna un’inversione di tendenza
rispetto ai primi anni della crisi. Se questo settore infatti
sembrava resistere o in alcuni casi anche sperimentare
un’espansione all’inizio del periodo di contrazione
economica, nell’ultimo anno analizzato mostra anch’esso
gravi ripercussioni. A trainare questo cambiamento, come
abbiamo visto, è stato in particolare il comparto del
Commercio.
Il 2012 in sostanza, considerando il proseguimento dello
stato critico dei settori già in difficoltà, al quale si è unita
l’entrata in crisi anche del settore dei Servizi, ha
rappresentato dal punto di vista della consistenza del
tessuto imprenditoriale un anno in cui la crisi economica
ha vissuto un significativo peggioramento. A livello
territoriale l’impatto sulla numerosità d’impresa è molto
diffuso e con limitate concentrazioni, differenti a seconda
del settore in analisi, ma non sfugge tuttavia che, dal
punto di vista dell’andamento del numero delle imprese il
territorio che nel 2012 ha subito maggiori ripercussioni è
quello di Piacenza.
Un territorio vario, dei confini da ripensare:
l’aggiornamento dell’analisi cluster
Nella precedente edizione dell’Osservatorio regionale era
stata proposta una nuova modalità di classificazione e
riaggregazione dei vari ambiti territoriali della regione,
intrecciando variabili economiche e demografiche di
natura strutturale. A tal fine si era proceduto ad una
scomposizione del territorio regionale per comune e ad
una successiva riaggregazione degli stessi sulla base di tre
criteri principali: la copertura del mercato del lavoro locale,
ovvero la capacità di risposta della domanda di lavoro
locale all’offerta di lavoro, la terziarizzazione, ovvero il
peso dei servizi sulla occupazione totale, e la dimensione
media di impresa. La metodologia della cluster analysis
aveva restituito 4 possibili raggruppamenti di comuni con
“somiglianze” nelle tre variabili considerate, che qui
ricordiamo:
Cluster 1 - comuni a vocazione industriale e alta domanda
di lavoro. I comuni qui aggregati presentano un profilo
prevalentemente manifatturiero: oltre i 3/4 degli addetti
sono occupati in attività industriali. È il gruppo con il
maggior grado di industrializzazione della occupazione e
dove le unità locali presentano una dimensione superiore
alla media complessiva ma inferiore rispetto all’altro
cluster a prevalenza industriale (cluster 2). In termini di
copertura del mercato del lavoro, questo raggruppamento
di comuni si distingue per un rapporto addetti/persone in
età attiva superiore alla media ma comunque al di sotto
del cluster 2 e 4. Il cluster 1 raccoglieva nel 2011 il 34% dei
comuni dell’Emilia-Romagna
Cluster 2 - comuni industriali attrattivi . I comuni che
appartengono a questo raggruppamento sono quelli con
la maggiore copertura del mercato del lavoro (il rapporto
addetti/persone in età attiva è superiore al 100%), ovvero
attraggono forza lavoro anche al di fuori della popolazione
attiva residente. Le unità locali presentano la dimensione
media più alta e l’occupazione è principalmente
concentrata nella attività industriali. Il cluster 2
raccoglieva nel 2011 il 3,2% dei comuni dell’Emilia-
Romagna.
Cluster 3 - comuni non specializzati a bassa domanda di
lavoro. I comuni che appartengono a questo
raggruppamento mostrano un grado di terziarizzazione al
50%, ovvero una posizione di equilibrio tra occupazione
industriale e occupazione nei servizi. Le unità locali di
questi comuni presentano la dimensione media più bassa
in un confronto tra i gruppi e, conseguentemente,
inferiore al valore medio. Oltre alla dimensione media più
bassa, il cluster 3 raccoglie i comuni con la minore
copertura del mercato del lavoro. Il cluster 3 raccoglieva
nel 2011 il 48% dei comuni in Emilia-Romagna.
Cluster 4 - comuni ad alta terziarizzazione ed alta
domanda di lavoro. I comuni in questo cluster presentano
il più alto tasso di terziarizzazione, ovvero circa i 2/3 degli
addetti lavora nel settore dei servizi. Le unità locali hanno
una dimensione in linea con il valore medio e quindi
inferiore ai cluster di più spiccata vocazione industriale ma
superiore all’altro cluster a più alta terziarizzazione
(cluster 3). Il grado di copertura del mercato del lavoro è
più alto del valore medio complessivo e colloca il cluster in
una posizione intermedia tra i due raggruppamenti a
maggiore vocazione industriale. Il cluster 4 raccoglieva nel
2011 il 14% dei comuni in Emilia-Romagna.
Figura 5 - La distribuzione dei 4 cluster in Emilia-Romagna (dati 2010)
L’analisi presente nella precedente edizione
dell’Osservatorio, realizzata con i dati al 2007, è stata
aggiornata e nuovamente condotta con dati al 2010
(ultimi disponibili su base comunale). Confrontando i
valori centrali delle variabili analizzate per i 4 cluster
realizzati con dati al 2007 con quelli al 2010, si evidenzia
che non si sono verificati, come era giustificato attendersi,
cambiamenti radicali nel lasso di tempo esaminato.
Trattandosi di variabili strutturali infatti, occorrono periodi
maggiori di tempo per evidenziare mutamenti profondi.
Tuttavia, essendo stato l’intervallo 2007-2010 toccato da
eventi legati alla crisi economica, alcune trasformazioni
risultano comunque evidenti. Il mutamento principale che
emerge riguarda i cluster a predominanza industriale,
ovvero l’1 e il 2. In particolare si nota che in entrambi il
6
calo registrato nell’occupazione tra il 2007 e il 2010 ha
abbassato il dato relativo alla copertura del mercato del
lavoro.
I comuni industriali attrattivi dunque divengono molto
meno capaci di attrarre forza lavoro extra-comunale, come
invece avveniva nel 2007. Rimangono certamente a
matrice industriale e a forte domanda di lavoro, tuttavia
perdono in parte quelle caratteristiche di attrattività che li
contraddistinguevano in precedenza. Simile mutamento
ha attraversato il cluster 1 che registra nella nuova analisi
un più elevato livello di terziarizzazione, dovuto
probabilmente al calo dell’occupazione manifatturiera.
Ricordiamo che gli anni 2009 e 2010, ovvero i primi
dell’attuale crisi economica hanno avuto ripercussioni
prevalentemente sul settore della manifattura, per questa
ragione sono i cluster “industriali” ad aver avvertito
maggiormente i mutamenti.
Oltre ad una variazione dei valori centrali delle variabili dei
diversi cluster, si è verificata anche una migrazione di
alcuni comuni da un cluster ad un altro. In particolare, il
cluster 1 (comuni a vocazione industriale e alta domanda
di lavoro) passa da 118 comuni a 144 e il cluster 2 (comuni
industriali attrattivi) da 11 a 24, registrando entrambi un
incremento dei comuni ad essi appartenenti.
Diversamente sia il cluster 3 (comuni non specializzati a
bassa domanda di lavoro) che il 4 (comuni ad alta
terziarizzazione ed alta domanda di lavoro) vedono un
decremento del numero dei comuni a loro afferenti. La
migrazione più consistente ha toccato circa una trentina di
comuni che hanno “lasciato” il cluster 3 per spostarsi
prevalentemente in quello che raccoglie quelli a vocazione
industriale e alta domanda di lavoro (cluster 1). La seconda
maggiore migrazione ha riguardato comuni che erano già
a vocazione industriale (cluster 1) m a che hanno
aumentato la loro attrattività e sono entrati nel gruppo
dei comuni industriali attrattivi. Questi trasferimenti sono
a nostro avviso spiegati dalla perdita di attrattività e, in
generale, dall’abbassamento delle peculiarità dei comuni
dei cluster a vocazione industriale. Come evidenziato in
precedenza, la crisi economica ha indebolito i caratteri
manifatturieri di questi comuni, rendendoli, in qualche
modo, più “simili” ad altri, consentendo l’entrata nei
cluster di comuni che nel 2007 non avevano le
caratteristiche per farvi parte. Di conseguenza le
migrazioni avvenute non sono tanto da attribuire a
trasformazioni avute luogo nella struttura produttiva dei
comuni migranti, quanto ad un indebolimento strutturale
di quelli a forte matrice industriale.
Le trasfor mazioni del sistema produttivo
L’analisi sulla distribuzione di valore all’interno del sistema
economico regionale ha consentito di precisare i contenuti
del processo di trasformazione in atto del sistema
produttivo regionale.
L’analisi è stata condotta utilizzando tre tecniche distinte:
l’analisi intersettoriale dell’economia regionale per
verificare le modalità e le dimensioni della generazione di
valore economico nei diversi settori di attività economica;
l’analisi per filiere produttive del sistema economico per
mettere a fuoco i fattori di cambiamento nelle logiche
strategiche delle imprese e per individuare le dinamiche
più o meno accelerate di evoluzione della capacità
competitiva del sistema economico regionale; l’analisi dei
fabbisogni occupazionali a livello territoriale per dare una
dimensione alla necessità da tutti avvertita di creare
condizioni di recupero di occasioni di lavoro e di solida
occupazione nei diversi territori che compongono la
regione.
Il sistema produttivo ha evidenziato una forte caduta nella
numerosità delle imprese, nei settori industriali e
manifatturieri in particolare. Gli unici settori della
manifattura che mostrano segni di tenuta sono quelli
legati alla meccanica strumentale. Sta crescendo un forte
sistema di imprese nel settore dei servizi energetici e delle
public utilities, stanno crescendo le imprese nei settori dei
servizi socio-sanitari, ricreativi e di servizio alle imprese
come esempio di una decisa ulteriore terziarizzazione
dell’economia regionale .
Sono al lavoro tre processi che operano congiuntamente. Il
primo è un trend consolidato che porta a ridurre il peso del
settore secondario a vantaggio del terziario, come
evoluzione del modello produttivo e sociale della regione
la cui popolazione invecchia e le cui esigenze sono legate
sempre più ai servizi alla persona, alle attività culturali e
ricreative, alle attività dell’istruzione e del welfare. Il
secondo è una progressiva dematerializzazione dei
processi di produzione manifatturieri e agricoli i cui
prodotti inglobano sempre più spesso attività immateriali
(logistica, distribuzione, marketing, finanza, ricerca,
assistenza). Il terzo, più contingente, è legato alla
ricollocazione del capitale umano espulso dai processi
produttivi che trova nel settore terziario uno sbocco
possibile anche in virtù della bassa dotazione di capitale
necessaria per avviare attività imprenditoriali nei settori
del terziario più tradizionale.
La distribuzione del valore all’interno del sistema
economico regionale mostra due fenomeni di grande
interesse: non tutta la crescita delle imprese rappresenta
un convincente sviluppo produttivo che porta con sé la
crescita contemporanea di imprese dei servizi e di valore
aggiunto terziario; per quanto il sistema produttivo
regionale cerchi di controbilanciare gli effetti negativi
della riduzione dei posti di lavoro più strutturati con nuove
iniziative imprenditoriali aumenta o gni anno il fabbisogno
di nuovi posti di lavoro sull’intero territorio regionale per
avere una situazione di equilibrio simile a quella
precedente la crisi.
Molte nuove imprese operano in settori in cui esiste una
straordinaria debolezza nel generare valore aggiunto e
sostenibilità economica alle attività d’impresa. Circa
15.000 nuove imprese nei settori dei servizi alla persona,
nei servizi associativi, nei settori dei servizi alle imprese
sono forme di autoimpiego dalle prospettive incerte.
Complessivamente, il fabbisogno di nuovi posti di lavoro
generato dalla crisi a livello regionale ha raggiunto il
livello di circa 150.000 unità.
7
L’analisi sembra suggerire che il sistema sta diventando
meno elastico e sensibile alle sollecitazioni esterne, vale a
dire che gli aumenti eventuali di domanda e le iniezioni di
sollecitazioni per gli investimenti sono in grado di
produrre effetti di crescita economica molto più blandi che
in passato. Pertanto, a condizioni strutturali date, sarà
necessario immettere maggiori risorse di investimento per
recuperare le condizioni di equilibrio produttivo e
occupazionale del periodo precedente la crisi. Inoltre, i dati
mostrano che il percorso di ridefinizione della
specializzazione economico-produttiva i cui segnali si
iniziavano a intravvedere nel 2010 è ulteriormente
avanzato e approfondito, assumendo una dimensione
molto ampia.
Nel corso del periodo 2010-2012 si è assistito ad una
accelerazione del processo di trasformazione del modello
produttivo regionale con un significativo cambiamento
nelle relazioni interne alle filiere produttive principali. Il
2010 può essere considerato il vero spartiacque della crisi,
l’anno in cui sono state prese le decisioni più importanti e
pregnanti sul futuro assetto che dovrà avere il sistema
produttivo della regione. Si è ulteriormente precisata la
tendenza alla terziarizzazione delle attività di produzione
e dell’organizzazione delle principali filiere dell’economia
regionale. È emerso che alcuni settori di grande successo,
come quello della distribuzione dell’energia e della
gestione delle public utilities stiano intercettando quote
crescenti di valore prodotto all’interno delle filiere a
scapito della destinazione di tale valore per attività
effettivamente in grado di essere generatori di valore.
Il settore dei servizi alle imprese emerge dal processo di
riorganizzazione come il fulcro del nuovo posizionamento
competitivo . Si tratta di una risorsa strategica per il
rafforzamento del posizionamento competitivo nelle
filiere della meccanica, dove il settore dei prodotti in
metallo ha perso quote importanti di valore generato dai
settori a valle della meccanica strumentale e dei mezzi di
trasporto, proprio a vantaggio del settore dei servizi.
Assume un ruolo centrale nella filiera della moda, assieme
al settore del commercio che rappresenta la nuova
prospettiva di supporto a strategie di affermazione di
marchi proprietari. Assume un ruolo chiave nella filiera
delle costruzioni e dei materiali da costruzione, che sta
andando alla ricerca di una nuova specializzazione più
“immateriale”, in grado di coniugare la capacità
progettuale con una capacità tecnologica che permetta
alle imprese di offrire al mercato soluzioni innovative,
piuttosto che semplici prodotti. Assume infine una
funzione strategica anche per quanto riguarda i tentativi
di innovazione del sistema finanziario regionale, che ha
avviato negli ultimi due anni un significativo
trasferimento di valore verso imprese che operano nel
settore dei servizi alle imprese per trovare un miglior
raccordo fra le dinamiche del settore finanziario e le
esigenze del sistema economico regionale.
Tematiche ambientali ed energetiche
Per la prima volta, l’Osservatorio introduce un’analisi delle
tematiche ambientali ed energetiche ponendo a confronto
i dati relativi alle d iverse matrici ambientali : aria, acqua,
rifiuti, clima, energia e trasporti.
I dati disponibili per le diverse matrici energetico/
ambientali, confermano che l’Emilia-Romagna, sia nella
fase pre-crisi che in quella tuttora perdurante della crisi,
rimane, nel quadro nazionale, una regione ad elevato
consumo di risorse, materiali, ambientali ed energetiche,
con generalmente, allo stesso tempo, un buon livello di
efficienza nel loro uso.
Nel corso degli anni vi sono state evoluzioni e
cambiamenti, ma mai tali da modificare sostanzialmente
questa situazione, anche quando sono divenute prevalenti
le politiche di uso razionale delle risorse; negli anni 90 e
2000 la regione ha seguito, nella maggior parte dei casi, le
traiettorie medie nazionali, che essendo spesso
contrassegnate, come noto, da un passivo adeguamento
alle politiche e agli obblighi definiti in sede UE, sono state
peggiori di quelle realizzate dai paesi europei più avanzati;
in definitiva la Regione poteva sfruttare meglio i maggiori
margini di risparmio di risorse derivanti dai più elevati
livelli di consumo e le opportunità che potevano derivarne
sul piano industriale ed occupazionale.
In realtà la situazione nazionale, come quella regionale,
appaiono abbastanza variegate, con risultati positivi in
quei settori dove sono state messe in atto politiche
fortemente proattive; ad esempio in campo energetico
sono stati raggiunti buoni risultati in termini di
differenziazione delle fonti, con il maggior uso del metano
soprattutto per la produzione elettrica, di sviluppo delle
fonti rinnovabili e di uso più efficiente dell’energia nel
campo residenziale ed industriale, grazie alla
incentivazione delle ristrutturazioni edilizie ed ai certificati
bianchi. Mancano invece risultati soprattutto nel campo
dei trasporti e dei servizi .
Nella fase di crisi, consumo di risorse ed impatti calano in
tutti i settori, rendendo del tutto alla portata gli obiettivi
definiti nel periodo pre-crisi, con il rischio, come già
mostrano alcuni indicatori, di un rallentamento degli
investimenti in campo energetico/ambientale . La crisi
spinge dunque a ricollocare i temi della sostenibilità e
della Green Economy in una dimensione più generale, in
stretto rapporto con le politiche di rilancio
dell’occupazione; servono a questo fine scelte ed indirizzi
nazionali, ma la Regione Emilia-Romagna ha in questo
momento condizioni particolari, soprattutto per quanto
riguarda la ricostruzione post terremoto, che le possono
permettere di assumere anche in proprio alcune iniziative
di rilievo.
Può essere, ad esempio, realistica la promozione di un
piano per la Green Economy il più possibile trasversale,
che definisca, in linea con quanto proposto in sede
nazionale dagli Stati Generali della Green Economy,
un’ottica unitaria ed integrata di intervento; in questo
8
caso divengono settori strategici di intervento l’eco-
innovazione, l’efficienza e il risparmio energetico, lo
sviluppo delle fonti rinnovabili, gli usi efficienti delle
risorse, la prevenzione ed il riciclo dei rifiuti, le filiere
agricole di qualità ecologica, la mobilità sostenibile. Un
primo passo in questa direzione potrebbe essere una
rivisitazione dei diversi piani settoriali in campo
energetico/ambientale, con un adeguamento degli
obiettivi precedentemente definiti per il 2020 e anni
successivi, anticipando peraltro una tendenza che si sta già
manifestando a livello europeo e soprattutto facendo in
modo che questi obiettivi tornino a fungere da reale
stimolo per processi di innovazione tanto impegnativi,
quanto efficaci.
Un simile approccio appare poi particolarmente
rispondente al tema della ricostruzione nelle aree del
terremoto, per le quali si offre, in mezzo alle molte
emergenze e difficoltà, una duplice opportunità: da un
lato, la necessità/possibilità di intervenire su diversi ambiti
ma in modo integrato, potendo fra l’altro risistemare nel
territorio le principali infrastrutture, dall’altro, una
disponibilità di risorse per la realizzazione di interventi
concentrati nel tempo. Vi sarebbero quindi le condizioni
per sperimentare modelli di intervento ed anche di
soluzione, che potrebbero fungere poi da riferimento per
la riproposizione in altre aree della regione.
Il lavoro
Occupati e persone in cerca di occupazione in Emilia -
Romagna
La fase recessiva che ha caratterizzato nel 2012 l’economia
regionale ha inevitabilmente inciso negativamente anche
sul mercato del lavoro e, in particolar modo, sulle fasce più
deboli della popolazione. Il peggioramento del quadro
congiunturale, a cui si sono aggiunti gli effetti dello sciame
sismico che ha colpito le province di Bologna, Ferrara,
Modena e Reggio Emilia nel maggio 2012, ha portato
infatti ad un’ulteriore distruzione di posti di lavoro in
regione e, in base alle stime più recenti di Prometeia e
Unioncamere, bisognerà attendere il 2014 per
un’inversione di tendenza.
Nel 2012 le forze di lavoro sono aumentate del 2% rispetto
all’anno precedente. Tale incremento, in parte
riconducibile alle dinamiche demografiche, è
indubbiamente legato ad un’inversione di tendenza
dell’andamento del tasso di partecipazione che tra il 2009
e il 2011 era progressivamente calato per via del
cosiddetto fenomeno dello scoraggiamento. Nel 2012
l’Emilia-Romagna ha registrato un tasso di attività pari a
72,8% (79,1% fra gli uomini e 66,6% fra le donne), in
crescita di poco più di un punto percentuale rispetto
all’anno precedente. Si tratta del valore più elevato fra le
regioni italiane e leggermente superiore anche rispetto
alla media UE27 (71,7% nel 2012), seppur al di sotto del
tasso registrato dalle regioni “forti”.
Per quanto riguarda l’o ccupazione, il numero di occupati è
rimasto sostanzialmente stabile rispetto all’anno
precedente (+0,51%) ed è stato trainato dalla componente
femminile, mentre gli uomini hanno registrato una
riduzione tendenziale dell’occupazione pari al 2,4%.
Il 2012 è stato caratterizzato da un aggravamento della
disoccupazione e si è chiuso con un tasso di
disoccupazione complessivo pari al 7,1%, rispetto al 5,3%
del 2011 e nettamente superiore al 3,2% registrato nel
2008. Come per il dato sugli occupati, risulta
maggiormente colpita la componente maschile che
registra una crescita del tasso di disoccupazione di quasi 2
punti percentuali, mentre fra le donne l’incremento è pari
a 1,6 punti. È ragionevole ipotizzare che questo dato, in
controtendenza con quanto rilevato negli anni precedenti,
sia imputabile agli effetti del sisma che ha portato alla
sospensione della produzione in molte aziende
dell’industria in senso stretto, dove tradizionalmente
prevale l’occupazione maschile.
Quando si osservano i dati disaggregati per età, si nota che
la moderata crescita dell’occupazione registrata nel 2012
ha riguardato di fatto le persone con età compresa fra i 55
e i 64 anni, che sono aumentati del 7,6% rispetto al 2011, a
fronte di una diminuzione registrata fra i più giovani. Tra i
giovani fra i 15 e i 24 anni infatti l’occupazione è calata del
2,4% ed ha interessato sia i lavoratori dipendenti sia gli
autonomi, per questi ultimi peraltro la flessione è stata del
7,7%. Nel 2012 il tasso di disoccupazione dei giovani fra i
9
15 e i 24 anni si è attestato al 26,4% e scende al 17,4% se si
allarga alla fascia di età 15-29 anni. Pur trattandosi di
valori inferiori rispetto alla media nazionale (nello stesso
anno in Italia il tasso di disoccupazione giovanile è stato
pari al 35,3% fra i 15-24enni e al 25,2% fra i 15-29enni), la
disoccupazione giovanile in regione è aumentata
esponenzialmente.
Rispetto alla cittadinanza, nel 2012 l’83,7% degli occupati
in Emilia-Romagna aveva cittadinanza italiana, il 3,1%
cittadinanza comunitaria e il restante 9,7% extra-UE.
Come a livello nazionale, anche in Emilia-Romagna la
crescita del numero degli occupati è stata trainata da
coloro con cittadinanza non italiana, confermando una
tendenza in atto già da alcuni anni. Rispetto al 2011, gli
occupati con cittadinanza UE sono cresciuti di quasi il 6% e
sono praticamente raddoppiati rispetto al periodo
precedente la crisi. Anche i lavoratori extra-UE hanno
registrato un aumento tendenziale, pari al +1,1%, a fronte
di un calo del numero dei cittadini italiani occupati (-0,2%).
I lavoratori dipendenti sono la categoria contrattuale sulla
quale si è concentrata la non brillante crescita
dell’occupazione. In totale sono cresciuti del 1,1%, con
andamenti differenziali a seconda dell’età. Le crescite più
rilevanti hanno infatti riguardato le persone con età fra i
45 e i 64 anni, mentre fra i più giovani si verifica la
tendenza opposta. In totale, gli occupati autonomi, invece,
diminuiscono del 3% rispetto al 2011. In questo caso la
riduzione più marcata riguarda la classe di età 45-54 anni.
La domanda di lavoro è stata caratterizzata da una fo rte
divaricazione negli andamenti settoriali , dovuta alle
performance economiche registrate da ciascun settore.
Questo lascia intuire che i lavoratori che hanno perso il
lavoro in quei settori pesantemente colpiti dalla crisi
difficilmente riusciranno a ritrovarlo nello stesso settore.
Rispetto al 2008 gli occupati sono calati del -0,54%. La
situazione più critica rimane quella del settore delle
costruzioni, che nel quinquennio registra un calo del
17,7%. Nello stesso periodo gli occupati nell’industria in
senso stretto sono diminuiti dell’1% e in agricoltura del
4,5%. Risulta nel complesso in aumento l’occupazione nei
servizi (+2%), per quanto vi siano situazioni molto
differenziate a seconda dei comparti di attività. In
particolare il comparto del commercio vede una riduzione
del 15,3% del numero degli occupati.
Figura 6: Occupati per settore, variazioni % 2008-2012 (Fonte: elaborazione su dati Istat)
Il cambiamento della struttura settoriale della domanda di
lavoro cambia anche la domanda delle diverse figure
professionali, aumentando le possibilità di mismatch fra le
caratteristiche della domanda e dell’offerta di lavoro. È
cambiata negli anni infatti la composizione per figure
professionali . Se durante gli anni novanta si era assistito
ad un progressivo orientamento della domanda verso le
componenti più tecniche, associato ad una crescente
terziarizzazione, a partire dagli anni duemila si è registrato
un progressivo processo di polarizzazione con
accelerazioni rilevanti di professioni non qualificate e
professioni intellettuali, scientifiche e altamente
specializzate. Nel co rso della crisi il processo di
polarizzazione assume una sofisticazione maggiore nella
sua componente più qualificata.
Figura 7 - Occupati per gruppo professionale, variazioni % 2008-2012
(Fonte: elaborazione su dati Istat)
Il lavoro parasubordinato in Emilia-Romagna
Per quanto riguarda i lavoratori parasubordinati, i dati più
recenti riguardano il 2011 e sono di fonte Inps. Rispetto al
2010 il numero di contribuenti è aumentato del 1,7%,
arrivando a 130.322 contribuenti per un valore di
contributi pari a 596.379.197 euro e di contributo pro -
capite pari a 4.575 euro. Si tratta di un aumento
lievemente superiore a quello registrato a livello nazionale
(+1,4%) dove i contributi totali versati sono stati pari a
5.754.280.996 euro e quelli pro-capite a 3.928 euro.
Tabella 2: Collaboratori a progetto in Emilia Romagna, anni 2007-2011 (Fonte: Inps)
N. Contribuenti
Contributi per
contribuente
Contributi su redditi
(%)
Reddito per contribuente
(euro)
2007 60.060 2.377 21,2 11.188 2008 52.785 2.653 22 12.075
2009 46.114 2.783 22,6 12.338 2010 44.025 2.931 23,2 12.638 2011 44.833 2.868 23,3 12.307
Restringendo il campo di analisi ai soli collaboratori a
progetto, si nota una tendenza opposta rispetto al totale
dei lavoratori parasubordinati. Il numero di contribuenti è
infatti andato diminuendo fra il 2007 e il 2011, con una
10
sola eccezione fra il 2010 e il 2011 quando comunque si è
verificato un aumento di lieve entità.
Gli sbocchi professionali dei laureati: evidenze
dall’Indagine AlmaLaurea
In riferimento alla condizione giovanile, l’indagine
AlmaLaurea offre alcuni spunti ulteriori di analisi sulle
condizioni occupazionali di coloro che escono dagli atenei
dell’Emilia-Romagna. Vengono pertanto presi in
considerazione i laureati degli atenei di Bologna, Ferrara,
Modena e Reggio Emilia, Parma nell’anno 2011 a un anno
di distanza dal conseguimento del titolo. In regione la
maggior parte dei laureati nel 2011 ha conseguito un
titolo economico-statistico (16,4%), e sono seguiti da
coloro con titolo ingegneristico (12,9%) e letterario
(11,2%). Prendendo come riferimento il solo ateneo di
Bologna, a un anno dalla laurea il 50,2% dei laureati
dichiara di avere un’occupazione, il 27,8% di non lavorare e
non cercare, mentre il 22% di essere in cerca di lavoro.
Un’evidenza interessante, fra coloro che non hanno e non
cercano lavoro, è la diversificazione del dato fra i diversi
gruppi disciplinari: non cerca lavoro infatti il 39,6% dei
laureati in ambito geo-biologico, il 42% di coloro laureati
in ambito giuridico, il 37,5% in ingegneria, il 31,6% in
ambito psicologico, il 41,9% di coloro in ambito scientifico.
Inoltre fra coloro che dichiarano di avere un’occupazione
solo il 21,2% dichiara di lavorare in un posto dove la laurea
è richiesta per legge e il 16,4% dove la laurea non è
richiesta ma necessaria; questo implica che più del 60%
dei laureati ha trovato un’occupazione per la quale il titolo
di studio conseguito non sarebbe stato necessario. Questa
tendenza riguarda maggiormente le facoltà umanistiche
per quanto tutti i gruppi disciplinari considerati mostrino
di fatto questo elemento.
Le comunicazioni obbligatorie: un’analisi di flusso
In Emilia-Romagna, nel 2012 si contano oltre 910 mila
avviamenti, ovvero si segna una flessione del 2,5% (23
mila contratti in meno) sul 2011 dopo un biennio di
crescita. Con il prolungarsi della fase recessiva anche per la
componente straniera extracomunitaria, che sembrava
aver reagito meglio al giungere della crisi, si registra un
calo del 3,7% degli avviamenti (pari a 6.855 contratti in
meno). Per classi di età, si conferma la crescita della quota
di avviamenti per gli over 40 il cui peso in 5 anni è
cresciuto da 32,3% al36,9%. In termini di saldi, ovvero la
differenza tra avviamenti e cessazioni, il 2012 fa registrare
la chiusura peggiore degli ultimi 5 anni con un saldo pari a
circa -140 mila movimenti. Anche i dati sugli avviamenti
confermano come la crisi produca una sofisticazione del
processo di polarizzazione professionale verso l’alto : gli
avviamenti per le professionalità ad alta specializzazione
raddoppiano il loro peso (dal 7,9% nel 2010 al 14,7% nel
2012) mentre crollano le professioni tecniche (dal 15% al
6,7%).
Avviamenti e legge Fornero
A fronte dei cambiamenti normativi introdotti dalla
cosiddetta legge Fornero, non si rilevano cambiamenti
radicali tanto nei volumi di assunzioni quanto nella loro
composizione contrattuale. Le assunzioni con contratto a
tempo indeterminato, infatti, perdono progressivamente
di peso scivolando dal 15,1% del 2008 al 10,2% del 2012.
In particolare, la Legge Fornero sembra segnare un calo
tendenziale del numero di contratti in
parasubordinazione, in associazione in partecipazione e
lavoro a chiamata. Per i contratti di parasubordinazione si
rileva, da un lato, una caduta tendenziale a partire da
luglio 2012 degli avviamenti ma, dall’altra, una loro
accelerazione nel primo semestre 2012, quasi a mostrare
un effetto di “anticipazione” degli effetti della riforma.
Figura 8 – Attivazione di contratti parasubordinati (Fonte: Siler)
Sebbene il volume degli avviamenti mostri un calo
tendenziale nel II semestre 2012, i dati sembrano mostrare
come la riforma non abbia innescato un meccanismo di
sostituzione del lavoro intermittente con altre forme
contrattuali.
Figura 9 – Attivazione di contratti di lavoro intermittente (Fonte: Siler)
Allo scenario appena descritto va a sommarsi il trend
calante di stabilizzazioni contrattuali in regione. Il dato
relativo alle trasformazioni di contratto a tempo
11
indeterminato fa segnare un calo del 3,8% pari a 2.179
trasformazioni in meno rispetto al 2011. Nello specifico le
trasformazioni di contratti a tempo determinato calano
del -3,6% e quelle dei contratti di apprendistato, in linea
con l’andamento negativo già rilevato nel 2011, del 7%.
Figura 10 - Trasformazioni di contratto
(Fonte: Siler)
Cessazioni e legge Fornero
Nel 2012, i movimenti di cessazione superano i 920 mila in
aumento dell’1,9% rispetto al 2011. Della totalità delle
cessazioni i licenziamenti individuali rappresentano il 7,7%
e i licenziamenti collettivi lo 0,8% mentre la larga
maggioranza è rappresentata dalle cessazioni per “fine
rapporto a termine” (circa il 60%).
Mentre i licenziamenti collettivi rimangono
sostanzialmente stabili (+4,4% sul 2011), a crescere sono
soprattutto i licenziamenti individuali con un incremento
di 12,5 mila unità rispetto al 2011, spiegati totalmente
dall’aumento dei licenziamenti per giustificato motivo
oggettivo (+33%).
Ammortizzatori sociali e malessere
occupazionale
Una copertura in deroga e in trasformazione
Nel 2012 si superano i 90 milioni di ore autorizzate di CIG,
di cui circa la metà (45%) in deroga, continuando a segnare
un aumento del 16% rispetto al 2011. I primi 5 mesi del
2013 segnano ancora un aumento tendenziale del 4,6%,
arrivando ai 33 milioni di ore autorizzate. Nel 2012, il
manifatturiero assorbe il 60,4% delle ore autorizzate,
ovvero una quota in diminuzione rispetto al 76,1% del
2010. A crescere è il ricorso alla CIG delle imprese nei
servizi, in particolare nel commercio (da 6,5% di peso nel
2010 all’11% del 2012) e nelle attività del terziario “settore
K” (da 3,2% a 5,4%) e nella forme in deroga (dal 70% al
100% delle ore autorizzate per settore). La CIG in deroga,
inoltre, copre ovviamente le imprese artigiane ma, in
proporzione, sempre meno per una crescita dell’incidenza
del commercio.
Figura 11 – Cig in deroga per settori di intervento (Fonte: Inps)
A febbraio 2013, le domande di CIG in deroga sono state
complessivamente oltre 47 mila, di cui il 67% di CIG
ordinaria e di cui l’87,5% già concesse. Se le domande in
deroga crescono ad un ritmo del 2,9% annuo fino al 2012,
nei primi mesi del 2013 la crescita è del 5,3%: in soli 2 mesi
si è raggiunto il 41% delle domande presentate in tutto il
2012. Complessivamente i lavoratori coinvolti dalla deroga
sono stati 111,5 mila e le unità locali circa 17 mila, di cui
quasi la metà tra Modena (30%) e Bologna (19,5%) e tra il
meccanico (23,5%) e il commercio (16,5%).
Negli ultimi 14 mesi, le unità locali a cui è stata concessa la
Cig in deroga sono aumentate del 62% con spinte
maggiori a Modena (113%) e Ferrara (98%), spiegate dalla
“causale sisma”: circa 3 unità locali su 4 che hanno
richiesto la CIG in deroga con “causale sisma” sono nei
comuni delle due province.
Le iscrizioni alle liste di mobilità aumentano nel corso della
crisi di circa 12 mila iscrizioni all’anno in più. Gli ingressi
per licenziamenti collettivi raddoppiano tra il 2008 e 2010
per poi assestarsi sulle 7500 iscrizioni l’anno, mentre gli
ingressi per licenziamenti individuali raggiungono il
massimo (oltre 20 mila) nel 2012 (+16,5% rispetto al 2011,
mentre i licenziamenti collettivi segnano una flessione del
-2,6%). Complessivamente sono gli over40 anni a mostrare
i trend di crescita più alti ma l’ultimo anno ha visto un
12
sensibile aumento dei licenziamenti individuali per tutte le
classi di età.
L’essere in cassa integrazione impatta negativamente
sulla retribuzione: in media nel lavoro dipendente chi è in
CIG percepisce dal 68,3% (IV trimestre 2011) ad un
massimo di 81,6% della retribuzione media di un
lavoratore dipendente non in CIG.
Figura 12 - Rapporto tra retribuzione media di un lavoratore in CIG e non in CIG (Fonte: elaborazioni su Istat)
Indicatori di malessere occupazionale
La crescita del malessere occupazionale ha finalmente
spinto verso la sperimentazione di nuovi indicatori
alternativi al tasso di disoccupazione Istat. L’IRES ER
propone un tasso di sottoutilizzo considerando l’effetto
“scoraggiamento” e cassa integrazione con “tiraggio”:
9,7% in Emilia-Romagna nel 2012, con punte massime a
Ferrara (13,7%) e Rimini (13,9%) e minime a Reggio Emilia
(7,8%). Pur con un calcolo diverso, il tasso di sottoutilizzo
IRES ER sulle forze di lavoro si allinea al “tasso di malessere
occupazionale” regionale in cui, però, si conteggiano
dimensioni non sempre distinte e sul totale della
popolazione attiva.
Figura 13 - Tassi di malessere occupazionale (Fonte: elaborazione su dati Istat, IRES, ER)
Anche attraverso l’analisi del dato amministrativo delle
DID (Dichiarazioni di immediata disponibilità, presso il
centro per l’impiego), le persone potenzialmente in disagio
occupazionale sono circa 280 mila (ovvero circa la metà di
quanto enfaticamente indicato dal “tasso di malessere
occupazionale allargato”) ma con livelli di protezione
sociale diversa. A seconda dell’indicatore utilizzato si
evidenziano livelli di copertura del sistema di
ammortizzatori sociali diverso: il 65% di chi ricade nel
tasso di malessere occupazionale regionale ed il 47% di chi
ricade nel tasso di sottoutilizzo non ha potenzialmente
accesso ad un sostegno al reddito. La stessa
disoccupazione Istat, inoltre, è sempre più alimentata nel
2012 dalla componente non ex-occupata,
compromettendo l’accesso a forme di sostegno al reddito.
Welfare e reddito
Condizione economica: tra dati soggettivi e oggettivi
Nel 2012, il 49,7% delle famiglie in regione percepisce un
peggioramento della propria condizione economica
rispetto al 2011: nel Nord è il 53,6% e in Italia il 55,8%. Ma
è la tendenza crescente nel 2012 a preoccupare.
Figura 14 - Quote di famiglie che percepisce un peggioramento della situazione economica sul 2011 (Fonte: elaborazioni su Istat)
In termini di reddito disponibile procapite , l’Emilia-
Romagna (21.600) rimane sempre in terza posizione dopo
Bolzano (22.800) e Valle d’Aosta (22.500). In termini
nominali il reddito procapite in Emilia-Romagna è
cresciuto ancora del 2,2% nel 2011. Ma le variazioni
nominali non tengono conto del tasso di inflazione.
Calcolando le variazioni reali (Indice FOI anno base 1995) si
rileva come il 2011 sia il 4° anno consecutivo di
contrazione del reddito disponibile.
Figura 15 - Reddito disponibile procapite (trend reale e nominale) (Fonte: elaborazioni su Istat)
L’incidenza del reddito da lavoro dipendente sul reddito
disponibile passa dal 57,5% al 63,7% dal 2007 al 2011
13
evidenziando un crollo dei redditi da capitale: dal 25,8% al
18,7% a testimonianza di un atteggiamento più cauto
delle famiglie consumatrici e di una crisi più stringente
sulle famiglie produttrici (Imprese individuali). Il carico
fiscale e contributivo sul reddito disponibile è arrivato al
41,9% nel 2011 in Emilia-Romagna segnando un aumento
di oltre 3 punti percentuali dal 2007 compensata da un
incremento dell’incidenza delle prestazioni sociali di 4
punti percentuali (dal 25,4% al 29,4%).
I differenziali retributivi
La regione Emilia-Romagna si colloca in 3° posizione in
termini di retribuzione media e giornate retribuite medie
per lavoro dipendente dopo Lombardia e Piemonte. A
livello regionale è Bologna la provincia con la retribuzione
media più alta mentre Forlì Cesena con quella più bassa.
Chi ha un contratto temporaneo percepisce una
retribuzione per unità di tempo inferiore del 25% di chi ha
un contratto a tempo indeterminato. Chi lavora nei settori
manifatturieri in media percepisce una retribuzione più
alta del 12% rispetto alla media regionale mentre chi
lavora nei servizi vive condizioni molto diverse. Le attività
economiche con i livelli retributivi più bassi sono gli
alberghi e ristoranti (con circa il 38% in meno di
retribuzione per unità di tempo), l’istruzione (con il 25% in
meno), sanità e assistenza sociale (con circa il 30% in
meno) e i servizi alle famiglie (con circa il 35% in meno).
Tutti i raffronti per qualifica mostrano una disparità di
genere nella retribuzione media per giornata retribuita:
rispetto ai valori totali le lavoratrici dipendenti
percepiscono una retribuzione marginale di circa il 30% in
meno di quanto percepiscono i loro colleghi maschi.
Istruzione: una domanda sempre più straniera
La crescita delle iscrizioni scolastiche non è
controbilanciata da un adeguato aumento di classi con
l’effetto paradossale di un innalzamento di alunni per
classe, in un contesto in cui il numero di insegnanti statali
si è contratto di 2.325 unità.
Figura 16 - Rapporto iscritti/classe e insegnanti/classe (Fonte: Miur)
In Emilia-Romagna la crescita degli iscritti tra il 2009 ed il
2011 alle scuole d’infanzia è stata pari a +3,8% (4.138
unità) mentre i soli iscritti stranieri sono aumentati del
16,1% (2.167 unità), ovvero ad una velocità quattro volte
superiore. Nelle scuole primarie 4 su 10 iscritti in più tra il
2009 e 2011 è straniero, con punte massime per Piacenza
(8 su 10) e minime per Rimini (circa 2 su 10). Nelle scuole
secondarie di primo grado il numero di iscritti in più tra il
2009 ed il 2011 è nel 40% straniero: a Piacenza la crescita
degli iscritti è spiegata totalmente dagli stranieri in
quanto la componente italiana è invece in lieve flessione.
Nelle scuole secondarie di secondo grado il numero di
iscritti stranieri cresce rapidamente dal 2009 al 2011 del
17,1% mentre la totalità degli iscritti cresce solo dell’1,8%.
Se più di 4 italiani su 10 scelgono il percorso liceale, per i
ragazzi stranieri il rapporto scende a 1,5 su 10. Mentre se
poco meno di 6 studenti italiani su 10 scelgono un
percorso tecnico-professionale, per gli stranieri il rapporto
sale a più di 8 su 10.
In Emilia-Romagna, il tasso di abbandono scolastico al
2011 è pari al 13,9% ovvero una quota ben al di sotto del
livello nazionale (18,2%) ed anche ripartizionale (15,2%).
Pensioni
In Emilia-Romagna circa 1 residente su 3 al 2011 è
beneficiario di almeno una prestazione pensionistica
(invalidità, vecchiaia, superstiti, anzianità, indennitarie e
assistenziali): in Italia il rapporto è pari a 26,7%. In Emilia-
Romagna si concentra circa l’8% dei pensionati registrati
nel Casellario dei pensionati e nelle regioni del Nord quasi
la metà (48,4%). In regione circa l’80% dei beneficiari
riceve prestazioni di invalidità, vecchiaia, anzianità e
superstiti e solo il 4,7% assistenziali (9,1% in Italia). Il
72,7% di chi riceve prestazioni pensionistiche ha più di 65
anni. Il rapporto tra beneficiari di prestazioni
pensionistiche ed occupati è pari al 66% in Emilia-
Romagna contro il 71% in Italia e 82% nelle regioni del
Mezzogiorno.
Circa il 65% dei beneficiari del 2011 percepisce una sola
prestazione pensionistica mentre l’8,7% ne riceve tre
contemporaneamente con un impatto positivo
sull’importo medio (+38% rispetto alla media
regionale=16.895 annui €). Il 36% dei beneficiari riceve un
contributo medio al di sotto dei 1000 euro mensili (contro
il 44% in Italia).
Figura 17 - Beneficiari per classi di importo (Fonte: Casellario INPS)
Complessivamente il numero dei beneficiari pensionistici
di genere femminile rappresenta il 54% dei pensionati: tra
chi percepisce una sola prestazione pensionistica la quota
femminile scende in media al 48% per poi salire al 60,6% in
14
media tra chi è beneficiario di due prestazioni
pensionistiche e sale al 73,2% per chi ha 3 o più prestazioni
pensionistiche. In media le donne, pur rappresentando la
maggioranza dei pensionati, hanno un importo medio
pensionistico inferiore del’15,5% : il differenziale
dell’importo di genere si riduce, ma non si annulla, al
crescere delle prestazioni pensionistiche per pensionato.
Indicatori di povertà e vulnerabilità sociale nel BES
L’indice di povertà ed esclusione sociale sul quale si basa la
strategia “Europa 2020”, poggia su tre indicatori: l’indice
di deprivazione materiale, l’indice di rischio di povertà
relativa e l’ indice di persone che vivono in famiglie senza
occupati.
Figura 18 – Indicatori di povertà (Fonte: Eu Silc)
In dinamica è l’indice di grave deprivazione materiale a
raddoppiare nel corso della crisi passando dai circa 3% del
2009 ad oltre il 6,4% del 2011.
Il nostro osservatorio, però, tenta di andare oltre gli
indicatori della povertà utilizzati per abbracciare altre
misurazioni che sappiano più orientarsi verso un concetto
di vulnerabilità sociale. In primo luogo, quindi si sono
introdotte analisi sulle relazioni sociali per il benessere
della collettività. Se in Emilia-Romagna oltre l’80% dichiara
di “poter contare” su amici, parenti o vicini nei momenti di
difficoltà (a fronte di circa il 76% nazionale), solo il 22,7%
(20% a livello italiano) mostra di non avere fiducia negli
“altri”, inteso come comunità più allargata. Il quadro delle
relazioni sociali include anche le forme attive di impegno
sociale: circa il 10% della popolazione (9,7% a livello
nazionale) nel 2012 ha svolto attività gratuita per
associazioni o gruppi di volontariato, con una leggera
prevalenza dei maschi rispetto alle femmine.
Altro indicatore non economico preso in esame per
comprendere le condizioni di vulnerabilità sociale è la
disponibilità di servizi socio-assistenziali e socio sanitari.
Con 9,7 posti letto nei presidi residenziali socio-
assistenziali e sanitari per 1000 abitanti, l’Emilia-Romagna
si colloca in 8° posizione a livello nazionale. Diversamente
la regione è quella con la percentuale più alta (11,6%) di
anziani trattati in assistenza domiciliare integrata, con
una forte crescita a partire dal 2008 mostrando un
orientamento a privilegiare la domiciliarità dei servizi
rispetto al ricovero in strutture specifiche. Anche rispetto
alla quota di bambini di 0-2 anni che hanno usufruito dei
servizi per l’infanzia, l’Emilia-Romagna copre la prima
posizione a livello nazionale con il 29,4% nel 2010 (in Italia
il 14%).