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CESARE PAVESE By Pocherighe Nella vita dell’uomo c’è una lotta costante: lotta tra l’indifferenza verso tutto (gli altri, gli eventi, le cose) e l’ansia di possedere tutto (gli altri, gli eventi, le cose), e Pavese, il più intelligente (ma il meno astuto) tra i nostri scrittori della prima metà del 900, ha vissuto in tutte le sue fibre questa lotta umana, in un contrasto quotidiano, fatto di solitudine e ansia di comunione, di costante esame di coscienza quasi sempre impietoso verso se stesso, e di un lucido interrogarsi e interrogare la letteratura, la storia, la realtà tutta in attesa di trovare almeno un briciolo di verità. E come lui, anche tutti noi lottiamo ogni giorno, - lui molto cosciente, noi spesso senza accorgercene - alla ricerca di un viottolo che ci conduca all’equilibrio tra queste due spinte contrarie e inquietanti (indifferenza e possesso), entrambe insoddisfacenti per quella pienezza cui l’anima umana anela. Tutta l’opera di Pavese ci fa capire che il viottolo dell’equilibrio tra queste due forze è un’illusoria tentazione, perché – come ci insegna il poeta Antonio De Petro - non si può soddisfare la sete bevendo stoicamente della sabbia: abbiamo bisogno, umilmente bisogno, di trovare l’acqua, cioè di trovare, di riconoscere quell’elemento giusto che sappia saziare la nostra sete. E per incontrare questo, sono convinta che sia necessario entrare in una dimensione totalmente diversa dalla stoica lotta tra indifferenza e anelo di possesso. Lo spirito umano che Pavese chiama “spirito non santo” - è fatto per incontrare una risposta vera, e questa risposta si nasconde per lui dietro una maschera di eccessi: quell’eccesso di silenzio, quell’eccesso di osservazione, quell’eccesso di sincerità, quell’eccesso di

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CESARE PAVESE

By Pocherighe

Nella vita dell’uomo c’è una lotta costante: lotta tra l’indifferenza

verso tutto (gli altri, gli eventi, le cose) e l’ansia di possedere tutto (gli altri,

gli eventi, le cose), e Pavese, il più intelligente (ma il meno astuto) tra i

nostri scrittori della prima metà del 900, ha vissuto in tutte le sue fibre

questa lotta umana, in un contrasto quotidiano, fatto di solitudine e ansia

di comunione, di costante esame di coscienza quasi sempre impietoso verso

se stesso, e di un lucido interrogarsi e interrogare la letteratura, la storia, la

realtà tutta in attesa di trovare almeno un briciolo di verità.

E come lui, anche tutti noi lottiamo ogni giorno, - lui molto cosciente,

noi spesso senza accorgercene - alla ricerca di un viottolo che ci conduca

all’equilibrio tra queste due spinte contrarie e inquietanti (indifferenza e

possesso), entrambe insoddisfacenti per quella pienezza cui l’anima umana

anela. Tutta l’opera di Pavese ci fa capire che il viottolo dell’equilibrio tra

queste due forze è un’illusoria tentazione, perché – come ci insegna il poeta

Antonio De Petro - non si può soddisfare la sete bevendo stoicamente della

sabbia: abbiamo bisogno, umilmente bisogno, di trovare l’acqua, cioè di

trovare, di riconoscere quell’elemento giusto che sappia saziare la nostra

sete. E per incontrare questo, sono convinta che sia necessario entrare in

una dimensione totalmente diversa dalla stoica lotta tra indifferenza e

anelo di possesso. Lo spirito umano – che Pavese chiama “spirito non

santo” - è fatto per incontrare una risposta vera, e questa risposta si

nasconde per lui dietro una maschera di eccessi: quell’eccesso di silenzio,

quell’eccesso di osservazione, quell’eccesso di sincerità, quell’eccesso di

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lettura e scrittura che pervadono le numerosissime pagine che Pavese ha

scritto e che a noi tocca leggere, fare nostre e non dimenticare.

Umiltà e contemplazione sono due parole ricorrenti nell’opera di

Pavese - e forse sono le più inascoltate dai suoi lettori (perchè sono da lui

solo suggerite, mai imposte, pur in quella sua caparbia coscienza che

“repetita iuvant”). Ecco direi che sono piene di umiltà e di pura

contemplazione Paesi tuoi o La luna e i falò, Il Compagno, La spiaggia, La

bella estate o Il diavolo sulla collina, Il mestiere di vivere, Le poesie del

disamore e Lavorare stanca o I dialoghi con Leucò o La casa in collina e

perfino Tra donne sole, ma anche i suoi racconti, i saggi, gli articoli e quella

sua meravigliosa corrispondenza piena di umore, di forza e di intelligenza,

rapida a volte, a volte frettolosa, a volte lentissima ed esauriente, mai

sciatta o imprecisa.

L’umiltà Pavese la raggiunge attraverso il realismo con cui guarda se

stesso e gli altri: è l’umiltà che nasce dall’ovvia evidenza del limite della

persona umana. E, come succede a tutti, all’umiltà anche Pavese vi arriva

per mezzo di umiliazioni non cercate. L’esperienza dell’umiliazione ci può

sembrare quasi esagerata in lui, appunto un eccesso, un po’ come se ci

trovassimo di fronte a un Jacopone da Todi del Nord, che parla in quel suo

privato e speciale dialetto però del secolo ventesimo. Scrive Pavese a Billi

Fantini: “Si convinca che fuori dei libri scritti, io non sono che una mezza

cartuccia, un “angolino da ripulire”, un vermiciattolo” (20 luglio 1950). C’è

una certa sottilissima ironia, propria di Pavese, ma c’è anche tanta

profonda serietà in queste parole e non certo è a caso che va a un ricordo

biblico, precisamente a Geremia nel capitolo 2, quando Dio si rivolge al

profeta chiamandolo appunto “vermiciattolo”.

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Se l’umiltà gli è costata cara, non è stato più a buon mercato che ha

raggiunto quella capacità di contemplazione pura che stupisce e lo rende

unico. Scrive a Piero Calamandrei il 21 agosto 1950: “Quella “serena

contemplazione del ricordo” che lei rileva nei miei libretti non è stata se non

a prezzo di tali rinunce nella mia vita che oggi ne sono tramortito”.

E vorrei a questo punto suggerire una domanda: in che modo

dobbiamo leggere tutte queste sue pagine, così dense, mai fatue, di una

poesia che quando non toglie il fiato spezza comunque il cuore? Cerco di

rispondere, partendo da come l’ho letto e lo leggo io, cioè dalla mia

esperienza diretta.

Per leggere bene questi che lui definisce “i miei libretti”, dobbiamo

metterci nella stessa umiltà e nella stessa contemplazione con cui lui parla e

scrive, osserva e trascrive, sente e trasmette: mi sembra che sia questa la

chiave di lettura più sanamente generatrice per accogliere quel cavallo di

razza che è stato Pavese, per farcelo “conoscere” in una più giusta e più

esaustiva dimensione. Umiltà e contemplazione sono due virtù (cioè due

forze), come abbiamo visto, che non sono facili da raggiungere e che

costano care. Lui scrive il nome di queste due virtù (col dolore, con

l’erudizione, con la curiosità, con la sua durezza, senza peli sulla lingua, ma

mai con malvagità) su una specie di gigante lavagna, per così spingerci a

farle nostre e a lasciar perdere quell’illusorio viottolo dell’equilibrio che

vorremmo percorre, e indurci invece a cambiare strada. Pavese ci obbliga

quasi, con la violenza propria dei timidi, a prendere la nostra croce umana e

a camminare a piedi nudi verso sù, per una viuzza seminascosta,

acciottolata e ripida, da cui vedremo un panormana che è anticipo di

verità. E in mezzo alla vigna o mangiando ciliegie davanti alla notte,

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Pavese si offre come una primizia dell’uomo del secolo ventesimo che

percorre questa viuzza in salita, dove ogni passo si nutre di una sempre più

intima e inesorabile passione per il vero.

Dopo una settimana di intenso lavoro, di incontri, di poche ore di

sonno, arriva finalmente il sabato pomeriggio, per riposare, magari di

fronte al mare o a una bella collina o una serie di orti coltivati a verzura e

colorati di fiori: qui, in questo silenzio che accompagna il riposo, ognuno di

noi ce la fa sicuramente a leggere l’abitabile Pratolini, quello “schietto

narratore” (3 ottobre del 44) che era il Boiardo, o si può leggere Boccaccio,

l’Ariosto, persino Tolstoi (tanto odiato da Pavese) o quell’adolescente di

Svevo (come lui lo definiva). Ma sicuramente nessuno ce la fa a leggere

Pavese, a meno che non decida di rinunciare al riposo e rimettersi al

lavoro.

Per poter entrare nella profondità e ampiezza di domande e di

contraddizioni che Pavese offre, il nostro spirito non può essere in riposo:

dev’ essere vigile, sveglio, pronto alla lotta. Ci si annoia subito con Pavese,

se non ci si impegna sul serio ad ascoltarlo e a lottare con lui o contro di lui.

Pavese è solo per lettori vigilanti, disposti a non lasciarsi soffocare dalla

realtà che questo inusuale scrittore ci racconta senza difese e senza reti

protettive. Insomma, Pavese è per lettori che vogliano diventare lettori di

razza.

Pavese va letto lentamente: non è cibo da buffet o da fast food. Va

letto piano piano anche quando – come succede soprattutto nelle sue poesie

– uno vorrebbe mangiarsele tutte d’un fiato. Ma se si vince l’ imprudente

tentazione di leggerlo in fretta e ci si dona all’arte della lenta lettura e

dell’ascolto puro, ecco che a poco a poco il palato diventa regale e si può

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assaporare tutta la ricchezza di un gusto mai provato prima, ci si nutre di

un miele a volte dolcissimo a volte molto amaro, sempre in grado di

suscitare domande ed emozioni importantissime e inevitabili. Con Pavese,

dunque, s’impara a leggere lentamente e così, invece di mangiarli o metterli

via, ci lasceremo interrogare dai suoi libri, e sarà un’esperienza di grande

maturazione umana e letteraria.

Quando aveva solo diciottanni, in una lettera al suo amico Mario

Sturani, Pavese indica qual è il vero motivo per cui scrive. Lo dice in uno

dei suoi primi tentativi di poesia, non certo riuscito però chiarissimo:

“Logoro, disilluso, disperato/ di mai riuscire a suscitare nell’anima/degli

uomini una vampa di passione/con un’arte ben mia, così vivo/triste nei

lunghi giorni...eppure a tratti/mi sento traboccare di una vita/ caldissima,

potente, che se mai/ riuscissi a esprimere, sarebbe colma/ tutta la mia

esistenza!”

Sotto la lamina del sottile gelido inverno del suo temperamento

piemontese, c’è dunque un’anima che vibra intensamente e noi dobbiamo

prendere in mano queste braci, se vogliamo incontrare quella scintilla che

purifica ogni banalità.

Abbiamo detto che il primo passo è leggerlo lentamente per

incontrare qualcosa che va al di là di quella barriera che Pavese frappone

tra lui e noi – nonostante tutte le confidenze di cui pure è capace.

Incontrare la porticina scavata in questo muro e trapassarla, entrando così

in quell’inusuale suo lucidissimo sguardo sul mondo, è un passo non facile

ma ne vale la pena: basta solo deciderlo e poi camminare. Dobbiamo

dimenticarci di noi stessi che stiamo leggendo Pavese. Dobbiamo

dimenticarci dell’autore e di tutto quello che di lui abbiamo ascoltato o

sentito dire. Dobbiamo fare una sola cosa: lasciarci amare da quelle poesie,

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da quei racconti, da quelle lettere, da quegli articoli, da quei saggi e da

quelle novelle: perché Pavese è vivo e con lui dobbiamo instaurare un

dialogo degno di un interlocutore che non spreca parole, che non riempie

pagine a casaccio e che non intende ingannarci. Lo so che non è facile

lasciarsi amare così, e d’altra parte lasciarsi amare è ancor più difficile che

amare, e forse è per questo che Pavese, nel nostro mondo un po’ volgare, un

po’ fatuo e un po’ distratto – che tanto assomiglia al rospo che si gonfia di

vanità per due nozioni di psicologia imparate sulle riviste di moda o dagli

oroscopi gratuiti – è notissimo di nome e sconosciuto di fatto. Ma io insisto

nel dire che vale la pena trapassare quella soglia ed entrare direttamente in

un dialogo personalissimo con lui, perché se di una cosa sono sicura è che,

leggendo bene Pavese, uno diventa più uomo. Per questo, è sempre

piuttosto deludente e a volte fa rabbia e a volte fa pena e sempre risulta

ingiusto quello che tanti ne han fatto e ne fanno di lui: un personaggio di

cui si raccontano, con piacere o con dolore, con malizia o compagnoneria, le

più tristi banalità o i più privati presunti segreti.

Non voglio dire che di Pavese si siano scritte o dette cose solo

superficiali o inutili: anzi. Molti lo hanno amato, come “lo scrittore” che

ha avuto il coraggio di dire tutto di se stesso, attraverso il diario e le lettere,

e che ha avuto la debolezza di non prendere in mano il fucile al tempo della

battaglia e di aver ammazzato se stesso invece che altri, ma in troppi sono

caduti nella trappola di ridurlo in fin dei conti a un oggetto di pettegolezzo,

proprio come lui chiedeva di non fare, ben sapendo che di pettegolezzi

s’immiserisce tutta l’umanità.

E– detto tutto questo – aggiungo che Pavese non è per me né un

idolo né un personaggio mitico. E’ un grandissimo scrittore già classico, un

punto di non ritorno per la letteratura italiana ed è, ripeto, un cavallo di

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razza, e va letto come lui stesso ci invita a fare con ogni libro che ci

troviamo tra le mani.

Cito da un articolo di Pavese pubblicato su “L’Unità” di Torino il 20

giugno del 1945:

“Accade coi libri come con le persone. Vanno presi sul serio. Ma

appunto per ciò dobbiamo guardarci dal farcene idoli, cioè strumenti della

nostra pigrizia. In questo, l’uomo che fra i libri non vive, e per aprirli deve

fare uno sforzo, ha un capitale di umiltà, di inconsapevole forza – la sola

che valga – che gli permette d’accostarsi alle parole col rispetto e con l’ansia

con cui ci si accosta a una persona prediletta.” Poi continua così: “E questo

vale molto più che la “cultura”, è anzi la vera cultura. Bisogno di

comprendere gli altri, carità verso gli altri, ch’è poi l’unico modo di

comprendere e amare se stessi: la cultura comincia di qui. I libri non sono

gli uomini, sono mezzi per giungere a loro; chi li ama e non ama gli uomini,

è un fatuo o un dannato.”

Se leggiamo Pavese con questa umile forza di chi non è uno scriba,

cioé un sapientone già avvezzo ai libri, di chi non lo scruta al di qua dalla

sottile lamina di metallo di cui parlavamo prima, i suoi libri ci serviranno,

dunque, per imparare ad amare gli uomini. Perché, se amiamo i libri e non

amiamo gli uomini, lui dice, siamo “fatui o dannati”, due parole molto

forti che certamente dirige a se stesso, per quel senso di niente che aveva di

sè, come spesso succede alle anime davvero grandi.

Di Pavese bisognerebbe leggere tutto e avere una mente come quella

di Pico della Mirandola, per ricordare ogni parola e citare tutto a memoria.

Ma questo purtroppo è per me impossibile. Mi limito dunque a cogliere

alcuni punti in quel mare di materiale che ci ha lasciato e che è passibile

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appunto di varie ipotesi di lettura. Io ne ho sempre scelta una,

sopratuttutto perchè ho avuto in sorte di leggerlo per la prima volta in un

tempo in cui non c’erano né Google né Wikipedia né l’ossessione delle

biografie e di lui quindi sapevo solo che si era suicidato, perchè me l’aveva

detto mia sorella maggiore e non ricordavo bene se poi a suicidarsi fosse

stato lui o Luigi Tenco, perchè ero ancora poco più che una bambina. Per

me c’erano sole le sue parole, quello che leggevo di nascosto appunto dallo

sguardo vigile di mia sorella e sentivo che lui doveva aver sudato per

scrivere così, in un mitico nuovo raccontare, né potevo riconoscere in quelle

righe, che mi tenevano incatenata a lui, alcun cenno biografico. Con

stupore, incontravo un uomo che mi parlava e cercavo di immaginare che

volto avesse, se era bello o brutto, alto o basso, magro o grasso. E

procedendo nella lettura mi dimenticavo poi di queste curiosità futili,

perché trovavo un uomo che mi apriva la mente, che mi puliva da tante

adolescenzialità, che mi faceva respirare a un ritmo diverso da come

respiravo quando ancora non lo conoscevo e, insieme a tutto questo, debbo

riconoscerlo, trovavo un uomo che mi faceva molta soggezione, perché

decisamente era troppo intelligente e troppo colto. Nessuna caduta

sentimentale, nessuna asprezza fuori luogo: quel raccontare fin nel dettaglio

e pur sempre inesauriente, così che uno potesse metterci dentro il proprio

personale lavoro, la propria personale creazione e poi quelle domande, sul

tempo, la storia, il destino; duemila anni di convivenza tra la cultura greca

e la cultura cristiana, il senza tempo dell’uomo, quell’eterno selvaggio che

sacrifica al dio sconociuto una primizia, per garantire il buon raccolto,

erano condensati in libretti che parlavano un linguaggio tutto suo, preso

dai classici e dai campi. E poi quello sguardo che mi insegnava come

guardare un fiume, un vigneto, un sentiero in collina, una catapecchia, una

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finestra, una notte; che mi insegnava a riconoscere la pioggia e a sapere che

nella mente degli altri è sempre in atto un dialogo interiore che li isola e al

contempo li accomuna. Che mi faceva capire che il lavoro è un dovere che si

paga caro. Che anche le parole hanno scritto “più in là”, come dice Montale.

Ah, tutto questo mi è entrato nelle vene, ha liberato la mia mente, ha

riempito di carità (che non è l’elemosina) quel mondo di gente che buttava

via la vita, quando non se la toglieva, perchè il dio restava sconosciuto.

In Pavese inoltre trovavo un punto molto alto e nello stesso tempo

molto profondo che me lo faceva amare e preferire a tanti altri scrittori che

pure mi appassionavano e di cui divoravo – sempre di nascosto - i romanzi

che mia sorella teneva chiusi a chiave in una vetrinetta.

E per cercare di trasmettervi questo punto molto alto e molto

profondo per me, uso il metodo del confronto, che è un’astuzia che uso

sempre quando cerco di esprimere qualcosa che mi risulta complicato

esprimere.

C’ è uno scrittore francese che si chiama Léon Bloy. Stupendo

scrittore dei primi del novecento, che aveva tutta la forza di un mistico. Vi

consiglio di leggere le lettere che scrisse alla sua fidanzata, la protestante

Jeanne Molbeck e, fra i suoi romanzi, il suo capolavoro, che si intitola: La

donna povera. Romanzo bellissimo, che caldamente appunto vi consiglio.

Léon Bloy lo definiscono “il pellegrino dell’assoluto”. Bloy era stato

impietosamente obbligato, da quel Mistero che abita l’umana esistenza, a

varcare la soglia che dal dolore individuale conduce al dolore universale, un

dolore che non fa rumore, durissimo da portare, impossibile da evitare.

Bloy avrebbe dato volentieri la sua vita per strapparsi questo dolore, ma gli

era impossibile, non gli appartenevano né la vita né il dolore e aveva solo

un’arma per riuscire a convivere con questa sofferenza: la preghiera che

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diventava parola, quindi romanzo. Vi si abbandonó, dunque,come un

bambino che, alla fine, non ha altra scelta che obbedire a mamma e a papà.

Solo talvolta, la pace e la gioia di una verità che gli si rivelava e che

riusciva a trasmettere, lo alleviavano per un momento, qualche ora, un

giorno, da quella durissima sofferenza interiore. Voglio chiarire: Bloy non

è uno scrittore dolorifico o lacrimoso, al contrario. E’ uno scrittore, direbbe

san paolo, molto carnale, di sangue e di violenta carità. Credo che sia stato

un uomo con una vocazione speciale, quella di guardare e sperimentare al

posto nostro quel parto che permette alla realtà di esistere. Il suo è molto

vicino al dolore che hanno provato certi santi, come Teresa del Bambino

Gesù o san Giovanni della Croce o Teresa la grande. Nell’economia che

sembra vigere non solo nelle case di noi poveri, ma anche nella storia

dell’umanità, è come se alcuni debbano soffrire al posto di altri, per

permettere che questi altri non siano schiacciati da una croce troppo

pesante. Ed è dovere di questi tipi umani, delle persone che hanno questa

vocazione, trovare un senso al dolore e farcelo sapere. Notevolissimo

scrittore, di cui i francesi vanno molto orgogliosi, attorno a Bloy si costruì

un giro di intellettuali che Raissa Maritain, un’ebrea convertita al

cristianesimo e sposa del famosissimo filosofo Jacques Maritain,

immortalerà nel suo libro I grandi amici. In Pavese, io ho trovato lo stesso

tipo di dolore che ho incontrato in Bloy. Sono uomini della stessa stoffa.

Scrive Pavese nel suo diario del 26 di marzo del 1938: “Tutti i giorni, tutti i

giorni, dal mattino alla sera, pensare così. Nessuno ci crede: è naturale. E

forse è questa la mia vera qualità (non l’ingegno, non la bontà, non niente):

essere invasato d’un sentimento che non lascia cellula del corpo sana.”

Parla dell’amore per una donna come sapete, ma c’è un più in là, che noi

tutti avvertiamo come assenza di quell’Assoluto che avrebbe potuto sanare

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ogni cellula del suo corpo. E’ lui a dirlo in alcune pagine del suo diario del

1944, annata che lui stesso definisce “strana, ricca. Cominciata e finita con

Dio” e poi aggiunge parlando a se stesso: “potrebbe essere la più

importante che hai vissuto”. Cito sono un frammento brevissimo: “Lo

sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare. Al

punto che la prima avvisaglia del dolore ci dà un moto di gioia, di

gratitudine, di aspettazione...Si arriva ad augurarsi il dolore” (1 febbraio).

E il 2 dicembre: “Di nuovo l’esperienza che si desidera il dolore per

avvicinarsi a Dio”.

Non sono dunque suo nucleo di fondo e centrale i dolori psicologici né

sono le mancanze affettive quelle che si nascondono dietro le lucide

creazioni di questi due geni della sofferenza che furono Bloy e Pavese: è

qualcosa che ha a che vedere con l’eterno, e con una vita più forte del

vivere stesso, cioè con l’Assoluto. I due scrittori lo esprimono in forme

molto diverse, entrambi comunque frutto di un paziente lavoro di identità

tra ciò che vedono e ciò che sentono e di adeguazione della loro parola

all’orecchio di chi li ascolterà con attenzione. E’ il loro un dolore che

normalmente li sorprende, non lo vorrebbero, non cercano se non dopo una

lunga formazione ad esso, contro cui spesso combattono, che li lascia soli

con un desiderio molto puro di abbraccio della verità, evento che non può

venire nè dall’abbraccio della donna nè dal successo.

E questo loro dolore, con cui io mi scontravo essendo molto giovane e

abbastanza superficiale, sentivo però che mi commuoveva profondamente

anche perchè era difficile ammetterlo ma riconoscevo che, se mi fosse stato

dato di conoscere personalmente Pavese o Bloy, non avrei saputo in alcun

modo camminare al loro livello. A me Pavese al massimo avrebbe potuto

dire quello che scrisse a Pierina, quella ragazza di Bocca di Magra che

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troviamo nelle sue lettere: “C’è una tale sproporzione di stati d’animo tra

noi due, che le mie stesse parole mi ritornano in bocca e mi feriscono”

(agosto del 50). Mentre invece, Jeanne Molbek, la giovane che si prese cura

di Bloy, che lo amò e lo sposò, se non ebbe certo vita facile, era però anche

lei di tempra eccezionale come il suo sposo e non c’era fra loro

sproporzione.

Nello stesso tempo, quel dolore che trovavo identico nel religiosissimo

Bloy e nel presuntamente ateo Pavese, aprivano a me un orizzonte nuovo

sul divino, che poi era anche per me l’unica cosa che importasse veramente.

Cominciavo a conoscere un’esperienza molto diversa dalla mia, che avevo

in dio un amico sempre feldele e che mi dava sempre ragione (come direbbe

Simone de Beauvoir): vedevo cioè che dio – così lo chiamiamo per

tradizione; d’altra parte è un nome comune, non un nome proprio – abita

dentro l’uomo, se entri in te lo trovi, ma non sempre, non per tutti è un dio

che consola o che ti dà sempre ragione. E mi piaceva moltissimo che

Pavese, come del resto Bloy, non avessero mai tentato, come fecero invece

gli amici di Giobbe, di “giustificare” questo Dio che a volte non consola,

che a volte sembra distantissimo e ingiusto, che sempre sembra anche voler

riaffermare la sua alterità rispetto all’uomo, pur quando gli concede la

vicinanza del dialogo. Né Bloy né Pavese hanno mai cercato – parafrasando

il poeta messicano Julio Hubard – di “salvare colui che ci salva”. Ad alcuni,

questo dio sembra infatti riservare un cammino del tutto speciale e

particolarmente doloroso, inesplicabile con il racconto di pur drammatici

eventi esterni. E Pavese si trovò ad accettare già in giovanissima età (e cito

parole sue) di “fare lo scoglio non più l’onda”. Quello di Bloy era consumare

la propria vita perchè altri avessero lo Spirito, che per lui era santo. Pur

detto con parole differenti, identico era il compito di due scrittori tanto

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diversi e pur con tanti punti ideali di contatto. Nessuno dei due si protegge

dietro una morale da pochi soldi o di luoghi comuni, quei luoghi comuni

che ci danno tanta sicurezza e che però sviliscono un poco il mondo che con

noi continua. Nessuno dei due si preoccupa di formulare un definitivo e

sicuro sistema di pensiero capace di far tacere l’ansia di semplice assoluto

che hanno dentro. Lo scrive con molta grazia e umorismo Pavese, 19

febbraio 1938, ne Il mestiere di vivere: “Quei filosofi che credono all’assoluto

logico della verità, non hanno mai avuto a che discorrere a ferri corti con

una donna”.

Entrambi rifiutano il decadente nichianesimo dell’ultima ora

(atteggiamento che esplicitamente Pavese rifiuta e disprezza) e avrebbero

trovato semplicemente insalubre il cinismo di Sartre. Pavese come Bloy sa

che la risposta verrà dall’esterno e l’attende con la disponibilità di cambiare

davvero rotta. Scrive il 29 gennaio del 1944: “Ci si umilia nel chiedere una

grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò

che si chiedeva: si vorrebbe soltanto godere sempre quello sgorgo di

divinità. E`questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio

modo di essere fedele. Una rinuncia a tutto, una sommersione in un mare di

amore, un mancamento al barlume di questa possibilità. Forse è tutto qui:

in questo tremito del “se fosse vero!”. Se davvero fosse vero....”

Ma quel dio che in lui abita tace molto spesso, come tacevano i suoi

antenati, come tacevano lui e suo cugino camminando in collina. E’ un dio

che però sempre riappare, simile alla balena di Moby Dick, nella sua forza

cosmica, nel suo sangue che non significa mai morte ma sempre vita che

nuota in un oceano che l’uomo vorrebbe racchiudere in un bicchiere, per

vincerne la paura ma anche per poterlo accarezzare.

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Sia Pavese che Bloy lavoravano come monaci. E’ proprio Pavese che

scrive, ancora nel suo Diario: “Gli artisti sono i monaci dell’etá borghese.

In essi l’uomo comune vede attuarsi quella vita di contatto con l’eterno,

quell’ascesi, che i villani del 200-400 vedevano nel monaco”. Léon Bloy,

poverissimo, con moglie e figli, dettava in miseria i suoi romanzi e si

manteneva grazie all’aiuto di alcuni estranei benefattori e facendo un

pazientissimo e faticosissimo lavoro di miniaturista. Pavese anche lui

lavora indefessamente, gioisce di un paio di scarpe nuove sotto la pioggia di

Roma, ma non si concede mai un profondo totale svago. I suoi occhi

guardano al posto nostro per guidarci come si fa coi ciechi, riservando per

sè tutto il dolore possibile, sempre timoroso di essere lui un cieco che guida

altri ciechi. Lui sa che vuole guidarci allo stupore e alla meraviglia, più che

al dolore e all’ingiustizia, tanto che scrive nel Diario (11 maggio del 1938):

“Indiscutibile, essendo che tutta l’arte mira alla “meraviglia”: meglio, a

“insegnare la meraviglia”. Stupendosi del “come” e non del “che” ci si

potrà stupire poi, sempre che si voglia.”

Infatti, mi domando: questo suo dolore che troviamo ad ogni pagina,

perchè in qualche maniera tempera e non acuisce il dolore che troviamo

anche dentro di noi? E`che, nonostante e forse grazie proprio a questo

involontario dolore, non si spegne mai in lui la “corrente di simpatia” (come

la chiama il 26 maggio 1938, ne Il mestiere di vivere) che esisteva tra lui e le

cose e questa corrente di simpatia entra in noi, ci apre i polmoni, ci dona un

respiro più ampio, meno affannato e brancolante. E scriverà cinque giorni

dopo: “Almeno le cose bisogna amarle, per creare qualcosa. Ma per amare le

cose, bisogna amare anche le persone. Non si scappa.”

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Terreno dove si giocano passioni non volute, sicuramente subite,

analizzate, raccontate, che diceva di “stare in guardia da chi non si è mai

irritato” (22 luglio 1938, ne Il mestiere di vivere) l’anima di Pavese arriva a

dire quella bellissima frase che me lo ha fatto amare ancora di più (e cito):

“E’ una vecchia sapienza, ma fa piacere averla riscoperta. Credi solo

all’attaccamento che costa sacrificio: tutto l’altro è, nel migliore dei casi,

retorica. Del resto Cristo – il nostro divino modello – non pretendeva di

meno dagli uomini. Da chi non è pronto – non dico a sacrificarti il suo

sangue, che è cosa fulminea e facile – ma a legarsi con te per tutta la vita

(rinnovare cioè ad ogni giornata la dedizione) – non dovresti accettare

neanche una sigaretta”. (11 giugno 1938 – Il mestiere di vivere). E qualche

mese prima aveva scritto: “Se Dio non c’è tutto è permesso. Basta con la

morale. Solo la carità è rispettabile. Cristo e Dostojevskij, tutto il resto

sono balle” (26 gennaio 1938 – Il mestiere di vivere).

E sia Bloy che Pavese erano coscienti di avere il compito di salvare la

loro generazione. Pavese lo scrive il 23 gennaio del 1950, con molta serietà a

Mario Motta che negava l’esistenza della poesia nel suo tempo e cito: “Bada

che io la difendo, questa poesia, anche senza tener conto che c’è uscito

Lavora stanca, libro che basta (non scherzo) a salvare una generazione”. Per

Pavese, la poesia non era infatti un passatempo o uno sfogo, era davvero il

dio che parla.

Spero non vi scandalizziate troppo se il “mio” Pavese vi risulta un

po’ diverso da quello che trovate descritto da altri. Ma dobbiamo

riconoscere che è molto povero il monumento che gli è stato edificato, ed è

un vestito stretto quello che gli hanno cucito addosso. Non possiamo amare

Pavese se non cogliamo il senso profondo di trascendenza, il suo desiderio di

trascendenza, la sua ansia di trascendenza, perchè egli era della razza che

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dice: “E’ inutile, in tutti i tempi, di moderne veramente, non c’è che le

persone di buon senso”. E chi ha buon senso non nega mai il mistero. Lui

scrive questo ne - Il mestiere di vivere, 16 febbraio 1938 - un anno fecondo

per la sua vita, un anno in cui riconosce di essere privo di ciò che tutti al

mondo sembrano sviluppare fin dall’infanzia: vale a dire “l’astuzia”.

Sicuramente proprio per questa mancanza di astuzia era un uomo

solo, che ha generato personaggi che sono soli. “Passavo la sera seduto

davanti allo specchio per tenermi compagnia...” (6 novembre 1938). Forse

perché non aveva attorno a sè nessuno che potesse dialogare con lui al

livello di cui il suo spirito avrebbe avuto bisogno. Prima di fare il suo

viaggio nel regno dei morti (così definisce il suo suicidio, in una lettera a

Davide Lajolo), Pavese scrive a sua sorella Maria – era il 17 agosto del 1950

- e cito: “Ecco 5000 Lire per il parroco di Castellazzo, così continuerà a

predicare storielle – speriamo che ci creda almeno lui”. Ecco, a parte i

dialoghi con questo parroco – per il quale è evidente che aveva affetto ma il

cui vangelo era una storiella inadeguata alla cultura e al dramma di Pavese,

Cesare non ebbe nessuno attorno a lui con cui parlare a fondo e bene, fino

alle radici ultime, del Mistero che salva. Per questo Pavese è anche un

simbolo del nostro tempo, in cui sono pochi quelli che incontrano un altro

con cui poter parlare (e la parola è creazione) di ciò che veramente ha

valore. Léon Bloy aveva vicino a sè Jeanne Molbeck e il gruppo dei suoi

alunni che cercavano Dio. Ma Pavese era circondato dalle vigne, dai colli

che amava, da qualche amico altrettanto silenzioso e parco di risposte, e

dalla vanità. C’ erano le da lui odiatissime avanguardie, c’erano i da lui

odiatissimi salotti romani, e c’erano i libri, e sempre e solo i libri, quelli che

venivano dai paesi lontani e i libri di religione, visto che curava due collane

da Einaudi: le traduzioni e la collana di libri religiosi. Per lui, “un’aquila in

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gabbia”, come lui stesso si definisce, c’erano il Po, le Langhe, i dialoghi in

silenzio in cui attendere che un dio parli, e poi ancora solo i libri e i lettori.

Scrive a Calamandrei: “La sua lettera è venuta come una brezza nel

deserto. Traversavo e traverso un periodo tristissimo, e sia pure soltanto un

sollievo come quello di sentire che non si è lavorato invano e che i migliori

d’Italia se ne sono accorti, è bastato a darmi respiro(...) Spero di superare

queste secche e lavorando dell’altro darle ragione fino in fondo.” Vediamo

che fino all’ultimo Pavese – che si ucciderà cinque giorni dopo aver scritto

questa lettera (una lettera che dunque supera quel “non scriverò più” delle

sue ultime parole del diario) – aveva per quel giorno la speranza di poter

riprendere, di potercela fare a contnuare con la sua vocazione di guidare un

mondo di ciechi.

Pavese avrebbe meritato amici più religiosi, cioé più disposti a

vincolare, con l’azione e il pensiero, la loro vita in senso profondo e libero

con il Mistero che salva. Ma era invece attorniato da chiesette o da fatuità.

Solo i suoi lettori, nel silenzio della lettura individuale, nelle recensioni

(anche se alcune, a volte, erano interessate), gli garantivano che aveva

lavorato, che aveva “dato poesia al mondo”, alle volte come si danno le

perle ai porci, alle volte come si dà da mangiare agli affamati.

Per Pavese, come per Montale, abbiamo detto, “tutte le immagini

portano scritto: “più in là”.

I greci e i latini hanno dato a Pavese questo senso acutissimo del

destino: Socrate beve la cicuta perché così paga il prezzo che deve alla

patria per non averne rispettato le leggi, ma anche perchè sa che o un dio

viene a rivelargli quello che la ragione non raggiunge, o non resta che

morire per andare a vedere come stanno davvero le cose.

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Ma secoli di cristianesimo non sono passati invano nemmeno per

Pavese. E’ forse venuto il dio che ha rivelato all’uomo quello che la ragione

non può raggiungere da sola? E se questo dio si è rivelato, ha davvero

chiarito qualcosa che prima non era chiaro? E questo si domanderà poi

Antonio De Petro in tutta la sua opera e darà una risposta ragionevole ed

esauriente (almeno per me). Noi troviamo nel diario di Pavese questa

congiunzione inevitabile, per un uomo di seria cultura, tra le domande

poste dai greci e le risposte offerte dal cristianesimo: tra “la saggezza greca

e il paradosso cristiano”.

La domanda centrale è sul volto che ha il destino, la moira, il fato. E’

esso buono o cattivo? Dalla risposta a questa domanda, dipende tutta la

vita di una persona. Perchè Pavese sa bene di non aver scelto sua madre, di

non averle saputo nemmeno corrispondere: lo spazio che è dato all’uomo

per costruire il proprio destino è molto limitato. Non abbiamo scelto quasi

nulla di quello che conta: il carattere, la storia, il paese, la lingua che ci

viene naturale parlare, le domande che abbiamo dentro....Se la maggior

parte di quello che siamo e viviamo lo abbiamo ricevuto,è fondamentale

domandarsi se il destino – o dio – che ci ha dato tutto questo è buono o

cattivo. E ci sono molte pagine del Mestiere di vivere in cui Pavese

chiaramente affronta questo tema, il tema degli dei, che occorre tenere

buoni perchè sanno essere molto crudeli e ottengono sempre quel che

vogliono e cito: “La situazione tragica greca è: ciò che deve essere sia. Di qui

il meraviglioso dei numi che fanno accadere ciò che vogliono; di qui le

norme magiche, i tabù o i destini, che devono essere osservati; di qui la

catarsi finale che è l’accettazione del dover essere” (Il mestiere di vivere, 26

settembre del 42).

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E uno dei temi che più mi sembra di poter dire che lo affascinano è il

tema del sacrificio, di cui abbiamo parlato a lungo con gli studenti del corso

di letteratura di questo semestre. Sacrificio nella sua etimologia significa

“rendere sacro”, restituire a chi è il sacro dei sacri (cioè al Mistero)

diventerà poi la forma normale di intenderlo, fino al significato più

quotidiano di “fare fatica”. Tutti ricordano che è proprio Agamennone che

accetta di sacrificare la bella e giovane figlia Ifigenia, per calmare l’ira degli

dei e vincere la guerra. Sappiamo che i greci avrebbero meritato delle

divinitá migliori, ma dovevano proteggersi comunque da loro. Anche

Pavese lo fa: ricorda in una lettera che quando andava a scuola e doveva

fare gli esami, si sforzava al massimo di essere buono per tutta la settimana,

di non fare nessuna cosa che non andava fatta, per poter così riuscire bene

nell’esame. E’ la superstizione naturale, quella che ci viene dal concepire

dio non come colui che di sè parla a Giobbe ma come un bottegaio che ci

vende il prosciutto solo se abbiamo in tasca i soldi per pagarlo. Questo

concetto del sacrificio tanto pagano – cioè del popolo – noi lo ritroviamo

chiaramente in Paesi tuoi. Gisella è la primizia, il primo fiore che spicca

diverso nel giardino selvaggio ed è a lei che tocca la parte dell’Ifigenia

sacrificata una e più volte da un Talino geloso, iroso e pazzamente deciso a

servirsi di tutti, proprio come Agamennone. L’uno vestito di pompa reale;

l’altro col suo fazzoletto a quadri con cui asciuga un maleodorante sudore:

sempre siamo di fronte a un re che decide la morte per salvarsi il futuro. E

per la gente che vive attorno a Talino, Gisella, che ha il sapore delle mele,

non può sfuggire a questa legge: sarà concime per il raccolto che non deve

mai venire meno.

Per vedere se ho ragione o mi sbaglio, potreste leggere

contemporaneamente Paesi tuoi di Pavese, Uomini e topi di Steinbeck e Los

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santos inocentes di Miguel Delibes. L’ambiente è comune ai tre miti. E

vedrete che Pavese parla del sacrificio necessario, Delibes del povero che fa

giustizia e Steinbeck ci racconta la parabola di Lennie, il cui sacrificio rende

più vuoto e inabitale il mondo. Sono tre miti appunto, tre parabole che ci

permettono di camminare nella selva umana con un cuore capace di quella

compassione senza la quale ogni atto é male.

E forse – ma non ne sono completamente sicura – dobbiamo guardare

come possibili vittime sacrificali tutte le morti, volontarie e involontarie,

che abitano le novelle di Pavese.

E mi chiedo se anche la sua di morte non sia da collegare al concetto

pagano del sacrificio che garantisce il buon esito del raccolto. Non so. Come

giustamente è stato detto in una delle conferenze dei giorni scorsi, Pavese

sembra anche aver riconosciuto da sempre e alla fine abbia perciò

abbracciato la morte che il destino aveva pensato per lui.

Cito dal suo diario (26 di marzo del 1938). “La lotta ora non è più tra

il sopravvivere o il decidermi al salto. E`tra il decidermi al salto da solo

come sono sempre vissuto o portare con me una vittima – perchè il mondo

se ne ricordi.” Questo cammino di Pavese per andare oltre il sacrificio, oltre

le apparenze, per abbracciare il tipo di morte che gli era stata destinata è

un altro degli aspetti che varrebbe la pena approfondire e documentare in

tutta la sua opera. Perchè servirebbe molto al nostro tempo, in cui

cominciano a suicidarsi ragazzini delle elementari.

Pavese era di quelli che davanti alle navi che salpano– per citare

sempre Montale – si fermano a terra, perchè poi ritornare è ben diverso da

ciò che si pensava al momento di partire. “Andare al confino è niente;

tornare di là è atroce” (25 dicembre 37).

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E sulla sua morte, solo ricordo quella nota, così poco chiara eppure

così interrogante che troviamo nel diario sempre del 1938, l’8 gennaio:

“Voler uccidersi è desiderare che la propria morte abbia un significato, sia

una suprema scelta, un atto inconfondibile”. Fu dunque il suo un gesto di

ubris (“L’ubris è il conoscere un oracolo e non tenerne conto” – dice Pavese

18 ottobre del 42) o di umile accettazione? Lo sapremo sicuramente alla fine

dei tempi, se allora saremo tuttavia interessati alle vicende di questa vita

terrena.

E dunque, tutto questo nostro discorrere su di lui, con lui e per noi,

c’entra qualcosa con la non-violenza? Forse no. E’ che quel mio titolo –

Pavese e la non violenza - è nato dal tremendo fatto che ha colpito Javier

Sicilia, dal suo grido per la pace, che speriamo possa davvero risultare un

grido personale e collettivo, silenzioso, pacifico e trasformatore, con la

marcia che comincia domani nella voglia di tutti di un mondo più giusto e

umano.

Pavese non era in sè un non violento: non amava – come risulta dal

Diario - né Tolstoy, né Gandhi, i maestri della non violenza. Pavese dice:

“O con amore o con odio, ma sempre con violenza” (25 dicembre del 37).

Perché dei violenti è il regno dei cieli: lo dice anche il Vangelo. Ma si

tratta della violenza di chi lava i piedi ai propri fratelli: cioè tutt’altra cosa

dalla violenza che subiamo o commettiamo. E la non-violenza di Pavese io

la ritrovo non tanto in quello che ha detto, quanto in quello che ci ha

insegnato. Ci ha insegnato almeno a desiderare di arrivare ad essere una

carità vivente e su questo ci sono pagine sue bellissime, sia nelle lettere sia

nel diario sia nel colloquio con se stesso che fa nei Dialoghi con Leucò. Cito

quasi a caso: Scrive: “Ti piacciono le cose assolute? Non puoi costruire un

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amore totalitario; costruisci una bontà totalitaria” ma “La bontà che nasce

dalla stanchezza di soffrire è un orrorre peggio che la sofferenza” (16 e 20

febbraio 1938, Il mestiere di vivere).

Sulla forza con cui, attraverso le parole, la sincerità e l’umiltà e la

pura contemplazione dei ricordi, Pavese vuole costruirsi come uomo, non c’

è dubbio alcuno. Sul suo amore agli uomini e alle cose – sul quale “volano i

petali dei meli e dei peri” (18 aprile del 45) – non c’è dubbio. Ma non era un

uomo “politico” nel senso con cui usiamo normalmente questa parola. Non

avrebbe mai voluto fare il deputato o la resistenza armata o il presidente di

un sindacato. Con gli operai ci andava, insieme al suo gruppo di

Strabarriera, nelle bettole di Torino, e li contemplava e a suo modo li

amava e ne succhiava la selvaggia naturalità e la nodosa ritrosìa. Anche se

fu mandato al confine, anche se scriveva sull’Unità ed era un comunista,

per obbligo di coscienza, in Pavese non incontriamo un rivoluzionario o un

leader sociale o uno stratega che mette al servizio dei suoi un’inetteligenza

che permetta loro di arrivare più in fretta al potere. Tutto questo è estraneo

al nostro Pavese il cui pensiero insegue il colore dei mari della Tasmania e

l’Orca bianca che domina fuggente l’oceano.

Però appunto ha formato una generazione di giovani ad amare la pace e la

libertà. Anche se mi costa un po’ citarla, il ricordo che di Pavese fece

Fernanda Pivano quando già era molto anziana, durante un’intervista,

credo renda ragione di quanto sto dicendo: “Ero poco piu' che una

bambina, diciamo un'adolescente, quando Cesare Pavese, il destino lo

ringrazi per tutto quello che ha fatto per me, per noi, mi ha dato questo

libro (parla dell’ Antología di Spoon River) dicendomi: "Sono sicuro che lei

capira' cosa vuol dire". (…). E' la fiducia di Cesare Pavese che mi ha fatto

andare avanti tutti questi anni. Chi lo sa se questo libro l'ho capito, ma non

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ho mai smesso di amarlo e di pensare che stava cambiando il pensiero dei

ragazzi come me, avviandoli verso il pacifismo,

verso la liberta', verso la fiducia nei valori morali che cercava di

impadronirsi delle nostre anime minacciate di allora. (…).”

Pavese vediamo che regalava ai suoi giovani amici dei libri che

invitavano alla libertà e alla pace. Continua la Pivano: “In fondo veniva

fuori che era un modo come un altro di legarci di piu' ad autori misteriosi

che mostravano un esempio di come si puo' aiutare folle di giovani a

cambiare, letteralmente cambiare, le basi ideologiche della vita. Pavese mi

ha cambiato per sempre la vita facendomi leggere Ernest Hemingway,

Sherwood Anderson, Walt Whitman e questo poeta poco piu' che

conosciuto di nome come era ancora Edgar Lee Masters. Erano (le voci)

vietate di una piccola rivista preziosa che si chiamava "La cultura", forse la

prima rivista a presentare Pavese per quello che era, un antifascista

perseguitato, e coraggioso esponente di idee supervietate che stavano

costruendo il nuovo mondo. Erano idee piu' precise e definitive di quelle che

avevano portato mio padre alla sua rovina, con un futuro che pareva ormai

senza luci. E il mondo era cosi' anche per Pavese, e io ero li', bambina

incapace di credere nel mondo che aveva distrutto mio padre e ansiosa di

conoscere speranze di un mondo come quello che aveva distrutto Pavese.

(…) Tra Melville e Hemingway mi faceva leggere i poeti che gli mandava il

suo amico farmacista da New York; e mi spiegava, mi spiegava i loro sogni,

mi spiegava le loro inafferrabili speranze.” (fine della citazione)

Pavese era un uomo buono: la sua non violenza è tutta qui.

Leggiamo nel diario del 27 maggio del 47: “Una persona che ti ripugni, va

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sopportata. Dopo un po’ viene fuori – infallibile – qualcosa di non comune,

di vero”.

Anche per me questo è un modo vero, per tutti possibile, di fare

qualcosa per cambiare il mondo.

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