CESARE PAVESE - Pocherighe · CESARE PAVESE By Pocherighe Nella vita dell’uomo c’è una lotta...
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CESARE PAVESE
By Pocherighe
Nella vita dell’uomo c’è una lotta costante: lotta tra l’indifferenza
verso tutto (gli altri, gli eventi, le cose) e l’ansia di possedere tutto (gli altri,
gli eventi, le cose), e Pavese, il più intelligente (ma il meno astuto) tra i
nostri scrittori della prima metà del 900, ha vissuto in tutte le sue fibre
questa lotta umana, in un contrasto quotidiano, fatto di solitudine e ansia
di comunione, di costante esame di coscienza quasi sempre impietoso verso
se stesso, e di un lucido interrogarsi e interrogare la letteratura, la storia, la
realtà tutta in attesa di trovare almeno un briciolo di verità.
E come lui, anche tutti noi lottiamo ogni giorno, - lui molto cosciente,
noi spesso senza accorgercene - alla ricerca di un viottolo che ci conduca
all’equilibrio tra queste due spinte contrarie e inquietanti (indifferenza e
possesso), entrambe insoddisfacenti per quella pienezza cui l’anima umana
anela. Tutta l’opera di Pavese ci fa capire che il viottolo dell’equilibrio tra
queste due forze è un’illusoria tentazione, perché – come ci insegna il poeta
Antonio De Petro - non si può soddisfare la sete bevendo stoicamente della
sabbia: abbiamo bisogno, umilmente bisogno, di trovare l’acqua, cioè di
trovare, di riconoscere quell’elemento giusto che sappia saziare la nostra
sete. E per incontrare questo, sono convinta che sia necessario entrare in
una dimensione totalmente diversa dalla stoica lotta tra indifferenza e
anelo di possesso. Lo spirito umano – che Pavese chiama “spirito non
santo” - è fatto per incontrare una risposta vera, e questa risposta si
nasconde per lui dietro una maschera di eccessi: quell’eccesso di silenzio,
quell’eccesso di osservazione, quell’eccesso di sincerità, quell’eccesso di
lettura e scrittura che pervadono le numerosissime pagine che Pavese ha
scritto e che a noi tocca leggere, fare nostre e non dimenticare.
Umiltà e contemplazione sono due parole ricorrenti nell’opera di
Pavese - e forse sono le più inascoltate dai suoi lettori (perchè sono da lui
solo suggerite, mai imposte, pur in quella sua caparbia coscienza che
“repetita iuvant”). Ecco direi che sono piene di umiltà e di pura
contemplazione Paesi tuoi o La luna e i falò, Il Compagno, La spiaggia, La
bella estate o Il diavolo sulla collina, Il mestiere di vivere, Le poesie del
disamore e Lavorare stanca o I dialoghi con Leucò o La casa in collina e
perfino Tra donne sole, ma anche i suoi racconti, i saggi, gli articoli e quella
sua meravigliosa corrispondenza piena di umore, di forza e di intelligenza,
rapida a volte, a volte frettolosa, a volte lentissima ed esauriente, mai
sciatta o imprecisa.
L’umiltà Pavese la raggiunge attraverso il realismo con cui guarda se
stesso e gli altri: è l’umiltà che nasce dall’ovvia evidenza del limite della
persona umana. E, come succede a tutti, all’umiltà anche Pavese vi arriva
per mezzo di umiliazioni non cercate. L’esperienza dell’umiliazione ci può
sembrare quasi esagerata in lui, appunto un eccesso, un po’ come se ci
trovassimo di fronte a un Jacopone da Todi del Nord, che parla in quel suo
privato e speciale dialetto però del secolo ventesimo. Scrive Pavese a Billi
Fantini: “Si convinca che fuori dei libri scritti, io non sono che una mezza
cartuccia, un “angolino da ripulire”, un vermiciattolo” (20 luglio 1950). C’è
una certa sottilissima ironia, propria di Pavese, ma c’è anche tanta
profonda serietà in queste parole e non certo è a caso che va a un ricordo
biblico, precisamente a Geremia nel capitolo 2, quando Dio si rivolge al
profeta chiamandolo appunto “vermiciattolo”.
Se l’umiltà gli è costata cara, non è stato più a buon mercato che ha
raggiunto quella capacità di contemplazione pura che stupisce e lo rende
unico. Scrive a Piero Calamandrei il 21 agosto 1950: “Quella “serena
contemplazione del ricordo” che lei rileva nei miei libretti non è stata se non
a prezzo di tali rinunce nella mia vita che oggi ne sono tramortito”.
E vorrei a questo punto suggerire una domanda: in che modo
dobbiamo leggere tutte queste sue pagine, così dense, mai fatue, di una
poesia che quando non toglie il fiato spezza comunque il cuore? Cerco di
rispondere, partendo da come l’ho letto e lo leggo io, cioè dalla mia
esperienza diretta.
Per leggere bene questi che lui definisce “i miei libretti”, dobbiamo
metterci nella stessa umiltà e nella stessa contemplazione con cui lui parla e
scrive, osserva e trascrive, sente e trasmette: mi sembra che sia questa la
chiave di lettura più sanamente generatrice per accogliere quel cavallo di
razza che è stato Pavese, per farcelo “conoscere” in una più giusta e più
esaustiva dimensione. Umiltà e contemplazione sono due virtù (cioè due
forze), come abbiamo visto, che non sono facili da raggiungere e che
costano care. Lui scrive il nome di queste due virtù (col dolore, con
l’erudizione, con la curiosità, con la sua durezza, senza peli sulla lingua, ma
mai con malvagità) su una specie di gigante lavagna, per così spingerci a
farle nostre e a lasciar perdere quell’illusorio viottolo dell’equilibrio che
vorremmo percorre, e indurci invece a cambiare strada. Pavese ci obbliga
quasi, con la violenza propria dei timidi, a prendere la nostra croce umana e
a camminare a piedi nudi verso sù, per una viuzza seminascosta,
acciottolata e ripida, da cui vedremo un panormana che è anticipo di
verità. E in mezzo alla vigna o mangiando ciliegie davanti alla notte,
Pavese si offre come una primizia dell’uomo del secolo ventesimo che
percorre questa viuzza in salita, dove ogni passo si nutre di una sempre più
intima e inesorabile passione per il vero.
Dopo una settimana di intenso lavoro, di incontri, di poche ore di
sonno, arriva finalmente il sabato pomeriggio, per riposare, magari di
fronte al mare o a una bella collina o una serie di orti coltivati a verzura e
colorati di fiori: qui, in questo silenzio che accompagna il riposo, ognuno di
noi ce la fa sicuramente a leggere l’abitabile Pratolini, quello “schietto
narratore” (3 ottobre del 44) che era il Boiardo, o si può leggere Boccaccio,
l’Ariosto, persino Tolstoi (tanto odiato da Pavese) o quell’adolescente di
Svevo (come lui lo definiva). Ma sicuramente nessuno ce la fa a leggere
Pavese, a meno che non decida di rinunciare al riposo e rimettersi al
lavoro.
Per poter entrare nella profondità e ampiezza di domande e di
contraddizioni che Pavese offre, il nostro spirito non può essere in riposo:
dev’ essere vigile, sveglio, pronto alla lotta. Ci si annoia subito con Pavese,
se non ci si impegna sul serio ad ascoltarlo e a lottare con lui o contro di lui.
Pavese è solo per lettori vigilanti, disposti a non lasciarsi soffocare dalla
realtà che questo inusuale scrittore ci racconta senza difese e senza reti
protettive. Insomma, Pavese è per lettori che vogliano diventare lettori di
razza.
Pavese va letto lentamente: non è cibo da buffet o da fast food. Va
letto piano piano anche quando – come succede soprattutto nelle sue poesie
– uno vorrebbe mangiarsele tutte d’un fiato. Ma se si vince l’ imprudente
tentazione di leggerlo in fretta e ci si dona all’arte della lenta lettura e
dell’ascolto puro, ecco che a poco a poco il palato diventa regale e si può
assaporare tutta la ricchezza di un gusto mai provato prima, ci si nutre di
un miele a volte dolcissimo a volte molto amaro, sempre in grado di
suscitare domande ed emozioni importantissime e inevitabili. Con Pavese,
dunque, s’impara a leggere lentamente e così, invece di mangiarli o metterli
via, ci lasceremo interrogare dai suoi libri, e sarà un’esperienza di grande
maturazione umana e letteraria.
Quando aveva solo diciottanni, in una lettera al suo amico Mario
Sturani, Pavese indica qual è il vero motivo per cui scrive. Lo dice in uno
dei suoi primi tentativi di poesia, non certo riuscito però chiarissimo:
“Logoro, disilluso, disperato/ di mai riuscire a suscitare nell’anima/degli
uomini una vampa di passione/con un’arte ben mia, così vivo/triste nei
lunghi giorni...eppure a tratti/mi sento traboccare di una vita/ caldissima,
potente, che se mai/ riuscissi a esprimere, sarebbe colma/ tutta la mia
esistenza!”
Sotto la lamina del sottile gelido inverno del suo temperamento
piemontese, c’è dunque un’anima che vibra intensamente e noi dobbiamo
prendere in mano queste braci, se vogliamo incontrare quella scintilla che
purifica ogni banalità.
Abbiamo detto che il primo passo è leggerlo lentamente per
incontrare qualcosa che va al di là di quella barriera che Pavese frappone
tra lui e noi – nonostante tutte le confidenze di cui pure è capace.
Incontrare la porticina scavata in questo muro e trapassarla, entrando così
in quell’inusuale suo lucidissimo sguardo sul mondo, è un passo non facile
ma ne vale la pena: basta solo deciderlo e poi camminare. Dobbiamo
dimenticarci di noi stessi che stiamo leggendo Pavese. Dobbiamo
dimenticarci dell’autore e di tutto quello che di lui abbiamo ascoltato o
sentito dire. Dobbiamo fare una sola cosa: lasciarci amare da quelle poesie,
da quei racconti, da quelle lettere, da quegli articoli, da quei saggi e da
quelle novelle: perché Pavese è vivo e con lui dobbiamo instaurare un
dialogo degno di un interlocutore che non spreca parole, che non riempie
pagine a casaccio e che non intende ingannarci. Lo so che non è facile
lasciarsi amare così, e d’altra parte lasciarsi amare è ancor più difficile che
amare, e forse è per questo che Pavese, nel nostro mondo un po’ volgare, un
po’ fatuo e un po’ distratto – che tanto assomiglia al rospo che si gonfia di
vanità per due nozioni di psicologia imparate sulle riviste di moda o dagli
oroscopi gratuiti – è notissimo di nome e sconosciuto di fatto. Ma io insisto
nel dire che vale la pena trapassare quella soglia ed entrare direttamente in
un dialogo personalissimo con lui, perché se di una cosa sono sicura è che,
leggendo bene Pavese, uno diventa più uomo. Per questo, è sempre
piuttosto deludente e a volte fa rabbia e a volte fa pena e sempre risulta
ingiusto quello che tanti ne han fatto e ne fanno di lui: un personaggio di
cui si raccontano, con piacere o con dolore, con malizia o compagnoneria, le
più tristi banalità o i più privati presunti segreti.
Non voglio dire che di Pavese si siano scritte o dette cose solo
superficiali o inutili: anzi. Molti lo hanno amato, come “lo scrittore” che
ha avuto il coraggio di dire tutto di se stesso, attraverso il diario e le lettere,
e che ha avuto la debolezza di non prendere in mano il fucile al tempo della
battaglia e di aver ammazzato se stesso invece che altri, ma in troppi sono
caduti nella trappola di ridurlo in fin dei conti a un oggetto di pettegolezzo,
proprio come lui chiedeva di non fare, ben sapendo che di pettegolezzi
s’immiserisce tutta l’umanità.
E– detto tutto questo – aggiungo che Pavese non è per me né un
idolo né un personaggio mitico. E’ un grandissimo scrittore già classico, un
punto di non ritorno per la letteratura italiana ed è, ripeto, un cavallo di
razza, e va letto come lui stesso ci invita a fare con ogni libro che ci
troviamo tra le mani.
Cito da un articolo di Pavese pubblicato su “L’Unità” di Torino il 20
giugno del 1945:
“Accade coi libri come con le persone. Vanno presi sul serio. Ma
appunto per ciò dobbiamo guardarci dal farcene idoli, cioè strumenti della
nostra pigrizia. In questo, l’uomo che fra i libri non vive, e per aprirli deve
fare uno sforzo, ha un capitale di umiltà, di inconsapevole forza – la sola
che valga – che gli permette d’accostarsi alle parole col rispetto e con l’ansia
con cui ci si accosta a una persona prediletta.” Poi continua così: “E questo
vale molto più che la “cultura”, è anzi la vera cultura. Bisogno di
comprendere gli altri, carità verso gli altri, ch’è poi l’unico modo di
comprendere e amare se stessi: la cultura comincia di qui. I libri non sono
gli uomini, sono mezzi per giungere a loro; chi li ama e non ama gli uomini,
è un fatuo o un dannato.”
Se leggiamo Pavese con questa umile forza di chi non è uno scriba,
cioé un sapientone già avvezzo ai libri, di chi non lo scruta al di qua dalla
sottile lamina di metallo di cui parlavamo prima, i suoi libri ci serviranno,
dunque, per imparare ad amare gli uomini. Perché, se amiamo i libri e non
amiamo gli uomini, lui dice, siamo “fatui o dannati”, due parole molto
forti che certamente dirige a se stesso, per quel senso di niente che aveva di
sè, come spesso succede alle anime davvero grandi.
Di Pavese bisognerebbe leggere tutto e avere una mente come quella
di Pico della Mirandola, per ricordare ogni parola e citare tutto a memoria.
Ma questo purtroppo è per me impossibile. Mi limito dunque a cogliere
alcuni punti in quel mare di materiale che ci ha lasciato e che è passibile
appunto di varie ipotesi di lettura. Io ne ho sempre scelta una,
sopratuttutto perchè ho avuto in sorte di leggerlo per la prima volta in un
tempo in cui non c’erano né Google né Wikipedia né l’ossessione delle
biografie e di lui quindi sapevo solo che si era suicidato, perchè me l’aveva
detto mia sorella maggiore e non ricordavo bene se poi a suicidarsi fosse
stato lui o Luigi Tenco, perchè ero ancora poco più che una bambina. Per
me c’erano sole le sue parole, quello che leggevo di nascosto appunto dallo
sguardo vigile di mia sorella e sentivo che lui doveva aver sudato per
scrivere così, in un mitico nuovo raccontare, né potevo riconoscere in quelle
righe, che mi tenevano incatenata a lui, alcun cenno biografico. Con
stupore, incontravo un uomo che mi parlava e cercavo di immaginare che
volto avesse, se era bello o brutto, alto o basso, magro o grasso. E
procedendo nella lettura mi dimenticavo poi di queste curiosità futili,
perché trovavo un uomo che mi apriva la mente, che mi puliva da tante
adolescenzialità, che mi faceva respirare a un ritmo diverso da come
respiravo quando ancora non lo conoscevo e, insieme a tutto questo, debbo
riconoscerlo, trovavo un uomo che mi faceva molta soggezione, perché
decisamente era troppo intelligente e troppo colto. Nessuna caduta
sentimentale, nessuna asprezza fuori luogo: quel raccontare fin nel dettaglio
e pur sempre inesauriente, così che uno potesse metterci dentro il proprio
personale lavoro, la propria personale creazione e poi quelle domande, sul
tempo, la storia, il destino; duemila anni di convivenza tra la cultura greca
e la cultura cristiana, il senza tempo dell’uomo, quell’eterno selvaggio che
sacrifica al dio sconociuto una primizia, per garantire il buon raccolto,
erano condensati in libretti che parlavano un linguaggio tutto suo, preso
dai classici e dai campi. E poi quello sguardo che mi insegnava come
guardare un fiume, un vigneto, un sentiero in collina, una catapecchia, una
finestra, una notte; che mi insegnava a riconoscere la pioggia e a sapere che
nella mente degli altri è sempre in atto un dialogo interiore che li isola e al
contempo li accomuna. Che mi faceva capire che il lavoro è un dovere che si
paga caro. Che anche le parole hanno scritto “più in là”, come dice Montale.
Ah, tutto questo mi è entrato nelle vene, ha liberato la mia mente, ha
riempito di carità (che non è l’elemosina) quel mondo di gente che buttava
via la vita, quando non se la toglieva, perchè il dio restava sconosciuto.
In Pavese inoltre trovavo un punto molto alto e nello stesso tempo
molto profondo che me lo faceva amare e preferire a tanti altri scrittori che
pure mi appassionavano e di cui divoravo – sempre di nascosto - i romanzi
che mia sorella teneva chiusi a chiave in una vetrinetta.
E per cercare di trasmettervi questo punto molto alto e molto
profondo per me, uso il metodo del confronto, che è un’astuzia che uso
sempre quando cerco di esprimere qualcosa che mi risulta complicato
esprimere.
C’ è uno scrittore francese che si chiama Léon Bloy. Stupendo
scrittore dei primi del novecento, che aveva tutta la forza di un mistico. Vi
consiglio di leggere le lettere che scrisse alla sua fidanzata, la protestante
Jeanne Molbeck e, fra i suoi romanzi, il suo capolavoro, che si intitola: La
donna povera. Romanzo bellissimo, che caldamente appunto vi consiglio.
Léon Bloy lo definiscono “il pellegrino dell’assoluto”. Bloy era stato
impietosamente obbligato, da quel Mistero che abita l’umana esistenza, a
varcare la soglia che dal dolore individuale conduce al dolore universale, un
dolore che non fa rumore, durissimo da portare, impossibile da evitare.
Bloy avrebbe dato volentieri la sua vita per strapparsi questo dolore, ma gli
era impossibile, non gli appartenevano né la vita né il dolore e aveva solo
un’arma per riuscire a convivere con questa sofferenza: la preghiera che
diventava parola, quindi romanzo. Vi si abbandonó, dunque,come un
bambino che, alla fine, non ha altra scelta che obbedire a mamma e a papà.
Solo talvolta, la pace e la gioia di una verità che gli si rivelava e che
riusciva a trasmettere, lo alleviavano per un momento, qualche ora, un
giorno, da quella durissima sofferenza interiore. Voglio chiarire: Bloy non
è uno scrittore dolorifico o lacrimoso, al contrario. E’ uno scrittore, direbbe
san paolo, molto carnale, di sangue e di violenta carità. Credo che sia stato
un uomo con una vocazione speciale, quella di guardare e sperimentare al
posto nostro quel parto che permette alla realtà di esistere. Il suo è molto
vicino al dolore che hanno provato certi santi, come Teresa del Bambino
Gesù o san Giovanni della Croce o Teresa la grande. Nell’economia che
sembra vigere non solo nelle case di noi poveri, ma anche nella storia
dell’umanità, è come se alcuni debbano soffrire al posto di altri, per
permettere che questi altri non siano schiacciati da una croce troppo
pesante. Ed è dovere di questi tipi umani, delle persone che hanno questa
vocazione, trovare un senso al dolore e farcelo sapere. Notevolissimo
scrittore, di cui i francesi vanno molto orgogliosi, attorno a Bloy si costruì
un giro di intellettuali che Raissa Maritain, un’ebrea convertita al
cristianesimo e sposa del famosissimo filosofo Jacques Maritain,
immortalerà nel suo libro I grandi amici. In Pavese, io ho trovato lo stesso
tipo di dolore che ho incontrato in Bloy. Sono uomini della stessa stoffa.
Scrive Pavese nel suo diario del 26 di marzo del 1938: “Tutti i giorni, tutti i
giorni, dal mattino alla sera, pensare così. Nessuno ci crede: è naturale. E
forse è questa la mia vera qualità (non l’ingegno, non la bontà, non niente):
essere invasato d’un sentimento che non lascia cellula del corpo sana.”
Parla dell’amore per una donna come sapete, ma c’è un più in là, che noi
tutti avvertiamo come assenza di quell’Assoluto che avrebbe potuto sanare
ogni cellula del suo corpo. E’ lui a dirlo in alcune pagine del suo diario del
1944, annata che lui stesso definisce “strana, ricca. Cominciata e finita con
Dio” e poi aggiunge parlando a se stesso: “potrebbe essere la più
importante che hai vissuto”. Cito sono un frammento brevissimo: “Lo
sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare. Al
punto che la prima avvisaglia del dolore ci dà un moto di gioia, di
gratitudine, di aspettazione...Si arriva ad augurarsi il dolore” (1 febbraio).
E il 2 dicembre: “Di nuovo l’esperienza che si desidera il dolore per
avvicinarsi a Dio”.
Non sono dunque suo nucleo di fondo e centrale i dolori psicologici né
sono le mancanze affettive quelle che si nascondono dietro le lucide
creazioni di questi due geni della sofferenza che furono Bloy e Pavese: è
qualcosa che ha a che vedere con l’eterno, e con una vita più forte del
vivere stesso, cioè con l’Assoluto. I due scrittori lo esprimono in forme
molto diverse, entrambi comunque frutto di un paziente lavoro di identità
tra ciò che vedono e ciò che sentono e di adeguazione della loro parola
all’orecchio di chi li ascolterà con attenzione. E’ il loro un dolore che
normalmente li sorprende, non lo vorrebbero, non cercano se non dopo una
lunga formazione ad esso, contro cui spesso combattono, che li lascia soli
con un desiderio molto puro di abbraccio della verità, evento che non può
venire nè dall’abbraccio della donna nè dal successo.
E questo loro dolore, con cui io mi scontravo essendo molto giovane e
abbastanza superficiale, sentivo però che mi commuoveva profondamente
anche perchè era difficile ammetterlo ma riconoscevo che, se mi fosse stato
dato di conoscere personalmente Pavese o Bloy, non avrei saputo in alcun
modo camminare al loro livello. A me Pavese al massimo avrebbe potuto
dire quello che scrisse a Pierina, quella ragazza di Bocca di Magra che
troviamo nelle sue lettere: “C’è una tale sproporzione di stati d’animo tra
noi due, che le mie stesse parole mi ritornano in bocca e mi feriscono”
(agosto del 50). Mentre invece, Jeanne Molbek, la giovane che si prese cura
di Bloy, che lo amò e lo sposò, se non ebbe certo vita facile, era però anche
lei di tempra eccezionale come il suo sposo e non c’era fra loro
sproporzione.
Nello stesso tempo, quel dolore che trovavo identico nel religiosissimo
Bloy e nel presuntamente ateo Pavese, aprivano a me un orizzonte nuovo
sul divino, che poi era anche per me l’unica cosa che importasse veramente.
Cominciavo a conoscere un’esperienza molto diversa dalla mia, che avevo
in dio un amico sempre feldele e che mi dava sempre ragione (come direbbe
Simone de Beauvoir): vedevo cioè che dio – così lo chiamiamo per
tradizione; d’altra parte è un nome comune, non un nome proprio – abita
dentro l’uomo, se entri in te lo trovi, ma non sempre, non per tutti è un dio
che consola o che ti dà sempre ragione. E mi piaceva moltissimo che
Pavese, come del resto Bloy, non avessero mai tentato, come fecero invece
gli amici di Giobbe, di “giustificare” questo Dio che a volte non consola,
che a volte sembra distantissimo e ingiusto, che sempre sembra anche voler
riaffermare la sua alterità rispetto all’uomo, pur quando gli concede la
vicinanza del dialogo. Né Bloy né Pavese hanno mai cercato – parafrasando
il poeta messicano Julio Hubard – di “salvare colui che ci salva”. Ad alcuni,
questo dio sembra infatti riservare un cammino del tutto speciale e
particolarmente doloroso, inesplicabile con il racconto di pur drammatici
eventi esterni. E Pavese si trovò ad accettare già in giovanissima età (e cito
parole sue) di “fare lo scoglio non più l’onda”. Quello di Bloy era consumare
la propria vita perchè altri avessero lo Spirito, che per lui era santo. Pur
detto con parole differenti, identico era il compito di due scrittori tanto
diversi e pur con tanti punti ideali di contatto. Nessuno dei due si protegge
dietro una morale da pochi soldi o di luoghi comuni, quei luoghi comuni
che ci danno tanta sicurezza e che però sviliscono un poco il mondo che con
noi continua. Nessuno dei due si preoccupa di formulare un definitivo e
sicuro sistema di pensiero capace di far tacere l’ansia di semplice assoluto
che hanno dentro. Lo scrive con molta grazia e umorismo Pavese, 19
febbraio 1938, ne Il mestiere di vivere: “Quei filosofi che credono all’assoluto
logico della verità, non hanno mai avuto a che discorrere a ferri corti con
una donna”.
Entrambi rifiutano il decadente nichianesimo dell’ultima ora
(atteggiamento che esplicitamente Pavese rifiuta e disprezza) e avrebbero
trovato semplicemente insalubre il cinismo di Sartre. Pavese come Bloy sa
che la risposta verrà dall’esterno e l’attende con la disponibilità di cambiare
davvero rotta. Scrive il 29 gennaio del 1944: “Ci si umilia nel chiedere una
grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò
che si chiedeva: si vorrebbe soltanto godere sempre quello sgorgo di
divinità. E`questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio
modo di essere fedele. Una rinuncia a tutto, una sommersione in un mare di
amore, un mancamento al barlume di questa possibilità. Forse è tutto qui:
in questo tremito del “se fosse vero!”. Se davvero fosse vero....”
Ma quel dio che in lui abita tace molto spesso, come tacevano i suoi
antenati, come tacevano lui e suo cugino camminando in collina. E’ un dio
che però sempre riappare, simile alla balena di Moby Dick, nella sua forza
cosmica, nel suo sangue che non significa mai morte ma sempre vita che
nuota in un oceano che l’uomo vorrebbe racchiudere in un bicchiere, per
vincerne la paura ma anche per poterlo accarezzare.
Sia Pavese che Bloy lavoravano come monaci. E’ proprio Pavese che
scrive, ancora nel suo Diario: “Gli artisti sono i monaci dell’etá borghese.
In essi l’uomo comune vede attuarsi quella vita di contatto con l’eterno,
quell’ascesi, che i villani del 200-400 vedevano nel monaco”. Léon Bloy,
poverissimo, con moglie e figli, dettava in miseria i suoi romanzi e si
manteneva grazie all’aiuto di alcuni estranei benefattori e facendo un
pazientissimo e faticosissimo lavoro di miniaturista. Pavese anche lui
lavora indefessamente, gioisce di un paio di scarpe nuove sotto la pioggia di
Roma, ma non si concede mai un profondo totale svago. I suoi occhi
guardano al posto nostro per guidarci come si fa coi ciechi, riservando per
sè tutto il dolore possibile, sempre timoroso di essere lui un cieco che guida
altri ciechi. Lui sa che vuole guidarci allo stupore e alla meraviglia, più che
al dolore e all’ingiustizia, tanto che scrive nel Diario (11 maggio del 1938):
“Indiscutibile, essendo che tutta l’arte mira alla “meraviglia”: meglio, a
“insegnare la meraviglia”. Stupendosi del “come” e non del “che” ci si
potrà stupire poi, sempre che si voglia.”
Infatti, mi domando: questo suo dolore che troviamo ad ogni pagina,
perchè in qualche maniera tempera e non acuisce il dolore che troviamo
anche dentro di noi? E`che, nonostante e forse grazie proprio a questo
involontario dolore, non si spegne mai in lui la “corrente di simpatia” (come
la chiama il 26 maggio 1938, ne Il mestiere di vivere) che esisteva tra lui e le
cose e questa corrente di simpatia entra in noi, ci apre i polmoni, ci dona un
respiro più ampio, meno affannato e brancolante. E scriverà cinque giorni
dopo: “Almeno le cose bisogna amarle, per creare qualcosa. Ma per amare le
cose, bisogna amare anche le persone. Non si scappa.”
Terreno dove si giocano passioni non volute, sicuramente subite,
analizzate, raccontate, che diceva di “stare in guardia da chi non si è mai
irritato” (22 luglio 1938, ne Il mestiere di vivere) l’anima di Pavese arriva a
dire quella bellissima frase che me lo ha fatto amare ancora di più (e cito):
“E’ una vecchia sapienza, ma fa piacere averla riscoperta. Credi solo
all’attaccamento che costa sacrificio: tutto l’altro è, nel migliore dei casi,
retorica. Del resto Cristo – il nostro divino modello – non pretendeva di
meno dagli uomini. Da chi non è pronto – non dico a sacrificarti il suo
sangue, che è cosa fulminea e facile – ma a legarsi con te per tutta la vita
(rinnovare cioè ad ogni giornata la dedizione) – non dovresti accettare
neanche una sigaretta”. (11 giugno 1938 – Il mestiere di vivere). E qualche
mese prima aveva scritto: “Se Dio non c’è tutto è permesso. Basta con la
morale. Solo la carità è rispettabile. Cristo e Dostojevskij, tutto il resto
sono balle” (26 gennaio 1938 – Il mestiere di vivere).
E sia Bloy che Pavese erano coscienti di avere il compito di salvare la
loro generazione. Pavese lo scrive il 23 gennaio del 1950, con molta serietà a
Mario Motta che negava l’esistenza della poesia nel suo tempo e cito: “Bada
che io la difendo, questa poesia, anche senza tener conto che c’è uscito
Lavora stanca, libro che basta (non scherzo) a salvare una generazione”. Per
Pavese, la poesia non era infatti un passatempo o uno sfogo, era davvero il
dio che parla.
Spero non vi scandalizziate troppo se il “mio” Pavese vi risulta un
po’ diverso da quello che trovate descritto da altri. Ma dobbiamo
riconoscere che è molto povero il monumento che gli è stato edificato, ed è
un vestito stretto quello che gli hanno cucito addosso. Non possiamo amare
Pavese se non cogliamo il senso profondo di trascendenza, il suo desiderio di
trascendenza, la sua ansia di trascendenza, perchè egli era della razza che
dice: “E’ inutile, in tutti i tempi, di moderne veramente, non c’è che le
persone di buon senso”. E chi ha buon senso non nega mai il mistero. Lui
scrive questo ne - Il mestiere di vivere, 16 febbraio 1938 - un anno fecondo
per la sua vita, un anno in cui riconosce di essere privo di ciò che tutti al
mondo sembrano sviluppare fin dall’infanzia: vale a dire “l’astuzia”.
Sicuramente proprio per questa mancanza di astuzia era un uomo
solo, che ha generato personaggi che sono soli. “Passavo la sera seduto
davanti allo specchio per tenermi compagnia...” (6 novembre 1938). Forse
perché non aveva attorno a sè nessuno che potesse dialogare con lui al
livello di cui il suo spirito avrebbe avuto bisogno. Prima di fare il suo
viaggio nel regno dei morti (così definisce il suo suicidio, in una lettera a
Davide Lajolo), Pavese scrive a sua sorella Maria – era il 17 agosto del 1950
- e cito: “Ecco 5000 Lire per il parroco di Castellazzo, così continuerà a
predicare storielle – speriamo che ci creda almeno lui”. Ecco, a parte i
dialoghi con questo parroco – per il quale è evidente che aveva affetto ma il
cui vangelo era una storiella inadeguata alla cultura e al dramma di Pavese,
Cesare non ebbe nessuno attorno a lui con cui parlare a fondo e bene, fino
alle radici ultime, del Mistero che salva. Per questo Pavese è anche un
simbolo del nostro tempo, in cui sono pochi quelli che incontrano un altro
con cui poter parlare (e la parola è creazione) di ciò che veramente ha
valore. Léon Bloy aveva vicino a sè Jeanne Molbeck e il gruppo dei suoi
alunni che cercavano Dio. Ma Pavese era circondato dalle vigne, dai colli
che amava, da qualche amico altrettanto silenzioso e parco di risposte, e
dalla vanità. C’ erano le da lui odiatissime avanguardie, c’erano i da lui
odiatissimi salotti romani, e c’erano i libri, e sempre e solo i libri, quelli che
venivano dai paesi lontani e i libri di religione, visto che curava due collane
da Einaudi: le traduzioni e la collana di libri religiosi. Per lui, “un’aquila in
gabbia”, come lui stesso si definisce, c’erano il Po, le Langhe, i dialoghi in
silenzio in cui attendere che un dio parli, e poi ancora solo i libri e i lettori.
Scrive a Calamandrei: “La sua lettera è venuta come una brezza nel
deserto. Traversavo e traverso un periodo tristissimo, e sia pure soltanto un
sollievo come quello di sentire che non si è lavorato invano e che i migliori
d’Italia se ne sono accorti, è bastato a darmi respiro(...) Spero di superare
queste secche e lavorando dell’altro darle ragione fino in fondo.” Vediamo
che fino all’ultimo Pavese – che si ucciderà cinque giorni dopo aver scritto
questa lettera (una lettera che dunque supera quel “non scriverò più” delle
sue ultime parole del diario) – aveva per quel giorno la speranza di poter
riprendere, di potercela fare a contnuare con la sua vocazione di guidare un
mondo di ciechi.
Pavese avrebbe meritato amici più religiosi, cioé più disposti a
vincolare, con l’azione e il pensiero, la loro vita in senso profondo e libero
con il Mistero che salva. Ma era invece attorniato da chiesette o da fatuità.
Solo i suoi lettori, nel silenzio della lettura individuale, nelle recensioni
(anche se alcune, a volte, erano interessate), gli garantivano che aveva
lavorato, che aveva “dato poesia al mondo”, alle volte come si danno le
perle ai porci, alle volte come si dà da mangiare agli affamati.
Per Pavese, come per Montale, abbiamo detto, “tutte le immagini
portano scritto: “più in là”.
I greci e i latini hanno dato a Pavese questo senso acutissimo del
destino: Socrate beve la cicuta perché così paga il prezzo che deve alla
patria per non averne rispettato le leggi, ma anche perchè sa che o un dio
viene a rivelargli quello che la ragione non raggiunge, o non resta che
morire per andare a vedere come stanno davvero le cose.
Ma secoli di cristianesimo non sono passati invano nemmeno per
Pavese. E’ forse venuto il dio che ha rivelato all’uomo quello che la ragione
non può raggiungere da sola? E se questo dio si è rivelato, ha davvero
chiarito qualcosa che prima non era chiaro? E questo si domanderà poi
Antonio De Petro in tutta la sua opera e darà una risposta ragionevole ed
esauriente (almeno per me). Noi troviamo nel diario di Pavese questa
congiunzione inevitabile, per un uomo di seria cultura, tra le domande
poste dai greci e le risposte offerte dal cristianesimo: tra “la saggezza greca
e il paradosso cristiano”.
La domanda centrale è sul volto che ha il destino, la moira, il fato. E’
esso buono o cattivo? Dalla risposta a questa domanda, dipende tutta la
vita di una persona. Perchè Pavese sa bene di non aver scelto sua madre, di
non averle saputo nemmeno corrispondere: lo spazio che è dato all’uomo
per costruire il proprio destino è molto limitato. Non abbiamo scelto quasi
nulla di quello che conta: il carattere, la storia, il paese, la lingua che ci
viene naturale parlare, le domande che abbiamo dentro....Se la maggior
parte di quello che siamo e viviamo lo abbiamo ricevuto,è fondamentale
domandarsi se il destino – o dio – che ci ha dato tutto questo è buono o
cattivo. E ci sono molte pagine del Mestiere di vivere in cui Pavese
chiaramente affronta questo tema, il tema degli dei, che occorre tenere
buoni perchè sanno essere molto crudeli e ottengono sempre quel che
vogliono e cito: “La situazione tragica greca è: ciò che deve essere sia. Di qui
il meraviglioso dei numi che fanno accadere ciò che vogliono; di qui le
norme magiche, i tabù o i destini, che devono essere osservati; di qui la
catarsi finale che è l’accettazione del dover essere” (Il mestiere di vivere, 26
settembre del 42).
E uno dei temi che più mi sembra di poter dire che lo affascinano è il
tema del sacrificio, di cui abbiamo parlato a lungo con gli studenti del corso
di letteratura di questo semestre. Sacrificio nella sua etimologia significa
“rendere sacro”, restituire a chi è il sacro dei sacri (cioè al Mistero)
diventerà poi la forma normale di intenderlo, fino al significato più
quotidiano di “fare fatica”. Tutti ricordano che è proprio Agamennone che
accetta di sacrificare la bella e giovane figlia Ifigenia, per calmare l’ira degli
dei e vincere la guerra. Sappiamo che i greci avrebbero meritato delle
divinitá migliori, ma dovevano proteggersi comunque da loro. Anche
Pavese lo fa: ricorda in una lettera che quando andava a scuola e doveva
fare gli esami, si sforzava al massimo di essere buono per tutta la settimana,
di non fare nessuna cosa che non andava fatta, per poter così riuscire bene
nell’esame. E’ la superstizione naturale, quella che ci viene dal concepire
dio non come colui che di sè parla a Giobbe ma come un bottegaio che ci
vende il prosciutto solo se abbiamo in tasca i soldi per pagarlo. Questo
concetto del sacrificio tanto pagano – cioè del popolo – noi lo ritroviamo
chiaramente in Paesi tuoi. Gisella è la primizia, il primo fiore che spicca
diverso nel giardino selvaggio ed è a lei che tocca la parte dell’Ifigenia
sacrificata una e più volte da un Talino geloso, iroso e pazzamente deciso a
servirsi di tutti, proprio come Agamennone. L’uno vestito di pompa reale;
l’altro col suo fazzoletto a quadri con cui asciuga un maleodorante sudore:
sempre siamo di fronte a un re che decide la morte per salvarsi il futuro. E
per la gente che vive attorno a Talino, Gisella, che ha il sapore delle mele,
non può sfuggire a questa legge: sarà concime per il raccolto che non deve
mai venire meno.
Per vedere se ho ragione o mi sbaglio, potreste leggere
contemporaneamente Paesi tuoi di Pavese, Uomini e topi di Steinbeck e Los
santos inocentes di Miguel Delibes. L’ambiente è comune ai tre miti. E
vedrete che Pavese parla del sacrificio necessario, Delibes del povero che fa
giustizia e Steinbeck ci racconta la parabola di Lennie, il cui sacrificio rende
più vuoto e inabitale il mondo. Sono tre miti appunto, tre parabole che ci
permettono di camminare nella selva umana con un cuore capace di quella
compassione senza la quale ogni atto é male.
E forse – ma non ne sono completamente sicura – dobbiamo guardare
come possibili vittime sacrificali tutte le morti, volontarie e involontarie,
che abitano le novelle di Pavese.
E mi chiedo se anche la sua di morte non sia da collegare al concetto
pagano del sacrificio che garantisce il buon esito del raccolto. Non so. Come
giustamente è stato detto in una delle conferenze dei giorni scorsi, Pavese
sembra anche aver riconosciuto da sempre e alla fine abbia perciò
abbracciato la morte che il destino aveva pensato per lui.
Cito dal suo diario (26 di marzo del 1938). “La lotta ora non è più tra
il sopravvivere o il decidermi al salto. E`tra il decidermi al salto da solo
come sono sempre vissuto o portare con me una vittima – perchè il mondo
se ne ricordi.” Questo cammino di Pavese per andare oltre il sacrificio, oltre
le apparenze, per abbracciare il tipo di morte che gli era stata destinata è
un altro degli aspetti che varrebbe la pena approfondire e documentare in
tutta la sua opera. Perchè servirebbe molto al nostro tempo, in cui
cominciano a suicidarsi ragazzini delle elementari.
Pavese era di quelli che davanti alle navi che salpano– per citare
sempre Montale – si fermano a terra, perchè poi ritornare è ben diverso da
ciò che si pensava al momento di partire. “Andare al confino è niente;
tornare di là è atroce” (25 dicembre 37).
E sulla sua morte, solo ricordo quella nota, così poco chiara eppure
così interrogante che troviamo nel diario sempre del 1938, l’8 gennaio:
“Voler uccidersi è desiderare che la propria morte abbia un significato, sia
una suprema scelta, un atto inconfondibile”. Fu dunque il suo un gesto di
ubris (“L’ubris è il conoscere un oracolo e non tenerne conto” – dice Pavese
18 ottobre del 42) o di umile accettazione? Lo sapremo sicuramente alla fine
dei tempi, se allora saremo tuttavia interessati alle vicende di questa vita
terrena.
E dunque, tutto questo nostro discorrere su di lui, con lui e per noi,
c’entra qualcosa con la non-violenza? Forse no. E’ che quel mio titolo –
Pavese e la non violenza - è nato dal tremendo fatto che ha colpito Javier
Sicilia, dal suo grido per la pace, che speriamo possa davvero risultare un
grido personale e collettivo, silenzioso, pacifico e trasformatore, con la
marcia che comincia domani nella voglia di tutti di un mondo più giusto e
umano.
Pavese non era in sè un non violento: non amava – come risulta dal
Diario - né Tolstoy, né Gandhi, i maestri della non violenza. Pavese dice:
“O con amore o con odio, ma sempre con violenza” (25 dicembre del 37).
Perché dei violenti è il regno dei cieli: lo dice anche il Vangelo. Ma si
tratta della violenza di chi lava i piedi ai propri fratelli: cioè tutt’altra cosa
dalla violenza che subiamo o commettiamo. E la non-violenza di Pavese io
la ritrovo non tanto in quello che ha detto, quanto in quello che ci ha
insegnato. Ci ha insegnato almeno a desiderare di arrivare ad essere una
carità vivente e su questo ci sono pagine sue bellissime, sia nelle lettere sia
nel diario sia nel colloquio con se stesso che fa nei Dialoghi con Leucò. Cito
quasi a caso: Scrive: “Ti piacciono le cose assolute? Non puoi costruire un
amore totalitario; costruisci una bontà totalitaria” ma “La bontà che nasce
dalla stanchezza di soffrire è un orrorre peggio che la sofferenza” (16 e 20
febbraio 1938, Il mestiere di vivere).
Sulla forza con cui, attraverso le parole, la sincerità e l’umiltà e la
pura contemplazione dei ricordi, Pavese vuole costruirsi come uomo, non c’
è dubbio alcuno. Sul suo amore agli uomini e alle cose – sul quale “volano i
petali dei meli e dei peri” (18 aprile del 45) – non c’è dubbio. Ma non era un
uomo “politico” nel senso con cui usiamo normalmente questa parola. Non
avrebbe mai voluto fare il deputato o la resistenza armata o il presidente di
un sindacato. Con gli operai ci andava, insieme al suo gruppo di
Strabarriera, nelle bettole di Torino, e li contemplava e a suo modo li
amava e ne succhiava la selvaggia naturalità e la nodosa ritrosìa. Anche se
fu mandato al confine, anche se scriveva sull’Unità ed era un comunista,
per obbligo di coscienza, in Pavese non incontriamo un rivoluzionario o un
leader sociale o uno stratega che mette al servizio dei suoi un’inetteligenza
che permetta loro di arrivare più in fretta al potere. Tutto questo è estraneo
al nostro Pavese il cui pensiero insegue il colore dei mari della Tasmania e
l’Orca bianca che domina fuggente l’oceano.
Però appunto ha formato una generazione di giovani ad amare la pace e la
libertà. Anche se mi costa un po’ citarla, il ricordo che di Pavese fece
Fernanda Pivano quando già era molto anziana, durante un’intervista,
credo renda ragione di quanto sto dicendo: “Ero poco piu' che una
bambina, diciamo un'adolescente, quando Cesare Pavese, il destino lo
ringrazi per tutto quello che ha fatto per me, per noi, mi ha dato questo
libro (parla dell’ Antología di Spoon River) dicendomi: "Sono sicuro che lei
capira' cosa vuol dire". (…). E' la fiducia di Cesare Pavese che mi ha fatto
andare avanti tutti questi anni. Chi lo sa se questo libro l'ho capito, ma non
ho mai smesso di amarlo e di pensare che stava cambiando il pensiero dei
ragazzi come me, avviandoli verso il pacifismo,
verso la liberta', verso la fiducia nei valori morali che cercava di
impadronirsi delle nostre anime minacciate di allora. (…).”
Pavese vediamo che regalava ai suoi giovani amici dei libri che
invitavano alla libertà e alla pace. Continua la Pivano: “In fondo veniva
fuori che era un modo come un altro di legarci di piu' ad autori misteriosi
che mostravano un esempio di come si puo' aiutare folle di giovani a
cambiare, letteralmente cambiare, le basi ideologiche della vita. Pavese mi
ha cambiato per sempre la vita facendomi leggere Ernest Hemingway,
Sherwood Anderson, Walt Whitman e questo poeta poco piu' che
conosciuto di nome come era ancora Edgar Lee Masters. Erano (le voci)
vietate di una piccola rivista preziosa che si chiamava "La cultura", forse la
prima rivista a presentare Pavese per quello che era, un antifascista
perseguitato, e coraggioso esponente di idee supervietate che stavano
costruendo il nuovo mondo. Erano idee piu' precise e definitive di quelle che
avevano portato mio padre alla sua rovina, con un futuro che pareva ormai
senza luci. E il mondo era cosi' anche per Pavese, e io ero li', bambina
incapace di credere nel mondo che aveva distrutto mio padre e ansiosa di
conoscere speranze di un mondo come quello che aveva distrutto Pavese.
(…) Tra Melville e Hemingway mi faceva leggere i poeti che gli mandava il
suo amico farmacista da New York; e mi spiegava, mi spiegava i loro sogni,
mi spiegava le loro inafferrabili speranze.” (fine della citazione)
Pavese era un uomo buono: la sua non violenza è tutta qui.
Leggiamo nel diario del 27 maggio del 47: “Una persona che ti ripugni, va
sopportata. Dopo un po’ viene fuori – infallibile – qualcosa di non comune,
di vero”.
Anche per me questo è un modo vero, per tutti possibile, di fare
qualcosa per cambiare il mondo.