Certi momenti (Italian Edition) · DELL’ACQUA (1994) a LA GIOSTRA DEGLI SCAMBI (2015), tutte...

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Presentazione

Quasi una vita, momento per momento,quelli più intensi che nel tempoacquistano ancora più vigore e ritornanoin tutta la loro vividezza. Tanti incontriqui offerti nella forma del racconto,ognuno dei quali ha una luce,un’atmosfera e dei personaggiindimenticabili che hanno segnatosoprattutto la giovinezza e l’adolescenzadi Camilleri. Alcuni conosciuti neglianni più maturi, durante la sua carriera

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di regista teatrale e televisivo, moltialtri sconosciuti, che ci riportano aitempi del fascismo, della guerra,momenti segnati da storie che nei lororisvolti più umani e sinceri acquistanoun tratto epico e la magia del ricordoassoluto perché unico nel costituire unatappa, una svolta nella formazione delloscrittore.L’anarchica, invincibile indifferenza diAntonio, insensibile ai richiami militarie agli orrori della guerra; la bellezzasorprendente dell’incontro con unvescovo libero nella mente e nel cuore;l’indelebile ricordo di quella notte diburrasca quando il padre di Camilleriandò a salvare l’eroico comandante

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Campanella, dato per disperso; ilcoraggio della “Sarduzza” e ladeterminazione nel difenderla daltenente tedesco; l’ultimo saluto a“Foffa”, prostituta per necessità, solanella vita e negli affetti.Intermezzati gli uni con gli altri eccol’incontro con Primo Levi e i suoisilenzi, la stravaganza di Gadda e lasuscettibilità di D’Arrigo, il francoscontro con Pasolini riguardo alla regiadi una sua opera teatrale, poco primadella sua morte, l’impareggiabilebravura di Salvo Randone (senzadimenticare Elio Vittorini, BenedettoCroce e il quasi incontro con AntonioTabucchi).

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Tra tanti personaggi si staglia un libro,quello più importante, LACONDIZIONE UMANA di AndréMalraux, la cui lettura fu decisiva nel farcrollare la fede fascista di Camilleri.

Andrea Camilleri, scrittore,sceneggiatore e regista, è nato a PortoEmpedocle nel 1925. Amatissimo dailettori, non solo italiani, i suoi libri sonotradotti in più di trenta lingue.Indimenticabili le avventure che vedonoprotagonista il commissarioMontalbano, da LA FORMADELL’ACQUA (1994) a LA GIOSTRADEGLI SCAMBI (2015), tutte edite daSellerio. Con Chiarelettere hapubblicato UN INVERNO ITALIANO

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(2009), DI TESTA NOSTRA (2010),entrambi scritti con Saverio Lodato, eCOME LA PENSO (2013). Il suo libropiù recente è LE VICHINGHEVOLANTI (Sellerio 2015).

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CERTI MOMENTI

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Avvertenza

Questo libro intende raccoglieredisordinatamente, ma prestando unamaggiore attenzione ai miei annigiovanili, alcuni incontri durati unmomento oppure quasi una vita e chehanno determinato in me una sorta dicortocircuito: cioè a dire, che hannoprovocato un primo momentaneodistacco e poi una sorta di maggioreilluminazione dentro di me.

Si tratta di incontri con nomi noti, ma

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assai più spesso con persone diciamocomuni, che hanno comunque avuto lastessa valenza. Ne dimentico alcuni, nesono certo; altri invece non li ho volutideliberatamente trascrivere, anche diquesto ne sono certo. Ma gli uomini, ledonne e i libri che racconto in questobreve testo hanno rappresentato per medelle scintille, dei lampi, dei momenti dimaggiore nitidezza: e per questo hovoluto ringraziarli.

a.c.

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Antonio

Una mattina di metà gennaio del 1942,entrando nel caffè Cuocolo, vidi allacassa uno sconosciuto: era un ragazzosicuramente più grande di me di due otre anni, paffutello, grassoccio,biondiccio, con lenti spesse, ed era cosìintento a leggere un libro che sollevavaappena gli occhi solo per il temponecessario a incassare, dare il resto ebofonchiare un saluto. Incuriosito, feciin modo di scoprire che cosa stesse

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leggendo: si trattava di La porta strettadi André Gide. Rimasi assolutamentesorpreso: quanti eravamo in tutta laprovincia di Agrigento a leggere Gide?Sì e no una dozzina scarsa. Non seppitrattenermi dal rivolgergli la parola: «Tipiace Gide?».

La risposta fu: «Perché? Tu l’hailetto?».

«Io sì. Ti piace?»«Non mi persuade del tutto.»Il giorno seguente alla cassa c’era

Andrea, il figlio del signor Cuocolo. Ilragazzo che avevo visto il giorno primastava invece seduto a un tavolo con unatazzina di caffè appena bevuto econtinuava a leggere il romanzo di Gide.

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Gli chiesi il permesso di sedermiaccanto a lui, ci presentammo. E cosìvenni a sapere che si chiamava Antonioe che era il fratello maggiore di Andrea.

«E come mai non ti ho mai vistoprima?»

Venni così a sapere che il padre,rimasto precocemente vedovo, si eratrasferito da Salerno a Porto Empedocledove non solo aveva aperto il bar, maera diventato il più grosso importatoredi caffè della provincia. Antonio erarestato a Salerno in casa della zia con ilfratello, e una volta finito anche lui illiceo era venuto a Porto per dare unamano a suo padre e ad Andrea chel’aveva preceduto.

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«Che facoltà frequenti?»«Non mi sono iscritto all’università»

mi rispose.«Non hai intenzione di continuare gli

studi?»«Certo che sì, ma dopo.»«Dopo che?»«Dopo aver fatto il servizio militare.»«Scusa, non capisco.»«Vedi, se mi chiamano alle armi da

studente universitario, dovrò per forzaseguire il corso Allievi ufficiali.»

«Embe’?»«Non voglio fare l’ufficiale, non mi

piace dare ordini.»«Be’, se non fai l’ufficiale dovrai fare

il soldato, cioè a dire dovrai ubbidire

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agli ordini.»Mi guardò con un sorriso furbesco:

«Gli ordini si possono sempreaggirare».

Fra noi due nacque una furiosaamicizia: era un lettore più onnivoro dime e un sottilissimo, acuto, penetrantecritico di ciò che leggeva. Antonioaveva un’intelligenza pronta ed era dipoche parole, però quelle poche paroleavevano un considerevole peso-massa.Detestava gli sport, ma stranamente erauna sorta di campione dei pattini arotelle: su una strada asfaltata eracapace di correre a una velocitàincredibile. Nella prima metà difebbraio gli arrivò la famosa cartolina

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rosa della chiamata alle armi. Eravamoin guerra: quella cartolina stava asignificare il quasi certo trasferimentodel mio amico sulla linea del fuoco. Nonebbi più notizie di lui per due mesi. Consomma sorpresa nei primi giorni dimaggio lo rividi seduto alla cassa:stavolta leggeva un romanzo diSteinbeck.

«Sei in licenza?»«No, mi hanno congedato.»«E come mai?»«Sul mio foglio matricolare hanno

scritto che sono assolutamenteincompatibile con la vita militare.»

«Effettivamente lo sei, ma loro comehanno fatto a capirlo?»

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Sorrise.«Niente, qualche fesseria, cose così.»Era chiaro che non voleva parlare del

suo breve periodo di soldato.Senonché, dopo pochi giorni, arrivò

per una breve licenza a Porto uncompaesano che era stato suo compagnodi vita militare. Fu lui a raccontarciquello che era successo. Il secondogiorno che si trovavano in caserma aPalermo, Antonio non si era alzato alsuono della sveglia, ma era rimastocoricato in branda. Era arrivato ilsergente a vedere come stavano le cose.

«Stai male? Vuoi marcare visita?»«No, sto benissimo, grazie.»«E allora perché non ti sei alzato?»

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«Perché la sveglia per i miei gustisuona troppo presto.»

Era stato scaraventato giù dalla brandada un potente calcio del sergente e si erabeccato cinque giorni di prigione. Uscitodalla prigione si era presentatoall’adunata in abiti borghesi, di militareaveva solo gli scarponi e la bustina intesta.

«Perché non sei in divisa?» ululò ilsergente.

«Perché la stoffa della divisa mi faprurito alla pelle.»

Stavolta i giorni di prigione furonodieci. Poi ci fu l’episodio della marcia.Il plotone al quale Antonio appartenevafece una marcia per strade campestri di

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venticinque chilometri. Si riposaronouna mezz’oretta, poi tornarono verso lacaserma in ordine sparso sulla viaasfaltata. A questo punto Antonio sisedette su un paracarro, aprì lo zaino,prese i pattini a rotelle, lì indossò,sfrecciò velocissimo superando ilplotone e gridò al sergente allibito:«Arrivederci! Ci vediamo in caserma».

Stranamente il sergente non fecerapporto: non sapeva come considerareAntonio, non riusciva a capire se avessea che fare con un pazzo o semplicementecon un soldato disubbidiente ed estroso.

Poi capitò l’episodio più grave. Ilplotone fece la prima esercitazione peril lancio delle bombe a mano: si trattava

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di bombe a tempo, una volta strappatavia la linguetta di protezione bisognavaimmediatamente scagliarla, perché entropochi secondi sarebbe esplosa nellamano di chi la teneva. Bene, era il turnodi Antonio; ricevuta la sua bomba luilevò la linguetta, si soffermò a guardarlae sempre tenendola in mano chiese altenente: «E ora che deve fare?».

«Lanciala, cretino!!!» urlò il tenentequasi in coro con gli altri soldati cheintanto scappavano via a gambe levate ilpiù lontano possibile da lui.

Antonio con grande nonchalancescagliò la bomba e questa esplose a duepassi da lui, lasciandolo fortunatamenteilleso. A questo punto fu inevitabile la

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richiesta di una visita psichiatrica. ForseAntonio approfittò un po’ di quellaoccasione, fatto sta che il medico lodichiarò mentalmente instabile einadatto alla vita militare.

Nei due anni che seguirono Antonionon si dimostrò solo inadatto alla vitamilitare, ma anche alla vita comune. Eracapace di restare impassibile eimmobile durante un bombardamentocontinuando a non staccare gli occhi daciò che stava leggendo. Non eracoraggio, era una sorta di anarchicaindifferenza a ciò che capitava attorno alui. Forse sentiva oscuramente che nonsarebbe vissuto a lungo.

Morì, infatti, giovanissimo, alla fine

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del ’45, per un infarto che gli fececadere dalle mani Oggi si vola diWilliam Faulkner.

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La confessione

Poco prima di sposarmi scoprii che lacerimonia non si sarebbe potuta fare inchiesa perché non ero cresimato. Io erostato battezzato e avevo fatto anche laprima comunione, ma la cresima eraindispensabile per avere diritto al ritoreligioso. Ignorante come sono dellecose di Chiesa, andai nella parrocchia echiesi al parroco che cosa dovessi fareper cresimarmi. Quello mi guardòstupito: «Ma la cresima la fanno i

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vescovi, non i semplici sacerdoti! È unacosa complicata!».

A quel tempo stavo facendo una regiateatrale a Livorno. Lo spettacolo erasovvenzionato da un intelligente, colto,spiritosissimo gesuita: padre EgidioGuidobaldi, un omone sempre colsorriso sulle labbra. Partivo da Roma ilvenerdì sera, facevo a Livorno unaprova appena arrivato, e poi le provecontinuavano per tutto il sabato e ladomenica, quando a tarda notte rientravoa Roma. Perciò, dopo la risposta avutadal parroco, appena giunsi a Livornoesposi a padre Egidio il mio problema.Il gesuita non batté ciglio, mi disse cheavrebbe provveduto a tutto lui: la

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domenica seguente sarei stato cresimatodal vecchio vescovo di Livorno, SuaEccellenza Piccioni, fratello maggioredi uno dei più alti esponenti nazionalidella Democrazia cristiana. PadreEgidio mi spiegò anche che il vescovoera praticamente a riposo, che al suoposto c’era un vescovo più giovane, mache preferiva rivolgersi a Piccioniperché mi assicurò che con lui mi sareitrovato bene.

«Perché?» gli domandai.«Perché durante la guerra è stato

vicinissimo agli operai portuali, chesono tutti comunisti. Come lei, delresto.»

Al momento di ripartirmene per Roma,

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padre Egidio mi confermò che avevaparlato col vescovo e che quindi ladomenica seguente dovevamo andarenell’abitazione di Sua Eccellenza. Però,mi disse, per ricevere la cresima ènecessario prima confessarsi.

«Va bene» risposi. «Arriverò quiconfessato.»

Naturalmente mi guardai bene dalfarlo. Quando tornai a Livorno la primacosa che il gesuita mi chiese fu: «Si èconfessato?».

«Sì.» E cominciai le prove.Senonché, alla prova del sabato

pomeriggio, mi lasciai andare a unascenata con gli attori insultandoli per laloro svogliatezza e la loro sciatteria.

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L’ira mi travolse a un punto tale checredo mi sia scappata anche qualchebestemmia. Alla prova era presentepadre Egidio, il quale alla fine mi disse:«Senta, se io non ci fossi stato non avreisentito niente di tutto quello che lei hadetto, ma purtroppo c’ero. È necessarioche lei si riconfessi».

«Lo faccia lei» dissi.«No, io non la confesso.»«Perché?»«Perché preferisco che il nostro

rimanga un rapporto di lavoro.»«E allora mi trovi un suo collega.»«No» mi rispose. «Avvertirò Sua

Eccellenza il vescovo che domattina,prima della cresima, lei deve

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confessarsi. Lo farà lui.»L’indomani mattina alle otto, era

domenica, ci trovammo assieme al miopadrino, che era lo scenografo EnricoSirello, nell’appartamento privato delvescovo che era all’interno delvescovado. Il segretario di SuaEccellenza ci avvertì che questi erapronto a riceverci nel suo studio.

«Lo segua, vada a confessarsi» dissepadre Egidio sorridendo.

Seguii il prete: questi bussò a unaporta, una voce rispose di entrare, ioentrai, il prete richiuse la porta alle miespalle.

Il vescovo Piccioni se ne stava sedutosu un divano. Mi colpì il fatto che

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mentre avanzavo verso di lui, egli sialzò e mi venne incontro con un sorriso,porgendomi la mano. Gliela strinsi, sirisedette e mi fece cenno diaccomodarmi accanto a lui. Era moltoanziano, ma il viso largo, aperto, quasisenza rughe, ispirava un’immediatasimpatia.

«Da quand’è che non si confessa?»«Da vent’anni.»Avevo trentadue anni, non mi

confessavo dai tempi del collegio.Mi guardò. Aveva uno sguardo

straordinario: ebbi l’impressione che lesue pupille fossero entrate dentro le mie,scrutandomi a fondo. E infatti: «Lei ècredente?».

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Non potevo mentire davanti a quegliocchi: «Non lo sono».

«E allora perché vuole sposarsi inchiesa?»

«Perché non voglio dare un dispiacereai genitori, ai nonni…»

«Capisco.»Si mise la stola e mi disse: «Se la

sente di raccontarmi di lei da uomo auomo, senza nascondermi nulla?».

Da uomo a uomo? Meritava unarisposta positiva: «Sì».

«Bene» disse lui. «Allora cominciamola confessione.»

Mentre si faceva il segno della croceio mi alzai e mi inginocchiai davanti alui, che mi guardò sorpreso.

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«Ma no! Ma no! Ritorni seduto accantoa me!» mi disse, e posò la sua manosopra la mia. «Ha mai compiuto un atto,un gesto che lei ritiene possa essereconsiderato un peccato grave, comel’omicidio, il furto, la falsatestimonianza?»

«No, mai» risposi.«Lei ha mai provato disprezzo verso un

altro uomo?»«In coscienza no.»«Vede – mi disse – credo che il più

grave peccato che si possa commettere èquello del disprezzo verso qualcuno.Anche se questo qualcuno ha commessoqualcosa che l’ha amareggiato, sorpreso,sconvolto, il disprezzo è l’ultima cosa

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che bisogna provare verso costui.»Capii che avevo a che fare con un

uomo straordinario. Senza che lui michiedesse più nulla cominciai a parlaredi me, della mia vita, del perché volessisposarmi. Gli dissi che credevo nellafamiglia e che avrei voluto subito avereun figlio.

«Ha avuto molte esperienze prima delmatrimonio?»

«Molte, sì.»«Mi dica una cosa: c’è stato mai un

momento durante i suoi incontri amorosinei quali ha considerato la partner noncome donna, ma come semplice oggettodel suo desiderio?»

Prima di rispondere presi un po’ di

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tempo. Mi passai veramente una manosulla coscienza, e alla fine gli dissi:«No, mai».

«Il vero peccato della carne –commentò lui – non è commettere attiimpuri, ma ridurre l’altra o l’altro apuro oggetto, spogliandolo di ogniumanità: questo è il vero peccato.»

Parole così non le avevo mai sentite,né le avrei sentite in seguito.

Continuammo a dialogare. Egli nonnominò mai Dio, parlò sempredell’uomo: della dignità dell’uomo chenon andava mai e per nessuna ragionecalpestata. A un tratto l’orologio apendolo si mise a suonare. Erano leundici, avevamo parlato per tre ore

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ininterrottamente senza accorgercene.«Credo che mi abbia detto tutto» disse

il vescovo. «Fra cinque minuti ciritroviamo nella mia cappella privata.»

Uscii. La prima persona che vidi fupadre Egidio: aveva la facciapreoccupatissima.

«Non voglio chiederle di tradire ilsegreto della confessione – mi disse –ma che cavolo di colpe ha commessoper restare tre ore col vescovo?»

«A lei glielo posso dire» risposiridendo. «Appartengo alla mafia e homolti omicidi sulla coscienza.»

La cerimonia della cresima fubrevissima: mi cinsero la fronte con unabenda bianca, il mio padrino mi stava

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accanto, il vescovo disse alcunepreghiere in latino, poi si avvicinò a meche ero inginocchiato, mi diede unbuffetto sulla guancia e mi disse dialzarmi. La cerimonia era finita. Mitolsero la benda, mi avvicinai alvescovo, mi inchinai davanti a luiprofondamente. Egli si chinò, mi preseper le spalle e accennò a un abbraccio.

«È stato un vero piacere conoscerti»mi disse, passando dal lei al tu.

Ho novant’anni. Quelle tre oretrascorse a dialogare con Piccioni sonorimaste marchiate per sempre, non solonella mia memoria, ma anche esoprattutto nel mio cuore.

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Antonio Tabucchi

Tabucchi aveva appena pubblicatoPiazza d’Italia, il suo primo libro,quando trovandomi a Pisa un amico michiese se volessi conoscere l’alloraesordiente. Risposi subito di sì, perchéero rimasto molto colpito dalla scritturadi Tabucchi, così semplice in apparenzae così elegante e raffinata nella sostanza,senonché all’ultimo momento unimprevisto mi costrinse a rinunciareall’incontro. In seguito lessi tutti i libri

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che lui andava via via pubblicando, finoal suo capolavoro, Sostiene Pereira.Quel romanzo addirittura mi entusiasmò:finalmente in Italia uno scrittore siimpegnava su un tema così alto comequello della libertà individuale. Chiesi adei conoscenti se era possibileconoscere Tabucchi di persona, ma neebbi una risposta negativa: lui ormai daanni non viveva più in Italia ma inPortogallo. Quando, per ragioni dilavoro, andai a Lisbona e mi ci trattenniper un mese, cercai naturalmenteTabucchi, ma mi venne risposto che sitrovava all’estero. Era come unrincorrersi, un gioco a rimpiattino.

Poi finalmente sembrò che fosse

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arrivato il momento buono. In occasionedi un convegno promosso dalla rivista«MicroMega», durante il Salone delLibro di Torino, eravamo tutti e duerelatori dello stesso incontro. Ma anchestavolta il destino ci beffò: Tabucchi nonpoté intervenire perché aveva avuto unpiccolo incidente, e quindi partecipòsolo per via telefonica.

A un certo punto i nostri due nomicominciarono a trovarsi affiancati neigiornali che ci intervistavano sullasituazione politica italiana: la cosastraordinaria era che le nostre rispostequasi sempre coincidevano, come se leavessimo concertate prima. Un giorno,mentre me ne stavo nel mio studio,

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squillò il telefono: era lui. La telefonatafu breve e in un certo senso molto strana.

«Pronto? Sono Antonio Tabucchi.»Venni veramente colto di sorpresa.«Ciao» risposi. «Come stai?»«Bene, volevo solo sentire la tua

voce.»Rimasi ancora più disorientato, non

seppi che rispondere; continuò lui aparlare: «Ciao, mi ha fatto piaceresentirti, a presto», e chiuse lacomunicazione.

Non ebbi più notizie di lui per circasei mesi, fino a quando mi arrivò unacartolina illustrata da Atene. Dicevasemplicemente: «Un saluto da AntonioTabucchi».

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Nel corso degli anni seguenti di questecartoline provenienti da città diversedell’Europa ne ricevetti due o tre. Ora,siccome non metteva mai l’indirizzo, ionon sapevo dove mandargli una rispostaqualsiasi, ma desideravo sempre piùconoscerlo di persona.

Finalmente un giorno di marzo del2011 ricevetti una chiamata da Antonio:«Fra tre giorni dovrei essere a Roma, tene darò conferma e stavolta, cascasse ilmondo, dobbiamo conoscerci. Tirichiamerò appena arrivo per stabilirel’appuntamento».

Attesi con una certa ansia la suatelefonata, che arrivò puntuale ma soloper dirmi con voce desolata che il suo

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progetto era saltato. Ecco, Tabucchi perme è stato un amico mai conosciutopersonalmente.

Dopo la sua morte, avvenuta nel 2012,Anna Dolfi curò un suo volume postumointitolato Di tutto resta un poco, cheraccoglieva scritti vari di letteratura e dicinema. Con mia grandissima sorpresa,in un articolo che Antonio avevapubblicato in morte di Elvira Sellerio eche mi era sfuggito, lessi una decina dirighe dedicate a me: non come scrittore,ma come uomo e come siciliano. Inquelle parole, che mi commosseroprofondamente, trovai la chiave del suodesiderio di conoscermi; che del restoera reciproco.

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E questa paginetta che gli stodedicando vuole essere unringraziamento postumo alla suaamicizia.

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Pino Trupia

Nel settembre del 1943, vale a dire duemesi dopo che gli Alleati erano sbarcatiin Sicilia, a me e a un mio amico, UgoLa Rosa, venne in mente di pubblicareun giornale che sarebbe stato il primo inassoluto dell’Italia democratica. Perottenere i permessi e la carta necessaribisognava rivolgersi al capodell’Amgot, che era l’Amministrazionemilitare alleata dei territori occupati. Acapo dell’Amgot agrigentino c’era un

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inglese, il colonnello Chewin, e il suovice era invece un americano, ilmaggiore Thomson. Era risaputo che trai due non correva buon sangue e checomunque sarebbe stato megliorivolgere le mie richieste direttamente alcolonnello Chewin, che pareva unapersona di buon senso e di grandedisponibilità.

Riuscimmo, dopo due o tre giorni diinsistenza, a essere ricevuti dalcolonnello: il suo ufficio era nella stanzache prima dello sbarco era stataoccupata dal prefetto. Ugo e io gliesponemmo il nostro progetto, quello difare con cadenza settimanale un giornaledi quattro grandi pagine che

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rappresentasse la situazione dellaprovincia di Agrigento e che, in qualchemodo, insegnasse ai nostri concittadini iprincipi essenziali della democrazia. Ilcolonnello non solo approvò il progettoe ci fornì la carta necessaria, ma volleanche darci uno spazio per la redazione,consegnandoci le chiavi di unappartamento al centro della città cheera stato la sede dei gruppi universitarifascisti.

Ne pigliammo possesso e da lìriuscimmo a metterci in contatto conquasi tutti i paesi della provinciaattraverso la collaborazione di nostri excompagni di scuola. La prima cosa chechiedemmo ai nostri corrispondenti fu di

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inviarci subito un elenco nominativo deifascisti locali che stavano cercando dirifarsi una verginità con gli americani.Ci pervennero così circa duecento nomie ci affrettammo a pubblicarli nel primonumero del giornale, che intitolammo «IlBacio le mani» come per un salutotradizionale all’avvento dellademocrazia.

Il giornale uscì in settecento copie evenne diffuso in tutta la provincia; andòa ruba, tanto che fummo costretti astamparne una seconda edizione tregiorni dopo. Una mattina, mentre ero conUgo nella redazione, bussarono allaporta. Andai ad aprire e mi trovaidavanti due trentenni in abiti borghesi

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che mi rivolsero la parola in inglese:erano discesi da una Jeep che sostavadavanti alla porta, sulla quale erarimasto seduto al posto di guida unsoldato in divisa americana. Nonparlando io l’inglese, chiamai Ugo e idue ripeterono al mio amico ciò che miavevano detto. Vidi Ugo impallidire dicolpo; si rivolse verso di me smarrito:«Sono due agenti di polizia americani inborghese. Hanno un mandato diperquisizione, firmato dal maggioreThomson».

Non restava altro che farci da parteperché entrassero. Appena dentro, unodei due chiuse la porta; poi, siccomefaceva ancora un caldo bestiale, si

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tolsero le giacche e allora vidi cheerano armati di una pistola tenuta in unacustodia ascellare. Solo nei filmamericani, che allora raramentegiungevano sui nostri schermi, avevovisto una scena del genere. In realtàc’era poco da perquisire. I quattrostanzoni che costituivano la nostra sedeerano totalmente vuoti. Noi ne avevamooccupato solamente uno. Da una diqueste stanze partiva una scala cheportava al piano superiore, dove c’eranosolo quattro bagni uno in fila all’altro. Idue, dopo essersi guardati intorno edessere entrati in ogni camera, stavanoper andarsene via rimettendosi legiacche, quando uno di loro fece una

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cosa assai strana: si allontanò di qualchepasso dal sottoscala, prese la rincorsa ediede un potente calcio al muretto chesosteneva la scala che portava al pianodi sopra.

Ebbene, il muretto si sfondò come sefosse stato di carta velina e crollò.Apparve così un vano, la cui esistenzanoi non avevamo mai sospettato:all’interno c’erano tre fucilimitragliatori e quattro moschetti conrelative munizioni. I due agenti sivoltarono verso di noi e in un attimo ciammanettarono. Dopodiché venimmocaricati sulla Jeep e trasportati nella exCasa della gioventù italiana, che eramunita di un’ampia palestra. Io venni

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separato da Ugo e rinchiuso dentro unaminuscola stanzetta, che probabilmenteera stato uno sgabuzzino. Guardail’orologio, erano quasi le dodici.Rimasi chiuso per circa tre ore, non mivenne portato niente da mangiare né dabere.

Verso le tre del pomeriggio la porta siaprì e un soldato americano armato micondusse nella palestra. Tutti gli attrezzisportivi erano stati ammucchiati in unangolo. Al centro della palestra c’erauna sedia, sulla quale il soldatoamericano mi fece sedere. A circa duemetri di distanza da me c’era un tavolodietro il quale sedeva un capitanodell’esercito statunitense: mi rivolse la

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parola in perfetto italiano, ordinandomidi declinare le mie generalità chetrascrisse su un foglio che avevadavanti. Dopodiché, restando sempreseduto, mi domandò: «Perché tu e il tuoamico tenevate nascoste quelle armi?».

Risposi che non appartenevano a noi eche probabilmente dovevano esserestate nascoste lì dai fascisti che avevanolavorato prima di noi inquell’appartamento.

A questo punto lui si alzò e vennedavanti a me seguito dal soldato:«Alzati».

Mi alzai.«Levati gli occhiali.»Me li levai e lui li passò al soldato.

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«Calati i pantaloni.»Obbedii. I pantaloni rimasero a terra.«Spogliati nudo» fu l’ordine.Imbarazzatissimo eseguii.A questo punto il capitano mi disse:

«Ascoltami attentamente e dimmi laverità, altrimenti sarà peggio per te. Sainulla dell’aereo che sarebbe atterratoclandestinamente a Sciacca?».

Io rimasi sbalordito.«Non ne so assolutamente nulla!»

risposi.Mi arrivò un ceffone così potente da

darmi l’impressione che la mia testaavesse fatto un giro a trecentosessantagradi, e subito dopo una pedata al bassoventre che mi fece cadere per terra

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gemendo. Non mi rialzarono. Il capitanosi chinò verso di me e disse: «Ti ripetola domanda: sai nulla dell’aereoatterrato a Sciacca?».

Avevo le lacrime agli occhi per ildolore.

«Potete picchiarmi fino alla morte»dissi. «Non so nulla.»

«Va bene, rivestiti» disse il capitano.Il soldato americano mi ridiede gli

occhiali e mi ricondusse nella stanzetta.Ci rimasi fino alle sette di sera. Alle

sette la porta si riaprì e comparvero duesoldati americani, i quali senza dire unaparola mi fecero alzare dalla sedia, mispinsero fuori, mi fecero montare su unaJeep e mi trasportarono davanti al

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tristemente noto carcere di San Vito.Fermarono la Jeep, uno scese, bussò al

portone, confabulò con la guardiacarceraria, poi l’altro soldato mi fecescendere dalla macchina e mi consegnòalla guardia. Mentre il portone sirichiudeva alle mie spalle, udii la Jeepche si rimetteva in moto e partiva. Laguardia mi ordinò di seguirlo; entrammoin un ufficio dove era seduto un uomo inborghese.

Anche lui mi domandò le generalità emi chiese: «Per quale motivo ti hannoarrestato?».

Gli raccontai tutto. Lui bofonchiòqualcosa e disse alla guardia un numero,non ricordo più se era trentadue o

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ventidue.«Vieni con me» disse la guardia.Traversammo un ampio cortile, lui aprì

un cancello di ferro con le chiavi,salimmo le scale e al primo piano mi siaprì davanti un lunghissimo corridoiosul quale si affacciavano una ventina dicelle disposte dieci per parte.

Percorsi il corridoio e la guardia miaprì la porta dell’ultima cella a sinistra.Mi fece entrare dandomi uno spintone erichiuse la porta. La luce del giornoentrava ancora dalla finestra con lesbarre.

Devo confessare che il rumore deicatenacci e dei chiavistelli alle miespalle mi gelò il sangue. Ero un ragazzo

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di diciotto anni che non aveva mai avutouna simile esperienza. Davanti a mec’erano due giacigli, su uno dei qualistava disteso un uomo. Quando il rumoredei chiavistelli cessò, l’uomo si alzò emi venne incontro. Atterrii.

Era un quarantenne, una sorta dicolosso; ma quello che mi fece piùpaura fu la sua faccia. Cesare Lombrosodi certo avrebbe esultato a vederlo,perché quello era il volto di un autenticodelinquente; oltretutto aveva una lungacicatrice che gli partiva da sottol’orecchio sinistro e gli attraversavatutta la guancia, fino ad arrivare al limitedella bocca. L’uomo mi tese la manofacendo una smorfia, che capii essere un

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sorriso: «Buonasera, mi chiamo PinoTrupia».

Io presi la mano, gliela strinsi:«Buonasera, mi chiamo NenéCamilleri».

«Sei scantato?» mi spiò.Era dunque evidente il mio terrore di

trovarmi in quel luogo.Allora Pino Trupia sorrise di nuovo e

mi disse: «Non ti scantare di mia, iosogno solo un latro».

Stranamente, mi sentii di colpotranquillizzato. Trupia con quelle paroleaveva voluto rassicurarmi. Non ero inpresenza di un assassino o di un uomoviolento.

Per tutta la giornata non ero riuscito a

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soddisfare i miei bisogni corporali.Chiesi al mio compagno di cella dovepotevo fare pipì, e lui mi indicò ilbugliolo che stava in un angolo. Miprecipitai. Ma mentre facevo pipì, capiiche avevo la necessità di soddisfare unbisogno più grosso.

Trupia doveva essere dotato di unintuito estremo, perché mi domandò:«Devi macari cacare?».

«Sì» dissi.«Fallo» mi rispose. «Io mi voto da

n’autra parti.»E infatti, per tutta la durata che rimasi

seduto sul bugliolo, Pino se ne stettevoltato a guardare la porta della cella.Quando ebbi finito, mi insegnò come

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richiudere il bugliolo. In quel momentosentimmo i rumori dei chiavistelli; ciavevano portato la cena, un tozzo dipane e una scodella con della brodagliaindefinibile.

Avevo lo stomaco così stretto da nonavere nessuna voglia di mangiare, anchese ero stato digiuno per tutto il giorno.

«Io non me la sento» dissi. «Se la vuoitu…»

«Grazie» fece lui.Mentre mangiava anche il contenuto

della mia scodella, mi distesi sulpagliericcio. E qui, senza volerlo,cominciai a piangere. Le lacrime miscorrevano copiose, ma cercavo dicontenere i singhiozzi per non farmi

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sentire da Trupia. Ma lui se ne accorselo stesso; lasciò a mezzo il suo pasto esi venne a sedere accanto a me. Conestrema delicatezza mi passò una manofra i capelli.

«Non chiangiri, non fare accussì. Atutto c’è rimedio, meno che alla morti.»

Si alzò solo quando fu certo che ioavevo smesso di piangere.

Terminò di mangiare e mi domandò:«Tu fumi?».

«Sì – dissi – ma non ho sigaretteperché le ho lasciate mentre stavo…»

Mi interruppe.«Ce le ho io.»Tirò fuori dalla tasca un pacchetto

consumato a metà di sigarette americane.

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Me ne offrì una, me l’accese.«In cella è proibito fumare, ma tanto

prima di un’ora non passa nessuncontrollo.»

Quella sigaretta fu per me untoccasana. Mentre fumavamo, Pinoiniziò a raccontarmi la sua vita. Avevacominciato a rubare fin dall’età di sedicianni: entrava negli appartamenti vuoti evi faceva man bassa. Ora avevaquarant’anni; aveva subito tre condanne,sempre per furto e mai per una violenzaqualsiasi. Finito di raccontare, incambio volle sapere la mia storia. Io gliraccontai tutto. Alla fine non poteitrattenermi dal fargli una domanda: «Equella cicatrice, come te la sei fatta?».

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Mi chiarì che non era stata unacoltellata, ma che una volta, inseguitodalla polizia, era caduto su una vasca dabagno buttata in strada e si era tagliatocon la lamiera. Pino era di Realmonte,un paese vicinissimo al mio.Cominciammo a parlare dei nostri paesie poi, lentamente, la tensione dellagiornata in me diventò una sorta dipesantezza insopportabile che micostringeva al sonno. Lo dissi al miocompagno ed egli mi fece alzare, misprimacciò il pagliericcio; quando mi cifui disteso sopra, disse: «Tra tanticchiaastutano la luci, tu cerca di dormireprima e se hai bisogno arrisbigliami».

Dopo avere dormito profondamente, mi

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svegliai alle prime luci dell’alba. Il miocompagno di cella dormiva. Mi alzai perandare al bugliolo, quando ebbi unaspecie di giramento di testa che mi feceperdere l’equilibrio, tanto da caderepesantemente per terra. Pino, svegliatosidi colpo, si precipitò verso di me,mitragliandomi con una quantità didomande.

«Chi fu? Che ti successe? Non ti sentibono? Vuoi che chiami a qualichiduno?»

Tentai di alzarmi, ma mi accorsi chenon stavo in piedi. Allora lui mi sollevòdi peso e mi depose sul giaciglio. Dallospioncino, cominciò a gridare con vocepotente: «Capo! Capo! Venite accà!Capo!».

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Dopo pochi minuti la porta venneaperta da una guardia assonnata: «Cheminchia succede?».

«Succede che il picciotteddro stamali!»

La guardia mi toccò la fronte. Scottavo.Disse: «Stamatina alle novi veni umedico. Intanto ti porto tanticchiad’acqua».

Mi portò l’acqua, me la fece bere, siriportò via il bicchiere e richiuse lacella. Trupia si sedette nuovamenteaccanto a me, e ogni tanto mi faceva unaleggera carezza sulla testa o sul volto,domandandomi come mi sentissi.

Alle sette del mattino la porta dellacella si aprì, e una guardia mi disse che

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dovevo andare dal direttore. Mi rialzaicon molta fatica, la guardia mi prese conun braccio intorno alla vita e micondusse nell’ufficio del direttore.

Qui seduto, dietro un tavolo, c’era unsignore di una cinquantina d’anni. Midisse che due americani erano venuti aprendermi e che non sarei più tornato inquel carcere, quindi ordinò alla guardiadi condurmi fuori.

Ma io feci resistenza.«Che c’è?» mi domandò.«Voglio salutare il mio compagno di

cella!»Il direttore mi rispose che non era

possibile. Appena fuori, due americanimi fecero sedere sulla Jeep e mi

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condussero in prefettura, nella sededell’Amgot. Venni introdotto nell’ufficiodel colonnello Chewin, il quale mi feceaccomodare e mi dichiarò che da quelmomento potevo considerarmi libero eassolto da ogni accusa.

«Ma me lo spiega cos’è successo?»domandai.

«Senti, da quando avete pubblicatoquel giornale ho ricevuto decine dilettere anonime di denunzia contro voidue: una vi accusava di nasconderedelle armi nella sede del giornale,perciò il maggiore Thomson ha ritenutonecessario ricorrere a una perquisizione.Abbiamo poi accertato che le armi nonappartenevano a voi. Tutto qui. Ah, ti

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voglio dire una cosa: da questo momentoin poi revoco il permesso dipubblicazione.»

«E perché?»Mi guardò con tenerezza.«In Inghilterra ho un figlio della tua

stessa età.»«E con ciò?»«E quindi posso considerarti come mio

figlio. Ti revoco il permesso perché seal primo numero ho ricevuto decine dilettere anonime sono più che certo che alterzo o quarto numero tu e il tuo amicoLa Rosa finirete male. Qualcuno visparerà di certo.»

«La sua è una decisione irrevocabile?»domandai.

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«Irrevocabile!» disse.Mi alzai, si alzò, mi venne incontro e

invece di tendermi la mano miabbracciò: «Buona fortuna ragazzo» midisse, accompagnandomi alla porta.

L’indomani mattina, il mio primopensiero fu quello di andare nel carceredi San Vito. Ottenni il permesso di uncolloquio con Pino Trupia.

Ci abbracciammo e io lasciai diecipacchetti di sigarette americane a quelloche, per una notte sola, era stato il mioangelo custode.

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Pier Paolo Pasolini

A farmi conoscere Pasolini fu LauraBetti, che organizzò un’apposita cena atre a casa sua. Ma fu un mezzo disastroperché fin dal primo momento, quasi apelle, non ci trovammo reciprocamentesimpatici.

Io, a quei tempi, ero iscritto al Partitocomunista ed egli, quando mi domandòdi che tendenza politica fossi, cominciòad attaccare la politica del partito. Io mivenni a trovare in una particolarissima

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situazione. Molte delle critiche chePasolini andava facendo le condividevo,ma il tono e il modo delle sue parole mispinsero, chissà perché, ad assumere unaposizione di difesa totale, malgradoLaura si facesse in quattro per riportarcia una situazione meno conflittuale.

Un giorno andai a casa di Laura, con laquale stavo facendo una trasmissioneradiofonica sulle donne di Cocteau.Erano le due del pomeriggio e trovaiLaura e Pier Paolo coricati,completamente vestiti, sul lettomatrimoniale. Presi una sedia e misedetti accanto al letto. Pasolini sidisinteressava della nostraconversazione, standosene sempre con

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gli occhi semichiusi e le mani intrecciatedietro la nuca. Sopra il letto, dalla partedella testa, c’era una lunga asse di legnoche reggeva un’enorme quantità di libri.Mentre stavamo parlando, si udì un cracfortissimo e un secondo dopo l’asse contutti i libri cadde proprio sulle teste deidue che erano distesi sul letto. Ma in unafrazione di secondo Pasolini balzò drittoin piedi e, per fare ciò, col bracciodestro si appoggiò su Laura che così nonpoté alzarsi, venendo colpita non solodall’asse ma da tutti i libri che c’eranosopra. Laura, sanguinante, saltò in piedicome una furia e cominciò a inveirecontro Pier Paolo accusandolo di averleimpedito di potersi muovere dal letto.

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Invece di giustificarsi, Pier Paolocominciò a sganasciarsi dalle risate eLaura passò a vie di fatto. Dovettiintromettermi per separarli. Ma anchePier Paolo si era arrabbiato perl’aggressione di Laura e io stimaiopportuno andarmene, lasciandoli soli acontinuare il loro litigio. Questi dueprimi incontri, dunque, non furono tantofelici.

Ancora più infelice fu il terzo e ultimoincontro.

Ero stato invitato a fare la regia diun’opera teatrale di Pasolini intitolataPilade. Lessi il testo, mi piacquemoltissimo e iniziai a studiarlo. Dopouna decina di giorni, mi ero fatto un’idea

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sulla possibile messa in scena. Fu allorache mi rivolsi alla Betti perché miprocurasse un incontro con Pier Paolo.Laura, al solito suo, mi invitò a cena. Ioesposi a Pasolini la mia idea registica, elui mi sembrò sinceramente convinto.Fece alcune osservazioni marginali, masostanzialmente approvò a pieno la miachiave interpretativa. A questo punto mirivolse una precisa domanda: «Qualiattori pensi di scritturare?».

Io feci il nome di un attore di teatro digrande bravura e fama, e aggiunsi cheper gli altri attori avrei fatto richiesta aex allievi dell’Accademia nazionaled’arte drammatica con i quali avevolavorato bene. La sua risposta fu una

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sorta di prolungato sghignazzo.«Cos’hai da ridere?» gli domandai.Lui rispose indirettamente alla mia

domanda: «Dunque vuoi attori chepronuncino bene l’italiano, compostini,distintini, elegantini…».

«No» dissi. «Voglio attori che sianoattori.»

«Con bella voce impostata…»continuò lui.

«Perché, ti danno fastidio gli attori conla voce impostata?» replicai io.

E lui: «Sì, io al cinema non liprenderei mai, nemmeno…».

«Pier Paolo, al cinema è tutt’altra cosa,in teatro è assolutamente indispensabile,soprattutto in un teatro greco all’aperto,

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che la voce dell’attore giunga fino alleultime file, altrimenti non si capisceniente.»

«Ma no! Se tu prendi della gente distrada che abbia la capacità di farsisentire, otterrai un risultato migliore!»replicò lui.

Io stavo per dire la mia quando luiaggiunse: «Siccome abbiamo un mese ditempo prima di iniziare le prove,riparliamone al mio ritorno. Io parto perun breve viaggio, ci ritroviamo a Romafra una decina di giorni».

«Senti, se vuoi che io adoperi attoripresi dalla strada per fare il tuo Pilade,io rinuncio alla regia» dissi.

«Vogliamo riparlarne fra una decina di

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giorni?» replicò lui piuttosto irritato.«Mi farò vivo io» e mi salutò.

Ci lasciammo con una certa freddezza.Passarono dieci giorni e lui non si fecevivo. Decisi di aspettare ancora qualchegiorno prima di chiamarlo.

Ma una sera, dal telegiornale, seppidella sua terribile morte.

Allora presi una decisione chemantenni. Il giorno dopo telefonai agliorganizzatori e, senza spiegarne leragioni, dissi loro che non ero in gradodi mettere in scena il Pilade di PierPaolo.

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La Federala

Al tempo del fascismo i segretarifederali erano, come i prefetti, deicapiprovincia responsabilidell’applicazione delle norme e delleleggi emanate dal partito. Ai loro ordiniavevano un vicefederale e tutti isegretari politici, che erano iresponsabili del rispetto delle regolefasciste nei singoli comuni. C’era ancheuna segretaria federale per le donnefasciste, che veniva comunemente detta

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«la Federala».Nel 1941 arrivò ad Agrigento una

federala bresciana, che si chiamavaErsilia Gucci: era una quarantenne dimedia statura, energica, imperiosa,volitiva, sempre in divisa, che ognisabato si recava in un paese dellaprovincia dove radunava le donnefasciste e teneva loro lunghi e veementidiscorsi sulle gloriose fortune cheattendevano l’Italia e gli italiani graziealla guida del duce Benito Mussolini.Dopo un po’ di tempo si venne a sapereche la Federala era sposata e che ilmarito viveva con lei, solo che nessunoli aveva mai visti insieme, e non solo: ilmarito della Federala non usciva quasi

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mai di casa, e quando usciva lo facevala sera tardi dopo cena. Un uomo,insomma, che suscitò subito moltecuriosità. E così venimmo a conoscenzadi qualcosa di straordinario, cioè a direche mentre la signora Gucci era unafascista doc, il marito non aveva maivoluto prendere la tessera fascista, eperciò non poteva lavorare, perchéallora per fare un qualsiasi lavoropubblico o privato era necessarial’appartenenza al partito. Quindi luiviveva alle spalle della moglie. Sisapeva anche che era stato un ottimoprofessore di filosofia nei licei, primadi dover abbandonare l’insegnamento.Come già mi è capitato di raccontare, la

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mia fede fascista cominciò a vacillaredopo il raduno fiorentino del maggio del’42 e dopo l’incontro con La condizioneumana di Malraux.

Con l’intensificarsi deibombardamenti, tra la fine del ’42 el’inizio del ’43, il preside del liceo diAgrigento emanò una sorta di ordine delgiorno dove c’erano tutte le istruzioniper raggiungere il ricovero, in caso dibombardamento, nel più breve eordinato modo possibile. A tale scopovenne istituito un servizio d’ordine fattodagli studenti del terzo anno. Un gruppodi dieci studenti, tra i quali c’ero io, alsuono della sirena d’allarme dovevadisporsi lungo il percorso; il posto che

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mi venne assegnato fu proprio alla basedi una traballante scala di legno chescendeva verso l’accesso al ricovero.Agrigento non era mai stata bombardata.Il mio paese lo era di giorno e di notte,quindi io avevo una certa abitudineall’effetto, anche psicologico, che lebombe producevano.

Un giorno, suonata la sirena, il serviziod’ordine scattò per primo eraggiungemmo i posti assegnati,senonché, contrariamente alle altrevolte, quel giorno gli americani deciserodi bombardare la città. Il panico fuimmediato. Io, che mi trovavo come hodetto ai piedi della scala di legno, vidicon orrore che alcune ragazze erano

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state buttate per terra dai ragazzi chevolevano mettersi prima di loro alriparo. A tale vista, siccome avevo aportata di mano una sedia di legno, lapresi e cominciai a colpireviolentemente i ragazzi, riuscendo ariportare un po’ d’ordine. Subito in mioaiuto arrivarono due o tre compagni chemi diedero una mano a ristabilire lacalma e a dare la precedenza alleragazze.

L’indomani mattina in classe entròimprovvisamente il preside, che miabbracciò, mi elogiò pubblicamente peril contegno tenuto il giorno avanti e micomunicò che mi aveva proposto per unadecorazione al federale. Il quale,

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naturalmente, prese informazioni sul mioconto e scoprì così che non solo mi erofatto esentare dalle adunate del sabatofascista, ma che scrivevo su ungiornaletto di cui io ero redattore diarticoli a dir poco di scarsa fedefascista. Quindi dichiarò al preside chenon avrebbe inoltrato la richiesta didecorazione.

La presa di posizione del federale sisparse nell’ambiente studentesco.Eravamo nel marzo del 1943 e un giornoil preside mi comunicò che la signoraGucci, la Federala, mi convocavapresso la Federazione donne fasciste peril pomeriggio seguente alle orediciassette. Mi domandai stupito che

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diavolo volesse da me, l’avevo sì e nointravista qualche volta alle adunate. Mipresentai puntuale, la signora Gucci sialzò facendo il saluto fascista, io risposiricambiando con il saluto romano. Mifece sedere davanti a lei e mi disse: «Hovoluto conoscerti perché mi hanno dettodel tuo atto di coraggio durante ilbombardamento».

Ringraziai.Lei mi guardò: «Ho letto anche gli

articoletti che hai scritto per ilgiornale».

«Grazie» dissi.Mi guardò a lungo negli occhi, in

silenzio, poi chinando un po’ la testaverso di me mi domandò: «Sei convinto

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di ciò che scrivi o ripeti cose che haiorecchiato?».

«Io sono convinto di ciò che scrivo»risposi.

«Sei capace di mantenere un segreto?»Sorpresissimo dissi: «Certo che lo

sono».Allora lei aprì un cassetto chiuso a

chiave e mi porse una busta; la aprii,dentro c’era un libro malamentestampato. La Federala mi disse:«Rimettilo nella busta, portalo a casa,leggilo, e solo se hai qualche compagnofidatissimo fallo leggere anche a lui. Mache non ti esca mai dalla bocca chequesto libro viene da me. Mi dai la tuaparola d’onore?».

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«Parola d’onore» dissi.Ci stringemmo la mano.«Arrivederci» mi fece, e

stranissimamente, congedandomi, nonfece il saluto fascista. Subito a casa mimisi a leggere: il libro si chiamavaMorte di italiani, autore ne era un taleStefano Terra, mai sentito nominare. Mala cosa più sorprendente era che il libroera stato stampato in Egitto, al Cairo, el’editore era Giustizia e libertà. Era unlibro che descriveva la Torino operaiaantifascista. Era un libro di propagandacontro il fascismo, stampato all’estero eclandestinamente introdotto in Italia. Eallora: chi era la signora Gucci? Era laFederala fascistissima che si mostrava

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in pubblico o la moglie fedele delmarito antifascista?

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Maria Cosenza

Nell’anno scolastico 1942/43 iofrequentavo l’ultimo anno del liceo.Erano gli anni più duri della guerra, inSicilia: il mio paese, Porto Empedocle,era bombardato giorno e notte. Gliabitanti non vivevano più nelle loro casema nei rifugi, che erano molto grandi eabbastanza sicuri perché scavatiall’interno di una collina di marna. Lì lagente aveva portato letti, suppellettili,cucine da campo… praticamente il mio

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era diventato un paese sotterraneo. Perandare a scuola dovevo recarmi adAgrigento o con una corriera o con lalinea ferroviaria. Però gli americani inquel periodo mitragliavano qualsiasicosa si muovesse sulle strade; così miamadre decise che io mi trasferissistabilmente ad Agrigento in casa di unamia lontana parente vedova.

In quel periodo professori giovani nonse ne vedevano in giro, erano stati tuttirichiamati alle armi e sostituiti quasisempre da professoresse in età moltoavanzata o al contrario giovanissime,ancora universitarie. Oltretutto questeprofessoresse, vai a sapere perché,duravano sì e no per un mese, un mese e

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mezzo, poi venivano avvicendate.Ricordo che in quell’anno, oltre agliinamovibili professori di filosofia CarloGreca e di italiano Emanuele Cassesa,solo una volta avemmo un docente disesso maschile.

Si trattava di un prete, monsignorSaverio Cannata. La prima volta che lovedemmo comparire in classe restammostupiti: era un prete ultranovantenne,sdentato, uno scheletro altissimo cheindossava una tonaca che una voltadoveva essere stata nera, ma ora viravaal verde marcio. Il professore entròreggendo sotto il braccio una logoraborsa di cuoio, che depose sullacattedra; si sedette e con un filo di voce

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disse qualcosa che non capimmo. AlloraPino Corso, che era il piùintraprendente, chiese: «Scusate, cosaavete detto?» (a quei tempi bisognavarivolgersi con il voi e non con il lei,secondo il dettame fascista).

Al che il monsignore ripeté le parolealzando di poco la voce, ma lapercepimmo appena lo stesso: «Ho dettobuongiorno».

«Buongiorno!» ripetemmo in coro.«Benvenuto!»

Sapevamo che padre Cannata eraun’autorità in greco, aveva vintoaddirittura dei concorsi internazionaliper la composizione di poemi in linguagreca. Cominciò a parlare, ci parse di

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capire, di Eschilo. L’ascoltavamo inreligioso silenzio, non per quello chediceva, ma nel tentativo disperato dicapire le parole che stava pronunciando,tanto che per sentirle meglio chiudemmole finestre per non far entrare il rumoredella strada. Dopo un po’ il monsignorefece una cosa stranissima: si alzò dallacattedra, scese dalla pedana con laborsa sottobraccio, aprì la porta diingresso dell’aula e si nascose dietro diessa. Pino Corso non resistette allacuriosità e andò a vedere cosa stessefacendo il prete, si voltò sbalorditoverso la classe e disse: «Sta ciucciandoil latte dal biberon».

Allora, dopo il nostro silenzio

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sbigottito fui io a dire: «E che fa, sivergogna? Fallo venire a sedere incattedra!».

Pino Corso disse: «Ma no, monsignore,non si nasconda!» e prendendolosottobraccio lo accompagnò a sedere.

Poi monsignore, con uno sguardo digratitudine, riprese a ciucciare e Pino sirimise al suo posto.

Aspettammo che il monsignore avessefinito di bere il suo latte e riposto ilbiberon dentro la borsa, quindi PinoCorso si alzò, salì sulla cattedra ebattendogli una mano dietro la schienadisse: «Monsignore, faccia il ruttino!».

A farla breve, lo adottammo.Purtroppo monsignor Cannata durò

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anche lui un mese e poi se ne andò.In quel periodo, sopra alla mia parente

abitava una ragazza poco più cheventenne che frequentava il terzo annodell’Università di Palermo. Non era diAgrigento ma di un paese vicino, equindi aveva preso in affittoquell’appartamentino dove viveva dasola. Si chiamava Maria Cosenza. Laincontravo almeno tre o quattro volte algiorno, e quindi finimmo con lo stringereuna certa amicizia. Cominciammo auscire la sera assieme, ad andare aspasso, a mangiare un gelato, oppure alcinema: la nostra amicizia si faceva digiorno in giorno più intima. Poi una serami invitò a cena perché aveva trovato

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del buon pesce che sapeva cucinare. Ciandai, forse bevemmo un po’ troppovino, fatto sta che a un certo punto citrovammo abbracciati su un divano, ecosì cominciò la nostra storia segreta.

Una sera mi disse: «Da domani padreCannata non vi terrà più lezione digreco, sarò io a sostituirlo».

Allibii.«Questo significa che tu diventi la mia

professoressa?»«Sì.»«Allora – esclamai – potrò finalmente

avere un sei in greco!»Mi guardò con un’espressione

improvvisamente severa.«Te lo puoi scordare! Tu per me in

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classe sarai uno studente come gli altri,e dati i rapporti tra noi due, forse titratterò peggio.»

E mantenne la parola. Per i due mesiche insegnò nella mia classe al liceo nonriuscii ad avere più di quattro in greco.

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Un libro: La condizioneumana

di André Malraux

Nella primavera del 1942 si svolse aFirenze un grande raduno della gioventùfascista e nazista europea. Presieduto daAlessandro Pavolini, ministro dellaCultura popolare, e da Baldur vonSchirach, capo della Hitlerjugend, iltema del raduno era «l’Europa didomani».

Io, che avevo vinto la selezioneregionale del concorso artistico-letterario-politico dei Ludi Juveniles,venni invitato a parteciparvi assieme a

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Gaspare Giudice e Luigi Giglia, duemiei compagni di liceo; avrei dovutotenere una relazione sul repertorioteatrale ideale per un teatro diispirazione fascista. Ci trovammo,attendati alle Cascine, ragazzi e ragazzeprovenienti dalla Spagna, dall’Italia,dalla Germania e da tutti gli altri paesioccupati dai nazisti, vale a dire francesi,albanesi, portoghesi, spagnoli franchisti,polacchi, ungheresi, cecoslovacchi e viadicendo. Era una babele di lingue: miricordo che per parlare con una ragazzaungherese decidemmo, dato che eravamotutti e due studenti liceali, di usare illatino.

Leggevo molto e, di lettura in lettura,

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con gli anni i miei dubbi sul fascismoerano aumentati e soprattutto non avevodigerito l’alleanza con la Germania. AFirenze eravamo un migliaio di giovani,tutti in perfetta divisa di colore e fatturadiversa a seconda del paese diprovenienza, e il primo giorno citrovammo riuniti al Teatro comunale. Ilsipario era chiuso. Quando si aprì perdare inizio alla manifestazione, vidi constupore che sul palcoscenicocampeggiava solo un’enorme bandieranazista. Ero seduto su una poltrona chedava sul corridoio centrale di passaggio.Accanto a me si trovava GaspareGiudice. Mi rivolsi a lui: «Gasparì, masiamo in Italia o in Germania?».

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«In Italia.»Non seppi trattenermi, una forza

irresistibile mi fece balzare in piedi,gridando a voce altissima: «Via quellabandiera tedesca!».

Il vocio, le risate dei mille giovani sispensero di colpo; piombò un silenzioassoluto.

Io, sempre in piedi, gridai: «Via quellabandiera tedesca! Mettete quellaitaliana!».

Il sipario si chiuse di colpo. Nel teatroora il silenzio si era tramutato in unbrusio continuo ed eccitato. Solo igiovani tedeschi rimanevanoimpassibili, seduti al loro posto insilenzio. Si riaprì il sipario. Ora,

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accanto alla bandiera nazista più piccolaera stata sistemata una bandiera italianadi eguali dimensioni. Sentii gli occhi ditutti puntati su di me. Io non dissi nulla,ero soddisfatto del risultato ottenuto. Poisi presentarono sul palco Baldur vonSchirach e un altro ufficiale tedesco,altissimo, dal volto tagliato conl’accetta, lugubre, che ci disserochiamarsi Kaltenbrunner, uno dei più altigerarchi nazisti (che poi venneimpiccato a Norimberga). Dietro di loroil ministro Pavolini.

I tre sedettero, e dopo il rituale salutoal duce e a Hitler prese la parola vonSchirach, che parlò due oreininterrottamente descrivendo quale

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sarebbe stata l’Europa futura secondo laconcezione nazista. Via via che il suodiscorso veniva tradotto in italiano, ilcuore mi si stringeva sempre più:l’Europa che tracciava von Schirach sicomponeva davanti ai nostri occhi comeun enorme casermone squallido, spoglio,gelido, abitato da gente in divisa con unasola parola d’ordine: «Obbedire!»,senza nessuna possibilità di autonomiané di pensiero individuale e un unicolibro da leggere, da meditare, dastudiare, da imparare a memoria: ilMein Kampf di Hitler. Von Schirach silanciò anche in un’accusa contro lacosiddetta «arte degenerata», che nonavrebbe più trovato posto nell’Europa

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di domani.E qui io precipitai in una sorta di

angoscioso tormento, perché era proprioquell’arte che più amavo. Non avreidunque mai più potuto leggere Gide, nonavrei più potuto guardare un disegno ouna pittura di Kokoschka. Alla fine deldiscorso, sebbene che il mio stessopensiero mi facesse paura, mi auguraicon tutte le mie forze che quell’Europadi domani non potesse mai realizzarsi.

Alla fine prese la parola AlessandroPavolini. Il suo discorso fu totalmente inlinea con le parole di von Schirach, equi capitò un incidente. Finito che ebbedi parlare, Pavolini scese dalpalcoscenico, attraversò il corridoio e

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giunto alla mia altezza mi fece cenno diseguirlo. Io mi alzai e gli andaiappresso. Arrivammo nel foyer, Pavolinisi fermò, io rimasi davanti a lui aguardarlo, e lui mi disse una solaparola: «Coglione!».

E quindi, col piede destro calzato in unlucidissimo stivale, mi diede un violentocalcio al basso ventre che mi fececadere a terra gemendo per il dolore.Gaspare Giudice e Luigi Giglia ciavevano però seguiti, e così appenaPavolini si allontanò mi soccorsero,chiesero aiuto a un signore che era lìpresente e venni trasportatoall’ospedale. Da lì poi, per l’interventodel prefetto di Firenze, il conte Gaetani,

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che era un amico di mio padre, vennicondotto in una clinica privata, perchéPavolini non potesse raggiungermi. Poteitornare al convegno solo due giornidopo e tenni la mia relazione.

Rientrai al mio paese sconvolto; diquello che mi era successo e di quelloche stava capitando dentro di me nonpotevo parlare con nessuno. Eravamosotto una dittatura e in un tempo resoancor più pericoloso dalla guerra. Mene stetti per qualche giorno a casa, senzaandare a scuola; ero sicuro di non esserepiù un fascista, ma non sapevo ancorache cosa ero in realtà. Passavo nottiinsonni, chiedendomi quale sarebbestato il mio avvenire in un mondo del

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quale rifiutavo tutto. In quei giorni micapitò tra le mani un libro: si trattava diLa condizione umana di AndréMalraux, pubblicato in Francia nel1933, stampato in Italia l’annosuccessivo e misteriosamente sfuggitoalle maglie della censura. Il libro, chetratta in sostanza di una rivoltacomunista, letteralmente mi fece venirela febbre. Scoprii, leggendolo, che tuttoquello che il fascismo raccontava suicomunisti non era vero: i comunistiavevano ideali, comportamenti,sofferenze, gioie, sentimenti del tuttouguali a noi. Era una falsità che icomunisti fossero minimamente diversida come ero io, da come era Gaspare,

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da come erano le persone che amavo eche mi circondavano. Non erano, comediceva la propaganda, delle quasi bestiesenza dignità, senza onore, senza decoro.Ideali ne avevano, eccome, egrandissimi, anzi per essi erano dispostia pagare con la vita.

Quella notte lessi il libro tutto d’unfiato. Sono certo che immediatamentedopo quella lettura masse di neuroni delmio cervello si spostarono da una parteall’altra, che una modificazione radicaleavvenne nel mio essere; sentii di più chequei comunisti non solo erano uguali ame, ma erano miei fratelli, che i loroideali erano quegli stessi miei, che ioerroneamente avevo attribuito consoni al

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fascismo. Furono tre giorni di autenticamalattia: avevo la febbre a trentanove,mi spuntarono come delle pustole sulviso, il medico chiamato di corsadiagnosticò un avvelenamentoalimentare. In parte ci aveva indovinato,solo che non si trattava di unavvelenamento, ma dell’immissione disangue nuovo, diverso, vivo, caldo,palpitante, che il mio organismo stentavaa fare entrare dentro di sé.

Ecco, quando mi chiedono come maisei diventato a diciott’anni, ancora sottoil fascismo, un ragazzo con ideecomuniste, io rispondo che tutto ciò, perfortuna, è successo grazie all’incontrocasuale con La condizione umana di

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André Malraux.

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Il maresciallo Campagna

Il maresciallo della Marina mercantileEmilio Campagna, destinato allacapitaneria di porto di Porto Empedoclenel 1932, da più di dieci anni non erastato trasferito, ed era quindi diventatouna sorta di enciclopedia vivente pertutto ciò che riguardava il movimentoportuale, i fondali, le correnti, le seccheesistenti nello specchio d’acquaantistante. Era anche un barometroambulante: le sue previsioni si

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rivelavano esatte al novanta per cento,perciò i pescatori si rivolgevano semprea lui quando il tempo era incerto. Basso,tarchiato, di poche parole, era un uomoal quale bastava un’occhiata per ottenerel’obbedienza assoluta dei suoi marinai.A Porto Empedocle si era sposato conuna giovane del luogo da lui adorata.Rispettosissimo verso i superiori, erasua abitudine starsene impalatosull’attenti quando loro gli rivolgevanola parola.

Un giorno arrivò il nuovo comandantedella capitaneria, il colonnello ValerioPoggio Brancato: era un nobile con dellefisime che certamente dimostravano unequilibrio mentale non perfetto. Per

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esempio, quando doveva recarsi sulporto in una giornata molto soleggiatapretendeva, molto poco militarmente, diessere accompagnato da un attendenteche camminandogli a fianco gli tenesseaperto sulla testa un ombrellino. Esigevache ogni mattina la capitaneria venissepulita a fondo dai marinai, e lui stesso sidedicava appena entrato in ufficio allaminuziosa ispezione degli angoli anchepiù remoti: era sua abitudine passare ildito sulle scrivanie per vedere se c’erarimasto qualche granello di polvere. Seper caso ciò accadeva, il responsabileveniva severamente punito.

La capitaneria di porto aveva indotazione un motoscafo: il comandante

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decise che quando l’avrebbe usato perportare a spasso la sua signora, lepanche di legno sarebbero statericoperte da soffici cuscini che avevafatto comprare appositamente. Avevaanche dato l’ordine perentorio chequesti cuscini dovevano essere applicatisulle panche solo per la sua signora emai per nessun’altra occasione.

Un giorno del 1942 io andai in cerca dipapà che era al porto, e lo raggiunsimentre lui stava parlando col colonnellocomandante. Era una giornata di solemolto caldo, e l’attendente gli tenevasulla testa aperto l’ombrellino. Non ebbiil tempo di parlare con papà perchévedemmo dirigersi verso la banchina il

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motoscafo, guidato dal marescialloCampagna. Il colonnello inorridì: «Maci sono i cuscini!» esclamò.

Infatti il maresciallo li aveva messi perfar sedere la sua giovane moglie. Ilcolonnello divenne paonazzo e, appenaCampagna attraccò e sua moglie scesedal motoscafo, lo chiamò a vocealtissima e imperiosa: «Campagna!Venga subito qui!».

Il maresciallo si precipitò, fece ilsaluto militare, si impalò sull’attentidavanti al suo superiore che lo guardavacon aria severa.

«Campagna! Avevo dato l’ordine dinon mettere i cuscini se non quandosaliva a bordo mia moglie, se ne

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ricorda?»«Signorsì.»«E allora perché li ha messi?»«Perché dovevo accompagnare mia

moglie.»«E che significa?» chiese con voce

quasi isterica il colonnello.Campagna si irrigidì sull’attenti e poi

scandì queste parole: «Significa, signorcolonnello, che il culo di mia moglievale quanto il culo della sua signora».

Per poco il colonnello non soffocòdalla rabbia. Campagna gli fece unsaluto militare impeccabile, batté itacchi, voltò le spalle e si allontanò.

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Il comandante Campanella

Avevo tredici anni quando un giorno apranzo papà disse a mamma che quellasera avremmo avuto a cena un ospitemai venuto prima, il comandante ErnestoCampanella, di cui lui era molto amico.Io sapevo già chi era Campanella, anchese non l’avevo mai visto di persona: erail comandante del cosiddetto «postale»,cioè a dire la nave-traghetto che facevala spola tra Porto Empedocle e l’isola diLampedusa trasportando posta,

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passeggeri, viveri, medicinali eautomezzi. Dal nostro porto salpava allenove di sera e arrivava a Lampedusaalle sette del mattino; da lì ripartiva allenove e arrivava alle sette di sera a PortoEmpedocle. La cena quindi sarebbe stataquella sera anticipata alle sette e trenta esarebbe durata al massimo un’ora.

Quando suonarono alla porta andai ioad aprire. Il comandante indossava ladivisa e quando gli dissi di entrareguardò con occhio critico la porta e nonsi mosse di un passo: stava studiando imovimenti necessari per attraversarla.Infatti Campanella era basso di statura,il volto grassoccio, rotondo, con grandiocchi azzurri, ma era molto grasso, ai

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limiti dell’obesità. Una volta studiata lasituazione si mise di traverso, tiròindietro più che poteva la pancia estrusciando con tutto il corpo contro idue lati della porta riuscì a entrare.Durante la cena ci raccontò alcuniepisodi avvenuti nel corso dei viaggi,tutti molto divertenti, e io ancora ricordoquell’occasione con molto piacere.

Da allora si instaurò un’abitudine:quella di venire a cenare da noi ognigiovedì sera. Campanella era un uomodai movimenti un po’ pachidermici, maaveva uno spirito effervescente, voltoquasi sempre a osservare le cose dalloro lato più buffo. Il racconto di comela società armatrice avesse dovuto

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adattare alla sua mole la branda dellasua cabina personale e l’accesso alponte di comando fu veramenteesilarante. Poi, nel giugno del 1940,venne dichiarata la guerra e ilcomandante Campanella cominciòspesso a saltare la cena del giovedì.Papà ci spiegò che il comandante erascrupolosissimo per tutto ciò cheriguardava la sicurezza dei passeggeridurante il viaggio: controllavapersonalmente il funzionamento del calodelle scialuppe di salvataggio, contava isalvagente, ne studiava di continuo ladisposizione perché fosseroraggiungibili dai passeggeri il piùfacilmente possibile. Certo, si fidava

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molto del suo secondo, ma preferivadormire un sonno tranquillo. Già, perchéi sonni di Campanella avevano straniorari. Infatti, come ci aveva raccontato,erano così suddivisi: tre ore dopo esseresalpato e tre ore in prossimitàdell’arrivo.

Il 12 febbraio del 1942, mentreinfuriava una tempesta, alle sei di serala capitaneria di porto ricevette un Sosdal postale: il comandante comunicavache la sua nave, a poche miglia dalnostro porto, era stata silurata da unsommergibile nemico e stavarapidamente affondando.Fortunatamente, comunicavaCampanella, a bordo non c’erano

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passeggeri, solo l’equipaggio e gliinservienti che assommavano a ventiduepersone più lui. Poi la comunicazione siinterruppe. Papà, sconvolto, venne acasa, si cambiò d’abito e ci comunicòche sarebbe andato con quattropescherecci in soccorso del postale.Mamma si mise a piangere, supplicòpapà di non andare, ma lui fuirremovibile. Mi misi l’impermeabile eaccompagnai papà fino al porto. Cirimasi fino alla partenza dei quattromotopescherecci e poi tornai a casa; manon andai a letto, mamma mi rispedì incapitaneria perché voleva esserecostantemente informata sulle operazionidi salvataggio. Dopo ben quattro ore di

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attesa giunse il primo messaggio dallaflottiglia dei pescherecci: tuttol’equipaggio era stato recuperato dallescialuppe, ma del comandanteCampanella non c’era traccia.

Io mi trovai sulla banchina quando imotopescherecci attraccarono e nescesero i naufraghi. Tutti erano illesi,avevano solo delle coperte sopra lespalle perché sentivano molto freddo.Papà tornò a casa e ci riferì il raccontodell’equipaggio su quello che avevafatto il comandante. Campanella, appenala sua nave era stata centrata dal siluro,si era reso conto che non c’era più nullada fare, quindi aveva dato l’ordine diabbandonare la nave e l’equipaggio

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aveva preso posto nelle scialuppe disalvataggio che vennero calate in mare.Nel buio più profondo e in mezzo ailampi e ai tuoni di quella notte ditregenda, sentirono la voce diCampanella che veniva dalla nave,pericolosamente inclinata: «Siete insalvo tutti?».

La distanza tra le due scialuppe si erafatta molto grande per via del mareagitato e della corrente fortissima, percui il secondo ufficiale che si trovavanella scialuppa più vicina alla nave nonpoté che rispondere: «Comandante, nonlo sappiamo!».

«Allora vado a vedere» disseCampanella.

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Fu l’ultima volta che sentirono la suavoce, perché pochi minuti dopo la navevenne velocemente inghiottita dal mare.L’equipaggio era più che certo che ilcomandante fosse rimasto intrappolatodentro. Ma papà non perdette lesperanze: una volta arrivato a casa sicambiò di nuovo, era fradicio, e ripartìalla ricerca di Campanella, questa voltacon un solo motopeschereccio. Sirifornirono di acqua, di pane, di bende eripresero il largo. Ogni tantocomunicavano con la capitaneria diporto. Così passò il primo giorno, passòil secondo. Solo nel pomeriggio delterzo giorno papà comunicò che ilcomandante Campanella era stato tratto

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in salvo. Nel frattempo mezzo paese siera riunito sotto la capitaneria per averenotizie: quando si seppe che era vivo egodeva di discreta salute, scoppiò in unapplauso interminabile. Campanellavenne trasportato subito nell’ospedale diAgrigento e papà rimase al suo fiancoperché voleva conoscere le sue realicondizioni di salute. I medici, dopo cheebbero visitato il comandante, lotranquillizzarono: da lì a pochi giornil’avrebbero dimesso. E così infattiavvenne.

Ma ci fu un’inattesa complicazione.Campanella era riuscito durante ilnaufragio a uscire dalla nave che stavacolando a picco e, affiorato alla

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superficie, aveva trovato a portata dimano una larga tavola con molti appigli,vi si era aggrappato, e così aveva potutosopravvivere galleggiando. Raccontò apapà che, inspiegabilmente, appenaaggrappato alla tavola, era stato presoda un attacco di sonno irresistibile, maaveva reagito, comprendendo che selasciava uno solo degli appigli quellasarebbe stata la sua fine. I vestiti glipesavano, per cui era riuscito con moltafatica a togliersi le scarpe, i pantaloni,la camicia rimanendo nudo, malgrado ilfreddo, sulla tavola. Ogni tanto però leondate lo facevano scivolare di nuovo inmare. Risaliva faticosamente e rimanevadisteso a metà, perché la tavola era

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troppo piccola per la sua stazza. Riuscìa resistere così per sessanta ore, fino aquando non vide comparire ilpeschereccio salvatore.

La complicazione era che non avevapiù nulla da mettere addosso. Allorapapà si fece prestare la biancheria e unvestito da Masino Attardi, che su per giùaveva le stesse misure del comandante,e gli portò tutto all’ospedale. Ma qui cifu una seconda complicazione, vale adire che quegli abiti erano troppo larghiper Campanella. Nelle sessanta ore cheera stato in mare aveva perso più diventicinque chili: tutto il grasso del suocorpo se n’era andato via, ma l’avevaprotetto dalla morte sicura per

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assideramento in quelle acque gelide.Una volta uscito dall’ospedale,

indossando gli abiti che gli erano statifatti fare in fretta e furia sulle sue nuovemisure, venne a cena. Quando entròagilmente dalla porta di casa, come maiprima era riuscito a fare, non riuscii atrattenermi dall’abbracciarlo.

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Roberto Morsucci

Nel 1950, alle Olimpiadi culturali dellagioventù risultò vincitore assoluto perun’opera teatrale un autore fino a quelmomento sconosciuto, RobertoMorsucci. Il suo dramma in versi siintitolava Semicori. Di metterlo inscena, a Genova, venne incaricato ilregista Mario Landi.

Anch’io in quelle giornate ero aGenova, perché avevo vinto il primopremio di poesia. Ma Landi, che

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conoscevo da tempo e sapeva della miaprovenienza dall’Accademia d’artedrammatica, mi chiese di dargli unamano come aiuto regista.

Cominciammo le prove e fin dal primogiorno Morsucci si sedette accanto a me.Era un giovane rossiccio di pelo e dipelle, che teneva in ambedue le orecchiedegli apparecchi acustici, essendo natosemisordo.

Mario Landi provò per i primi duegiorni. Al terzo giorno mi telefonò lamattina dicendomi che per ragionifamiliari era costretto a tornare per pocotempo a Roma e che continuassi io leprove.

Andammo avanti così per una

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settimana. Quando chiedevo un consiglioo una spiegazione a Morsucci, luirispondeva: «Fai tu».

Una sera, a cena, gli chiesi qual era ilsuo parere sul mio lavoro e su quellodegli attori. Rispose: «Non mi parescritto da me».

Mi allarmai.«Ti sembra che stiamo stravolgendo il

tuo testo?»«No, no, per niente. Solo che più lo

sento e più mi pare che non miappartenga.» Mi rispose così e nonaggiunse altro.

Mario Landi non era potuto piùtornare; poco prima della provagenerale, Morsucci mi chiese se era

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necessaria la sua presenza. Io risposi dino, ma aggiunsi che mi avrebbe fattomolto piacere sentire il suo parere. Luisi sedette accanto a me, ma pochi minutiprima della fine si alzò e se ne andòsenza proferire parola.

Dopo avere fatto le osservazioni agliattori, tornai in albergo e nella hall lovidi seduto su una poltrona.

«Perché te ne sei andato?» glidomandai.

«Non reggevo più» mi disse. «Ti possochiedere un favore?»

«Certo, dimmi!»«Potresti fare in modo che lo

spettacolo non vada in scena?»«Ma sei pazzo? È impossibile, lo

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spettacolo è annunciato per domani. Ilteatro è esaurito!»

Si prese il volto fra le mani, apparivasconvolto.

«Roberto, se nello spettacolo c’èqualcosa che non funziona dimmeloapertamente, perché il tempo di faredelle correzioni ancora lo abbiamo. Ioposso convocare gli attori e...»

Mi interruppe scuotendo la testadesolato.

«No, non c’è niente da fare.»E ancora una volta, come sua

abitudine, si alzò e se ne andò.L’indomani sera lo spettacolo andò in

scena ed ebbe molto successo. Dalpubblico si cominciò a gridare «Fuori

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l’autore!». Ma l’autore non si presentò aringraziare.

L’indomani mattina seppi che se ne erapartito per Roma, dove abitava. Duegiorni dopo, mentre mi trovavo ancora aGenova, mi raggiunse una telefonata delredivivo Mario Landi: «Ma come cazzohai messo in scena Semicori?».

«Perché mi fai questa domanda?»«Te lo dico dopo, prima rispondi alla

mia!»«Credo di averlo fatto bene, lo

spettacolo ha avuto molto successo…»«Ma Morsucci ha assistito alle

prove?»«Sempre. Ma perché mi fai queste

domande?»

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«Perché Morsucci ieri sera si èsparato. È morto.»

Rimasi allibito. Allora capii il sensodelle sue parole quando mi aveva dettoche quel lavoro sembrava nonappartenergli. Non era quel lavoro, eraforse la vita stessa a non appartenerglipiù.

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Silvano Falleni

Da regista teatrale e televisivo ho avutola collaborazione di molti scenografi,alcuni dei quali di grande talento enome, come per esempio Pier LuigiPizzi o Lele Luzzati; ma Silvano Falleni,del tutto sconosciuto, giganteggia nellamia memoria sia come scenografo siacome uomo.

Il destino non gli concesse il tempo dipoter raggiungere la fama che avrebbemeritato. Non esito a dire che era un

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autentico genio.Fu Orazio Costa a introdurlo

nell’ambiente professionale: aveva vistoa Firenze uno spettacolo con le scene diSilvano e ne era rimasto cosìfavorevolmente impressionato davolerlo conoscere di persona econgratularsi con lui. Pochi mesi dopo,lo chiamò a Roma per fargli curare lescenografie di tre saggi finali degliallievi diplomandi presso l’Accademianazionale d’arte drammatica.

Silvano, allora poco meno chetrentenne, si trasferì a Roma dalla natiaFirenze e prese in affitto l’enormesoffitta di un palazzone davanti alColosseo. In quello stanzone dal tetto

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sconnesso l’acqua piovana entrava acatinelle.

Falleni, invece di chiedere alcondominio che venisse riparato il tetto,risolse il problema a modo suo. Costruìun complicato sistema fatto di tubi e filidi nylon che convogliavano l’acquadentro grossi bidoni; e siccomel’umidità di quella stanza rimanevacomunque molto forte, aveva montatouna tenda dentro la quale dormiva.Accanto alla tenda aveva costruito untavolo fatto da una grande asse di legnoche poggiava su due cavalletti.

Era di carattere mite, alto, ben incarne, teneva sempre la testa inclinataverso la spalla sinistra e guardava chi

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aveva davanti con gli occhi semichiusi.Andava tutte le mattine in banca acambiare un assegno per avere il denarobastevole ai bisogni di quella solagiornata: quindi i suoi assegni raramenteerano superiori alle cento o duecentolire. Agli impiegati della banca che gliavevano fatto notare che un simile mododi procedere veniva a costargli una cifrasuperiore a momenti allo stesso importodell’assegno, egli aveva risposto chenon voleva denaro liquido in tasca.

Grosse cifre, invece, gli occorrevanosolo per ciò che riguardava la suapassione autentica, che era la fotografia.Girava sempre con una macchinafotografica a tracolla e scattava a piè

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sospinto.Posso assicurare con certezza che egli

non riuscì mai a consegnare unascenografia finita; tutte le sue scene sonoincompiute. Questo perché Silvano, unavolta ottenuto dal regista il via per ilbozzetto, lo realizzava con le sue mani,accumulando tutto il materiale che gliserviva (legname, tende, colori...) sulpalcoscenico dove avrebbe avuto luogolo spettacolo.

Tanto era rapido nel disegnare ilbozzetto, così era lento nella suarealizzazione, dovendosi ogni voltatrasformare in falegname, intelaiatore,pittore. Lavorava fino a cinque minutiprima che si aprisse il sipario per lo

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spettacolo, e doveva essereletteralmente cacciato via dalpalcoscenico.

Però, di questa incompletezza, nessunodel pubblico se ne accorgeva, perché sitrattava di dettagli e rifiniture la cuiassenza non comprometteva in nulla labellezza della scenografia.

Io lo ebbi come scenografo in tre oquattro spettacoli. Il giorno in cuidovevamo andare in scena conL’albergo dei poveri di Gor’kij, alPiccolo Eliseo di Roma, egli micomunicò alle tre di pomeriggio che perfinire il lavoro gli occorrevano un pezzodi legno e una sbarra di ferro che avevavisto e che voleva recuperare e

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applicare alla scena se gli mettevo adisposizione un taxi. Mia moglieRosetta, incautamente, si offrì diaccompagnarlo in macchina. Come miraccontò dopo, arrivarono fin sottoViterbo, e a un certo punto lui le chiesedi fermarsi. Scese e scomparve neicampi, ritornando dopo una mezz’orettacirca con un pezzo di trave fradicia aforma di rostro. Si ripresentarono ateatro che erano già le sei.

Silvano impiegò un’oretta ad applicareil legno alla scenografia. Dopo di chechiese a Rosetta di accompagnarlo aVelletri per prendere l’altro pezzo diferro che gli occorreva. Io lo cacciaifuori dal palcoscenico, e naturalmente

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nessuno del pubblico si accorse che lascenografia mancava di un pezzo diferro.

Dopo questo spettacolo un altroregista, Ottavio Spadaro, lo chiamò perla rappresentazione di una tragedia in unteatro greco. Per quell’occasioneSilvano si fece portare in palcoscenicoquattro quintali di vongole e patellefinemente triturate che egli impastò concalce, costruendo così una gigantescascenografia che risultava biancapunteggiata da milioni di minuscolemacchiette nere e dava un effettostraordinario.

Ma una scenografia siffatta, esposta alsole di agosto, dopo due giorni cominciò

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a puzzare, sicché gli spettatori furonocostretti ad assistere alle replichetenendosi un fazzoletto davanti al naso.

Silvano non riuscì a finire lascenografia neanche al BerlinerEnsemble, dove venne chiamato daBenno Besson. Ebbene, perfino in quelteatro, conosciuto per il suo meccanismoa orologeria, funzionante senza nessunaimperfezione, Silvano riuscì in qualchemodo a costituire un inceppo; infatti,anche Besson dovette allontanarlo dalpalcoscenico per andare in scena,mentre lui mormorava: «Ci fosse unavolta che riuscissi a finire unascenografia».

Io lo richiamai per un altro spettacolo,

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Odore di terra di Siro Angeli, chedoveva essere rappresentato nel teatrodella Pro civitate christiana di Assisi.Più che di un copione teatrale si trattavadi una sceneggiatura cinematografica.Molteplici infatti erano i cambiamenti discena che dovevano essererappresentati.

Silvano ideò tre piccoli palcoscenicigirevoli da sovrapporre a quellocentrale, in modo che le variazionid’ambiente fluissero senza pause. Una diqueste scene, però, si svolgeva inparadiso. Per disegnarlo Silvano feceerigere una sorta di passerella fatta ditubi Innocenti che sovrastava ilpalcoscenico centrale. Su questa

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avrebbe costruito il suo paradiso.Senonché i tubi Innocenti rimasero talifino a due giorni dal debutto. Quando losollecitai a ricoprire quei tubi, egli mirispose di non poterlo fare perché nonaveva mai visto come era fatto ilparadiso. Io replicai che invece lapossibilità di vederlo ce l’aveva,bastava guardare un qualsiasi dipinto diGiotto. Silvano non replicò e se ne andòvia dal teatro, senza più ricomparire. Ilgiorno avanti la prova generale, decisidi risolvere il problema del paradiso amodo mio: con della garza e del sottilefil di ferro, feci costruire delle nuvolettein maniera che i tubi Innocenti venisserocompletamente coperti.

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La prova generale stava per iniziarealle tre del pomeriggio del giornoseguente, alla presenza di quattrocardinali, otto vescovi e un’infinità dimonsignori, preti e suore. In quelmomento riapparve Silvano, che guardòle nuvolette e rivolto verso di medomandò: «Oh cos’è quel troiaio?».

«È il paradiso che tu non hai volutofare!»

Si allontanò. Dopo due minutiriapparve, munito di un grosso martello,e cominciò a distruggere le nuvolette. Ioche ero in fondo alla platea, perdetti lestaffe e bestemmiando come un pazzoattraversai tutta la sala, saltai sulpalcoscenico, gli levai il martello dalle

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mani, gli diedi un cazzotto in faccia epoiché avevo intravisto tra le quinte duecarabinieri, ordinai loro con vocemilitaresca: «Portatelo via!».

I due carabinieri eseguirono l’ordinedato con voce così autoritaria etrascinarono via Silvano.

Riparati i danni alle nuvolette, quandomi voltai verso la sala la vidi deserta.Tutti i cardinali, i vescovi, i preti e lesuore se n’erano andati, inorriditi dallemie bestemmie.

Lo spettacolo andò in scena la sera evenne mandato in contemporanea anchein televisione. Ebbe un grosso successo,ma il giorno dopo, sentendomi in colpa,espressi il desiderio al direttore della

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Pro civitate christiana, don Rossi, discusarmi per il comportamento delgiorno avanti.

Egli mi indicò un cardinale che stavaseduto con altri suoi colleghi sotto unalbero, e mi disse: «Vada a chiederescusa al patriarca di Venezia, è quelloseduto al centro».

Mi avvicinai al patriarca, gli feci uninchino e gli dissi: «Sono venuto achiedere scusa per la scenata che hofatto ieri a teatro».

Il patriarca mi guardò: «Perché vieni achiedere scusa a me, devi chiederescusa a te stesso. Comunque per ciò cheriguarda me sei scusato».

Io lo ringraziai e feci per ritirarmi, ma

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lui mi richiamò: «Senti – mi disse –però quel signore col martello, il pugnoche gli hai dato, se lo è meritato».

Pochi mesi dopo, il patriarca diVenezia diventava papa Giovanni.Ho detto che Silvano aveva unapassione sfrenata per la fotografia. Ungiorno me ne mostrò una: era moltostrana. Aveva usato il grandangolare. Adestra c’era la Torre di Pisa chesembrava che stesse per cadere da unmomento all’altro sopra a un signore chese ne stava disteso sul prato, per metàrialzato, con la mano destra protesa inavanti come a respingere qualcosa chelo stesse minacciando, ma quello che erastraordinario era l’espressione dei suoi

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occhi. Non era facilmente descrivibile,quello sguardo esprimeva un misto distupore, paura, rabbia. Mi vennenaturale domandargli: «Ma cosa gli haidetto per spaventarlo così?».

«Non gli ho detto nulla.»«Che gli hai fatto?»«Vedi, lui se ne stava a dormire, io mi

sono avvicinato, ho regolato bene lamacchina fotografica, quindi mi sonoabbassato la zip dei pantaloni e hocominciato a pisciargli addosso mentrescattavo la fotografia. E poi sonoscappato.»

Ecco perché l’espressione di quegliocchi era difficilmente qualificabile.Erano gli occhi di un uomo che mentre

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se ne sta a dormire tranquillamente sivede svegliare da qualcuno che gli stafacendo la pipì in faccia.

Silvano Falleni, dopo aver realizzatopoche altre scenografie mastraordinarie, venne ricoveratoall’ospedale psichiatrico di Firenze.

Da lì mi fece una telefonata: «Andrea,sono Silvano».

«Silvano che piacere! Come stai?»Mi rispose con una frase lunghissima,

fatta di parole assolutamenteincomprensibili.

«Ma in che lingua parli?» glidomandai.

«È un linguaggio astrale» mi rispose, echiuse la comunicazione.

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Da allora non lo sentii più.Due anni dopo seppi che era morto in

quell’ospedale.

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Arthur Adamov

Di Adamov ho già scritto, se torno aparlarne è perché mi sembra che siastato dimenticato non solo in Italia, maanche in Francia dove visse e operò. Èstato uno dei tre maestri del teatrodell’assurdo, gli altri due erano SamuelBeckett ed Eugène Ionesco. Il primo aessere rappresentato in Italia fu Beckett:il suo Aspettando Godot venne messo inscena a Roma, al Teatro Duse di viaVittoria, dal regista Luciano Mondolfo.

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Subito dopo, venne messo in scena alTeatro dei Satiri Il nuovo inquilino diIonesco.

Luigi Candoni, un commediografo chesi era inventato il Festival delle novitàper far conoscere al pubblico italianoquanto di più innovativo ci fosse nelteatro mondiale, nel 1957 per colmare lalacuna mi propose di dirigere un lungoatto unico di Adamov, intitolato Comesiamo stati.

Di Arthur Adamov conoscevo già unaltro straordinario lavoro teatrale, Ilprofessor Taranne, e proposi a Candonidi sostituire con quest’ultimo testo l’attounico che mi aveva proposto; ma lui siintestardì nella sua scelta. Così

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cominciai, al mio solito, le prove atavolino con gli attori.

Al termine di una quindicina di giorni,passai alle prove in palcoscenico alTeatro dei Satiri. Il secondo giornovenimmo interrotti dall’usciere delteatro, il quale mi disse che c’era unacoppia di signori francesi che volevanoparlarmi. Dissi all’usciere di farliattendere una decina di minuti e che liavrei ricevuti nel quarto d’ora di pausa.

E così avvenne. Vidi avanzare nelcorridoio una strana coppia: lui era uncinquantenne vestito da parere quasi unbarbone; i suoi piedi nudi calzavano unpaio di sandali da frate francescano, ipantaloni erano azzurrini di tela grezza,

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assai simili a quelli di un marinaio, esulle spalle teneva un giubbotto grigiopiuttosto malandato. Lei, al contrario,era sobriamente elegante; ricordo che micolpì il suo scialletto di gran marca, maappena mi furono davanti, il miointeresse si spostò sui loro occhi.

Quelli dell’uomo erano grandi, neri,profondi. Lo sguardo esprimevanaturalmente una sorta di bontà infinita,ma in fondo era visibile un’ombra didisperazione e doloroso smarrimento.

Quelli di lei erano acutissimi:sembravano due fari capaci di penetrareall’interno di te; attraverso gli occhi, lesue pupille parevano metterti a nudo.L’uomo mi tese la mano e mi chiese, in

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francese, se io ero il regista. Risposiaffermativamente.

«Sono Arthur Adamov» disse. «E lei èmia moglie Jacqueline.»

Rimasi esterrefatto.«Ma lei sapeva che io stavo provando

il suo lavoro?»«No, sono di passaggio a Roma e fuori

dal teatro ho visto esposto il cartellone,così ho scoperto che c’era in programmaquesto mio lavoro.»

Mi venne naturale dirgli che se avevaun po’ di tempo poteva, sempre che neavesse avuto voglia, assistere allaprova. Rispose entusiasticamente di sì.Li feci accomodare in platea e ripresi aprovare.

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Ogni tanto, di sottecchi, davo unosguardo ai due. Se ne stavano immobili,attentissimi. Dopo aver provato per dueore, feci un’altra pausa. Scesi in plateaun po’ emozionato e chiesi a Adamov unsuo parere su ciò che aveva visto.Sorrise.

«Sono molto contento, ma ci sono dueo tre cose che…»

Mi fece delle osservazioni acutissime.Per non smarrirle ripresiimmediatamente a provare e lui simostrò molto soddisfatto perché ioavevo seguito i suoi consigli. Alla finedella prova, mi propose di andare acena assieme. Accettai.

Di Adamov, fino a quel momento, a

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parte il lavoro che stavo mettendo inscena e Taranne, non conoscevo altreopere di teatro, ma avevo letto su unarivista francese un suo straziantearticolo sugli ultimi giorni di vita diArtaud, che era praticamente morto trale sue braccia.

Bastò che gliene facessi un cenno e luisi mise a parlarne con la voce che atratti gli si rompeva per la commozione.Era come se Artaud si fosse spento ilgiorno avanti. Gli dissi che purtropponon avevo potuto leggere quel testofondamentale che è Il teatro e il suodoppio perché non ancora tradotto initaliano, e lui mi promise che appenatornato in Francia me ne avrebbe spedito

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una copia assieme a due altri libri,pubblicati da Gallimard, dove eranocontenute tutte le sue opere teatrali.

L’indomani mattina ci vedemmo ancorae andammo a pranzo. Adamov miraccontò che quasi tutti i suoi lavorierano suggeriti da sogni che faceva, chela sua visionarietà e il suo onirismoerano il risultato di questa straordinariacapacità di vivere una vita altra in unmondo altro, quale era quello dei suoisogni.

«Ma più che sogni sono quasi degliincubi!» dissi.

Lui sorrise.«La vita è un incubo» mi rispose.Quando rientrò in Francia mi mandò i

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libri che mi aveva promesso e da allorafra noi due si intrecciò una fittacorrispondenza. Tornò in Italia circaquattro o cinque mesi dopo, sempreaccompagnato dalla moglie. Micomunicò che voleva passare unatrentina di giorni nel nostro paese,vivendo però in una sola città, senzamuoversi. E perciò voleva sapere da mequal era la città ideale per lui. Non ebbiesitazione.

«Vai a Livorno» gli dissi.Fece quanto gli avevo detto e dopo una

settimana mi mandò una letteraentusiastica da Livorno, dicendo cheavergli indicato quella città dimostravaquanto io l’avessi profondamente capito.

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Nel ’58, venuto a sapere che io stavomettendo in scena Finale di partita diBeckett, mi promise che sarebbe venutoin Italia per assistere alla prima, emantenne la promessa. Questa volta nonera accompagnato dalla moglie, ma daun giovane e brillantissimo criticofrancese che io già conoscevo di nome,Bernard Dort. Alla fine dello spettacoloandammo a cena assieme, ma prima dicominciare a mangiare, Arthur si alzò echiamò al telefono Beckett. Ebbe lacomunicazione dopo una decina diminuti. Andò al telefono facendocicenno di seguirlo: disse a Beckett chetrovava lo spettacolo al quale avevaappena assistito di gran lunga migliore

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di quello di Roger Blin a Parigi. Passòla cornetta a Dort, che si profuse in elogiper la mia regia, quindi toccò a meparlare con Beckett. Ero tremante e in unbagno di sudore: Beckett mi ringraziò eio ringraziai lui di avermi concessol’opportunità di lavorare su un testo cosìsplendido.

Quando Adamov tornò in Franciacontinuammo a scriverci e lui mi mandòi suoi ultimi lavori teatrali che ormaiavevano cambiato tono e registro.Erano, chiaramente, dei testi politiciscritti sotto la forte suggestione delteatro di Brecht.

Di Adamov diressi in televisione,protagonista Lilla Brignone, un altro suo

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lungo atto unico, Le ricomparse(intimità), che lui però non vide.

Dal ’68 non rispose più alle mielettere: era troppo preso a cavalcarel’onda del maggio francese, al qualepartecipò in prima persona, vivendo tragli studenti che proclamavano «lafantasia al potere». Fino a quando sognòsolitario, scrisse testi teatrali digrandissima, inarrivabile suggestione.

Ma volle invece condividere un sognocomune, quello appunto del maggiofrancese, e quando questo sogno siinfranse egli, malgrado l’assiduaamorosa presenza della moglieJacqueline, non seppe resistere allaprofonda depressione nella quale era

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caduto.Si suicidò con un’eccessiva dose di

barbiturici. Aveva sessantadue anni.Per ricordarlo, anni dopo, feci mettere

in scena da un mio allievo regista, Dirkvan den Berg, quel Professor Taranneche tanto avrei voluto dirigere io.Ruggero Jacobbi, direttoredell’Accademia nazionale d’artedrammatica, inscenò una bella edizionedi Tutti contro tutti.

Dopo, che io sappia, sul nome diAdamov è caduto un ingiusto silenzio.

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Virgilio Marchi

L’architetto Virgilio Marchi è stato miomaestro di scenografia e costumeall’Accademia nazionale d’artedrammatica. Le sue lezioni, come quelledi regia di Orazio Costa, avevano solome come allievo, perché in quell’annoio ero stato l’unico a superare la provadi ammissione all’Accademia. Marchicome architetto aveva progettato ecostruito teatri un po’ dovunque in Italia,e come scenografo aveva lavorato tanto

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nel teatro lirico quanto in quello diprosa. Il suo nome era strettamentelegato a quello di Luigi Pirandello,perché quando questi nel 1925 avevacostituito il suo Teatro d’arte a Roma,aveva voluto come scenografo stabile ilgiovane Marchi, che addirittura avevacurato le scenografie per il primospettacolo, Sagra del Signore dellanave. Marchi era un autentico maestro,le sue lezioni erano di una chiarezzaesemplare, e spessissimo sostituiva alleparole i disegni; infatti andava dicontinuo alla lavagna e col gessettotracciava ora un bozzetto, ora unfigurino. Il suo pallino fisso era laprospettiva, che mi illustrava portandosi

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appresso riproduzioni di grandi opered’arte. Ma faceva di più: una volta chedoveva curare le scenografie per l’operadi Roma volle che ne seguissi con luitutta la realizzazione, dal bozzetto finoalla messa in piedi della scenografia sulpalcoscenico dell’opera.

Quelle lezioni pratiche mi insegnaronomolto. E mi insegnarono anche tanto lelezioni che mi tenne a Livorno: mentrestava facendo costruire il nuovo TeatroQuattro mori mi chiese di recarmi inquella città, a sue spese, per spiegarmiperché il palcoscenico dovesse averecerte dimensioni rispetto alla sala, esoprattutto mi fece capire la sommaimportanza dell’acustica per un teatro di

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prosa.Marchi abitava a Roma in una

deliziosa villetta a mezza costa dellacollina alle spalle di piazzale Flaminio,spesso mi invitava a casa sua e per mearrivarci era come fare una gita incampagna. Era un uomo in apparenzarude, scontroso, di poche parole; inrealtà ebbi modo di capire come questosuo presentarsi fosse una sorta di scudoper proteggere una sensibilitàacutissima. A tanti anni di distanzaconservo ancora i quaderni sui qualiprendevo appunti delle sue lezioni.Devo dire che se ho imparato a fare leluci per uno spettacolo lo devo a lui.

Poi, durante l’estate del 1950, capitò

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un incidente: tutti noi dell’Accademia,più una gran quantità di attori giàdiplomati come Rossella Falk, TinoBuazzelli, Bice Valori, Nino Manfredi,Paolo Panelli e altri, fummo convocatida Costa per il suo spettacolo Ilpoverello di Copeau. Provocai, nonvolendolo, uno scandalo che non staròqui a raccontare. Alla riaperturadell’Accademia, nel settembre dellostesso anno, si riunì il consiglio deiprofessori per decidere i provvedimentidisciplinari a mio carico. Io me ne stavodietro la porta della camera dov’erariunito il consiglio in ansiosa attesa. Aun tratto la porta si aprì e si richiuse: erauscita la segretaria.

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«Com’è andata?» le chiesi colbatticuore.

«Per te malissimo. Ha prevalso ladecisione del presidente. Hanno decisodi levarti la borsa di studio e di fartiripetere il primo anno.»

Mi risentii.«Vada per la borsa di studio, ma se io

ho avuto il massimo dei voti come fannoa…»

«Possono farlo, possono farlo!» reagìla segretaria duramente, e si allontanò.

Capii che quel provvedimentoequivaleva a un’espulsione. Senza borsadi studio me la sarei passata certamentemale, ma avrei in qualche modo potutosopravvivere. Ma ripetere il primo anno

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mi sembrò un’ingiustizia insopportabile.In quel momento uscì il presidente,Silvio D’Amico.

«Posso parlarle?»«Vieni nel mio ufficio.»Lo seguii, chiuse la porta. Ero alterato:

«Presidente, lei capisce che nonaccetterò mai di ripetere il primo anno».

«Se non lo accetti te ne vai.»«Va bene» dissi. «Me ne vado. Ma lei

mi deve spiegare prima perché si èaccanito contro di me.»

«Perché – mi disse – oltretutto seisiciliano, e i siciliani…»

Lo interruppi: «Ne ha conosciutimolti?».

«Uno solo. E mi è bastato. Luigi

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Pirandello.»Voglio aprire una parentesi: quando

l’anno appresso feci la mia prima regia,Silvio D’Amico, che era il critico delquotidiano «Il tempo», ne scrissebenissimo.

Continuai a cercare di difendermi, maben presto capii che non c’era nulla dafare: la sua determinazione erairrevocabile. Così me ne usciidall’Accademia e cominciai acamminare lentamente interrogandomisul mio avvenire. Ero molto avvilito escoraggiato. A questo punto sentii unavoce: «Camilleri!».

Mi fermai, mi voltai: era VirgilioMarchi che mi correva incontro.

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Mi raggiunse, mi mise una mano sullaspalla, mi strinse a sé: «Non ti avvilire.Quest’Accademia ha il brutto vizio dicacciare i migliori. Anni fa hanno fattolo stesso con un grande come EttoreGiannini. Fatti forza, la mia casa èaperta per te, vieni a trovarmi quandovuoi. Se hai bisogno di denaro ticercherò un lavoretto, e se proprio nonlo troviamo verrai a mangiare a casamia».

Lo ringraziai, commosso alle lacrime.Mi strinse la mano: «Sappi che io saròsempre al tuo fianco, perché tu sei unoche un giorno o l’altro riuscirà a fare ciòche desidera. Tu appartieni a questarazza».

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Queste parole mi diedero la forza dinon tornare in Sicilia, di restare a Romae tentare con tutte le mie energie dicontinuare a vivere nell’ambiente delteatro. Se sono diventato un regista, senon ho abbandonato la strada che volevointraprendere, lo devo tutto alle paroledell’architetto Virgilio Marchi.

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Lucio

Lucio era un mio compagnoall’Accademia nazionale d’artedrammatica, ma mentre io seguivo ilcorso di regia, lui era stato ammessocome attore e perciò seguiva il corso direcitazione. Era un giovane piuttostoalto, rossiccio di pelle e di capelli,molto solitario: non si era fatto amiciziené maschili né femminili tra i ventiallievi che componevano la sua classe.Avevamo orari diversi di lezione, ma

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appena poteva chiedeva al mio maestroOrazio Costa di poter assistere allelezioni di regia. Quando veniva nellamia classe, dove del resto ero io il soloallievo, si sedeva muto, silenziosissimoin un angolo, e lì restava fino alla fine.Al termine del primo anno, Lucio michiese se durante le vacanze sareitornato in Sicilia o se mi sarei trattenutoancora per qualche tempo a Roma.Risposi che sarei rimasto per un mesettoalmeno.

«Ti posso chiedere un favore?»«Dimmi.»«Potresti darmi lezioni private? L’anno

prossimo voglio sostenere l’esame perpassare dalla classe di recitazione a

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quella di regia.»«Non c’è problema» risposi.Così cominciai a fargli queste lezioni

private andando nella sua abitazione.Era più comodo perché egli avevaaffittato un appartamentino verso piazzadel Popolo, dove abitava da solo,mentre io a quei tempi stavo in unastanzetta di una pensione. Il primogiorno che arrivai, mi venne ad aprireindossando solo un paio di mutande.

«Sai Andrea, quando sono a casa mene sto completamente nudo, ho messo lemutande solo perché venivi tu.»

«Per me te le puoi anche togliere»dissi.

Ci sedemmo attorno al suo tavolo, che

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era costituito da una lastra di vetromolto spessa però trasparente, chepoggiava su quattro piedi di ferrobattuto. Quel primo giorno lotrascorremmo a parlare genericamentedi teatro e di commedie alle qualiavevamo assistito insieme.

Quando andai da lui per la secondalezione, si fece trovare completamentenudo. Stavolta avrei parlato sempre io,lui doveva limitarsi a prendere degliappunti; perciò dispose davanti a sé unquaderno e una penna biro. Io cominciaia parlare. Dopo un’oretta, notai che unamosca stava passeggiando sul dorsodella sua mano sinistra. Egli, con ungesto rapidissimo della mano destra, la

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catturò. Notai con sorpresa che, facendofinta di niente, continuava a tenerseladentro il pugno chiuso. Dopo un po’ miaccorsi che aveva portato le due manisotto il tavolo, forse pensava che dalposto dove ero seduto la visione di ciòche accadeva sotto la lastra di vetro misarebbe stata impossibile. Lo vidi così,mentre fingeva una somma attenzionealle mie parole, infilare due dita dellasinistra dentro la destra chiusa a pugno;poi vidi che la mosca era prigioniera trail suo pollice e l’indice della sinistra.Cautamente e sempre cercando di nonfarsi vedere da me, staccò le due ali allamosca e le buttò per terra. Poi rimise lamosca nella mano destra sempre chiusa

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a pugno. Se la tenne così per un pezzo,poi fingendo di doversi grattare illabbro superiore, si portò la mano allabocca e io capii che aveva ingoiato lamosca. Un rapido e lieve movimentodelle sue mascelle confermò la miasupposizione. Sbalordii.

«Te la sei mangiata?!»«Sì.»«Ma perché?»«Mi piacciono le mosche.»«Ma perché prima le hai tolto le ali?»«Perché le ali mi fanno schifo» fu la

stupefacente risposta.Avevo sete, ma l’idea di bere in un

bicchiere dove aveva bevuto qualcunoche mangiava le mosche me la fece

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passare.Alla terza lezione capitò un altro fatto

strano: Lucio aveva posto davanti a sésul tavolo una piccola scatoletta dimetallo, e nel corso del nostro incontrol’aprì due o tre volte, portandosela alnaso e odorando con evidentesoddisfazione il suo contenuto. Allalezione seguente fece lo stesso, poi michiese un piccolo intervallo perchédoveva andare in bagno. Rimasto solo,non seppi trattenere la curiosità: allungaiuna mano e presi la scatolina che egliaveva lasciato sul tavolo, l’aprii, mibastarono uno sguardo e l’odore chesubito mi colpì alle narici per capire chela scatolina era colma di feci umane

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fresche. Richiusi la scatolina e quandoLucio tornò dal bagno gli annunciai che imiei avevano insistito perché tornassiimmediatamente in Sicilia e che quellaquindi sarebbe stata la mia ultimalezione.

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Salvo Randone

Nel 1957 Giuseppe Giacovazzo, cheaveva fino ad allora diretto con esitibrillanti il Piccolo teatro di Bari, riuscìa mettere d’accordo le province dellaPuglia e a creare il Teatro regionalepugliese, dotato di fondi abbastanzaconsistenti. Siccome io avevo giàcollaborato con lui al Piccolo, michiamò nella nuova compagnia comeregista stabile. Insieme decidemmo ilcartellone e i nomi degli attori da

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scritturare.Il nostro sogno era di avere quale

primo attore Salvo Randone, certamenteil migliore della seconda metà delNovecento. Prevedevamo lunghetrattative, invece Randone accettò quasisubito la nostra proposta. Il lavorod’esordio sarebbe stato Assassinio nellacattedrale di T.S. Eliot. Per la regiadello spettacolo chiamammo OrazioCosta, di sicuro il più indicato tra iregisti italiani per quell’opera dialtissimo livello drammatico e poetico.Con Randone non avevo mai lavorato,ma avevo assistito a quasi tutti i suoispettacoli romani e ogni volta ne erorimasto commosso e affascinato.

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Randone e Costa avevano lavoratoinsieme diverse volte e si stimavanomolto reciprocamente.

Dopo i primi giorni di prova e diconvivenza, dato che abitavamo nellostesso albergo, mi resi conto cheRandone, siciliano come me, era unuomo coltissimo, di vaste letture,appassionato della musica classica, madotato di un carattere ombroso edifficile.

Ebbi modo anche di conoscere la suaquasi maniacale superstizione: se ungatto nero traversava la strada che luistava percorrendo, voltava le spalle,tornava indietro e sceglieva una viadiversa. In palcoscenico poi

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rimproverava chi per caso si metteva afischiettare; costrinse un’attrice atornare a casa e a cambiarsi d’abitoperché il vestito che indossava eraviola; se un copione sfuggiva dalle manidi un attore e cadeva a terra bisognavache il copione fosse battuto per tre voltesulle tavole del palcoscenico. E via diquesto passo.

La prima rappresentazionedell’Assassinio al Teatro Piccinni fu unautentico trionfo, sia perl’interpretazione di Randone, sia per lasplendida, intelligente, penetrante regiadi Costa. Poi cominciammo la tournéeattraverso la regione: la prima meta eraLecce. Io, col direttore di scena, ci

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andai il giorno prima dellarappresentazione per montare le scene epredisporre le luci. La compagnia arrivòil giorno dopo, alle cinque delpomeriggio, e Giacovazzo venne da mein teatro preoccupatissimo.

«Che succede?» gli domandai.«Succede che Randone sta malissimo,

si è messo a letto e mi ha chiesto di nonandare in scena stasera.»

«Non sarebbe meglio se lo visitasse unbuon dottore?»

Giacovazzo mi disse che sarebbe statocertamente meglio. Mi informai con unamico che avevo a Lecce e questi midisse che, a suo parere, il migliormedico era anche il chirurgo primario

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dell’ospedale locale. Senza perderetempo andai a cercare il dottore.

«Il professore sta operando – mi disseun’infermiera – però l’operazione staper terminare, se lo vuole aspettare…»

E mi fece entrare in un salottino. Pocodopo arrivò il chirurgo ancora colcamice addosso, i guanti e lamascherina. Cortesissimo, volle saperecosa desiderassi. Gli esposi lasituazione.

«Be’, andiamo subito» mi disse. «Hoprenotato due posti per stasera e nonvorrei che lo spettacolo non si facesse.»

Con la sua auto andammo nell’albergodove era sceso Randone. Il professoresalì nella sua camera, io restai nella

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hall.Ne discese dopo un’oretta.«Venga con me» disse.Salii nella sua macchina. Davanti a una

farmacia fermò, mi disse di aspettarlo,scese e tornò con una scatola checonteneva un flaconcino di gocce.

«Gliene faccia prendere subitoquindici.»

Mentre con estrema cortesia miriaccompagnava in albergo, mi decisi achiedergli di cosa soffrisse Randone.

«Non ha niente» mi disse. «Solo che èrimasto sconvolto da qualche avvisagliadi andropausa. Quelle gocce sono soloun calmante.»

Quella sera Randone andò in scena.

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Dopo un mese di tournée nelle Pugliela compagnia si trasferì a Roma perdebuttare con lo stesso spettacolo alTeatro Valle. Due ore prima dell’inizioandai al botteghino: il teatro eraesaurito, non c’era più un postodisponibile. Tornai nel mio camerino elì mi raggiunse Giacovazzo con la facciascura e preoccupatissima.

«Randone è nel suo camerino, nonvuole andare in scena. Dice che si sentemolto male. Ho provato a farglicambiare parere ma mi sembrairremovibile. Se non recita per noi è undisastro, il teatro è tutto venduto,dobbiamo rimborsare i biglietti. Perfavore, provaci tu a convincerlo.»

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Dentro di me sentii montare una certarabbia. Vuoi vedere che Randone stavafacendo la seconda dopo Lecce? Miarmai di coraggio, bussai alla porta delcamerino, entrai. Randone se ne stava suuna poltrona senza trucco e senza avereancora indossato il costume.

«Cosa si sente?» gli domandai in tonoaggressivo.

«Ho dolori diffusi in tutto il corpo, nonsono in grado di recitare.»

«Bene» dissi. «Se è così la facciosubito visitare da un medico.»

Prese le mie parole come un’offesapersonale.

«Non mi credi?» mi domandò in tonoalterato.

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«Non si tratta di credere o non credere.Lei capisce che se la recita non c’èdobbiamo rimborsare i biglietti, e quindiè necessario, per giustificarci con inostri finanziatori, avere un certificatomedico.»

Non rispose. Uscii dal camerino edopo un quarto d’ora si presentò ilmedico che Giacovazzo aveva chiamato.Attendemmo trepidanti il responso deldottore. La visita durò una mezz’oretta,poi uscì dal camerino, richiuse la portaalle sue spalle e ci disse: «Non haassolutamente nulla, nemmeno una lineadi febbre. Credo che stia benissimo.Non posso rilasciare un certificato dimalattia».

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Entrai sparato nel camerino diRandone: «Il dottore ha detto che non hanulla» feci in tono imperativo. «Quindilei si alza immediatamente da quellapoltrona e comincia a truccarsi e avestirsi.»

Uscii e chiusi la porta alle mie spalle.Di seguito Randone andò in scena eottenne un trionfo personale.

Me ne tornai a casa e mi addormentaiquasi subito stremato dalla tensione.Due ore dopo il telefono squillò: eraGiacovazzo.

«Or ora mi ha telefonato la compagnadi Randone: si è sentito malissimo, tantoche l’hanno dovuto portare in ospedale.Lo operano domani mattina.»

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Allibii.«Ma che cos’ha?»«Non lo so» mi rispose Giacovazzo.

«Comunque corro in ospedale perinformarmi e appena so qualcosa tichiamo.»

Passai il resto della notte accanto altelefono. Solo alle nove del mattinoricevetti la tanto attesa telefonata.

«Aveva qualcosa allo stomaco, maniente di grave. L’hanno operato el’operazione è riuscita benissimo. Ma,certo, dovremo sospendere le recitedell’Assassinio.»

Ma mentre ancora si trovava inospedale, Randone chiese di essersciolto dal contratto, per potersi

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dedicare tutto alla sua convalescenza.Non ebbi il coraggio di andarlo asalutare. Evidentemente il medico chegli avevo mandato aveva commesso ungrossolano errore: Randone quella serastava realmente male e io l’avevocostretto a recitare in quelle condizioni.

Negli anni che seguirono, lavorandomolto come regista alla radio e allatelevisione, provai a chiamare Randoneper averlo quale primo attore inqualcuno dei lavori che andavodirigendo. Ma ogni volta l’Ufficioscritture della Rai mi dava la stessarisposta: avevano parlato con Randone,gli avevano esposto la mia richiesta, malui aveva dichiarato di non essere

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disponibile. Alla sesta risposta negativa,capii che non aveva nessuna intenzionedi lavorare ancora con me.

Un pomeriggio, del tutto casualmente,ci trovammo faccia a faccia in uncorridoio della direzione della Rai. Losalutai, non mi rispose e tirò via. Alloragli corsi dietro e lo fermai.

«Mi spiega perché non vuole lavorarepiù con me?»

Mi guardò torvo.«Te lo dico io il perché. Quella sera al

Valle io stavo benissimo, solo che nonavevo voglia di recitare. Tu invece mihai mandato il medico e sei stato tu afarmi venire la malattia. Se non miavessi mandato il medico sarei stato

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benissimo. Tu mi hai portato iella, equindi ho giurato che non avrei mai piùlavorato con te.»

Dette queste parole si allontanò senzanemmeno salutarmi.

E da allora non ebbi più occasione diincontrarmi sulle tavole delpalcoscenico con colui che ancora oggicontinuo a considerare come uno dei piùgrandi attori che l’Italia abbia maiavuto.

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Lia Giudice

Lia Giudice era la sorella maggiore delmio amico e compagno di classe alliceo, Gaspare. Tra i due, però, correvauna differenza di età notevole. Lia,infatti, era già a quel tempo insegnantedi italiano presso il Liceo ginnasioEmpedocle dove Gaspare e iostudiavamo.

Io, allora, scrivevo poesie che tenevoquasi seminascoste, facendole leggeresolo a persone di cui mi fidavo. Forse

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mi vergognavo un po’.Al primo liceo, passato il primo

trimestre, capii che con Gaspare potevoaprirmi, e così gli diedi il mioquadernetto di poesie, facendomipromettere che non ne avrebbe parlatocon nessuno. Naturalmente si trattava ditentativi poetici molto influenzati dallapoesia di D’Annunzio, del quale avevoletto i quattro libri dell’Einaudi. Dei tremostri sacri che ci facevano studiare ascuola, Carducci, Pascoli e D’Annunzio,le mie preferenze erano andate aquest’ultimo. Gaspare, però, nonmantenne la promessa e passò ilquaderno alla sorella Lia.

Sicché, un pomeriggio che mi ero

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recato a casa di Gaspare, egli mi disseche le mie poesie, malgrado fossero cosìevidentemente dannunziane, avevanoqualcosa di originale e che si era sentitoin dovere di farle leggere a sua sorellache era una grande esperta di poesiacontemporanea. Rimasi un po’ seccato,ma non ebbi tempo di fare le mierimostranze a Gaspare, perché subitodopo si presentò la professoressa Liatenendo fra le mani il mio quaderno. Midisse che aveva avvertito, leggendomi,come io fossi realmente possessore diun autentico sentimento poetico; ma eraassolutamente necessario, a suo parere,che aprissi il mio orizzonte. Mi disse:«Solo in Italia è successo qualcosa di

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molto importante nel campo dellapoesia, dopo D’Annunzio e Pascoli.Vorrei suggerirti dei nomi: prima di tuttoleggi I colloqui di Guido Gozzano, sevuoi te li presto».

Quella sera stessa cominciai a leggereGozzano e continuai per tutta la nottefino alla mattina seguente. L’ironia, lasemplicità apparente, la dolcezza delritmo di Gozzano avevano in una solanotte spazzato via tutto l’armamentarioparolaio di Gabriele D’Annunzio. Fuiio, con il pretesto di restituire il libro,che chiesi un nuovo incontro con Lia. ELia, questa volta, mi parlò di EugenioMontale, anzi, fece di più: andò nellasua stanza, tornò con in mano Ossi di

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seppia e cominciò a leggermi qualchepoesia.

Ne rimasi incantato, ma non osaichiederle in prestito anche quest’altrolibro.

Decisi allora di andare a Palermo:presso la libreria Flaccovio certamentel’avrei trovato. Allora da Agrigento civolevano tre ore di viaggio con un trenoa carbone. Arrivai a Palermo, andai allaFlaccovio, trovai il libro, lo comprai,ripresi il treno. Durante il viaggiocominciai a leggerlo. Ne rimasi cosìsconvolto da non accorgermi che,chiudendo il libro, sul volto mi stavanoscorrendo delle lacrime. Il contadinoche sedeva davanti a me, mi guardò

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stupito.«Perché piangi?» mi domandò.Mi vergognai.«Mi dev’essere entrato un po’ di

carbone negli occhi.»Ecco, devo a Lia Giudice la successiva

conoscenza di Umberto Saba, che èrimasto nella mia vita assieme aMontale, a Luzi e a Gatto: i quattro poetidei quali ancora oggi, a novant’anni,continuo a citare mentalmente i versi cherendono meno penosi i disagi della miatarda età.

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La Sarduzza

Ai primi di maggio del ’43, per sfuggireai bombardamenti quotidiani, la miafamiglia, me compreso, si trasferì aSerradifalco, un paese all’interno dellaSicilia, ospiti di una nostra lontanaparente, la cosiddetta zia Concettina. Lazia, che era rimasta vedova, viveva inuna grandissima villa con la solacompagnia di una giovane camerieraventenne che si chiamava Pina. Viarrivammo in sette: nonno Vincenzo e

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sua moglie Elvira, la nonna paternaCarolina, mia madre, sua sorella Elisa,suo fratello Massimo e io. Papà erarimasto in paese, in quanto dipendentemilitarizzato della capitaneria di porto.

Tutti ci trovammo comodamentealloggiati. Nessuno di noi si aspettavache Serradifalco sarebbe stato unsoggiorno così piacevole e sereno. Io,addirittura, potei godere di uno studioparticolarmente bello, una stanza conquattro finestre in cima a una torretta.Non avevo potuto portare con me moltilibri, ma in compenso nella libreriadella villa trovai una ricca bibliotecaappartenuta al marito della zia, che erastato per tutta la vita un militare fino a

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raggiungere il grado di generale didivisione. I gusti del generalespaziavano dai trattati di guerra airomanzi osé di Pitigrilli, Mariani, GuidoDa Verona. Insomma, potevoaccontentarmi.

La cameriera Pina non si mostrò perniente turbata da quella invasione cheper lei, sicuramente, comportava uneccesso di lavoro. Era una ragazza dalvolto fine e delicato, avara di parole, dibassa statura e più magra di una sardasalata, tanto che io la soprannominai «laSarduzza».

Era di carattere mite e remissivo, etendeva a minimizzare qualsiasi cosaaccadesse. Un giorno, mamma le chiese

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se si stancasse del tanto lavoro che ilnostro arrivo le aveva procurato. Larisposta fu: «Bi’, chi vole ca sunno pìmia tanticchia di persone chiossà!».

Un altro commento che le sentii fare fu:«Bi’, pì tanticchia di guerra, talia cheburdello sta succidenno!».

I viveri scarseggiavano.«Pina, che ci prepari stasera per

cena?»«Bi’, aiu tanticchia di patate.»«Ma basteranno per tutti?»«Sì, sì! Ce ne sunno ’na dicina di

sacchi.»Quando il primo luglio io dovetti

partire richiamato alle armi per la basenavale di Augusta (vi rimasi dieci giorni

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perché alla notizia dello sbarco,avvenuto nella notte fra il 9 e il 10luglio, disertai e dopo un viaggioavventuroso riuscii a ricongiungermi conla mia famiglia), trovai una situazionecompletamente mutata. Il paradiso diSerradifalco si era tramutato in uninferno. La divisione tedesca HermannGöring aveva eretto i suoi accampamentia meno di cento metri dalla villa: e nonsolo quelli, ma anche i cannoni. GliAlleati si trovavano a pochissimadistanza da noi, ma non intendevanoancora attaccare con le truppe, neltimore di dover subire troppe perdite.

Dato che ormai eravamo sottoposti nonsolo ai bombardamenti aerei, ma anche

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al cannoneggiamento continuoavversario, lasciammo le nostre comodestanze e ci trasferimmo nelle due ampiecantine sottoterra, scavate addiritturanella roccia viva. Lì trasportammo i lettie tutto ciò che poteva occorrerci per lenostre esigenze quotidiane. Alle cantinesi accedeva attraverso una scaletta dipietra molto buia e dai gradinisconnessi. La cucina, naturalmente,rimase dove era sempre stata, ma poichéla sparatoria era continua, solo Pinasaliva dalla cantina per cucinarci unpasto arrangiato e una cena alla buona.

La zia Concettina propose ditrasportare in cantina una di quellecucine dette «economiche», che

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funzionavano a legna, per evitare chePina rischiasse la pelle almeno duevolte al giorno. Ma la risposta dellaSarduzza fu questa: «Bi’, pì tanticchia dicannonate che voli che mi scanto!».

Ero sempre più ammirato dal suocoraggio.

Dopo il terzo giorno notai una cosacuriosa: i bombardamenti, le sparatoriecessavano puntualmente alle cinque delpomeriggio e riprendevano dopoun’oretta circa. Non ho mai saputoperché ciò accadesse, ma accadeva.

Un pomeriggio, alle cinque, la portache dava sulla scaletta che serviva ascendere nella cantina venne spalancatacon un calcio e in alto apparve un

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sergente tedesco che teneva una pistolanella mano destra.

Appena entrato sparò un colpo in aria.Tutti atterriti, cercammo di nascondercinegli angoli bui; ma il tedesco, scesa lascala, vide subito sei enormi bottiallineate lungo una parete e poggiate subarre di ferro. Si avvicinò a unabarcollando, doveva essere già mezzosbronzo, e picchiò contro di essa con ilcalcio della pistola; poi passò allaseconda e alla terza. Sentì così che lebotti erano colme di vino. Disse a tutti ea nessuno: «Voglio vino!», battendo suuna botte.

Nessuno si mosse, solo Pina, che dopoqualche secondo, con un fiasco in mano,

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lo riempì e lo porse al tedesco, il qualefacendo un inchino traballante disse:«Grazie», e se ne uscì.

L’indomani la scena si ripeté con unavariante. E cioè che, appena aperta laporta, il tedesco si levò l’elmetto e lobuttò per terra. Stava per sparare,quando Pina gli gridò: «Non sparare!».

Prese un altro fiasco, lo riempì di vinoe lo porse al tedesco.

Ci fu un’altra variante: il tedesco preseper un braccio Pina e risalì le scaletrascinandosela appresso. Prima dichiudere la porta, si riprese l’elmetto ese lo mise in testa. Pina tornò dopocinque minuti: era sconvolta. Invece disedersi come al solito accanto alla zia

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Concettina, andò ad accucciarsi in unangolo buio della cantina. Zio Massimoe io ci intendemmo con un’occhiata equindi, lasciato trascorrere un po’ ditempo, ci avvicinammo a lei. ZioMassimo le domandò che cosa le fossesuccesso.

«Viniti ccu mia» fece Pina alzandosi ecominciando a salire la scala.

La seguimmo. Quando fummo nellastanza di sopra, Pina ci disse che iltedesco l’aveva abbracciata e avevatentato di baciarla sollevandole anche lagonna. Ma lei si era difesa con un calcioe il tedesco, ridendo, se n’era uscito.

«Be’, meno male, ti è andata bene»dissi io.

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«Sissi, ma sugno sicura che lui domanici riprova!»

«Vediamo come va domani» disse lozio Massimo.

L’indomani il tedesco ritrascinò con séPina e chiuse la porta delle scale.

Zio Massimo e io andammo a origliaredietro la porta. Sentimmo delle urla diPina e delle risate del sergente tedesco.Poi silenzio. Aprimmo la porta perraggiungere Pina. Aveva le vesti indisordine.

«Che t’ha fatto?» domandai io.«Voliva spogliarimi, po’ si è sbottonato

i pantaluna e voliva che io facessi cosevastase, ma stavota arriniscii ascapottarimilla, però non saccio fino a

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quanno ci arrinesciu.»Fece una pausa e con voce piana,

mentre si rimetteva in ordine le vesti,disse queste incredibili parole:«Domani io a chisto lo ammazzo!».

«Come fai? Sei pazza?»«Mi fazzo trovari alli cinquo in cima

alle scali. Quanno che lui trasi, non vedinenti pirchì è alluciato dal soli di fora.Io l’accompagno a scinniri le scali, pòci fazzo ’no sgambetto e lo fazzo cadiri.Speramu che si rompa l’osso delcoddro.»

«E se non se lo rompe?»E Pina, sempre più calma: «Allora

l’osso del coddro glielo rompiti voi».«E come?»

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«Ora ve lo fazzo vidiri.»Tornammo in cantina. Ai piedi delle

scale, in un buco scavato nella roccia,Pina aveva messo un grande martelloche serviva per le botti.

«Pinsai a ’na cosa: siccome che èsenza elmetto, uno di voi dù ci duna ’namartiddrata ’n testa.»

«E se poi i tedeschi vengono acercarlo?»

«A tutto pinsai» disse Pina. «Pigliamoil catafero e lo mittemo dintra all’ultimavutti che è vacante di vino.»

«Ma come facciamo a farceloentrare?»

«Bi’, facili è! Abbasta livari la partedi darrè della vutti e doppo rimittirla a

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posto.»Ci mettemmo all’opera. In mezz’ora

riuscimmo a levare le doghe di legnoche sostituivano la chiusura posterioredella botte.

E così, da mite cameriera, la Sarduzzasi era trasformata in una potenzialeassassina che aveva ordito un pianoperfetto.

Di questo progetto non parlammo connessun altro componente della famiglia.Se ne avessimo fatto cenno,probabilmente avrebbero tentato didissuaderci; ma zio Massimo e iovolevamo salvare a tutti i costi l’onoredi Pina.

Il pomeriggio seguente attesi che si

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facessero le cinque con un’ansiacrescente. Alle cinque meno cinque,Pina salì la scala e si sedette in cimasull’ultimo gradino. Io ero paralizzatodall’orrore che da lì a poco avrebbefatto irruzione nella nostra cantina. Fuzio Massimo a raggiungere la scala,nella semioscurità, e a impugnare ilmartello. Alle cinque esatte, avevoappena guardato l’orologio, invece delrumore della porta che veniva apertacon un calcio si scatenò unbombardamento mostruoso. Non solosparavano le artiglierie a cuirispondevano quelle dei tedeschi, maaddirittura uno stormo dicacciabombardieri alleati prese di mira,

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con spezzoni incendiari,l’accampamento tedesco.

Il sergente non si fece vivo né quelgiorno, né nei giorni successivi. Fu cosìche il nostro progettato delitto andò infumo.

Ma da quel giorno in poi non osai piùchiamare la cameriera con ilsoprannome di Sarduzza. La chiamaisempre con il suo nome, Pina, e lopronunciavo con sommo rispetto.

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Franco Cannarozzo

Quando papà venne trasferito a Enna,per prima cosa si preoccupò di affittareun appartamento vicino al suo ufficio inmodo che mamma e io potessimoraggiungerlo. Fu così che nel febbraiodel 1945 io, nato e cresciuto in un paesealto un metro e cinquanta rispetto allivello del mare, mi trovai a vivere nelcapoluogo più alto d’Italia, Ennaappunto, che se ne sta appollaiata anovecentocinquanta metri d’altezza.

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L’impatto con il freddo, inquell’appartamento riscaldato solo dadue bracieri, fu tale che la prima notte,malgrado avessi addosso due copertepesanti, non riuscii a prendere sonno senon dopo essermi coperto la testa e ilvolto con un passamontagna. Per tregiorni non osai uscire fuori di casa, poi,con due maglie di lana e un cappottopesante, misi il naso fuori. Arrivai albelvedere e mi fermai a guardare ilpanorama stupendo: ero solo,appoggiato alla ringhiera, quando a uncerto punto un giovane suppergiù dellamia età alto, magrissimo, occhialuto,venne a fermarsi vicino a me. Sentii ilrumore di un aereo e alzai la testa per

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scrutare il cielo. Fu allora che ilgiovane, senza aprire bocca, mi diede uncolpetto sulle spalle e col dito indice miindicò di guardare non in alto, ma in giù.E infatti vidi l’aereo in volo, ma al disotto di noi. Si presentò: «Mi chiamoFranco Cannarozzo».

Mi riuscì subito simpatico e ci demmoappuntamento nel pomeriggio al caffèCentrale. Quando arrivai, Franco era incompagnia di altri due giovani che mipresentò, Arnoldo Farina e SalvatorePasqua. Da quel momento diventammoun quartetto inseparabile. I tre mieinuovi amici erano anche loro dei buonilettori, e quindi gli argomenti diconversazione non mancavano. Così la

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loro amicizia servì a riscattare alquantoil freddo che ormai si era annidato nellemie ossa.

Salvatore «licchiava» con una ragazza.Spiego il verbo: «licchiare» significafare l’amore a distanza, vale a diresorridersi, mandarsi furtivi baci, farsicenni di saluto, senza che ci sia alcuncontatto fisico, reso impossibile dallasevera vigilanza dei genitori e deglieventuali fratelli della ragazza. Quellache amoreggiava con Salvatore abitavain una delle case più alte del paese,piantata su una roccia che se ne venivagiù a picco sulla campagna. Una voltaSalvatore mi propose di fargli daguardaspalle, perché doveva andare a

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licchiare. Mi disse di seguirlo in unviottolo di campagna, dal quale sisarebbe potuta vedere l’abitazione dellaragazza. Quando arrivammo mi disse diaspettarlo, e lui si avviò a piediattraverso i campi per avvicinarsi il piùpossibile al balcone sul quale la ragazzase ne stava affacciata.

Mentre facevo la guardia, vidi salire super il viottolo una specie di mendicanteche indossava un paio di pantaloni pienidi buchi e una giacca rattoppata che alposto dei bottoni aveva delle spille dabalia. Era un uomo anziano, che con ledue mani teneva sulle spalle un saccopieno d’erbe. Mi sorpassò senzaguardarmi, poi stranamente tornò

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indietro. Davanti a me c’era una sorta dipozzo coperto da un pezzo di lamieraarrugginita; il mendicante si fermò lì,posò il sacco per terra, estrasse dallatasca una pietra di gesso bianca e conessa scrisse sulla lamiera qualcosa chenon riuscii a leggere, poi si rimise ilsacco in spalla e se ne andò. Preso dallacuriosità andai a vedere. Aveva scrittosulla lamiera cinque numeri: 18, 27, 35,72, 85. Tornai a sedermi sulla pietra emi accesi una sigaretta. Dopo un po’Salvatore, che aveva finito diamoreggiare a distanza di circa trecentometri con la sua ragazza, tornò erientrammo in città. Mentre eravamoseduti al caffè Centrale, gli raccontai

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l’episodio del mendicante. Lui balzò inpiedi eccitatissimo.

«Te li ricordi i numeri?»«No.»«Andiamo subito a vederli.»Tornammo sul posto, li trascrivemmo.«Ma perché ti interessano tanto questi

numeri?» domandai a Salvatore.«Ma non capisci? Questi numeri

bisogna giocarseli subito al lotto!»«Va bene» dissi. «Partecipo anch’io.»Però c’era una difficoltà: a quel tempo

non esisteva a Enna un botteghino per ilgioco del lotto, per giocare bisognavaandare a Palermo entro il venerdì,perché dopo la giocata non sarebbe stataaccettata. Mentre discutevamo ci

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raggiunsero Arnoldo e Franco,raccontammo la storia del medicante eanche loro decisero di tentare la fortuna.Avevamo raggiunto in quattro la sommadi cinquecento lire, che allora eranotante.

A questo punto Franco Cannarozzo cifece una proposta: di consegnare i soldia lui perché, guarda caso, avevaprogettato di andare a Palermo il giornoseguente che era giovedì. Da Palermo, cidisse, sarebbe tornato il lunedìsuccessivo. Gli consegnammo iquattrini, lui si scrisse i numeri dagiocare e ci lasciammo. L’estrazioneallora avveniva il sabato sera e il giornoseguente veniva riportata dal «Giornale

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di Sicilia». Quella domenica, potevanoessere le dieci del mattino e stavoancora attardandomi in casa, quandoarrivarono trafelati Arnoldo e Salvatore,agitando il giornale: con voce stravoltaArnoldo mi comunicò che la cinquinache avevamo giocato sulla ruota diPalermo era uscita. Pazzi di gioiacominciammo a fare dei calcoli sullasomma che avevamo vinto: allora erauna cifra per noi enorme. Passammoquella giornata di domenica in uno statodi ebrezza, ognuno di noi esponeva aglialtri che cosa avrebbe fatto con queldanaro vinto. Facemmo sogni grandiosi:l’idea comune era quella di andarcenedalla Sicilia e trasferirci al Nord, come

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minimo a Milano.La notte tra la domenica e il lunedì la

trascorremmo in casa di Arnoldo,bevendo, fumando, ascoltando la musicalirica che tanto piaceva a lui con unvecchio grammofono a manovella. Alleotto del mattino del lunedì ciprecipitammo tutti e tre in casa diFranco. La mamma ci accolse dicendociche Franco era rientrato da Palermo conl’auto di un amico verso le cinque delmattino e che perciò dormivaprofondamente. Noi non sentimmoragioni e facemmo irruzione nella suacamera, spalancando la finestra.

«Che fu? Che successe?» domandòFranco svegliato di colpo e intontito dal

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sonno.«Successe che abbiamo vinto la

cinquina!» gridò esultando Salvatore.Ci aspettavamo una reazione gioiosa

da parte di Franco, che scoprì illenzuolo, si mise a sedere sul letto,guardandoci in faccia uno a uno. Eradiventato completamente bianco involto. Capimmo subito che c’eraqualcosa che non andava.

«Vi devo dire una cosa» disse.Nessuno di noi, prevedendo il peggio,

ebbe la forza di aprire bocca. Luicontinuò a testa china, quasimormorando: «Non ho fatto la giocata. Isoldi li ho persi tutti a una partita dipoker a Palermo».

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Dalle nostre bocche uscì una specie diruggito animalesco e un attimo dopocominciammo: tirammo su dal lettoFranco e lo picchiammo selvaggiamente,con calci, pugni, schiaffi. Mi ricordo cheaddirittura Arnoldo prese una sedia equasi gliela spaccò addosso. Franco sene stava per terra, aveva allargato lebraccia, il sangue gli colava dal naso elui sembrava non accorgersene, ripetevaa voce bassissima: «Avete ragione!Avete ragione! Avete ragione!».

Fu quella sua remissività a farcismettere, un po’ vergognosi.

Poi l’amicizia ebbe il sopravvento. Glilavammo le ferite, lo rimettemmo a letto,perché le botte erano state tante che non

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poteva più quasi muoversi. Uscimmo eci lasciammo subito, ognuno se ne andòper la sua strada. L’indomani, al solitocaffè, ci ritrovammo Salvatore, Arnoldoe io. Fu Salvatore a proporre di andare atrovare Franco. Stavamo per alzarciquando Franco comparve sulla sogliadel locale. Si avvicinò con la testa bassae disse: «Posso ancora sedermi convoi?».

Senza dire nulla Salvatore gli allungòuna sedia. Fu così che Franco restònostro amico. Io me ne andai da Enna enon ebbi più notizie da lui. Finché ungiorno non mi capitò un romanzo dellacollezione di fantascienza Uraniafirmato da un tale Franco Enna. Nella

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nota sull’autore era scritto che quelloera lo pseudonimo scelto dallo scrittoreennese Franco Cannarozzo. Nel giro dipochi anni il nome di Franco Ennadivenne notissimo ai cultori dellafantascienza. Scrisse decine di romanzi,tanto che alcuni dovette firmarli conpseudonimi diversi, generalmente distampo americano. Una ventina di anniappresso, mi arrivò una lettera dallaSvizzera. Il mittente era Franco Enna.Come aveva fatto a conoscere il mioindirizzo romano? Non l’ho mai saputo.

L’aprii: c’era una lettera di pocherighe: «Caro Andrea, ti rimetto una partedel mio debito. Un abbraccio affettuoso,Franco».

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Assieme alla lettera c’era un assegnodi ventimila lire.

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U zù Filippo

Alle elementari, appena finita la scuolame ne scappavo in campagna dai nonni.Lì avevo un mio coetaneo compagno digiochi, Sisino, che era figlio di u zùFilippo, un pastore il quale ogni giornoportava a pascolare il suo grande greggedi capre nei campi del nonno.

Piuttosto basso di statura, sempre tuttovestito di nero, compresa la coppola, uzù Filippo era claudicante e perciò siappoggiava a un nodoso bastone.

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Il nostro mezzadro, Minico, lo trattavacon molto rispetto e anche i contadiniche lavoravano nelle terre del nonno nonappena lo vedevano si levavano lacoppola e accennavano a un leggeroinchino.

Fu solo molti anni dopo che venni asapere che u zù Filippo era il temutocapomafia del nostro paese, che erastato imputato anni prima di dupliceomicidio, ma che era stato processato eassolto per mancanza di prove.

L’assoluzione per mancanza di prove, aquei tempi, per un mafioso, era comeottenere una medaglia al valore.

Lo stesso rispetto che tutti glidimostravano, u zù Filippo lo

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manifestava verso i componenti dellanostra famiglia, a cominciare da miononno Vincenzo. Mia madre durante ilgiorno se ne stava in paese, e solo lasera veniva a dormire in casa dei nonni.Per arrivarci, bisognava camminarecirca due chilometri lungo una trazzeranon illuminata, percorsa ogni tanto daqualche contadino a cavallo. Mia madresi faceva quei due chilometri quasi dicorsa, col batticuore, nel timore diqualche cattivo incontro. Una sera ciraccontò che proprio all’inizio dellatrazzera aveva incontrato u zù Filippo,che si era meravigliato nel vederla.

«Ma como, signora Carmela, a chistaora se ne va sola campagna campagna?

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Pozzu aviri l’anuri di accompagnarla?»Mia madre gli aveva risposto di sì e u

zù Filippo l’aveva lasciata davanti alcancello della casa. Mia madre concluseil suo racconto dicendo che mai nellavita si era sentita così tranquilla comeavendo accanto un assassino.

Perché era noto a tutti che acommettere quel duplice omicidio erastato u zù Filippo, anche se la giustizianon aveva potuto condannarlo.

Per anni e anni egli continuò a portareil gregge nelle nostre terre.

Una notte del 1944, io e zio Massimoeravamo rimasti a dormire in campagnaperché il giorno seguente sarebberovenute le donne per la raccolta delle

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patate. Senonché, verso l’alba, venimmosvegliati da un rumore continuato chenon capimmo. Ci alzammo e andammo aguardare dalla finestra. Per vederemeglio, mio zio prese un binocolo: midisse che c’erano sei uomini con dellemule che zappavano per rubare le nostrepatate. Ci mettemmo le scarpe e,seminudi come eravamo, uscimmo fuoridi casa; mio zio armato di un revolvervecchio di centinaia d’anni e io di unfucile da caccia a due canne. Quandocautamente arrivammo ai bordi delcampo, ci nascondemmo dietro ungrosso masso; e qui io vidi che oltre aisei che zappavano e raccoglievano lepatate, c’era una specie di sorvegliante

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che ci volgeva le spalle. Allora mio zio,sempre tenendosi a riparo dietro ilmasso, sparò un colpo in aria econtemporaneamente gridò: «Se non vene andate subito, vi ammazzo a tutti!».

La reazione dei ladri mi stupì. Quelliche zappavano smisero e tutti si volseroverso quella specie di sorvegliante chesembrò non aver neanche sentito il gridoe lo sparo. Semplicemente lo vedemmofare uno strano movimento con lebraccia, e dopo una frazione di secondouna bomba a mano esplose a pochicentimetri dal nostro masso.

«Andiamo a chiuderci in casa!» disseprudentemente mio zio.

Voltammo le spalle e tornati a casa

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assistemmo dalla finestra alla finedell’operazione furto. Quattro mule,stracolme di sacchi ripieni, si mosseroseguite dagli uomini e scomparverodalla nostra vista.

Un’ora dopo, mentre stavamo ancora lìa guardare il campo, sentimmo iltintinnio delle campanelle legate al collodelle capre di u zù Filippo che siavvicinavano. Restammo in attesa.Quando u zù Filippo ci vide, ci chiesecome mai eravamo lì in quel campo aquell’ora.

«Tutti i patati nn’arrubbaro» disse lozio Massimo.

U zù Filippo si piegò all’indietro,quasi avesse ricevuto un colpo in pieno

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petto. Era diventato pallidissimo.«A mia?!» disse e corse via,

abbandonando il gregge.Aveva preso quel furto come un

affronto personale. Tutti avrebberodovuto sapere che nei campi dovepascolava il suo gregge non eraammesso nessun furto, per rispetto a luie ai proprietari del campo.

Arrivarono le braccianti, spiegammoloro quello che era capitato e verso serazio Massimo e io ce ne tornammo inpaese. Scendendo per la trazzera,incontrammo quattro mule sovraccarichedi sacchi che andavano in senso inversoal nostro; dietro alle mule c’era uncontadino. Arrivati a casa apprendemmo

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che mezz’ora prima avevano bussatoalla porta. Mia nonna era andata adaprire e aveva visto un uomo pallido etremante che si era inginocchiato e amani giunte aveva supplicato: «Avemoriportato li patati, pì carità signora,facissi sapiri subito a u zù Filippo chenon ne ammanca una!».

Le patate erano state riportate nelcampo, formando quattro grossi mucchi.

In sostanza avevano fatto risparmiareal nonno la paga per la raccolta dellepatate. Zio Massimo subito dopo siprecipitò a informare u zù Filippo che ilmaltolto era stato restituito. Non volevache u zù Filippo si macchiasse di unterzo delitto, anche se era sicuro che

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pure questa volta se la sarebbe cavatacon un’assoluzione per mancanza diprove.

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Don Sasà

Era tradizione, almeno fino alla metà delsecolo scorso, che nel periodo traNatale e l’Epifania ogni sera dopo cenasi giocasse a carte. Si giocavadovunque: nei due circoli del paese sigiocava d’azzardo e con poste moltoalte, mentre le famiglie amiche siriunivano per praticare giochi piùtradizionali e meno rischiosi come latombola o il soporifero sette e mezzo.Faceva eccezione la famiglia Bellavia

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perché, mentre le signore invitateconversavano in salotto, don Sasà, ilcapofamiglia, teneva in un’altra stanza ilbanco del baccarà e lì i maritigiocavano forte. Quando la figlia di donSasà, Lea, divenne maggiorenne,apportò un’innovazione sostanziale.Cioè a dire, aprì un terzo salone dove isuoi coetanei potessero ballare fino anotte inoltrata.

Fu così che io venni invitato da Lea lasera del 26 dicembre 1943 ad andare aballare a casa sua. Ci andai, ma dopoun’ora o poco più che stavo a divertirmicon i miei amici mi venne la tentazionedi aprire la porta della mitica sala dovedon Sasà teneva banco ed entrarvi.

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Dentro c’erano una trentina di signori:erano tra i più facoltosi commercianti,imprenditori, professionisti del paese.Dopo un po’ che assistevo in silenzio algioco venni tentato irresistibilmente diparteciparvi. Avevo in tasca quasi tutti imiei risparmi, accumulati pazientementegiorno dopo giorno e rimpinguati daiparenti per le feste di Natale, chedovevano servirmi a comprare i libriche più mi interessava leggere.

Allora, nella Sicilia liberata dallosbarco alleato avvenuto ai primi diluglio dello stesso anno, non circolavala moneta italiana: essa era statasostituita da banconote stampatedall’amministrazione militare dei

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territori occupati, che erano chiamateamlire. Avevano però lo stesso valoredella lira. In tasca quella sera avevo perl’appunto mille amlire, una miserasomma rispetto alle poste che erano ingioco. Non seppi resistere: cavai fuoridalla tasca duecento amlire e feci la miapuntata. Vinsi, ma ripersi tutto allapuntata seguente. E così, dopoun’altalena durata un’oretta tra vincita eperdita, i miei risparmi presero il volo.Non mi restava altro che ritirarmi inbuon ordine e cercare di dimenticare ildenaro perduto. Non si era trattato dipoco: all’epoca lo stipendio di unimpiegato di buona levatura si aggiravaattorno alle mille e cinquecento amlire.

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Senonché, mentre stavo andandomene,don Sasà mi guardò e mi disse: «Se vuoigiocare sulla parola te lo concedo».

Allora mi sembrò una sfida. Avevo intasca una scatolina di fiammiferi e lapuntai sul tavolo dicendo a voce alta:«Vale cinquecento amlire».

Perdetti la puntata. Don Sasà mi guardònegli occhi, cavai fuori il fazzoletto, loposai sul tavolo e dissi: «Vale milleamlire».

Perdetti anche il fazzoletto.A farla breve uscii da quella casa

verso le tre del mattino: avevo persodiciottomila amlire, una cifra per meirraggiungibile, che non avrei saputo maicome pagare. Piovigginava, mi avviai

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verso casa a passo lento, meditandotristemente sulla mia stupidità e su comepoter risolvere il problema del debitocontratto con don Sasà, perché comenoto i debiti di gioco vanno pagati entrole successive ventiquattr’ore.

Le strade erano così scarsamenteilluminate da essere quasi buie. Duranteil percorso che mi avrebbe portato acasa, a un tratto notai nella viaassolutamente deserta un’ombraappoggiata contro la saracinesca chiusadi un negozio: probabilmente si riparavadalla pioggia sotto la tettoietta. Maquando arrivai alla sua altezza vidiun’altra ombra all’angolo, proprio dallaparte opposta della strada, che se ne

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stava appoggiata a un portone anch’essochiuso. In un attimo intuii cosa sarebbeaccaduto, ma ormai era troppo tardi permettermi a correre: sarei statofacilmente raggiunto. Fatti due passi,l’uomo che stava davanti al negozio feceun salto, si piantò di fronte a me eintimandomi di stare zitto mi piantò labocca di un revolver sotto il mento contanta violenza da costringermi adalzarmi sulla punta dei piedi.Contemporaneamente anche l’altro erabalzato davanti a me e mi avevaaccecato tenendomi accesa davanti agliocchi la luce di una potente lampadinatascabile. Ma tutto durò un attimo:l’uomo che mi puntava la pistola mi

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disse in dialetto: «Ah! Vossia è?Scusassi».

La luce della torcia si spense, i dueuomini si allontanarono, io, con legambe di legno, cercai di camminare ilpiù dignitosamente possibile verso casa,ma appena girai l’angolo, fuori dallaloro vista, mi misi a correre verso ilportone, lo aprii il più velocementepossibile, salii le scale, mi precipitaidentro l’appartamento, andai sparato inbagno e lì, per la paura, vomitai anchegli occhi. Trascorsi una notte infame.

L’indomani mattina alle nove, raccolti iresti dei miei risparmi, cheammontavano a centocinquantamiserabili amlire, andai al caffè

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Castiglione, dove c’era il postopubblico telefonico, e chiamai la miaamica Elena, che abitava ad Agrigentoed era una ragazza molto ricca. Leraccontai la mia situazione e lei nonebbe esitazioni: «Stamattina vado inbanca, ritiro quello che ti occorre e nelprimo pomeriggio te li mando con miofratello Giovanni».

Rinfrancato, ordinai un caffè e miappoggiai con i gomiti al banco, la testatra le mani. In quel preciso momentoqualcuno mi si affiancò.

«Buongiorno» mi disse.Io mi voltai a guardarlo: era uno

scaricatore del porto che conoscevobene, perché suo figlio era stato mio

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compagno alle elementari. L’uomocontinuava a fissarmi sorridendo, alloraper me fu naturale chiedergli: «Perchésorridi?».

Avvicinò la sua testa alla mia,sussurrò: «Stanotte vossia mi ficiperdere la nottata. Me lo voli pagarealmeno un caffè?».

Dunque quell’uomo era uno dei dueassalitori della notte precedente.

«Volentieri te lo pago» gli dissi.Ci bevemmo il caffè sorridendoci, poi

ci stringemmo la mano e ce ne andammo.Nel pomeriggio, alle quattro, arrivòGiovanni con la sua motocicletta. Elenaera stata di parola: dentro una grossabusta c’erano diciottomila amlire in

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contanti.Col denaro in tasca mi diressi verso lo

scagno di don Sasà, che era al centro delcorso. Don Sasà era il più grossoesportatore di mandorle e cereali delmio paese; per accedere nel suo ufficiobisognava scendere due gradini. Dallaporta mi accorsi che don Sasà era solo,seduto alla sua scrivania, stava facendodei conti.

«C’è permesso?»«Ah! Tu sei? Viene avanti Nené!»Restai in piedi davanti al tavolo.«Che vuoi?»«Vengo a pagare il mio debito» dissi

estraendo la busta dalla tasca eposandogliela davanti. Don Sasà non la

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toccò nemmeno.«Aprila e contali.»Feci come lui mi aveva ordinato. Alla

fine della conta si spostò leggermenteall’indietro con tutta la sedia, aprì ilcassetto centrale della scrivania e,allungando il braccio, vi fece caderedentro le banconote e la busta. Richiuseil cassetto, mi guardò fisso negli occhi,mi porse la mano.

«Arrivederci» dissi io.Voltai le spalle e mi diressi verso la

porta. Ma, appena ebbi finito di salire idue gradini, mi sentii richiamare.

«Nené!»Mi fermai, mi voltai.«Che c’è?»

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«Torna accà!»Ridiscesi i gradini, mi fece segno di

avvicinarmi alla sua scrivania. Aprì ilcassetto e mi disse indicandomeli:«Ripiglia i tuoi soldi».

Io esitai. «Perché?»E lui, sempre guardandomi fisso:

«Perché io non posso accettare i denaridi un picciotteddro come sei tu. Nondiscutere».

E infatti con don Sasà non si potevadiscutere. Era un cinquantino tracagnottodai grossi baffi neri, dal volto duro, discarsa parola; non era un mafioso, maera un uomo rispettato. Io ricordo diaverlo visto girare sempre armato. Ecosì non discussi, mi ripresi il denaro,

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lo rimisi nella busta, gli dissi: «Grazie»,e feci per andarmene.

Lui mi fermò ancora una volta, e mifece: «T’avverto per il futuro: ticapitasse ancora di voler giocare, caroNené, jocati solamente i soldi che hainella sacchetta. Pirchì abbisogna semprestendiri lu pedi fino a quando il lenzoloteni».

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Minicu

Minicu era il mezzadro di mio nonno.Viveva in una casetta rustica, posta alcentro della ventina di ettari di terra cheerano rimasti alla mia famiglia dellecentinaia e centinaia prima possedute,con la moglie Gnazia, la figlia Grazia eil figlio Giovanni. Giovanni partìchiamato alle armi come marinaio nel’35, per la guerra d’Africa, e tornò inpaese dieci anni dopo: si era fatto anchela guerra di Spagna e quella del ’40.

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Minicu era un uomo alto, robusto, diparola pacata e riflessiva, dai modiestremamente cortesi e a un tempodignitosi. In campagna, durante lamietitura, la vendemmia, la raccoltadelle fave o quella delle mandorle, eralui a scegliere i braccianti. Era usanzache il lavoro venisse interrotto per circaun’ora dalle dodici e mezza all’una emezza: era l’ora del pasto. Uno deibraccianti arrivava a casa dei nonni conl’asinello sul quale caricava lacosiddetta «calatina», vale a dire ilpiatto che avrebbe costituito il pasto chenonna faceva preparare per coloro chestavano lavorando in quel momento. Ingenere nonna forniva anche le scodelle e

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le posate: il piatto consisteva nel maccofatto con le fave secche, più spesso nellacaponata, oppure in alcune aringhemarinate.

Avevo circa dieci anni quando decisidi seguire il bracciante che portava ilpasto ai suoi compagni. Era il tempodella raccolta delle mandorle. TrovaiMinicu in compagnia di una decina didonne di varia età che erano leraccoglitrici e di due maschi, icosiddetti bacchiatori, cioè coloro chemuniti di una lunghissima cannafacevano cadere a terra dai rami lemandorle. Minicu fece sedere tuttiall’ombra di un grande albero e distribuìle scodelle con il pasto; i lavoranti

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tirarono fuori dalle loro sacche il pane eil bummolo con l’acqua e si disposero amangiare. Fu allora, in quel precisomomento, che una delle donne disse:«Zù Minicu, nni cuntassi ’na storia!».

A lei si unì un vero e proprio coro fattodalle altre donne: «Nni cuntassi ’nastoria! Nni cuntassi ’na storia!».

Minicu non si fece pregare: siappoggiò col corpo al fusto dell’alberoe mentre mangiava cominciò araccontare. Rimasi affascinato da quellastoria, tanto che il giorno dopo tornai asentirlo. Per tutto il tempo che durò laraccolta, Minicu ogni giorno raccontòuna vicenda diversa: erano cunti che luispacciava come fatti avvenuti

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nell’antichità, ma io mi resi subito contoche erano inventati da lui, magari su duepiedi. Aveva una fantasia straordinaria,sicché quando finì la raccolta nei campiio presi l’abitudine di andare a trovareMinicu a casa sua, verso sera, pocoprima di cena, e lo supplicavo diraccontare una storia solo per me. Eragenerosissimo, e infatti non mi delusemai. Per ricambiare in qualche modo gliregalavo dei pacchetti di sigarette Militche venivano distribuite gratis ai soldatidell’esercito e ai marinai: eranosigarette micidiali, molto forti. Minicunon le fumava: apriva la cartina, neestraeva il tabacco e con esso ciriempiva la pipa.

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Tra le storie che raccontò ne vorreiriportare almeno due. La prima è chenella collina vicinissima di Monserratoera vissuto un eremita il cui corpo eraesattamente la metà di un corpo umano,vale a dire che possedeva un braccio,una gamba, un occhio, un orecchio.

«Ora – spiegava Minicu – è risaputoche il corpo umano è composto da duemetà: in una metà ci sta tutto il malepossibile, nell’altra tutto ciò che dibuono l’uomo può fare. Senonché dentroa ogni corpo non si sa mai dove siposizioni il bene o il male, insomma nonsi riesce a sapere se il male o il benestiano a destra o a sinistra o al contrario.Ma nell’eremita era capitato che l’unica

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metà del corpo che possedeva fosseproprio quella dove era concentrato tuttoil male possibile. Egli perciò si eraisolato, perché aveva capito di costituireun pericolo anche per i suoi familiari. Sirifiutava di vedere qualsiasi persona,usciva di notte per raccogliere le erbecon le quali si nutriva. Ma un giornodavanti a lui si presentò una donnabellissima, e stavolta non ebbe la forzadi mandarla via. La donna volevaavvelenare suo marito. L’eremita cedettee le diede il veleno arrendendosi al suolato peggiore. Allora si disperò tantoche davanti alla grotta nella qualeabitava fece erigere un muro di pietra, epreferì morire di fame là dentro

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piuttosto che fare nuovamente del maleagli altri.»

L’altra storia che mi raccontò fu quelladi un contadino che aveva due teste, unache gli suggeriva una cosa e l’altra chegli consigliava l’opposto, e il contadinoun giorno agiva in un modo e il giornoappresso in un altro completamentediverso. Questa sua condizione loportava a essere disprezzato da tutti,perché non riusciva mai a mantenere laparola data. E allora lui, un giorno,decise di tagliarsi una delle due teste, eda quel momento sbagliò ogni cosa nellasua vita, perché, concludeva Minicu, èsempre meglio avere dentro una solatesta il pro e il contro di ogni cosa che si

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intende fare.Erano storie profondamente educative

e molto fantasiose. Devo confessare chealmeno in tre miei romanzi, Il re diGirgenti, Maruzza Musumeci e Ilsonaglio ho ripreso, modificandole amodo mio, alcune delle storie di Minicu.E qui, ancora una volta, lo ringrazio.

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Orlando furioso e Pinocchio

Sono stato, come ho scritto molte volte,un lettore precocissimo. A sei anni, aparte i settimanali per ragazzi, come«L’avventuroso», il «Corriere deiPiccoli» e «L’Audace», cominciai aleggere i libri della biblioteca paterna equindi le mie prime letture furono diautori come Conrad, Melville, Simenon,Chesterton. Di questi romanzi non erache ne capissi molto, ma qualcosarestava dentro di me. Passavo le mie

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giornate solitarie da lettore compulsivo,senza prendermi un intervallo pergiocare con i miei compagni di scuola,che pure venivano a bussare alla miaporta per sollecitarmi a unirmi a loro.

Un giorno decisi di esplorare labiblioteca di mio nonno Vincenzo, cheabitava con nonna Elvira in un grandeappartamento sullo stesso nostropianerottolo. I libri di nonno erano tutticonservati dentro un grande scaffale, chesi trovava nell’ampio salone di ingresso.Quando cominciai a scorrerne i titoli, nerimasi deluso; si trattava per la maggiorparte dei cosiddetti manuali Hoeplidedicati all’agricoltura, agli allevamentidi animali da fattoria, di cavalli e

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persino delle api.Tra i volumi non tecnici c’erano I

promessi sposi nell’edizione del 1840 eil romanzo popolare Ettore Fieramosca.Nel ripiano più basso, i libri eranosistemati in posizione orizzontale perchédi formato tale che non entravano nellospazio tra un ripiano e l’altro dellalibreria. Ricordo perfettamente che eroarrivato al penultimo di questi grandilibri, che era dedicato alle regionid’Italia, quando sollevatolo vidi sotto diesso un volume dalla copertina rossa,molto spessa, con sopra i caratteridell’autore e del titolo scritti in oro:Ludovico Ariosto, Orlando furioso. Eraun tomo pesantissimo e tirarlo fuori fu

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un’impresa. Quando lo ebbi finalmentefra le mani, rimasi ammirato: era il libropiù elegante che avessi mai visto.

Ogni pagina era di carta lucida espessa e ricchissimamente illustrato. Idisegni erano in ogni pagina e neoccupavano o la metà o un quarto; in piùc’erano decine di tavole a pagina intera.Nella controcopertina era scritto che leillustrazioni erano dovute a GustaveDoré. Me lo trascinai nella miacameretta, riuscii a metterlo sul miolettino e cominciai a sfogliarlostandomene disteso a pancia sotto. Venniaffascinato fin dal primo disegno, cosìdecisi di guardarmi di seguito tutte leillustrazioni prima di cominciare a

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leggere. Fu così che per la prima voltain vita mia, a otto anni, vidi il disegno diuna donna nuda. Ne rimasi moltoimpressionato e restai a lungo aguardarla. Sapevo già come nascevano ibambini; ne ero stato minutamenteinformato dai miei compagni di scuola,figli di carrettieri, di operai portuali, dimulattieri, che erano degli autenticiesperti in materia. Finito che ebbi diguardare le illustrazioni, cominciai aleggere: «Le donne, i cavallier, l’arme,gli amori…».

Ricordo di avere letto e riletto per unadecina di volte la prima ottava,completamente preso dal suono di quelleparole, prima ancora di capirne l’esatto

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significato. Il ritmo, la musicalità, lerime risuonavano dentro di me come unacanzone, spingendomi dalla terza oquarta lettura a leggere ad alta voce,sicché mia madre a un tratto aprì laporta ed entrò nella stanza chiedendomicon chi stessi parlando.

Ecco, quello è stato l’inizio diun’infatuazione che è durata per anni eanni. Nonna Elvira, raccontandomi leavventure di Alice nel paese dellemeraviglie, aveva allenato la miafantasia, che con la lettura dell’Orlandoaddirittura si scatenò. Mi divertivo aimmaginare delle varianti. Per esempio,se Orlando è impazzito solo per avervisto i nomi di Angelica e di Medoro

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incisi sugli alberi, cosa avrebbe fatto seli avesse scoperti mentre stavanocelebrando il loro matrimonio?Sicuramente, avrebbe sfidato Medoro asingolar tenzone e, quasi certamente, loavrebbe ucciso.

Ma cosa ne avrebbe ottenuto? Di certol’odio eterno di Angelica.

Mi piacevano anche le numerose storiecollaterali. Quella di Fiammetta nonsolo suscitò il mio riso, ma decisi diimpararla a memoria in modo da poterlarecitare ai miei compagni delleelementari.

A dodici anni, tra una lettura e l’altra,sempre tornavo a rileggermi qualcosadell’Orlando; però fu in quel periodo

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che decisi di colmare una lacuna. Vale adire che, avendo letto romanzi e storieda grandi, non avevo aperto una paginadei cosiddetti libri dedicati ai ragazzi.Così, mi feci comprare i libri di EmilioSalgari. Le avventure dei tigrotti diMompracem, del Corsaro nero, diSandokan, di Kammamuri, non miinteressavano per niente; un po’ di piùattenzione mi suscitarono i romanzi diVerne, che però non aggiunsero nientealla mia fantasia.

Poi, un giorno, mi capitò tra le maniPinocchio. Le illustrazioni,completamente diverse da quelle diDoré (mi pare che fossero di AntonioRubino), mi piacquero molto. Dopo che

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ebbi finito di guardarle tutte, iniziai ilromanzo. Ne ebbi la stessa fascinazionesubita con l’Orlando e fu forse perquesto che le avventure del burattino sitrasformarono per me in un raccontoepico; mi colpì moltissimo lacoincidenza del nome Medoro.Nell’Orlando, Angelica si innamora esposa il povero fante Medoro; nelPinocchio, Medoro è il nome del caneda guardia del quale il burattino saràcostretto a prendere il posto. Anche inquest’occasione mi immaginai dellevarianti. Una la ricordo ancora eriguardava una speciale visiera cheOrlando si era dovuto fabbricareapposta, perché avendo lo stesso naso

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lungo di Pinocchio la visiera non potevacoprirgli interamente il mento.

Certo, Pinocchio suscitò in me ungrandissimo entusiasmo, però nonsuscitò i miei primi turbamenti sessuali,come era avvenuto invece con leillustrazioni del Doré e le rimedell’Ariosto.

E ancora oggi non riesco a nonconsiderare il libro del Collodi, che hasempre il suo posto nelle librerie deiragazzi, come una narrazione epica. Eallora forse, a proposito di libri perragazzi, se mi si chiede: «Secondo teAlice nel paese delle meravigliecos’è?».

Ah, su quello non ho proprio nessun

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dubbio: il romanzo di Carroll non èneppure un romanzo, è un trattato dimetafisica.

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Stefano D’Arrigo

Conobbi Stefano D’Arrigo attraversoOrazio Costa, il quale avendo lettoHorcynus Orca se ne era entusiasmato atal punto da telefonare a Stefano, chenon conosceva, presentarsi e chiedergliun appuntamento. D’Arrigo glielo avevadato, i due si erano conosciuti e avevanosimpatizzato moltissimo, soprattuttodopo che Orazio gli aveva mirabilmenteletto alcune pagine del romanzo, che ioconsidero una delle vette più alte della

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letteratura italiana del Novecento.L’avevo letto anch’io e mi era subitoparso quel capolavoro di invenzionelinguistica che è.

Il nostro primo incontro avvenne incasa di Orazio. Stefano era di bassastatura, magro, il volto molto segnato, unmodo di muoversi e di parlare nervoso,come se qualcosa continuamente lodisturbasse. Non so per quale ragionedimostrò subito nei miei riguardi unasorta di singolare affettuosità. Avendosaputo che io avevo pubblicato unromanzo ne volle subito una copia. Lolesse ed ebbe per me parole di elogionon convenzionali. A farla brevediventammo molto amici, ci

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frequentavamo almeno due volte lasettimana. Un giorno d’estate, lo invitaia trascorrere le vacanze nella mia casadi Bagnolo alle pendici dell’Amiata. Luiaccettò con entusiasmo e venne con lamoglie Jutta. Avevo invitato anche il mioamico pittore e incisore Leo Guida equando lo comunicai a Stefano fece unsorriso compiaciuto.

«Mi sta benissimo – disse –, Leo è unapersona squisita.»

Capitò che nella casa di campagna diAngelo Canevari, scultore e disegnatore,fraterno amico mio, arrivò come ospiteil pittore Ugo Attardi. Le nostre casedistavano duecento metri.Nell’apprendere che nelle vicinanze

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c’era Attardi, Stefano montò su tutte lefurie e dichiarò che per nessuna ragioneal mondo avrebbe messo il naso fuoridall’uscio. Venni a sapere così che i duesi detestavano. Quindi, per duesettimane, Angelo e io, con lacollaborazione dei rispettivi familiari,studiammo orari e percorsi in modo chei due non potessero incontrarsi. Stefanoaveva un carattere irascibile, spigoloso,ed era difficile prevedere qualisarebbero state le sue reazioni di frontea persone che poteva incontrare senzaavere ricevuto, soprattutto da parte dellamoglie Jutta, un’adeguata preparazione.Quando gli diedero all’Università diMessina la laurea honoris causa, egli

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volle che Orazio e iol’accompagnassimo. Approfittaidell’occasione per portare giù con memia madre, che aveva voglia di rivederela Sicilia. Mamma era già avanti neglianni e ogni tanto si «assentava» daquesto mondo, si perdeva trasognatadietro i suoi ricordi e i suoi pensieri.

Eravamo a Messina per la cerimonia, eio avevo dato a mamma appuntamentonella hall dell’albergo alle nove delmattino. Non vedendola quando scesi,chiesi al portiere di telefonare nella suacamera, ma quello mi rispose che erauscita già da almeno un’ora. Mispaventai all’idea di lei in giro di primamattina in una città che non conosceva.

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«Ma è andata via da sola?»«No. È stato il signor D’Arrigo a

invitarla a uscire con lui.»Mi precipitai con Orazio

all’università. Vidi subito mamma,serena e sorridente: mi disse che Stefanoaveva voluto farsi fare dai giornalistipresenti molte fotografie abbracciatocon lei. Il giorno seguente ci sarebberostate altre manifestazioni in onore diD’Arrigo, ma la mia sorpresa fugrandissima quando, la mattina delgiorno appresso, aprendo il giornale,vidi una grande fotografia di Stefano chestringeva affettuosamente mia madre.Sotto la didascalia recitava così: «Loscrittore Stefano D’Arrigo riabbraccia

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sua madre che non vedeva da diversianni». Era evidentemente un equivoco, equando lo feci notare a Stefano questi mirispose: «Non è stato un equivoco, sonostato io a dire ai giornalisti che era miamadre».

Sbalordii.«E perché mi hai rubato mamma?»«Per fare arrabbiare la mia, con la

quale sono in lite da anni.»Fu allora che cominciai a capire che

Stefano, autore geniale, era anche unuomo estroso, capace di gesti pocousuali. Ne ebbi la riprova qualche tempodopo.

Era appena uscito il mio secondoromanzo, Un filo di fumo, edito da

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Garzanti, e io gliene regalai una copiacon un’affettuosissima e ammirativadedica. C’è da fare una premessa:quando Elio Vittorini aveva pubblicatoanni prima sul «Menabò»un’anticipazione del romanzo di Stefano,cento pagine intitolate I giorni dellafera, gli aveva domandato di apporrealla fine un piccolo glossario chepotesse rendere quelle pagine piùcomprensibili al lettore non siciliano. Atale richiesta Stefano aveva reagito conestrema vivacità e si era rifiutato contutte le sue forze di scrivere quelglossario. Vittorini aveva insistito, malui non si era spostato di un millimetro,anche a costo della non pubblicazione.

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Così Vittorini era stato costretto apubblicare le cento pagine senzaglossario. Chiusa la premessa. Stefanoprese il libro che gli porgevo, cominciòa sfogliarlo, quando, arrivato verso lafine, chiuse il libro di scatto, mi guardòcon occhi fiammeggianti e puntandomiun dito contro esclamò: «Ma alla finec’è un glossario!».

«Sì – risposi io –, Livio Garzanti hainsistito per averlo e io gliel’ho fatto.»

Senza dire una parola si alzò pallido,buttò il libro sul tavolo e dichiarò: «Lanostra amicizia finisce qui». E uscì dicasa senza salutarmi.

Ci vollero tre mesi buoni e lamediazione diplomatica della moglie

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Jutta perché riprendessimo afrequentarci.

Dopo un po’ gli domandai timidamentese potevo ridargli una copia del libro.Disse di sì, ma a una condizione: cheprima tagliassi con una lametta le pagineche contenevano il glossario.

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Carlo Emilio Gadda

Con Gadda ho avuto modo di scambiarequalche parola solo due volte durantedue incontri casuali: la prima voltamentre stavo a chiacchierare conGuglielmo Petroni davanti al barCanova in piazza del Popolo a Roma.Gadda, che si stava dirigendo verso viadel Babuino, si fermò a salutare Petroni:fu lui a presentarmi il grande scrittore.Quel mattino Gadda apparivaimbronciato, e lo era con tanta evidenza

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che Petroni gli domandò se si sentissebene o se gli fosse capitato qualcosa disgradevole. Lui rispose che avevaqualche acciacco, ma che non era questoa infastidirlo. Era il problema che avevacon la sua padrona di casa a turbarloprofondamente.

«Perché? Che fa?» domandò Petroni.«Fa la cacca dovunque.»«Come dovunque? Che significa?» non

potei trattenermi dal chiedergli.«Dovunque le dico, dovunque. Persino

sui muri della mia stanza da letto.»A questo punto mi voltai smarrito a

guardare Petroni, il quale invecemostrava una faccia addiritturasorridente.

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«Ma come fa a farla sui muri?»domandai.

E Gadda, serissimo, assumendo un’ariada cospiratore, mi sussurrò: «Credo chesi arrampichi scacazzando».

Quindi ci porse la mano e andò via.«Ma è pazzo» domandai a Petroni.«No – mi disse Petroni –, spesso si

inventa delle storie alle quali finisce percredere anche lui.»

Qualche anno dopo lo incontrai dinuovo allo stesso posto e quasi allastessa ora. Ero in compagnia di GiulioCattaneo, il quale mi aveva appenadomandato come e dove avessitrascorso le vacanze pasquali. Io glirisposi che, dovendo Orazio Costa

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mettere in scena La figlia di Iorio diGabriele D’Annunzio, con protagonistaAnna Magnani, mi aveva chiesto difargli da aiuto e io avevo accettato.Orazio voleva fare una sorta disopralluogo in Abruzzo, e così all’albadel Venerdì santo partimmo da Roma inmacchina alla volta di Pescara. Alloranon c’era l’autostrada, non so che stradasi dovesse fare. Comunque, partimmo daRoma con un tempo ottimo: era unabellissima giornata, un po’ caldaaddirittura. Ma dopo pochi chilometri, edopo aver attraversato una galleria,quando sbucammo fuori ci trovammodavanti a un paesaggio nordico einvernale: neve alta dappertutto, un

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biancore accecante. Orazio aveva presola patente di guida solo un mese avanti eio non mi fidai.

«Torniamo indietro?» suggerii.«Ma via, per un po’ di neve!»Proseguimmo.Orazio, con l’incoscienza propria dei

principianti, sorpassò impavidamenteauto bloccate ai margini della strada,corriere e pullman stracolmi dipasseggeri che si congelavano per ilfreddo. Proseguiva imperterrito,mostrando una sicurezza di guida cheassolutamente non possedeva. Era,ripeto, l’inconsapevolezza assoluta aguidarlo. Ci muovevamo a un massimodi dieci o quindici chilometri all’ora e a

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un certo punto anche noi fummo costrettia fermarci. Spalammo, con una pala chechissà perché Orazio teneva nelportabagagli, la neve che si accumulavadavanti alla macchina e ci impediva diproseguire.

Eravamo in viaggio da circa sei ore,quando Orazio decise di cambiarestrada e invece di andare a Pescara cidirigemmo verso Chieti. Ci arrivammoche erano le dieci di sera. Eravamosfiniti, e cercammo alloggio nel primoalbergo della città. Fummo respinti:l’albergo era esaurito, ma furono cosìgentili da telefonare ad altri alberghi persapere se c’erano camere libere. Allaterza telefonata fu loro risposto che

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avevano ancora una camera a due lettidisponibile, purtroppo però priva diriscaldamento. La prenotammo, e unamezz’oretta dopo entravamo in unastanzetta dove i due letti erano contenutia stento: c’era un solo comodino incomune. Il freddo ci era entrato nelleossa, avevamo voglia di metterci subitosotto le coperte e riscaldarci. Andammoin bagno e finalmente riuscimmo adistenderci. Le lenzuola parevano fattedi ghiaccio, spegnemmo la luce peraddormentarci immediatamente, mapassata un’ora gli occhi non riuscivano achiudersi per il troppo freddo. AlloraOrazio, riaccesa la luce, tirò fuori dallavaligia quattro mutande di lana vecchio

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stile, quelle che coprivano fin sotto leginocchia: due paia le indossammo, poiOrazio ne prese un paio e me le infilò intesta dalla parte superiore, in modo chelo spacco che avevano davanti venisse acorrispondere alla mia faccia. Le partiche avrebbero dovuto coprire le gambeinvece me le annodò sopra la testa. Luifece per sé lo stesso con l’altro paio. Ciguardammo e scoppiammo a ridere:eravamo davvero ridicoli. Ci mettemmoa letto e, finalmente, con tutta quella lanaaddosso riuscimmo a prendere sonno.

Questo era stato il mio racconto aCattaneo e avevo appena finito quandoarrivò Gadda. Cattaneo gli era amico.Mi ripresentò, perché lo scrittore

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naturalmente si era scordato del nostroprimo incontro, e vedendo che Giulioancora rideva per il mio racconto, vollesapere il perché di quell’ilarità. EGiulio gli riferì la mia disavventura.Alla fine Gadda mi guardò in un modostrano: mi chiese da quant’è checonoscevo il regista Costa. Io gli risposiche Orazio era stato il mio maestro diregia all’Accademia d’arte drammatica,che lo consideravo un autentico maestro,e che adesso facevo ogni tanto il suoaiuto.

«Capisco tutto» disse.Rimasi interdetto.«Si spieghi meglio per favore.»E lui, con tutta tranquillità, ma un po’

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bofonchiando: «È chiaro che lei èinnamorato del suo maestro. Eccoperché si è addormentato felice: perchéera avvolto nelle sue mutande».

Dopodiché mi porse la mano e se neandò. Rimasi senza parole. Giulio erapiegato in due dalle risate.

Nel 1958 mi chiamarono al Terzoprogramma della radio Rai, insostituzione della funzionaria andata inmaternità, quale responsabile delcartellone della prosa. Mi assegnaronouna stanza e una scrivania, munitanaturalmente di telefono. GiulioCattaneo, che lavorava al Terzoprogramma, mi venne a trovare subito.

«Ma questa è la scrivania di Gadda!»

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esclamò entrando.Infatti Gadda per anni aveva lavorato

al Terzo in qualità di responsabile dellecosiddette «conversazioni culturali».Quel giorno stesso Giulio mi raccontòuna quantità di cose sullo scrittore, unapiù divertente dell’altra. Per esempio,quando riceveva una telefonata daldirettore, Gadda, sempre tenendo ilmicrofono all’orecchio, si alzava inpiedi assumendo un atteggiamentoossequioso, e si risedeva solo quando laconversazione era terminata. Ma appenaagganciata la cornetta esplodeva in unaserie di fantasiosi epiteti contro ildirettore, mormorati tutti a voce bassa eguardandosi sospettosamente attorno: il

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più gentile era «anima di merda».Gadda aveva appena pubblicato Eros e

Priapo, un violento, sarcastico,paradossale libello contro il fascismo,quando Giulio gli giocò un tiro mancino:entrò trafelato nella stanza delloscrittore e lo avvertì che una colonna difacinorosi fascisti stava dirigendosiverso la Rai per chiedergli conto eragione della pubblicazione di quellibro. Terrorizzato, Gadda era balzato inpiedi e poi, massiccio com’era, si eraarrotolato sotto la scrivania,supplicando Cattaneo di dire ai fascistiche lui quel giorno non era andato inufficio.

La scrivania di Gadda aveva cinque

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cassetti: uno grande centrale e quattrolaterali, due per parte. Il cassettocentrale, quando tentai di aprirlo, risultòchiuso a chiave, ma la chiave non c’era.Feci vari tentativi con altre chiavi fino aquando non ne trovai una che apriva ilcassetto. Era pieno dei dattiloscritti chei vari autori delle conversazioniculturali gli avevano inviato. Trattavanovari argomenti: andavano da Foscolo aLeopardi, da Belli a Moravia, e via diquesto passo. Ne presi uno a caso, era diun noto poeta romano ed era dedicato aisonetti del Belli, ma la cosa divertenteerano le sottolineature e i commenti amargine che Gadda aveva fatto durantela lettura del dattiloscritto.

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I più gentili erano «Macaco!» oppure«Babbeo!» oppure ancora «Scemototale».

In coda al dattiloscritto però avevaannotato: «Dirgli che si tratta di unlavoro ottimo».

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Un pomeriggio con Vittorini

Nel 1945 Elio Vittorini fondò a Milanola rivista «Il Politecnico» che sioccupava di letteratura, arte e problemisociologici. La rivista settimanale,formato lenzuolo, ebbe quasiimmediatamente uno strepitososuccesso: era edita da Giulio Einaudi enelle sue pagine i nomi dei collaboratorierano di altissimo prestigio. In quellostesso anno mi affrettai a inviare aVittorini alcune mie poesie scrivendogli

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che il mio curriculum letterarioconsisteva in due poesie pubblicatesulla prestigiosa rivista politico-letteraria «Mercurio», diretta da AlbaDe Céspedes. Vittorini mi rispose dopoun mese con una breve lettera nellaquale diceva che aveva letto le miepoesie, che vi aveva trovato molti spuntiinteressanti, ma che non le ritenevaancora mature per essere pubblicate;concludeva però invitandomi amandargliene altre trascorso un anno.

Fui puntuale a quella specie diappuntamento: passati dodici mesi,durante i quali «Il Politecnico» avevacambiato formato, gli mandai, se nonricordo male, sette o otto poesie.

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Stavolta la risposta fu positiva: Vittorinimi diceva che ne aveva scelte tre e chele avrebbe pubblicate in un numero dellarivista che intendeva dedicare allagiovane poesia italiana.

Nel ’47 andai a Milano ospite di unmio zio, e un giorno decisi di recarmialla redazione del «Politecnico» perconoscere Vittorini di persona;naturalmente prima gli telefonai, ed eglimi rispose che mi aspettava in redazioneper quel giorno stesso alle tre delpomeriggio. Nella prima sala dellaredazione, mi ricordo, c’era un signoreche stava consultando un libro, seppi poiche era Franco Fortini; mi indicòl’ufficio del direttore, bussai, entrai.

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Vittorini mi accolse con un largosorriso, mi fece sedere davanti alla suascrivania e cominciò a farmi una sorta diterzo grado, domandandomi da dovevenivo, che studi stessi facendo, qualifossero le mie letture preferite. A untratto mi guardò, come soprappensiero:«Sei libero questo pomeriggio?».

«Sì.»«Te la faresti una passeggiata con me?»«Certamente!»Uscimmo, e appena fuori mi prese

sottobraccio e mi fece una domanda chemi lasciò sorpreso.

«Quali paesi e città della Siciliaconosci?»

«Agrigento, Palermo, Catania,

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Messina, Caltanissetta, Enna…»Mi interruppe: «E i paesi?».«Aragona, Comitini, Favara,

Sciacca…»Mi interruppe ancora.«Pietraperzia la conosci?»«No.»«Parlami di Enna.»Io, come ho avuto modo di raccontare,

a Enna ero vissuto due anni, laconoscevo bene, fui abbastanzaesauriente.

«Il lago di Pergusa è nelle vicinanzevero?»

«Sì.»«Dimmi come è fatto.»A farla breve parlai della Sicilia per

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un’ora e mezzo, poi ci sedemmo a unbar, ci ristorammo con un caffè,riprendemmo la passeggiata. Questavolta Vittorini cominciò a interrogarmisulle diverse «parlate» del dialettosiciliano; gli dissi che i palermitani, peresempio, sostituivano la r con la i,invece i catanesi al posto della rraddoppiavano la consonante che laprecedeva. Per esempio, invece di direscarmazzo, che significa confusione,loro pronunciavano scammazzo. Poivolle sapere in quale zona si trovasse ilmaggior raggruppamento dei cosiddetti«normanni», vale a dire quei sicilianiche hanno occhi azzurri e capelli biondi.A un certo punto fui io a rivolgergli una

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domanda: «Ma perché tu, Vittorini, nonsei nato a Siracusa? Perché mi fai tuttequeste domande?».

Non rispose direttamente, mi sorrise:«Con te sto facendo un ripasso».

Il ripasso continuò per altre due ore.Alle otto di sera ci ritrovammo davantialla porta della redazione. Al momentodi salutarci, sfilò dalla tasca il giornale«l’Unità» e porgendomelo mi chiese:«Oggi l’hai letto?».

«No.»«Allora prendilo, e leggiti soprattutto

l’articolo di Alicata.»Tornai a casa, cenai e subito dopo

cominciai a leggere l’articolo di MarioAlicata, che era il collaboratore più

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stretto di Palmiro Togliatti per ciò cheriguardava la linea culturale del Partitocomunista italiano. Era un inaspettato,duro attacco al «Politecnico» e al suodirettore Vittorini. In sostanza Alicatasconfessava la linea guida della rivistatacciandola di cosmopolitismo, cioè diuna deviazione dalla linea guida delpartito, accusa allora assai grave.Quell’articolo, anche se era a firma diAlicata, certamente corrispondeva alpensiero di Togliatti.

La conclusione era inequivocabile,seppure non esplicita: o Vittorinicambiava radicalmente l’indirizzo dellasua rivista o «Il Politecnico» sarebbestato considerato eretico rispetto alle

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direttive del partito. Era evidente chequell’articolo, un fulmine a ciel sereno,intonava il De profundis per la rivista.Vittorini l’aveva capito, e perciò forse,in quella lunga passeggiata pomeridiana,era fuggito via dalla realtà per rifugiarsi,attraverso di me, in un territorio felice,quello della sua Sicilia. Infatti, neigiorni seguenti, Vittorini rispose adAlicata difendendo le proprie idee.Nella polemica intervenne alla fineTogliatti in prima persona.

Come tutti avevamo previsto, piuttostoche cambiare linea, Vittorini preferìchiudere «Il Politecnico».

E naturalmente le mie tre poesie nonfurono mai pubblicate.

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Livio Garzanti

Quando alla fine del 1979 terminai discrivere il mio secondo romanzo, Unfilo di fumo, lo feci leggere a RuggeroJacobbi, il quale se ne entusiasmò. Luiaveva già recensito il mio primo libro,Il corso delle cose, e ne aveva scrittoassai bene.

«Questo libro – mi disse – non devefare la fine del primo.»

Infatti Il corso delle cose, pubblicatodall’editore Lalli, aveva avuto una

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scarsissima diffusione. Ruggero per mefece un grande gesto d’amicizia: prese ildattiloscritto, andò a Milano e lo diede aGina Lagorio, che era una notevolescrittrice e all’epoca compagnadell’editore Livio Garzanti (in seguito sisarebbero sposati).

Dopo una settimana ricevetti unatelefonata entusiastica della Lagorio,nella quale mi annunziava che avevapassato il dattiloscritto al suocompagno. Trascorsero pochi giorniancora e ricevetti un’altra telefonata.

«Sono Livio Garzanti.»Non ebbi il tempo di aprire bocca

perché lui continuò: «Ho letto il suoromanzo, mi è piaciuto veramente tanto.

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Lo pubblicherò. Mi farò presto vivo conlei».

Attesi con ansia questa chiamata, chearrivò una diecina di giorni appresso.

«Sono Garzanti. Può venire domattinaalle dieci nel mio albergo?»

«Certo! Qual è il suo albergo?»«Il nome in questo momento non me lo

ricordo, è quello proprio accanto aMontecitorio.»

A Roma, benché fosse aprile, c’eraun’aria tiepida che annunciava un’estatecalda. Mi vestii come tutti i giorni e poiandai in cucina a bermi il secondo caffè,ma ero molto ansioso e nervoso. Feci ungesto maldestro e mi rovesciai addossola tazzina, macchiandomi il vestito.

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Avevo due vestiti di ricambio, ma unoera in lavanderia e l’altro era uncompleto fumo di Londra da occasionisolenni: non mi restava che indossarequest’ultimo. Alla receptiondell’albergo, oltre al portiere, c’era unuomo che chiacchierava con lui vestitocon un paio di jeans malridotti e unacamicia che non si poteva dire dibucato. Dissi al portiere di annunziare aldottor Garzanti che Camilleri eraarrivato.

A questo punto il portiere guardòl’uomo che fino a un momento primachiacchierava con lui, il quale si voltòverso di me, mi osservò dall’alto inbasso e poi disse: «Ecco il pirla

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dell’autore esordiente che si presenta alsuo editore in abito da cerimonia».

Reagii prontamente: «Ed ecco il pirladell’editore miliardario che per riceverel’autore esordiente si maschera dabarbone».

Questo scambio di battute non eracertamente un buon inizio. Invece lo fu.Ci facemmo subito un’immediatasimpatia reciproca. Garzanti era notorioper essere un caratteraccio, estroso,imprevedibile, dalle sfuriateleggendarie: addirittura su di lui unoscrittore aveva imperniato un romanzointitolato Il padrone.

Durante quel primo incontro Livio miannunciò che avrebbe stampato subito il

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libro in modo che fosse già incircolazione alla fine di giugno, poi miinvitò a pranzo. Parlò quasi sempre lui,raccontandomi quello stesso giorno diun suo viaggio in America con il padre edi come durante quel soggiornoamericano fosse riuscito del tutto aliberarsi del dominio paterno. Con me sidimostrò già da subito gentile e quasiaffettuoso.

Quando il romanzo andò nelle libreriemi fece una telefonata con la quale mipregava di non partecipare a nessunconcorso letterario senza primaavergliene parlato. Manco a farloapposta, qualche giorno appresso vidicon mia sorpresa il romanzo incluso

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nella lista dei candidati al premioViareggio. Pensai fosse stataun’iniziativa della casa editrice, invecericevetti una telefonata da Garzanti fuoridalla grazia di Dio.

«Perché non ha tenuto fede ai patti?»«Senta Garzanti, sono rimasto sorpreso

quanto lei a vedere il mio nome…»Mi interruppe, sempre più furibondo:

«Lei ha mancato di parola!».Mi irritai davvero.«Per sua norma io ho sempre

mantenuto la parola data. Buongiorno.»E riattaccai.

Non passarono due giorni che mirichiamò: «Devo chiederle scusa, misono informato. È stata un’iniziativa

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della segretaria del premio».È stato scritto che quel libro non ebbe

successo. Non so come sia nata questaconvinzione, ma il fatto è che se nevendettero oltre seimila copie dellediecimila stampate nel giro di due mesi.Questa volta il romanzo fu ampiamenterecensito e non ci fu nemmeno unacritica negativa.

Durante quel periodo Livio, quandoveniva a Roma, non mancava mai diinvitarmi a pranzo. Facevamo lunghechiacchierate su tutto: ebbi modo così discoprire il suo grande amore per lafilosofia e i filosofi, e mi confidò chestava scrivendo un romanzo e che mel’avrebbe fatto leggere una volta

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terminato. Infatti me lo mandò, siintitolava L’amore freddo e io lo trovaiun libro assai ben scritto, avvincente emolto acuto. A Roma venne presentatodal filosofo Gianni Vattimo, e iodissentii da quello che lui aveva detto.Scrissi una lunga lettera a Livioesponendogli le ragioni del miodissenso. Mi rispose dichiarandosiperfettamente d’accordo con me.

Ormai eravamo entrati in confidenza,senonché in quei giorni io avevoterminato di scrivere La stragedimenticata e Leonardo Sciascia miaveva consigliato di farlo pubblicaredalla casa editrice Sellerio. Fuid’accordo perché non si trattava di un

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romanzo, bensì di un saggio storico cheriguardava un fatto accaduto nellaprigione del mio paese durante i motidel 1848: un argomento strettamentelocale che mi pareva non potesseinteressare una casa editrice come laGarzanti. Quindi, quando la Sellerioaccettò di pubblicare il mio libro, iodurante una cena con Livio mi sentii indovere di informarlo. Alle mie parole ilsuo viso si indurì.

«Lo sa che nel contratto con me c’èscritto che lei aveva l’obbligo diconsegnarmi il suo prossimo libro?»

Il suo tono di voce era diventato assaisimile a quello della telefonata delpremio Viareggio.

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«Sì, lo so, ma…»«Non ci sono ma che tengano!» mi

interruppe.Tentai di rabbonirlo.«Senta Livio, si tratta di una storia

siciliana scritta quasi in siciliano e…»Tornò a interrompermi furioso:

«Perché, gli altri due romanzi che ha giàscritto trattano di argomenti svedesi esono scritti in italiano?».

E senza darmi il tempo di replicare sialzò e se ne andò. Non mi restava chepagare il conto e tornarmene a casa.

Da allora non mi telefonò più.

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Emanuele Cassesa

Emanuele Cassesa è stato il mioinsegnante di italiano dal primo al terzoliceo. Pur essendo un quarantenne, nonera stato chiamato alle armi malgradofossimo in periodo di guerra perché,come ci spiegò, alla visita di levaavvenuta vent’anni prima era statoriformato per sordità.

«Ma professore, lei mi pare ci sentabenissimo!» osai dirgli la prima voltache egli ci parlò del perché non

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indossasse la divisa militare.«Allora ero sordo» rispose, e cambiò

discorso.Di lui, che era nato in un paese vicino

ad Agrigento, si sapeva che non erasposato e che era un giocatore d’azzardoche passava le sue notti nelle bischeclandestine, essendo allora il giocovietato dal regime fascista.

Certe mattine si presentava in classeassonnato; allora ci pregava di chiuderele ante della finestra e di starcenealmeno dieci minuti in silenzio, inmaniera che potesse schiacciare unpisolino. Uno di noi aveva l’incarico disvegliarlo dopo un quarto d’ora.

Fascista Cassesa non lo era, e lo

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mostrava nei modi più diversi anche senon lo dichiarava mai apertamente.Infatti, se per necessità di cose dovevaindossare la camicia nera, egli lacopriva non solo con la giaccaabbottonata fino al collo e con il baveroalzato, ma perfino ricorrendo all’uso diun cappotto o di un impermeabile anchein giornate di sole rovente. Egli incantòla metà della classe fin dalla primalezione che tenne sulla Divinacommedia di Dante. Cominciò dal primocanto dell’Inferno e ce lo spiegò versoper verso ricorrendo a parole semplici,usuali, in modo che tutti capissimo anchele cose più astruse.

Era un metodo che, un’infinità di anni

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dopo, ho ritrovato nelle interpretazionidantesche di Benigni.

Dopo aver fatto sei lezioni su Dante,Cassesa ci comunicò che da quelmomento in poi non avrebbe più tenutolezioni perché, ci spiegò, lo stipendioche gli pagavano, secondo la suaconvinzione, bastava sì e no per seilezioni. Quindi, se noi volevamo che luicontinuasse a farci lezione, dovevamopagarlo. Restammo sbalorditi.

Fui io a domandargli: «Ma professore,noi non abbiamo soldi. Quanto civengono a costare le sue lezioni?».

«Poco» rispose lui. «Un pacchetto disigarette Macedonia a settimana.»

Accogliemmo la sua proposta e ogni

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lunedì gli facemmo trovare sullacattedra un pacchetto di sigarette. Allacolletta aveva partecipato tutta la classe.

Da quel momento in poi, anche quelliche non lo avevano seguito preteseroche le sue lezioni durassero esattamenteun’ora, con l’esclusione quindidell’eventuale pisolino mattutino e conl’obbligo di terminare con il suono dellacampanella.

A queste ingiunzioni Cassesa sisottomise volentieri.

Anni dopo capii che la richiesta delcosiddetto pagamento era stata una suaabilissima mossa per coinvolgere allesue lezioni anche coloro che si eranodimostrati più svogliati e meno attenti.

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Quando si arrivava alla fine dell’anno,Cassesa diceva: «Ragazzi, mettetevid’accordo e fatemi i nomi di due o tre darimandare a ottobre».

Naturalmente questo presupponeva chenella classe si svolgessero discussioniferoci, e finivamo con una sorta divotazione dalla quale uscivano tre oquattro nomi di allievi che avrebberorecuperato a ottobre.

Egli, personalmente, non rimandò mainessuno.

Oltre che uno straordinario dantista,egli fu per noi anche un maestro di vita.Un giorno, decidemmo di fare unoscherzo all’insegnante di scienze, cheera una zitella ultracinquantenne

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francamente bruttina, anche se dal cuored’oro. Quando la professoressa entrò inclasse per fare lezione, trovò sullacattedra qualcosa che evidentemente nonaveva mai visto prima.

Prese in mano quell’oggetto, lo guardòe poi chiese: «Cos’è?».

A rispondere fu l’autore dello scherzo:«Non lo so professoressa, l’ha lasciatoqui il professor Cassesa!».

Era un preservativo.La professoressa chiamò il bidello,

prese il preservativo e glielo diededicendo: «Lo riporti al professorCassesa che se l’è dimenticato qui».

Il bidello lo prese, ci fulminò conun’occhiataccia e uscì.

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Il giorno dopo Cassesa entrò in classecon la faccia scura e non rispose alnostro saluto. Si sedette in cattedra edisse: «Statemi bene a sentire,grandissimi figli di puttana, ieri voi visiete bassamente approfittati delcandore, dell’ingenuità di una poveradonna e avete riso alle sue spalle. Micongratulo con voi, continuate così,diventerete dei farabutti, dei mascalzoni,dei volgari approfittatori di coloro chedavanti a voi si presenteranno con lealtàe disarmati. Voi avete indirettamenteinsultato una vostra insegnante che viama, perché non sapete nemmeno conquanto amore vi difende ogni volta cheuno di voi viene deferito al consiglio dei

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professori. Esigo che uno di voi vadaora stesso nell’aula dove laprofessoressa sta tenendo lezione, siinginocchi davanti alla cattedra, le bacila mano e dica “Le chiedo scusa”, senzaspiegare il perché e il percome!».

«Vado io» disse il compagno cheaveva architettato lo scherzo, ed eseguìquello che Cassesa gli aveva detto difare.

Un’altra volta, un compagno denunciòun altro che gli aveva rubato deglispiccioli che teneva nella tasca dellagiacca. Ebbene, Cassesa rimproveròaspramente il denunziante.

«Se siete uomini o aspirate a esserlo,queste cose le dovete risolvere fra di

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voi, da maschi, senza ricorrere adenunzie, perché tra l’altro io non sonoun commissario di pubblica sicurezza.»

Non c’era occasione in cui non ciinsegnasse a diventare veri uomini.

Un altro giorno, approfittandosi di unpasso dantesco, «fatti non foste a vivercome bruti ma per seguir virtute econoscenza», ci spiegò come seguirevirtù e conoscenza fosse possibile soloall’interno di una società giusta, e qui silasciò andare a una meravigliosa lezionesulla libertà che era un violento eindiretto attacco al regime fascista a cuiall’epoca eravamo sottoposti.

Pochi anni dopo seppi che Cassesa,che aveva anche una laurea in legge,

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aveva lasciato l’insegnamento ed eradiventato, a Palermo, avvocato perconto dell’Istituto nazionale diprevidenza sociale, il capo degliavvocati che difendevano le causeintentate contro l’Inps. Mi meravigliaidella sua scelta, ma non ebbi modo dichiedergliene la ragione.

Ma qualche tempo appresso, tutto mi fuchiaro. Cassesa, dopo essere stato perdue anni difensore di quell’Istituto, siera dimesso. Aveva aperto uno studioprivato da avvocato, specializzandosinaturalmente nelle cause contro l’Istitutonazionale di previdenza sociale.

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L’ingegner Bertoletti

Fu verso la fine di maggio del ’42 che almio paese arrivò un ragazzo tre anni piùgrande di me. Si chiamava Leo Guida,veniva da Palermo, sua madre rimastavedova aveva deciso di trascorrerel’estate presso il fratello che lavoravacome pilota al porto. Facemmo subitoamicizia perché scoprimmo cheavevamo comuni interessi. Leofrequentava l’ultimo annodell’Accademia di belle arti dove aveva

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come insegnante Pippo Rizzo, che erastato il maestro di pittori del calibro diRenato Guttuso e Lia Pasqualino Noto;inoltre era come me un lettore vorace dipoeti e romanzieri contemporanei.Prendemmo l’abitudine di andare tutte lemattine alla spiaggia indossando ilcostume sotto i pantaloni. La spiaggiaera completamente deserta; noi cispogliavamo, ci mettevamo seduti sullariva e leggevamo ad alta voce poesie,brani di romanzi, oppure qualchearticolo di terza pagina che avevaparticolarmente colpito uno di noi due.

Un giorno vedemmo comparire unsignore più che cinquantenne, alto,magro, biondo, anche lui con un libro

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sottobraccio; a poca distanza da noi sispogliò, indossava già il costume, e sigettò subito in acqua nuotandovigorosamente. Dopo una lunga nuotatatornò a riva e si mise a correre lungo labattigia fino a scomparire dalla nostravista. Ritornò dopo un’oretta e siavvicinò a noi due. Quella mattina ioavevo portato con me l’ultimo numerodella bella rivista, letteraria più chepolitica, intitolata «Primato», che eradiretta formalmente dal ministro Bottaima che in realtà facevano materialmentei due redattori capo, Giorgio Vecchiettie Giorgio Cabella. «Primato»pubblicava articoli di critica letteraria einchieste sui movimenti artistici e

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filosofici dell’epoca dovuti a firme digiovani già prestigiosi come GiaimePintor, Nicola Abbagnano, Enzo Paci,Mario Alicata e altri. Inoltre dedicavamolto spazio ai poeti contemporanei deiquali in ogni numero comparivanoquattro o cinque poesie. Il signore cichiese cortesemente: «Posso sedermicon voi?».

Alla nostra riposta affermativa sisedette e si presentò porgendoci lamano: «Mi chiamo Mario Bertoletti evengo da Bergamo, starò qui almeno seimesi. Sono ingegnere e mi hannoincaricato di dirigere i lavori diammodernamento della centraleelettrica».

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Eravamo un po’ delusi. Qualiargomenti di conversazione potevamoavere con un ingegnere noi due che noncapivamo niente né di matematica né diingegneria? Ci presentammo a nostravolta, io come studente liceale e Leocome allievo dell’Accademia di bellearti. L’ingegnere fece subito unadichiarazione: «Io amo molto la pitturacontemporanea. Carrà, Morandi e poi lascuola romana, Mafai, Donghi, masoprattutto Scipione».

Quest’ultimo nome non l’avevo maisentito. Leo confessò solo che PippoRizzo all’Accademia qualche volta neaveva fatto cenno.

L’ingegnere dichiarò: «Di Scipione

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fortunatamente ho qui con me due buoneriproduzioni. Domani ve le porto così nepotremo parlare».

E poi, rivolto a me: «Anch’io leggo“Primato”. Quali poeti d’oggiconosci?».

«Montale, Ungaretti, Saba, Luzi,Gatto…»

«E Sinisgalli?» mi chiese.«No.»«Sai, è un ingegnere come me. Domani

te ne leggerò qualcosa.»Fu così che da quel giorno il nostro

duo diventò un trio inseparabile. Nonsolo ci portò le due foto promesse, checi lasciarono folgorati (erano il Ritrattodel cardinale decano e il Ritratto di

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dama), ci disse anche che Scipione erauno pseudonimo e che quel pittore sichiamava in realtà Gino Bonichi e cheera morto giovane di tubercolosi;aggiunse che aveva anche pubblicatodelle poesie e ce ne recitò a memoriadue o tre.

Poi un giorno, all’improvviso,l’ingegnere ci rivolse una domandainattesa.

«Credete nel fascismo?»Scambiai una rapida occhiata con Leo.

Tutti e due qualche tempo prima cieravamo reciprocamente confidati inostri dubbi sul regime. Potevamorivelarli all’ingegnere? Che cosasapevamo di lui? Poteva benissimo

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essere una spia che ci avrebbedenunciati. Ma l’ingegnere era un uomointelligente, interpretò esattamente lanostra esitazione. Sorrise.

«Mi avete già risposto» disse. Econtinuò: «Io ci ho creduto per lungotempo, ora non ci credo più».

Non toccò più un argomento politico,continuammo a parlare d’arte.Apprendemmo da lui, che erainformatissimo, una gran quantità dinotizie sugli artisti che amavamo: eracome se li avesse conosciuti tutti dipersona.

Una mattina arrivò ma non si spogliò.Ci comunicò che era venuto solo persalutarci, era stato richiamato dalla sua

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società perché doveva occuparsi di unlavoro più urgente e importante.Eravamo tutti e tre commossi, ciabbracciammo. A questo puntol’ingegnere fece qualcosa di imprevisto:arretrò di due passi, ci guardò a lungo,poi sollevò il braccio destro con lamano stretta a pugno. Sapevamo chequello era il saluto comunista, efrancamente ne avemmo paura per lui: sequalcuno in quel momento stava aguardarlo? L’ingegnere ci fissavaintensamente negli occhi. Il primo adalzare il pugno chiuso fu Leo, subitodopo l’alzai anch’io. L’ingegneresorrise.

«Mi avete salutato così per cortesia.

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Spero che un giorno potremorincontrarci e salutarci così non percortesia, ma come veri compagni.»

Abbassò il braccio, ci guardòun’ultima volta, voltò le spalle e siallontanò.

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David detto Pippo

Quando nel 1938 il fascismo promulgòle leggi razziali io avevo tredici anni efrequentavo la terza ginnasio. Fin dalprimo anno avevo stretto amicizia conun compagno di classe che si chiamavaDavid Perna, ma che tutti, chissà perché,chiamavamo Pippo. Una mattina, allafine delle lezioni, Pippo mi chiamò indisparte e mi disse che dal giornoseguente non avrebbe più frequentato lascuola. Siccome era figlio di un

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ferroviere, pensai che suo padre fossestato trasferito altrove. Ne volliconferma: «Tuo padre è statotrasferito?» gli domandai.

«No – rispose –, nemmeno papà potràpiù lavorare.»

«Ma perché?»Ebbe un sorriso amarissimo.«Perché siamo ebrei.» Ci

abbracciammo.Tornai a casa per l’ora di pranzo e

subito, dopo aver detto a papà e amamma che il mio amico Pippo nonavrebbe più frequentato la scuola perchéebreo, chiesi a papà che cosasignificasse, perché fino a quel momentoio ero sinceramente all’oscuro delle

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leggi razziali. Papà era stato squadristae marcia su Roma, vale a dire che era unperfetto fascista della prima ora; ma asentire quella mia domanda si alteròvisibilmente, divenne rosso in faccia emi disse delle parole che non ho maiscordato e delle quali gli sonoeternamente grato: «Non è vero che gliebrei sono diversi da noi, sonoesattamente come noi. Questa storiadella razza, Mussolini ha dovuto tirarlafuori solo per allinearsi col suo amicoHitler. Tu non devi crederci. E non tilasciare mai convincere diversamente».

Naturalmente negli anni che seguirononon ebbi più notizie di Pippo; maquando, finita la guerra, cominciammo a

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leggere dell’Olocausto e, peggio ancora,vedemmo i documentari sui campi diconcentramento e di sterminio deinazisti, l’immagine del mio amico Pippocominciò a tormentare i miei giorni e lemie notti, lo confesso con tutta sincerità.Certe volte mi svegliavo di colpo inpiena notte chiedendomi che fine avessefatto il mio amico, se fosse statocatturato dai tedeschi e inviato in uno diquegli orrendi campi, o se fosse inqualche modo riuscito a sopravvivere.Mi rimisi in contatto telefonico da Romacon qualche vecchio compagno discuola: nessuno seppe darmi notizie diPippo. Avevo una vecchia foto di gruppodella seconda ginnasiale: in quella foto

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lui e io stavamo sorridenti l’uno accantoall’altro. Ogni tanto andavo ariguardarmela. Il pensiero del mioamico ebreo scomparso nel nulla fusempre presente nella mia memoria.

Alla fine degli anni Ottanta un miospettacolo allestito al teatro greco diTindari, Il ciclope di Euripide, tradottoin dialetto siciliano da Luigi Pirandello,arrivò a Roma al Teatro Tenda, cheallora sorgeva in piazza Mancini. Nellacapitale la rappresentazione ebbe allaprima un buon successo e io ogni sera,due ore avanti che iniziasse lospettacolo, mi recavo in teatro un po’per controllare se tutto fosse a posto eun po’ per informarmi con le cassiere di

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come andasse l’affluenza del pubblico.La sera della quinta replica, una dellecassiere mi disse che c’era un signoreche aveva chiesto di me e che, avendosaputo che io sarei arrivato da lì a poco,si era allontanato avvertendo chesarebbe ritornato. Non aveva detto il suonome.

Aveva appena finito di parlare, che lacassiera mi indicò un uomo che stavaentrando.

«Eccolo, è lui.»Gli andai incontro: era un perfetto

sconosciuto.«Sono Andrea Camilleri, cercava

me?»L’uomo, che era di piccola statura,

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molto ben vestito, mi guardò a lungo,non rispondendo subito alla miadomanda. Poi, a sua volta, chiese: «Leiè Nené Camilleri?».

«Sì – risposi –, ma lei chi è?»Di scatto l’uomo mi gettò le braccia al

collo, mi strinse forte, mi disseall’orecchio: «Sono Pippo Perna».

E ci ritrovammo tutti e due abbracciaticon le lacrime agli occhi.

«Sono di passaggio» mi disse. «Ho dueore di tempo.»

Di comune accordo andammo in uncaffè vicino, ci sedemmo a un tavolo. Miraccontò che nel ’38 avevano lasciatoAgrigento, che con suo padre e suamadre erano andati a rifugiarsi presso

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uno zio che possedeva dei campi nellaSila, in Calabria. Suo padre avevalavorato nei campi del fratello, suamadre si era messa a fare la sarta, e cosìerano riusciti a sopravvivere. Lui avevacontinuato a studiare prendendo lezioniprivate dal parroco del paese, dove tuttiavevano finto di non sapere che lafamiglia Perna era ebrea. Così eranoriusciti a scamparla. Lui, finita la guerra,aveva dato tutti gli esami che non avevapotuto sostenere durante il fascismo, poisi era iscritto all’università, dove si eralaureato in ingegneria. Era venuto aRoma per affari, quando aveva visto unmanifesto teatrale col mio nome.

Nelle due ore ci raccontammo

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freneticamente tutto quello che eraaccaduto alle nostre due vite. Aveva untreno per Milano, l’accompagnai allastazione. Restammo a parlare fino aquando

un fischio lungo annunciò la partenzadel treno; ci guardammo commossi,tornammo ad abbracciarci. Poi lui montònello scompartimento e restammo asalutarci con la mano, fino a quando nonsparì dalla mia vista.

Da quel momento in poi Pipposcomparve dai miei sogni.

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Breve incontro con Primo Levi

Nel 1966 una prestigiosa casa editriceitaliana pubblicò un libro di raccontifantastici, alcuni dei quali veramentespassosi, intitolato Storie naturali.Autore ne era Damiano Malabaila, deltutto sconosciuto alle patrie lettere.Leggendolo, non furono pochi i lettoriche ebbero delle perplessità: troppoesperta e sorvegliata la scrittura,assolutamente perfetto il dosaggio tra glielementi costitutivi di ogni racconto per

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essere opera di un autore esordiente. Epoi: come aveva fatto un autore alleprime armi a essere pubblicato da unacasa editrice nota per la severità dellesue scelte? Dopo poco tempo, si ebbe larisposta. Damiano Malabaila nonesisteva, era uno pseudonimo dietro ilquale si nascondeva, con sommasorpresa di me lettore, niente di menoche Primo Levi, l’autore dell’immortaleSe questo è un uomo.

Mi sono più volte chiesto se questasorpresa non fosse condivisa dallostesso Levi, quando aveva scoperto in séuna vena così divertente come quellache segna gran parte delle Storienaturali, motivo per il quale forse

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aveva deciso di firmarle comeMalabaila.

A ogni modo, la sezione Prosaradiofonica della Rai, per la quale iolavoravo come regista, decise di fareadattare a radiodramma uno di questiracconti, Il versificatore, e di farlorealizzare negli studi di Torino. Maquando, un mese dopo, i responsabilidella Prosa ascoltarono il radiodrammaprima di mandarlo in onda rimaseroallibiti, perché la qualitàdell’interpretazione e della regia era dicosì scarso livello che la trasmissioneavrebbe potuto addirittura configurarsicome una sorta di offesa all’autore Levi.Decisero ipso facto di farne una

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seconda edizione completamente diversaaffidandone a me la regia. Avevamopoco tempo perché l’opera era già stataannunciata in cartellone. Partii subitoper Torino e la prima cosa che feci fu dichiedere per telefono un appuntamento aPrimo Levi, che non conoscevo.

Quando lui seppe il motivo della miarichiesta si mostrò perplesso.

«Ma Il versificatore non era già statorealizzato?»

«Sì, ma vede, siccome non è venutotanto bene, allora…»

Tagliò corto: «Posso invitarla domania pranzo al Cambio?» mi chiese.

Il Cambio era il più noto e storicoristorante di Torino.

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«Volentieri!» risposi.Il versificatore era la storia di una

macchina capace di fare versi acomando e secondo alcune preciseindicazioni, senonché questa macchinanel racconto di Levi spesso e volentierisi prendeva delle, diciamo così, licenzepoetiche, che finivano per generareequivoci e confusione. La mia idea eraquella di far parlare la macchina noncon la voce meccanica e priva diqualsiasi intonazione che sembra esserepropria dei robot parlanti, ma di farlerecitare i versi con un’intonazioneenfatica propria del cattivo poeta chelegge una sua opera. Fermo restando cheavrei in qualche modo trattato la voce

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dell’attore, per suggerire che si trattavadi una macchina e non di un essereumano, col soccorso dell’Istituto difonologia di Milano.

Mi presentai al Cambio con un certobatticuore: conoscere di persona Levi eparlare con lui mi metteva in agitazione.Ma la dolcezza dei suoi modi, lacortesia, l’interesse, l’attenzione che dasubito prestò alle mie parole mi miseroperfettamente a mio agio. Scoprimmo,ma non ce lo dicemmo, di essercireciprocamente simpatici, perciò quelpranzo in qualche modo venne da Leviprolungato: dopo aver preso il caffè midisse che aveva ancora tempo adisposizione e che avrebbe ancora

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voluto parlare con me della mia Sicilia.Poi uscimmo dal ristorante. Proprioattaccata al Cambio si ergeva lamaestosa facciata del Teatro Carignano.

«Ha mai lavorato nel nostro teatro?»mi chiese Levi.

«Non ne ho mai avuto l’opportunità.»«Ma non l’ha mai visto neanche da

spettatore?»«Neanche.»Notò che l’ingresso principale del

teatro era spalancato. Mi guardò e midisse: «Vuole visitarlo? Sono amico deldirettore».

«Volentieri» risposi.Entrammo. Un signore molto elegante

stava parlando con una donna; al vedere

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Levi gli andò incontro con la mano tesa,si salutarono con calore. Levi gli spiegòil motivo della nostra presenza. Ildirettore si mise a disposizione, feceaccendere tutte le luci di sala:effettivamente si trattava di un piccologioiello che dava un’idea di grandiosità.Chiesi di salire in palcoscenico, lui miaccompagnò, mi guidò a vedere lacabina delle luci, mi mostrò, sia pure adistanza, l’organizzazione della soffitta ein quel momento venne chiamato da uninserviente perché era arrivata unatelefonata dall’estero che il direttoreattendeva. Questi allora ci salutò, cidisse che potevamo, terminata la visita,uscire dalla porta posteriore, la

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cosiddetta entrata degli artisti, e cilasciò soli. Rimasi ancora cinque minutia guardare quello splendore e poi dissi aLevi che potevamo andarcene.

Nel retropalco individuammo la portache conduceva all’uscita: si apriva su uncorridoio che terminava proprio conl’entrata degli artisti. Vidi che vicinoall’ingresso c’era lo sgabuzzino delportiere, il quale se ne stava intento aleggere un giornale. Al sentirciavvicinare, il portiere alzò gli occhi, ilsuo sguardo si illuminò, si alzò, aprì laporta del gabbiotto a vetri e mi corseincontro, la mano protesa addiritturagridando: «Dottor Camilleri! Che bellasorpresa! È venuto qui da noi per

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un’altra regia?».Mentre la terra letteralmente si apriva

sotto ai miei piedi e io vi sprofondavodentro madido di sudore, bofonchiaiqualcosa al portiere e mi precipitaiverso l’uscita seguito da Levi. In stradacademmo in un silenzio imbarazzante.Io, che ero sconvolto, riuscii in qualchemodo a controllarmi, e dissi a Levi: «Ledevo una spiegazione».

«Non mi deve nulla – fece luigentilissimo –, ma se vuoleparlarmene…»

Allora gli raccontai come solo sei anniprima io avessi messo in scena, proprioal Teatro Carignano, un’edizionespeciale dell’atto unico di Giovanni

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Verga Cavalleria rusticana, ma vuoi perl’infelice scelta degli attori, vuoi per unmalaccorto errore di interpretazionemia, quello spettacolo mi era parso ilpeggiore di tutti quelli da me fino a quelmomento realizzati e l’avevo cancellatototalmente dalla mia memoria, sino ascordarmi di aver lavorato in quelteatro.

«Ho fatto una vera e propriarimozione» dissi.

Levi, che mi aveva ascoltato insilenzio, guardando un po’ imbarazzatola punta delle sue scarpe, sollevò latesta e mi fissò dritto negli occhi.

«Sapesse quante ne ho dovute fareio…» sussurrò.

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E riprendemmo a camminare ancora insilenzio.

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Benedetto Croce

Di Benedetto Croce, durante la miagiovinezza, non avevo letto nulla.

Lo conoscevo solo per nome e perfama perché sia nei giornali sia nelleriviste dei gruppi universitari fascistiegli veniva spesso attaccato e qualchevolta irriso. Una volta sulla bella rivista«Primato» vidi una deliziosa vignettafirmata dal pittore Amerigo Bartoli, chemi divertì tanto da rimanere impressanella mia memoria: rappresentava il

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filosofo napoletano intento a scrivere amano qualcosa nel suo studio. Dietro dilui ci stava niente di meno che Hegel, unpo’ inclinato in avanti, che sbirciavaquello che Croce andava scrivendo. Ladidascalia così recitava: «Hegel: “Ciòche più ammiro in lei, maestro, è ilsenso della storiella”».

Era una battuta feroce. Erano molti,infatti, a criticare in Croce il gusto perla divagazione aneddotica nel corso diun serio trattato di storia o di filosofia.Quando mi capitò di leggerlo, mi resiconto che quelle critiche erano ingiuste.Le cosiddette «storielle» erano in realtàesempi che servivano a chiarire, emolto, il pensiero che il filosofo voleva

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esprimere. Cominciai ad ammirarlo,anche se spesso non condividevo le sueidee, date le mie convinzioni marxiste.

Nel maggio del 1945 andai a Roma eci rimasi per un mese circa, ospite di unmio zio che ricopriva un’alta carica nelPartito liberale. Una sera, mentrestavamo cenando, lo zio, proprietario diuna Chrysler, ci annunciò che sarebbepartito subito dopo per Napoli: andava aprendere Benedetto Croce per portarlo aRoma e perciò, il giorno appresso, ilgrande filosofo sarebbe rimasto a pranzocon noi. La mia reazione fu immediata:«Io domani vado a mangiare intrattoria».

«Perché?» domandò stupito lo zio.

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«Perché, se Croce mi rivolge la parola,io che gli rispondo? Non mi sentoall’altezza.»

«Non dire sciocchezze! Croce è unapersona affabile e alla mano!»

Fu così che, il giorno appresso, miritrovai seduto proprio accanto a lui. Mirivolse la parola, guardandomiamabilmente, mi domandò che studistessi facendo, se mi piaceva la filosofiae che idee avevo per il mio futuro.

Parlava in un modo così dimesso chesubito mi parve di avere a che fare conuna persona conosciuta da tantissimotempo. Poi, ci raccontò una storiella allaquale addirittura diede un titolo: Lavanità punita.

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Ci spiegò che lui, quando veniva aRoma da Napoli, prendeva posto in unoscompartimento di prima classe vuoto ericopriva tutti gli altri posti vacanti condei libri, in maniera che nessuno venissea disturbarlo.

Infatti, capitava sempre così. Iviaggiatori aprivano la vetratascorrevole dello scompartimento,vedevano la massiccia figura di Croceintento a leggere e i libri sparsi, e siritraevano intimoriti. Una volta, invece,un viaggiatore che lui descrisse come unquarantenne gagà, vestito all’ultimamoda, entrò e chiese: «Ma tutti questiposti sono occupati?».

«No, sposti qualche libro e si segga.»

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Il viaggiatore scelse il posto proprio difronte a Croce. Il treno partì e dopopochi minuti, come il filosofo avevatemuto, il gagà tentò di attaccarediscorso.

«Permettete? Mi chiamo AntonioGargiulo» disse tendendogli la mano.

«A questo punto – disse Croce – pensaidi annientarlo.»

Stringendogli la mano, scandì:«Piacere. Sono Benedetto Croce» e loguardò negli occhi.

Il viaggiatore fece un’aria sorpresa,poi chiese: «Croce… Croce… Siete percaso parente di Ersilia Croce?».

Alla fine del pranzo, Croce usava faredue passi. Mio zio doveva per forza

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tornare alla sede del partito, perciòdesignò me quale accompagnatore diCroce per quella breve passeggiataintorno al palazzo. Sprofondai nelpanico. Usciti fuori dal portone,cominciai a pensare vertiginosamentecome e cosa avrei potuto chiedere alprofessore, come aveva detto di voleressere chiamato durante il pranzo.Parlare di filosofia con lui era assurdo,troppo scarse le mie conoscenze inmateria; parlare di politica non era ilcaso date le mie idee, forse avreicommesso qualche gaffe. Di fatti dicronaca? Ma figurati se un filosofo cosìsi interessava alla cronaca spicciola.Insomma, feci il giro del palazzo

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accanto a lui, senza aprire bocca.Arrivati davanti alla porta di casa,

stavo per suonare il campanello quandolui mi guardò, mi sorrise e mi disse: «Viringrazio per il vostro meravigliososilenzio».

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Foffa

Nel mio paese c’era una casa ditolleranza, la pensione Eva, alla qualeho dedicato addirittura un romanzo. Mac’erano anche due prostitute, come dire,indipendenti. Una si chiamava Cettina, eaveva di gran lunga superato iquarant’anni, l’altra era unaventiquattrenne chiamata Foffa, e non soa quale nome corrispondesse ilnomignolo. La prima non ebbi mai mododi conoscerla, la seconda la vidi

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qualche volta mentre, come usavasempre fare, la domenica mattina andavaa messa. Era una ragazza dal corposplendido, ma con il viso precocementeinvecchiato. Sapevo che aveva due figli,che uno si chiamava Nené, proprio comeero chiamato io in famiglia e dagliamici, e l’altro Gerlando. Nené nel ’42aveva quattro anni, Gerlando sei.

Avevo un amico più grande di qualcheanno di me che era un suo clienteabituale. Una volta mi chiese diaccompagnarlo e io, spinto dallacuriosità, acconsentii. L’appartamento diFoffa era molto povero; si componeva diuna camera da pranzo-salottino, di unacamera da letto, una cucina e un bagno.

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Il mio amico mi pregò di attenderlo insalottino, e lui se ne andò in camera daletto con Foffa.

«Faccio una cosa breve.»Infatti dopo una ventina di minuti si

presentò seguito da Foffa.«E tu?» mi chiese la ragazza.«Io no, grazie.»«Non ti piaccio?»«No, non è per questo» dissi.Mi guardò in un modo così intenso che

ne rimasi turbato: quello sguardo miperseguitò per qualche giorno, nonriuscivo a togliermelo di dosso, sicchéuna sera decisi di andarla a trovare.

Mi venne ad aprire una vecchia.«Foffa è occupata, se vuoi puoi

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aspettare nel salottino.»«Va bene» dissi.Dopo una mezz’oretta un quarantenne

uscì dalla camera da letto, mi rivolse uncenno di saluto e andò via. Foffa entrònel salottino, mi vide e mi riconobbesubito. Sorrise.

«Hai cambiato idea?»«No. Vorrei parlare un poco con te. Ti

pago come se…»«Va bene, va bene» tagliò. Si sedette

accanto a me.«Che vuoi sapere?»Le domandai subito ciò che più mi

interessava: «Perché lo fai?».«E tu perché lo vuoi sapere?»«Così, per curiosità.»

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Si alzò.«Vattene» mi disse, e mi guardò con lo

stesso sguardo della prima volta.Me ne andai, ma dopo qualche giorno

ero di nuovo lì, seduto nel salottino.Questa volta Foffa reagì duramente allamia presenza.

«Con te non voglio avere nulla a chefare!»

«Senti Foffa, io sono disposto a pagartitre volte tanto se rispondi a qualche miadomanda.» La mia insistenza dovetteincuriosirla. Si sedette. «Avanti, perchélo fai?»

«Per necessità» mi disse, e mi raccontòla sua storia.

A diciott’anni i suoi genitori l’avevano

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costretta al matrimonio con un uomomaturo che lavorava saltuariamente alporto e che era notoriamente un grandeubriacone e un grande giocatored’azzardo. La sera, dopo aver cenato, miraccontò, il marito usciva e tornavaverso mezzanotte ubriaco fradicio;prima di mettersi a letto aveval’abitudine, forse per conciliarsi ilsonno, di prenderla a calci e a pugnisenza alcun motivo. Lei, prima diaddormentarsi, si sfogava con un lungopianto. Le aveva fatto fare due figli,portava pochi soldi a casa, quel pocoche bastava appena per sfamare Foffa e ibambini. Il marito morì ammazzato conuna coltellata durante una rissa

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all’osteria: per sfamare i figli lei nonaveva avuto altra strada che laprostituzione.

«Soddisfatto?» mi chiese alla fine.Io le risposi di sì, e me ne andai con il

cuore colmo di amarezza.Pochi giorni dopo capitò un fatto che

addolorò tutto il paese: Nené eGerlando, mentre stavano attraversandoil corso, erano stati investiti da uncamion e tutti e due erano rimasti uccisisul colpo. Il fatto commosse tutto ilpaese, e la chiesa durante il funerale deidue bambini era stipata. Ma, davanti alledue bianche bare, Foffa piangevasilenziosamente senza avere nessuno chele stesse accanto. Attorno a lei c’era

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come un deserto: nessuno osavapubblicamente dimostrarsi suo amico.Mi sentii sconvolgere, provai una pietàcosì grande che mi feci largo tra lagente, mi avvicinai, le misi una manosopra la spalla. Si voltò a guardarmi, eper la terza volta il suo sguardo mi entròdritto fino al cuore. Mi sussurrò:«Domani vieni a trovarmi, voglio dirtiuna cosa».

«Va bene.»L’indomani sera andai a trovarla. Foffa

era tutta vestita di nero, con un vestitoche qualcuno le aveva prestato: le stavalargo, l’insaccava. Aveva gli occhi rossie gonfi di pianto, il volto devastato daldolore. Non sapevo cosa dirle per

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confortarla, perciò le domandai perchéavesse voluto vedermi.

«Per salutarti» mi rispose. «Domanime ne vado. Ora non ho più bisogno difare la buttana. Per la prima volta sonoin grado di prendere una decisione inpiena libertà. Per tutta la mia vita non hofatto altro che obbedire alla volontàdegli altri. Ora, finalmente, posso fare amodo mio. Posso decidere del miofuturo.»

«Dove pensi di andare?» le domandai.«Non voglio dirlo a nessuno.»«Hai bisogno di soldi?»«No, ti ringrazio.» Si alzò.«Ti posso abbracciare?» mi chiese.Ci abbracciammo. Mi accompagnò alla

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porta.L’indomani mattina, che era domenica,

scesi come al solito verso mezzogiornoper bere un aperitivo al caffèCastiglione.

«La sentisti la notizia?» mi disse il mioamico Carmelo, che era il proprietariodel caffè e che stava alla cassa.

«Quale notizia?»«Foffa.»«Che ha fatto?»«Stanotte l’equipaggio di un

peschereccio che stava rientrando haintravisto una persona che dal molo sibuttava a mare. Hanno cercato disoccorrerla, ma era molto buio e nonsono riusciti a trovarla subito. Quando

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l’hanno vista era già troppo tardi. Hannopotuto solo recuperare il cadavere. EraFoffa.»

Mi si piegarono le ginocchia, dovettisedermi al tavolo più vicino.

Il cameriere mi si avvicinò.«Portami un doppio cognac» dissi.Quando mi portò il bicchiere, prima di

bere lo alzai in alto, e quello fu il mioultimo saluto per Foffa.

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Sommario

Avvertenza

Antonio

La confessione

Antonio Tabucchi

Pino Trupia

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Pier Paolo Pasolini

La Federala

Maria Cosenza

Un libro: La condizioneumana di André Malraux

Il maresciallo Campagna

Il comandante Campanella

Roberto Morsucci

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Silvano Falleni

Arthur Adamov

Virgilio Marchi

Lucio

Salvo Randone

Lia Giudice

La Sarduzza

Franco Cannarozzo

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U zù Filippo

Don Sasà

Minicu

Orlando furioso e Pinocchio

Stefano D’Arrigo

Carlo Emilio Gadda

Un pomeriggio con Vittorini

Livio Garzanti

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Emanuele Cassesa

L’ingegner Bertoletti

David detto Pippo

Breve incontro con PrimoLevi

Benedetto Croce

Foffa