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Un rapporto molto particolare, quello tra Venezia e il cinema. Se le altre grandi città “cinematografiche” costituiscono quasi sempre la tela di fondo su cui si muove l’azione, Venezia è, per sua natura, una co-protagonista del film, un personaggio che risalta nel tessuto della storia, un’ambientazione che non può mai essere casuale.Attraverso queste venti storie, raccontate senza fare critica né storia del cinema, Irene Bignardi ha costruito un itinerario veneziano molto personale vissuto tra calli e campi, chiese e palazzi, drammi e commedie. E fa rivivere, con una scrittura lieve e sapiente, l’allegria kitsch di Cappello a cilindro, ovverossia Venezia vista da Hollywood, e le atmosfere risorgimentali di Senso; la nobile scenografia dell’Othello di Welles e le faticate vicende de Il mercante di Venezia; i brividi di A Venezia un dicembre rosso shocking e il sentimentalismo di Tempo d’estate; la ribelle giovinezza veneziana inventata dal primo Tinto Brass con Chi lavora è perduto e il rigore politico de Il terrorista di De Bosio; la decadenza della città raccontata da Visconti con Morte a Venezia e i film veneziani ispirati a Henry James; un’inedita esplorazione della città lagunare firmata da Susan Sontag in Unguided Tour e il recente Dieci inverni, che restituisce l’immagine della Venezia studentesca, quella dei giovani, quella squattrinata, lontana dai palazzi.Film, tutti, raccontati con amore e curiosità nelle loro vicende produttive (quasi sempre), letterarie (quando è il caso), personali (spesso). Sempre cercando, nei film, dietro il film, il fattore umano.

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irene bignardi per venticinque anni ha lavorato a «la Repubblica» – con cui collabora tuttora – come inviato di cultura e critico cinematografico. Ha diretto il Mystfest, il Festival Internazionale del Film di Locarno e, per l’ONU, Desert Nights. Ha insegnato Storia del cinema all'Università Iuav di Venezia ed è stata presidente di Filmitalia. È autrice di vari volumi. Per Marsilio sono usciti: Americani. Un viaggio da Melville a Brando (2005) e Le cento e una sera. Piccola guida personale al cinema in dvd (2008).

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Marsilio

Irene BignardiStorie di cinema a Venezia

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Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano.

Per la foto di copertina di cui, nonostante le ricerche eseguite,non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’editoresi dichiara disponibile ad adempiere ai propri doveri.

© 2012 by Marsilio Editori® s.p.a. in Ve ne zia

Prima edizione digitale 2012

ISBN 978-88-317-3407-3

[email protected]

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

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Indice

7 Premessa

11 Fred, Ginger e Fred

17 Il villaggio alla Giudecca

25 Da Ca’ d’Oro a Mogador

30 Quell’ambiguo mercante di Venezia

36 Addio, contessa Serpieri

43 E adesso mambo

49 Una romantica signorina americana

56 Eva, la crudele

63 I giorni del disincanto

69 Nel bel mezzo di un gelido inverno

75 Morte a Venezia /1

82 Morte a Venezia /2

88 Mistero veneziano

94 Resistenza in laguna

102 Il grande seduttore

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109 All’ombra del Tintoretto

114 James, Henry James

122 In fuga a Venezia

128 Dieci gelidi inverni

133 Susan S. e l’acqua alta

141 Schede filmografiche

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Premessa

Questo non è un libro di cinema. Né di storia del cinema. Né tanto meno di critica cinematografica. Per questi aspetti sono stati scritti e sono disponibili studi eccellenti e sapienti, che ho letto e consultato con ammirazione e piacere.

No. Storie di cinema a Venezia, come recita il titolo, è, appunto, un libro di storie, che racconta delle storie, dentro o dietro il film, e dei personaggi. Venti storie, per l’esattezza, che hanno a che fare con il cinema e con Venezia, intesa come sfondo o come protagonista. Venti storie che sono state scel-te da un immenso bacino (si calcola che i film girati a Vene-zia o ispirati a Venezia o che alludono a Venezia siano qual-che centinaio), secondo l’arbitrio di chi scrive, per il divertimento, ci si augura, di chi legge: perché sono storie curiose, strane, bislacche, complicate, disastrose, avventurose, appassionanti. O semplicemente tipiche ed esemplari del rap-porto tra Venezia e il cinema.

Un rapporto assolutamente particolare. Perché mentre le altre grandi città cinematografiche (da Roma a Los Angeles, da Londra a Parigi a New York), salvo le dovute e necessarie eccezioni (Un americano a Parigi? Roma di Fellini? New York, New York? Blade Runner?...), costituiscono la tela di fondo, il supporto, la scenografia su cui si muove l’azione, Venezia

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è, per sua natura, una co-protagonista del film. Perché è un paesaggio urbano troppo speciale e unico per non risaltare come una star nel tessuto della storia.

Come sempre quando c’è da scegliere in un bacino troppo ricco, qualcuno non sarà contento che manchino all’appello film (sono così numerosi che cito più o meno a caso) come I due Foscari di Enrico Fulchignoni, dove si raccontava un pez-zo di storia veneziana, o Venezia, la luna e tu di Dino Risi, con Alberto Sordi seduttore e gondoliere. Come Canal Grande di Andrea di Robilant, con tanto di regata a colori, o The Tourist, folle itinerario Hollywood-veneziano che per mesi ha sconvolto ed eccitato la città. Come Kiss kiss... bang bang di Duccio Tessari, con il suo piccione spia, o i tanti bellissimi film di animazione che Venezia ha ispirato. Come Il mistero del Morca, un simpatico film per ragazzi, o il complesso e colto In memoria di me. Come 007 Casino Royal, o Impardon-nables di André Téchinè, ultimo prodotto francese girato in Laguna, che ha il merito di scoprire l’isola di Sant’Erasmo e i suoi orti, o la Chioggia di Io sono Li. E qualcuno potrà rim-piangere che non ci sia stato il modo di rievocare la notte in cui venne girata la celebre scena del ballo di C’era una volta in America, quando i saloni dell’Hotel Excelsior si trasforma-rono per miracolo nel grande albergo americano dove Robert De Niro seduceva la donna della sua vita, e Venezia diventava l’America. Che non si faccia la storia (troppo complessa, meri-terebbe un volume tutto suo) della Biennale Cinema. O quel-la del grande uomo di cinema veneziano Francesco Pasinetti.

Come sempre, come in ogni scelta, anche della scelta di queste venti storie, o giù di lì, sono responsabili l’esperienza personale e le idiosincrasie di chi scrive. Gli stati d’animo con cui chi scrive ha visto e scoperto certe storie e quello che le è stato raccontato. Il mito che si è creato attorno a certi film e le atmosfere che hanno creato. Un viaggio fatto su un set e la leggenda che circonda certi film veneziani.

Una scelta difficile. Fatta con la speranza che queste storie, che mi sono divertita a raccogliere e a raccontare, parlino anche ai lettori.

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STORIE DI CINEMA A VENEZIA

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1.

Fred, Ginger e Fred

Dove si racconta come Venezia sia stata reinventata da Hollywood in cartapesta e gesso, per far danzare Ginger e Fred al suono di «Cheek to Cheek».

È divertente ipotizzare che le cose, nel caso di Cappello a cilindro, siano andate più o meno come accadde a Roma, negli anni immediatamente precedenti l’era cristiana, con la Pira-mide Cestia.

Nel senso che così come, all’epoca, qualcuno deve aver rac-contato e descritto a Caio Cestio Epulone la forma e il fascino delle piramidi recentemente acquisite nel patrimonio artistico della romanità, convincendolo a costruirne una come suo mau-soleo – ma senza precisargli i veri rapporti geometrici delle piramidi, e quindi lasciando che costruisse una piramide bislac-ca, troppo alta e magra per assomigliare a quelle originali, che tuttavia duemila anni dopo continua ad allietare un incrocio particolarmente burrascoso di Roma con la sua snella prospet-tiva –, così potremmo ipotizzare (ma non può essere possibile, sarebbe troppo bello per essere vero) che Van Nest Polglase, lo scenografo di Cappello a cilindro, non abbia mai visto la vera Venezia e abbia inventato a modo suo per il film una città di cartongesso e stucchi, con piccoli canali lisci lisci, gondole bianche senza forcola, e un ponte di Rialto da luna park.

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Non è un caso singolo. Anzi, è la moda del momento. Anna Karenina, nella reincarnazione affidata a Greta Garbo nel film di Clarence Brown dello stesso anno 1935, si muoveva, nella sua breve fuga amorosa con Vronsky/Fredric March, tra cana-li e ponti veneziani, tra gondolieri e scugnizzi più napoletani che lagunari, tra chiese e palazzi ricostruiti in studio a Hollywood da Cedric Gibbon. E Lida Baarova, nella germa-nica versione della coetanea Barcarola, diretta da Gerhard Lamprecht, girata in studio e onorata dalla visita di Hitler sul set (lo racconta il grande reporter/scrittore Mariusz Szczygiel in Gottland), si muove in una Venezia di cartapesta ricostruita a Babelsberg, una delle tante che abitano la dimensione paral-lela del falso cinematografico. E non solo cinematografico. Non è ogni città con un canale «la Venezia del» Nord, Sud, Golfo Persico, e via elencando, fino alla recente ricostruzione di Venezia a Las Vegas?

il geniale polglase e austerlitz il ballerino

Non un tipo qualsiasi, Van Nest Polglase, che, quasi sicu-ramente, invece, Venezia la conosceva e l’ha imitata nel suo stile particolare, ma in piena consapevolezza. Non un tipo da poco. Basti dire che, all’epoca, nel 1935, Polglase era al suo secondo film con la coppia regina del musical e protagonista di Cappello a cilindro – e cioè con Fred Astaire e Ginger Rogers, che di solito vanno elencati in quest’ordine, anche se Federico Fellini con il suo film ci ha abituati a parlare di Ginger e Fred, in una sequenza più educata e cavalleresca.

Il debutto di Van Nest Polglase con la mitica coppia era stato Cerco il mio amore, che gli aveva fruttato, nel 1934, la sua prima nomination. La seconda nomination arrivò proprio per Cappello a cilindro, Venezia di cartongesso e stucchi com-presa. La sesta e ultima (l’Oscar purtroppo non lo prese mai) per Quarto potere e la sua barocca, sontuosa, visionaria e assieme realistica invenzione del castello del cittadino Kane, dove, volendo e facendo attenzione, si possono vedere dei

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tocchi veneziani. Lo si ricorda anche per le scenografie di Gilda. E per la tragica fine nell’incendio della sua casa.

Ma torniamo a Venezia, a Fred Austerlitz, meglio noto come Fred Astaire (non è curioso il passaggio dalla pesantez-za del nome di una battaglia alla leggerezza di un nome che allude alle stelle o alle scale, scelto da Fred A. per la sua vocazione di ballerino?). E a Virginia Katherine McMath, meglio nota come Ginger Rogers.

Top Hat, come si intitola nell’originale americano Cappello a cilindro, fu il terzo film della coppia dopo Carioca e Cerco il mio amore. Il terzo sui dieci che avrebbero complessivamen-te realizzato insieme. Lui, il magico folletto della danza, l’uo-mo più elegante del mondo, nel 1935 aveva trentasei anni ed era al vertice della lunga carriera cinematografica in cui era stato lanciato da David O. Selznick (nonostante, disse il pro-duttore, «le sue enormi orecchie e il brutto mento»). Lei aveva ventiquattro anni, aveva alle spalle diciannove film ed era al terzo film con il suo grande (e talvolta difficile, per meticolosità e protagonismo) compagno.

un cilindro per cappello

Cappello a cilindro, diretto da Mark Sandrich, prodotto da Pandro S. Berman per la rko, coreografato, assieme ad Astai-re, da quel genio di Hermes Pan, musicato da quell’altro genio che fu Irving Berlin, ha la leggerezza assoluta dei migliori musical e un intreccio non originalissimo da commedia degli equivoci. E posso aggiungere, da devota consultatrice del Dizionario dei film del mio amico Paolo Mereghetti, che quel cattivone lo premia con ben quattro stelle, il massimo (cosa che, a ben vedere, è forse un eccesso cinefilo, visto che quat-tro stelle le meritano film come Quarto potere, A qualcuno piace caldo, La dolce vita e altri monumenti di perfezione, mentre la storia e la struttura di cartongesso di Cappello a cilindro non sono proprio geniali. Come sapeva benissimo lo stesso Fred Astaire, lamentandosi in un memo indirizzato a

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Pandro Berman di dovere, nel film, solo «dance-dance-dan-ce», di non avere una vera storia e un vero personaggio).

sandrich, pan, berlin e gli altri

Torneremo a Ginger e Fred. Ma intanto non bisogna dare per scontato quello che c’è dietro i nomi dei loro collabora-tori. Mark Sandrich, scomparso troppo presto (poveretto, nato nel 1900 se ne è andato nel 1945), ha diretto innumerevoli musical di successo per la rko, tra cui Cerco il mio amore, Seguendo la flotta e Voglio danzar con te. E se non fu geniale e inventivo come il dio delle coreografie geometriche, Busby Berkeley, a cui qualcuno lo paragonò, era dotato in somma misura della bravura e della leggerezza che hanno fatto gran-de il musical degli anni ’30.

Hermes Pan, nato Panagiotopulos, di origine greca, pove-rissimo, ribattezzatosi con un nome composto di due metà mitologiche che ribadivano la sua origine ellenica e allegra, aveva incontrato Astaire sul set di Carioca dove era assistente coreografo, gli aveva dato alcuni buoni consigli (ben accolti), gli aveva mostrato dei passi imparati per le strade di New York (dove era cresciuto), e, in definitiva, aveva conquistato il cuore di Fred Astaire diventandone il coreografo e il com-plice. Tanto che insieme gireranno diciassette dei trentun film interpretati dal grande ballerino, che lo chiamava il suo «uomo delle idee».

Irving Berlin... be’, è Irving Berlin. Ed è anche Israel Isi-dore Baline, ebreo, di famiglia russa. L’autore di oltre mille canzoni, di un inno alla musica come Alexanders’ Ragtime Band, di God Bless America, di White Christmas, di There’s no Business like Show Business, di Annie Get Your Gun... e naturalmente delle undici canzoni di Cappello a cilindro. Tra cui Cheek to Cheek (cantata e danzata sullo sfondo della Venezia sopra descritta), Top Hat, Isn’t it a Lovely Day?, probabilmente il miglior numero che abbia visto insieme Gin-ger e Fred, e la festa collettiva, e sempre veneziana, di The

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Piccolino, un numero travolgente ballato a ritmo di tarantella da un enorme corpo di ballo, dove finalmente Ginger Rogers canta. Anche se per le nomination (quattro) che toccarono al film, accanto a quella per il miglior film, a quella per l’art direction, a quella per le coreografie (di Top Hat e di The Piccolino), tra le canzoni la preferita – e la «nominata» – fu Cheek to Cheek.

guancia a guancia o «cheek to cheek»?

In Cappello a cilindro Fred Astaire è Jerry Travers, un famo-so ballerino che approda a Londra con il suo recente succes-so di Broadway e si invaghisce di una indossatrice, Dale Tre-mont, che è Ginger Rogers, molto truccata e vestita da Bernard Newman con il solito eccesso di eleganza da Tinseltown, l’ele-ganza della città dei farlocchi – potremmo tradurre –, insom-ma l’eleganza spesso pacchiana della Hollywood anni ’30.

Per errore Dale crede di capire che Jerry Travers sia spo-sato. E da qui una catena di equivoci che dovrebbero sepa-rarli e che li portano in giro per un’Europa di fantasia, fino a Venezia, dove ballano insieme la meravigliosa Cheek to Cheek, lui sospirando, sullo sfondo di finte cupole e trifore veneziane, l’immortale melodia di «Heaven, I’m in Heaven / and my heart beats so that I can hardly speak / And I seem to find the happiness I seek, / When we’re out together dan-cing cheek to cheek»; in sintesi: «Mi sembra di aver trovato la felicità che cerco, quando balliamo assieme cheek to cheek».

Sì, da quel 1935 e da Cappello a cilindro, da quella perfe-zione di leggerezza, di virtuosismo, di grazia e di stupidità, non si può dire più «guancia a guancia». Balleremo per sem-pre, a Venezia e altrove, «cheek to cheek», secondo le istru-zioni di Ginger e Fred.

E Ginger e Fred gli esseri umani? Porteranno avanti per un bel pezzo di strada insieme il loro sodalizio artistico. Si lasceranno dopo un film difficile e non particolarmente riu-scito, Vita di Vernon e Irene Casle. Lui avrà molte difficoltà

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a sostituirla come compagna di danza. Si ritroveranno dieci anni dopo con I Barkleys di Broadway. Torneranno a separar-si, lui ormai con un’aria vecchietta, ma sempre aereo e carino, e pronto anche a ruoli non danzerecci, lei, la placida bellezza bionda, capace, si scoprì, anche di ruoli drammatici. E di esistere senza di lui, la persona, diceva Graham Greene, più simile a «un Mickey Mouse umano».

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2.

Il villaggio alla Giudecca

Nel quale si racconta come, chiusa Cinecittà per la guerra, nacque a Venezia il Cinevillaggio, dove lavorò la coppia maledetta del cinema italiano, formata dalla bellissima Luisa Ferida e da Osvaldo Valen-ti...

Si chiamava Luigi Freddi e fu, per una tumultuosa stagione, il gran patron del cinema italiano. Con un ragguardevole curriculum, per l’epoca, e cioè gli anni del fascismo: futurista, legionario fiumano, redattore de «Il popolo d’Italia», squadri-sta, tra i fondatori dell’Avanguardia studentesca, via via salen-do per i rami di una carriera tutta all’insegna della fedeltà alla causa fascista. Fino a che nel 1934 fu nominato a capo della Direzione generale della cinematografia, l’organismo che dove-va esercitare il controllo ideologico e la promozione del cine-ma italiano.

Fu Freddi l’uomo sotto la cui direzione, con gesto di visio-naria intelligenza, venne creata Cinecittà, voluta da Mussolini e da lui inaugurata in gran pompa il 28 aprile 1937. Cinecit-tà, dove lavorarono bei nomi e belle intelligenze non allinea-te. E basti per tutti il nome di Emilio Cecchi.

La nuova, grande fabbrica del cinema nel 1937 produsse diciannove film. Nel 1940 quarantotto. Nel 1942, nonostante la guerra, cinquantanove, sempre secondo la linea di «intrat-

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tenimento» voluta da Freddi, che per queste cose guardava all’America. Ma l’anno dopo, nel terribile ’43, i film che usci-rono dagli stabilimenti della Tuscolana furono solo venticin-que. Gli alleati stavano risalendo il Sud dell’Italia. La libera-zione, o il disastro, a seconda degli opposti punti di vista, sembrava alle porte. La confusione nel mondo del cinema era assoluta. E le cose si fecero ancor più drammatiche quando, il 25 luglio, Michele e Salvatore Scalera, titolari della grande storica casa di produzione omonima, vennero arrestati dai badogliani, e pochi giorni dopo Guido Oliva, il direttore di Cinecittà, si tolse la vita. Mentre, nel frattempo, Luigi Freddi era finito in galera.

Peggio andarono le cose con l’8 settembre. Cinecittà, o quello che ne restava, fu presa d’assalto da bande di pove-racci che portarono via tutto quello su cui riuscivano a met-tere le mani. Mentre una Commissione germanica impose sostanzialmente ai responsabili delle industrie cinematografi-che di trasferirsi al Nord o di vedere confiscate le loro attrez-zature.

trasloco al nord

Fu così che il neoministro della Cultura e propaganda della Repubblica sociale italiana, Fernando Mezzasoma, d’accordo con Luigi Freddi, che era intanto uscito di pri-gione e che, nel nuovo regime politico del dopo 8 settembre, era tornato in auge, decise di salvare il salvabile. Cinecittà chiuse i battenti. Materiali e attrezzature furono imballati. E mentre gli eleganti edifici razionalisti progettati da Gino Peressutti venivano occupati dai nazisti che ne fecero una specie di campo di concentramento, Cinecittà, in treno, emigrò al Nord, a Venezia. Una città patrimonio dell’uma-nità che nessuno, ragionevolmente, avrebbe avuto il corag-gio di bombardare. Un fondale meraviglioso. La sede, dal 1932, del primo festival cinematografico del mondo. La

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città dove la vita sembrava ancora normale e piacevole. E dove gli Scalera, previdenti, fin dal 1942 avevano acquista-to dei terreni alla Giudecca, alle spalle del Mulino Stucky, per costruire, guarda caso, uno stabilimento cinematografi-co...

Ai primi di novembre, dunque, il cinema italiano – o quel-lo che ne restava – sbarcò a Venezia, e si installò nei padi-glioni della Biennale ai Giardini di Castello e alla Giudecca. Si aggiunse l’Istituto Luce che scelse come sua sede Palazzo Bonvecchiati, vicino a Rialto, un elegante albergo allora sede degli uffici dell’Informazione della Repubblica sociale. Insom-ma, si creò un nuovo polo cinematografico che pochi mesi dopo Fernando Mezzasoma, sistemato nel frattempo con gli uffici del Ministero a Palazzo Martinengo, in un discorso agli attori e ai tecnici delle troupe presentò con amara ironia (voluta? casuale?) come il Cinevillaggio.

benvenuti al cinevillaggio

Il Cinevillaggio (dove Umberto Lenzi, regista di genere e ormai anche di culto, cinefilo, scrittore, ha ambientato il suo divertente romanzo giallo Morte al Cinevillaggio), di film, nei voti di Mezzasoma e di Freddi, nel frattempo ricomparso, avrebbe dovuto produrne una ventina all’anno. E perciò, sep-pure «villaggio» del cinema, e perciò più piccolo della origi-nale Cinecittà, andava popolato.

Ai tecnici vennero offerti alti stipendi e la dispensa dal servizio militare e civile. Per gli attori, cosa più delicata perché ci mettevano la faccia, ebbe inizio quella che oggi verrebbe chiamata «campagna acquisti». Perché, anche se magari in quegli anni molti avevano convissuto felicemente con il cinema di regime, non tutti gli attori e le attrici del cinema italiano vedevano di buon occhio il fatto di entrare ora a far parte ufficialmente del cinema della Repubblica di Salò.

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Freddi promise, minacciò, convinse: alcuni. Altri, granitica-mente, con qualsiasi scusa, dissero no, si defilarono, si imbo-scarono, emigrarono: come Amedeo Nazzari, che se ne andò felicemente in Spagna.

Tra quelli che riuscirono a sparire senza problemi dalla circolazione ci furono Vittorio De Sica, Augusto Genina, Ales-sandro Blasetti, Clara Calamai, Massimo Girotti, Gino Cervi. Altri dissero sì. Per poter comunque lavorare, e quindi, qual-siasi attore lo capirebbe, esistere. O perché avevano un dispe-rato bisogno di denaro con cui foraggiare la costosa dipen-denza dai loro vizi non tanto segreti. In primis Osvaldo Valenti, cosmopolita, bravo attore, uomo intelligente, fascino-so, di successo. Ma perennemente a caccia di denaro per procurarsi la cocaina.

cinema e coca

Fu così che Valenti lasciò il suo rifugio in campagna, prese con sé la sua bella amica e compagna Luisa Ferida, grande bellezza italiana e, nonostante quello che spesso si sostiene, brava attrice, e si mosse alla volta di Venezia, dove con lei fu per molti mesi al centro dell’attenzione e della scena.

Di loro, belli, ambigui, inquieti e inquietanti, nel giro dei salotti e dei pettegolezzi veneziani si parlava molto. In un primo tempo si commentarono le loro abitudini lussuose. Poi, arrivato l’inverno del 1944, cominciarono a correre interroga-tivi e voci più gravi. Era vero, si chiedevano i bene informati, che Osvaldo Valenti e Luisa Ferida frequentavano a Milano la famosa Villa Triste, la sede della polizia autonoma del torturatore Koch? Era vero che partecipavano a orge «a base di droghe e sacrifici umani», come sosteneva qualcuno? O erano solo, alla fine, due poveracci agganciati dalla dipenden-za alla cocaina?

A Venezia si era trasferita intanto, per necessità, anche la grande diva del regime, la bellissima Doris Duranti,