Centomila, una storia

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Giuseppe Panfili, romance. Daniele, tanta voglia di vivere e poco tempo per farlo. Vittorio, una vita da ritrovare. Ines e il suo sorriso. Una storia d' amore, una storia di vita.

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In uscita il 30/1/2015 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine gennaio 2015 e inizio febbraio

2015 (3,99 euro)

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GIUSEPPE PANFILI

CENTOMILA, UNA STORIA  

 

 

 

 

 

 

 

 

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CENTOMILA, UNA STORIA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-851-0 Copertina: illustrazione Shutterstock.com

Prima edizione Gennaio 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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“…quanti capelli che hai, non si riesce a contare,

sposta la bottiglia e lasciami guardare

se di tanti capelli ci si può fidare.

Conosco un posto nel mio cuore dove tira sempre il vento

per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento

e non c’è niente da capire, basta sedersi ad ascoltare.

Perché ho scritto una canzone per ogni pentimento

e debbo stare attento

a non cadere nel vino

o a finire nei tuoi occhi se mi vieni più vicino.”

(Cara, Lucio Dalla, 1980)

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A Gabriele,

centomila volte al giorno

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PROLOGO

«È sbagliato?» disse Lei in un sussurro.

Non avevano bisogno di urlare, erano soli in mezzo a tanti. I loro

nasi distanti un centimetro, le loro labbra poco più, i loro occhi

distanti una vita. Ma continuavano a fissarsi.

«È sbagliato!» disse Lei in un sussurro.

Dopo ci fu il silenzio. Il silenzio non lo puoi misurare, che duri

un secondo o un anno. Il silenzio è così. È un tempo indetermina-

to che lascia riflettere, anche quando non vorresti pensare. Il si-

lenzio è come la notte, è buio che ti lascia riposare, è tempo che ti

lascia riordinare le idee, è un tempo che prima o poi finisce e tu

devi essere pronto a ricominciare.

«Tu credi che lo sia?» rispose Lui con un leggero tremito nella

voce.

Lei socchiuse gli occhi, inspirò profondamente ma non parlò

subito.

Lui prima le prese le mani, poi le carezzò il viso con la stessa

dolcezza che un padre usa con il figlio neonato, e con il pollice le

asciugò il principio di una lacrima che le si formava all’occhio

destro. La sua pelle morbida e giovane non offriva riparo al pian-

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to e alla prima lacrima ne seguirono due, poi tre, e poi chissà

quante altre ancora. Gli occhi cominciarono ad arrossarsi e le

palpebre cercarono invano di non chiudersi per trattenere più al

lungo possibile il sapore del sale, il sapore della tristezza, il sapo-

re della gioia.

Lei si credeva forte, Lei non piangeva. Non lo faceva più da

quando aveva tredici anni e si ripromise di non piangere più. Lo

giurò al suo papà, lo giurò a se stessa, lo giurò al mondo. Non a-

vrebbe pianto mai più. Ma si sa, gli occhi non li puoi controllare,

così come non si controlla il vento. Vento di zefiro quel giorno,

brezza calda e menzognera. E il suo giuramento era stato già in-

franto decine di volte, ma mai dinnanzi a qualcuno. Semplice-

mente quando aveva voglia di piangere lei si chiudeva in un an-

golino e lasciava che le lacrime scorressero giù da sole, fino a che

avessero voluto farlo. Ma stavolta era diverso, c’era Lui a

guardarla.

Maledetto Lui.

«Non osare smetterla di guardarmi! Lascia che questi stupidi oc-

chi la smettano, e non ridere di me!» disse Lei con voce autoritaria.

Lui non rise, anzi il suo viso si accigliò e la sua mano, la stessa

mano che era stata così tenera sulle sue guance, si irrigidì. Provò

a ritirarla ma Lei gli cinse il polso con le sue dita e lo costrinse a

rinunciare. Immerse il suo piccolo viso nella sua grande mano e

finalmente si abbandonò completamente al pianto. Gli occhi, il

naso, poi la fronte, poi ancora gli occhi, poi gli zigomi trovarono

riparo in quel porto dell’oblio che era la sua mano. E poi con la

bocca cominciò a baciargli il palmo, lì dove i chiromanti posizio-

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nano le linee della vita, lì dove la vita era ferma a quell’attimo, lì

dove Lui non poteva vederla. Lei singhiozzò qualche parola, Lui

non capì, ma non chiese nulla. Il destino in ogni momento ci pone

tante domande a cui non sempre siamo in grado di rispondere, ma

quella volta Lui fu sicuro di conoscerla. Lasciò che lei si calmas-

se, prese la propria mano e la baciò nello stesso punto in cui Lei

la stava baciando. Si accorse che anche i suoi occhi erano umidi

ma non se ne preoccupò. Infilò le sue dita tra i capelli della ra-

gazza e si avvicinò a Lei. Superò quel muro di un centimetro, su-

però quel muro di una vita. Poggiò le sue labbra alle sue e non

trovò né resistenza, né attesa. Trovò carne e saliva, affetto e desi-

derio, lacrime e rossetto. Trovò Lei così come l’aveva sognata,

trovò la via che aveva perduto, trovò il silenzio che è infinito. La

baciò, e lei sorrise mostrando i denti. Lui disse: «Se sia sbagliato

o no lascia che sia così, per sempre». E la baciò per la seconda

volta.

Quella fu la seconda volta che baciò una donna che non fosse sua

moglie.

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I

Lui ha un nome e un’età.

Come un’etichetta che ti si incolla addosso. Il nome ti identifica e

l’età ti classifica. Il nome ti distingue dagli altri, fa si che di una

moltitudine si possa cogliere la singolarità. E gli uomini amano

essere chiamati per nome. Il nome ti fa sentire speciale, diverso

dagli altri, anche se il tuo nome è il più comune, anche se è il più

gridato, sentirtelo dire da un senso di unicità. Quante volte per

strada si sente urlato il proprio nome e non se ne fa caso perché la

sensazione è che quelle lettere non ti appartengano, in quel mo-

mento non cerchino te. E quante volte, invece, ci si gira a cercare

non la fonte di quel suono, ma la destinazione, per guardare per

un attimo il tizio che ha provato a copiarti il nome, senza però

nemmeno immaginare che quel nome è il tuo, solo tuo. Il nome è

importante, tanto che nelle famiglie c’è ancora la tradizione di

trasmetterlo di nonno in nipote. Ma, si badi bene, non lo si fa per

rispetto dell’anziano genitore o per tradizione, lo si fa per conser-

vare quel suono tanto caro, quell’identità tanto amata. Il nome è

una cosa bella.

Lui si chiama Daniele.

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L’età, beh quella non è una cosa bella. L’età ti pone dei confini,

qualunque essa sia. Troppo giovane per quella cosa, troppo vec-

chio per quell’altra. Troppa differenza di età per fare questo,

troppo poca per fare quell’altro. Quando sei bambino non ti è

permesso volare, quando diventi un adulto ti manca il coraggio di

farlo, quando invecchi ti mancano le ali che avevi da bambino.

Quando ti presenti a una persona nuova, se hai l’astuzia di non

rivelargli la tua età, lascerai che in essa cominci a suonare un pic-

colo tamburo, che lei potrà ignorare inizialmente, ma poi il suo

tam tam sarà talmente forte da farla esplodere e far riversare fuori

dalla sua bocca le tanto agognate parole: «ma perché, tu quanti

anni hai?». E attenzione ancor maggiore va all’espressione del

suo viso dopo la risposta.

Lui, Daniele, ha avuto sei anni e una cicatrice sul viso.

Lui ha avuto dieci anni e un gelato al cioccolato.

Lui ha avuto sedici anni e una camicia bianca.

Lui ha avuto ventidue anni e ha conosciuto Carla e l’amore. Ha

capito cosa significa essere parte di qualcuno.

Lui ha avuto ventisei anni e ha giurato innanzi a Dio di essere fe-

dele solo a Carla.

Lui ha avuto ventotto anni e ha capito che la vita è un vero mira-

colo e ha rivisto i suoi stessi occhi nelle pupille dei suoi due ge-

mellini appena nati.

Daniele aveva trentadue anni e vedeva le scene della sua vita co-

me tanti scatti di una vecchia polaroid. Il suo banco di scuola, i

suoi professori, il gelato al cioccolato, la sua camicia bianca, la

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sua borsa dei libri, Carla, i suoi bambini, i capelli neri come

l’inchiostro di Lei, la bocca di Lei, l’alito di Lei.

Daniele aveva trentadue anni.

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II

Lei continuò a fissarlo per un po’, asciugò le sue lacrime con la

manica della maglia, tirò su col naso e si alzò dalla panchina sulla

quale erano seduti.

Fu come spezzare un incantesimo, come risvegliarsi da un placi-

do sonno, come tuffarsi in mare da una scogliera. Fu solo allora

che Lei si accorse che lì intorno il mondo era ancora in movimen-

to, e forse non si era mai fermato come le era apparso. Bambini

che si rincorrevano, due ragazzi poco più che adolescenti che liti-

gavano a voce alta, un uomo che portava a spasso il suo cane.

Grida, risate, rimproveri, il calpestio dei piedi sul selciato,

l’abbaiare di un cane, tanti suoni, tanto frastuono che fino a qual-

che attimo prima sembrava non esistere. Strano senso l’udito.

Strano, ma intelligente. Strano, ma furbo. Se attento e volitivo

può esser capace di percepire il benché minimo fruscio, se stanco

e non curante lascia sfuggirsi milioni di suoni diversi. O forse, o

meglio, il contrario.

Si girò verso Lui, cercando con avidità i suoi occhi, i suoi occhi

verdi, e con un cenno dell’indice lo invitò a seguirla. Lui si alzò e

le strinse la mano, dita per dita, facendo forza nella presa, come

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se avesse avuto paura che lei potesse fuggire, quasi fino a sentir

scorrere il sangue delle sue vene.

Lei fece per incamminarsi e Daniele le disse: «Dove andiamo?

Non possiamo lasciare questa panchina».

Tornò a sedersi.

«Non possiamo rimanerci per sempre».

«Ma possiamo restarci ancora un po’».

«E a cosa servirebbe? Prima o poi dovremmo comunque ritornare

a camminare. Non possiamo restare fermi per sempre. Me lo hai

insegnato tu, ricordi?». Un sottile velo di rabbia coprì i suoi occhi

scuri e continuò: «Possiamo dimenticare tutto, far finta di niente,

lasciare questo parco e tornare a un’ora fa. O a un mese fa. O a

quando…».

«Mi fraintendi. Non posso né voglio tornare a un qualsiasi punto

della mia o della tua vita. È che su questa panchina, o forse su di

un’altra qui nelle vicinanze-che importanza ha una panchina?-ho

scoperto di potermi ancora fidare di qualcuno. Ma questo è un ri-

cordo, è il passato. Oggi, sempre su una panchina, ancora una

volta mi sto fidando. E ho paura di andare via».

«Che bisogno hai di fidarti di me? Hai paura che io ti possa rovi-

nare la vita? Che possa chiederti ancora qualcosa?». La sua voce

era ora un miscuglio inestricabile di paura, ira e dolore. «Credi

che sia felice di questa situazione?».

Lui sospirò. Sospirava sempre quando era contrariato. E Lei lo

sapeva. E Lei amava vederlo sospirare. E lei amava sentirlo so-

spirare. E Lei amava Lui.

Il sospiro.

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Gonfiarsi d’aria, trattenerla ed espellerla tutta insieme. Rubare

quanta più aria al vento, pensare e scoprire di doverla restituire,

ma non un poco alla volta, tutta insieme in un gesto plateale, ru-

moroso, teatrale. “Riprendetevi la vostra aria, tanto a me non ser-

ve più, però per un attimo è stata mia, e io in quell’istante ho pen-

sato. Ho pensato a tante cose e ho deciso di ridarvi l’aria, tanto a

me non serve. Non serve. Perché con i polmoni pieni non posso

parlare, invece in quell’attimo lì, quando il mio petto era saturo

d’aria, lì ho pensato di parlare e a cosa dire”. Tutto in un sospiro.

Lui sospirò.

«Mi fraintendi ancora. Di te ho sempre avuto la massima fiducia.

È di me che sto tornando a fidarmi. Del mio essere io, della mia

volontà, delle mie mani, dei miei piedi, del mio naso. Della mia

vita. So di non poterti chiedere nulla, so che posso solo farti del

male, so che sto tradendo tutto quello che ti avevo promesso, ma

so che ciò mi rende vivo. Perdonami se puoi. Ma non rinnegare

mai questo giorno».

Maledetto Lui e maledetta la sua lingua.

Maledetto tutto.

Lei asciugò ancora una lacrima dal suo viso, fissò Daniele e i suoi

occhi verdi. Fissò la panchina riluttante a lasciarli andare via-

ancora una volta la panchina, come se fosse essa a creare quel le-

game, quell’atmosfera, ma in fondo non era nient’altro che una

panchina- e disse: «Ti ho sempre amato, che idiota che sono».

Si voltò e fuggì via.

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Lui non provò nemmeno a inseguirla. Sapeva che non l’avrebbe

mai raggiunta, Lei aveva bisogno di scappare e chi era Lui per

impedirglielo?

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III

Tum…tum…tum…tum…

Si contrae, si dilata.

Batte.

Pompa.

Pompa sangue a una velocità assurda, non si ferma, centomila

volte al giorno.

In quell’incredibile intrico di arterie e vene a raggiungere ogni

punto del corpo.

Tum…tum…tum…tum…

Il cuore.

Instancabile.

Accelera e rallenta a seconda del bisogno.

Lì, nascosto al centro del petto, protetto, invisibile.

Batte, senza fermarsi.

Da sempre.

Dall’inizio alla fine.

Centomila e passa volte al giorno.

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IV

Daniele restò su quella panchina ancora un po’. L’aveva vista an-

dare via ed era rimasto fermo. In cuor suo sapeva che quella era

la cosa più giusta da fare in quel momento. Controllò infinite vol-

te il suo telefonino con la vana e stupida speranza di trovare un

cenno di Lei, ma nulla. Pensò di chiamarla, di scriverle qualcosa,

ma non lo fece. Era arrivato il momento di capire, capire per dav-

vero cosa fare. O forse era arrivato il momento di lasciare stare

tutto.

Restò a fissarsi le scarpe per un tempo indefinito, poi, dopo aver

dato l’ultimo, inutile, sguardo al suo telefono, si alzò e si avviò

verso casa sua.

Il viaggio non durò che pochi minuti ma a lui sembrarono ore.

Parcheggiò, scese dall’auto, aprì il portone del palazzo e salì le

scale. Arrivato al di fuori della porta d’ingresso, si fermò per un

attimo, si passò il dorso della mano sulle labbra in un gesto quasi

automatico, come per pulire la bocca dal Suo sapore. Fu tutto inu-

tile. La bocca gli bruciava, ardeva di voglia, sapeva di sale, sape-

va di desiderio, sapeva di fumo. Sapeva di un sapore che era il

Suo sapore.

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Sapeva di tradimento, sapeva di gioia, sapeva di Lei, sapeva di

sogno, sapeva di favola, sapeva di una bella canzone che cantava

da bambino. Sapeva di parco, sapeva d’erba, sapeva sempre di

più di Lei.

Sapeva di un sapore che era il Suo sapore, e che Daniele non vo-

leva affatto cancellare.

E Lui ne era a conoscenza. Sapeva che nei suoi occhi Carla a-

vrebbe letto tutto. E non l’avrebbe perdonato. E Daniele non si

sarebbe perdonato mai. Amava sua moglie, amava i suoi bambini.

Amava Lei.

Lo aveva sempre saputo, fin dal primo incontro. O no. L’amava

da quando l’aveva vista sorridere. O no. L’amava da quando ave-

va cominciato a perdere il sonno per Lei. O no. L’amava. O no.

Si fece coraggio e andò incontro al suo patibolo. Dito indice de-

stro teso e forte sul campanello. Un trillo.

Rumore di passi. Le voci dei gemellini che gioiosi gridano: «Pa-

pà, è papà!». La voce di Carla. La chiave che girava nella toppa.

Sembrava la scena clou di un film ad alta tensione. Mezzo giro.

Carla aprì la porta, lo guardò, distratta, si alzò sulle punte, lo ba-

ciò: «Ciao amore, mi dai una mano a fare il bagnetto ai bimbi? Se

te ne occupi tu io, intanto, preparo la cena». Si voltò e si diresse

verso la cucina. Daniele restò per qualche secondo imbambolato

sulla soglia, grugnì un incomprensibile «sì», si tolse le scarpe,

scarpe sporche di terra, e raggiunse il bagno.

I gemellini erano immersi fino alla cintola nella vasca da bagno,

sommersi da acqua calda e bollicine di schiuma. Il maschietto

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schizzava la piccolina che, più furba del fratellino, si lasciava ba-

gnare e cominciava a piangere chiedendo l’aiuto del papà.

Daniele era ancora intontito. Si avvicinò ai bambini, li baciò, li

rimproverò dolcemente, immerse le sue mani nell’acqua, la stessa

acqua che stava lavando i suoi figli, ne raccolse un pochino e si

sciacquò il viso. Il sapore di Lei per una qualche inspiegabile ra-

gione era andato via.

Ma non per molto.

Arrivò la notte, e il buio prese il sopravvento sulla luce. E tutto

ciò che sembrava nascosto tornò a splendere.

Daniele era nel suo letto, provò a leggere un libro ma non ci riu-

scì. Carla era accanto a Lui, bellissima come sempre, anche col

pigiama, senza trucco e i capelli scompigliati. Spense la luce, si

girò e si rigirò, ma Morfeo sembrava essersi scordato di Lui. O-

gni qualvolta chiudeva gli occhi si ritrovava su quella panchina.

Maledetta panchina. Santa panchina. Carla si svegliò, lo abbrac-

ciò e Daniele trovò un po’ di pace.

“La notte porta consiglio”, recita un vecchio proverbio. Ma quella

notte portò pensiero. E sgomento. E paura. E coraggio.

Lei era in camera sua, si stava preparando per uscire con gli ami-

ci. Aveva gli occhi gonfi, aveva pianto troppo oggi. Li avrebbe

giustificati dicendo che aveva fumato. O che aveva una forte con-

giuntivite. O, ma che gliene fregava a loro se aveva gli occhi gonfi?

Ricominciò a piangere. E quello stronzo di Daniele non andava

via. I suoi denti, la sua barba, la sua camicia, la sua aria. No,

quella sera non uscirà. Forse sarebbe stato meglio mettersi a letto.

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No, fanculo Lui e quel maledetto bacio. “Stasera si esce, stasera

si spacca il mondo.”.

Anche se il mondo era già stato spaccato.

Ancora un po’ di fard, matita, fondotinta, rossetto, un ultimo

sguardo allo specchio e via. Stanotte si ritorna nel passato. Agli

amici di un tempo, a quelli che parlavano poco e dicevano tante

sciocchezze. A chi baciava usando la lingua e basta. A una disco-

teca di provincia, tanto rumore e tanta confusione. Sì, perché per

non pensare è necessaria la confusione. Lei ci credeva, prese la

sua borsa, scese di casa dove una macchina l’aspettava. Salutò

sorridendo, entrò, si sedette sul sedile posteriore. Si sentiva odore

di birra e di spensieratezza. «Si parte e si va a fare follie. Stanotte

si ritorna al passato. Mente libera e cuore leggero».

“Stanotte Lui non esiste”.

Nel momento stesso in cui Lei lo pensò diede di nuovo forma al

suo essere. Daniele c’era e non sarebbe andato via, almeno per

quella notte.

Lei strinse i pugni, rubò una sigaretta al ragazzo che le sedeva vi-

cino, inspirò a fondo e chiuse gli occhi. Si girò verso lui e sorri-

dendo lo baciò. Il ragazzo non si fece aspettare, schiuse le labbra

e affondò la sua lingua nella sua bocca. Lei ricambiò.

“Fanculo Daniele!”.

Si staccarono, lui sorrise e le cinse le spalle con il braccio. Provò

a baciarla di nuovo. Lei rifiutò e urlò al guidatore di fermarsi.

L’auto accostò al margine della strada, lei uscì di corsa e vomitò.

Vomitò cibo, aria, sapori. Vomitò rabbia e veleno. Vomitò passa-

to e rimpianto.

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E pianse ancora una volta.

Il suo nome era Ines e dopo qualche giorno avrebbe compiuto di-

ciannove anni.

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V

Aveva gli occhi più belli che Lui avesse mai visto.

Occhi forse troppo grandi per il suo piccolo viso.

Occhi vivi, occhi nudi, occhi giovani, occhi neri.

Neri.

Neri e profondi.

Pozzi in un deserto, individuabili solo per il leggero bagliore del

riflesso del chiaro di luna.

Profondi tanto da gettarci all’interno un sassolino, contare i se-

condi fino a sentire il sordo tonfo dell’impatto col fondo: uno,

due, trecento, mille, centomila prima dell’arrivo.

Neri da rendere indefinito il limite tra pupilla e iride.

Gli occhi più belli che Lui avesse mai visto.

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VI

Daniele non dormì che poche ore quella notte. Si alzò dal letto

precedendo di qualche minuto il suono della sveglia e si infilò

sotto la doccia. Posizionò il miscelatore sul massimo del calore e

lasciò che il suo corpo si scottasse al contatto con gli zampilli

d’acqua. Ben presto la piccola stanza da bagno si riempì di vapo-

re. Uscì dalla cabina della doccia, indossò l’accappatoio e fece

due passi verso lo specchio. Dall’esterno non si sentiva nulla,

probabilmente dormivano ancora tutti. Oggi era un giorno impor-

tante, di quelli che nella vita non si avrebbe mai, e poi mai, voluto

vivere. Eppure era arrivato. Tanto valeva affrontarlo di petto, con

il più semplice dei sorrisi, con il vestito più elegante, con il viso

rasato. Prese un asciugamano e pulì un poco lo specchio intera-

mente oscurato dal vapore. Pennello, sapone da barba e rasoio.

Alzò il capo e si guardò. Le prime rughe di un’età che passa,

qualche ospite bianco tra i peli biondi del viso e sulla guancia si-

nistra il segno indelebile di una cicatrice. Oggi piccolissima, oggi

segno del tempo.

Tempo che fu.

Segno di follia, segno di rabbia. Segno della sua diversità.

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E la sua mente viaggiò ancora una volta, dopo tanto ma tanto

tempo, a quella mattina di ventisei anni prima.

Il sole filtrava stanco dai finestroni che davano sul cortile, crean-

do buffi giochi di ombre su ventiquattro bambini chini, penna in

mano, sui loro quaderni a imbrattare fogli bianchi a righe larghe

con strani simboli chiamati lettere dagli adulti. Solo uno dei pic-

coli, nella penultima fila, nell’ultimo banchetto a destra, aveva

già finito di scrivere e con la penna tamburellava ritmicamente

sulla copertina di un libro. Daniele aveva già imparato a leggere e

a scrivere da più di un anno e adesso si annoiava a ripetere quei

tediosi esercizi che avevano rovinato i suoi pomeriggi di giochi e

di pallone, a causa di quella ossessione della sua mamma per la

quale lui doveva imparare prima degli altri. Ogni tanto alzava lo

sguardo verso la maestra, con occhi quasi innamorati per quella

giovane donna e per quello che rappresentava. Poi il suono della

campanella che segnava la fine di un’altra giornata di scuola, mi-

sto a voci gioiose di altri bambini. Ma non alla sua voce.

Daniele si alzò per ultimo dal suo posto, consegnò il quaderno

con i compiti svolti e si mise in fila con gli altri. Fila per due,

mano nella mano, in ordine mai casuale, ma sempre stabilito: Da-

niele dinnanzi a tutti a stringere la mano della maestra. Poi tutti

fuori in cortile dove i genitori aspettavano con impazienza. Lui,

come al solito, non cercò il viso della mamma, sapeva già che an-

che oggi avrebbe fatto tardi, e si strinse ancora di più alla sua in-

segnante.

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La mamma arrivò, come da copione, quando già tutti gli altri

bambini erano andati via. Scambiò qualche parola veloce di rin-

graziamento con la donna che aveva in consegna il suo figliolo e

lo portò via.

«Come è andata oggi a scuola, amore?».

«Perché sei sempre l’ultima?».

«lo sai che lavoro…».

«Papà dice che potresti non farlo…».

«Papà dice un sacco di cose…allora come è andata?».

«Bene mamma! Mi porti sempre dalla nonna?».

«Amore lo sai che devo tornare a lavoro, ma ti prometto che sta-

sera torno presto e stiamo un po’ insieme…».

«Papà dice un sacco di cose…e anche tu…».

La mamma accompagnò Daniele dalla nonna e andò a riprenderlo

alle nove passate. Come tutti i giorni.

Ad attenderli a casa c’era il papà, appena tornato anche lui da la-

voro, livido in viso. Come tutti i giorni.

Per un bambino di sei anni non è facile comprendere gli adulti,

ma è più facile capire le tensioni nell’aria. Daniele aveva già ce-

nato dalla nonna, salutò il papà, gli parlò per qualche minuto del-

la scuola e andò nella sua cameretta. L’uomo non l’aveva ascolta-

to. Come tutti i giorni.

La cena fu messa in tavola in silenzio. Il papà bisbigliava com-

menti offensivi e la mamma fingeva di non capire. L’uomo bevve

un primo bicchiere di vino, un secondo, una bottiglia.

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Ne chiese un’altra alla moglie. La donna rifiutò dandogli

dell’ubriacone. Rumore di sedie che si spostano, di stoviglie, pa-

role incomprensibili per un bambino come “puttana” o “bastardo”.

Parole comprensibili come: «Se sto con te è solo a causa di quel-

lo, lo avresti dovuto “togliere”».

Daniele ascoltava in assoluto silenzio accovacciato dietro la porta

della camera da letto, chiedendo a Gesù che tutto finisse presto.

Ancora rumore, stavolta di porte che sbattono. Ancora insulti, la

mamma che gridava di lasciarla stare. Daniele non riuscì più a

sopportare, uscì dal suo rifugio corse in cucina e vide il padre che

inveiva contro la madre. Con occhi gonfi di lacrime urlò qualcosa

con tutto il fiato che aveva in gola e si avventò contro l’uomo.

Il papà lo sentì arrivare, si voltò in maniera goffa, gli effetti

dell’alcol si fecero sentire nei suoi riflessi, e col dorso della mano

destra colpì violentemente una bottiglia vuota sul tavolo.

Una bottiglia di vino.

Il vetro andò in frantumi e una grossa scheggia puntò dritto al vi-

so del bambino. L’impatto fu violento, proprio sotto lo zigomo

sinistro, a qualche centimetro dall’occhio.

Daniele sentì l’urto, provò un forte dolore ma rimase immobile.

Chinò solo il capo a vedere il suo sangue che cadeva copioso in

terra, che si mescolava ai residui di vino e vetro che ricoprivano il

pavimento.

Il sangue e il vino avevano lo stesso colore.

Rialzò lo sguardo sull’uomo e si sentì afferrare dalle sue braccia

possenti. Era forse un abbraccio quello? Daniele non ricordava

quella sensazione col papà. Vide avvicinarsi la mamma e sentì

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parlare di corsa in ospedale. Vide le labbra del papà muoversi per

dirgli qualcosa.

Ma stavolta era Daniele a non ascoltarlo.

Fissò il genitore negli occhi, poi svenne.

Quella fu l’ultima volta che vide suo padre.

Si risvegliò dopo qualche ora col viso livido e una grossa benda

sotto l’occhio. C’era la mamma con lui, solo lei. Gli teneva forte

la mano e gliela baciava.

La voce di Carla lo ridestò e i ricordi si dissolsero via dalla sua

mente così come il vapore dal vetro. “Oggi sarà un giorno impor-

tante” pensò. “ Tanto vale affrontarlo nel migliore dei modi”.

Spalmò il sapone sul suo viso, cancellò col bianco della schiuma

la sua piccola cicatrice e cominciò a radersi.

Page 32: Centomila, una storia

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VII

Tum…tum…tum…tum…

Centomila volte al giorno. È il suo lavoro, è il suo fine, è la sua

natura. Il cuore.

Batte.

Spinge.

Il sangue.

Liquida linfa vitale per il corpo. Portatore d’ossigeno, messagge-

ro di notizie. Poche gocce terminano la loro corsa in un canale

d’acciaio, si fermano in una provetta di plastica per attendere il

loro destino. Per comunicare.

Notizie non sempre buone.

Fine anteprima.Continua...