Catechesi Catechesi e comunicazione - 27 ago 2017 · La comunicazione è catechesi, e la catechesi...

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Catechesi e comunicazione - 1 Intervento di don Giuseppe Lonia Scuola di formazione regionale per Equipe UCD Domenica 27 agosto 2017 ALCUNE PREMESSE Come comunichiamo oggi? Cosa ci differenzia dai nostri padri e dai nostri nonni? 1. CATECHESI E COMUNICAZIONE Permettetemi di cominciare la riflessione di questa mattina dalle parole del titolo: Catechesi - Comunicazione, anche perché sarà questa la prospettiva secondo la quale vogliamo interrogare la nostra vocazione nell’oggi della Chiesa. Io metterei in relazione questi due termini non solo attraverso una congiunzione (che in fondo per chi legge in modo superficiale potrebbe far pensare ad un semplice logica di giustapposizione per cui accanto alla catechesi c’è anche la comunicazione e viceversa) ma anche, più ontologicamente, attraverso un predicato verbale. La comunicazione è catechesi, e la catechesi è comunicazione. a. La Comunicazione è missione La comunicazione (specie nella sua veste di comunicazione mediale) è anche una missione, nel senso che essa contiene, inevitabilmente, una dimensione etica che va ben aldilà della pura dimensione informativa e/o di intrattenimento. Penso che tutti siamo d’accordo nel pensare che ci sia una grossa differenza tra “comunicazione” e “informazione”… b. La Catechesi è comunicazione A sua volta, la catechesi, ovvero l’opera evangelizzatrice della Chiesa, è anche, inevitabilmente, comunicazione. La catechesi, l’evangelizzazione e ogni forma di missione ecclesiale è comunicazione perché incarnare il Vangelo nella società mediatizzata, non significa più “annunciare” la fede tramite i media, in una prospettiva “strumentalizzante” che ha mostrato i suoi limiti, ma “comunicare” la fede tenendo conto della inevitabile mediazione linguistica e culturale che i media (intesi non come semplici mezzi ma come un “ambiente di vita”, come l’habitat culturale dove gli individui vivono le loro esistenze) comportano.

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Catechesi e comunicazione - 1

Intervento di don Giuseppe Lonia

Scuola di formazione regionale per Equipe UCDDomenica 27 agosto 2017

ALCUNE PREMESSE

Come comunichiamo oggi? Cosa ci differenzia dai nostri padri e dai nostri nonni?

1. CATECHESI E COMUNICAZIONE

Permettetemi di cominciare la riflessione di questa mattina dalle parole del titolo: Catechesi - Comunicazione, anche perché sarà questa la prospettiva secondo la quale vogliamo interrogare la nostra vocazione nell’oggi della Chiesa. Io metterei in relazione questi due termini non solo attraverso una congiunzione (che in fondo per chi legge in modo superficiale potrebbe far pensare ad un semplice logica di giustapposizione per cui accanto alla catechesi c’è anche la comunicazione e viceversa) ma anche, più ontologicamente, attraverso un predicato verbale. La comunicazione è catechesi, e la catechesi è comunicazione.

a. La Comunicazione è missioneLa comunicazione (specie nella sua veste di comunicazione mediale) è anche una missione, nel senso che essa contiene, inevitabilmente, una dimensione etica che va ben aldilà della pura dimensione informativa e/o di intrattenimento. Penso che tutti siamo d’accordo nel pensare che ci sia una grossa differenza tra “comunicazione” e “informazione”…

b. La Catechesi è comunicazioneA sua volta, la catechesi, ovvero l’opera evangelizzatrice della Chiesa, è anche, inevitabilmente, comunicazione. La catechesi, l’evangelizzazione e ogni forma di missione ecclesiale è comunicazione perché incarnare il Vangelo nella società mediatizzata, non significa più “annunciare” la fede tramite i media, in una prospettiva “strumentalizzante” che ha mostrato i suoi limiti, ma “comunicare” la fede tenendo conto della inevitabile mediazione linguistica e culturale che i media (intesi non come semplici mezzi ma come un “ambiente di vita”, come l’habitat culturale dove gli individui vivono le loro esistenze) comportano.

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La catechesi non “usa” la comunicazione: è essa stessa comunicazione, perché adotta la stessa struttura della Rivelazione divina. È tuttavia una comunicazione molto particolare che assume Cristo, “mediatore e pienezza della rivelazione” come modello. Pertanto la comunicazione catechistica ha un suo “perché” (la salvezza) e un suo “come” riassumibile nel principio di Incarnazione. Questo obbliga la comunicazione catechistica ad avere alcune caratteristichefondamentali: uno spessore testimoniale e l’esigenza di una risposta.

Perché la catechesi sia veramente “comunicazione” occorrono, dunque, conoscenze, testimoni e un linguaggio appropriati. Ed è qui che si profilano due delle scelte strategiche più importanti, a mio parere, sulle quali la Chiesa italiana ha investito con sempre più cura e determinazione: la “professionalizzazione” dei suoi operatori pastorali, culminata con la formazione di quella figura-cardine che è l’“animatore della comunicazione e della cultura” e il profondo rinnovamento del linguaggio pastorale.Se è vero, com’è vero, che il miglior modo di comunicare un messaggio evangelico è stato sempre quello di incarnarlo nella “testimonianza”, oggi questa testimonianza si traduce, necessariamente, nella conoscenza dei media e della cultura che essi contribuiscono a creare, si traduce nel fare propria la nuova cultura e il nuovo linguaggio, l’unicoin grado di raggiungere quelle fasce di fedeli (penso ai giovani, soprattutto) che si mostrano sempre più refrattarie ad ascoltare il messaggio evangelico “annunciato” con il linguaggio tradizionale della Chiesa, ma che pure accorrono a frotte ad ascoltare le parole di un Papa come è stato Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e, oggi, Francesco, sapienti comunicatori della fede in una cultura mediatizzata.

2. PARTIAMO DAL TERMINE…Ci vogliamo domandare anzitutto: che significa Comunicare? Significa lasciar passare, non porre barriere né in entrata né in uscita a tutto ciò che di volta in volta la situazione vissuta richiede; il che significa sostanzialmente apertura, capacità di ascolto che è un mettersi in sintonia e, poi, capacità di travasare quel che si muove dentro in risposta.Secondo l’etimologia della parola il termine “comunicare” deriva dal latino “communis” e vuol dire mettere in comune. Quindi:

- condividere conoscenze;- creare un rapporto;- cercare un linguaggio comune;- dialogare e soprattutto ascoltare.

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La comunicazione è un’azione che prevede l'esistenza di alcuni elementi fondamentali:

Emittente: è la persona che avvia la comunicazione attraverso un messaggio.

Ricevente: accoglie il messaggio, lo decodifica, lo interpreta e lo comprende.

Codice: parola parlata o scritta, immagine, tono impiegato per "formare" il messaggio.

Canale: il mezzo di propagazione fisica del codice (onde sonore o elettromagnetiche, scrittura, bit elettronici).

Contesto: l'"ambiente" significativo all'interno del quale si situa l'atto comunicativo.

Referente: l'oggetto della comunicazione, a cui si riferisce il messaggio.

Messaggio: è ciò che si comunica e il modo in cui lo si fa.

Il processo comunicativo ha una intrinseca natura bidirezionale, quindi si ha una comunicazione quando gli individui coinvolti sono a un tempo emittenti e riceventi, ma anche messaggi.

Di solito ciò avviene attraverso il linguaggio, la parola; ma la parola acquista una sua incisività - in positivo o in negativo - nella misura in cui è rivestita - accesa potremmo dir meglio - dell’intenzionalità profonda da cui scaturisce.C’è un linguaggio non solo parlato, ma espresso attraverso atteggiamenti del corpo: un tic nervoso (che denota insofferenza, fretta), un chinarsi premuroso (che denota il prendersi cura), un aprire le braccia (che denota accoglienza o impotenza), intonazioni della voce (l’acutezza dell’esasperazione, la pacatezza della serenità), profondità di sguardi (che lanciano lampi d’intesa, grida d’aiuto, urla di paura, trasalimenti emozioni condivise), movimenti di ciglia per ira o meraviglia ed altro ancora...: anche questa è comunicazione.

3. SAPER COMUNICARE…La maggior parte delle persone è convinta di saper comunicare, solo perché lo fa dalla nascita. Ma comunicare non significa “saper comunicare”. La nostra comunicazione ha un aspetto di contenuto, o razionale, ”cosa dico”, ed un aspetto di relazione, o emozionale, ”come lo dico”. L’attenzione dell’interlocutore, che ci piaccia oppure no, è influenzata principalmente dagli aspetti emozionali e, poi, da quelli razionali. Chi comunica, perciò, non può preoccuparsi solo di “cosa dice”. Molti sono convinti che, per saper comunicare, la cosa più importante sia sapersi esprimere. L’arte più preziosa, in realtà, è “saper ascoltare”.

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Non si tratta di un talento innato, ma di un’abilità da allenare. Il mondo è pieno di persone che ascoltano soprattutto... se stesse. Il paradosso della nostra società è che si parla tantissimo ma si comunica poco. E si comunica poco perché si ascolta poco. Ovviamente ascoltare significa fare molto caso alle parole che gli altri dicono… e non dicono. E a come le dicono, perché non è affatto vero che una frase equivale a un’altra e che conta solo andare al succo delle affermazioni. Ascoltare significa ugualmente osservare con grande attenzione i volti, gli sguardi, i gesti, tutto ciò che può essere significativo. Spessissimo da questi elementi si viene a sapere molto di più che dalle parole.Per comunicare, dunque, non basta accontentarsi di avere trasmesso ciò che volevamo dire (quante volte lo avete fatto e l'altra parte non ha capito nulla o ha travisato le vostre parole?). Se veramente vogliamo ottenere successo quando comunichiamo con gli altri, dobbiamo mettere il destinatario nella situazione di capire ciò che noi gli abbiamo comunicato. Oserei affermare che tutti possono comunicare, ma non tutti sanno farsi capire. Da ciò deriva che saper comunicare è un'arte. Un'arte che secondo me si può imparare. Ma per impararla occorrono buona volontà (tanta) ed esercizio continuo dei metodi che regolano le moderne tecniche di comunicazione.

1. LA SFIDA DELLA CHIESA NELL’ERA DIGITALE

Il primo areopago del tempo moderno – affermava Giovanni Paolo II nel 1990 – è il mondo della comunicazione, che sta unificando l’umanità rendendola – come si suol dire – “un villaggio globale” (Redemptoris missio, 37 – in “Comunicazione e Missione”, 25).

La capacità di utilizzare i nuovi linguaggi è richiesta non tanto per essere al passo coi tempi, ma proprio per permettere all’infinita ricchezza del Vangelo di trovare forme di espressione che siano in grado di raggiungere le menti e i cuori di tutti (Benedetto XVI, Messaggio per la 47a GMCS, 12 maggio 2013).

1. La Chiesa e la comunicazione del Vangelo

Il Concilio Vaticano II ha segnato un progresso fondamentale nella considerazione delle comunicazioni sociali per la vita e la missione odierna della Chiesa. Il fatto che tra i primi documenti approvati nel 1963 dai padri conciliari, assieme alla Costituzione Sacrosanctum concilium sul rinnovamento liturgico, ci sia il Decreto Inter mirifica, interamente dedicato alle comunicazioni sociali, testimonia quanto questo tema sia diventato centrale nel rapporto tra la Chiesa e il mondo contemporaneo.

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Certo, l’attenzione alle dinamiche comunicative non è certo una novità perché fin dalle origini della Chiesa l’impegno per l’evangelizzazione si è dovuto misurare con le grandi sfide della comunicazione. L’annuncio del Vangelo appartiene al mandato originario affidato da Gesù agli apostoli:

«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzando nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19­20; cf Mc 16,15-16).

Già San Paolo scrivendo alla comunità di Corinto affermava:

Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! (1Cor 9,16).

E Paolo VI poteva affermare in modo lapidario:

La Chiesa si sentirebbe colpevole di fronte al suo Signore se non adoperasse questi potenti mezzi, che l’intelligenza umana rende ogni giorno più perfezionati; servendosi di essi la Chiesa predica sui tetti il messaggio di cui è depositaria; in loro essa trova una versione moderna ed efficace del pulpito. Grazie ad essi riesce a parlare alle moltitudini (Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, 45).

La Chiesa quindi si interroga continuamente su quali siano le forme più adeguate per annunciare, e quindi comunicare nelle forme odierne, Cristo all’uomo contemporaneo.

2. Evangelizzare nella nuova cultura dei media

In questa prospettiva ecclesiologica l’aspetto più rilevante della comunicazione non è legato all’uso degli strumenti mediatici quanto piuttosto alla nuova cultura determinata dall’avvento dei media di massa e dalle innovazioni tecnologiche1. Occorre tenere conto, infatti, che siamo immersi in un nuovo contesto culturale di cui i media sono i protagonisti. Ai nostri giorni, come ricordava Giovanni Paolo II parlando dei mass media,

«non basta usarli per diffondere il messaggio cristiano e il Magistero della Chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa nuova cultura creata dalla comunicazione moderna. È un problema complesso, poiché questa cultura

1 Cf. F. CASETTI - F. COLOMBO - A. FUMAGALLI, La realtà dell’immaginario. I media tra semiotica e sociologia.

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nasce, prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici» (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio, 7 dicembre 1990, 37).

Questo significa che non ci si può accontentare di dare una verniciatura digitale alla testimonianza cristiana illudendosi che sia sufficiente adottare qualche nuovo strumento di comunicazione per rendere l’azione pastorale più accattivante e accettata. La questione è ben più seria perché rimanda alla responsabilità del cristiano chiamato a dare ragione della sua fede e ad essere testimone del Risorto non in astratto, ma nelle reali situazioni di vita delle persone e concretamente, oggi, nel nuovo habitat digitale.Possiamo comprendere in questo senso la riflessione fatta dai vescovi italiani nello scorso decennio: “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”!

Purtroppo ciò che ancora constatiamo è che la vita della Chiesa sembra reggersi solo sui pilastri della liturgia, della catechesi e della carità, mentre la comunicazione, quando viene presa in considerazione, è relegata a fattore “strumentale”, di cui qualcuno si fa carico più per passione personale che per una effettiva considerazione teologica e pastorale. Del resto non c’è settore della vita ecclesiale che non sia interessato da questa problematica. Basterebbe fare l’esempio della liturgia per capire il nesso intrinseco tra fede e nuova cultura dei media2 o analizzare come le comunicazioni sociali incidano sulla stessa visione della realtà, sulla conoscenza delle verità e quindi anche sull’esperienza religiosa3.

3. Le nuove tecnologie interpellano la Chiesa

I nuovi media, e l’interazione sempre più stretta tra questi e quelli tradizionali, offrono nuove opportunità per dare voce al Vangelo. Su questo versante siamo solo agli inizi e la strada è tutta da percorrere. È necessario che la Chiesa s'interroghi su che cosa il Signore le chiede per far arrivare la Sua voce fino agli estremi confini degli sviluppi mediatici, perché questi sono oggi i veri confini della terra. Le nuove tecnologie stanno modificando la stessa geografia dei media. Si ampliano le possibilità di iniziative anche per chi non ha grandi risorse. La multimedialità offre nuove possibilità di espressione e di comunicazione che possono dare nuovo slancio alla stessa azione pastorale della Chiesa4…. per una missione davvero “universale”!

2 Cf. G. BONACCORSO - A. GRILLO, La fede e il telecomando. Televisione, pubblicità e rito.3 Cf. C. GIULIODORI, La verità nei mezzi di comunicazione sociale, in Communio, 165 [1999], 54-63.4 Cf. M. AROLDI - B. SCIFO, Internet e l’esperienza religiosa in rete.

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Sta diventando abituale usare il termine "abitare". Le pareti della nostra casa si sono allargate e una parte sempre più consistente della nostra vita si svolge nel mondo digitale. Trascorriamo molto tempo dentro questo "ambiente" di cui assumiamo i modi di dire, di pensare che modificano - senza che ce ne accorgiamo - i nostri atteggiamenti provocando un cambio antropologico, ossia un modo nuovo di vivere il tempo, lo spazio, le relazioni e anche la fede, come commentavaBenedetto XVI nel 2011:

Il mondo della comunicazione interessa l'intero universo culturale, sociale e spirituale della persona umana. Se i nuovi linguaggi hanno un impatto sul modo di pensare e di vivere, ciò riguarda, in qualche modo, anche il mondo della fede, la sua intelligenza, la sua espressione (Discorso all'Assemblea plenaria del PCCS, 28 febbraio 2011).

Occorre ricordare, comunque, che non basta "abitare la rete": la vera sfida è “come abitarla”!La rete, come tutti i media, non è un canale neutro. E la consapevolezza della non neutralità dei media ci spinge a imparare la capacità di stare "dentro" e "fuori". Se si sta "troppo dentro" nel mondo digitale, non ci si rende conto di ciò che sta accadendo in noi e nella società ma se si sta "troppo fuori" non si è in grado di cogliere i cambiamenti in atto dentro di noi e nel mondo che ci circonda.

2. LUNGO LA STORIA, UN CAMBIO DI PROSPETTIVA…

Una constatazione amara… pillola che inghiottiamo il più delle volte con rassegnazione: nell’epoca della comunicazione globale, la comunicazione della fede “non passa” facilmente. Per diverse ragioni, non ultimo perché l’accento è posto più sui contenuti che non sul metodo e i destinatari.Non è anzitutto questione di impossessarsi di un nuovo linguaggio altamente complesso, ma di comprendere il valore comunicativo presente nell’atto catechistico ed usarlo.

L’esortazione Catechesi tradendae aveva richiesto ai catechisti di «ricercare le vie e i mezzi più adatti per svolgere la propria missione” sottolineando «le grandi possibilità che offrono i mezzi di comunicazione sociale e i mezzi di comunicazione di gruppo: televisione, radio, stampa, dischi, nastri registrati, tutto il settore degli audiovisivi” (n. 46). Di fatto, una grande produzione di filmini, diapositive, materiali di fotolinguaggio, si è sviluppata tra gli anni 70 e 80. L’audiovisivo è entrato nella prassi catechistica ed è stato utilizzato sia come mezzo didattico, sia come

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nuovo linguaggio della fede. Come mezzo didattico, ha offerto certamente un sussidio utile per la catechesi, fornendo il punto di partenza esperienziale, l’esemplificazione concreta e il rinforzo all’insegnamento catechistico che però è rimasto immutato nella sua sostanza. In questo senso, l’audiovisivo ha rappresentato un contributo “esterno” alla catechesi. Come linguaggio gli audiovisivi hanno valorizzato un aspetto originaledella comunicazione della fede, complementare rispetto alla comunicazione “verbale” (orale e scritta). Il linguaggio “non verbale” dell’immagine e del suono ha offerto strategie comunicative nuove. Non solo le parole, ma anche l’espressione di un volto, l’evocazione di un simbolo, la suggestività di una narrazione sono “canali” attraverso i quali passa il contenuto della fede cristiana. Questo ha messo in evidenza la complementarità delle due comunicazioni: verbale e non-verbale. La prima favorisce la chiarezza, la linearità, la consequenzialità del discorso catechistico; la seconda esalta l’aspetto suggestivo, emotivo, simbolico della comunicazione della fede.Verso la fine degli anni ‘80 l’era degli audiovisivi catechistici vede il suo rapido declino, sostituiti da cd-rom interattivi. Negli anni ‘90 si fa più chiara la convinzione che il rapporto della catechesi con i mezzi della comunicazione sociale non può limitarsi all’impiego dei media considerati come semplici “mezzi”. La chiesa dovrà puntare sull’integrazione dei contenuti della fede con la cultura dei media. Lo stesso magistero ha sollecitato un cambio di prospettiva:

La via attualmente privilegiata per la creazione e per la trasmissione della cultura sono gli strumenti della comunicazione sociale. Anche il mondo dei mass-media, in seguito all’accelerato sviluppo innovativo e all’influsso insieme planetario e capillare nella formazione della mentalità e del costume, rappresenta una nuova frontiera della missione della chiesa” (esortazione apostolica Christifideles laici, 1988, 44).

Ancora:

Il primo areopago del tempo moderno è il mondo della comunicazione, che sta modificando l’umanità rendendola come si suoi dire – “un villaggio globale”. I mezzi di comunicazione sociale hanno raggiunto una tale importanza da essere per molti il principale strumento informativo e formativo, di guida e di ispirazione per i comportamenti individuali. familiari, sociali. Le nuove generazioni. soprattutto. crescono in modo condizionato dai media (…). Non basta, quindi, usarli per diffondere il messaggio cristiano, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa “nuova cultura” creata dalla comunicazione moderna” (lettera enciclica Redemptoris missio, 1990, n. 37).

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I media moderni sfidano la chiesa in ambito culturale. Il problema non è nuovo per la catechesi: l’inculturazione della fede ha accompagnato da sempre lo slancio missionario della chiesa. Ma si tratta ora di attuarlo in una cultura che appare non solo nuova, ma problematica, e per la quale gli operatori pastorali della chiesa non sono ancora preparati. Probabilmente oggi siamo davanti ad un nuovo incrocio che chiede una seria riflessione sui mass-media come luoghi o come strumenti.

I moderni media hanno creato un linguaggio di straordinaria efficacia. I media possiedono una grande capacità nel narrare storie, drammatizzare eventi, contrapporre caratteri e situazioni, spettacolarizzare il quotidiano, provocare emozioni e coinvolgimento, creare partecipazione, suscitare desideri, speranze e ideali. La sfera affettiva dell’uomo è fortemente coinvolta. I media hanno imposto un tipo di comunicazione in cui soggettività e format (la modalità di presentazione) hanno un ruolo determinante. Più del contenuto è importante chi lo dice, come lo dice e in quale contesto. Si tratta di una cultura spesso incoerente, frammentaria, dell’effimero. I media hanno oggi la funzione di alimentare l’immaginario collettivo, come un tempo avveniva attraverso i miti, i riti, le feste. I media sono i nuovi “narratori rituali” della nostra società. Sanno esprimere bene le tensioni e i desideri della condizione umana. i conflitti e gli insuccessi, i punti di non ritorno e le invocazioni, le esperienze luminose e i momenti di trascendenza. La dimensione religiosa della vita è da essi toccata esplicitamente o anche solo implicitamente. I media si propongono come nuova religione che ha la pretesa di dirci come stanno le cose, come funzionano e cosa dobbiamo fare noi. I media propongono, infine, modelli di comportamento e uno stile di vita dei quali sono sensibili soprattutto le nuove generazioni. Con il loro linguaggio visivo, concreto e diretto, i media irradiano un senso di godimento. Parlano con il linguaggio del piacere e della libertà assoluta in contrasto con quello dell’ascesi e del dovere. Propongono modelli di comportamento violento soprattutto nella televisione. Con questo tipo di cultura sarà possibile ottenere, oltre il confronto, anche un’integrazione? Innanzitutto, serve un iniziale atto di fiducia verso i media, necessario per avviare il dialogo culturale. Se si considerano i media solo negativamente, allora non ci si può attendere di scoprire in essi una spiritualità. Con occhi e orecchi negativi non si può cogliere una spiritualità, anche quando è presente. In realtà i media possono essere una miniera e sorgente di momenti e aspetti di spiritualità.

Il principio pastorale era stato indicato chiaramente da papa Paolo VI:

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Posti al servizio del vangelo, i mass-media sono capaci di estendere quasi all’infinito il campo di ascolto della parola di Dio, e fanno giungere la buona novella a milioni di persone. La chiesa si sentirebbe colpevole di fronte al suo Signore se non adoperasse questi potenti mezzi (…); servendosi di essi, la chiesa “predica sui tetti” (Mt 10,27) il messaggio di cui è depositaria: in loro essa trova una versione moderna ed efficace del pulpito. Grazie a essi riesce a parlare alle moltitudini” (Evangeli nuntiandi, 45).

I nuovi media esercitano un grande appeal sui ragazzi. Hanno due “qualità” fondamentali (non solo tecniche ma “formative”): - la multimedialità, ossia la compresenza di più codici gestititi da un unico supporto (es. il computer) e in sinergia tra loro;- la interattività: l’utente invece di ricevere l’informazione in modo passivo (come vedere un film) può interagire con il mezzo stesso influenzando il contenuto dell’informazione.

3. GLI ELEMENTI TECNICI DELLA COMUNICAZIONE

Il cristianesimo, “la religione del libro” è nato sul “passa-parola”. Il suo “primato”, nella comunicazione della fede resta indiscutibile con l’educazione all’ascolto, con il dialogo vivo interpersonale “faccia a faccia”, con la promozione della lettura personale (leggere è un procedimento che aiuta a ragionare, farsi delle idee a differenza del solo vedere). La parola “catechistica”, nello specifico, è la parola nella quale risuona la testimonianza della vita evangelica del catechista.

C’è da domandarsi, però, che tipo di parole vengono impiegate: difficili, “tecniche”, “concettose”, oppure “visualizzate”? È meglio con i ragazzi parlare “audiovisivamente”… (= far vedere ciò che si racconta) coniugando 3 verbi speciali:

- semplificare: non avere l’ossessione di dire tutto- drammatizzare: coinvolgere i ragazzi partendo da un dialogo o con il racconto- personalizzare: le “persone sono i chiodi a cui vengono appese le idee» (Enzo Biagi). Far passare i valori attraverso i fatti e le azioni delle persone.

La condizione di base è passare dal “dovere” di comunicare al “piacere” di comunicare. Dovremmo poter essere di fronte ad unacomunicazione che si presenti con queste caratteristiche:

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- spiazzante: deve “sorprendere” (effetto “ovetti Kinder”). Decisivo l’incipit, la partenza (non si improvvisa “il piano di volo” di ogni incontro e …la “passione” accende la fantasia), ma anche lo svolgimento dell’incontro;- multimediale e interattiva: iniziare da una canzone, da SMS, da foto spezzoni di film...- non deve dire tutto: vale la teoria dell’iceberg (vedo solo un terzo) e quella dell’aperitivo (ti stuzzico l’appetito per farti venire fame). Alcuni rinvii, alcune riprese delle domande in un altro incontro, sono molto più efficaci di risposte immediate e frettolose;- oggi e domani: agli incontri settimanali si affianca una meta a lungo termine, un obiettivo per lo meno annuale che dà sapore a ogni incontro;- esperienziale: più sensi vengono coinvolti e più efficace è il risultato. Il massimo si ottiene facendo esperienza di quanto si vuole comunicare;- spazio a domande negative e dubbi- verificare il feedback per saper che cosa ha funzionato e che cosa no- evitare le “lezioni frontali” e “a senso unico” (invitare “testimonial” diversi, genitori compresi).

Ognuno di noi, poi, si presenta agli altri secondo uno “stile” comunicativo. Quale il nostro?

Stile Passivo: sempre accondiscendente con ciò che vogliono gli altri. Non prende iniziative. Non esprime i suoi pensieri ed emozioni. Ha paura di dire no. Non riconosce i propri desideri e bisogni. Ciò può comportare una violazione dei propri diritti.Stile Aggressivo: è esigente, ostile e scortese. Per affermare le sue opinioni viola i diritti altrui. Intimidisce gli altri per evitare che facciano ciò che vogliono. È irrispettoso. Gli altri potrebbero sentirsi umiliati o accusati.Stile Passivo-Aggressivo: al fine di evitare i conflitti, dice alle persone ciò che esse vogliono sentirsi dire. Tuttavia, nel suo animo prova rabbia e pertanto non soddisfa aspettative e richieste, provocando negli altri sentimenti di frustrazione, rabbia, confusione o risentimento.Stile Manipolativo: cerca di ottenere dagli altri quello che vuole facendoli sentire in colpa. Tende ad assumere il ruolo di vittima o di martire, al fine di indurre gli altri ad assumersi la responsabilità nei confronti dei suoi bisogni.Stile Assertivo: afferma in maniera diretta, sincera e adeguata i suoi pensieri, emozioni, bisogni o desideri. È capace di assumersi le proprie responsabilità e mostra rispetto per gli altri. In pratica sa affermare le sue opinioni senza violare i diritti degli altri.

La comunicazione interpersonale comprende la comunicazione verbale(conscia, quindi facilmente governabile in modo consapevole, tranne i

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lapsus) e quella non verbale (inconscia e quindi molto molto difficile da controllare, tranne gli attori molto bravi). Una comunicazione in cui i messaggi non verbali contraddicono quelli verbali non è convincente. In tal caso tra la comunicazione verbale e quella non verbale prevale la non verbale.A proposito della comunicazione non verbale, è fondamentale saper riconoscere i segnali che indicano il non ascolto; chi non ascolta di solito:

non guarda mai negli occhi chi parla sembra non poter stare fermo ha sempre troppo da fare viene costantemente interrotto (telefonate, visite) fa troppe domande interrompendo chi parla non mostra interesse è troppo aggressivo, non è obiettivo fraintende a proprio vantaggio non è abbastanza umile sta troppo sulla difensiva

Gli aspetti principali del linguaggio non verbale sono i seguenti:

Il tono della voce: da la connotazione emotiva del messaggio. La mimica facciale: da la connotazione emotiva del messaggio. La gestualità: accompagna le parole e ne sottolinea i contenuti. L’abbigliamento: spesso comunica l’identificazione ad un ruolo

sociale, l’adeguamento o meno all’ambiente e alla situazione. Lo sguardo: è una parte molto attraente ed espressiva, attraverso

di esso si può stabilire un contatto con l’interlocutore, si sincronizza la comunicazione.

La prossemica: lo studio dell’uso delle persone dello spazio personale e sociale.

La postura: esistono posture dominanti, rilassate, tese, aggressive, ecc.

L’immagine è il primo messaggio che arriva, quindi è estremamente importante (ovvero l’abito fa il monaco).

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Catechesi e comunicazione - 13

ESERCITAZIONE: Voi che stile utilizzate per comunicare?

Siete in fila e qualcuno vi passa davanti, oppure è il vostro turno e l’impiegato ascolta le richieste di qualcun altro.Avete un appuntamento con il dottore e questi vi fa attendere per mezz’ora.Al ristorante fate la vostra ordinazione, ma non venite serviti.I vicini vi tengono svegli, disturbandovi con musica ad alto volume.Siete in un cinema e, durante la proiezione del film, le persone vicine a voi parlano ad alta voce.Vi rendete conto che la persona con la quale state parlando non vi sta ascoltando.Il vostro partner arriva all’appuntamento con voi con mezz’ora di ritardo.