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BIBLIOTECA MAGICA Libri di alchimia e magia nelle collezioni antiche della Biblioteca Queriniana A cura di Ennio Ferraglio Biblioteca Queriniana, Atrio antico 15 marzo – 25 maggio 2018

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BIBLIOTECA MAGICA Libri di alchimia e magia nelle collezioni antiche della Biblioteca Queriniana A cura di Ennio Ferraglio Biblioteca Queriniana, Atrio antico 15 marzo – 25 maggio 2018

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ALCHIMISTI A BRESCIA

Mi è parso cosa degna delle mie fatiche et pietoso officio verso di quelli che dietro alle ombre vane nelle tenebre camminano, mostrarne quel poco di lume che da Dio per Sua grazia mi è infuso…”

(Giovanni Bracesco, alchimista)

Nato attorno al 1480 a Orzinuovi, Giovanni Bracesco (prete Giovanni de Bressa, come si firma in alcune lettere) incarna molto bene la figura dell’alchimista: dotato di una solida base filosofica fondata nel neoplatonismo e nel pensiero di Nicola Cusano, Marsilio Ficino e Giordano Bruno, e di propensione speculativa, di infaticabile attività sperimentale e di una inesauribile sete di conoscenza dei segreti della natura. Facilmente lo si può immaginare impegnato in un laboratorio alchemico, come quello che dovettero aver allestito per lui i suoi protettori, i Martinengo, all’interno del castello di Barco o di quello di Torre Pallavicina, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita, conclusa poco oltre la metà del XVI secolo. Nonostante una biografia sfuggente (di lui si conoscono solo alcuni viaggi di studio nelle miniere in Toscana e nel Lazio per conoscere la tramutatione dei metalli) egli fu uno dei più noti alchimisti italiani della prima età moderna, assai conosciuto e apprezzato anche al di fuori dei confini locali:: il grande alchimista francese Tauladanus, attratto dalla fama del Bracesco, si recò nel 1553 dapprima a Orzinuovi e successivamente a Torre Pallavicina per conoscerlo. Fu traduttore e commentatore del “principe degli alchimisti”, Geber, oltre che autore egli stesso di opere alchemiche: dedicò al conte Bartolomeo Martinengo la Espositione di Geber. La prima opera del Bracesco, intitolata Legno della vita, discute il segreto della longevità dei primi discendenti di Adamo, la “quinta essenza” e le dottrine mediche di Paracelso, attraverso un dialogo i cui interlocutori sono Raimondo Lullo (Ramón Llull) nelle vesti del

maestro e il discepolo Demogorgon, che nel linguaggio alchemico personifica la forza creatrice e spesso è assimilato a Giove La scelta della forma dialogica non è inusuale nella letteratura alchemica, dal momento che gli alchimisti vedevano la scienza da loro praticata come un cammino di perfezionamento percorribile solo con la guida di un maestro, e non attraverso l’esposizione di un sistema teoretico-filosofico chiaro ed univoco. Bracesco era anche medico e di conseguenza era interessato ad un’applicazione pratica dell’alchimia: oggetto ultimo delle ricerche era la quintessenza postulata dal Lullo, cioè la sostanza incorruttibile in grado di conservare la vita ben oltre le capacità della comprensione umana. Nell’Espositione di Geber filosofo, l’autore immagina che il filosofo arabo Geber spieghi a Demogorgon la sua dottrina alchemica e che riveli, in un’ottica mistico-teologica, il fine e la natura dell’alchimia, cioè l’ottenimento dell’elisir di lunga vita e della pietra filosofale. La fortuna editoriale del Bracesco varcò ampiamente i confini del secolo. Nel 1606 uscì una traduzione in tedesco del Legno della vita (Gespräch vom Holz des Lebens, Mülhausen, M. Spiessen); nel 1673, ad Amburgo uscirono i De alchemia dialogi duo, seguiti da altre edizioni a Lione nel 1679 e a Ginevra nel 1702; da segnalare, infine, l’edizione del 1967 presso l’editrice Arché di Milano: testimonianza di un’attenzione mai sopita per questo autore. L’ottimismo per le capacità umane, le quali, attraverso i progressi della scienza, sono in grado di penetrare nei misteri della natura per carpirne i segreti utili all’umanità e alla vita, e soprattutto la visione in cui l’uomo, conoscitore di tutte le scienze, è artefice e “misura” di tutte le cose, fanno di Giovanni Bracesco un grande, inquieto, uomo del Rinascimento bresciano. L’altro esponente della scienza alchemica bresciana è Giovan Battista Nazari, autore singolare ma importante del secondo Cinquecento bresciano. Di lui si ricordano molte opere in ambiti e discipline diverse, dalla storia civile a quella ecclesiastica, all’agiografia (ebbe anche un ruolo nell’istruzione del processo di beatificazione di sant’Angela Merici) all’alchimia. Nato nel 1533 da una famiglia dedita al notariato, non si conosce la data di morte.

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Nel 1564 uscì la prima edizione di un’opera allegorica, di alchimia e di filosofia mistica, intitolata Il metamorfosi metallico et humano, che rappresentò la base per il successivo Della tramutatione metallica. Si tratta di due opere puramente speculative e non si hanno notizie che il Nazari si dedicasse, a differenza del Bracesco, all’alchimia applicata. Fra le sue fonti più importanti e significative si segnalano la misteriosa e iniziatica Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, ma anche Aristotele, Platone, Democrito, Raimondo Lullo, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Arnaldo da Villanova. Nelle sue opere, l’autore descrive il processo che porta all’acquisizione dei segreti della natura, dal livello più basso della conoscenza materiale al livello più alto della conoscenza filosofica: una volta impadronitosi dei segreti della natura, l’uomo può raggiungere il punto più alto della conoscenza umana, quella dell’alchimia dei filosofi. L’alchimia è, per il Nazari, una vera e propria filosofia della natura, commistione di sophia e di donum Dei (ma, aggiunge, Dio dona a chi vuole la possibilità di svelare ogni segreto, così come ugualmente può privare di tale dono) sia l’una che l’altro indispensabili per penetrare nelle res occultae del mondo.

I volumi esposti provengono dal Legato Martinengo della Biblioteca Queriniana ed appartengono, all’interno di questo fondo dedicato a diverse discipline, ad un ricco e variegato insieme di opere a carattere occulto, magico, alchemico, astrologico, cabalistico e divinatorio. Si tratta di più di un centinaio di opere, manoscritte e a stampa, datate tra la fine del XVI e tutto il XVII secolo, raccolte, con buona probabilità, dal conte Leopardo Martinengo da Barco (1637-1729), a sua volta autore di alcune delle opere presenti nella biblioteca. Figlio di Francesco Leopardo e padre della futura beata Maria Maddalena Martinengo, il conte Leopardo coltivò, accanto all’interesse per la matematica, anche un vivo interesse per le scienze occulte, ed in particolare per l’alchimia, la cartomanzia e l’astrologia.

Per saperne di più Su Giovanni Bracesco: ENNIO FERRAGLIO, “Prete Giovanni de Bressa”, alchimista, in Medici, alchimisti, astrologi. Inquietudini e ricerche del Cinquecento, a cura di E. Ferraglio, Brescia, Tarantola, 2005, pp. 61-75. GIULIANO GLIOZZI, Bracesco, Giovanni, voce in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 13, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1971, pp. . Su Giovan Battista Nazari: ENNIO FERRAGLIO, I “sogni” alchemici di Giovan Battista Nazari, in Medici, alchimisti, astrologi..., cit., pp. 76-88. Sulla “Biblioteca magica” Martinengo: GIUSEPPE FUSARI, La “Biblioteca magica” dei Martinengo da Barco, in Medici, alchimisti, astrologi…, cit., pp. 114-140. MARIA ELENA LODA, La “Magia Sacra” di Abramelin, «Misinta», n. 31, giugno 2008, pp. 37-46. MARIA ELENA LODA, “Scire, audere, potere, tacere...”. La raccolta occulta dei Martinengo da Barco, «Charta», n. 101, gennaio-febbraio 2009, pp. 28-33.

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GIOVANNI BRACESCO La espositione di Geber philosopho. Nella quale si dichiarano molti nobilissimi secreti della natura, Venezia, G. Giolito de Ferrari, 1544. [10a I.VI.32] L’opera, dedicata all’esposizione delle dottrine alchemiche di Geber (nome latinizzato del filosofo arabo Jabir ibn Hayyàn) si snoda sotto forma di dialogo tra lo stesso Geber e il personaggio simbolico di Demogorgon. Alla prima edizione veneziana del 1544 seguirono numerose altre edizioni in volgare ed in latino.

La prima parte dell’opera affronta i principi teorici dell’alchimia, che ha lo scopo di individuare le modalità per la trasformazione dei metalli vili in metalli superiori attraverso la pietra filosofale. L’oggetto principale è, quindi, l’imitazione, attraverso la scienza, dei processi di trasformazione dei metalli operati dalla natura per via occulta. La seconda parte del dialogo riguarda la ricerca della pietra filosofale, che si otterrebbe, dopo un opportuno trattamento chimico purificatorio, dal ferro. L’Autore si sofferma a lungo ad esporre le teorie geberiane sui metalli “virtuosi”, cioè lo

zolfo e l’argento, dai quali è possibile estrarre l’elisir di lunga vita e la quinta essenza; fra i processi chimico-fisici da lui stesso sperimentati e descritti spiccano, per completezza di esperienze, la distillazione, la sublimazione e la coagulazione dei metalli. Molto interessante, infine, l’interpretazione alchemica delle figure della mitologia classica: Giove sotto forma di pioggia d’oro rappresenta la distillazione dei metalli; Ercole ed Anteo la preparazione dello zolfo; gli occhi di Argo immortalati nella coda del pavone la mutazione del colore dello zolfo; Orfeo la quinta essenza; Dedalo la putrefazione; Icaro la sublimazione.

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GEBER De Alchimia libri tres, Strasburgo, G. Grieninger, 1531. [Cinq. D.8] Ad Abu Mussa Jabir-ibn-Hayyan, conosciuto con il nome latinizzato di Geber (721-815), gli Umanisti attribuivano più di 500 opere, riconoscendolo fra i maestri dell’alchimia. In realtà, sotto il suo nome circolarono anche testi di un alchimista spagnolo del XIV secolo.

Gli interessi di Geber si concentravano soprattutto attorno ai processi chimici generati dalla trasformazione dei metalli e sulle proprietà di questi ultimi. Sviluppò la teoria che tutti i metalli sono composti originariamente da mercurio e zolfo e che è possibile trasformare tutti i metalli vili in oro attraverso la “pietra filosofale” (lapis philosophorum).

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GIROLAMO GRATAROLO Verae Alchemiae artisque metallicae, citra aenigmata, doctrina, certusque modus, Basilea, H.Petri e P.Perna, 1561. [3a C.I.24] Il volume miscellaneo contiene una raccolta di opere attinenti la “mineralium scientia et secretior ars” di autori antichi e moderni. Il primo testo è la traduzione latina, a cura dello stesso Gratarolo, del Lignum vitae del Bracesco, completato da una silloge, dall’Esposizione di Geber philosopho e dalle Animadversiones in eundem Braceschum Gebri interpretem dell’alchimista Robertus Tauladanus.

Oltre al Bracesco e al Tauladanus, all’interno della raccolta sono presenti opere di Giovan Battista Montano, Arnaldo da Villanova, Alberto Magno, Raimondo Lullo, Aristotele, Avicenna, Giovanni da Rupescissa, Audemarus e Giovanni Aurelio Augurelli. I

temi affrontati ruotano prevalentemente attorno alla trasmutazione dei metalli, la sublimazione, la quintessenza e il Lapis philosophorum. L’opera è diretta “ad philosophos chemistas” ed ai “secretioris physicae studiosis”, quindi a scienziati e professionisti, e non a neofiti, apprendisti o semplici curiosi della materia. Il volume, che contribuì grandemente alla ripresa del filone degli studi su Paracelso nella seconda metà del ‘500, è diretto “ad philosophos chemistas” ed ai “secretioris physicae studiosis omnibus”: si pone, quindi, in rapporto con professionisti della materia e non con neofiti o semplici curiosi dilettanti. ARISTOTELES Metaphysicorum libri XIIII, Lione, G.G. Giunta, 1561, pp. 1-46. [AA.X.28] La Metafisica di Aristotele è uno dei testi–chiave del sistema filosofico di riferimento del Bracesco. Particolarmente rilevante, per i suoi studi, è il libro VII, cioè quello dedicato espressamente alla “sostanza” delle cose, alla sua natura e alle trasformazioni che essa subisce. Il ricorso all’antico filosofo greco non fu puramente accademico: il tono delle numerose citazioni all’interno dei dialoghi del Bracesco suggerisce, invece, l’idea che l’alchimista orceano cercasse nell’autorità, universalmente ricosciuta, dello Stagirita un valido sostegno al proprio pensiero. Da Aristotele Giovanni Bracesco mutua i concetti che «ogni cosa generata, dal suo simile è generata» e che «nulla cosa elementata vive di semplice elemento, ma vive di quelle cose delle quali essa è composta». La Metafisica aristotelica fu oggetto di numerose edizioni, sia singole sia all’interno dell’Opera omnia dell’autore, già a partire dagli albori della stampa nel XV secolo. Molte edizioni (soprattutto nei formati minori) avevano alte tirature, ed il prezzo appetibile favorì la diffusione presso un pubblico vasto. Non è improbabile che il Bracesco abbia scoperto Aristotele attraverso edizioni di piccolo formato, come quella esposta, e che portasse con sé, anche durante le continue peregrinazioni, i volumi del Maestro.

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GIOVANNI BATTISTA NAZARI Il metamorfosi metallico et humano, nel quale si contengono quattro Sogni, il primo de’ quali è della tramutatione sofistica de’ metalli; il secondo della tramutatione reale o alchimica pur de’ metalli; il terzo della tramutatione fisica de’ corpi humani; et il quarto della tramutatione spirituale in Christo, Brescia, F. Marchetti, 1564. [Lechi 12] Non si tratta della prima edizione dell’opera più famosa del Nazari, bensì di una sorta di versione iniziale, ancora in formazione, dotata comunque di una certa autonomia di stile e di contenuto.

Opera breve (si estende per sole 34 carte), si presente sul frontespizio come costituita da “quattro sogni”, dedicati a due a due rispettivamente alla “tramutatione” dei metalli e del corpo umano. In realtà l’opera risulta costituita da due soli sogni, privi dei rispettivi titoli identificativi.

Il Nazari interpreta l’alchimia come una scienza suddivisa in più livelli: nel primo si trova la falsa alchimia, professata dai ciarlatani e dai “sofisti”; il secondo livello è quello della effettiva trasmutazione dei metalli, cioè il passaggio dei metalli in natura da uno stato all’altro attraverso processi chimico-fisici; il terzo livello è quello in cui si opera la trasmutazione dei corpi umani; il quarto ed ultimo, quello più alto, è il livello della trasmutazione spirituale.

L’opera – che l’Autore dichiara frutto di considerazioni sulla «mondana machina» – è dedicata al bolognese Camillo della Fava. È stata composta sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalla lettura delle opere di Platone e di Geber: è il Nazari stesso, «essendo stato già molti mesi in questa contemplatione», a confessarlo. Conclude il volume una Canzone dal contenuto alchimistico di Rigino Danielli da Capodistria.

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GIOVANNI BATTISTA NAZARI Della tramutatione metallica sogni tre. Nel primo dei quali si tratta della falsa tramutatione sofistica; nel secondo della utile tramutatione detta Reale Usuale; nel terzo della divina tramutatione detta Reale Filosofica, Brescia, P.M. Marchetti, 1599. [Lechi 13] Si tratta della terza e più completa edizione dell’opera del Nazari. Nella dedica, indirizzata a Vespasiano Gribaldi vescovo di Vienne, l’Autore, dopo aver dichiarato che «tutte le scientie in sua natura sono belle et utili», afferma che la metallurgia è superiore a tutte le altre, in quanto unisce l’aspetto tecnico-pratico con la speculazione filosofica.

I sogni veri e propri occupano la maggior parte del volume, ed hanno contenuto ermetico, con uno stile allegorico e per iniziati. Le fonti di cui il Nazari si è avvalso,

direttamente o indirettamente, sono molteplici. Si va dai classici latini, come Seneca, Giovenale, Ovidio, Apuleio, Livio, Plinio, Cassiodoro e molti altri, agli autori religiosi, come Bernardo di Chiaravalle; presenti, anche in forma di “suggestione” letteraria, alcuni autori del Medioevo e dell’Umanesimo volgare italiano: fra tutti il Dante della Vita nova e Francesco Colonna con l’Hypnerotomachia Poliphili. Una parte di rilievo, infine, è assegnata alle fonti alchimistiche: Raimondo Lullo, Arnaldo da Villanova, Alberto Magno, Geber. Tra le pp. 169 e 228 si trovano tre opere distinte: la Concordantia de filosofi et pratica figuratamente descritta, detta anche Rosario dei filosofi, il Libro chiamato Novo lume ed infine il Libro chiamato Magisterio et Allegrezza. Quest’ultima opera tratta della composizione e fabbricazione dell’elisir di lunga vita. Queste brevi opere vengono tradizionalmente attribuite ad Arnaldo da Villanova. Segue, alla p. 229, l’«Epistola dell’autore al Re di Napoli, nella quale parla dell’alchimia».

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SULLO SCAFFALE DELL’ALCHIMISTA

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PARACELSO De summis Naturae mysteriis, Basilea, P.Perna, 1584. [10a I.II.2] Nelle biblioteche degli alchimisti erano probabilmente presenti le opere di Aurelius Teophrast Bombast von Hohenheim, alias Paracelso, di cui erano apprezzate le dottrine in ambito medico ed alchemico.

Particolarmente forte fu l’influenza del trattato De vita longa. In quest’opera egli spiega le condizioni attraverso le quali è possibile assicurare la “longevitas” alle forme viventi: il corpo si può preservare dalla decomposizione attraverso l’uso di un balsamo o ”elixir vitae”, materia primordiale dalla quale procedono le tre sostanze di base della natura fisica: il mercurio, lo zolfo e il sale. PARACELSO De transmutationibus metallorum, Francoforte s.M., A.Wechel, 1581. [10a U.VI.13m2] Paracelso fu un grande indagatore dei misteri della natura. La sua opera dedicata ai metalli e alle loro trasformazioni chimico-fisiche si

inserisce a pieno titolo nel vasto dibattito sulla trasmutazione delle sostanze, elemento chiave della scienza alchemica. Paracelso e i suoi seguaci cercarono di dare alla riflessione sulla “chimica” dei metalli un impulso destinato ad andare oltre la mera giustificazione teorica di fenomeni naturali o indotti, e a gettare le basi per l’investigazione sperimentale che tanta parte avrà nello sviluppo delle scienze moderne. Fautore della sperimentazione diretta e dell’ossevazione della natura, superando il semplice riferimento all’autorità dei classici, Paracelso poté contare sullo sviluppo delle attività minerarie e metallurgiche nei primi anni del XVI secolo. Compì viaggi in Germania e Ungheria, accompagnati da lunghi soggiorni, per apprendere dai minatori e dai fonditori i segreti della metallurgia. Nella sua ottica filosofico-mistica, l’inizio della diversificazione naturale risiede nella notte dei tempi, quando cioè si verificò una grande “separazione originaria”, prima della quale tutte le sostanze – ivi compresi i metalli – erano come fuse in un corpo indistinto. Compito dell’alchimista è comprendere, attraverso lo studio e la sperimentazione, le trasformazioni delle sostanze per giungere non alla fabbricazione dell’oro, bensì delle medicine indispensabili per curare e prolungare la vita.

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RAYMUNDUS LULLUS De secretis naturae sive quinta essentia, Venezia, P. Schoeffer, 1542. [K.XVII.38] Raimondo Lullo (1232-1315), considerato uno dei modelli di riferimento dell’alchimia occidentale, tentò una giustificazione dell’Alchimia in rapporto al concetto di libero arbitrio dell’uomo: l’Alchimia, in quanto arte avente come fine ultimo la conoscenza delle cose segrete della natura, è sottoposta al libero arbitrio dell’uomo per quanto riguarda la scelta tra bene e male. Il Liber de secretis naturae seu de quinta essentia, che la tradizione vuole composto dal filosofo e alchimista maioricano, conobbe una grande fortuna, sia manoscritta che a stampa.

La dottrina lulliana della “quinta essenza”, cioè la sostanza immateriale e divina che doveva produrre l’anima e la vita, superava la teoria aristotelica dei quattro elementi naturali. I tentativi per giungere ad ottenere la quinta essenza si basano sulla distillazione, cioè sulla separazione attraverso un processo chimico-fisico, dei principi attivi degli elementi naturali. Nella prima parte dell’opera vengono descritte le modalità di estrazione della quinta essenza da qualunque sostanza fisica; nella seconda parte vengono descritti gli effetti prodotti dalla quinta essenza sul corpo umano.

GIROLAMO RUSCELLI Secreti nuovi di maravigliosa virtù, Venezia, eredi di M. Sessa, 1567. [Cinq. GG.20] Le raccolte dei Secreti curate da Girolamo Ruscelli (ca 1500-1566) furono fra i libri più diffusi nella seconda metà del XVI secolo ed i primi decenni del XVII. Esse conobbero decine di edizioni in italiano, latino, inglese, francese e tedesco, tanto di diventare una sorta di prototipo dei secreta naturae (già noti per la verità durante tutto il Medioevo) che conobbero, grazie alla stampa, una enorme diffusione presso tutti gli strati sociali della popolazione europea di quel tempo. Dal proemio di questa edizione dei Secreti nuovi di maravigliosa virtù si apprende dell’esistenza, nel regno di Napoli, di una Accademia alchemica in pieno XVI secolo. Composto da ventiquattro membri – fra i quali il Re di Napoli, un suo parente ed un ministro del Regno – il sodalizio aveva come obiettivo di comprendere l’«anatomia delle cose e delle operationi della Natura» attraverso le esperienze pratiche, ispirate da testi antichi sia manoscritti che a stampa.

Da ricordare che intorno agli anni Sessanta del secolo, a Napoli verrà fondata l’Accademia dei Segreti per iniziativa di Giovan Battista Della Porta, all’interno di un ambiente ricco di fermenti culturali e scientifici e raccolto intorno alla corte del principe di Salerno Ferrante Sanseverino

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Secreta secretorum philosophorum [ms. I.IV.31 – Fine sec. XVI / inizio sec. XVII] Si tratta di un vero e proprio manuale di alchimia, con numerose illustrazioni acquerellate e tavole degli elementi e degli strumenti necessari (alambicchi, forni, vasi, ecc.). Il testo consiste di articolate descrizioni, sia teoriche che pratiche, basate sugli autori di riferimento (Aristotele, Raimondo Lullo, Arnaldo da Villanova ecc.) relative ai procedimenti alchemici di calcinazione secondo l’influenza dei diversi pianeti. Grande spazio è riservato, infine ai Segreti secondo un prontuario che prevede diverse ricette per la trasmutazione dei metalli e per la distillazione delle erbe.

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GIOVANNI AGOSTINO PANTEO Ars et theoria transmutationis metallicae, Parigi, [s.n.t.], 1550. [O.XVIII.49] Sacerdote veneziano, Giovanni Agostino Panteo pubblicò nel 1518 una singolare opera (dedicata, fra l’altro, al bresciano Altobello Averoldi, vescovo di Pola), intitolata Ars tramutationis metallicae, definendola nel contempo “Cabalisticum archimicae artis magisterium”; per la prima volta vennero messi in relazione la cabala con l’alchimia introducendo, fra l’altro, molti termini appartenenti alla tradizione ebraica.

Nella prefazione all’opera, l’Autore dichiara di aver a lungo meditato su testi di autori che hanno scritto di alchimia, alla ricerca della maniera di scoprire i segreti della natura. GIOVANNI AGOSTINO PANTEO Voarchadumia contra Alchimiam. Ars distincta ab Archimia et Sophia, Venezia, [s.n.t.], 1530. [Cinq. E.21] Nel 1530 il Panteo riprese il testo dell’Ars tramutationis metallicae, rifondendolo ed integrandolo, dando così origine ad una nuova opera, la Voarchadumia contra alchimiam. In quest’opera il Panteo distingue alcune vie per cui si verifica la trasmutazione metallica: la prima, e più semplice, è rappresentata dall’alchimia la quale, avendo come obiettivo la fabbricazione fraudolenta

dell’oro, è considerata un’attività esecrabile e da sradicare.

La strada alternativa è l’archimia, volta ad individuare – anche secondo l’etimologia del nome – il “principio dell’unità”; si tratta della scienza che hanno coltivato molti uomini eccellenti come Geber, Avicenna, Alberto Magno e che è assai diffusa all’interno delle culture greca, ebrea, latina, araba e caldaica. La difficoltà di questa pratica, ammonisce l’Autore, è pari al discorso sulla quadratura del cerchio: la maniera è conoscibile, ma non è conosciuta.

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DAGLI “ESPERIMENTI MAGICI” AL “CRIMEN SORTILEGII”

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PICATRIX Gl’esperimenti magici in ogni genere, di Gio. Pecatrix, con le Tavole delli Pianeti. [ms. I.V.18 – Seconda metà del sec. XVI] Il grimorio, o manuale di magia che va sotto il nome di Picatrix contiene un vasto repertorio di incantesimi, formule magiche e consigli pratici di magia. Composto in arabo nell’XI secolo, appartenente alla tradizione ermetica, venne più volte tradotto in latino e in volgare ed ebbe grande diffusione per tutto il Medioevo e il Rinascimento. Il manuale fornisce insegnamenti su come entrare in contatto con spiriti in altre dimensioni, dominare l’energia dei pianeti affinché un determinato evento si verifichi secondo la volontà del praticante, ecc.; ma anche allontanare le cimici e fermare il sangue dal naso; oppure far sì che chi è seduto a tavola si addormenti, l’ottenimento dell’invisibilità, la capacità di svegliarsi all’ora desiderata, il potere di aprire le serrature e scassinare forzieri. Infine, si trova un vasto repertorio di formule per scacciare dèmoni, placare tempeste, procurarsi rimedi amorosi infallibili e guarire dalle malattie. Alla sezione relativa agli incantesimi ne segue una in cui si Illustrano le Tavole dei pianeti, cioè tavole numeriche relative ai valori che ne regolerebbero l’influenza sul mondo, allo scopo di ottenere benefici.

ARBORE DEL BENE E DEL MALE Arbore del Bene e del Male Dove s’insegna A sapere tutto quello ch’è stato, e sarà di un Huomo. [ms. I.V.5 – Seconda metà del sec. XVI] L’operetta ha le caratteristiche di un agile manuale di astrologia, al quale segue una sorta di prontuario per determinare la benignità o l’avversità degli astri in relazione a casi pratici della vita: “Se un viaggio ha d’esser prospero o no”, “Se doi combattenti hanno a combattere, a vedere chi havrà la vittoria”, “A sapere d’una persona ch’è in paese longinquo”, “Se vuoi sapere se una persona t’ama” e “Se un ammalato guarir debba, o no”.

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ABRAMELIN La vera et real Magia Sacra con la quale li antichi facevano tanti et diversi prodigii con la virtù della Santa Caballa. Raccolta dal dott.mo Abram Abramolin d’Egitto, il quale essendo desideroso di saper detta arte, consumò dalla gioventù sino alla vecchiagia pellegrinando il mondo per saperla. [ms. I.V.13 – Seconda metà del sec. XVII] Si tratta del più famoso grimorio esoterico, di cui ne esistono poche copie conosciute al mondo (per la precisione tre esemplari: uno del sec. XV alla Biblioteca Oppenheimer di Oxford, uno del sec. XVIII all’Arsenale di Parigi e uno d’inizi XIX alla Biblioteca Nazionale di Parigi). L’esemplare queriniano, diviso in quattro libri, anziché tre, con appendici corredate da 250 quadrati magici, è dunque tra i più antichi e completi. Composto probabilmente nel corso del XIV secolo in area balcanica, venne attribuito, in maniera leggendaria e nebulosa, ad un mago egiziano, tale Abraha-Melin, oppure ad Abraham di Worms o Würzburg, un ebreo talmudista vissuto in Germania tra XII e XIII secolo.

Testo molto ambito e ricercato da parte degli occultisti, l’Abramelin (che Alistair Crowley definì «l’approccio più adeguato per apprendere la magia») ha come oggetto di rivelare all’adepto, attraverso la “Vera Magia Sacra”, il segreto per evocare gli angeli e farsi indicare da essi la via verso la Giustizia divina.

JOHANNES TRITHEMIUS Steganographia, Magonza, J.P. Zubrodt, 1676. [10a I.IV.31] Giovanni Tritemio, teologo e umanista tedesco, fu il primo maestro di Paracelso e fu in relazione con Enrico Cornelio Agrippa e con numerosi occultisti, cabalisti e alchimisti tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo. Il trattato esoterico Steganographia si propone di insegnare a trasmettere messaggi da un interlocutore all’altro tramite l’uso di un linguaggio magico, frutto di complesse coniurationes spirituum, e senza l’utilizzo di simboli o di alfabeti.

L’opera suscitò reazioni allarmate da parte della Chiesa e l’Autore stesso, per evitare processi e condanne, la distrusse. Il testo continuò a circolare in forma privata e manoscritta e venne pubblicato postumo nel 1606.

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JAKOB SPRENGER Malleus maleficarum, Venezia, A.Bertani, 1576. [10a A.VI.9] Il Martello delle streghe è un trattato rivolto alla repressione contro la stregoneria, associata al satanismo. Diviso in tre parti, affronta tematiche come la natura della stregoneria e il ruolo delle donne, ritenute maggiormente esposte all’azione del demonio; fornisce anche indicazioni pratiche sulla cattura, detenzione, tortura, processo ed eliminazione delle streghe. Secondo l’Autore, è sufficiente la diceria pubblica per condurre una persona a processo; una difesa argomentata e vigorosa da parte dell’avvocato sarebbe indizio che anche il difensore stesso è stato stregato; infine che i giudici, in quanto rappresentanti di Dio, sarebbero immuni dal maleficio.

NICOLAS RÉMY Daemonolatreiae libri tres, ex iudiciis capitalibus nongentorum plus minus hominum, qui sortilegii crimen intra annos quindici in Lotharingia capite luerunt, Lione, Vincent, 1595. [1a F.V.13] Nicolas Rémy (Nicolaus Remigius) è noto per avere condannato a morte, durante la sua

carriera di magistrato, circa un migliaio di persone con l’accusa di stregoneria. Questa “esperienza” sul campo lo spinse a raccogliere in un trattato su demoni, streghe e stregoni tutta la casistica possibile di sortilegi e malefici contro persone, animali, raccolti dei campi ecc. FRANCESCO BRUNI Tractatus de iudiciis et tortura, Lione, G. Rouillé, 1547. [Salone F.IX.12] FRANCESCO MARIA GUAZZO Compendium maleficarum, ex quo nefandissima in genus humanum opera venefica ac ad illa vitanda remedia conspiciuntur, Milano, tipografia Collegio Ambrosiano, 1626. [10a R.VII.16] Considerato uno dei più autorevoli manuali di demonologia, il Compendium maleficarum del Guazzo venne scritto utilizzando casi di processi reali affrontati da egli stesso e dall’inquisitore Nicolas Rémy, autore a sua volta del trattato Daemonolatreia. Contiene descrizioni di patti con il diavolo e resoconti su streghe, poteri malefici e veleni mortali.

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PAOLO GRILLANDI Tractatus de hereticis et sortilegiis. Item de questionibus et tortura ac de relaxatione carceratorum, Lione, G. Giunta, 1547. [10a A.VI.9] Anche Paolo Grillandi, analogamente a molti altri autori di trattati di demonologia, fondò le proprie osservazioni sull’esperienza di inquisitore nella prima metà del XVI secolo. Il Tractatus de haereticis et sortilegiis divenne rapidamente uno dei testi normativi di riferimento per gli inquisitori, anche al di fuori dell’Italia. Sempre basandosi sulla propria esperienza giudiziale scrisse anche i trattati De quaestionibus et tortura (nel quale propose cinque diversi gradi di tortura, da praticare secondo la gravità delle accuse formulate) e De relaxatione carceratorum.

MARTIN DEL RIO Disquisitionum magicarum libri sex, Venezia, Giunta, 1652. [10a I.III.26] L’opera del teologo gesuita Del Rio, che fu oggetto di una ventina di edizioni nell’arco di un secolo, rappresenta, nella sua disamina rigorosa della magia e dell’occultismo, uno dei testi fondamentali per gli inquisitori impegnati nella caccia alle streghe. Si tratta di un manuale destinato a teologi, giureconsulti, medici e studiosi, scritto con l’intento di confutare “arti bizzarre e vane superstizioni” e per regolare i rapporti fra la legge dello Stato e tribunale ecclesiastico in materia di stregoneria.