Cassandra - Novembre 2012

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Il giornale indipendente del Liceo Sarpi.

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L’editoriale2

Donne e uomini del Sarpi,dopo due mesi - che la Redazione e la sottoscritta sperano essere stati densi di attesa e fibrillazione da parte vostra - di attività frenetica, di discussioni a dir poco partecipate, di scambi di idee che ci hanno fatto sfiorare più volte la dichiarazione di guerra omnium contra omnes, eccovi il primo numero di Cassandra. Speriamo che le vostre eventuali aspettative possano essere soddisfatte. L’impegno della Redazione si è tradotto in diverse novità, che avete sott’oc-chio: il tipo di stampa (vi sarete accorti che il numero non vi si è sfasciato in mano all’apertura), il passaggio al colore, la grafica, l’impaginazione, l’intro-duzione di alcune rubriche (iniziamo con Politeia, Ritorno al Futuro e Fuso Ora-rio, della sottocommissione Sarpi e con NaOh, che sarà gestita di volta in volta da una persona diversa). Naturalmente in tutto questo non c’è solo estetica: la qualità degli articoli resta e così la funzione divulgativa di Cassandra nella scuola. All’interno del giornale troverete uno ‘spazio informazioni’ che chiunque, studente, genitore, personale ATA, docente, è invitato a riempire con le proprie proposte di attivi-tà, di incontri, di cosebelleeinteressantiacuipartecipare; ai tempi di Facebook promuovere i propri eventi per via cartacea può sembrare ridicolo, ma la Redazio-ne è ambiziosa e spera che Cassandra continui ad assumere, con la collaborazione di ciascuno di voi, il ruolo che il suo Statuto le attribuisce di ‘strumento di comunicazione interno alla scuola, capace di favorire il libero scambio di idee, promuovendo un dibattito libero, costruttivo e propositivo e svolgendo il compito di controllo e di critica positiva all’operato degli organismi interni all’isti-tuto’. La pubblicazione di questo numero è stata possibile grazie alla magnanimità e alla fiducia che l’Associazione Genitori ci ha dimostrato: una dichiarazione pub-blica di gratitudine è d’obbligo. Speriamo di esaurire il debito nel prossimo nu-mero, in cui ospiteremo un articolo che ci chiarirà cosa sta accadendo nell’uni-verso parallelo dei genitori, quali riflessioni sono in atto e che idea di scuola sta nascendo. Avrete notato che non abbiamo stampato una copia per ogni studente: abbiamo privilegiato la qualità alla quantità e il risparmio (sia di soldi sia di carta) allo spreco. Inoltre questo numero è ecosostenibile e a km zero, perché è stato stampato su carta riciclata e con inchiostri a base vegetale da un’ecotipografia bergamasca. Contiamo, dunque, sulla vostra dimestichezza con la rete: chi non possiede una copia cartacea del numero, può sfogliarselo virtualmente su cassan-dra.liceosarpi.bg.it. Sul sito troverete anche i primissimi risultati di un’ope-razione, cominciata quest’estate, di scannerizzazione dei giornali pre-Cassandra (che è nata nel 1996): per il momento trovate due numeri di Sarpi Press del 1967, che sono le pubblicazioni studentesche meno recenti. Mi si perdoni la completa autoreferenzialità pseudopubblicitaria di questo editoriale, ma per il primo numero mi è sembrato opportuno spiegarvi cosa sarà Cassandra quest’anno. Tutte/i siete invitate/i a ampliare ulteriormente la già popolosa Redazione, a mandarci articoli qualora non possiate presenziare alle ri-unioni e a suggerirci come migliorarci. •

Buona lettura!

Tutto deve cambiare...di Benedetta Montanini 3A

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Qualche mese fa una ragazza, esasperata dalla solita routine e spaventata da una situazione di delirio che aveva invaso la sua classe e non solo, dando ascolto agli imperativi vindica te tibi e car-pe diem, aveva scritto un articolo un po’ romantico, un po’ sentimentale, un po’ mieloso, sulla necessità di trovare la felicità e la pace anche qui, qui al Sarpi. Le avevano messo in testa che al Sarpi la felicità si trova se ci si la-menta, ma lei era stanca di sentire gli altri lamentarsi della fatica, e si ver-gognava per come tutti quei discorsi as-surdi sui professori le fossero entrati nelle orecchie e, un po’, anche nell’a-nima. Poi arrivarono le parole di un ragazzo poco più grande di me, ma molto più saggio: “Vivete la scuola. Porta-te il vostro contributo per la crescita della scuola, per un istituto migliore di come lo avete trovato”. La domanda sorge spontanea: cosa ci faccio io qui? Parlo tanto (e si parla, perché mi per-metto di criticare, oltre a me stessa, tutti gli altri) che questa scuola non mi dà niente, ma io cosa le ho dato? Ragazzi, non siamo noi la scuola? Lo chiedo a voi, lo scrivo per voi, perché non ha senso scrivere per sé stessi, né ha senso studiare per sé stessi. Tutte le informazioni che riceviamo qui non hanno senso in sé stesse e per sé stes-se. Una volta una persona ha detto che “hanno senso se noi le facciamo agire”; prendete queste parole come un invito,

una sfida, una benedizione e una maledi-zione. Sono un invito, perché ti è dato gratis, ma tu devi garantire la tua par-tecipazione; e se partecipi, un consi-glio: non disertare. È una sfida perché è difficile e se hai paura delle diffi-coltà, posso dirti solo due cose: primo, benvenuto nel club; secondo, se ti ri-fiuti di affrontare le difficoltà e fai tanto il galletto perché esigi una stra-da meno tortuosa, dentro di te hai pau-ra della vita e non saprai mai apprez-zare i tuoi traguardi e, peggio ancora, non supererai mai i tuoi limiti, il che equivale a non crescere mai in spirito e in personalità. Sono poi una benedi-zione perché ti tirano uno schiaffo e ti ribaltano l’esistenza: non invento se dico che si vede tutto con una nuova e più limpida lucidità e che si capi-sce cosa significa Conoscere, Pensare e Esprimersi. Ma è anche una maledizione, perché non avrai mai sosta. Il punto è che quando si apre la mente, si ha sete di tutto. E si vede tutto storto, e si vuole raddrizzarlo. Non troverai quindi una pace né fisica né intellettiva: fer-mare il corpo e fermare il cervello non significa trovare la pace, ma subire in modo passivo. E subire è quello che non bisogna fare, mai. Se c’è una cosa che sostengo da tre anni e sulla quale non avrò mai nulla da ridire, è che al Sar-pi si impara ad alzare la testa da soli, perché si è stimolati a farlo. Quindi adesso basta camminare per i corridoi con la testa bassa per la stanchezza: troviamo l’energia necessaria per cam-biare quello che vogliamo, non solo per parlare e lamentarci. Il Sarpi è una strada in salita, ma le strade servono per viaggiare, non per sostare. Stiamo viaggiando dentro la nostra giovinezza: diamo il meglio di noi. •

Strada inSalitadi Giulia Testa 2B

IPSE DIXITEx 1BMILESI: Per effetto dell’ossidazione, dove c’era chiaro è scuro, è chiaro? Argh!!!

MILESI: Per una volta che non dobbiamo correre dietro al tempo: scialliamoci, perbacco!

Riferendosi a Castel del MonteCRI: Sembra il Bolgia, da fuori.MILESI: Ma cosa avete in testa????

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Se si dice a qualcuno che si fa il Sar-pi, la reazione generale è del tipo: “O mio Dio, povera ragazza che si ammaz-za di studio!”, oppure è molto diffuso anche “Allora sei un’intellettualoide del cavolo che non sa nemmeno avvitare una lampadina!”, detto con molta suf-ficienza. Ma se l’avessero detto a me a maggio dell’anno scorso, mi sareb-be venuto da ridere al pensiero che io stavo per andare in Puglia con la scuola per una settimana. Non che stessi andan-do al mare, sia chiaro. Andavo a fare l’Archeostage, un progetto, proposto da alcune liste l’anno scorso, approvato dalla Preside e addirittura richiesto da alcuni genitori, che prevedeva una set-timana a Patù (LE) per imparare le basi dell’archeologia, dallo scavo alla clas-sificazione, passando per la simpatica operazione di pulire i cocci dalla terra mediante un sofisticatissimo spazzolino da denti. L’esperienza, a detta di tutti quel-li che vi hanno partecipato (compresa la sottoscritta), è stata davvero bel-la, e ora vi spiego perché. La settimana in Puglia non è stata solo qualcosa di scolasticamente utile, ma ha avuto suc-cesso sotto tutti gli aspetti. In primo luogo ha colpito tutti l’aspetto cul-turale, che è stato curato al meglio, perché abbiamo avuto la possibilità di visitare musei con un occhio più critico ed esperto dei nostri, l’occhio di chi i musei li fa, di chi decide cosa esporre e come esporlo. Poi abbiamo girato un pochino la Puglia, che è una terra bel-lissima, e c’è sempre stata l’attenzione

di collegare con la nostra esperienza di studenti di liceo classico ogni cosa che si vedeva. E anche sotto questo aspetto, cioè “noi facciamo il liceo classico”, è stato illuminante, visto che abbia-mo potuto toccare le cose che di soli-to studiamo, vedere quello che leggiamo nei libri e fare, in un certo senso, la storia. Poi bisogna dire che noi veniamo dal-la fredda Bergamo, e non solo perché piove e c’è la nebbia, ma anche perché se alla gente di qui fai una gentilezza ti guardano come se avessi appena tenta-to di rubargli il portafoglio. Giù in-vece se dici “che carino” al cane di una signora, questa ti offre subito mezzo chilo di cioccolato (e non sto scher-zando, parlo per esperienza personale). E infatti un altro aspetto che ha con-tribuito a rendere questa esperienza un successo, è stato il calore delle per-sone. Non solo degli archeologi, che ci insegnavano a scavare e a classificare ( e che ci facevano mangiare i gelsi e il finocchietto selvatico, ci racconta-vano i segreti della campagna pugliese, ci portavano in tavola la ricotta for-te, ci insegnavano la pizzica e ci sop-portavano quando incominciavamo a fare cose insensate dopo tre ore di scavi in ginocchio), ma anche le vecchiette e i nonnini per le strade di Patù, che sem-brava non avessero mai visto dei ragazzi da quelle parti. Ma cosa abbiamo fatto per una set-timana? Giusto per sfatare il mito che fosse una vacanza con una parvenza di serietà… Per cominciare siamo stati divisi in due gruppi e, teoricamente, mentre uno era a scavare l’altro lavora-va sui resti, che erano principalmente cocci di anfore (pochi) e tegole (mol-tissime), da lavare, disegnare e classi-ficare. Il periodo di cui ci occupavamo era principalmente l’età messapica, ma è capitato di trovare resti di mosaici e vasi romani. In realtà la divisione dei lavori è stata un po’ arbitraria, e un gruppo si è trovato a scavare tre giorni su quattro e l’altro a stare sempre al museo, ma comunque le reciproche lacune sono state colmate dalla mostra finale che è stata esposta al museo di Patù: un lavoro fatto di cartelloni e reper-ti classificati ( e anche un esempio in

Breve epilogo di un Archeo-stagedi Micaela Brembilla 2C

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vaso di stratificazione del terreno ) in cui raccontavamo tutta l’esperienza fat-ta, comprese le gite, il cibo, i giochi. Per concludere, è stata un’esperien-za bellissima, che tutti rifarebbero e proporrebbero sicuramente alle future generazioni sarpine. Il prof. Cubelli ha assicurato che il progetto continuerà quest’anno e dovrebbe lasciare traccia di se perché stanno lavorando per porta-re a Bergamo la mostra che noi ragazzi abbiamo preparato per il museo di Patù.

E inoltre ha detto di essere rimasto molto soddisfatto perché, cito, ‘ci sono delle cose che nascono bene e si svilup-pano ancora meglio, e l’Archeostage ha funzionato al meglio, anche nel rapporto tra le persone.’ Va bene come risposta? Si ringraziano per la collaborazione tutti i ragazzi dell’Archeostage che si sono sottoposti alle mie insensate do-mande. •

Ritorno al Futuroa cura di Arianna Piazzalunga 3CUna rubrica dedicata ad ex-sarpine ed ex-sarpini che tornano in piazza Rosate per narrarci la loro esperienza universitaria.

Mi presento: sono Anna, sono ad un esame e mezza tesi dalla laurea quinquenna-le di Architettura, e ho frequentato il liceo Sarpi, diplomandomi nel 2007. Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa che riporti le mie considerazioni circa gli anni passati al liceo Sarpi alla luce della mia esperienza universitaria, tas-sello di una piccola guida che orienti il giovane sperduto maturando nella non sempre facile scelta del percorso acca-demico. E’ impresa quantomai ardua cer-care di surrogare in poche righe questi anni di esperienze, novità e studi ric-chi di variabili e cambiamenti, in cui la vita sarpina è diventata un ricordo, molto spesso idealizzato e impoverito. Partirei dunque da una piccola premessa: quando nel 2007 ho dovuto a mia volta scegliere a quale facoltà iscrivermi, si può ben dire che fossi l’incarnazio-ne dell’indecisione, aggravata da un quinquennio di studio intenso e (quasi) devoto, ma ormai privo di stimoli e a tutti gli effetti stanco. Stanco a tal punto da spingermi a rivolgere l’atten-zione verso ciò che erano le mie passio-ni “extra scolastiche”, a quella parte di me che chiedeva che dessi voce alla creatività che per anni non avevo potuto esprimere: l’arte manuale, il disegno.

Indirizzai le mie ambizioni verso il fashion design. Ma l’indecisione regnava sovrana: è una scelta adeguata dopo anni di liceo classico? Sarà solo uno sti-molo momentaneo o una vera inclinazio-ne? Così è iniziata un’intensa fase di scrematura, al termine della quale, dopo aver consultato amici e parenti, amici di amici e conoscenti vari, sono giunta alla scelta di architettura. Architet-tura perché al giorno d’oggi l’ambito della creatività è fluido e intercomuni-cante: facilmente puoi trovare un ar-chitetto che si è dedicato al mondo del design, della scenografia, alla fotogra-fia, fino all’organizzazione di even-ti e - perché no? - alla moda. Questa pluralità di possibilità aperte da ar-chitettura mi aveva tranquillizzata, e avrei frequentato un’università a tutto tondo, senza il rischio di settorializ-zarmi troppo presto. Posso tutt’ora confermare il fatto che architettura apre numerosi campi e prospettive, molte delle quali si mani-festano solo durante il corso di studi, e così è successo a me. Ora il mondo della moda non è più una mia priorità, mentre ho conosciuto quello del restauro e della conservazione edilizia, un am-bito affascinante che senza aver scelto questo percorso di studi probabilmente non avrei mai scoperto. Per quanto ri-guarda la sede, la scelta è ricaduta su Milano per motivi molto semplici: la volontà di uscire dal chiuso mondo oro-

architetturAdi Anna Raimondi

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bico, la non estrema lontananza da casa - e quindi da amici e parenti (sì, ero un po’ pavida!) -, la presenza di mie conoscenze a Milano, e la quasi totale ignoranza sulla validità di altri Ate-nei. Forse ad oggi mi sarei consigliata un po’ più di coraggio, e magari addi-rittura la scelta di un’università stra-niera. Tuttavia, è da sottolineare come pri-ma di entrare ad architettura, per quan-te parole avessero speso i miei cono-scenti e amici che già la frequentavano, non avevo la ben minima idea di cosa mi aspettasse. Architettura è un mondo a sé, una facoltà relativamente piccola e a numero chiuso (c’è il test d’ammis-sione... ma basta studiare un po’ sui libri appositi per passare. In questo caso la preparazione sarpina è risulta-ta ben sufficiente), dove dopo qualche tempo ci si riconosce per i corridoi, e frequentando lezioni la cui frequen-za è spesso obbligatoria si finisce per formare sorte di grosse classi, come al liceo. Di buono, l’esperienza sarpina mi ha lasciato l’abitudine a dover spende-re molto tempo e impegno sullo studio, senza arrendersi facilmente, e l’incli-nazione un po’ servile a gravarsi di carichi di lavoro che alle volte paiono ingestibili. Lo stesso succede ad archi-tettura: chi pensa che si stia tutto il giorno a disegnare e giocare coi lego, è sulla cattiva strada. E’ una facoltà le cui materie non hanno la complessità delle scienze pure o il carico di studio teorico richiesto a medicina o giuri-sprudenza, ma è decisamente totalizzan-te, richiede determinazione e dedizio-ne. L’egemonia e la priorità - bisogna ammetterlo - è data ai laboratori di progettazione, in cui bisogna imparare a pensare a degli spazi, a capire come renderli reali e realizzabili, e a farli bene. Sono cose che non si possono solo studiare sui libri: bisogna imparare ad avere molti occhi e orecchie, prendere spunti da ogni dove, allargare le pro-prie curiosità e ambizioni, diventare ricettivi, creativi, coraggiosi, cose a cui il liceo Sarpi mi aveva un po’ disa-bituata. E metterci molto tempo, stare in università dalla mattina alla sera, trovarsi coi compagni di gruppo, rico-minciare da capo molte volte. Ovviamente

il modo di affrontare una facoltà varia a seconda della propria personalità e attitudine: per quanto mi riguarda in varie occasioni ho dovuto rinunciare a passioni extra universitarie, perché potenzialmente non si finisce mai di progettare. Ho decisamente speso molte più ore di lavoro all’università che al liceo, ma molti dei miei colleghi po-trebbero non essere d’accordo. Notando che se si rinuncia a qualcosa, ovviamen-te è perché gli stimoli e la passione per qualcos’altro lo rendono priorita-rio e coinvolgente. Una volta dentro, le dinamiche da “facoltà di architettura” vi diventeranno familiari, vi renderete conto che sono esclusive di quel mondo, e che il vostro stile di vita e studio è molto spesso lontanissimo da quello dei vostri amici che fanno altre facoltà. Non è questa la sede per entrare nel dettaglio, ma è necessario sottolinea-re che sono molte le imperfezioni di un ambito in cui la fatica e l’impegno sono spesso fonte di frustrazione, ma è anche vero che numerose sono le occasioni in cui un bel lavoro regala grandi soddi-sfazioni. Riassumendo: se siete disposti a spendere tempo e passione, con però il guadagno di un intero nuovo mondo, è la facoltà per voi. L’architettura, a suo modo, ti apre gli occhi in varie dire-zioni, ti fa vivere la città, scoprire nuovi ambiti e punti di vista, abbatte gli orizzonti. La preparazione data-mi dal liceo classico è stata talvolta adeguata, talvolta lacunosa, soprattutto quando avrei voluto avere più manualità o più conoscenze in ambiti che non fos-sero solo teorici, ma è sostanzialmente bastata. Ancora adesso fatico ad usci-re dalla forma mentis un po’ inquadrata datami dal liceo, che però - lo ripeto - non costituisce un ostacolo, ma al limi-te una sfida. Non mi arrogo il diritto di parla-re per tutti: di certo molti dei miei compagni di studi hanno avuto percorsi diversi dal mio, chi più in positivo, chi in negativo. Ma per rassicurare i maturandi indecisi posso dire che molti di noi, forse la maggioranza, ancora non hanno chiaro cosa faranno “da grandi”, dopo la laurea (il progettista, il de-signer, in un’azienda, all’estero?), e talvolta nemmeno chi ha da anni supera-

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to la laurea ed è entrato in un ambito lavorativo sa se quella è la sua voca-zione. Molti modificano il loro percorso strada facendo, scoprono nuove passioni, si mettono in discussione. Anche io non so bene cosa farò, e talvolta - l’ambito accademico inizia a starmi decisamen-te stretto, e ne vedo tutti i limiti, soprattutto legati all’istituzione Po-litecnico - vorrei dedicarmi a tutt’al-tro, ma non ho grossi rimpianti. A chi mi dice che a causa della crisi non avrò lavoro - la percentuale di architetti in Italia è decisamente alta - rispondo che è un aspetto di cui mi rendo conto, ma che da solo non può costituire un crite-rio di scelta. Concludo con parole che non sono mie, e molte altre ne potrei trovare, perché questo è un ambito multiforme e diffi-cilmente riducibile: “‘L’architettura è l’arte di dare rifu-gio alle attività dell’uomo: abitare, lavorare, curarsi, insegnare e, natu-

Che cos’è il consiglio d’istituto e che compiti ha? Ok, ora, probabilmen-te l’argomento di questo breve articolo – che si prefigge di dare soltanto una breve somma di compiti e componenti del CdI- si presenta privo di interesse e -spero- già noto, ma vi invito a dare comunque un’occhiata. Il consiglio d’istituto si compone di8 professori (Trivia, Zappoli, Mazzac-chera, Buonincontri, Moretti, Salamone, Gentilini, Manzoni), 4 studenti neoe-letti (Sara Moioli, Pietro Raimondi, Marta Cagnin, Alberto De Gonda),4 genitori (Greco, Tirloni, Frigeni) uno dei quali ha rassegnato le dimis-sioni nell’anno scolastico 2011-2012,2 membri della componente ATA (Dianella Fumi e Donato Rizzello),inoltre ne è membro di diritto il Diri-gente scolastico;uno tra i genitori viene eletto presi-

PoliteiaUna rubrica antinebbia nella densa foschia burocratica degli organi degli studenti, dei docenti, dell'Istituto e dei genitori.

C.d.i.

a cura di Arianna Piazzalunga 3C

ralmente, stare insieme. E’ quindi an-che l’arte di costruire la città ed i suoi spazi, come le strade, le piazze, i ponti, i giardini. E, dentro la città, i luoghi di incontro. Quei luoghi di in-contro che danno alla città la sua fun-zione sociale e culturale. Ma natural-mente non è tutto. Perché l’architettura è anche una visione del mondo. L’archi-tettura non può che essere umanista, perché la città con i suoi edifici è un modo di vedere, costruire e cambiare il mondo. E poi l’architettura è struggi-mento per quella cosa bellissima che è la bellezza. Ma questa è un’altra storia ed è impossibile da raccontare’ (Renzo Piano) •

P.S. consiglio a tutti gli indecisi di documentarsi leggendo e ascoltando libri e interviste di architetti professioni-sti (posso citare ‘Amate l’architettura’ di Gio Ponti, ma numerosi altri ce ne sono).

dente (Anna Maria Frigeni).I membri del CdI, a eccezione degli stu-denti, hanno un mandato di tre anni. Il CdI, che si riunisce all’incir-ca ogni due mesi, si occupa di gestire e amministrare in modo trasparente le risorse della scuola. In particolare, viene approvato (solo dai membri maggio-renni) il bilancio annuale, vengono ap-provati alcuni progetti (per es. quelli delle gite), viene stilato un programma annuale in cui si decide quanti soldi destinare ai vari progetti, si stabili-scono i criteri generali per la forma-zione delle classi, vengono approvati e adottati il POF elaborato in collegio docenti e il regolamento d’istituto, si delibera per l’acquisto e il rinnovo di attrezzature scolastiche e si stabilisce il calendario annuale e la distribuzione dei giorni di vacanza (quelli ovviamente di competenza dell’istituto). •

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E infine eccomi in terza. Non sembra vero. Almeno, credo di non essermi anco-ra abituato all’idea. Perché i primi due anni del ginnasio sono trascorsi normal-mente, ma poi mi pare che il tempo abbia pigiato l’acceleratore. Però ammetto che ha i suoi vantaggi l’essere in terza: tra un anno sarai fuori. Ma ripensando agli anni trascorsi, posso dire, com’è normale, di averne viste tante in que-sta scuola: innanzitutto tanta gente se n’è andata e tanti altri sono arrivati. Ma il Sarpi non è per questo cambiato. Ricordo solo l’introduzione di un allo-ra famigerato tesserino elettronico per il riconoscimento degli studenti, detto “badge”, che si è poi dimostrato sempli-cemente inutile. Ricordo anche di quan-do è stato riverniciato l’interno della nostra sede, operazione che ha cancel-lato scritte sui muri penso anteceden-ti all’ultima guerra, senza che però si facesse niente per l’esterno, tanto che visto da fuori il Sarpi assume ogni

anno sempre più quel grazioso aspetto decadente, che corrisponde così bene al calo annuale delle iscrizioni (tanto per citare dei numeri, ricordo che quando io ero in quarta in totale gli studenti erano circa 800, adesso siamo forse in 666, o una cifra del genere). Quali al-tri cambiamenti si sono visti in questi anni? Be’, la mia classe può testimonia-re che abbiamo finora avuto ben 4 inse-gnanti di italiano, 3 di matematica, 5 di storia (!), 3 di filosofia e tra poco 3 di inglese. Io non so se rientriamo nella norma (spero di no), ma di certo non possiamo dire di aver avuto un pro-gramma di studi monotono. Ma sorvolando i casi singolari, e tornando al discor-so del calo delle iscrizioni, mi chiedo perché il Sarpi in particolare sia oggi così poco desiderato. E non posso fare a meno di far notare una cosa, forse già evidente a molti: al Sarpi si insegnano tante belle nozioni, che ti imbevono di conoscenza. Ma forse spesso tutta questa conoscenza non fa in tempo a diventare critica, a diventare cultura. E a volte si ha la percezione che al Sarpi si pri-vilegi l’abilità mnemonica (che pure è fondamentale) rispetto alla capacità di ragionare. Ovviamente, non voglio fare di tutta l’erba un fascio e so che in molti casi non è così. Ci sono insegnan-ti che mi hanno fatto e mi fanno tutto-ra apprezzare questa scuola. Il fatto è che mi sembra, per esperienza personale, che gli insegnanti che sanno trasmettere conoscenze in modo ordinato e sintetico passino meglio i loro insegnamenti di quelli che danno da studiare pagine su pagine. Ed eccoci al dunque: il Sarpi spaventa perché chiede tanto, ma for-se lo studio di tante nozioni non dà il tempo sufficiente ad assimilarle. Io la penso così, e forse non sono il solo a immaginare un Sarpi meno nozionistico, con più stimoli e che ti lasci più tempo per approfondirli. •

pensieri su quattro anni trascorsi in questa scuoladi Luca Gnecchi 3D

ZAPPOLI: Qualche autore latino cristia-no?GRITTI: Clemente Alessandrino.ZAPPOLI: Ma se è alessandrino non è cri-stiano.CRIPPA: Però è Clemente!!!

CRIPPA: Se il primo è, il secondo è; ma il primo non è, dunque il secondo non è. Ma è sbagliato! Metti: se c’è gior-no, c’è luce; ma se non c’è luce magari c’è un’eclissi!!!

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Ciao Cassandra, ciao gentile lettore, riporterò su questo giornalino un perio-dico manuale di sopravvivenza in Thai-landia, dove non “sunt Leones”, ma dove ci sono i Thailandesi. Mi chiamo Vicky (ex 1I, futura 3I), mi chiamano “ehi tu”, in arte Johna-

tan, e in Thailandia วิกกื. Ho diciasset-te anni, e qui è il 17/10/2055, e sono qui da due mesi e due settimane. Partito con l’associazione AFS, Intercultura, in Italia, di cui mi avea hablado un queri-do amigo francese. Gli Editori mi hanno chiesto di dirvi qualche cosa strana/diversa dall’-italian-style, che mi sia capitata, e quindi farò il contrario, e vi dirò che una volta ho mangiato decen-temente. Per il resto sono immerso nella cultura Thai, da cui evado, nel tempo libero, con la lingua italiana (anche se preferirei ben altra lingua, or come

ora, ma ci si adatta!), leggendo le let-ture, scrivendo le scritture e limonando i limoni di Montale. (che tra parentesi, sono davvero una ricchezza!) In Thailandia ci sono tre stagioni: la stagione calda, la stagione più cal-da, e la stagione orribilmente calda (anche detta caldissima) . E ghermito dall’appiccicosa coltre di umidità sta-gnante, fuori dall’aeroporto, capisco che la mia sopravvivenza è già compro-messa. Go on! Mi dico. Per soprav-vivere qui nella terra del sorriso, ma più che altro del riso, occorre tenere a mente un minuscolo vocabolario:- Mai pu Thai = non parlo Thai; ฉันไม่พูดภาษาไทย- Ghin khao mai = ho fame (letteralmen-te: mangiare riso, sì?) กินข้าว- Aroi, tè im = buono eh, per carità, ma sono pieno; ที่ดี แต่เต็ม- Mai pen rai = scialla! ไม่เป็นไร Segnalo in particolare il ‘Mai Pen Rai’ che è addirittura proverbiale, di queste parti. Più che la terra del sor-riso, ma più che altro del riso, io la definirei infatti la terra del ‘Mai pen rai’, del “meglio è se meno ne sai”, dell’omertà politica e religiosa (ma frena la lingua, ché ne dico dopo!): qui tutti dicono ‘Mai pen rai’: ho fame, aiutami! Sorriso ebete e ‘MPR’; al la-dro, mi hanno rubato le ceneri del non-no! ‘MPR’; si salvi chi può, arriva un comunista! ‘Un comunista?! Oh merda, al riparo! e via così...’ Accennavo poco sopra all’omertà poli-tica e religiosa; per sopravvivere alle lande Thailandesi, ma soprattutto agli autoctoni, è benissimo che non vi iner-pichiate in domande come: ‘Allora, come sta il vecchietto’ (il re n.d.A.)? o non facciate battute, o battutine, frec-ciatine, freddure (anche se...), ironie

Fuso Orarioa cura di Giulia Testa 2B e Micaela Brembilla 2CRubrica semiseria per chi crede in 'errando discitur', per chi desidera scoprire nuove realta': i nostri corrispondenti sarpini da Thailandia, Argentina, USA e Australia ci raccontano le loro acrobazie per sopravvivere, nella vita e a scuola, per vedere ancor meglio quanto e' strano il nostro Sarpi.

ENCHIRIDIO MINIMO PER LA SOPRAV-VIVENZA IN THAILANDIA PT. 1di Vicky Rubini

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o roba simile sulle vestine ridicole del Buddha. No davvero, rischiate il carce-re, o la morte. Serissimo, qui la pena di morte è ancora ampiamente utilizza-ta, per traffico di droga e per ingiu-rie nei confronti di sua Magnificenza il Re. Siate poi cautissimi nei “discorsi” sopra la religione! Mai, MAI chiedere: ‘Senti, fenomeno, ma lo sai che se la-sci del cibo davanti alla statua del Buddha, mica lo mangia davvero? Dico, lo sai almeno?’ Non azzardatevi a fare questo tipo di domande pericolosissime! Non chiedete che differenza c’è tra un Buddha che medita, un Buddha che prega, uno che dorme, uno che mangia, uno che cammina... E cioè non chiedete perché ad ognuno vada fatta un’offerta in danaro sonante, o peggio, cartaceo. Non cercate il confronto con questa popolazione, perché ho sperimentato con delusione (e torno serio) che non può esserci scambio di idee, ma solo indot-trinamento. Tutto ciò che è ‘Farang’, straniero, è brutto, cattivo, e sbaglia-to. A parte gli I-phones, la plastica sparsa ovunque, i grandissimi magazzini, le soap operas e tutta una lunga serie di orribili cose che fanno del mondo un posto peggiore di quello che non sia... A parte la globalizzazione non voglio-no avere contatti con l’esterno. Se per esempio hai un’idea diversa non ha sen-so, non ha senso, cercare di discuterne. Non capirebbero. Per fare un esempio, è come se qualcuno venisse da te, in Ita-lia e ti dicesse: ‘Mai pen rai!’ allo stesso modo tu non capiresti. E’ fuori dalla tua portata intellettuale e con-cettuale. A cosa serve spiegargli che la tua religione ti vieta di mangiare car-ne? E che anche il buddhismo, in teoria, lo sconsiglierebbe? Niente! Ti guardano male, non capiscono, e finché tu stes-so non dici, afflitto, ‘va beh, mai pen rai’, fino ad allora loro terranno il broncio, ma poi tranquillo (mai pen!) torneranno a sorridere come dei bravi automi made in Thailand. A prestissimo! •

JTV

1. La scuola e' davvero finita

Entro trionfante in terrazza alle 9.45 per raggiungere gli altri temerari del-la III C, che come me non hanno nessuna intenzione di passare l’ultimo giorno da liceali in quella squallida succursale in cui ogni giorno sembrava una scena tratta da “Qualcuno volò sul nido del cuculo”; l’unico lato positivo lì sono i bambini dell’asilo con cui sfottere Catti. Prima che la preside si accorga del gruppo di gente in terrazza mi metto a girare a zonzo per i corridoi con il cuore a mille per l’ansia e l’emozione per ciò che sarebbe accaduto all’inter-vallo. Il fatto stesso che non riesca bene a prevedere come possa andare rende il tutto ancora più gustoso. La preside! ...In classe? Subito signo-ra preside! In che aula dovrei essere? Ehm... Chi è il mio prof dice? “Ma mi riconosce?” Non credo proprio... ma non importa perché mentre mi rivolgeva que-ste domande sono già svicolato in un altro corridoio. Comincia il gioco di guardie e ladri. Sono le 10.10 e per fortuna la console è già in aula CIC. Fuggo in bagno, ma le bidelle cronometrano quanto ci sto. Corro in segreteria passando dalle scale vicino all’aula di arte, le altre sono troppo esposte, troppo prevedibili... Meravigliosa Aurelia che mi vede e ca-pisce subito che non dovrei essere lì, ma fa finta di nulla per non insospetti-re le colleghe. Mi siedo qualche minuto con lei, dietro quel limite invalicabile del bancone della segreteria e faccia-mo due chiacchiere. Sono lì da troppo,

dossier:THE LAST DAY1. dell’ex sarpino Julian Frickleton 2. dell’ex sarpino Lorenzo Gaspani 3. di Davide Gritti 3A

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devo cambiare nascondiglio e mi fiondo in biblioteca invocando l’”arimortis” di Wally. ...La preside mi cerca! Hai qual-che libro da riordinare? Qualche tavolo sotto cui nascondermi? “Io non ti ho vi-sto! Qua in biblioteca sono sola soletta e basta”... Fantastica. Sono le 10.30. I miei compagni e al-tri di III A e III F sono stati sbattuti fuori dalla porta principale. La preside minaccia di chiamare i carabinieri e una voce da fuori commenta “E cosa vuol dire ai carabinieri? Che ci sono degli stu-denti nella sua scuola??”. Sono una ventina e sono l’unico che non è stato beccato. Esco dal seminterra-to per raggiungerli in piazza Rosate, “Ragazzi!! Ho aperto una seconda stra-da! Andiamo!!”. In quel momento nella mia testa pensavo a una cosa tipo: “C’è un’altra strada. Più segreta. Una stra-da Buia... C’è un sentiero e poi delle scale. E dopo... una galleria”. Senza pensarci corriamo tutti alla porta socchiusa del seminterrato e ci prepa-riamo all’invasione. Io e Lore ci to-gliamo le magliette e ci facciamo dipin-gere segni di guerra in faccia. Il mio cuore sta per esplodere. 2 settimane di attesa a immaginare que-sto momento, ma non potevamo immaginare tutta questa adrenalina. “Al suono della campana entriamo urlando come matti su per le scale!!” Mirella ci ha sgamati e tiene d’occhio la porta sbraitando “Occhio sono qui dietro alla POOOOOORTAAAAAA!” con la voce di un angelo.

DRIIIN. VIA. Porta spalancata. Urli infernali. Salgo i gradini quattro e cinque per volta. Mirella mi afferra per un braccio ma scivolo via. Ultima scalinata, l’a-trio è già gremito. Beppe Manzi ci fa da cronista riprendendo l’arrivo alla con-sole semi allestita. Collego la corrente, il microfono, il computer. Parte in dissolvenza un loop di Turbulence di Steve Aoki mentre Lore incita tutti al microfono. Rimuovo il loop e la canzone parte. Un attimo prima che parta il ritornello faccio un salto in aria... Non so quanto abbia saltato, 30, 40 centimetri? Non importa. In quel sal-to culmina la mia mattinata e la mia vita sarpina. In quegli attimi di volo ho messo tutta la rabbia, tutta l’ango-scia, l’oppressione e la fatica che ho provato a causa del Sarpi. Ma staccatomi da terra nulla di tutto quello sembrava più appartenermi, come se non avessi mai provato alcuna di quelle sensazioni. Atterro. Provo una sola cosa: Libertà. La scuola è davvero finita. •

2. Cosa e' successo cosa e' rimasto?

9 Giugno 2012, inizia il mio ultimo giorno di scuola da liceale. C’è qualco-sa che non va però in questa giornata, qualcosa è diverso da tutti gli altri “last days”: VIETATO FARE FESTA. Come è possibile? Una circolare, pochi gior-

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ni prima, mette in guardia i possibili festaioli che sabato 9 sarà obbligatorio stare nelle classi e chi sarà trovato per i corridoi verrà gentilmente “scor-tato” dal personale ATA in presidenza. E’ pur sempre il mio ultimo giorno di scuola però, e c’è un piano da rispet-tare: iniziare dall’intervallo, mettere musica alla console in atrio e piazza-re gente che suona in terrazza. Si va contro la circolare, si naviga a vista sperando di avere un minimo di diverti-mento, anche se breve. Dopo essere stato accompagnato fuori dalla scuola a causa di una piccola bravata acquosa ai danni di Teli, decido insieme a Julian e ad altri fidi rivoltosi di entrare di na-scosto durante l’intervallo e raggiun-gere la console nell’atrio. Dopo che il mio amico scozzese ha travolto l’inde-fessa (ma non troppo) Mirella, salia-mo di corsa le scale dei sotterranei e arriviamo a destinazione. Piantiamo una canzone tamarrissima ma anche significa-tiva: Turbulence. Scoppia il delirio: le terze si mettono a ballare davanti a noi e gli altri studenti ci osservano con sguardi sbigottiti e anche un po’ timo-rosi. Giunta la preside, dobbiamo chiu-dere. “Basta, Gaspani. Basta!!”. Dopo un breve e sincero saluto a tutti i miei compagni di scuola lascio l’istituto. Penso: “Mi sono divertito un casino!!”. La mia attenzione viene però richiamata verso la porta. Da fuori mi affaccio e vedo tutto l’atrio occupato (nel senso letterale della parola, non speculiamo già) dagli studenti che si sono sedu-ti in segno di protesa. Mi viene data la possibilità di rientrare; lo faccio e mi siedo tra gli altri, in silenzio, maledettamente curioso di vedere cosa accadrà di lì a momenti. Dopo qualche canto e un po’ di cori (Sarpi libero!! Sarpi libero!! E via dicendo..), la pre-sidenza ci dà la possibilità di fare festa per due ore, con dj set in atrio e musica in terrazza. Giornata assur-da, la più assurda, la più bella. Tutto perfetto, tutti contenti. No. Poche ore dopo, sulla pagina facebook del Sarpi, si fa largo un “tentativo di autocriti-ca” (lo scrivo volutamente minuscolo) su ciò che è successo. Tanti a favore, ma alcuni pongono l’accento sulla non-consapevolezza di ciò che è successo e delle parole usate (rivoluzione, occu-

3. Non capisco, quindi non sono d'accordo

Già alle prime avvisaglie, ovvero i moniti sobillatori visti il giorno pre-cedente sulla pagina facebook d'isti-tuto, non potei astenermi da una sorta di timore verso quello che poi sarebbe passato negli annali come il primo ul-timo giorno in cui gli studenti hanno "vinto". Questa sensazione è paragona-bile con i dovuti relativismi e con il rispetto che nutro verso la più parte di voi sarpini allo stato di catalessi in cui può piombare un contadino comune che un bel giorno vede disporsi sul suo cam-po a frumento una compagnia di carriar-mati giocattolo e che, osservando atten-tamente lo svolgersi dello scontro, si

pazione etc etc). La mia intenzione non era quella di promuovere un sit-in né di rivoluzionare questa scuola né tan-tomeno di propormi come ciclopico poe-ta tribuno a guida delle inconsapevoli masse di studenti sarpini alla conquista dei tanto anelati diritti. Io volevo un ultimo giorno di scuola da non dimen-ticare, passandolo con i miei amici ed i miei compagni di scuola festeggiando insieme. Quando ho visto tutta quel-la gente seduta in terra e decisa a non muoversi mi sono meravigliato dei sar-pini, che molti ritengono solo pallidi e disinteressati secchioni. Il sit-in è nato dagli studenti, ispirati da alcu-ni ragazzi di terza (grazie ex III I), che hanno deciso di chiedere di più a loro stessi, dimostrare che a volte si esagera e a volte qualcuno incrocia le braccia e dice no. Questo è l’accadu-to, questo il commento, secondo il mio parere. E’ stata una giornata straordi-naria, sorprendente da tutti i punti di vista. Cosa ha portato questo? A quanto ho capito è “grazie” al 9 giugno che da quest’anno ci sarà la ‘lectio brevis’. Forse è poco, ma a me piace credere che si sia creato un precedente, un picco-lo precedente che resterà a monito per il futuro, a ricordare che, ogni tanto, combiniamo qualcosa anche noi sarpini. Mi auguro vivamente che tutto riman-ga nella memoria di chi l’ha vissuto e magari riecheggi in futuro tra le mura pluricentenarie del nostro istituto... •

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NaOHCome certamente tutti voi avrete capito, dottissimi Sarpini eccelsi conoscitori d'ogni scibile, si tratta della formula chimica della soda caustica. Rubrica d'opinione sferzante, bruciante, tagliente, impietosa, desacralizzatrice d'ogni sacralita'. La rubrica che abbatte le colonne, oltre che i muri, della superstizione.

Ovverosia, dissertazione per cui mi ver-rà ingiustamente dato l’appellativo di reazionaria.[Solo per pochi: oh generazione sfortu-nata!]

L’ultimo giorno di scuoladi Sara Moioli 3A

Cominciamo con una citazione: “la rete non è Che Guevara, anche se si finge tale” (Caparezza, Chi se ne frega della musica). Siamo in una scuola di grandi classicisti, abituati a scavalcare di-stanze spaziotemporali siderali con la leggiadria di un habituè della metro per dialogare con i Grandi della storia come si farebbe con la commessa al ban-cone del nuovo bar di Campanelli. Non sarà quindi troppo chiedere di riandare con la mente al passato 9 giugno, quando l’anno scolastico 2011 2012 si concluse. Beh, che dire? È certo un’ardua impresa descrivere su un giornalino sì mediocre la grande potenza vitale della follia orgiastica che prese i sarpini della sede (nonché i disertori della succur-sale). Ovunque si gridava alla rivolu-

rende piano piano conto che i carriarma-ti non sanno di essere dei giocattoli. Mi si risponderà ora, cogliendo al volo la metafora, che sapevamo, tutti quanti, della sostanziale surrealità dell'acca-duto. Ma al tempo, ve lo posso assicu-rare da osservatore attento, aleggiava dardeggiando tra pupilla e pupilla un atteggiamento che raramente ho constata-to prima: la serietà. Quando scavalcai, come la più parte di voi, una finestra delle aule del piano terra per raggiun-gere la terrazza sprangata, vidi facce che altrimenti avrei collocato in sce-ne di guerriglia balcanica. Avevate sui volti la consapevolezza di aver fatto qualcosa di importante, urlaste ad alta voce, ve lo permisero, vi esaltaste e gridaste alla vittoria. Quando poche ore dopo ascoltai la diretta di una radio locale in cui alcuni sarpini di terza liceo protagonisti del film "Gli anni e i giorni" raccontavano entusiasti quan-to da loro compiuto, presi coraggio e tentai di spiegare attraverso il social

network blu quanto il mio imbarazzo che, per Dio, non avevamo fatto un bel nien-te, avevamo semplicemente tolto tre ore dal monte-ore annuale. Il mio intervento ricevette qualche sostegno nell'immedia-to e nei giorni successivi scatenò un discreto dibattito da cui se ne uscì con saggi moniti, ovverosia strumentalizza-re e incanalare questa forza propulsiva degli studenti per migliorare la scuola. In conclusione vorrei invitare quanti intendano riflettere su questo tema a desistere dall'uso dell'argomentazio-ne della passività che chi si permette di giudicare può aver avuto nell'azione nonché della frase "non sarebbe successo niente"; questo perché, aldilà di quan-to si dica in questi casi, è proprio di questo niente che ci nutriamo con avi-dità bestiale tutti i giorni e questo niente è lo stesso identico "niente" che rispondiamo a chi premuroso o disinte-ressato ci chiede: "cosa avete fatto oggi a scuola?". •

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zione, ogni colonna veniva dissacrata da corpi pervasi dal veleno tarantolesco di un infuocato dj set, il pavimento tremava sotto gli slogan del presidio giacobino scanditi dagli onorevoli Lore e compari. Meno di un’ora dopo, facebo-ok era invaso da commosse lodi al genio politico del sopraccitato ex presidente del comitato studentesco, di “SARPI LI-BERO”, di video e foto che documentavano il tanto anelato diritto al bordello, ormai saldamente in mano al popolo stu-dentesco. Tutti deridemmo gli arcigni visi dei nostri professori, che fissavano torvi la rivoluzione, arroccati sulle scalina-te (anche quella sfigata di sinistra) ad osservare impotenti il definitivo crollo dell’Ancient Regime. Ridevamo di loro: ormai, finalmente, non eravamo più stu-denti, ma persone”! È mancata una sola cosa: qualcuno che gridasse “MORTE AI FORNAI!” e “DAGLI ALL’UNTORE!” Bravo, Sarpi! Finalmente hai aper-to gli occhi, hai riconquistato la tua vita, la tua vivacità, il tuo spirito giovane di rivolta, la tua grandezza! Bravo, Sarpi, hai tirato su la testa e hai detto NO al potere dittatoriale di chi voleva insegnarti la legge di Os-thoff l’ultima ora dell’ultimo giorno. Bravo, Sarpi. Gran bel carnevale. Non se ne vedeva uno così da quando abbiamo abbandonato la sede per andare a fe-steggiare al Polaresco. Se non fosse per questioni di cronologia spicciola, si potrebbe ben dire che era a te che Man-zoni pensava descrivendo le sue scene di folla. Ma quale rivoluzione. Ma quale occu-pazione. Ma quali persone. Ma quali stu-denti e quali insegnanti arroccati. Che ne è stato di tutto quel casino? Nulla. Un paio di post a testa su facebook, un po’ di entusiasmo finalizzato a pren-dersi una piccola rivalsa davanti agli occhi di altre scuole tradizionalmen-te considerate ribelli, giusto per dire “visto che abbiamo le palle anche noi?”.

Se serviva il carnevale, al popol(in)o sarpino che si è sempre dato grandi arie di intellettualità, benissimo. È eviden-te che avevamo bisogno di una consolle per sfidare i nostri fantasmi. Ne aveva-mo così bisogno che abbiamo amplifica-to in modo direi ridicolo la portata di quelle ultime 2 ore strappate alla spie-gazione del De agricultura e regalate al remix del Pulcino Pio, nuovo leader della paxxixxima rivoluzione sarpina. Benissimo. Il carnevale serve. È sem-pre servito: se ne si rifiuta la funzio-ne si firma la caduta di Tebe ad opera di Dioniso. Ma è sempre servito perché bisogna far sfogare il popolo, se si vuole che resti dov’è. Nessuno perciò gridi “AIUTO, UNA NEMICA DEL POPOLO!”, se vi dico che credo che non sia affat-to sufficiente, e che a distanza di tre mesi sia necessario raccogliere l’e-sperienza dell’ultimo giorno di scuola fuori dalla retorica inconsistente di una rivoluzione mai esistita. È stato, certo, un atto di ribellione. È stato, certo, un segno che ci ha messo davan-ti alla nostra capacità di riconoscere quello che vogliamo, e di farlo. Adesso però andiamo oltre i dj set, e mettia-moci il nostro spirito critico tanto rinomato in tutta la grande Bergamo. Mettiamoci la testa oltre che il corpo, insomma, è trasformiamo l’orgia in re-sponsabilità seria, in volontà vera di assumere il posto che ci spetta e che invece deleghiamo sempre con la scusa piagnucolosa dei professori cattivi e dei suicidi. E, possibilmente, facciamo-lo tutti i giorni, che il 9 giugno sono capaci tutti. •

Sara Moioli, ovverosia Ippogrifo Nemico del Popolo (che, per altro, si è molto divertito

l’ultimo giorno di scuola, che ha spaz-zato via con il suo imperativo house

l’irrimediabile nostalgia che altrimenti avrebbe occupato il suo stomaco)

BONAZZI: Era mezzogiorno ma facevano colazione, nel senso di pranzo.GIULIA: Ma che senso avrà???

BONAZZI: E per commuovere i giudici por-tavano in tribunale qualche fanciullo malmesso. APPOSITAMENTE malmesso…

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Spesso ignoriamo che molte persone han-no lottato per ottenere i diritti di cui godiamo e non sappiamo che ancora oggi si sta combattendo. Nonostante ciò ci sono parecchi movimenti giovanili che ritengono (fortunatamente) che sia im-portante mettersi in gioco e rischiare tutto per avere un futuro migliore. Uno di questi gruppi è quello delle Pussy Riot, ovvero delle femministe di Mosca che portano avanti forti critiche alle autorità e che si battono per la libertà di espressione, di opinione e per l’u-guaglianza tra i due sessi. In Russia, allo stato attuale delle cose, persino la musica è censurata, quindi è impen-sabile poter criticare liberamente il governo (o meglio il regime dittatoriale instauratosi) senza subire conseguen-ze. Il movimento si esprime attraverso concerti di musica punk, manifestazioni, raduni, o almeno lo faceva prima di di-ventare “pericoloso e scomodo”; infatti, in seguito ad una protesta contro Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca (durante la quale venne bruciato un ritratto del “presidente”), le due principali esponenti del movimento e in seguito una terza ragazza, vennero arre-state con l’accusa di blasfemia e teppi-

smo motivato da odio religioso. Diversi artisti di tutto il mondo si sono subito mobilitati in aiuto delle giovani (alle quali è stato anche conferito un pre-mio da Yoko Ono, moglie di John Lennon, per la loro audacia nella causa intra-presa). La sentenza ha poi deliberato una condanna per tutte le ragazze a 2 anni di reclusione ed è emerso che nel periodo di prigionia, prima e durante il processo, sono state maltrattate e private di cibo. Alcuni affermano si tratti di una grande manovra mediati-ca, ma è possibile che abbiano rischiato la loro vita solo per farsi pubblicità? Non è magari più razionale pensare che l’abbiano fatto spinte dal desiderio di denunciare tutti gli atti persecutori di cui sono state vittime? Pochi hanno avuto il coraggio di denunciare i brogli elettorali effettuati da Putin, la man-canza di libertà, le censure, le manovre politiche illegali, i poco puliti rap-porti economici che la Chiesa ha con il governo, in definitiva tutto il sistema neo-dittatoriale russo. Forse il modo in cui si sono fatte sentire non è stato uno di quelli più rispettosi e discipli-nati, ma è stato l’unico che sicuramen-te ha permesso un “clamore manifesto”. La loro storia è stata divulgata, hanno raggiunto il fine che si erano prefis-se, pagando per la causa un prezzo enor-me: la rinuncia ad una parte della loro vita. Magari non cambierà nulla o sarà tutto inutile, ma almeno quelle ragaz-ze potranno affermare di essere state coerenti con i loro ideali. Penso che bisognerebbe prendere esempio da loro a non rimanere passivi nei confronti di un sistema che giorno dopo giorno implode a causa dei suoi stessi principi contrad-dittori. •

di Valeria Signori 5D

La Musica Diventa un’arma

MANZONI: La dinastia Stuart: Giacomo I, Carlo I, Carlo II, Giacomo II. Facile: come un sandwich.

BERTAZZOLI: Ma vuoi dare tu lezioni di letteratura, oggi??MARIA: No, dico solo che in 14 RIGHE di sonetto non ci possono stare tutte le osservazioni che ci trovano i critici!DIEGO: L’anima capta dei segnali…

ZAPPOLI: Come, con l’ADSL??

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Attualita’16

16 agosto, Marikana, Sud Africa. Una folla di minatori sciopera fuori da una miniera di platino, la polizia spara. Si apre la polemica: “è un ritorno all’A-partheid”, “la società perde la propria immagine”, “dov’è l’integrazione?” e via dicendo. Poi ci sono i commenti relati-vi alla violenza, da entrambe le parti: “avrebbero dovuto usare gas lacrimoge-ni, non sparare”, dicono i cittadini di Johannesburg; “siamo stati costretti a disperdere con la forza il sit-in di fa-cinorosi”, ha sostenuto un ufficiale di polizia; e ancora: “sono morti diciotto padri, figli, mariti”; “erano armati di machete”. Per non parlare delle pole-miche sui giornalisti che hanno filma-to l’intero eccidio, come se si stesse girando un film: ecco le questioni più importanti che hanno meritato di compa-rire in cinque minuti di servizio di un telegiornale. Ma per fortuna c’è ancora chi fa gior-nalismo sul serio e, senza abbandonarsi ad alcun moralismo, riesce a denuncia-re, più o meno direttamente, un paio di problemi a mio parere ben più importan-ti e sicuramente meno superficiali. Ho quindi davvero apprezzato un articolo in cui si davano due informazioni chia-ve per comprendere l’eccidio di Marika-na: innanzitutto il fatto che i tremila operai stessero manifestando per alzare i propri salari, poi che la compagnia mineraria coinvolta, la Lonmin, rite-nesse illegale lo sciopero, con l’ap-poggio del governo. Questo non l’ho sentito in nessun telegiornale e qui sta la vergogna. Non è possibile spostare i vertici di una questione di diritti dell’uomo e del cittadino ad una questione di imma-gine di un Paese uscito (in teoria) da

razzismo ed ingiustizie. Il punto, qui, non è la morte di diciotto neri nel Pa-ese che ha appena vinto l’Apartheid: si sa benissimo che il razzismo è una piaga lenta da sanare e si sa bene anche che l’abolizione di un regime segregazioni-sta è un gran passo a livello formale ma, come si suol dire, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. L’episodio di Marikana va analizzato alle radici: non è assolutamente ammissibile che degli operai ricevano uno stipendio di 400 euro mensili; non è ammissibile nega-re il diritto di sciopero, figuriamoci ritenerlo illegale; non è ammissibile che, solo perché la Lonmin è la terza compagnia mondiale estrattrice di plati-no, allora il governo sudafricano debba appoggiare i suoi capricci (e neanche questo è stato detto in tv). Pertanto, siamo davvero sicuri che in Sud Africa il problema sia ancora il razzismo? Dopotutto, metà degli agenti che hanno sparato sono neri (e neanche questo è stato detto in tv). Quindi, forse, è proprio la superficialità nel riportare certe informazioni che do-vrebbe indignare maggiormente. La do-manda sorge dunque spontanea: che cosa è stato l’eccidio di Marikana? Nelle intenzioni di chi ha detto “siamo pron-ti a morire per far rispettare i no-stri diritti” si nascondeva il sogno di denunciare una realtà di soprusi e di sfruttamenti. Ma grazie ad una questio-ne di superficialità, tale sogno è stato trasformato in uno show, di breve durata per di più. •

Siamo pronti a morire per far rispettare i nostri diritti”

Questione di superfI-cialitàdi Giulia Testa 2B

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Dove stare solo noi due. E chi non l’ha mai sognata?... Victoria Legrand e Alex Scally sono persino riusciti a costruir-la. Uniti nel duo musicale Beach House, il loro è un sodalizio che va ben oltre lo studio di registrazione. Maggio 2012: esce il loro ultimo album, “Bloom”-letteralmente “fiorire”, “fioritura”. Non avrebbero potuto scegliere nome più azzeccato. Il disco comincia a girare e dopo pochi secondi il suono serpeggia inarrestabile nella stanza, spandendo ovunque una strana spora. Fiori neri, petali gonfi e profumati sbocciano dai muri, dal pavimento in un’atmosfera che coniuga una certa malinconia di fon-do, dai toni quasi gotici, a un fiume in piena di dolcezza. Mi sporgo dalla finestra e vengo investito in pieno da una colonna di fiori in rapida ascesa che sale, sale, verso le nuvole. Ovunque diriga lo sguardo, qualsiasi cosa toc-chi avverto la tenerezza inarrestabile e allo stesso tempo sconsolata dell’es-sere, evocata da sofisticati tappeti elettronici e melodie sognanti (“Myth”, “Other People”). Inebria i miei sen-si fino a culminare in correnti sonore fragorosamente delicate (“The Hours”, “Irene”). Colate d’ambra, gocce d’acqua salata, nuove esplosioni floreali: sono disarmato, completamente in suo potere. E se le parole cantate dalla Legrand, portatrici di un sentimento pacato ma potentissimo, sembrano echeggiare da una sorta di limbo (“…It’s a strange paradi-se…”), le note sprigionate dalla chitar-ra di Scally sono le loro gemelle terre-ne: rispondono, ci giocano, le consolano

con una carezza (“Wishes”). E mi spazza-no via al ralenti. Alla fine il mio cuore è stato fe-licemente maciullato nel lettore e ri-sputato fuori dalle casse in mille mi-nuscoli pezzi. Ma non ho la forza di raccattarli, anche perché chi li trova in mezzo a tutti quei petali?… Spero solo che non seccheranno così presto. Questa, signori, è Musica da ascoltare e da amare. •

*Probabilmente, all’ex Sig. Direttore Rocchetti questo articolo sarebbe pia-ciuto… è bello corto come avrebbe voluto lui ;)*

La nostra Casa Sulla Spiaggia...di Lorenzo Teli 3C

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2001 2018, Odissea nello Spazio… O qua-si. Immaginate uno dei più grandi nemici della terra che torna per conquistar-la, bene, ora aggiungete un pizzico di splatter, due cucchiai abbondanti di battute scontate e demenziali, una man-ciata di stereotipi, un po’ di effetti speciali, delle citazioni a caso e una computer grafica degna di uno “Z movie”. AVETE OTTENUTO IL VOSTRO PERSONALISSI-

MERRIMO –Iron Sky: saranno nazi vostri-. Senza voler spoilerare, il film segue le vicende di uno sparuto gruppo di nazi-sti che tenta di conquistare la terra settant’anni dopo la caduta del terzo reich, il tutto reso più leggero da una vena comica non indifferente. Per quan-to questo film, dal trailer, o anche semplicemente dai rumors, o dal sotto-titolo (impropriamente aggiunto come da consuetudine italiana) possa sembrare demenziale, si nota fin dall’apparizione dei primi personaggi una sfrenata satira politica nei confronti del governo Ame-ricano: la presidentessa ricorda infatti l’ex candidata alla Casa Bianca, Sarah Palin; in una delle scene finali, du-rante una lite nel “consiglio mondiale di governo”, uno dei partecipanti alla riunione lancia verso la presidentessa e il segretario della difesa degli Stati Uniti una scarpa, con evidente riferi-mento alla spiacevole conferenza stam-pa in cui un giornalista iracheno, dopo essersi sfilato la calzatura destra, la lanciò contro l’allora presidente in carica degli U.S.A., Geoge W. Bush. Un altro scherno al presidente Bush ci viene presentato nell’attacco spaziale verso i nazisti, dato che la nave ammi-raglia dell’esercito porta il suo nome. Non solo nei confronti del governo Ame-ricano viene avanzata una grande criti-ca, ma anche verso la morale collettiva: di fatti, al termine della pellicola, ci viene presentata una grande scena di

egoismo, le nazioni più importanti del-la Terra, infatti, anziché studiare un piano per evitare che si possa (impro-babilmente) ripetere un evento simile, iniziano a scontrarsi tra loro per il merito della vittoria della battaglia, e soprattutto per il possesso del sa-tellite e delle ricche risorse che esso contiene. Pas-sando alle impressioni personali: il film è girato molto bene, azzeccata la colonna sonora e la caratterizza-zione dei personaggi, benché spesso stereotipata e ridicolizzata, è ben fatta. Il film non ha un cast impor-tante, e meno conosciuto degli attori, se mai fosse possibile, è il regista. Il mio consiglio è quello, se potete, di andare a vedere questa perla della neo-cinematografia mondiale che combina perfettamente ironia, azione e fanta-scienza. •

What the...?????!!!!!di Andrea Sabetta 1C

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S: Va in onda il mio Chéri!!!!!G: O santo cielo!S: E’ un bellissimo film!G: Ma per piacere! Un giovanotto vizia-to che s’innamora di un’amica di sua madre, una donna più vecchia di venti-quattro anni! Lei, Lea, e lui, Chéri! Vivono insieme sei anni, lui pratica-mente fa il mantenuto e poi (toh!) si accorge che deve sposare una ragazza di diciannove anni, Edmée, pur continuando ad essere innamorato di Lea.S: Il bello è che è una storia senza lieto fine, molto realistica! Non ti piace? G: No, non mi piace. Riconosco che la scelta di Michelle Pfeiffer per la parte di Lea sia molto azzeccata: con-ferisce un po’ più di spessore al per-sonaggio. Ma sai poi che spessore: un po’ di eleganza, nulla di più. Per non parlare della personalità di Chéri: un bambino viziato, abituato al lusso; un personaggio insulso, insignificante; il tentativo mal riuscito di emulare Do-rian Gray. Nè Chéri né Lea hanno perso-nalità, sono vuoti entrambi e cercano di riempirsi con la frivolezza.S: A mio parere non c'entra nulla con Dorian Gray: Dorian mi è sempre sembra-to un imbecille che si fa influenzare

dal primo con carattere che gli passa accanto, mentre Chéri e Lea sono tormen-tati, complessi, pur non avendo ideali o personalità forti…G: Io rivedo molto di Dorian in Chéri: la frivolezza, il disperato bisogno di piacere, l'edonismo, la continua corsa verso l'eterna giovinezza, la paura di invecchiare, il tentativo di dissimula-re la vita dietro l'arte, gli svaghi e la moda. Però questo film (non ho letto il romanzo e non lo posso giudicare) non riesce ad emulare la genialità di Oscar Wilde: non sfiora neanche lontanamente lo spessore psicologico e la perversione di Dorian.S: Forse non avrò capito nulla del ro-manzo di Wilde (che mi piace tantissi-mo, tra parentesi), ma io trovo spessore psicologico e fascino solo nel perso-naggio di Henry: senza di lui Dorian sarebbe unicamente una bella bambolina. Secondo me, “Chéri” dimostra che spesso si perde ciò che è veramente importante per paura di rischiare, di smarrire quel po’ di certezze che abbiamo, e che nulla può colmare alcune assenze.G: Non la vedo così. Quella tra Lea e Chéri non è un sentimento profondo, non lo potrà mai essere. Il problema è che Chéri è un bambino e Lea è una donna stupida. Non si sono mai amati, si sono illusi di vivere per sempre. Perché far-ne una tragedia?S: Hai detto bene: Chéri è un bambino. Ma perché lo è? “Ah, sì…tu sei mia ma-dre, non è vero? Ricordo vagamente di averti vista ogni tanto quand’ero picco-lo…”; secondo me tutta la personalità di Chéri è racchiusa in questa frase: è un

Chéridi Giulia Testa 2Be Sara Latorre 5D

TRATTATO IN VERSIBUS ALTERNISABOUT A FILM

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ragazzo solo, non ha mai ricevuto affet-to e cerca di uscire da quel limbo vuo-to e disperato in cui vive con l’unica cosa che conosce: la frivolezza. Chéri un prodotto del suo ambiente e, di cer-to, un carattere quasi inesistente non gli permette di sottrarsi a quel mondo privo di sostanza. E’ debole e non ha né la forza né la voglia di condurre una vita sua con la donna che ama, perciò resta con la moglie. Fondamentalmente è un coniglio.G: E allora qual è il bello di questo benedetto film?S: Il bello è che si gioca tutto sulle apparenze: è ambientato in una realtà fatta solo di pettegolezzi e lustrini (la Belle Époque parigina) e i protago-nisti sono un giovane e una donna matura assolutamente radicati in quell’ambien-te; i due, però, si sentono distanti da ciò che li circonda e sono completamente infelici. Benché conducano per scel-ta una vita assolutamente in linea con

quella società, Lea e Chéri sono in-soddisfatti, si sentono due pesci fuor d’acqua. E’ una storia assolutamente attuale: quante persone oggi non sop-portano il lavoro o la famiglia, eppure non scappano? E’ proprio questa la base del loro amore: sono uguali. Entrambi dei disadattati, in un certo senso.G: A me non sembra proprio che i perso-naggi abbiano questo spessore…comunque, cara, rispetto la tua idea.S: Anche io rispetto la tua. E’ stato bello discutere con te, Giulia.G: Anche per me. A presto, Sara. •

Ok partiamo dal presupposto che boh. Boh significa che questo articolo non significa nulla, quindi leggere le av-vertenze, che non ci sono. Diciamocelo sinceramente: gli articoli di Parimbel-li sull’Atalanta non li leggeva nessu-no, neanche lui. Io mi chiedo se ci sia veramente bisogno di scrivere di sport anche su Cassandra. Ogni santo ed empio giorno ne siamo inondati sui giornali e in televisione, anche in bagno.

1.Giornali. Esempio: se la domeni-ca sera, partita di campionato, la Juve vince, ma nel frattempo è scoppiata una Bomba Nucleare, il lunedì mattina, pren-dendo la prima pagina di un quotidiano a caso, leggeremo semplicemente quanto se-gue: “La Juve vince, gran BOMBA di Pirlo dalla distanza”. 2.Televisione. Cosa dire su questo punto? In televisione si parla solo di sport, tutti i più importanti tg gli dedicano ampissimo spazio: Studio Sport parla di sport, Rai sport 1 parla di sport, Rai sport 2 parla di sport, Rai-sport 10345 parla di sport, Sportitalia parla di sport, Sportitalia 24 parla di 24 sport, sport di qua sport di là. BASTA. 3.I Videogiochi. Bene: Pro Evolu-

EccheccalcioOVVERO COME IMPARAI A PREOCCUPARMI E AD ODIARE LO SPORTdi Paolo Bontempo 1D

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Sport26

tion Soccer 2, ProEvolutionSoccer4, e come se non bastasse Pro 8, Contro9, Fifa1999,Fifa Street, Fifa 2009, Fifa 2011, Paura2036, Fifa2012 che poi non si capisce se 2012 sia l’anno in cui è stato fatto oppure un indice del timore del 21 dicembre di quell’anno( profezia a cui non ho mai(a) creduto) 4.Bagno. Non ci sono informazioni re-lative a questo punto. È un’ossessione lo sport, e più spe-cificamente il calcio. Perché se uno dice sport, la prima cosa che viene in mente è il calcio, o comunque qualcuno che sputa in faccia a qualcun altro, o che si prende a botte, o che protesta mandando in posti assurdi l’arbitro. Anche al mattino, quando tuo papà dorme (questo significa che non può rovinarti la mattinata urlandoti nell’orecchio “La Juve ha vinto” e quindi non sarai co-stretto a fingere di essere interessato dicendo «Ah davvero?» Siamo troppo for-ti”) e tu credi di poter essere lasciato in pace da tutto e da tutti, credi che l’idea di sport non ti possa minimamen-te sfiorare, ti rendi conto che è tutto un’illusione. Mentre stai facendo cola-zione, senza volerlo cominci a leggere i valori nutrizionali dei cereali: protei-ne 47 ferro 13 magnesio stronzio potas-sio e... CALCIO. CALCIO? Oddio basta, non se ne può più. Questo articolo non serve a niente. Oddio basta. •

Quella appena trascorsa è stata sicura-mente un’estate all’insegna dello sport, perlomeno in televisione (sorvoliamo sulla dissonanza del binomio sport-te-levisione): appena terminata la scuola è cominciato l’europeo che ha segnato un momento importante della gestione Prandelli. Il voto da dare al mister è 9, perché ha capito cosa significa fare l’allenatore, cioè sperimentare duran-te le amichevoli e gli impegni non uf-ficiali, per poi fare il botto nelle occasioni importanti. Alla squadra da-rei un 8 pieno e meritato (alla faccia del ranking FIFA), perché dopo la prime due partite non proprio brillantissi-me, quando molti ormai la davano per spacciata, ha tirato fuori la grinta e da quel momento mi è sembrato di veder giocare gli Springboks di “Invictus”, soprattutto nelle partite con Germania ed Inghilterra. Una menzione particolare se la merita Mario Balotelli, perché mi sembra proprio essere guarito da quella che io chiamo “sindrome delle cassanate”

Sport sotto l’’ombrellonedi Alberto Crippa 4Z

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Sport 27

ed è un giocatore dalle doti straordina-rie che Prandelli riesce sempre a stimo-lare nel modo giusto. Le Olimpiadi hanno scandito le afo-se giornate fra luglio e agosto, e noi ci siamo ritrovati spettatori di disci-pline che fanno capire perchè i giochi olimpici si svolgano solo ogni quattro anni, ma anche i soporiferi “tiri” (a segno, a volo, al piattello, con l’arco e a freccette) hanno alla fine regalato la romantica(?) emozione del tricolore issato sul podio. Voto agli atleti: 10, anche solo per i sacrifici richiesti per arrivare a Londra; agli spettatori: 7, perchè va bene interessarsi di sport, ma non solo dalla poltrona (ricordo a que-sto proposito uno stupendo spot di qual-che anno fa, con panzuti uomini sulla cinquantina che giocavano improbabili partite di calcio dai loro scranni con le birre in mano; pubblicità progresso, che evidentemente non è avvenuto); alla Rai: 7.5 nonostante gli svarioni vari dei telecronisti, perchè perlomeno per un paio di settimane ci sono state evi-tate le repliche dei polizieschi ameri-cani; senza voto Sky, perchè non ho la più pallida di come abbiano funzionato i suoi molteplici canali dedicati all’e-vento, ed è solo per par condicio che va citata. Propongo, per i prossimi giochi di Rio, oltre alla partecipazione obbli-gatoriamente in costumi carnevaleschi, l’introduzione della “Caccia all’auto-logico”, disciplina consistente, come (non) ben si capisce dal nome, nel tro-vare aggettivi autologici, ossia che si riferiscano anche a loro stessi, come corto” (che è effettivamente corto), breve”, “pentasillabo” (a sua volta di cinque sillabe: pen-ta-sil-la-bo), “esa-sillabico” (e-sa-sil-la-bi-co), “ipere-sageratissimo”, forse “obsoleto” e alti-sonante”, ma per questi ultimi due casi tutto sta nel metro dei giudici. Proble-mi nasceranno di certo quando bisognerà valutare “autologico” e il suo contrario “eterologico”: facilmente si capisce che il primo è contemporaneamente autologi-co ed eterologico, mentre il secondo non

è né uno né l’altro (va quindi inserito nel regolamento della disciplina lo stu-dio e la comprensione del paradosso di Grelling-Nelson; chi fosse interessato ad approfondire l’argomento può firmare la petizione per un corso sull’argomento durante la settimana rossa/dei recuperi/degli approfondimenti/della pausa didat-tica/delle partite a chiamata). Questo resta comunque uno sport a cui anche noi sarpini ci possiamo dedicare senza ec-cessivi dispendi di energia nelle varie ore scolastiche (mi riferisco a quelle buche, ovviamente). Per l’ispirazio-ne, la rete regala chicche autologiche: “elatnorfib” (da leggere al contrario, voto: 7), “magmanarato” (7.5), “scoret-to” (7), l’insuperabile “‘Sai che dif-ferenza c’è tra l’ignoranza e l’apatia?’ ‘Non lo so, e non me ne frega niente’” (8), e infine “Clemente Mastella”, pro-prio l’ex ministro, che proponendo l’in-dulto si rivelò dal nome autologico (8,5). Concludo con il pubblico elogio dei calciatori della nazionale di calcio dello Zambia (i Chipolopolo, ovvero i proiettili di rame) che, ormai un anno fa, hanno vinto la Coppa d’Africa, bat-tendo in finale la Costa D’Avorio, lon-tano dai riflettori del resto del mon-do, forse perchè privi del top-player (usando il termine di voto 4 su cui Tuttosport ha fantasticato per l’intera estate) milionario come Drogba o Eto’o. La finale si è giocata a Libreville, in Gabon, dove nel 1993 a causa di un inci-dente aereo persero la vita proprio tut-ti i giocatori dello Zambia, diretti in Senegal per una partita di qualificazio-ne ai mondiali. Va precisato che, mentre i giocatori ivoriani giocavano tutti in squadre europee, solo 6 zambiani han-no un contratto fuori dall’Africa (e di questi due in Israele e uno in Cina, non certo capitali del calcio); tutto ciò rende l’impresa dei Chipolopolo degna di essere annoverata fra i più bei miracoli sportivi, di avere uno spazio su Cas-sandra nonché di meritarsi un 10 pieno nelle mie pagelle. •

BERTAZZOLI: E finitela di parlare di “confusione interna all’animo del po-eta”: Petrarca non è un poeta della serie dei Ricchi e Poveri, “che confu-sione, sarà perché ti amo”!!!!!

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-Ma cosa ci fa Paea con una polo Laco-ste?Settembre finisce avanzando con i miei dubbi estetici su Paea W., il tongano di Alzano Lombardo. Io sono Amabile B., vostro cronista di una storia che penso destinata a protrarsi fino ad un fin qui solo ipotizzabile giorno afoso di tardo giugno. La storia del mio amico Paea, che vorrebbe tanto diventare il primo rappresentante d’istituto non di razza caucasica, nonostante la forte opposi-zione della ListaFamilista della sesqui-composta famiglia Paris e soprattutto dei suoi più anziani gemelli componenti.Dal mio ruolo di narratore di un even-to in fieri non dovrei permettermi li-cenze extranarrative, di tipo critico, ma comunque voglio che sappiate fin da subito che non si tratterà di una vi-cenda di torpore generazionale, ma che comunque vadano queste maledette ele-zioni entrambi i contendenti rischiano ritorsioni. I Paris sono ben sei e mol-to affiatati e godono di una sorta di telepatia,a cui va aggiunta la già clas-sicamente presente telepatia gemellare dei gemelli, i quali si trovano quindi dotati di una doppia rete comunicativa, intranet ed internet. Sentirli parlare in gruppo è come assistere ad una recita

di scuola materna con bambini torturati e rinchiusi per giorni in stanze buie e senza giocattoli a memorizzare par coeur trafiletti in times new roman. Il corpo del candidato Paea è altrimenti irrora-to di sangue che rotea nei ventricoli in senso antiorario, come qualsiasi liquido nell’altro emisfero, fatto che dovrebbe convincervi della fondamentale robotici-tà, artificiosità, disumanità del sog-getto, dal momento che da almeno 17 anni si trova nell’emisfero boreale. I suoi neuroni sembrano replicarsi nel cervello degli interlocutori, non è praticamente mai stanco, è un rappresentante d’isti-tuto perfetto, credetemi. Guardo un immaginario orologio sul mio polso , sono le 17, e posso dirvi che il candidato sta sgusciando elasti-camente in via B___ attraverso un nugolo di giacche di nylon intirizzite dalla pioggia appena passata. Gli indossato-ri talvolta si voltano a guardare quel-la maglia della Legea rossa, che fa un effetto mesmerizzante a contrasto con il color larice che il suo volto assume quando c’è molta umidità. Sotto quel-la maglietta sportiva, assicurata con un intricato sistema di elastici da 3cm riposa l’arma finale, il medium fisico che ribalterà la contesa elettorale, la chiave del successo.Davvero l’intricata rete degli infor-matori dei Fratelli non ne sapeva nul-la? Possibile che non avessero colto i sorrisi enigmatici che si era lasciato sfuggire? Doveva arrivare in tempo al concerto dei T____, altrimenti i sospetti sareb-bero sorti come le soprastanti nuvole in veloce diradamento. Al loro posto sol-tanto il buio. La pelle del candidato adesso è nero liquirizia come l’asfalto appena gettato. Paea arriva a casa solo per cambiarsi d’abito, non mangia se non vuole, può anche farne a meno. Jeans e maglietta Lee arancio. Andrà a sentire questi T___ , sul cui sostegno eletto-rale può già contare,e tornerà a casa a studiare i progetti dell’arma.Mentre il fiume della sera inghiotte nuovamente nel suo ampio alveo il corpo

SAGA SARPINA DI AMABILE B.Prima Puntatadi Davide Gritti 3A

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Narrativa 29

robotico di Paea nella villa liberty dei Paris gli ultimi due fratelli, i ginna-siali stanno lavorando alla creazione di una gigantesca campagna antirazziale per gettare discredito sul loro arcine-mico. I Paris hanno un sacco di difetti ma sono mediamente belli, mediamente ben vestiti, mediamente mondani e piacciono un sacco alle associazioni di umani.Io batto a computer queste memorie, in attesa che il mio sodale mi descriva la vera identità dell’arma finale, in at-tesa che la becera denigrazione razziale dei Paris si manifesti per quel che è, semplice ironia. Quello che fin qui vi posso dire è che non dovete prendere troppo sul se-rio i Paris, discendenti di questa Eu-ropa vecchia e ormai stanca, atrofizzata dalla noia cosmica, ma del buon selvag-gio Paea dovete avere un timore folle, malsano, come in un racconto di Love-craft, dovete pensare ad un mostro, che non vede l’ora di rivalersi sul nostro imperialismo, quantomeno spirituale, che non vede l’ora di scatenare la superarma contro gli arcinemici. •

<<Plin Plin>>. Apro gli occhi. Un lieve rumore mi ha strappato dal sonno. Tendo le orecchie, sento il suono di una goc-cia d’acqua che cade a terra, regolare, alla stessa distanza da quella che l’ha preceduta, come il ticchettio di un oro-logio. Già... l’orologio. Non so nemmeno più da quanto tempo non sento il tic-chettio dell’orologio. Eppure lo vedo, lì davanti a me, appeso alla parete, muto. Gli altri, passando fuori dalla mia cella, lo sentono. Io no. Ma non vale la pena arrovellassi troppo. Del resto il tempo è affare dei vivi e io non lo sono di certo. Guardando l’orolo-

gio vedo che sono le 9.25. Come è possi-bile? Frank passa sempre per la sveglia alle 8. Come mai non mi ha svegliato, oggi? Poi mi ricordo che giorno è oggi. Probabil-mente Frank non aveva voluto guastare l’ultimo sonno della mia vita. Sì, per-ché oggi è il giorno della mia esecu-zione. Mentre medito su queste cose, un ufficiale si avvicina alle sbarre e mi avvisa che devo prepararmi. Lo fa con un misto di superiorità e commiserazio-ne. Illuso. Crede che la morte mi spa-venti. Non sa che sono morto già da molto tempo. Ricordo con precisione il giorno della morte. Lo vedo ogni gior-no nei miei sogni e nei miei pensieri. Ricordo il suo sorriso, mentre mi guar-dava, l’aria ingenua e dolce, quella ciocca ribelle di capelli che cadeva sul viso e svolazzava, mentre si girava per attraversare la strada. Poi l’au-to pirata e lei, riversa a terra in una pozza di sangue, il suo bel corpo immo-bile e deformato, il viso dolce livi-do per il colpo, i suoi profondi occhi verdi vitrei e spenti, le labbra rosee unite per sempre. Scaccio quell’imma-gine dalla mente. Certo, mi ero vendi-cato, avevo cercato l’assassino della mia unica ragione di vita anche in capo al mondo, e l’avevo trovato, ma non per questo lei era tornata. Arrivano i carcerieri, aprono la porta e mi porta-no via. Giunti nella camera fatale mi fanno sdraiare sulla fredda macchina che avrebbe posto fine ai miei giorni. Steso, sto attendendo che l’amica morta (l’amica morta? O è l’amica morte?) mi prenda quando sento un rumore. Giro la testa di lato e lo vedo. Là sulla pare-te un orologio, ora lo sento. Ora sento il ticchettio. I giorni di morte sono finiti. Sorridendo sento una calda vi-brazione che mi pervade. È la mia Katie che viene a prendermi. Sono pronto a seguirla. •

il ticchet-tio del-l’orologiodi Sara Pesenti 5F

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Narrativa30

Un passo, un altro, un altro, ancora... Era sempre più vicino. Adesso poteva ve-dere i capelli della ragazza, che vola-vano indemoniati, tanto correva veloce. Stava scappando da lui, lui un folle, un sadico che come unico scopo della vita aveva quello di massacrare fragili fian-chi di giovani donne, strozzare delicati colli, strappando loro l’ultimo respiro, l’ultimo sottile filo che le legava alla vita. Adesso si era fermato nei pressi di un immenso abete, aspettando un rumore di rami infranti o di foglie secche, in attesa di poter dissetare la sua sete, il desiderio di vedere la luce spegner-si negli occhi, un tempo così vivi e ora colmi di terrore di quella ragazza inno-cente. Come un felino affamato, attese il momento giusto per attaccare la sua preda. Finalmente la vide, giovane e bella, e nell’età più bella l’avrebbe strappata alla vita, destinata ad una morte infer-nale. All’istante le saltò adesso e sen-za aspettare un attimo le conficcò una lama dritta nel cuore. Nel suo sguardo non c’era la benché minima traccia di pentimento o compassione. Niente. Saziò la sua avidità di sofferenza osservando ogni contorsione della ragazza, finché non si mosse più. Superò il cadavere ancora caldo di vita e amore e bellezza in cerca di una nuova vittima, senza alcun pentimento o timore ... Perché lui era un folle. •

Un Folle di Elena Moreschi 5F

2 Novembre, Cimitero di BergamoIl cielo è grigio. Cumuli e nembi si addensano e scompongono in rapide suc-cessioni di creazioni multiformi. Mi incammino lentamente verso la lapide della mia bisnonna. Giunto di fronte mi fermo, osservo le screziature nel marmo inscurito per l’inquinamento. Fisso lo sguardo sui fiori finti che qualche cu-gino di settimo o ottavo grado ha ripo-sto chissà quanti anni fa, nella triste speranza che quella stoffa scolorita e giallastra potesse sconfiggere il lo-gorio del ritmo biologico provocato dal tempo. Colgo una margherita solitaria e la colloco accanto alla fotografia che mi pare tanto ingiallita quanto i fio-ri finti. Una mano mi sfiora la spalla, mi volto e sento la bisnonna vicina; mi sussurra nell’orecchio, con una voce di cartapesta, gracchiante: “Dovre-sti venire più spesso a trovarmi!” “...Ma non potrei! Ormai è tradizione per noi incontrarci in questo unico giorno dell’anno. Se venissi più spesso tradi-rei...” “... Sicuramente io mi sentirei meno sola...”, mi interrompe. Le tra-dizioni, quelle vere, pensa la nonna, sono morte con la mia generazione. “...In realtà dovrei essere meno dura con te, sei l’unico che viene a trovarmi da tre anni a questa parte. Certo, la tua scelta di giungere in una ricorrenza tanto lugubre non l’ho mai capita.” “Ma oggi è il giorno dei...” “Morti?! Tra noi due il più morto mi pari tu! Quanto ti costerebbe venire più spesso?” “Sai che sono pienissimo di impegni...”, ri-spondo con poca convinzione. “Già già,

DIALOGO CON IL MORTOdi Stefano Martinelli 3B

BONAZZI: GiustiziaDIEGO: DicheBONAZZI: IngiustiziaDIEGO: AdicheBONAZZI: -.-‘’ Ti sei tirato una zappa sui piedi.

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Narrativa 31

solo l’anno scorso mi parlavi di quello strano sport che hanno inventato nel tuo secolo... pass... pass partou...” “... Parkour, si chiama parkour”. “Già… E dimmi, lo pratichi ancora?”, chiede lei con un mezzo sorriso di compatimento, presagendo la risposta. “...In realtà ho dovuto smettere... all’ultima visita medica ho scoperto di avere una carenza di calcio alle ossa: se continuassi quel genere di attività rischierei seriamente di rompermi qualco-sa...” Quest’ultima frase mi costa fati-ca. Sento lo sguardo indagatore di lei. “Quindi ora avresti del tempo libero per venire a trovarmi!” esclama lei con un moto d’esultanza. Ma, smorzando il suo entusiasmo, le re-plico: “Sì, ma ci sono ancora tutte le altre attività, per non parlare della scuola e delle per-sone che frequen-to...” “Di cui non mi parli mai! Di’ un po’, ce l’hai una ragazza? Da quel che mi raccontasti, nel tuo secolo va di moda fidanzarsi molto presto, già nella prima adolescenza. Se avessi conosciuto il tuo bisnonno prima dei vent’anni dubito fortemente che l’a-vrei sposato!” “Non funziona più così, non ci penserei nemmeno lontanamente a sposarmi con una ragazza, se dovessi uscirci! Comunque no, non ho una ragaz-za. Anzi, sembra quasi che abbia addosso un repellente...” “...Se dedichi loro il tempo che dedichi a me, non stupisco a crederlo! Quindi sarai pieno di ami-ci, se le tue ‘relazioni’ ti occupano un tempo così lungo!” “Oh sì! Frequento più di mille persone solo su facebook! Hai voglia il tempo che ci vuole a sen-tirle tutte e...” “...E quante ne fre-quenti nella vita reale, eh? Con quanti hai parlato nella vita faccia a faccia almeno una volta?”. Rifletto sulla do-manda, e di colpo sento aprirsi dentro di me una voragine. Continua lei: “Ai miei tempi la nostra vita sociale era

un’esplosione di feste, incontri, bal-li, sguardi! E quanti bei giovanotti che t’invitavano a ballare! Anche se i geni-tori non lasciavano mai uscire, si tro-vava sempre il modo di incontrarsi! Oggi siete tutti morti dentro, giovani cari, e tu sei la dimostrazione di una genera-zione sciocca, stupida e annichilita!”. “Questo non è vero”, esclamo con un moto di orgoglio ferito, “la mia generazione possiede ogni possibilità di apprendi-

mento, socializ-zazione, cultura, tecnologia!”. Cala il silenzio tra di noi, spezzato solo dal ronzio di qual-che insetto attira-to dall’ingannevole colore dei fiori finti. Con un tono sconsolato, mentre sento la sua presen-za farsi sempre più debole, la bisnonna sussurra con un filo di voce: “La mia ge-nerazione ha spremu-to fino all’osso le proprie possibilità. Le ha decantate fino a renderle più dol-

ci del nettare più pregiato. Le vostre, di possibilità, sono marcite, non colte su viti avvizzite dal vizio della vostra presunta perfezione. Addio, al prossi-mo 2 Novembre”. Sento un soffio sulla guancia, poi più nulla. Fisso in silen-zio la tomba, mi cadono gli occhi sulla foto: una donna, sulla ventina, fissa con sguardo sicuro e deciso un ipotetico obiettivo, conscia delle proprie possi-bilità. Il sorriso è limpido e lumino-so, di un bianco candore che ricorda il colore perlaceo dei petali della marghe-rita da me poco fa colta. Mi volto e mi allontano lentamente. Un raggio di sole spunta dalle nuvole, illumina, o tenta di farlo, un volto spento, inerte, un po’ giallastro. •

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