Cartoline immaginarie

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CARTOLINE IMMAGINARIE CLAUDIO CRISPO GIAMMARIA ADINOLFI ALFONSO TRAMONTANO GUERRITORE

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C'è chi guarda e chi racconta. Qualcuno mette gli occhi, qualche altro le lettere in fila. Così da un viaggio nasce una storia attraverso un progetto a sei mani, scrittura e visioni lungo una striscia di posti e ricordi. Quello che resta dal tempo trascorso e dal lavoro comune è una suggestiva raccolta di cartoline immaginarie.

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CLAUDIO CRISPOGIAMMARIA ADINOLFIALFONSO TRAMONTANO GUERRITORE

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Ovunque c’è una strada, c’è una traccia. I posti e le voci del passaggio lasciano orme e segni. Se ci sei stato sei ancora lì. Comunque sia. Il viaggio si comporta come il bianco, prende la polvere e i pensieri e li trattiene. Questo è successo per i fogli che c’erano. Le parole si fecero storia, in ordine sparso a parlare dei passi. Poi dai discorsi è accaduto altro, e a quelle pagine di scrittura è arrivato un occhio. Lo sguardo dei tragitti, dei percorsi, ha fatto suoi i racconti, li ha resi altro e li ha sospesi. Quelle storie sono andate nelle immagini composte, che distanti, non si sono fatte impressionare. Hanno pensato le parole, provando a immaginare. Fuori c’è sempre spazio sufficiente e necessaria idea. Il viaggio, che non pensa, non lo sa. Non è dove conduce una carrozza, un aeroplano. Non è un passaggio preso in autogrill. Il viaggio è il tempo che consuma la distanza, e poi si fa diverso tra i ricordi e poi diventa altro. Le tracce ne rimettono in sospeso la partenza, chiudendone i confini, e lui si ferma, infinito istante. A tutti quei percorsi serve sempre un’altra cosa. Serve un compagno che faccia orecchio e vista. Che sia durante i passi o al tempo successivo del racconto. Così ci siamo ritrovati, provando a lavorare sulle storie, durante le ore d’estate davanti alle creme di caffè. Queste storie erano mie, ma ora sono vive, completamente, libere per sempre dalla solitudine.

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LA DANZA NERA DI PARIGI

E così questa sarebbe la tomba del poeta maledetto del rock. Il Dioniso redivivo. Questa pietra squadrata è meta ogni anno di centinaia di migliaia di visitatori, che da ogni dove arrivano a omaggiare le sacre spoglie di Jim Douglas Morrison. Eccomi qua allora. Onore a te, sacerdote dell’ormai sepolto spirito degli anni settanta. Certo, l’urna è completamente spoglia. C’è una parete nuda, transennata, con solo il nome del musicista arrivato a Parigi perdedicarsi alla poesia e rinascere nel cuore della vecchia Europa. Una volta c’era un busto, poi fatto sparire dall’amministrazione cimiteriale per chiudere i conti con l’idolatria. C’erano le scritte e i graffiti e mozziconi e poesie e ricordi eccetera. Ora, ci sono delle inferriate che circondano il basamento. A distanza i turisti scattano foto, fumano sigarette e compongono una ordinata calca.

Proprio di fronte alla tomba, su un sarcofago di pietra, sta un gatto appollaiato. Osserva sornione il codazzo con aria distratta. Come un custode abituato alla confusione, resta sulle sue, prendendosi gioco del casino che circonda questi metri quadri del cimitero di Pere Lachaise. Uno strano posto, con la pace che avvolge i viali ordinati. Stretti vicoli tra le pietre disegnano un percorso fitto di personalità. Artisti, letterati, rivoluzionari. Non ne conosco molti, né mi va di cercarli nella mappa fatta apposta. Guardo il gatto e sono d’accordo con lui. Decisamente. La sua posa si spezza quando alcuni visitatori, evidentemente delusi dalla visita musicale, decidono di scattare una fotografia. Il tema è “gatto che incarna lo spirito di un dio del rock morto, poggiato su una pietra tombale a custodire segreti ancestrali e misteriosi”. A quel punto il sacro micio s’infastidisce e inizia a muoversi, come per dispetto, uscendo dall’inquadratura. L’animale è stufo del lavoro nervoso e fuori luogo dei ritrattisti. Nel giro breve di qualche minuto, scompare, tra gli spazi delle tombe, senza salutare, lasciando incustodito il suo posto d’osservazione. Andiamo via anche noi, stretti nel freddo raggelato del mattino tardo. Passi sullo sterrato, senza fretta. Placide direzioni tra i ricordi e le effigi scolpite. I cimiteri sono luoghi pieni di fascino, e siamo d’accordo.

“C’è una pace qua..”“Sembra una cornice, questo posto..”“E il quadro?”“Il quadro..dovremmo essere noi…”

Una foto con autoscatto dalla grana seppia sarà monito e ricordo ai posteri di queste ore sospese. Sistemiamo la macchinetta su una panchina, qualche

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prova per l’inquadratura, un abbraccio rapido, una posa, e voilà. Fermi a sedere non se ne parla. Si cammina. Passeggiamo nel silenzio avvolto da un vento gelido, tra le statue e i simulacri, le scritte e le cappelle. Più che una parata di personaggi illustri e celebri, questo luogo sembra un placido cimitero di campagna. Certo, ogni vicolo ha un nome, ci sono le mappe per i turisti e altre amenità. Ma in realtà c’è pace. E penso a tutto tranne che alla morte.

Ci fermiamo sotto un albero spoglio e scheletrico. C’è una panchina. Il vento accenna posa. C’è un pezzo di pane, qualcosa da bere, una sigaretta e la luce trasparente del sole. Non sento l’odore di fiori, quel tanfo tipico e penetrante che di solito invade i marmi. Non vedo parenti in ghingheri. Non ci sono sfilate. Solo qualche turista fuori stagione, intimidito dal freddo. Fuori dalla zona degli artisti tutto sfuma. Chissà dov’è finito il gatto. Forse sarà rannicchiato in qualche buco. Magari dorme in qualche nicchia, lontano dal vociare noioso degli spettatori. A questo punto l’immagine placida della scena si muove. Improvvisamente. Ci coglie di sorpresa. Presi alle spalle. “Questa - penso - è la foto che vorrei”. Anzi, più che una foto, un disegno. Carboncino. Sfumato. Dal nulla piove uno stormo guerriero di arpioni neri. Una sinergica danza dai rami invisibili e nudi di un albero spoglio. Coreografia, che assale una pietra tombale dalla forma di un grosso rettangolo. Neri completamente, dalle penne al becco, decine di corvi in battaglione disegnano la loro lineare forma d’atterraggio. Solo ora faccio caso al gracchiare che accompagna i movimenti di terra. Avanzano a salti brevi e rapidi, con ali ripiegate. Cercano e beccano tutto il perimetro. Sfiorano di zampe e ali. Poi si diradano, un attimo, con lo stesso movimento lineare e diretto. Dal suolo ai rami. Stormo in rapida toccata e fuga, staccato da uno sfondo nero. Ritagli di buio. A terra, un biglietto che resta in piega.

“Nessuno trovò nel torbido terriccio i semi gravi e minuscoli di neve, distanti e lucidi come per gioco. Solo alla sera, nel gelo complice senza luce, in quel fittizio mucchio dolorante, piovevano le macchie, pezzi notte, brigate cupe pronte all’imbrunire, a fare nero il bianco della pietra. Picchiate in grembi a stormi sillabanti, battiti e scrolli e folli d’attenzione, flotte distinte e armate, tono cupo, unico baglio nell’insurrezione”.

Versi. Intorno a noi, nessuno. Il camposanto è deserto. Non c’è più vento. I corvi sono spariti. Dai rami spogli, filtra il grigio chiaro dello sfondo. Resta solo un senso di gelo.

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BERLINO EST

Musicanti di strada. Un sassofono, una fisarmonica e una cassa. Ci vorrebbe una foto o un ritratto a carboncino. Tutti sono andati al castello e io qui, in giro, da solo, lungo Oranienstrass, cercando tempi personali. Poi improvvisa la musica mi è arrivata all’orecchio. Il suono mi ha portato in uno scorcio di piazza, ai bordi del passeggio. Sulla panchina, a scrivere, ospite d’onore per una estemporanea jam, concerto privato all’aperto. Non ho da fumare, ma ho carta e penna. Ogni tanto qualcuno si ferma e molla un soldo nel piatto. Il pomeriggio si risveglia al ritmo curioso di questa specie di jazz, pasticcio etnico sghembo e dissonato che vibra di euforia. Il batterista anomalo, pancia tonda e faccia stralunata, batte con gli occhi chiusi e il sorriso rilassato. Porta il tempo col piede e sembra del tutto ignaro di quello che succede intorno. Il suono della fisarmonica a tasti riecheggia melodie zingare. Il musicante sarà un rom o uno slavo. Con la faccia affilata, i baffoni e gli occhiali neri a goccia potrebbe essere fuggito da un set a basso costo. Al fiato c’è un tipo sveglio, ossuto, con una camicia arrotolata fin oltre i gomiti, capelli nerissimi e unti. Niente voce, solo musica. Il trio viaggia e mi porta via. Vado chissà dove coi pensieri e mi rilasso mentre la città mi sfila accanto. Niente passeggiata, resto qui al live show. Dopo circa dieci minuti e svariati pezzi, tiro fuori una moneta per gli amici. Il tizio del sax stacca le labbra dallo strumento, mi sorride e detta la pausa.

“Vuoi fumare?”Mi porge una Marlboro mentre gli giro l’accendino.“Italiano…..io stato Venezia..”“A suonare?”“No, lavoro. Operaio..”“Da dove venite?”“Bucarest. Ti piace nostra musica?”“Very good, fratè..”“Ah ah Ah!!!”

Il tizio ride di gusto e sbuffa pezzi di fumo. Dopo un breve passaggio in Italia ha scelto la musica di strada. Il batterista stappa una birra e la fa girare, mentre chiacchieriamo senza troppa convinzione. La panchina diventa un backstage. Chissà che dice il tizio. Una parola in italiano ogni dieci è troppo poco. Non capisco i discorsi, ma rido e sto da dio. Loro sono leggermente ubriachi e ciarlano a voce alta dei fatti loro. Ogni tanto uno si gira verso di me, mi guarda e ride. Io annuisco ma in realtà aspetto con impazienza che

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riprendano a suonare. A un certo punto comincia a piovere. I tre ripongono tutto in fretta e in un attimo vanno via, scomparendo nella pancia della città, giù, nella metropolitana.

Mi rimetto in cammino e prendo la linea che porta a Ostkreuz. Mi hanno detto che questa stazione allucinata verrà completamente messa a nuovo. Abbatteranno il ferro vecchio della struttura sopraelevata, le scale di metallo, i capanni di legno. Spariranno i negozietti di fiori e la sensazione di essere da qualche parte negli anni cinquanta. La struttura è sormontata da una torre con un cappello a guglia, come un elmo da guerra a fare la guardia. Questo è il cuore della cortina, oltre la linea della città. Una porta sull’est. Il quartiere è pieno di ragazzi, bar, ostelli e stanze a fitto. L’odore di dolce per le strade, i palazzi bassi e l’aria familiare riempiono le serate. Quando piove di continuo ci si chiude in un bar a tinte rosse e scure, riempiendo le ore di prezioso niente, tra cappuccini, grappe e assenzio. Ho assaggiato un vino bianco annacquato e alcuni caffè perplessi. Ogni giorno ha avuto i suoi falsi risvegli, con colazioni eterne senza partenza. Poi, di ritorno, all’ora fonda, il fumo delle sigarette nell’angolo e il camino scoppiettante lavava via l’umido.

Piove da giorni e non c’è stato modo di assaporare il sole. Ovunque grigio fitto, come il colore dominante delle costruzioni. Biciclette a parcheggio, acqua e acqua. Metto in disordine i ricordi come cartoline sparse. Trovo musiche notturne da un sottoscala ingolfato di neri e musica reggae, un disegno che rievoca vecchie bombe antiche e il crocifisso tra le mille finestre azzurre di una chiesa senza gusto. Ho visto un finto avamposto, i parchi intrisi di troppe gocce, e prima del sonno, un tavolo verde per un tiro di stecche. Ero ripiegato in posa da spaccone, chino sul bordo, armato di un finto stile nutrito a tabacco e vodka. Avevo perso ma recitavo, prima di passare il turno. Malinconicamente scrutavo le gocce, le stesse che avrei contato per l’ultima volta verso l’aeroporto, dai vetri del treno, sul panorama. Gli occhi e l‘autunno permanente. Ma quanto piove a Berlino?

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LE SPORE DI AMSTERDAM

Dove corre la smania suscitata dal trip. Una storia colorata che improvvisamente perde contatto con la torre di controllo. L’aquilone ha mollato il filo per un eccesso di leggerezza. Dal pomeriggio di sole, una coltre di grigio. Eppure qui il giorno dura un bel pezzo, come questa spiacevole presenza. Seduti nel parco a ruminare. Stordire per difetto di volontà. Un che di salato. “Questo schifo si appiccica ai denti”. L’equilibrio s’indigna, svolta e abbandona la rotta. Mi ritrovo improvvisamente solo, nonostante la compagnia, con un miraggio chiamato calma, dove non riesco ad arrivare. Ho masticato paranoia a rilascio controllato. Lungo i colori di carta e il senso di luna che rimescola il gioco. Strano posto dove perdersi nei grammi e nelle buste, una via dei giochi, prati e ponti, barche, sogni, e i negozi che chiudono alle cinque. E il neon e le case del nord. La sera tutto riluccica di stelle artificiali sulle acque calme. Stradine, canali e idranti da cartone. Adesso il marzapane è alieno. Mi liquida e stacca, mi sfasa e rigira. Vorrei essere altrove ma sono chiuso qui dentro, nella coscienza pura che non riesce a distrarsi. “Stringimi le mani”. Ansimo e mi guardo intorno furiosamente. Non ho volontà. “Provo a mangiare?”

Il tempo mi corre addosso. Devo fermare le lancette. Provo, e sediamo ad un bistrot improvvisato. La calma è morta e sepolta, spero che il cibo mi faccia risalire gli zuccheri e scacci via questo fantasma. Un brutto viaggio senza uscita di sicurezza. Quando arrivano i piatti tutti insieme sono nel panico. La cameriera è il simbolo del mio strano aspettare. Smanio, senza riuscire a piangere. Le decisioni sono in balia dei cappelli acidi dei muschi. Germinano paura. Carne e contorno mi guardano fumanti. Devo andare via da qui.

“Andiamocene”“Come andiamocene? Prova a mangiare…no?”“No. Andiamo via, per favore…Andiamo via..adesso!!”.

Sono alla frutta senza aver toccato cibo, stomaco chiuso e folle in rotta che mi passeggiano fino al cuore. Non è nausea. Non è delirio. È paranoia. Pura. Passerà questo stato di elettricità incontrollabile. Passerà, spero. Ma ora è qui. Mi muovo ma in realtà non cammino. Non passeggio. Vago in corsa col fianco esposto. Avrò delle brutte smorfie che mi modellano la faccia. Avrò un riposo a lungo termine dove tornare. Qualcuno mi spieghi cosa devo fare. La follia è uno stato mentale e mi sembra troppo vicina. I pensieri animati non mollano. Penso al futuro immediato e non vedo. Penso, e mi sembra una fuga mancata. Il tempo passa e continuo il giro. Macino i lunghi viali intessuti di canali. Ho fatto circa due chilometri senza contarli, seminando le scorie.

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Ho smaltito le tossine una per volta, una per metro. Ho dato libero spazio ai desideri vuoti, al flusso liquido controllato. Le piene in furia, ora lo so, hanno preso in giro la mente con dolorose cascate di vertigine. D’un tratto ho di nuovo i miei ruscelli che rigettano via l’eccesso. I colori tornano pastelli. A poco a poco, tutto placa. Respiro di nuovo. Apro i polmoni e rallento battito e passi. Via dall’incubo e dalla notte imprevista. Saranno passate tre ore. Avrò varcato tutte le svolte e le arche della città. Forse c’era un ponte levatoio. “Ho fame…adesso ho fame..”

La collezione di gambe nel quartiere a luci rosse ha il ricordo di una bicicletta leggera. La guida una ragazza sui venti. Mi passa davanti e sorride. Continuo il giro senza farci troppo caso e me la ritrovo alla mia destra. Nuda, in vetrina. Dovrei sorridere e infatti lo faccio. Mani in tasca e sollievo. Cerco un po’ da mangiare nella sera tarda che accompagna la ripresa. Forse che un abbraccio possa darmi il giusto senso di ritorno. Come un marinaio. “Terra.” Come un piccolo sasso sbattuto dai canali impazziti. Ho visto tutto dal di dentro. Passa un africano. Si avvicina all’orecchio. È vestito bene. Profuma di anice.

“Coca, coca...”Rido di gusto, spalanco gli occhi e la bocca.“Sono vivo - gli dico - vaffanculo”

La serata ha il sapore giusto dell’appetito. Come un sole a mezzanotte, rinchiudo quello che ho visto nei cunicoli nel baule dove freno i sensi. Mi affaccio. Sono fuori. Ho perso mezza giornata a cercarmi. Verso l’albergo c’è uno spiazzo lungofiume. Non ci sono chiatte ormeggiate. Una spianata con delle panchine si culla di vento fresco. Frotte di uccelli saltellano alla luce fioca della luna. Lampade da barche, remi e piccoli fuoribordo. Chiacchiere in ritiro. Preferisco il silenzio delle onde e il rumore delle acque. Non voglio neanche fumare. Il luna park è lontano, con i lustrini e gli stornelli artificiali, le corse e i balli. Questa zona non lo sa. Lei si gode il fiume e mi prepara al sonno. Proprio come una spiaggia, senza mare, al centro dell’Europa.

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LA SPIAGGIA DI TUNISI

Brulica di follia notturna e ammucchiata l’approdo di Tunisi. Dal porto sciamano uomini ovunque, invasati e pieni di oggetti. Pacchi giganteschi viaggiano su carrelli di fortuna costruiti con assi di legno che montano sghembe rotelle di metallo, stretti a lacci e briglie, corde, legacci e cartoni. L’odore umido di terra e salsedine avvolge l’aria. Urla, schiamazzi, imprecazioni. File e attese. Lunghe code. Spinte. Turni senza posa. Misture di colori che volgono al buio nell’oscurità. È quasi notte. Posti di controllo. Frontiera. Nervi e occhi stanchi, documenti al vaglio. Giustifiche esibite su carte da quaderno, lasciapassare, fotografie. È una bolgia illuminata di fari al neon, tra mura bianche e funzionari poco cortesi. Subito dopo la fretta c’è il bar, dove la chiacchiera accompagna i caffè. Prima sigaretta. Raduno degli effetti e della borsa, poi via, a piedi, lungo uno stradone che conduce alla spiaggia. Punto per punto mi trascino stanco sulla polvere di sabbia. Il marciapiede è una battigia asciutta e dispersiva. Crollo, cerco riposo, mi addormento senza forze mentre la folla sciama in un locale sull’infinito lungomare.

Mi distendo necessario sul selciato senza cura del vociare e del trambusto avvolgente. A tratti riapro gli occhi e osservo brevi finestre. La gente fuma narghilé, sorseggia the e passa il tempo in un lento e uguale vuoto, circondato dagli sciami di persone che rincorrono le orme appena prima. Uso il muro che separa il piccolo e stretto marciapiede dalla spiaggia come fosse uno schienale. Mi stringo avido alla sacca e dormo, nel fumo della carne che arrostisce sui banchetti. Dormo, in mezzo agli ambulanti, nei pianti ragionati dei bambini, nello scalpicciare dei passeggi. La spiaggia mi guarda e si distende, stracolma di tende, capanne e improvvisi ripari, come una festa. Eppure non c’è ricorrenza. Domenica o sabato è uguale. Non ci penso. Ho perso il conto. Mi lascio addormentare sulla pancia e sul mare, sempre più stanco e tranquillo. Il sottofondo costante mi accompagna come un brano notturno. Sono infinite voci di genti e rumori di città.

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LE VISIONI DI TANGERI

Il tassista non intendeva guidare col buio. Fermò bruscamente la vecchia Mercedes. “Giù dall’auto - disse - di notte non si viaggia. E’ pericoloso”. Vaneggiava di assassini e ladri. Parlava di predoni. Così rimanemmo a piedi. Posammo i passi nell’incertezza, zaino in spalla, col tramonto appena calato e il cammino da inventare. L’appuntamento col gruppo era saltato irrimediabilmente. Quella notte non saremmo mai arrivati.

Iniziammo a camminare, lungo una strada piena di rifiuti e bancarelle. File di chioschi e baracche avvolte nei fumi delle griglie. L’altro lato della strada costeggiava un bosco buio e impenetrabile. Un posto perso, sconosciuto, lungo la costa. Trovammo un bar per un caffè nero e diluito. Gli occhi degli uomini seduti fuori ci scrutavano diffidenti. Il locale era ampio e vuoto, con solo il bancone e la porticina del bagno. Il fumo del kif riempiva l’aria di un odore acre. I bicchieri di the verde, conditi di foglie di menta, affollavano i tavoli. Mucchi di zollette bianche guarnivano i vassoi.

Indecisi sul da farsi proseguimmo la marcia cercando dove dormire. Fu a quel punto che scorgemmo la spiaggia. Il mare nero era davanti a noi, imponente, disteso. Era spuntato dal nulla. Stavamo percorrendo un litorale deserto, lunare, preceduto da una schiera di scheletri di metallo, che di giorno diventavano bar e chioschi pieni di gente. Un giovane dalla pelle olivastra ci avvicinò pronunciando i nomi di calciatori Italiani: fu così che iniziammo a parlare. Volevamo riposarci sulla sabbia, ma lui ci fece notare che ogni cento metri, più o meno, c’era una guardiola militare con dentro un soldato armato di mitra. L’intera zona era sorvegliata. “Dormire qui, problema - ci disse - vi possono sparare”. Lui si avviò verso la spiaggia e spiegò alla guardia la situazione. Alla fine avemmo il permesso. Sedemmo sulla sabbia umida e poggiammo gli zaini. Eravamo tutt’altro che tranquilli, in compagnia di uno sconosciuto, circondati dal buio e dai soldati armati poco distanti.

A un certo punto cominciò la sfilata. Un passeggio, prima discreto, poi sempre più evidente, riempiva l’intera zona. Uomini. Coppie che andavano e venivano trasportando scatole di Marlboro, pacchi enormi, sacchi ricolmi e valigie fuori moda. A pochi metri dalle guardie un formicaio incessante trasportava merci di ogni tipo lungo la battigia. Alcuni di questi corrieri conoscevano il nostro amico, si fermavano a salutarlo, scambiavano qualche parola e poi sparivano nel nulla. Intanto arrivarono altri ragazzi e sedettero nel cerchio, che girava su se stesso come una ruota. Pezzi d’hashish venivano scaldati da mani esperte, mentre il fumo s’alzava denso. Stordimento e sonno danzavano veloci verso la notte. L’atmosfera era surreale. Eravamo sempre meno lucidi,

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mentre tutto andava come ci avevano raccontato. Tangeri era considerata un posto di frontiera, e come tale era pieno di gente senza scrupoli, truffatori e ladri. “Vi faranno fumare fino a intontirvi, e quando vi sveglierete vi avranno preso tutto”. Non facemmo in tempo a pensarci che il nostro amico tirò fuori la sipsi, la pipetta per il kif. Era fatta di legno lavorato, con un piccolo braciere per bruciare la mistura di erba fresca colta direttamente dalla planta. Quando lo strano calumet iniziò a girare e il fumo ci avvolse le gole, fu tutto chiaro. Quello era il colpo di grazia.

A quel punto ci lanciammo uno sguardo e tirammo fuori il whisky comprato sulla nave. Gli occhi estasiati dei ragazzi alla vista dell’alcool furono l’ultimo dettaglio nitido della notte. Dopo aver riempito un bicchiere assaggiarono a piccoli sorsi. Occhi rossi e tosse acuta segnarono le boccate e a breve il malto venne messo da parte per altri futuri bagordi. Ci trasferimmo a fatica sotto una delle capanne lungo la spiaggia, sotto un chioschetto di legno con sedie e tavoli per le chiacchiere dell’ebbrezza. In lontananza arrivava musica rock europea, diffusa da un grosso stereo sistemato in una baracca nei dintorni. Non c’erano percussioni, niente ritmi tribali o colpi in sequenza a fare da sfondo a quell’inesorabile oblio. Saremmo crollati presto, storditi e alterati dell’hashish. Non appena il sonno ci avesse avvolto, sarebbe iniziato il saccheggio. Il giorno fu una strada di nebbia. Uno strato denso di biancore aveva riempito gli spazi, come una coltre sui pensieri. Un manto pastoso copriva il risveglio. I sacchi a pelo erano zuppi d’acqua, affondati nella sabbia bagnata. La luce dell’alba era stinta e timida. Nessuno parlava. Gli amici erano scomparsi. La nostra roba era tutta lì. La spiaggia era vuota. Onde planavano stanche sulla riva. In lontananza presero forma due figure. Un uomo e una donna facevano il bagno. La donna era completamente coperta da una tunica, immersa nell’acqua fino all’addome. Quei luoghi sconsigliabili prendevano forma poco per volta, stagliandosi gradualmente attraverso il sole, mentre la nebbia recedeva e i sogni tornavano nelle profondità del buio. Prima notte marocchina. Verso Ceuta.

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UN BORDELLO

La bettola è l’unico posto fresco della Medina di Tozeur. C’è un caldo eterno. Il rosso avvolge l’aria e il sole sbatte sulle mura della città antica. Le hanno fatte con cura, sistemando in ordine discreto un numero infinito di piccoli mattoni regolari. Un tempo qui c’erano mille botteghe, zeppe di roba e mercanzie. Le stoffe nascondevano gli ingressi dei negozi. Gli stranieri dovevano passare attraverso fitte ragnatele di voci, mentre il chiacchiericcio disegnava uno sfondo di fili collosi. In ogni angolo fiorivano continuamente contrattazioni e tentativi. Le frodi seguivano il denaro e la folla accoglieva decine di truffatori e borsaioli. Il caldo non lascia respirare le mie immaginazioni, che cadono sconfitte al sole silenzioso. Adesso la Medina è quasi vuota. Ci sono solo case, residenze patronali e minuscoli tuguri. Resiste solo qualche negozio di ruffiani souvenir. Nel cuore del dedalo semideserto c’è un bar. Ci arriviamo a metà mattinata, ormai fritti dai passi roventi. Vendono birra e fanno Carne di cammello. “Roba da turisti”.

Troviamo un tavolo tra gli occhi curiosi, sistemiamo i bagagli da viaggio e lasciamo la nostra scia di polvere straniera sulla porta. Mangiamo olive nere rinsecchite e datteri dolci, fumando e combattendo col sudore. La clientela rumorosa e divertita si dedica all’alcool senza risparmio. Ognuno inneggia al bere. Boccali di vetro povero colmi di birra attraversano lo stretto spazio tra il bancone e i tavoli di legno. La barista vaga tra i posti con aria sicura. È una signora grossa e pettoruta, vestita in modo provocante, che non fa nulla per nascondere un inconfondibile respiro mascolino. Sbracata, spiccia gli avventori con fare esperto. Stappa bottiglie e riempie vassoi. “Qua non l’ho vista mai una donna in birreria. Figuriamoci a servire, poi”. Da queste parti la birra è proibita. Nei piccoli paesi c’è il contrabbando, mentre nei centri più grandi viene venduta nei supermercati e negli alberghi. Ogni villaggio ha il suo spacciatore. Di solito questo avvicina il forestiero e inizia a contrattare. Si stabilisce un prezzo e si fissa un appuntamento. Gli alcolici viaggiano sottobanco come la droga. Ma come la droga, si trovano ovunque. Basta pagare. Nelle bettole di città gli uomini si ammassano e s’ingozzano fino a perdere la testa. Quasi sempre sono luoghi malfamati dall’aria pittoresca, angoli di penombra maleodoranti e affollati. In ognuno di questi posti il presidente tunisino e un vecchio bevitore osservano i bagordi dai muri spiritati, rinchiusi nelle cornici. Appena si arriva in Tunisia questi quadretti sono inquietanti, ma poi ci si abitua e diventano familiari.

Le donne non sono ammesse nelle bettole. Solitamente non possono neanche entrarci. Ma la signora sembra a suo agio. Ci passa davanti e riempie

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di nuovo i vasetti di olive. Sorride rozza e semina scie di gesti. Ai tavoli la gente urla e si racconta chissà quali storie. Le invettive si rincorrono nei vapori. I toni si accavallano. L’arabo diventa una musica di consonanti impazzite. Tutti ci salutano alzando i bicchieri. Ad un certo punto, dopo aver passato un’ora a rifocillarci, decidiamo che è ora di uscire. Sfidiamo il caldo e ce ne andiamo in giro, chiedendo di lasciare i bagagli nel locale. C’è uno stanzino buio che fa al caso nostro. Nessun problema. “Merci messieur”.

Il sole pomeridiano è intollerabile. Nel giro di un’ora torniamo indietro completamente arresi. Ordino un’altra birra, riprendo a bere e mi rilasso nel cortile, sotto una strana veranda che regala scampoli di fresco. Questa specie di giardino non l’avevo visto. Mi guardo intorno e osservo meglio. Sono seduto in un grosso perimetro a cielo aperto con al centro una grossa fontana secca. È pieno di tavoli e sedie sparse. Lungo il quadrato dello spiazzo ci sono delle porte. Due di queste danno sulla locanda. Di lato c’è n’è una che da sulla cucina. Un’altra piccola stanza scura ospita i nostri zaini. Le altre sono vuote. Intorno alle porte corre un corridoio sormontato da un portico. Le pareti sono dipinte di rosa e nero. Mi viene in mente il Messico. A quest’ora la birreria è quasi vuota.

Improvvissamente nel corridoio compaiono delle ragazze dall’aria curiosa. Indossano abitini stretti e ci guardano disinvolte. La barista di prima non c’è. È sparita. D’un tratto alzo lo sguardo e mi accorgo che la locanda ha un secondo livello, un intero piano di stanze e balconi. Dalle mura rosa si affacciano altre ragazze. Qualcuna ha la gonna corta, qualche altra veste jeans sfilacciati. Le calze a rete nere stridono coi colori accesi dei vestiti. Sfoggiano tutte trucco pesante sulla pelle olivastra. Lanciano occhiate maliziose. Sorrisini. Mentre le guardo, da una porta ricompare di colpo la signora del bar. Sta confabulando animatamente con un uomo dall’aspetto strano, mezzo distinto e mezzo buffo. Indossa una camicia a righe larghe, porta occhiali neri e baffi grossi. Sembra un impiegato della bassa Europa. Il donnone gli rivolge gesti decisi. I due si scambiano un saluto complice, poi la donna si gira e se ne va. L’uomo invece si dirige verso una ragazza, la prende sottobraccio e sale frettolosamente al piano di sopra. La ragazza gli sta davanti, sculetta e si volta sorridendo. Lui la rincorre sui gradini, lei accelera e lo guarda compiaciuta.Alla fine lui le sfiora il culo, mentre attraversano una delle porte.

Le ragazze lavorano qui, e ci guardano perché siamo clienti, arrivati da lontano al bordello rosa e nero. Rialzo lo sguardo verso l’alto e incrocio gli occhi viola di una giovane fanciulla che sorride. Siamo in un quadro dai colori accesi, opera di un vecchio artista. E’ dell’inizio del secolo zero. Lui cerca ispirazione nel torrido Maghreb. Stanco, ha messo i suoi pennelli sulla porta, per affannarsi al chiuso pomeriggio. Dell’Arabo impara le vocali. I colori li trova tra le gambe di una mulatta di Tozeur.

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GENOVA PORTO

Le luci del porto. Lampade sull’acqua come fantasmi. Nebbia leggera. Quasi alba. Fumo stanco e infreddolito. Dal vetro scivola condensa. La caffettiera sembra guardarmi. Una lunga notte al tavolino. A giocare a scopa e fumare. Poco alla volta la bettola si è liberata dei suoi ospiti. Alla fine siamo rimasti in due. Io e il padrone.

“Si è fatto tardi, me ne vado a dormire. Più tardi arriva mia moglie. Tu fai come se fossi a casa tua, e non ti preoccupare di niente, va bene? Se vuoi andare, basta che ti tiri la porta”. Ringrazio con un cenno della testa. Il tipo si incammina piano verso la porta sul retro. Adesso ci siamo io e il mare. Aspettiamo il giorno assieme. Mi stendo sulla brandina, mani dietro la nuca. Su di me un lucernario. Lascio aperte le tende confidando nell’alba.Il sole non mi dà fastidio. Riesco a dormire lo stesso. Ci vorrebbe un po’ di musica, ma niente radio. Non ho nessuna voglia di alzarmi. Me la faccio io. Mi suono una canzone a mente, come facevo da piccolo. Facile. Metto in ordine le parole e la musica, aggiungendo un pezzo per volta. Prima la melodia, poi gli strumenti. Una chitarra, un basso. Le percussioni. La batteria. Infine i cori femminili. Una voce calda e roca. Antica. Il pezzo è una storia di mare. Di passione. Una storia di tempesta. Acqua che scorre. Dolce e violenta. Dolce e nera. Sono arrivato a Genova che era buio, dopo un lungo viaggio iniziato da un autogrill della Sicilia, tra Palermo e Agrigento. Una superstrada trafficata e dritta mi ha portato prima sul continente, e poi lungo l’autostrada del sole. Dall’isola in su, lungo lo stivale. Arrivato a Roma ho trovato un signore che mi parlava della sua città.

“Devo andare a Parigi - gli ho detto - me lo da un passaggio?”Lui era un genovese. All’inizio mi ha guardato strano. “A Parigi?”

Lungo la strada mi ha raccontato del suo mestiere di portuale. Da giovane si era imbarcato. Dai pescherecci alle navi merci. “Sono sempre stato in mare”.Poi aveva fatto il netturbino. Al porto. Ma per poco. Alla fine era tornato a navigare. Il suo sogno era di partire, mi ha detto, “con una barca a vela, di quelle vecchie, antiche”. Aveva la saliva incrostata di uno strano odore. Salsedine e suggestione. Guidava con ritmo medio, senza fretta. Teneva il volante con due mani stringendo in bocca la sua nazionale. Parlava fumando le parole. Alla fine ha passato più tempo rivolto verso di me che a guardare la strada. Tutto con la massima tranquillità. Tra una sigaretta e l’altra siamo arrivati in una stradina del centro storico di Genova. Abbiamo lasciato

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la macchina in un portone e siamo scesi a prendere qualcosa da bere, col freddo notturno primaverile a ricordarci che eravamo vivi. Il mare era lì, a due passi, con quel suo odore denso, come una cosa fisica, che ti avvolge lo stomaco in un rollio di schiuma, stordendoti col rumore dell’acqua. Quel bar di Genova vecchia era un posto pieno e affollato di fumo e voci. Abbiamo preso un tavolo. Una donna sui cinquanta è venuta a prenderci l’ordinazione fissandomi senza discrezione. Mi guardava continuamente. Forse per via dei capelli, forse per la faccia stanca e stravolta. Forse era solo incuriosita dal mio zaino enorme.

“Di dove sei?”“Sicilia”, ho risposto.

Abbiamo preso una bottiglia di vino e una zuppa di pane, chiacchierando di cose varie. Parlavo e continuavo a guardarmi attorno, soffermandomi sulla gente che riempiva i tavoli. C’erano personaggi di ogni tipo, tra giocatori e uomini di pesca. Il rumore di fondo si attaccava ai muri. Mi sentivo stordito, confuso. Cercavo di rilassarmi, ma in quel posto fuori da tutto, non ci riuscivo. Avrei voluto godermi la serata, ma ero troppo stanco dal viaggio. Mi sentivo fuori posto perché non ero ancora arrivato. Dovevo ripartire. Ero solo.

“Che ci vai a fare a Parigi - mi chiese il mio amico - Genova è meglio...”“C’è mio fratello, lavora lì da anni. Lo vado a trovare”“I francesi non mi piacciono - rispose lui - E poi non c’è il mare”“C’è la Senna però..”“Naah, ci vuole il mare. Senza mare manca qualcosa..”In fondo aveva ragione.

A un certo punto, mentre beveva, se n’è andato. Dopo aver guardato l’orologio mi ha salutato in fretta augurandomi buona fortuna. Così sono rimasto in quel posto un altro po’, pensando a dove dormire. Pochi soldi e poca voglia di mettermi in giro a cercare una stanza. Quando è tornata la donna, ho chiesto se conosceva un posto economico per la notte. “Se aspetti che chiudiamo, c’è una brandina”. Non avevo idea dell’ora. Ero distrutto, e il sonno, dopo mezza bottiglia di rosso, mi chiudeva gli occhi contro ogni volontà. Fu in quel momento, proprio mentre stavo per crollare sul tavolo, che qualcuno afferrò rapidamente lo zaino poggiato per terra. Non ebbi il tempo di pensare. Il ladro fuggì con tutto quello che avevo. Mi precipitai alla rincorsa, travolgendo tutti quelli che c’erano tra me e la porta. Una volta fuori, lo vidi, a pochi metri da me, e mi lanciai all’inseguimento. Corsi più forte che potevo. Corsi, senza pensare. Quando gli fui a tiro, mi lanciai addosso a peso morto, trascinandolo per terra. Il furfante non aveva voglia di fare a botte, perché mollò il bottino e scappò via. A me interessava solo lo zaino, e ce l’avevo tra le braccia.

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Stretto. Col cuore che batteva a mille, cercai di riprendere il controllo del mio fiato impazzito. Intorno a me c’era una folla di gente. Tutto il locale si era precipitato fuori a guardare cosa stava accadendo. Qualcuno aveva cercato di aiutarmi a fermare il fuggiasco. “Stai bene, belìn? Portate un po’ d’acqua per il giovane!!”. Il ladro era un immigrato algerino. Una faccia conosciuta, almeno così mi dicevano. Non importava. Lo zaino era qui, e mi stava bene. Mi offrirono di dormire nell’osteria. C’era la brandina, il caldo della stufa e la vista sul porto. Andai avanti a bere e chiacchierare col proprietario tutta la notte. Il sonno era andato via con l’adrenalina. Ero rimasto sveglio e lucido senza più stanchezza. Poi, al sorgere del sole, dopo l’assalto dei raggi accorsi a prendere la terra dal mare, presi gli occhi e li misi via. Mi gustai il tepore sulle palpebre chiuse e iniziai a sognare. Il sole scaldava i desideri. Domani sarei ripartito.Destinazione Parigi.

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NAPOLI JAZZ

Giù, lungo le scale mobili, col movimento automatico che mi disorienta. Sarà il vino, il fumo, o il passaggio dal freddo umido al caldo asfissiante e artificiale della subway. Fermo sul gradino metallico che scivola dolce e regolare. Guardo il mondo senza un punto. In balìa.

“Ehi, fai attenzione…scendi!! Andiamo!!!”C’è il treno che parte. Dobbiamo muoverci. Cerco un barlume. Giro per la mia volontà e m’imbatto nella consapevolezza. “Ok andiamo!!”

Lei ha una voce che mi prende. Dei modi leggeri. Un piglio forte. Lei è flessuosa e decisa. Dopo una notte da soli a dormire in due letti diversi non so che pensare. Mi sento un po’ confuso. Mi sento timido. A tratti stupido. Direzione teatro Tam. C’è un concerto. Un quartetto. “Non conosci Fabrizio Bosso? Ma non sei appassionato di musica?” Se la ride e mi prende in giro. “Non lo conosco…sarà uno di quei trombettisti fighetti che mi annoiano a morte…una volta ho visto Paolo Fresu e quasi mi addormentavo”. Le schermaglie verbali incedono al ritmo rapido dei passi, dalla stazione alla banchina, di corsa, fino al treno. Saltiamo al volo. Appena in tempo. Siedo e mi lascio trasportare, inerte, dal vagone e dai pensieri. Dicono che punzecchiarsi con costanza e puntualità sia sintomo inequivocabile di attrazione reciproca. E allora forse dovrei fare qualcosa. E invece mi perdo. Guardo nella sua direzione ma in realtà non sto osservando nulla. Ho gli occhi sospesi. Capita. Lei mi piace. Assai.

“Ma a che pensi? Sei ubriaco?” Mi guarda e mi passa la mano davanti agli occhi. Sorrido. Il treno frena di botto. Dobbiamo scendere. Riemergiamo a Piazza Amedeo. E’ domenica sera, c’è aria di pioggia e vapore. Macchine in colonne e su tutto una nebbia umida e acquosa. Napoli - Milan in televisione. La gente attenta nei vasci fissa gli schermi, mentre l’eco della telecronaca risuona. Facendo attenzione si percepisce un distinto brusio. Dalle finestre sulla via arrivano invettive e bestemmie sparse. Il Napoli è sotto. Niente boati.Ci siamo quasi. Piove da ore. Acqua fitta e fastidiosa. Il locale è alla fine di una salita ripida, tutta ciottoli e basoli. Una piccola anticamera e poi il club. Gente in pelliccia e ghingheri vari. Pubblico di età composita. Prima di entrare, una sigaretta. Sono già fradicio. Restiamo a sbuffare nuvole di grigio sulla soglia. Poi, dentro. Guardo la folla e resto in piedi. Non ho mai capito come si possa assistere ad un concerto jazz senza fumare. Alla fine troviamo l’ultimo tavolino, l’unico rimasto libero. Finalmente caldo. Siamo bagnati dalla testa ai piedi. “Prendo una birra?” Il concerto inizia dopo un quarto

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d’ora circa. Il tizio è giovane e fresco. Si dimena con stile. Dovrei mostrare disappunto, come faccio sempre quando non sono l’ideatore della serata. È difficile. Pensavo male, al solito, e invece mi piace. Lei è assorta e incantata a gustarsi la tromba. Prima nuda, poi con la sordina. Un pezzo col distorsore. La band lo spalleggia sfrigolando. Groove. Pausa. Acqua. I musicisti bevono e tirano il fiato. Lei si alza e va in bagno, passandomi davanti con eleganza. Mi lascia intorno una scia di profumo leggero. Niente di provocante o gridato. Direi che c’è anche un po’ del suo odore. Le gambe sfilano salde. Dondolano sul mio sguardo cedevole. Poi scompare alla fine del corridoio. Dopo qualche minuto torna. C’è altra birra. Tutti gli spettatori suono fuori per il momento sigaretta. “Andiamo a fumare?” Sull’uscio non c’è spazio. Una fittissima calca di persone stretta lungo una striscia di pochi centimetri si divide, con un piede dentro, per ripararsi dalla pioggia, e l’altro fuori, per essere in regola e sfumacchiare. Marlboro, Chesterfield. Merit. Kim extrasottili. Prendo la mia busta di Golden Virginia e arrotolo la cartina. “Hai d’accendere?”

Io e lei siamo stretti tra la massa. Dividiamo pochi centimetri respirando il fumo con tiri veloci, così vicini che devo tirarmi indietro per evitare di toccarla. Siamo occhi negli occhi. Mi rigiro e me li sento addosso. Guardo altrove. Parlo e quasi sento il suo respiro. Faccio finta di niente. Vorrei voltarmi. Maledetto imbarazzo. Non so quali siano gli argomenti, ma ci parliamo. Le nostre labbra sono sospese in un soffio. Lei è così vicina, ma io so già il finale. Nessun bacio. Dividere un caso, assecondare le attrazioni. Ho deciso. Rimando, a non so quando. “Quando la collisione è inevitabile - penso - lo senti”. Un po’ come il jazz. C’è chi ha il feeling e chi no. Non puoi suonare con tutti. Non si improvvisa per caso. Se c’è quella comunicazione, quella sensazione istintiva, allora va bene. Non devi fare altro che suonare. Ma se non c’è puoi provarci mille volte. Vorrei baciarla, ma non ci riesco. Respiro. Fumo. Poi, dalla sala, il suono della tromba arriva fuori e chiude i giochi. Mi giro, la guardo e tiro un sospiro rassegnato. “Andiamo dentro, ricomincia..”

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IL CASTELLO DI TRIESTE

Nel buio della città antica col cielo che minaccia pioggia. Si vendono numeri fortunati nell’autunno raggelato. Caldarroste da cartoccio, cinque pezzi per tre euro. E’ un furto. Appena fuori da un vecchio e curioso caffè del centro, cerchiamo giusto calore. “Meno male che non c’è la bora…” La fila del bagno, così grave e necessaria, ci lascia il tempo di abituarci al caldo delle poltrone, alle stufe e al vapore che sale, vivo, dalle tazze. Diretti verso l’avanscoperta, orfani di tetto. Dormiamo in giro ma stanotte uno spiazzo non basta. Pensierosi e stanchi usciamo nella sera, col fitto passeggio del sabato che ci attraversa ordinato. “Andiamo di qua, c’è il lungomare…”

Arriviamo al pontile e lo seguiamo fino al fondo. Il molo spazzato da gocce e vento si arrende alla mostra del mare. Tutto si appresta all’inverno. C’è aria di nord. Grossi palazzi angolari sembrano squadrarci con rigore. Qualcuno telefona e si allontana per custodirsi privato, qualche altro scruta il fondo del buio. Dalla punta dell’approdo fino al mare, perso e nero. Il vento sferza contro il microfono spazza le parole. Parlare è nulla, fumare peggio. Bisogna che troviamo un posto. Via dal freddo e dall’umido. La città inizia ad accucciarsi. Camminiamo per scaldarci. Piazza Unità d’Italia è ampia e regolare. Austera, ma soprattutto raggelata e deserta. La zona universitaria è anche quella più caratteristica della città. In realtà la nostra destinazione iniziale era Lubiana, ma il fermo immagine dell’autunno ingannatore ci ha portato altrove. Dopo due notti passate all’aria aperta serve un tetto. A Verona abbiamo dormito nel gazebo di un bar, con l’acqua piovana a zuppare il finto parquet. Eravamo al riparo, ma a bagnomaria, col risveglio dolorante e acciaccato. Prima ancora la notte era stata di viaggio, nella cabina di un camion decorata di santi e mignotte.

Il vento spira e spira, c’è una sottile e fitta pioggerella che taglia il viso. Birra e pizze. Caldo. I gestori della pizzeria ci guardano come fossimo marziani. Ma entriamo, e per un’ora non penso a niente. Non importa dove dormire, non penso a dove andremo. Mi ripiglio con poche piccole parole chiave: mangiare e calore. “Dice che c’è stato Joyce, qua”. L’aria sa di cultura e letteratura. È la città di Italo Svevo, eccetera eccetera. “Chissà se c’è un albergo dove accettano poesie”. In nome dell’arte. Non scrivo niente, non adesso. Il taccuino riposa, beato lui, al caldo della tasca. Mi allento la sciarpa e sbottono il giubbino. Vado in bagno un attimo, tolgo le lentine e infilo gli occhiali. Manca solo il pigiama. “Chiediamo a tizio del locale se ci fa dormire qui?” Non è una battuta, non si può fare. Loro restano zitti. A breve ci cacciano via. Tirano giù la serranda mentre siamo ancora a fumare. Così la pausa muore di botto e

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torniamo fuori, a cercare disperati qualche grotta di città. Il riposo ci aspetta. Attraversiamo i viali e le affascinanti stradine del quartiere universitario, una zona vecchia e in via di ristrutturazione. Ci sono alcune casette malmesse e disabitate. C’è un portone chiuso male. Ci affacciamo con la luce dei cellulari, ma il posto è impraticabile e lercio, pieno di frantumaglia e immondizia. Passiamo piccole osterie chiuse. Non c’è modo. Neanche un piccolo gazebo dove ripararci. Intanto l’acqua diventa sempre più fitta e il vento non chiede permesso. E’ il mio primo giro in autostop, e io, sinceramente pensavo di restare in autogrill. Magari dormiamo lì una notte - pensavo - per poi tornare indietro soddisfatto della prova. Invece siamo a Trieste. Ho sonno.

“Di qua ci siamo già passati”. È un locale in costruzione, su due livelli, praticamente nuovo. Mancano i pavimenti e la vernice, non ci sono finiture. Ma hanno già fatto la porta, di vetro. Diventerà un ufficio o un negozio. “E’ chiusa dall’interno” - dice Anna. Sotto c’è uno spazio dove evidentemente ci verrà un gradino. È uno spazio piccolo. Anna lo guarda e poi di colpo si piega sulle mani e come una flessione a fil di terra s’incunea sotto. Un attimo e ci passa, il gioco è fatto. Apre la porta dall’interno e ci fa entrare con un gesto di soddisfatta cortesia. “Signori, prego!” E’ un bell’ambientino, tutto calce e pasta di cemento. In giro qualche attrezzo, qualche secchio. Ma è abbastanza pulito. C’è persino la tazza del water, anche se manca ancora l’impianto di scarico. Siamo ospiti in un piccolo stabile di uso commerciale. Affisso al muro spunta il dettagliato progettino. “Siamo a posto, domani è domenica. Non si lavora. Nessuno ci sveglierà”. Saliamo al piano di sopra. Non c’è ancora la rampa, ma troviamo una scala messa lì dagli operai. “Questa deve essere la stanza da letto”. Si esce a cercare qualche grosso cartone da utilizzare come materasso. “E’ fatta - dice Gino - abbiamo una stanza”. Ci è andata di lusso. “Possiamo lasciare i bagagli qui.Tanto chi ci viene?”

La passeggiata al freddo, sapendo del giaciglio, è tutta un’altra cosa. Rispetto a cinque minuti fa, il gelo ci esalta. Abbiamo un posto caldo per la notte, tutto per noi, completamente a disposizione. Certo, non hanno fatto in tempo a finirlo. Ma li scusiamo. In centro non c’è nessuno. Troviamo un altro locale. Sta chiudendo anche questo. “Vabbè, una birra al volo”. Altra corsa. Ormai ha smesso di piovere. Torniamo con calma verso la nostra nuova casa. Andiamo a dormire. Sto per crollare quando mi viene in mente che è la notte di Halloween.

“Facciamo una seduta spiritica?”“Ho sonno”“Secondo me nei dintorni c’è qualche fantasma”

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Ridacchio e continuo a parlare. Siamo tutti dentro i sacchi, sistemati su una sequenza di cartoni a isolare dal gelo del massetto. Si sta comodi. “Ho capito, per stanotte niente esoterismo.Vi lascio dormire. Ma dovrò scrivere qualcosa su questa storia. Ci faccio un racconto. Lo chiamo < Il castello di Trieste >. Che ne dite? Anna, tu fai la principessa. Mi sembra il minimo. Hai le chiavi del maniero. Sei la castellana”. Lei mi guarda e sorride. Non sembra convinta.“..ma se non vuoi responsabilità puoi sempre fare la dama di corte”. Per qualche attimo non ci fu che sonno e silenzio. Poi il vaffanculo di Anna, ultima eco delle stanze reali, mi lasciò in faccia il sorriso per la notte.

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SARAJEVO BLUES

“Ho visto una mela e ho pianto”. Una ragazza e i suoi familiari. Barricati per anni. Assediati. Qualcuno morto di stenti. Qualche altro ferito dalle schegge. Una sensazione lontana eppure presente, qui. Ancora viva. La fame e il sangue. Il rumore dei fucili. Le armi in pugno da una casa all’altra. In mezzo, un fiume. Le mura dei palazzi crivellati. Buchi di proiettili e colpi di mortai. Cicatrici. Scarnificazioni. La strada per la città è tutta contornata da surreali case senza tetto, scheletri dati al nero delle fiamme, pareti forate, finestre svanite. Ovunque resistono mura abbattute. È un enorme panorama di fuga. “Siamo rimasti chiusi in casa per mesi. E’ stato come impazzire”

Sembra un ricordo d’altri tempi. Roba di nonni o più. Ma questa donna che parla non ha sessant’anni come sembra. Ne ha trenta. E non ha molta voglia di parlare. Le parole arrivano dopo lunghe pause di silenzio. Un silenzio pesante. “Questa città era la Gerusalemme d’Europa, piena di moschee, chiese e sinagoghe. Adesso è circondata da cimiteri”. Sta calando la sera e la gente inizia a scomparire. Nel centro rimodernato, con basse costruzioni di legno, tra botteghe e venditori di souvenir, restano i colombi. La collina di fronte ospita le croci infinite. Il cielo è terso. “I cristiani ortodossi e gli ebrei. I musulmani. Tutti insieme. Poi la faccenda è diventata un problema.” Da un internet point esce un arabo. Va a comprarsi un kebab in un negozio. “Arabi con gli arabi. Se va da qualche altra parte lo mandano via. Là dentro i bosniaci non possono entrare”. La donna ha solo qualche dente e un viso spento. “Per i turisti è tutto normale. Ma l’aria è ancora pesante. Basta guardare”. Oltre i soggetti delle foto si muovono trame nervose. Storie dimenticate. Vendette e patimenti. Odio. “Ho dato via tutti i preziosi della mia famiglia per delle patate. Un vecchio anello di mia nonna, d’oro massiccio, mi è valso un sacco di farina. Poi sono arrivati i militari dell’Onu, e hanno portato le sigarette. Una festa. Ma la pace è una farsa.”

E’ agosto e la città è piena di gente. Il cuore antico è dislocato nella zona dei templi. I vicoli attraversano minareti e chiese. Il canto dei muezzin accompagna il tramonto mentre il passeggio riempie la piazza. Ovunque spuntano fontane disseminate per i viali. Poi ci sono i mercati, pieni di oggetti, mercanzie e ricordini. Kefiah, scarpe, tappeti, teiere in metallo, lavorati. Tra poco tutto scomparirà nel nulla, in un coprifuoco materiale che ricorda i 4 anni di assedio che stremarono la città. “Ma Sarajevo non fu conquistata. - dice la donna con forza - Non fu mai vinta. Mai.” Per un attimo l‘orgoglio le riaccende gli occhi e parte un fiero sputo. Schizzi di saliva dalle parole. “La guerra non l’abbiamo fatta noi. La ricostruzione nemmeno. Non c’è niente dietro quello che vedi”.

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Camminare per qualche minuto rende tutto più chiaro. Da ogni buco saltano fuori mendicanti e bambini, questuanti e bisognosi. Cartoline da collezione raffigurano sequenze di guerra. Le foto d’amore confezionate per i turisti riempiono i banchi dei bottegai. Trecentomila abitanti che non si vedono e non si sentono. Ad un tratto l’andatura distorta di un mutilato mi prende lo sguardo. L’uomo mi punta e si avvicina. Inveisce. Urla. Probabilmente bestemmia. Sconnette frasi senza pace. Mi fissa qualche istante poi riprende la sua oscena danza. Ormai è sera. Il fiume ondeggia scuro. Siamo gli unici rimasti in strada. La donna ci porta a vedere la fiamma di Tito. È un fuoco che resta lì come un monito. Un’istituzione per gli abitanti, una curiosità per i turisti. La donna scruta il fuoco con aria grave. Resta per diversi minuti a perdersi chissà dove. “Tito era un grande. E’ stato l’ultimo a credere nella Jugoslavia”.

Cerchiamo disperati un locale aperto, un posto dove bere qualcosa. La donna non ci sta. Ci saluta in modo deciso. Ci guarda ancora una volta, poi via. La notte non le va. La notte è come lei. Non dorme. Ci stringe la mano e sparisce. Troviamo soltanto un buco di pub arredato con garbo. Dentro, due ragazzi, qualche vinile in mostra attaccato ai muri. Alcolici, patatine e musica reggae. Restiamo a chiacchierare stancamente verso il nulla. Beviamo una vodka, poi una grappa, un’altra. Sembriamo reduci. L’aria è fresca e triste.Lungo il ritorno andiamo con leggerezza verso il buio. Passa una macchina. Rallenta e ci scruta con occhi appuntiti. Dentro, due tipi dall’aria nervosa ci fissano con occhio rigido. Indicano la kefiah di uno di noi. Stringono con orgoglio il crocifisso che penzola dallo specchietto retrovisore. E’ un rosario di plastica dai grani grossi e pacchiani, di un azzurro neonato che riluccica. Baciano il simulacro e inveiscono. Abbassano il finestrino e urlano di rabbia. Poi, dopo qualche istante, riprendono la strada e tornano da dove sono venuti, scomparendo nel deserto della carreggiata. Guardo il mio compagno perplesso. “Forse è meglio che la togli - gli dico - non si sa mai”.

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LA LEGGENDA DELLA VALLE

Storia d’amore disperata. Sfigurata. In quella crepa verticale tra due rocce singolari. Una sorta di caverna che racchiude il segreto della leggenda. Una vecchia, un amore. Un dolore. Mentre il vento caldo traccia le sue polveri tra le felci e gli ulivi che circondano la valle brulla. Abbandoniamo la Jeep e proseguiamo a piedi, lungo un sentiero costeggiato da massi e alberi. Una landa disegnata come una conca. Rami bruciati. Sterpi, sassi. Il cadavere rinsecchito di una vecchia automobile ridotta a uno scheletro arrugginito. Mi ricorda le ossa degli animali che fanno da monito all’imbocco del deserto. Questo posto è un piccolo Mojave nel cuore dell’agrigentino. Monti Sicani. Una vallata brulla, dove il rumore del vento estivo copre echi di vecchie storie tramandate a voce. E proprio il vento le suona con un fascio di canti sospesi. Nicola mi racconta cosa accadde qualche secolo fa, quando una giovane e bellissima donna venne sfigurata con violenza dal suo uomo, impazzito di gelosia dopo che l’aveva trovata con un altro. I due amanti erano stati sorpresi mentre giacevano insieme. “Iddu impazzì e ammazzò l’amante. Poi tagliò la faccia alla sua donna con un cutieddu”. La ragazza venne sfregiata per sempre a colpi di lama affilata. “E così - continua il racconto - idda per sottrarsi alla vergogna di paese scappò via. E si dice che venne proprio qui, in questo posto. Si nascose tra quei due spuntoni. In mezzo c’era una caverna naturale, al riparo da tutti. E’ una maledizione per un tradimento. Idda era diventata un mostro”.

La leggenda racconta la storia di un viso chino, straziato, celato nella grotta chiusa tra due pietre enormi. A volte la sua ombra compare verso la stretta, tra i blocchi dove solo il vento può entrare, sfiorando il viso della donna senza toccarla. La sommità di quegli spuntoni che nascondono la grotta è una cima precisa che guarda fiera tutto il deserto intorno. “Si chiama pizziddu”, spiega Nicola. Le sue parole ridanno pace a quel fatto di sangue antico. Restiamo fermi a pensare. Guardiamo le rocce dal tetto di una casa diroccata, avvolta da rampicanti ed erbacce. Non c’è niente da sentire. È il regno del vento. Andiamo al buco della vecchia. “Se vogliamo arrivarci, dobbiamo farlo prima di sera”. I nostri passi si fanno distanti. Camminiamo a testa bassa per guardare la terra, tra i ciottoli e i rifiuti. La marcia è un dondolare ubriaco che procede fino al varco. Il buio avvolge la valle.

“Non si vede niente”“Ormai siamo qua, dobbiamo andarci”“Che speri di trovare?”“niente, però mi piace la leggenda”

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“Magari è vera..”“Ogni storia lo è almeno un po.”

Il cammino procede controvento. La corrente spinge forte che non si riesce a fumare. Il sole scende poco per volta. Tempo di luglio alto. Proseguendo, la strada diventa più ripida e impervia, verso i suoi due picchi. In mezzo, come una vagina nera di ombra, la Liacca. “Vuol dire fessura - mi dice Nicola - La Liacca dà vecchia Ntàntara”. Passi e passi, sempre più vicino all’ingresso. Così stretto che forse è difficile anche entrarci. “Qua ci verranno a scopare o a fumare”. “A scopare no - risponde Nicola - di notte fa paura. Ma una volta ci sono venuto a dormire”. Quassù. La grotta davanti. Tanto di quel vento che non riesco a pensare. Neanche i capelli trattengono nulla. Chiudo gli occhi per la polvere che vola. È quasi buio.

“Certo che quell’ombra è strana…”“Fa impressione”

Fuori e dentro, uguale. Sento come due occhi al cuore. “Se hai qualcosa da lasciare giù, da un pizzo di vecchia roccia, apri bene le mani, sulle rotte correnti. Per insegno e cura, tutto quel che ripeti si perde all’infinito, preso dall’eco del vento”. È sera ormai. Tutto scomparso. Vernice scura sulla valle. La caverna vuota accoglie i nostri omaggi. Ci offre i ricordi. La leggenda prende i nostri passi. Prende i pensieri. Restiamo fermi a guardare il tempo. Prima di tornare giù. Leggeri.

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AUTOSTRADA DEL SOLE

Aprii gli occhi, rannicchiato e angusto. Faccia a pochi centimetri dal finestrino. Lo zaino addosso premeva sulla pancia, nello spazio completamente pieno tra me e lo schienale del sedile anteriore. Destra, sinistra, avanti. Eravamo in piena corsa, lanciati sulla corsia di sorpasso. Inutile guardare fuori. La notte la faceva da padrone, cancellando a mani basse ogni approssimazione. Non c’era niente da stringere. Niente da guardare. Solo buio. Le stelle erano fuori portata. Ogni tanto arrivava il bagliore dei veicoli che provenivano dal senso opposto, dall’altra parte dell’autostrada. Per qualche centinaio di metri la bassa vegetazione tra i guardrail lasciava campo libero ai fasci di luce. Non erano stelle cadenti, ma per un desiderio andavano più che bene. Volevo un caffè. Miravo basso e ragionevole.

Volevo pausa, aria, relax. Volevo stiracchiarmi al fresco della notte. Sentirmi vivo fuori dalle lamiere. Non avevo nessuna fretta di arrivare. Anche perché non avevo nessun posto. Nessuna meta. Volevo interrompere il sospirato viaggio arrivato dopo ore di attesa. Distruggere il sonno stanco dei miei compagni. Rimettere in moto il fastidioso suono della voce del guidatore. Dare un taglio a quella linea di movimento immobile. Dopo qualche istante di smania e frenesia, richiusi gli occhi e utilizzai la mia chance nell’unico modo razionale che potevo immaginare in quella situazione ingessata. Proseguire il viaggio e risvegliarmi alla prossima area di servizio, pronto per un pessimo e miracoloso caffè, puntuale all’appuntamento con la timida luce delle sei.Chiusura d’agosto, capolinea. Autostrada del sole. Appunto.

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Progettazione grafica

Claudio Crispo / Giammaria Adinolfi

Parole e percorsi

Alfonso Tramontano Guerritore

Copyright © 2011

Claudio Crispo, Giammaria Adinolfi,Alfonso Tramontano Guerritore

Tutti i diritti riservati

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