Carlo F. Traverso (ePub) - liberliber.it · Claudio Paganelli, [email protected] 3. Liber Liber...

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Storia della letteratura italiana del cav.Abate Girolamo Tiraboschi – Tomo 2. – Parte 2: Dalla morte di Augusto sino alla caduta dell'imperooccidentaleAUTORE: Tiraboschi, GirolamoTRADUTTORE: CURATORE:NOTE: Il testo è presente in formato immagine sulsito The Internet Archive (http://www.archive.org/).Alcuni errori sono stati verificati e corretti sullabase dell'edizione di Milano, Società tipograficade' classici italiani, 1823, presente sul sito OPALdell'Università di Torino(http://www.opal.unito.it/psixsite/default.aspx).

CODICE ISBN E-BOOK: 9788828101307

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

COPERTINA: [elaborazione da] "Battesimo di Costanti-no" Scuola di Raffaello (Giovan Francesco Penni e

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TITOLO: Storia della letteratura italiana del cav.Abate Girolamo Tiraboschi – Tomo 2. – Parte 2: Dalla morte di Augusto sino alla caduta dell'imperooccidentaleAUTORE: Tiraboschi, GirolamoTRADUTTORE: CURATORE:NOTE: Il testo è presente in formato immagine sulsito The Internet Archive (http://www.archive.org/).Alcuni errori sono stati verificati e corretti sullabase dell'edizione di Milano, Società tipograficade' classici italiani, 1823, presente sul sito OPALdell'Università di Torino(http://www.opal.unito.it/psixsite/default.aspx).

CODICE ISBN E-BOOK: 9788828101307

DIRITTI D'AUTORE: no

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Giulio Romano) - 1520-1524 - Musei Vaticani, Cittàdel Vaticano - https://upload.wikimedia.org/wikipe-dia/commons/9/98/Sala_di_costantino,_battesimo_di_costantino_01.jpg - Pubblico dominio.

TRATTO DA: Storia della letteratura italiana delcav. abate Girolamo Tiraboschi ... Tomo 2. [-9.]:Dalla morte di Augusto sino alla caduta dell'imperooccidentale. - Firenze : presso Molini, Landi, eC.o, 1805-1806. - 2 pt. (XII, 244 ; VII, [2], 246-476 p.)

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 27 gennaio 2014

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:LIT004200 CRITICA LETTERARIA / Europea / Italiana

DIGITALIZZAZIONE:Ferdinando Chiodo, [email protected]

REVISIONE:Claudio Paganelli, [email protected] Santamaria

IMPAGINAZIONE:Ferdinando Chiodo, [email protected] (ODT)Carlo F. Traverso (ePub)Ugo Santamaria (revisione ePub)

PUBBLICAZIONE:Claudio Paganelli, [email protected]

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Giulio Romano) - 1520-1524 - Musei Vaticani, Cittàdel Vaticano - https://upload.wikimedia.org/wikipe-dia/commons/9/98/Sala_di_costantino,_battesimo_di_costantino_01.jpg - Pubblico dominio.

TRATTO DA: Storia della letteratura italiana delcav. abate Girolamo Tiraboschi ... Tomo 2. [-9.]:Dalla morte di Augusto sino alla caduta dell'imperooccidentale. - Firenze : presso Molini, Landi, eC.o, 1805-1806. - 2 pt. (XII, 244 ; VII, [2], 246-476 p.)

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 27 gennaio 2014

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Indice, e Sommario del Tomo II. Parte II.......................9Storia della letteratura italiana dalla morte di Augustofino alla caduta dell'Impero Occidentale......................19

Letteratura de' Romani dalla morte di Augusto fino aquella di Adriano......................................................19

Capo IX. Biblioteche........................................19Capo X. Stranieri eruditi in Roma...................29Capo XI. Arti liberali.......................................36

LIBRO II. Letteratura de' Romani dalla morte diAdriano fino ai principj di Costantino.....................60

Capo I. Idea generale dello stato civile e lettera-rio di questi tempi.............................................61Capo II. Poesia.................................................88Capo III. Eloquenza..........................................97Capo IV. Storia...............................................114Capo V. Filosofia............................................131Capo VI. Medicina.........................................145Capo VII. Giurisprudenza..............................149Capo VIII. Gramatici.....................................158Capo IX. Biblioteche......................................166Capo X. Arti liberali.......................................168

LIBRO III. Della Letteratura delle Provincie d'Italia,e de' Cristiani ne' primi tre secoli..........................173

Capo I. Letteratura delle provincie d'Italia....175

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Indice, e Sommario del Tomo II. Parte II.......................9Storia della letteratura italiana dalla morte di Augustofino alla caduta dell'Impero Occidentale......................19

Letteratura de' Romani dalla morte di Augusto fino aquella di Adriano......................................................19

Capo IX. Biblioteche........................................19Capo X. Stranieri eruditi in Roma...................29Capo XI. Arti liberali.......................................36

LIBRO II. Letteratura de' Romani dalla morte diAdriano fino ai principj di Costantino.....................60

Capo I. Idea generale dello stato civile e lettera-rio di questi tempi.............................................61Capo II. Poesia.................................................88Capo III. Eloquenza..........................................97Capo IV. Storia...............................................114Capo V. Filosofia............................................131Capo VI. Medicina.........................................145Capo VII. Giurisprudenza..............................149Capo VIII. Gramatici.....................................158Capo IX. Biblioteche......................................166Capo X. Arti liberali.......................................168

LIBRO III. Della Letteratura delle Provincie d'Italia,e de' Cristiani ne' primi tre secoli..........................173

Capo I. Letteratura delle provincie d'Italia....175

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Capo II. Letteratura de' Cristiani de' primi tresecoli in Italia.................................................198

LIBRO IV. Storia della Letteratura Italiana da' tempidi Costantino il grande fino alla caduta dell'Imperooccidentale..............................................................216

Capo I. Favore dagl'imperadori prestato allaLetteratura, e stato generale di essa in Italia.216Capo II. Studj sacri.........................................251Capo III. Oratori, Retori e Gramatici............268Capo IV. Poesia..............................................296Capo V. Storia.................................................316Capo VI. Filosofia e Matematica...................327Capo VII. Medicina........................................338Capo VIII. Giurisprudenza.............................342Capo IX. Biblioteche......................................348Capo X. Arti liberali.......................................352

Catalogo..................................................................361

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Capo II. Letteratura de' Cristiani de' primi tresecoli in Italia.................................................198

LIBRO IV. Storia della Letteratura Italiana da' tempidi Costantino il grande fino alla caduta dell'Imperooccidentale..............................................................216

Capo I. Favore dagl'imperadori prestato allaLetteratura, e stato generale di essa in Italia.216Capo II. Studj sacri.........................................251Capo III. Oratori, Retori e Gramatici............268Capo IV. Poesia..............................................296Capo V. Storia.................................................316Capo VI. Filosofia e Matematica...................327Capo VII. Medicina........................................338Capo VIII. Giurisprudenza.............................342Capo IX. Biblioteche......................................348Capo X. Arti liberali.......................................352

Catalogo..................................................................361

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STORIA DELLA

LETTERATURA ITALIANADEL CAV. ABATE

GIROLAMO TIRABOSCHI

TOMO II. - PARTE II.DALLA MORTE D'AUGUSTO SINO ALLACADUTA DELL'IMPERO OCCIDENTALE.

www.liberliber.it

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STORIA DELLA

LETTERATURA ITALIANADEL CAV. ABATE

GIROLAMO TIRABOSCHI

TOMO II. - PARTE II.DALLA MORTE D'AUGUSTO SINO ALLACADUTA DELL'IMPERO OCCIDENTALE.

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INDICE, E SOMMARIO DELTOMO II. PARTE II.

CAPO IX.

Biblioteche.I. Biblioteca di Tiberio. II. Incendi di Roma dannosi alle pubbli-che biblioteche. III. Una nuova ne apre Vespasiano. IV. Altre rin-novate da Domiziano. V. Biblioteca ulpia di Traiano. VI. Altrepubbliche biblioteche. VII. Loro bibliotecari. VIII. Bibliotecheprivate. IX. Lusso in esse introdotto.

CAPO X.

Stranieri eruditi in Roma.I. Da ogni nazione concorrono molti dotti a Roma. II. Tra gliEbrei si nominano Filone e Giuseppe. III. Tra i Greci Erennio Fil-lone e Flegonte. IV. Gran numero di filosofi greci. V. Notizie diEliano.

CAPO XI.

Arti liberali.I. Invidia di Tiberio verso gli illustri artisti ad essi dannosa. II.Furon nondimeno a quei tempi alcuni scultori illustri. III. L'impe-ro di Caligola fatale alle arti. IV. Condotta riguardo ad esse tenutada Claudio. V. Nerone le favorisce: esame di un celebre passo diPlinio. VI. Novità introdotte nella pittura. VII. Gli altri imperado-ri sono essi pure favorevoli alle arti. VIII. Pittori più rinomati in

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INDICE, E SOMMARIO DELTOMO II. PARTE II.

CAPO IX.

Biblioteche.I. Biblioteca di Tiberio. II. Incendi di Roma dannosi alle pubbli-che biblioteche. III. Una nuova ne apre Vespasiano. IV. Altre rin-novate da Domiziano. V. Biblioteca ulpia di Traiano. VI. Altrepubbliche biblioteche. VII. Loro bibliotecari. VIII. Bibliotecheprivate. IX. Lusso in esse introdotto.

CAPO X.

Stranieri eruditi in Roma.I. Da ogni nazione concorrono molti dotti a Roma. II. Tra gliEbrei si nominano Filone e Giuseppe. III. Tra i Greci Erennio Fil-lone e Flegonte. IV. Gran numero di filosofi greci. V. Notizie diEliano.

CAPO XI.

Arti liberali.I. Invidia di Tiberio verso gli illustri artisti ad essi dannosa. II.Furon nondimeno a quei tempi alcuni scultori illustri. III. L'impe-ro di Caligola fatale alle arti. IV. Condotta riguardo ad esse tenutada Claudio. V. Nerone le favorisce: esame di un celebre passo diPlinio. VI. Novità introdotte nella pittura. VII. Gli altri imperado-ri sono essi pure favorevoli alle arti. VIII. Pittori più rinomati in

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Roma. IX. L'arte nondimeno decade, e per qual ragione.

LIBRO II.

Letteratura de' Romani dalla morte di Adriano fino ai principj diCostantino.

CAPO I.

Idea generale dello stato civile e letterario di questi tempi. I. Elogio dell'imp. Antonino, e protezione da lui accordata allescienze. II. Elogio di M. Aurelio. III. Quanto ei coltivasse e fo-mentasse gli studj. IV. Ciò non ostante la letteratura sempre più il-languidisce. V. Il regno di Comodo, di Pertinace e di Didio Giu-liano poco favorevole a' dotti. VI. Carattere di Settimio Severo.VII. Di Caracalla, di Macrino e di Eliogabalo. VIII. AlessandroSevero si sforza di far risorger gli studj. IX. Carattere degli altriimperadori da Massimino fino a Gordiano il giovane. X. Da Gor-diano III fino a Valeriano. XI. Impero infelice di Gallieno. XII.Seguito degl'imperadori da Claudio II fino a Probo. XIII. Da M.Aurelio Caro fino a Carino e a Numeriano. XIV. Da Dioclezianofino a Costantino. XV. Condotta di questi ultimi imperadori versole lettere. XVI. Conclusione.

CAPO II.

Poesia.I. Fra molti poeti di quest'epoca pochi son degni di distinta men-zione. II. Notizie di Sereno Samonico. III. Di Olimpio Nemesianoe di Calpurnio. IV. Egloghe al secondo attribuite. V. Altri poeti diquest'età. VI. La poesia teatrale quasi del tutto negletta.

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Roma. IX. L'arte nondimeno decade, e per qual ragione.

LIBRO II.

Letteratura de' Romani dalla morte di Adriano fino ai principj diCostantino.

CAPO I.

Idea generale dello stato civile e letterario di questi tempi. I. Elogio dell'imp. Antonino, e protezione da lui accordata allescienze. II. Elogio di M. Aurelio. III. Quanto ei coltivasse e fo-mentasse gli studj. IV. Ciò non ostante la letteratura sempre più il-languidisce. V. Il regno di Comodo, di Pertinace e di Didio Giu-liano poco favorevole a' dotti. VI. Carattere di Settimio Severo.VII. Di Caracalla, di Macrino e di Eliogabalo. VIII. AlessandroSevero si sforza di far risorger gli studj. IX. Carattere degli altriimperadori da Massimino fino a Gordiano il giovane. X. Da Gor-diano III fino a Valeriano. XI. Impero infelice di Gallieno. XII.Seguito degl'imperadori da Claudio II fino a Probo. XIII. Da M.Aurelio Caro fino a Carino e a Numeriano. XIV. Da Dioclezianofino a Costantino. XV. Condotta di questi ultimi imperadori versole lettere. XVI. Conclusione.

CAPO II.

Poesia.I. Fra molti poeti di quest'epoca pochi son degni di distinta men-zione. II. Notizie di Sereno Samonico. III. Di Olimpio Nemesianoe di Calpurnio. IV. Egloghe al secondo attribuite. V. Altri poeti diquest'età. VI. La poesia teatrale quasi del tutto negletta.

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CAPO III.

Eloquenza.I. L'eloquenza va sempre più decadendo e per qual ragione. II.Elogio di Frontone Cornelio. III. S'ei fosse francese o italiano. IV.Notizie ed elogio di Antonio Giuliano. V. Altri oratori e retori inRoma. VI. Notizie di Giulio Tiziano. VII. Di Aspasio da Raven-na. VIII. Sofisti greci in Roma, e primieramente Attico Erode. IX.Altri Sofisti, e general loro carattere. X. Notizie de' tre Filostrati.XI. A' Sofisti deesi attribuire in gran parte il decadimentodell'eloquenza.

CAPO IV.

Storia.I. Confusione e inesattezza delle storie di questi tempi. II. Storiadi Giustino e notizie di esso. III. Notizie di Censorino. IV. Incer-tezza intorno agli scrittori della Storia Augusta. V. Altre operestoriche perdute. VI. Carattere de' suddetti scrittori della StoriaAugusta. VII. Storici greci in Roma e primieramente Appianoalessandrino e Arriano da Nicomedia. VIII. Notizie di Dione Cas-sio. IX. Carattere della sua Storia. X. Erodiano ed Eliano. XI. Perqual ragione gli storici greci sian migliori dei latini.

CAPO V.

Filosofia.I. Scarso numero di filosofi romani in quest'epoca. II. Solino è ilsolo tra essi di qualche nome. III. Alcuni altri filosofi latini. IV.Filosofi greci in Roma; se vi si spargesse la setta eclettica. V. Esa-me delle cose che si narrano di Plotino. VI. Amelio ed Erennio di

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CAPO III.

Eloquenza.I. L'eloquenza va sempre più decadendo e per qual ragione. II.Elogio di Frontone Cornelio. III. S'ei fosse francese o italiano. IV.Notizie ed elogio di Antonio Giuliano. V. Altri oratori e retori inRoma. VI. Notizie di Giulio Tiziano. VII. Di Aspasio da Raven-na. VIII. Sofisti greci in Roma, e primieramente Attico Erode. IX.Altri Sofisti, e general loro carattere. X. Notizie de' tre Filostrati.XI. A' Sofisti deesi attribuire in gran parte il decadimentodell'eloquenza.

CAPO IV.

Storia.I. Confusione e inesattezza delle storie di questi tempi. II. Storiadi Giustino e notizie di esso. III. Notizie di Censorino. IV. Incer-tezza intorno agli scrittori della Storia Augusta. V. Altre operestoriche perdute. VI. Carattere de' suddetti scrittori della StoriaAugusta. VII. Storici greci in Roma e primieramente Appianoalessandrino e Arriano da Nicomedia. VIII. Notizie di Dione Cas-sio. IX. Carattere della sua Storia. X. Erodiano ed Eliano. XI. Perqual ragione gli storici greci sian migliori dei latini.

CAPO V.

Filosofia.I. Scarso numero di filosofi romani in quest'epoca. II. Solino è ilsolo tra essi di qualche nome. III. Alcuni altri filosofi latini. IV.Filosofi greci in Roma; se vi si spargesse la setta eclettica. V. Esa-me delle cose che si narrano di Plotino. VI. Amelio ed Erennio di

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lui discepoli. VII. Porfirio ed altri filosofi di questi tempi. VIII.Sesto da Cherona, ed altri. IX. Apollonio da Calcide. X. L'astro-logia giudiciaria continua ad aver molti seguaci in Roma. XI.Scrittori d'agricoltura.

CAPO VI.

Medicina.I. Stato della medicina in Roma. II. Venuta di Galeno a Roma enotizie della sua vita. III. Carattere di esso e delle sue opere. IV.Ei non lascia discepoli nè seguaci.

CAPO VII.

Giurisprudenza.I. La giurisprudenza è il solo studio che a questi tempi fiorisce inRoma. II. Giureconsulti ai tempi di Antonino Pio. III. Altri giure-consulti della stessa età. IV. Notizie ed elogio di Papiano. V. DiDomizio Ulpiano. VI. Di Giulio Paolo. VII. Decadimento dellagiurisprudenza dopo la morte di Alessandro Severo.

CAPO VIII.

Gramatici.I. A qual tempo vivesse Aulo Gellio. II. Carattere delle sue Nottiattiche. III. Notizie intorno allo stato della letteratura daquell'opera raccolte. IV. Alcuni gramatici in essa nominati. V. Al-tri nominati nella Storia Augusta. VI. Sterilità di questo argomen-to.

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lui discepoli. VII. Porfirio ed altri filosofi di questi tempi. VIII.Sesto da Cherona, ed altri. IX. Apollonio da Calcide. X. L'astro-logia giudiciaria continua ad aver molti seguaci in Roma. XI.Scrittori d'agricoltura.

CAPO VI.

Medicina.I. Stato della medicina in Roma. II. Venuta di Galeno a Roma enotizie della sua vita. III. Carattere di esso e delle sue opere. IV.Ei non lascia discepoli nè seguaci.

CAPO VII.

Giurisprudenza.I. La giurisprudenza è il solo studio che a questi tempi fiorisce inRoma. II. Giureconsulti ai tempi di Antonino Pio. III. Altri giure-consulti della stessa età. IV. Notizie ed elogio di Papiano. V. DiDomizio Ulpiano. VI. Di Giulio Paolo. VII. Decadimento dellagiurisprudenza dopo la morte di Alessandro Severo.

CAPO VIII.

Gramatici.I. A qual tempo vivesse Aulo Gellio. II. Carattere delle sue Nottiattiche. III. Notizie intorno allo stato della letteratura daquell'opera raccolte. IV. Alcuni gramatici in essa nominati. V. Al-tri nominati nella Storia Augusta. VI. Sterilità di questo argomen-to.

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CAPO IX.

Biblioteche.I. Stato infelice delle biblioteche pubbliche. II. Peggiore ancoraquello delle private.

CAPO X.

Arti liberali.I. Sotto il regno degli Antonini le Arti fioriscono felicemente. II.Ma poscia cominciano a decadere. III. E quindi vengono a unaestrema rovina.

LIBRO III.

Della Letteratura delle provincie d'Italia e de' Cristiani ne' primitre secoli.

CAPO I.

Letteratura delle provincie d'Italia.I. Difficoltà nel ben trattare questo argomento. II. Nella MagnaGrecia, e singolarmente in Napoli si continua a coltivare gli studj.III. Teatri in diverse altre città di quelle provincie. IV. Altri indicjdi coltura nelle medesime. V. Nella Sicilia ancora continuano afiorire gli studj. VI. Teatri in più altre città di Italia. VII. Plinio in-troduce in Como le scuole pubbliche. VIII. E vi apre una pubblicabiblioteca. IX. Se un'altra ei ne aprisse in Milano. X. Se Milanoavesse il soprannome di nuova Atene. XI. Prova del fiore in cuierano ivi le scienze. XII. Scuole pubbliche di altre città d'Italia.

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CAPO IX.

Biblioteche.I. Stato infelice delle biblioteche pubbliche. II. Peggiore ancoraquello delle private.

CAPO X.

Arti liberali.I. Sotto il regno degli Antonini le Arti fioriscono felicemente. II.Ma poscia cominciano a decadere. III. E quindi vengono a unaestrema rovina.

LIBRO III.

Della Letteratura delle provincie d'Italia e de' Cristiani ne' primitre secoli.

CAPO I.

Letteratura delle provincie d'Italia.I. Difficoltà nel ben trattare questo argomento. II. Nella MagnaGrecia, e singolarmente in Napoli si continua a coltivare gli studj.III. Teatri in diverse altre città di quelle provincie. IV. Altri indicjdi coltura nelle medesime. V. Nella Sicilia ancora continuano afiorire gli studj. VI. Teatri in più altre città di Italia. VII. Plinio in-troduce in Como le scuole pubbliche. VIII. E vi apre una pubblicabiblioteca. IX. Se un'altra ei ne aprisse in Milano. X. Se Milanoavesse il soprannome di nuova Atene. XI. Prova del fiore in cuierano ivi le scienze. XII. Scuole pubbliche di altre città d'Italia.

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CAPO II.

Letteratura de' Cristiani de' primi tre secoli in Italia.I. Se a' primi Cristiani fosse permessa la lettura de' libri profani.II. Quali studj e quali letterarj esercizj fosser loro permessi. III.Professori cristiani nelle pubbliche scuole. IV. Essi trattano anco-ra le cause. V. Altri studj da essi coltivati. VI. Uomini dotti tra'Cristiani. VII. Tra essi sono alcuni romani pontefici. VIII. Altriscrittori sacri: perchè sia scarso il loro numero. IX. Di qual patriafosse Lattanzio. X. Notizie della sua vita. XI. Sue opere e loro ca-rattere.

LIBRO IV.

Storia della Letteratura Italiana da' tempi di Costantino il grandefino alla caduta dell'Impero occidentale.

CAPO I.

Favore dagl'imperadori prestato alla Letteratura, e stato genera-le di essa in Italia.

I. Carattere dell'imp. Costantino. II. La fondazion di Costantino-poli reca danno alla letteratura italiana. III. Costantino nondimenoprotegge e fomenta gli studj. IV. Esame di un passo dell'Enciclo-pedia su questo argomento. V. Condotta de' figli e successori diCostantino riguardo alle lettere. VI. Costanzo non è molto lor fa-vorevole. VII. Carattere dell'imp. Giuliano. VIII. Coltiva e pro-muove gli studj. IX. Ma il vieta ai cristiani. X. Premure di Valen-tiniano I in favor degli studj. XI. Altre leggi da lui perciò pubbli-cate. XII. Nondimeno in Roma sono in decadimento le lettere.XIII. Testimonianza sopra ciò di Ammiano Marcellino. XIV. Elo-gio dell'imp. Graziano. XV. Carattere di Teodosio. XVI. Infelice

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CAPO II.

Letteratura de' Cristiani de' primi tre secoli in Italia.I. Se a' primi Cristiani fosse permessa la lettura de' libri profani.II. Quali studj e quali letterarj esercizj fosser loro permessi. III.Professori cristiani nelle pubbliche scuole. IV. Essi trattano anco-ra le cause. V. Altri studj da essi coltivati. VI. Uomini dotti tra'Cristiani. VII. Tra essi sono alcuni romani pontefici. VIII. Altriscrittori sacri: perchè sia scarso il loro numero. IX. Di qual patriafosse Lattanzio. X. Notizie della sua vita. XI. Sue opere e loro ca-rattere.

LIBRO IV.

Storia della Letteratura Italiana da' tempi di Costantino il grandefino alla caduta dell'Impero occidentale.

CAPO I.

Favore dagl'imperadori prestato alla Letteratura, e stato genera-le di essa in Italia.

I. Carattere dell'imp. Costantino. II. La fondazion di Costantino-poli reca danno alla letteratura italiana. III. Costantino nondimenoprotegge e fomenta gli studj. IV. Esame di un passo dell'Enciclo-pedia su questo argomento. V. Condotta de' figli e successori diCostantino riguardo alle lettere. VI. Costanzo non è molto lor fa-vorevole. VII. Carattere dell'imp. Giuliano. VIII. Coltiva e pro-muove gli studj. IX. Ma il vieta ai cristiani. X. Premure di Valen-tiniano I in favor degli studj. XI. Altre leggi da lui perciò pubbli-cate. XII. Nondimeno in Roma sono in decadimento le lettere.XIII. Testimonianza sopra ciò di Ammiano Marcellino. XIV. Elo-gio dell'imp. Graziano. XV. Carattere di Teodosio. XVI. Infelice

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stato dell'impero a' tempi di Onorio. XVII. E sotto ValentinianoIII. XVIII. Leggi favorevoli agli studj da lui e da Teodosio II pub-blicate. XIX. Invasione di Genserico. XX Serie degl'imperadorida Avito fino a Olibrio. XXI Fine dell'impero romano. XXII. Pub-bliche calamità di que' tempi.

CAPO II.

Studj sacri.I. Gli studi sacri cominciano ad essere coltivati con maggior co-raggio. II. Scuole ecclesiastiche introdotte. III. Uomini illustri intali studj, e primieramente s. Eusebio di Vercelli e Lucifero di Ca-gliari. IV. Giulio Firmico Materno. V. S. Zenone vescovo di Vero-na. VI. S. Filastrio e s. Gaudenzio di Brescia. VII. S. Paolino ve-scovo di Nola. VIII. S. Pier Grisologo e s. Massimo. IX. S. Am-brogio. X. S. Damaso papa. XI. S. Leone il grande. XII. Rufino diAquileja. XIII. Altri scrittori ommessi.

CAPO III.

Oratori, Retori e Gramatici. I. Metodo nel trattare di questo argomento. II. Professori d'elo-quenza in Roma; Mario Vittorino. III. Proeresio sofista greco. IV.Se ad essi debba aggiungersi s. Girolamo. V. S. Agostino tienescuola in Roma. VI. E poscia in Milano: altri professori ivi. VII.Minervio, Sedato e Palladio professori in Roma. VIII. Altri pro-fessori di que' tempi. IX. Scrittori di panegirici e di precetti. X. Q.Aurelio Simmaco; suoi maestri. XI. Epoche della sua vita. XII.Carattere della sua eloquenza. XIII. Il padre e il figlio di Simma-co coltivatori essi ancora de' buoni studj. XIV. Gramatici di questitempi. XV. Notizie di Fabio Fulgenzio Planciade. XVI. Di Aure-lio Teodosio Macrobio. XVII. Sue opere e loro stile. XVIII. Noti-

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stato dell'impero a' tempi di Onorio. XVII. E sotto ValentinianoIII. XVIII. Leggi favorevoli agli studj da lui e da Teodosio II pub-blicate. XIX. Invasione di Genserico. XX Serie degl'imperadorida Avito fino a Olibrio. XXI Fine dell'impero romano. XXII. Pub-bliche calamità di que' tempi.

CAPO II.

Studj sacri.I. Gli studi sacri cominciano ad essere coltivati con maggior co-raggio. II. Scuole ecclesiastiche introdotte. III. Uomini illustri intali studj, e primieramente s. Eusebio di Vercelli e Lucifero di Ca-gliari. IV. Giulio Firmico Materno. V. S. Zenone vescovo di Vero-na. VI. S. Filastrio e s. Gaudenzio di Brescia. VII. S. Paolino ve-scovo di Nola. VIII. S. Pier Grisologo e s. Massimo. IX. S. Am-brogio. X. S. Damaso papa. XI. S. Leone il grande. XII. Rufino diAquileja. XIII. Altri scrittori ommessi.

CAPO III.

Oratori, Retori e Gramatici. I. Metodo nel trattare di questo argomento. II. Professori d'elo-quenza in Roma; Mario Vittorino. III. Proeresio sofista greco. IV.Se ad essi debba aggiungersi s. Girolamo. V. S. Agostino tienescuola in Roma. VI. E poscia in Milano: altri professori ivi. VII.Minervio, Sedato e Palladio professori in Roma. VIII. Altri pro-fessori di que' tempi. IX. Scrittori di panegirici e di precetti. X. Q.Aurelio Simmaco; suoi maestri. XI. Epoche della sua vita. XII.Carattere della sua eloquenza. XIII. Il padre e il figlio di Simma-co coltivatori essi ancora de' buoni studj. XIV. Gramatici di questitempi. XV. Notizie di Fabio Fulgenzio Planciade. XVI. Di Aure-lio Teodosio Macrobio. XVII. Sue opere e loro stile. XVIII. Noti-

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zie di Marziano Capella.

CAPO IV.

Poesia.

I. Per qual ragione i poeti di questa età sian più eleganti de' prosa-tori. II. Notizie di Rufo Festo Avieno. III. S'ei fosse di patria spa-gnolo. IV. Notizie del poeta Claudiano. V. Sue opere, e loro stile.VI. S'ei fosse cristiano. VII. Rutilio Numaziano francese, ma vis-suto lungamente in Italia. VIII. Poeti cristiani. IX. Altri poeti cri-stiani. X Faltonia Proba, ed altri scrittor di Centoni. XI. Altrepoesie smarrite. XII. Se fossero allora in uso i componimenti tea-trali.

CAPO V.

Storia

I. Origine della scarsezza e della negligenza degli scrittori di sto-ria. II. Notizie di Sesto Aurelio Vittore. III. Sue opere. IV. Notiziedi Eutropio e di altri scrittori. V. Vita e opere di Ammiano Mar-cellino. VI. Di quanta stima godesse. VII. Flavio Destro. VIII. Al-tri scrittori di storia perduti.

CAPO VI.

Filosofia e Matematica.I. La filosofia quasi del tutto abbandonata in Roma, e perchè. II.Alcuni filosofi nominati da Simmaco. III. Studj filosofici de' San-ti PP. IV. Elogi ad esso fatti; sue opere. V. Vicende dell'astrologia

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zie di Marziano Capella.

CAPO IV.

Poesia.

I. Per qual ragione i poeti di questa età sian più eleganti de' prosa-tori. II. Notizie di Rufo Festo Avieno. III. S'ei fosse di patria spa-gnolo. IV. Notizie del poeta Claudiano. V. Sue opere, e loro stile.VI. S'ei fosse cristiano. VII. Rutilio Numaziano francese, ma vis-suto lungamente in Italia. VIII. Poeti cristiani. IX. Altri poeti cri-stiani. X Faltonia Proba, ed altri scrittor di Centoni. XI. Altrepoesie smarrite. XII. Se fossero allora in uso i componimenti tea-trali.

CAPO V.

Storia

I. Origine della scarsezza e della negligenza degli scrittori di sto-ria. II. Notizie di Sesto Aurelio Vittore. III. Sue opere. IV. Notiziedi Eutropio e di altri scrittori. V. Vita e opere di Ammiano Mar-cellino. VI. Di quanta stima godesse. VII. Flavio Destro. VIII. Al-tri scrittori di storia perduti.

CAPO VI.

Filosofia e Matematica.I. La filosofia quasi del tutto abbandonata in Roma, e perchè. II.Alcuni filosofi nominati da Simmaco. III. Studj filosofici de' San-ti PP. IV. Elogi ad esso fatti; sue opere. V. Vicende dell'astrologia

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giudiciaria. VI. Palladio scrittore d'agricoltura.

CAPO VII.Medicina.

I. Leggi degl'imperadori cristiani in favor della medicina. II. Po-chi nondimeno furono medici illustri. III. Se ne annoverano alcu-ni.

CAPO VIII.

Giurisprudenza.I. Grande concorso de' giureconsulti a Roma, e origine di esso. II.Innovazioni fatte nella giurisprudenza dagl'imperatori cristiani.III. Del Codice gregoriano e dell'ermogeniano. IV. Altri famosigiureconsulti. V. La disordinata moltitudine delle leggi fa decade-re la giurisprudenza. VI. Del Codice teodosiano.

CAPO IX.

Biblioteche.

I. Se Roma avesse a questo tempo molte biblioteche. II. Originedelle biblioteche ecclesiastiche. III. Di quelle della chiesa roma-na. IV. Biblioteche private.

CAPO X.

Arti liberali.I. Non si lasciò in questo tempo di avere in pregio gli antichi mo-numenti. II. Essi nondimeno soffrirono gravi danni, e per qual ra-gione. III. Trasporto di un obelisco dall'Egitto a Roma per ordine

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giudiciaria. VI. Palladio scrittore d'agricoltura.

CAPO VII.Medicina.

I. Leggi degl'imperadori cristiani in favor della medicina. II. Po-chi nondimeno furono medici illustri. III. Se ne annoverano alcu-ni.

CAPO VIII.

Giurisprudenza.I. Grande concorso de' giureconsulti a Roma, e origine di esso. II.Innovazioni fatte nella giurisprudenza dagl'imperatori cristiani.III. Del Codice gregoriano e dell'ermogeniano. IV. Altri famosigiureconsulti. V. La disordinata moltitudine delle leggi fa decade-re la giurisprudenza. VI. Del Codice teodosiano.

CAPO IX.

Biblioteche.

I. Se Roma avesse a questo tempo molte biblioteche. II. Originedelle biblioteche ecclesiastiche. III. Di quelle della chiesa roma-na. IV. Biblioteche private.

CAPO X.

Arti liberali.I. Non si lasciò in questo tempo di avere in pregio gli antichi mo-numenti. II. Essi nondimeno soffrirono gravi danni, e per qual ra-gione. III. Trasporto di un obelisco dall'Egitto a Roma per ordine

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di Costanzo. IV. Il gusto delle arti va sempre più depravando. V.Invasione de' Barbari quanto ad esse dannose. VI. Pitture e mu-saici di questi tempi.

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di Costanzo. IV. Il gusto delle arti va sempre più depravando. V.Invasione de' Barbari quanto ad esse dannose. VI. Pitture e mu-saici di questi tempi.

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STORIA DELLA

LETTERATURA ITALIANADALLA MORTE DI AUGUSTO FINO ALLA CA-

DUTA DELL'IMPERO OCCIDENTALE.

Letteratura de' Romani dalla morte di Augu-sto fino a quella di Adriano

CAPO IX. Biblioteche.

I. Le pubbliche biblioteche aperte in Romaprima da Asinio Pollione e poscia da Augu-sto, delle quali nel precedente volume si è

ragionato, doveano facilmente risvegliare nell'animo de'seguenti imperadori il pensiero d'imitare la loro munifi-cenza. In fatti Tiberio, che pur non fu certamente protet-tor delle lettere, par nondimeno che un'altra pubblica bi-blioteca aprisse in Roma. Gellio ne fa menzione: Cumin domus tiberianae bibliotheca sederemus (l. 13, c. 18)e Vopisco ancora: Libri ex bibliotheca ulpia... item exdomo tiberiana (in Probo c. 2). Noi non troviam vera-mente presso alcun degli storici che ne hanno scritta la

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Bibliotecadi Tiberio.

STORIA DELLA

LETTERATURA ITALIANADALLA MORTE DI AUGUSTO FINO ALLA CA-

DUTA DELL'IMPERO OCCIDENTALE.

Letteratura de' Romani dalla morte di Augu-sto fino a quella di Adriano

CAPO IX. Biblioteche.

I. Le pubbliche biblioteche aperte in Romaprima da Asinio Pollione e poscia da Augu-sto, delle quali nel precedente volume si è

ragionato, doveano facilmente risvegliare nell'animo de'seguenti imperadori il pensiero d'imitare la loro munifi-cenza. In fatti Tiberio, che pur non fu certamente protet-tor delle lettere, par nondimeno che un'altra pubblica bi-blioteca aprisse in Roma. Gellio ne fa menzione: Cumin domus tiberianae bibliotheca sederemus (l. 13, c. 18)e Vopisco ancora: Libri ex bibliotheca ulpia... item exdomo tiberiana (in Probo c. 2). Noi non troviam vera-mente presso alcun degli storici che ne hanno scritta la

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Bibliotecadi Tiberio.

Vita, memoria alcuna di questa biblioteca di Tiberio. Male parole de' due allegati scrittori sembra che avere nonpossano altro senso. Noi troviamo in Tacito, ch'egli in-nalzò un tempio ad Augusto (l. 6 Ann. c. 45); e forse adesso contigua era la biblioteca, come contigue ad altritempj eran quelle di Pollione e di Augusto.

II. Ma troppo funesto alle romane bibliote-che fu l'impero di Nerone. Nell'orribile in-cendio che da Svetonio (in. Ner. c. 38) e daDione (l. 62) e da altri più recenti scrittori sidice espressamente eccitato per voler di Ne-

rone, ma da Tacito si lascia in dubbio, se forse non av-venisse a caso (l. 15, c. 38), in questo incendio, dico, lebiblioteche ancora furono almeno in gran parte predadel fuoco. Tacito annoverando i danni ch'esso produsse,e le cose di grandissimo pregio che ne furono consuma-te, nomina monumenta ingeniorum antiqua et incorrup-ta. La biblioteca palatina singolarmente dovette soffrir-ne, poichè, secondo lo stesso Tacito, l'incendio ebbeprincipio a quella parte del circo, ch'era vicino al collePalatino e al Celio, e dopo essersi sparso pel piano salìancora all'alto, ed ogni cosa distrusse. Egli è facile a im-maginare l'immenso danno che ne seguì a ogni genere diletteratura e di scienza. A que' tempi in cui si rare eranle copie de' libri, e in cui il sapere era quasi tutto rin-chiuso entro le mura di Roma, moltissimi libri dovetteroperdersi interamente. Noi forse a quest'incendio dobbia-

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Incendi diRoma dan-nosi allepubblichebiblioteche.

Vita, memoria alcuna di questa biblioteca di Tiberio. Male parole de' due allegati scrittori sembra che avere nonpossano altro senso. Noi troviamo in Tacito, ch'egli in-nalzò un tempio ad Augusto (l. 6 Ann. c. 45); e forse adesso contigua era la biblioteca, come contigue ad altritempj eran quelle di Pollione e di Augusto.

II. Ma troppo funesto alle romane bibliote-che fu l'impero di Nerone. Nell'orribile in-cendio che da Svetonio (in. Ner. c. 38) e daDione (l. 62) e da altri più recenti scrittori sidice espressamente eccitato per voler di Ne-

rone, ma da Tacito si lascia in dubbio, se forse non av-venisse a caso (l. 15, c. 38), in questo incendio, dico, lebiblioteche ancora furono almeno in gran parte predadel fuoco. Tacito annoverando i danni ch'esso produsse,e le cose di grandissimo pregio che ne furono consuma-te, nomina monumenta ingeniorum antiqua et incorrup-ta. La biblioteca palatina singolarmente dovette soffrir-ne, poichè, secondo lo stesso Tacito, l'incendio ebbeprincipio a quella parte del circo, ch'era vicino al collePalatino e al Celio, e dopo essersi sparso pel piano salìancora all'alto, ed ogni cosa distrusse. Egli è facile a im-maginare l'immenso danno che ne seguì a ogni genere diletteratura e di scienza. A que' tempi in cui si rare eranle copie de' libri, e in cui il sapere era quasi tutto rin-chiuso entro le mura di Roma, moltissimi libri dovetteroperdersi interamente. Noi forse a quest'incendio dobbia-

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Incendi diRoma dan-nosi allepubblichebiblioteche.

mo il non essere annoiati dalle opere de' cattivi scrittori;che essendovene pochissime copie, saranno allora perbuona sorte irreparabilmente perite; ma ad esso dobbia-mo ancora la perdita di tante pregevolissime opere de'migliori autori, ch'essendo, state composte non moltianni prima, e non essendosene perciò ancora moltiplica-te assai e sparse in ogni parte le copie, furon consuntedal fuoco senza speranza di ripararne la perdita. A que-sto un altro incendio si aggiunse alcuni anni dopo, cioèa' tempi di Tito, in cui per tre giorni continui le fiammefecer in Roma orribil rovina (Svet. in Tito c. 8). In essotra gli edificj distrutti dal fuoco, Dione annovera (l. 66)il portico di Ottavia insieme co' 1ibri, cioè la bibliotecache ivi era stata posta da Augusto, e che nell'incendio diNerone era rimasta illesa; e in questo ancora è probabileche molti libri perissero.

III. Di Vespasiano non ci narrano gli antichistorici che pensasse ad aprire nuove biblio-teche. Nondimeno troviam nominata in Gel-lio la Biblioteca del tempio della Pace (l.

16, c. 8; l. 5, c. 21), e di essa fa menzione Galeno ancora(l. 1 de Composit. Medicam. Secund. Cent.). Or questotempio fu opera di Vespasiano che con esso volle eter-nate la memoria del trionfo che riportato avea de' Giudeie della distruzione di Gerusalemme (Svet. in Vesp. c. 9).Egli vi raccolse quanto di più raro potè trovare in ogniparte del mondo, singolarmente molti ornamenti del

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Una nuova ne apre Ve-spasiano.

mo il non essere annoiati dalle opere de' cattivi scrittori;che essendovene pochissime copie, saranno allora perbuona sorte irreparabilmente perite; ma ad esso dobbia-mo ancora la perdita di tante pregevolissime opere de'migliori autori, ch'essendo, state composte non moltianni prima, e non essendosene perciò ancora moltiplica-te assai e sparse in ogni parte le copie, furon consuntedal fuoco senza speranza di ripararne la perdita. A que-sto un altro incendio si aggiunse alcuni anni dopo, cioèa' tempi di Tito, in cui per tre giorni continui le fiammefecer in Roma orribil rovina (Svet. in Tito c. 8). In essotra gli edificj distrutti dal fuoco, Dione annovera (l. 66)il portico di Ottavia insieme co' 1ibri, cioè la bibliotecache ivi era stata posta da Augusto, e che nell'incendio diNerone era rimasta illesa; e in questo ancora è probabileche molti libri perissero.

III. Di Vespasiano non ci narrano gli antichistorici che pensasse ad aprire nuove biblio-teche. Nondimeno troviam nominata in Gel-lio la Biblioteca del tempio della Pace (l.

16, c. 8; l. 5, c. 21), e di essa fa menzione Galeno ancora(l. 1 de Composit. Medicam. Secund. Cent.). Or questotempio fu opera di Vespasiano che con esso volle eter-nate la memoria del trionfo che riportato avea de' Giudeie della distruzione di Gerusalemme (Svet. in Vesp. c. 9).Egli vi raccolse quanto di più raro potè trovare in ogniparte del mondo, singolarmente molti ornamenti del

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Una nuova ne apre Ve-spasiano.

tempio trasportati da Gerusalemme a Roma (Jos. deBello Jud. l. 7); il libro sol della legge e le cortine diporpora del Santuario volle che serbate fossero nel suopalazzo. Egli è dunque probabile che in questa occasio-ne egli a questo tempio aggiugnesse ancora una bibliote-ca. Anzi, se mi è lecito il proporre una mia conghiettura,parmi assai verisimile che molti codici ebraici vi fosseroallor collocati. Troppo avidi erano i Romani di racco-glierne da ogni parte, ed avendo essi trovati nella presadi Gerusalemme non pochi libri in caratteri e in linguaad essi comunemente ignota, egli è facile a pensare cheseco dovettero portarli a Roma, dove in niun altro luogodovean esser meglio riposti, che in quello ove serbavan-si le altre spoglie e gli altri monumenti di tal conquista.

IV. Nondimeno la gloria di aver riparato ildanno che i due suddetti incendj recatoaveano alle romane biblioteche si attribuiscecomunemente a Domiziano. Questi, a cui

per altro dee assai poco la romana letteratura, si diè granpensiero, come narra Svetonio (in Domit. c. 20), di rin-novare le biblioteche dall'incendio distrutte; e non soloraccolse con grande spesa e da ogni parte quanti libripotè trovare, ma spedì uomini dotti fino in Alessandriadove allora fiorivan gli studj, perchè vi facessero copiade' libri che ivi trovassero. E pare che la palatina biblio-teca singolarmente fosse quella al cui ristoramento pen-sò Domiziano; poichè essendo probabile assai ch'essa

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Altre rinno-vate da Do-miziano.

tempio trasportati da Gerusalemme a Roma (Jos. deBello Jud. l. 7); il libro sol della legge e le cortine diporpora del Santuario volle che serbate fossero nel suopalazzo. Egli è dunque probabile che in questa occasio-ne egli a questo tempio aggiugnesse ancora una bibliote-ca. Anzi, se mi è lecito il proporre una mia conghiettura,parmi assai verisimile che molti codici ebraici vi fosseroallor collocati. Troppo avidi erano i Romani di racco-glierne da ogni parte, ed avendo essi trovati nella presadi Gerusalemme non pochi libri in caratteri e in linguaad essi comunemente ignota, egli è facile a pensare cheseco dovettero portarli a Roma, dove in niun altro luogodovean esser meglio riposti, che in quello ove serbavan-si le altre spoglie e gli altri monumenti di tal conquista.

IV. Nondimeno la gloria di aver riparato ildanno che i due suddetti incendj recatoaveano alle romane biblioteche si attribuiscecomunemente a Domiziano. Questi, a cui

per altro dee assai poco la romana letteratura, si diè granpensiero, come narra Svetonio (in Domit. c. 20), di rin-novare le biblioteche dall'incendio distrutte; e non soloraccolse con grande spesa e da ogni parte quanti libripotè trovare, ma spedì uomini dotti fino in Alessandriadove allora fiorivan gli studj, perchè vi facessero copiade' libri che ivi trovassero. E pare che la palatina biblio-teca singolarmente fosse quella al cui ristoramento pen-sò Domiziano; poichè essendo probabile assai ch'essa

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Altre rinno-vate da Do-miziano.

fosse incendiata sotto Nerone, veggiamo ciò non ostanteche se ne fa menzione ancora da posteriori scrittori.Giusto Lipsio crede ancor probabile (Syntagma de Bi-blioth. c. 7), che al medesimo Domiziano si debba attri-buire la biblioteca del Campidoglio, che poscia regnan-do Commodo, fu per incendio distrutta. Ma vedremo trapoco che più verisimilmente deesi credere che ne fossefondatore Adriano.

V. Trajano ancora segnalò in questo la suamagnificenza coll'aprire una nuova bibliote-ca che dal suo nome fu detta ulpia. Pare chedi questa biblioteca si faccia menzione in

una medaglia di Trajano riferita dal co. Mezzabarba(Imper. Roman. Numism. p. 160.); ma l'esserne in partesmarriti i caratteri non lascia accertarne il senso. Piùchiaramente vedesi in un'altra medaglia nominata la ba-silica ulpia (ib.) a cui la biblioteca dovea essere annessa.Di essa fanno pure menzione e Gellio che rammenta glieditti degli antichi pretori che ivi eran raccolti (l. 11, c.17), e Vopisco che nomina ancora i libri di lino, che vi siconservavano. Linteos etiam libros requiras, quos ulpiatibi bibliotheca, quum volueris, ministrabit (in Aurel. c.2); e altrove dice che a suo tempo essa era situata alleTerme di Diocleziano (in Probo c. 2). Che fossero i libridi lino mentovati da Vopisco, non è di quest'opera l'esa-minarlo. Anche Livio (dec. 1, l. 4) e Plinio il vecchio (l.13, c. 11) ne parlano; ma in modo che sembra ch'essi si

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Biblioteca ulpia di Traiano.

fosse incendiata sotto Nerone, veggiamo ciò non ostanteche se ne fa menzione ancora da posteriori scrittori.Giusto Lipsio crede ancor probabile (Syntagma de Bi-blioth. c. 7), che al medesimo Domiziano si debba attri-buire la biblioteca del Campidoglio, che poscia regnan-do Commodo, fu per incendio distrutta. Ma vedremo trapoco che più verisimilmente deesi credere che ne fossefondatore Adriano.

V. Trajano ancora segnalò in questo la suamagnificenza coll'aprire una nuova bibliote-ca che dal suo nome fu detta ulpia. Pare chedi questa biblioteca si faccia menzione in

una medaglia di Trajano riferita dal co. Mezzabarba(Imper. Roman. Numism. p. 160.); ma l'esserne in partesmarriti i caratteri non lascia accertarne il senso. Piùchiaramente vedesi in un'altra medaglia nominata la ba-silica ulpia (ib.) a cui la biblioteca dovea essere annessa.Di essa fanno pure menzione e Gellio che rammenta glieditti degli antichi pretori che ivi eran raccolti (l. 11, c.17), e Vopisco che nomina ancora i libri di lino, che vi siconservavano. Linteos etiam libros requiras, quos ulpiatibi bibliotheca, quum volueris, ministrabit (in Aurel. c.2); e altrove dice che a suo tempo essa era situata alleTerme di Diocleziano (in Probo c. 2). Che fossero i libridi lino mentovati da Vopisco, non è di quest'opera l'esa-minarlo. Anche Livio (dec. 1, l. 4) e Plinio il vecchio (l.13, c. 11) ne parlano; ma in modo che sembra ch'essi si

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Biblioteca ulpia di Traiano.

usasser solo a' tempi più antichi. Certo non era carta fat-ta di lino, come la nostra; ma pare anzi, che fossero pez-zi di lino, su cui si scrivesse. Così ancora il libro elefan-tino della stessa biblioteca, che altrove rammentasi daVopisco (in Tac. c. 8), a me par probabile, come pensa ilSalmasio (in not, ad l. c. Vop.), che altro non sia che unlibro formato di tavolette di avorio. Ma di ciò veggansiil Guillandino nella sua opera intitolata Papyrus, il p.Montfaucon nella sua Palæographia græca, e gli altritrattatori di somigliante argomento.

VI. Abbiam di sopra accennata la bibliotecadel Campidoglio, che da Giusto Lipsio sicrede essere stata opera di Vespasiano; e chefu poscia incendiata a' tempi di Commodo,

come a suo luogo diremo. Il Conringio pensa al contra-rio (De Bibl. augusta) ch'ella non fosse diversa da quelladel tempio della Pace; e l'argomento ch'egli arreca aprovarlo, si è che questo tempio era presso il Foro, cioèalle falde del Campidoglio. Ma in questo egli certamen-te ha preso errore. Il tempio della Pace era presso il Forobensì, non però presso il foro grande ch'era alle falde delCampidoglio, ma presso un altro foro detto Transitorio,come raccogliesi dall'antica descrizione di Roma pubbli-cata dopo altri dal Muratori (Thes. Inscr. t. 4, p. 2126),ove questo foro insieme col tempio della Pace è postonella quarta regione; al contrario il Campidoglio insie-me col foro grande è posto nell'ottava. Più probabile,

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Altre pub-bliche bi-blioteche.

usasser solo a' tempi più antichi. Certo non era carta fat-ta di lino, come la nostra; ma pare anzi, che fossero pez-zi di lino, su cui si scrivesse. Così ancora il libro elefan-tino della stessa biblioteca, che altrove rammentasi daVopisco (in Tac. c. 8), a me par probabile, come pensa ilSalmasio (in not, ad l. c. Vop.), che altro non sia che unlibro formato di tavolette di avorio. Ma di ciò veggansiil Guillandino nella sua opera intitolata Papyrus, il p.Montfaucon nella sua Palæographia græca, e gli altritrattatori di somigliante argomento.

VI. Abbiam di sopra accennata la bibliotecadel Campidoglio, che da Giusto Lipsio sicrede essere stata opera di Vespasiano; e chefu poscia incendiata a' tempi di Commodo,

come a suo luogo diremo. Il Conringio pensa al contra-rio (De Bibl. augusta) ch'ella non fosse diversa da quelladel tempio della Pace; e l'argomento ch'egli arreca aprovarlo, si è che questo tempio era presso il Foro, cioèalle falde del Campidoglio. Ma in questo egli certamen-te ha preso errore. Il tempio della Pace era presso il Forobensì, non però presso il foro grande ch'era alle falde delCampidoglio, ma presso un altro foro detto Transitorio,come raccogliesi dall'antica descrizione di Roma pubbli-cata dopo altri dal Muratori (Thes. Inscr. t. 4, p. 2126),ove questo foro insieme col tempio della Pace è postonella quarta regione; al contrario il Campidoglio insie-me col foro grande è posto nell'ottava. Più probabile,

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Altre pub-bliche bi-blioteche.

sembra la conghiettura del p. Alessandro Donati dellacomp. di Gesù, che nell'erudito suo libro stampato inRoma l'an. 1648, e intitolato Roma vetus et recens, ri-flettendo, come abbiam di sopra narrato, che Adrianofece fabbricare sul Campidoglio le pubbliche scuole,pensa (l. 2 c. 9) che ivi ancora egli aprisse, a vantaggiodi que' che le frequentavano, una pubblica biblioteca. DiAdriano pure pensano alcuni che fosse una biblioteca inTivoli, che si accenna da Gellio (l. 9, c. 14; l. 19, c. 5);ma oltrechè altri leggono diversamente que' passi, nonvi ha alcun fondamento bastevole a provarlo.

VII. Sarebbe a desiderare, che gli storici, iquali di tutte questo biblioteche ci han la-sciati memoria, ci avessero ancor tramanda-

ti i nomi de' valentuomini a' quali ne fu affidata la cura.Ma niuno ne troviam nominato nelle loro storie. A que-sto mancamento però suppliscono almeno in parte le an-tiche iscrizioni nelle quali veggiamo espressi i nomi dialcuni di essi. E singolarmente ai tempi di Claudio alcu-ni liberti si veggono che da lui aveano preso il nome, e aquesto impiego erano da lui destinati. Tali sono: Ti.Claudius Augusti L. Hymenacus Medicus a Bibliothecisin un'iscrizione presso il Muratori (Nov. Thes. Inscr. t. 2,p. 893), e Ti. Claudius Alcibiades Mag. a BibliothecaLatina Apollinis, item Scriba ab Epistolis Lat. presso ilmedesimo (ib. p. 923); e forse il medesimo impiegoavea un altro che ivi pure si dice: Ti. Claudius Lemnius

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Loro bi-bliotecari.

sembra la conghiettura del p. Alessandro Donati dellacomp. di Gesù, che nell'erudito suo libro stampato inRoma l'an. 1648, e intitolato Roma vetus et recens, ri-flettendo, come abbiam di sopra narrato, che Adrianofece fabbricare sul Campidoglio le pubbliche scuole,pensa (l. 2 c. 9) che ivi ancora egli aprisse, a vantaggiodi que' che le frequentavano, una pubblica biblioteca. DiAdriano pure pensano alcuni che fosse una biblioteca inTivoli, che si accenna da Gellio (l. 9, c. 14; l. 19, c. 5);ma oltrechè altri leggono diversamente que' passi, nonvi ha alcun fondamento bastevole a provarlo.

VII. Sarebbe a desiderare, che gli storici, iquali di tutte questo biblioteche ci han la-sciati memoria, ci avessero ancor tramanda-

ti i nomi de' valentuomini a' quali ne fu affidata la cura.Ma niuno ne troviam nominato nelle loro storie. A que-sto mancamento però suppliscono almeno in parte le an-tiche iscrizioni nelle quali veggiamo espressi i nomi dialcuni di essi. E singolarmente ai tempi di Claudio alcu-ni liberti si veggono che da lui aveano preso il nome, e aquesto impiego erano da lui destinati. Tali sono: Ti.Claudius Augusti L. Hymenacus Medicus a Bibliothecisin un'iscrizione presso il Muratori (Nov. Thes. Inscr. t. 2,p. 893), e Ti. Claudius Alcibiades Mag. a BibliothecaLatina Apollinis, item Scriba ab Epistolis Lat. presso ilmedesimo (ib. p. 923); e forse il medesimo impiegoavea un altro che ivi pure si dice: Ti. Claudius Lemnius

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Loro bi-bliotecari.

Div. Claudii Augusti Lib. a Studiis (ib. p. 995); E final-mente: Antiochus Ti. Claudii Caesaris a Bibliotheca La-tina Apollinis (ib. p. 932). Questo Antioco non era liber-to, ma forse un erudito straniero venuto a Roma. Gli al-tri tre eran liberti; e già abbiamo veduto altrove chespesso ad essi affidavansi tali impieghi; il che non deesembrare strano sotto il regno di Claudio, che fu il regnode' liberti. "Di un altro bibliotecario ci ha lasciata me-moria Suida, cioè di Dionigi alessandrino figliuol diGlauco e di professione gramatico, il quale, dic'egli, atempo di Nerone e de' seguenti imperatori fino a Trajanofu soprastante alle biblioteche, e impiegato ancora nelloscriver lettere e rescritti, e nelle legazioni. Aggiugne chefu maestro del gram. Partenio, e scolaro del fìlosofoCheremone di cui era stato successore in Alessandria."In un'altra iscrizione si legge T. F1avius a Biblioth.Graec.Pal. (ib. p. 927). Questi potrebbe essere un liber-to o di Vespasiano, o di Tito, o di Domiziano, che tuttifuron Flavii. Ma come Domiziano fu quegli, come ab-biam detto, che rinnovò le biblioteche dall'incendio di-strutte, e la palatina singolarmente che qui vedesi nomi-nata, è probabile che questa iscrizione appartenga a'tempi di questo imperadore. Finalmente abbiamoun'iscrizione di uno il cui nome è smarrito, ma che dice-si procurator di Adriano in molte provincie dell'Asia, einsieme Proc. Bibliothecar. Graec. et Latin. (ib. t. 1, p.653; t. 2, p. 706).

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Div. Claudii Augusti Lib. a Studiis (ib. p. 995); E final-mente: Antiochus Ti. Claudii Caesaris a Bibliotheca La-tina Apollinis (ib. p. 932). Questo Antioco non era liber-to, ma forse un erudito straniero venuto a Roma. Gli al-tri tre eran liberti; e già abbiamo veduto altrove chespesso ad essi affidavansi tali impieghi; il che non deesembrare strano sotto il regno di Claudio, che fu il regnode' liberti. "Di un altro bibliotecario ci ha lasciata me-moria Suida, cioè di Dionigi alessandrino figliuol diGlauco e di professione gramatico, il quale, dic'egli, atempo di Nerone e de' seguenti imperatori fino a Trajanofu soprastante alle biblioteche, e impiegato ancora nelloscriver lettere e rescritti, e nelle legazioni. Aggiugne chefu maestro del gram. Partenio, e scolaro del fìlosofoCheremone di cui era stato successore in Alessandria."In un'altra iscrizione si legge T. F1avius a Biblioth.Graec.Pal. (ib. p. 927). Questi potrebbe essere un liber-to o di Vespasiano, o di Tito, o di Domiziano, che tuttifuron Flavii. Ma come Domiziano fu quegli, come ab-biam detto, che rinnovò le biblioteche dall'incendio di-strutte, e la palatina singolarmente che qui vedesi nomi-nata, è probabile che questa iscrizione appartenga a'tempi di questo imperadore. Finalmente abbiamoun'iscrizione di uno il cui nome è smarrito, ma che dice-si procurator di Adriano in molte provincie dell'Asia, einsieme Proc. Bibliothecar. Graec. et Latin. (ib. t. 1, p.653; t. 2, p. 706).

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VIII. Colla munificenza degli imperadorinell'aprire pubbliche biblioteche, gareggiò illusso de' privati nel formarle entro le dome-

stiche mura. Io non penso che alcuno desideri ch'io quiannoveri tutti quelli che aveano biblioteche nelle proprielor case. Basti l'accennarne alcuni pochi per saggio. Unapicciola biblioteca di settecento libri avea il poeta Per-sio, cui egli morendo lasciò al suo amicissimo filosofoAnneo Cornuto (Svet. in ejus Vita). Avea pure la suaGiulio Marziale mentovata dal poeta dello stesso nome(l. 7 epigr. 26); la sua il poeta Silio Italico, come narraPlinio il giovane (l. 3, ep. 7) il quale ancor fa menzionedi quella di Erennio Severo (l. 4, ep. 28). Ma celebresingolarmente fu quella del gram. Epafrodito nativo diCherona, che visse in Roma da' tempi di Nerone fino aque' di Nerva; perciocchè egli, benchè schiavo, seguen-do l'esempio di Tirannione di cui si è parlato nel primovolume, raccolse, se dobbiam credere a Suida (in Lex.),una biblioteca di trentamila volumi scelti e rari. Potreb-be parer qui luogo opportuno a ragionar della bibliotecache Plinio il giovane aprì in Como a beneficio de' suoiconcittadini; ma ci riserberemo a parlarne nel terzo li-bro, ove raccoglieremo tutto ciò che appartiene, per cosìdire, alla letteratura provinciale d'Italia.

IX. Era in somma così frequente l'uso delleprivate biblioteche, che appena eravi uomfacoltoso che non avesse la sua; e il lusso,

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Bibliotecheprivate.

Lusso in esse intro-dotto.

VIII. Colla munificenza degli imperadorinell'aprire pubbliche biblioteche, gareggiò illusso de' privati nel formarle entro le dome-

stiche mura. Io non penso che alcuno desideri ch'io quiannoveri tutti quelli che aveano biblioteche nelle proprielor case. Basti l'accennarne alcuni pochi per saggio. Unapicciola biblioteca di settecento libri avea il poeta Per-sio, cui egli morendo lasciò al suo amicissimo filosofoAnneo Cornuto (Svet. in ejus Vita). Avea pure la suaGiulio Marziale mentovata dal poeta dello stesso nome(l. 7 epigr. 26); la sua il poeta Silio Italico, come narraPlinio il giovane (l. 3, ep. 7) il quale ancor fa menzionedi quella di Erennio Severo (l. 4, ep. 28). Ma celebresingolarmente fu quella del gram. Epafrodito nativo diCherona, che visse in Roma da' tempi di Nerone fino aque' di Nerva; perciocchè egli, benchè schiavo, seguen-do l'esempio di Tirannione di cui si è parlato nel primovolume, raccolse, se dobbiam credere a Suida (in Lex.),una biblioteca di trentamila volumi scelti e rari. Potreb-be parer qui luogo opportuno a ragionar della bibliotecache Plinio il giovane aprì in Como a beneficio de' suoiconcittadini; ma ci riserberemo a parlarne nel terzo li-bro, ove raccoglieremo tutto ciò che appartiene, per cosìdire, alla letteratura provinciale d'Italia.

IX. Era in somma così frequente l'uso delleprivate biblioteche, che appena eravi uomfacoltoso che non avesse la sua; e il lusso,

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Bibliotecheprivate.

Lusso in esse intro-dotto.

che di questi tempi era eccessivo in Roma, davasi pale-semente a vedere in esse ancora, e si gareggiava a chipoteva andare più oltre. Quindi il severo Seneca, rifor-mator rigoroso degli altrui vizj più che de' suoi, controdi questo abuso ancora fa un'amara invettiva: "E a chegiovano, dice (De tranq. animi c. 9), gl'innumerabili li-bri e le biblioteche, il cui padrone appena in tutta la suavita ne legge gl'indici? La moltitudine confonde, e nonistruisce chi studia; ed è assai meglio il restringersi a po-chi autori, che scorrerne molti. Quattrocentomila libriarsero in Alessandria, monumento illustre di regia ma-gnificenza. Altri la loderanno, come fa Livio, il qualdice che, fu pregevole opera della eleganza e della solle-citudine de' re d'Egitto. No non fu ella eleganza nè solle-citudine, fu piuttosto un letterario lusso; anzi nemmenletterario. Perciocchè non allo studio, ma alla pompa fuindirizzato; come alla più parte degli uomini che ignora-no anche i primi elementi, i libri non son già ajuto allostudio, ma ornamento delle sale di convito. Abbiansidunque i libri che bastano; ma non se ne faccia spettaco-lo. Egli è pur meglio, dirai, l'impiegare in ciò il denaroche in bronzi, o in quadri. Tutto ciò ch'è soverchio, è an-cora vizioso. Perchè vuoi tu perdonare a un uomo cheadorna gli armarj di avorio e di cedro, che raduna grancopia di autori o sconosciuti, o disprezzati, e che si stasbagliando fra migliaia di libri dei quali sol gli piaccio-no i titoli e i frontespizj? Tu vedrai più oziosi raccoglierquante vi sono Orazioni e Storie e nelle lor case le scan-sie sollevantisi fino al tetto. Perciocchè ormai nel bagno

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che di questi tempi era eccessivo in Roma, davasi pale-semente a vedere in esse ancora, e si gareggiava a chipoteva andare più oltre. Quindi il severo Seneca, rifor-mator rigoroso degli altrui vizj più che de' suoi, controdi questo abuso ancora fa un'amara invettiva: "E a chegiovano, dice (De tranq. animi c. 9), gl'innumerabili li-bri e le biblioteche, il cui padrone appena in tutta la suavita ne legge gl'indici? La moltitudine confonde, e nonistruisce chi studia; ed è assai meglio il restringersi a po-chi autori, che scorrerne molti. Quattrocentomila libriarsero in Alessandria, monumento illustre di regia ma-gnificenza. Altri la loderanno, come fa Livio, il qualdice che, fu pregevole opera della eleganza e della solle-citudine de' re d'Egitto. No non fu ella eleganza nè solle-citudine, fu piuttosto un letterario lusso; anzi nemmenletterario. Perciocchè non allo studio, ma alla pompa fuindirizzato; come alla più parte degli uomini che ignora-no anche i primi elementi, i libri non son già ajuto allostudio, ma ornamento delle sale di convito. Abbiansidunque i libri che bastano; ma non se ne faccia spettaco-lo. Egli è pur meglio, dirai, l'impiegare in ciò il denaroche in bronzi, o in quadri. Tutto ciò ch'è soverchio, è an-cora vizioso. Perchè vuoi tu perdonare a un uomo cheadorna gli armarj di avorio e di cedro, che raduna grancopia di autori o sconosciuti, o disprezzati, e che si stasbagliando fra migliaia di libri dei quali sol gli piaccio-no i titoli e i frontespizj? Tu vedrai più oziosi raccoglierquante vi sono Orazioni e Storie e nelle lor case le scan-sie sollevantisi fino al tetto. Perciocchè ormai nel bagno

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ancora e nelle terme si forma una biblioteca, come orna-mento necessario di una casa. Io il soffrirei, se ciò na-scesse da soverchio amore di studio; ma tutti questi librie le immagini de' loro autori da ogni parte si cercanosolo a pompa e ad ornamento delle pareti". Fin qui Se-neca, il quale, s'è vero che avesse cinquecento treppiedidi cedro coi piè di avorio, come abbiamo udito narrarsida Dione, meglio avrebbe fatto a rivolger contro di semedesimo queste invettive.

CAPO X.Stranieri eruditi in Roma.

I. Quanto più ampiamente stendevansi iconfini dell'impero romano, tanto maggioreera il numero degli stranieri che da ogniparte venivano a Roma; e tra essi non pochiuomini dotti che speravano di procacciarsi

col lor sapere e onori e ricchezze. Per l'addietro gli eru-diti stranieri che vedevansi in Roma, erano per lo piùgreci. Ma a' tempi de' quali scriviamo, si vider uomini dipiù altre nazioni, Spagnuoli, Galli, e Giudei ancora ren-dersi celebri tra' Romani colla loro erudizione. I due Se-neca, Lucano, Marziale, Columella, Pomponio Mela,Porcio Latrone e molti altri ne vennero dalla Spagna;Favorino, Crina, Carmide, Domizio Afro, Giulio Affri-cano ed altri dalle Gallie; molti de' filosofi dei quali ab-

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Da ogni na-zione con-corrono molti dotti a Roma.

ancora e nelle terme si forma una biblioteca, come orna-mento necessario di una casa. Io il soffrirei, se ciò na-scesse da soverchio amore di studio; ma tutti questi librie le immagini de' loro autori da ogni parte si cercanosolo a pompa e ad ornamento delle pareti". Fin qui Se-neca, il quale, s'è vero che avesse cinquecento treppiedidi cedro coi piè di avorio, come abbiamo udito narrarsida Dione, meglio avrebbe fatto a rivolger contro di semedesimo queste invettive.

CAPO X.Stranieri eruditi in Roma.

I. Quanto più ampiamente stendevansi iconfini dell'impero romano, tanto maggioreera il numero degli stranieri che da ogniparte venivano a Roma; e tra essi non pochiuomini dotti che speravano di procacciarsi

col lor sapere e onori e ricchezze. Per l'addietro gli eru-diti stranieri che vedevansi in Roma, erano per lo piùgreci. Ma a' tempi de' quali scriviamo, si vider uomini dipiù altre nazioni, Spagnuoli, Galli, e Giudei ancora ren-dersi celebri tra' Romani colla loro erudizione. I due Se-neca, Lucano, Marziale, Columella, Pomponio Mela,Porcio Latrone e molti altri ne vennero dalla Spagna;Favorino, Crina, Carmide, Domizio Afro, Giulio Affri-cano ed altri dalle Gallie; molti de' filosofi dei quali ab-

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Da ogni na-zione con-corrono molti dotti a Roma.

biam di sopra parlato, erano o greci, o di diverse provin-cie dell'Asia; la guerra coi Giudei e la rovina di Gerusa-lemme trasse a Roma molti ancora di quella nazione.Roma in somma era un troppo luminoso teatro, perchènon vi avessero ad accorrere da ogni parte coloro cheper qualche via potevano lusingarsi di trovarvi favore-vol fortuna; e quindi Roma, come dice il filos. Seneca(De consol. ad Helv. c. 6), era quasi la comun patria delmondo tutto; e vi si vedeva una piacevole mescolanza econfusion di nazioni d'abito, di lingua, di costumi diver-se. Questo si gran concorso di stranieri d'ogni provinciarecò non piccolo danno alla lingua latina: come nellaDissertazione preliminare si è dimostrato; ma giovò in-sieme a tener vivo per alcun tempo il fervor degli studj,che senza ciò sarebbe forse illanguidito più presto e ve-nuto meno. Molti di questi stranieri sono già stati da noiannoverati nel decorso di questo libro. E altro perciò ornon faremo che parlar brevemente d'alcuni altri de' qualifinora non si è ragionato.

II. Tra essi degni singolarmente d'essere no-minati sono due Ebrei che per la erudizionesi rendettero famosi in Roma, ove visseroper alcun tempo, cioè Filone e Giuseppe. Ilprimo, nato di genitori ebrei in Alessandria,

ebbe agio in quella dotta città d'istruirsi nella greca let-teratura, in cui di fatto mostrossi versato, e singolarmen-te nella filosofia di Platone, come dalle molte sue opere,

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Tra gli Ebrei si no-minano Fi-lone e Giu-seppe.

biam di sopra parlato, erano o greci, o di diverse provin-cie dell'Asia; la guerra coi Giudei e la rovina di Gerusa-lemme trasse a Roma molti ancora di quella nazione.Roma in somma era un troppo luminoso teatro, perchènon vi avessero ad accorrere da ogni parte coloro cheper qualche via potevano lusingarsi di trovarvi favore-vol fortuna; e quindi Roma, come dice il filos. Seneca(De consol. ad Helv. c. 6), era quasi la comun patria delmondo tutto; e vi si vedeva una piacevole mescolanza econfusion di nazioni d'abito, di lingua, di costumi diver-se. Questo si gran concorso di stranieri d'ogni provinciarecò non piccolo danno alla lingua latina: come nellaDissertazione preliminare si è dimostrato; ma giovò in-sieme a tener vivo per alcun tempo il fervor degli studj,che senza ciò sarebbe forse illanguidito più presto e ve-nuto meno. Molti di questi stranieri sono già stati da noiannoverati nel decorso di questo libro. E altro perciò ornon faremo che parlar brevemente d'alcuni altri de' qualifinora non si è ragionato.

II. Tra essi degni singolarmente d'essere no-minati sono due Ebrei che per la erudizionesi rendettero famosi in Roma, ove visseroper alcun tempo, cioè Filone e Giuseppe. Ilprimo, nato di genitori ebrei in Alessandria,

ebbe agio in quella dotta città d'istruirsi nella greca let-teratura, in cui di fatto mostrossi versato, e singolarmen-te nella filosofia di Platone, come dalle molte sue opere,

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Tra gli Ebrei si no-minano Fi-lone e Giu-seppe.

che ci sono rimaste tutte scritte in greco, comprovasichiaramente. Venne a Roma ai tempi di Caligola manda-to da suoi a sostenere la comun causa della nazione con-tro i cittadini d'Alessandria, i quali aveano essi puremandata un'ambasciata di cui, come si è detto, era capoApione, per eccitare l'imperadore a sdegno contro de'Giudei. Ma questa spedizion di Filone non ebbe troppofelice successo, come egli stesso confessa nella bellastoria che ne compose. Un'altra volta tornò a Roma Filo-ne, se crediamo ad Eusebio (Hist. eccl. l. 2, c. 18), a'tempi di Claudio, e allora lesse in senato l'apologia de'suoi, ch'egli avea composta, ed essa piacque per tal ma-niera a que' padri, che per loro decreto ella fu riposta inuna pubblica biblioteca. Anzi asseriscono alcuni, comeaffermano lo stesso Eusebio e s. Girolamo (Cat. Script.eccl.), che in tale occasione ei parlasse coll'apostolo s.Pietro; e Fozio vi aggiugne (Bibl. Cod. 105) che abbrac-ciasse la religion cristiana, benchè poscia di nuovo tor-nasse all'ebraismo. Ma ciò, come osservano i medesimiallegati scrittori, non è appoggiato che ad una incertatradizione del volgo. Più lungo tempo soggiornò inRoma Giuseppe. Questi ci ha descritta ei medesimo lasua Vita, da cui raccogliamo che in età di 26 anni venutoa Roma, e introdottosi nell'amicizia di Poppea moglie diNerone, da lui ottenne la libertà ad alcuni suoi concitta-dini. Quindi tornato in Giudea, dopo aver tenuta una as-sai saggia condotta ne' tumulti, onde essa era sconvolta,nella guerra di Vespasiano finalmente astretto a renderper assedio la città di Jotapa, ch'ei difendeva, predisse

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che ci sono rimaste tutte scritte in greco, comprovasichiaramente. Venne a Roma ai tempi di Caligola manda-to da suoi a sostenere la comun causa della nazione con-tro i cittadini d'Alessandria, i quali aveano essi puremandata un'ambasciata di cui, come si è detto, era capoApione, per eccitare l'imperadore a sdegno contro de'Giudei. Ma questa spedizion di Filone non ebbe troppofelice successo, come egli stesso confessa nella bellastoria che ne compose. Un'altra volta tornò a Roma Filo-ne, se crediamo ad Eusebio (Hist. eccl. l. 2, c. 18), a'tempi di Claudio, e allora lesse in senato l'apologia de'suoi, ch'egli avea composta, ed essa piacque per tal ma-niera a que' padri, che per loro decreto ella fu riposta inuna pubblica biblioteca. Anzi asseriscono alcuni, comeaffermano lo stesso Eusebio e s. Girolamo (Cat. Script.eccl.), che in tale occasione ei parlasse coll'apostolo s.Pietro; e Fozio vi aggiugne (Bibl. Cod. 105) che abbrac-ciasse la religion cristiana, benchè poscia di nuovo tor-nasse all'ebraismo. Ma ciò, come osservano i medesimiallegati scrittori, non è appoggiato che ad una incertatradizione del volgo. Più lungo tempo soggiornò inRoma Giuseppe. Questi ci ha descritta ei medesimo lasua Vita, da cui raccogliamo che in età di 26 anni venutoa Roma, e introdottosi nell'amicizia di Poppea moglie diNerone, da lui ottenne la libertà ad alcuni suoi concitta-dini. Quindi tornato in Giudea, dopo aver tenuta una as-sai saggia condotta ne' tumulti, onde essa era sconvolta,nella guerra di Vespasiano finalmente astretto a renderper assedio la città di Jotapa, ch'ei difendeva, predisse

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l'impero a Vespasiano ed a Tito. Da essi perciò tenutoprigione, finchè videro avverata la predizione, e rimessoposcia in libertà, trovossi con Tito all'assedio di Gerusa-lemme, di cui descrisse la Storia. Venuto finalmente aRoma vi fece stabil dimora fino alla sua morte, che parenon avvenisse se non il decimoterzo anno di Domiziano,caro sempre agl'imperadori, e a Vespasiano singolar-mente da cui ebbe il diritto della cittadinanza romana,alcune terre della Giudea, e il suo proprio nome, ondepoi egli fu detto Flavio Giuseppe. Anzi narra Suida (inLex.) ch'egli ebbe ancora l'onore di una statua innalzata-gli in Roma. Io passo leggermente su questi due benchèillustri scrittori, perchè essi non appartengono se non in-direttamente al mio argomento. Di essi parlano più am-piamente, oltre tutti gli autori di storie e di bibliotecheecclesiastiche, il Tillemont (Hist. De Emper. t. 2; Ruinedes Juifs, art. 23, 79 ec.) il Fabricio (Bibl. Gr. t. 3, p.105), il Bruckero (Hist. crit. Phil. t. 2, p. 708, 797) emolti altri autori da essi allegati.

III. Due altri scrittori stranieri celebri singo-larmente per opere a storia appartenenti vis-sero a questi tempi, Fidone Biblio detto an-cora Erennio Filone, e Flegonte nativo diTralle e liberto di Adriano. Del primo non

sappiamo la patria, ma di lui ci narra Suida (in Lex.) chefu circa a' tempi di Nerone, e che visse assai lungamen-te. Lo stesso Suida annovera i molti libri da lui compo-

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Tra i Greci Erennio Fillone e Flegonte.

l'impero a Vespasiano ed a Tito. Da essi perciò tenutoprigione, finchè videro avverata la predizione, e rimessoposcia in libertà, trovossi con Tito all'assedio di Gerusa-lemme, di cui descrisse la Storia. Venuto finalmente aRoma vi fece stabil dimora fino alla sua morte, che parenon avvenisse se non il decimoterzo anno di Domiziano,caro sempre agl'imperadori, e a Vespasiano singolar-mente da cui ebbe il diritto della cittadinanza romana,alcune terre della Giudea, e il suo proprio nome, ondepoi egli fu detto Flavio Giuseppe. Anzi narra Suida (inLex.) ch'egli ebbe ancora l'onore di una statua innalzata-gli in Roma. Io passo leggermente su questi due benchèillustri scrittori, perchè essi non appartengono se non in-direttamente al mio argomento. Di essi parlano più am-piamente, oltre tutti gli autori di storie e di bibliotecheecclesiastiche, il Tillemont (Hist. De Emper. t. 2; Ruinedes Juifs, art. 23, 79 ec.) il Fabricio (Bibl. Gr. t. 3, p.105), il Bruckero (Hist. crit. Phil. t. 2, p. 708, 797) emolti altri autori da essi allegati.

III. Due altri scrittori stranieri celebri singo-larmente per opere a storia appartenenti vis-sero a questi tempi, Fidone Biblio detto an-cora Erennio Filone, e Flegonte nativo diTralle e liberto di Adriano. Del primo non

sappiamo la patria, ma di lui ci narra Suida (in Lex.) chefu circa a' tempi di Nerone, e che visse assai lungamen-te. Lo stesso Suida annovera i molti libri da lui compo-

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Tra i Greci Erennio Fillone e Flegonte.

sti, uno della storia di Adriano, dodici sulla scelta de' li-bri, altri sugli uomini illustri che in ciascheduna cittàerano nati. Ma forse maggior vantaggio recò egli allescienze col traslatare dalla lingua fenicia nella grecal'antichissima storia di Sanconiatone (Porph. l. 4 inChrist.); e a lui perciò noi dobbiamo in parte i frammen-ti che ce ne sono rimasti, conservatici da Eusebio. Veg-gansi il Vossio (De Histor. gr. l. 2, c. 10) e il Fabricio(Bibl. gr. t. 3, p. 120), che altre opere ancora rammenta-no da lui composte. Molte ancora ne scrisse Flegonte, eun'opera cronologica singolarmente divisa per olimpia-di, in cui di ogni cosa avvenuta segnava esattamente iltempo. Adriano avendo scritta la sua propria Vita, lapubblicò sotto il nome di Flegonte (Spart. in Hadr.), ilche ci fa conoscere ch'egli avea fama di colto ed elegan-te scrittore. A lui ancora dobbiamo il testimonio ch'eglici ha lasciato della ecclissi avvenuta nella morte di Cri-sto (V. Voss. de Histor. gr. l. 2, c. 11; Fabr. Bibl. gr. t. 3,p. 397; Tillem. Hist. des Emper. t. 2, Adrien, art. 18)."Molti altri gramatici e retori greci ancora furono diquesti tempi in Roma, tra i quali Suida rammenta Zeno-bio a' tempi di Adriano, di cui oltre alcune altre opere,ricorda una traduzione che fece in greco delle Storie diSallustio; Eraclide Pontico rivale di Apro a' tempi diClaudio e di Nerone, e autore di molti poemi epici e dialtre opere; Potamone da Mitilene prof. di eloquenza a'tempi di Tiberio, di cui narra lo stesso Suida che volen-do Potamone tornare in Grecia, Tiberio accompagnollocon una lettera nella quale minacciava guerra a chiun-

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sti, uno della storia di Adriano, dodici sulla scelta de' li-bri, altri sugli uomini illustri che in ciascheduna cittàerano nati. Ma forse maggior vantaggio recò egli allescienze col traslatare dalla lingua fenicia nella grecal'antichissima storia di Sanconiatone (Porph. l. 4 inChrist.); e a lui perciò noi dobbiamo in parte i frammen-ti che ce ne sono rimasti, conservatici da Eusebio. Veg-gansi il Vossio (De Histor. gr. l. 2, c. 10) e il Fabricio(Bibl. gr. t. 3, p. 120), che altre opere ancora rammenta-no da lui composte. Molte ancora ne scrisse Flegonte, eun'opera cronologica singolarmente divisa per olimpia-di, in cui di ogni cosa avvenuta segnava esattamente iltempo. Adriano avendo scritta la sua propria Vita, lapubblicò sotto il nome di Flegonte (Spart. in Hadr.), ilche ci fa conoscere ch'egli avea fama di colto ed elegan-te scrittore. A lui ancora dobbiamo il testimonio ch'eglici ha lasciato della ecclissi avvenuta nella morte di Cri-sto (V. Voss. de Histor. gr. l. 2, c. 11; Fabr. Bibl. gr. t. 3,p. 397; Tillem. Hist. des Emper. t. 2, Adrien, art. 18)."Molti altri gramatici e retori greci ancora furono diquesti tempi in Roma, tra i quali Suida rammenta Zeno-bio a' tempi di Adriano, di cui oltre alcune altre opere,ricorda una traduzione che fece in greco delle Storie diSallustio; Eraclide Pontico rivale di Apro a' tempi diClaudio e di Nerone, e autore di molti poemi epici e dialtre opere; Potamone da Mitilene prof. di eloquenza a'tempi di Tiberio, di cui narra lo stesso Suida che volen-do Potamone tornare in Grecia, Tiberio accompagnollocon una lettera nella quale minacciava guerra a chiun-

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que lo oltraggiasse; Apollonio alessandrino, detto ancheAnterio, gramatico in Roma a' tempi di Claudio, ed al-tri".

IV. Ma de' filosofi stranieri principalmenteebbevi in Roma grandissimo numero. I Gre-ci che vi avevano introdotti dapprima i filo-sofici studj, pare che volessero conservare

gelosamente il diritto di mantenerveli. La storia della fi-losofia di questi tempi da noi esposta poco anzi n'è chia-ra prova; poichè abbiamo veduto che assai maggiore fuil numero de' filosofi stranieri, che non de' romani. E noinondimeno non ne abbiamo nominati che i più illustri.Assai più se ne petrebbono aggiugnere, come Anassilaodi Larissa (Bruck. t. 2, p. 86), Alessandro Egeo (ib. p.474), Cheremone egiziano (ib. p. 543), Eufrato alessan-drino (ib. p. 565), e moltissimi altri, che vissero almenoalcun tempo in Roma, e che da Seneca, da Plutarco, da'due Plinii, e da altri scrittori di questi tempi si annovera-no. Ma basti il detto fin qui a conoscere quanto grandefosse la copia degli stranieri filosofi che venivano daogni parte del mondo o a coltivare, o a render celebre illoro ingegno in Roma.

V. Agli eruditi stranieri fin qui nominati, ag-giugniamone ancora un solo, cioè Elianoautore di un'operetta greca che ci è rimasta,

34

Gran nume-ro di filoso-fi greci.

Notizie di Eliano.

que lo oltraggiasse; Apollonio alessandrino, detto ancheAnterio, gramatico in Roma a' tempi di Claudio, ed al-tri".

IV. Ma de' filosofi stranieri principalmenteebbevi in Roma grandissimo numero. I Gre-ci che vi avevano introdotti dapprima i filo-sofici studj, pare che volessero conservare

gelosamente il diritto di mantenerveli. La storia della fi-losofia di questi tempi da noi esposta poco anzi n'è chia-ra prova; poichè abbiamo veduto che assai maggiore fuil numero de' filosofi stranieri, che non de' romani. E noinondimeno non ne abbiamo nominati che i più illustri.Assai più se ne petrebbono aggiugnere, come Anassilaodi Larissa (Bruck. t. 2, p. 86), Alessandro Egeo (ib. p.474), Cheremone egiziano (ib. p. 543), Eufrato alessan-drino (ib. p. 565), e moltissimi altri, che vissero almenoalcun tempo in Roma, e che da Seneca, da Plutarco, da'due Plinii, e da altri scrittori di questi tempi si annovera-no. Ma basti il detto fin qui a conoscere quanto grandefosse la copia degli stranieri filosofi che venivano daogni parte del mondo o a coltivare, o a render celebre illoro ingegno in Roma.

V. Agli eruditi stranieri fin qui nominati, ag-giugniamone ancora un solo, cioè Elianoautore di un'operetta greca che ci è rimasta,

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Gran nume-ro di filoso-fi greci.

Notizie di Eliano.

De instruendis aciebus. Si è comunemente creduto perlungo tempo che fosse un solo l'autore di quest'opera, edi due altre che pur vanno sotto il medesimo nome, inti-tolata l'una della Natura degli animali, l'altra Storia va-ria. Ma Jacopo Perizon con argomenti a mio parere for-tissimi ha dimostrato (V. praef. ad Aeliani, Hist. var. ex.edit. Gron.) doversi distinguere due Eliani, uno scrittordi arte militare, l'altro dell'altre due opere sopraccenna-te, greco il primo, romano il secondo, benchè pur scri-vesse in greco; quegli vivuto ai tempi di Adriano, questiassai più tardi. Del secondo noi ragioneremo nell'epocasusseguente. Qui basti l'accennare che lo scrittoredell'operetta sull'ordinare le schiere fu certamente greco,come ricavasi manifestamente dalla sua prefazione me-desima; e che visse almeno per alcun tempo in Italia aquesta età appunto di cui trattiamo; perciocchè nellastessa prefazione egli indirizza e consacra la sua operaad Adriano, e dice di aver veduto in Formie Traiano dilui padre adottivo, o creduto almen tale; e di avere, in-noltre parlato con Frontino, che chiama uomo illustre traconsolari, e per la scienza dell'arte militare salito a granfama. Intorno a questo Eliano e ad altre opere da luicomposte veggasi l'erudito Catalogo de' Codici grecidella biblioteca Laurenziana del ch. can. Bandini (t. 2).

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De instruendis aciebus. Si è comunemente creduto perlungo tempo che fosse un solo l'autore di quest'opera, edi due altre che pur vanno sotto il medesimo nome, inti-tolata l'una della Natura degli animali, l'altra Storia va-ria. Ma Jacopo Perizon con argomenti a mio parere for-tissimi ha dimostrato (V. praef. ad Aeliani, Hist. var. ex.edit. Gron.) doversi distinguere due Eliani, uno scrittordi arte militare, l'altro dell'altre due opere sopraccenna-te, greco il primo, romano il secondo, benchè pur scri-vesse in greco; quegli vivuto ai tempi di Adriano, questiassai più tardi. Del secondo noi ragioneremo nell'epocasusseguente. Qui basti l'accennare che lo scrittoredell'operetta sull'ordinare le schiere fu certamente greco,come ricavasi manifestamente dalla sua prefazione me-desima; e che visse almeno per alcun tempo in Italia aquesta età appunto di cui trattiamo; perciocchè nellastessa prefazione egli indirizza e consacra la sua operaad Adriano, e dice di aver veduto in Formie Traiano dilui padre adottivo, o creduto almen tale; e di avere, in-noltre parlato con Frontino, che chiama uomo illustre traconsolari, e per la scienza dell'arte militare salito a granfama. Intorno a questo Eliano e ad altre opere da luicomposte veggasi l'erudito Catalogo de' Codici grecidella biblioteca Laurenziana del ch. can. Bandini (t. 2).

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CAPO XI. Arti liberali.

I. Quel medesimo umor capriccioso e cru-dele, che molti degl'imperadori de' tempi dicui parliamo, condusse a non avere in alcunpregio le scienze e gli uomini dotti, fu ca-gione ancora che il loro impero fosse comu-nemente funesto alle arti liberali e a coloro

che le professavano (1). Al principio di questo libro ab-biamo accennato ciò che narra Dione essere avvenuto adun famoso architetto, di cui egli dice (l. 57), "non ci ègiunto a notizia il nome, perchè l'invidioso Tiberio ordi-nò che non se ne facesse memoria alcuna ne' libri. Unode' più ampj portici di Roma erasi incurvato e ripiegatosu un fianco, quando un architetto accintosi alla difficileimpresa di raddrizzarlo, tanto adoperossi con legare estringere da ogni parte le colonne, e con macchine ed ar-gani a tal fine opportuni, che vennegli finalmente fattodi sollevarlo e rimetterlo interamente all'antico equili-

1 Il sig. Landi nelle note aggiunte al Compendio francese della mia Storiaafferma che in questo Capo ei si è veramente allontanato dal mio senti-mento, e che i fatti ch'io reco a provare il decadimento dell'arti, provanoanzi ch'esse fiorivano felicemente, e che ciò provasi anche meglio da altrifatti da lui aggiunti (t. 1, p. 353). Questi sono assai pochi, per quanto a mene paresse io lascio che i lettori decidano se dalle cose da me o anche dalui narrate si cavi altra conseguenza da quella ch'io pure ho stabilita; cioèche alcuni degli imperadori di questa età furon poco amici delle arti; chealtri le protessero; che da alcuni di essi furono innalzati magnifici edificj;che vi ebbero ancora pittori, scultori, architetti illustri; ma che ciò nonostante vedesi generalmente parlando un grande decadimento nelle arti.

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Invidia di Tiberio ver-so gli illu-stri artisti ad essi dan-nosa.

CAPO XI. Arti liberali.

I. Quel medesimo umor capriccioso e cru-dele, che molti degl'imperadori de' tempi dicui parliamo, condusse a non avere in alcunpregio le scienze e gli uomini dotti, fu ca-gione ancora che il loro impero fosse comu-nemente funesto alle arti liberali e a coloro

che le professavano (1). Al principio di questo libro ab-biamo accennato ciò che narra Dione essere avvenuto adun famoso architetto, di cui egli dice (l. 57), "non ci ègiunto a notizia il nome, perchè l'invidioso Tiberio ordi-nò che non se ne facesse memoria alcuna ne' libri. Unode' più ampj portici di Roma erasi incurvato e ripiegatosu un fianco, quando un architetto accintosi alla difficileimpresa di raddrizzarlo, tanto adoperossi con legare estringere da ogni parte le colonne, e con macchine ed ar-gani a tal fine opportuni, che vennegli finalmente fattodi sollevarlo e rimetterlo interamente all'antico equili-

1 Il sig. Landi nelle note aggiunte al Compendio francese della mia Storiaafferma che in questo Capo ei si è veramente allontanato dal mio senti-mento, e che i fatti ch'io reco a provare il decadimento dell'arti, provanoanzi ch'esse fiorivano felicemente, e che ciò provasi anche meglio da altrifatti da lui aggiunti (t. 1, p. 353). Questi sono assai pochi, per quanto a mene paresse io lascio che i lettori decidano se dalle cose da me o anche dalui narrate si cavi altra conseguenza da quella ch'io pure ho stabilita; cioèche alcuni degli imperadori di questa età furon poco amici delle arti; chealtri le protessero; che da alcuni di essi furono innalzati magnifici edificj;che vi ebbero ancora pittori, scultori, architetti illustri; ma che ciò nonostante vedesi generalmente parlando un grande decadimento nelle arti.

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Invidia di Tiberio ver-so gli illu-stri artisti ad essi dan-nosa.

brio. Speravane egli ricompensa uguale all'ingegnoso efelice suo ritrovamento. Ma Tiberio che non potè ameno di non istupirne, ma a un tempo medesimo n'ebbeinvidia, diegli insieme non so quanto denaro, e insiemeil cacciò in esilio. L'infelice architetto ardì di nuovo difarsi innanzi a Tiberio, e diè saggio di un'altra sua bellascoperta; percicchè gittato a terra ed infranto un vaso divetro, che avea tra le mani, poscia il riprese, e ne ricom-pose i pezzi per modo che fu intero come dianzi. Matroppo gli andaron fallite le sue speranze; poichè Tiberioacceso d'invidia maggiore dannollo a morte." Così narrail fatto Dione; ed è il solo tra gli antichi storici, che lonarri in ciò che appartiene al portico raddrizzato. Questosilenzio medesimo degli altri scrittori su un fatto per al-tro così prodigioso non potrebbe egli muovere qualchedifficoltà intorno ad esso? È egli veramente possibile ilraddrizzare con argani un portico inclinato? Io ne lasciola decisione a' valorosi meccanici. Ma la seconda partedel fatto trovasi rammentata da altri antichi in tal manie-ra però, che anch'essa ci si rende sospetta assai. PetronioArbitro racconta (Satyr. c. 51) che un fabbro avendo la-vorata una tazza di vetro che non rompevasi, venuto in-nanzi a Cesare (ei non esprime il nome dell'imperadore),e a lui mostratala, gittolla in terra, e quindi presala inmano, fece osservare ch'era ammaccata appunto comese fosse stata di bronzo; e preso un picciol martello la ri-tondò di bel nuovo; e che egli fu fatto uccider da Cesare,perchè altrimenti, disse, l'oro sarebbe divenuto vile alpar del fango. Plinio il vecchio ancora ci narra (l. 36, c.

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brio. Speravane egli ricompensa uguale all'ingegnoso efelice suo ritrovamento. Ma Tiberio che non potè ameno di non istupirne, ma a un tempo medesimo n'ebbeinvidia, diegli insieme non so quanto denaro, e insiemeil cacciò in esilio. L'infelice architetto ardì di nuovo difarsi innanzi a Tiberio, e diè saggio di un'altra sua bellascoperta; percicchè gittato a terra ed infranto un vaso divetro, che avea tra le mani, poscia il riprese, e ne ricom-pose i pezzi per modo che fu intero come dianzi. Matroppo gli andaron fallite le sue speranze; poichè Tiberioacceso d'invidia maggiore dannollo a morte." Così narrail fatto Dione; ed è il solo tra gli antichi storici, che lonarri in ciò che appartiene al portico raddrizzato. Questosilenzio medesimo degli altri scrittori su un fatto per al-tro così prodigioso non potrebbe egli muovere qualchedifficoltà intorno ad esso? È egli veramente possibile ilraddrizzare con argani un portico inclinato? Io ne lasciola decisione a' valorosi meccanici. Ma la seconda partedel fatto trovasi rammentata da altri antichi in tal manie-ra però, che anch'essa ci si rende sospetta assai. PetronioArbitro racconta (Satyr. c. 51) che un fabbro avendo la-vorata una tazza di vetro che non rompevasi, venuto in-nanzi a Cesare (ei non esprime il nome dell'imperadore),e a lui mostratala, gittolla in terra, e quindi presala inmano, fece osservare ch'era ammaccata appunto comese fosse stata di bronzo; e preso un picciol martello la ri-tondò di bel nuovo; e che egli fu fatto uccider da Cesare,perchè altrimenti, disse, l'oro sarebbe divenuto vile alpar del fango. Plinio il vecchio ancora ci narra (l. 36, c.

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26) che a' tempi di Tiberio trovossi l'arte di render fles-sibile il vetro; e che perciò la bottega dell'artefice inven-tore fu interamente rovinata, perchè non si scemasse ditroppo il prezzo degli altri metalli. Egli aggiugne però,che di tal fatto corse bensì voce fra molti ma non abba-stanza sicura. Abbiam dunque tre antichi autori, uno de'quali afferma che i pezzi di vetro furon tra lor riuniti,l'altro che il vetro fu renduto duro e resistente, il terzoch'esso fu renduto flessibile. Ma i fisici negano comune-mente che alcuna di tali cose sia possibile; e io pensoche miglior consiglio sia attenersi a Plinio che non ciracconta tal cosa se non come una popolar voce che al-lora corse.

II. Il consenso però degli antichi scrittorinel rappresentarci Tiberio vilmente invidio-so della gloria de' più illustri artefici, ci faconoscere quanto poco favorevole alle artifosse il suo impero (2). Oltrechè egli principe

avaro non era punto curante di una regia munificenza(Svet. in Tib. c. 47); e perciò i professori delle arti nonpotevano sperare nè esercizio nè ricompensa del lor va-lore. Havvi nondimeno qualche monumento di questitempi, che ci fa conoscere ch'eranvi ancora in Romascultori illustri, e il Winckelmann rammenta (Hist. de2 Intorno allo stato delle arti sotto l'impero di Tiberio e de' successori di esso

fino alle invasioni dei Barbari, si possono vedere notizie ancor più copiosenella nuova romana edizione della stessa storia del Winckelmann (t. 2. p.337. ec. 349, ec. 357, ec.)

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Furon non-dimeno a quei tempi alcuni scul-tori illustri.

26) che a' tempi di Tiberio trovossi l'arte di render fles-sibile il vetro; e che perciò la bottega dell'artefice inven-tore fu interamente rovinata, perchè non si scemasse ditroppo il prezzo degli altri metalli. Egli aggiugne però,che di tal fatto corse bensì voce fra molti ma non abba-stanza sicura. Abbiam dunque tre antichi autori, uno de'quali afferma che i pezzi di vetro furon tra lor riuniti,l'altro che il vetro fu renduto duro e resistente, il terzoch'esso fu renduto flessibile. Ma i fisici negano comune-mente che alcuna di tali cose sia possibile; e io pensoche miglior consiglio sia attenersi a Plinio che non ciracconta tal cosa se non come una popolar voce che al-lora corse.

II. Il consenso però degli antichi scrittorinel rappresentarci Tiberio vilmente invidio-so della gloria de' più illustri artefici, ci faconoscere quanto poco favorevole alle artifosse il suo impero (2). Oltrechè egli principe

avaro non era punto curante di una regia munificenza(Svet. in Tib. c. 47); e perciò i professori delle arti nonpotevano sperare nè esercizio nè ricompensa del lor va-lore. Havvi nondimeno qualche monumento di questitempi, che ci fa conoscere ch'eranvi ancora in Romascultori illustri, e il Winckelmann rammenta (Hist. de2 Intorno allo stato delle arti sotto l'impero di Tiberio e de' successori di esso

fino alle invasioni dei Barbari, si possono vedere notizie ancor più copiosenella nuova romana edizione della stessa storia del Winckelmann (t. 2. p.337. ec. 349, ec. 357, ec.)

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Furon non-dimeno a quei tempi alcuni scul-tori illustri.

l'Art t. 2, p. 280) una statua di Germanico fatta da Cleo-mene ateniese, ch'era prima in Roma, e poscia fu tra-sportata a Versailles, la quale egli dice che può essereconsiderata come un bel monumento dell'arte di questotempo; innoltre la testa dello stesso Germanico, che ser-basi nel Campidoglio, e ch'è, dic'egli, una delle più belleteste imperiali. E innoltre, se Tiberio mal volentieri sof-friva gli artefici valorosi, godeva nondimeno di averestatue e pitture fatte per mano di antichi pittori e sculto-ri, che più non potevano essergli oggetto d'invidia e digelosia. Così avendo egli veduti una bellissima statua dibronzo fatta per man di Lisippo, e posta alle terme diAgrippa, trasportolla nel suo gabinetto, e un'altra ve neripose. Ma il popolo che ancor serbava qualche partedell'antica sua libertà, avendo ad alta voce gridato nelpubblico teatro che vi rimettesse la statua, Tiberio, ben-chè suo malgrado, ve la fè riportare (Plin. l. 34, c. 8). Eun quadro parimente assai pregiato di Antidoto, che Au-gusto avea da Alessandria portato a Roma, egli solenne-mente ripose nel tempio che allo stesso Augusto fece in-nalzare (ib. 35, c. II).

III. Ma Caligola successor di Tiberio fu an-cor più funesto alle belle arti; che non sola-mente egli non le sostenne, nè le avvivò col-la sua protezione, ma di molti bei monu-menti ch'erano in Roma, fece un orribile

guasto. Perciocchè volle che fossero atterrate tutte le

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L'impero diCaligola fa-tale alle arti.

l'Art t. 2, p. 280) una statua di Germanico fatta da Cleo-mene ateniese, ch'era prima in Roma, e poscia fu tra-sportata a Versailles, la quale egli dice che può essereconsiderata come un bel monumento dell'arte di questotempo; innoltre la testa dello stesso Germanico, che ser-basi nel Campidoglio, e ch'è, dic'egli, una delle più belleteste imperiali. E innoltre, se Tiberio mal volentieri sof-friva gli artefici valorosi, godeva nondimeno di averestatue e pitture fatte per mano di antichi pittori e sculto-ri, che più non potevano essergli oggetto d'invidia e digelosia. Così avendo egli veduti una bellissima statua dibronzo fatta per man di Lisippo, e posta alle terme diAgrippa, trasportolla nel suo gabinetto, e un'altra ve neripose. Ma il popolo che ancor serbava qualche partedell'antica sua libertà, avendo ad alta voce gridato nelpubblico teatro che vi rimettesse la statua, Tiberio, ben-chè suo malgrado, ve la fè riportare (Plin. l. 34, c. 8). Eun quadro parimente assai pregiato di Antidoto, che Au-gusto avea da Alessandria portato a Roma, egli solenne-mente ripose nel tempio che allo stesso Augusto fece in-nalzare (ib. 35, c. II).

III. Ma Caligola successor di Tiberio fu an-cor più funesto alle belle arti; che non sola-mente egli non le sostenne, nè le avvivò col-la sua protezione, ma di molti bei monu-menti ch'erano in Roma, fece un orribile

guasto. Perciocchè volle che fossero atterrate tutte le

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L'impero diCaligola fa-tale alle arti.

statue de' grandi uomini, che Augusto avea fatte innal-zare nel campo di Marte (Svet. in Cal. c. 34), e innoltrefatte trasportar dalla Grecia quante potè trovare statuedegli iddii, opere de' più famosi artefici, fece a tuttetroncare il capo perchè il suo vi fosse sostituito (ib. c.22). Tra quelle a sì pazzo uso da lui destinate era la sta-tua di Giove Olimpio, lavoro del divino Fidia; ma gli ar-chitetti col persuadere a Memmio Regolo, il quale avea-ne avuto il comando, che non era possibile il trasportarlasalva ed intera a Roma, ottennero finalmente ch'ella nonfosse rimossa. La sola opera che troviam di Caligola in-trapresa, si è l'erezion di un obelisco nel Circo, di cuiparla Plinio (l. 36, c. 10), ma in modo che sembra chel'opera fosse bensì da Caligola cominciata, ma finita solda Nerone.

IV. Il Winckelmann annovera ancor Claudiotra gl'imperadori nimici delle belle arti(Hist. de l'Art t. 2, p. 281). È certo l'ordineda lui dato di cancellare da due famosi qua-dri di Apelle, che vedevansi in Roma, la te-

sta di Alessandro, per sostituirvi quella di Augusto(Plin. l. 35, c. 18), fa chiaramente conoscere quanto in-felice estimatore egli fosse di tai lavori. Noi veggiamnondimeno che molte pregevoli statue fece ei trasporta-re a Roma, come alcune di un cotal porfido rosseggian-te, cui Vitrasio Pollione suo procuratore gli mandòdall'Egitto (id. l. 36, c. 7). Così pure si rammenta da Pli-

40

Condotta riguardo adesse tenuta da Claudio.

statue de' grandi uomini, che Augusto avea fatte innal-zare nel campo di Marte (Svet. in Cal. c. 34), e innoltrefatte trasportar dalla Grecia quante potè trovare statuedegli iddii, opere de' più famosi artefici, fece a tuttetroncare il capo perchè il suo vi fosse sostituito (ib. c.22). Tra quelle a sì pazzo uso da lui destinate era la sta-tua di Giove Olimpio, lavoro del divino Fidia; ma gli ar-chitetti col persuadere a Memmio Regolo, il quale avea-ne avuto il comando, che non era possibile il trasportarlasalva ed intera a Roma, ottennero finalmente ch'ella nonfosse rimossa. La sola opera che troviam di Caligola in-trapresa, si è l'erezion di un obelisco nel Circo, di cuiparla Plinio (l. 36, c. 10), ma in modo che sembra chel'opera fosse bensì da Caligola cominciata, ma finita solda Nerone.

IV. Il Winckelmann annovera ancor Claudiotra gl'imperadori nimici delle belle arti(Hist. de l'Art t. 2, p. 281). È certo l'ordineda lui dato di cancellare da due famosi qua-dri di Apelle, che vedevansi in Roma, la te-

sta di Alessandro, per sostituirvi quella di Augusto(Plin. l. 35, c. 18), fa chiaramente conoscere quanto in-felice estimatore egli fosse di tai lavori. Noi veggiamnondimeno che molte pregevoli statue fece ei trasporta-re a Roma, come alcune di un cotal porfido rosseggian-te, cui Vitrasio Pollione suo procuratore gli mandòdall'Egitto (id. l. 36, c. 7). Così pure si rammenta da Pli-

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Condotta riguardo adesse tenuta da Claudio.

nio il colosso di Giove, ch'egli fece innalzare nel campodi Marte (l. 34, c. 7). Ma singolarmente a tenere in fiorele belle arti non poco dovettero contribuire le magnifi-che opere da lui intraprese, e condotte con più felicesuccesso che non dovesse da lui aspettarsi; come il por-to di Ostia, l'asciugamento del lago Fucino, e acquedot-ti, e canali, ed altre opere di regia magnificenza (Svet. inCl. c. 20; Plin. l. 36, c. 15; Dio l. 60), che senza valorosiarchitetti non potevansi certamente eseguire.

V. Roma fu debitrice a Nerone di molte pre-gevolissime statue ch'egli fè trasportare dal-la Grecia per ornare il suo celebre palazzod'oro, ma con tal violenza, che si rendette atutti esecrabile. Cinquecento statue di bron-

zo dal solo tempio di Apolline in Delfo furono traspor-tate a Roma (Paus. l. 10). Fra queste pensa il Winckel-mann che fossero probabilmente le due celebri statueche ancor si veggono, di Apolline a Belvedere, e delGladiatore nella villa Borghesi, delle quali, e della pri-ma singolarmente, egli parla con tale entusiasmo chesembra rapito fuor di se stesso nel contemplarla (3). Nèsolo volle Nerone ornare di straniere statue Roma; maancora un tal monumento innalzare alla sua gloria, chene rendesse a' posteri eterno il nome. Era a que' tempi

3 Del palazzo d'oro di Nerone, di cui furono architetti Celere e Severo, veg-gasi la descrizione che seguendo gli antichi scrittori ci ha data il sig. Franc.Milizia (Mem. degli Architetti t. 1, p. 59 ed. bass.).

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Nerone le favorisce: esame di uncelebre pas-so di Plinio.

nio il colosso di Giove, ch'egli fece innalzare nel campodi Marte (l. 34, c. 7). Ma singolarmente a tenere in fiorele belle arti non poco dovettero contribuire le magnifi-che opere da lui intraprese, e condotte con più felicesuccesso che non dovesse da lui aspettarsi; come il por-to di Ostia, l'asciugamento del lago Fucino, e acquedot-ti, e canali, ed altre opere di regia magnificenza (Svet. inCl. c. 20; Plin. l. 36, c. 15; Dio l. 60), che senza valorosiarchitetti non potevansi certamente eseguire.

V. Roma fu debitrice a Nerone di molte pre-gevolissime statue ch'egli fè trasportare dal-la Grecia per ornare il suo celebre palazzod'oro, ma con tal violenza, che si rendette atutti esecrabile. Cinquecento statue di bron-

zo dal solo tempio di Apolline in Delfo furono traspor-tate a Roma (Paus. l. 10). Fra queste pensa il Winckel-mann che fossero probabilmente le due celebri statueche ancor si veggono, di Apolline a Belvedere, e delGladiatore nella villa Borghesi, delle quali, e della pri-ma singolarmente, egli parla con tale entusiasmo chesembra rapito fuor di se stesso nel contemplarla (3). Nèsolo volle Nerone ornare di straniere statue Roma; maancora un tal monumento innalzare alla sua gloria, chene rendesse a' posteri eterno il nome. Era a que' tempi

3 Del palazzo d'oro di Nerone, di cui furono architetti Celere e Severo, veg-gasi la descrizione che seguendo gli antichi scrittori ci ha data il sig. Franc.Milizia (Mem. degli Architetti t. 1, p. 59 ed. bass.).

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Nerone le favorisce: esame di uncelebre pas-so di Plinio.

nelle Gallie Zenodoro scultore insigne, di cui narra Pli-nio (l. 34, c. 7.) che nella città di Auvergne avea con unlavoro di dieci anni fatta una statua, di Mercurio di sìgran pregio, che fu venduta per quaranta milioni di se-sterzj che corrispondono circa un milione di scudi roma-ni. Or questi chiamato a Roma ebbe ordine da Nerone difare un colosso alto centodieci piedi, o, come dice Sve-tonio (in Ner. c. 31), centoventi; e il fece poi collocareinnanzi al suo palazzo d'oro. Fu dunque Zenodoro egre-gio scultore di questi tempi, e io non so se altri allora vifosse che in quest'arte avesse ottenuta fama. Anzi il ve-dere che fecesi perciò dalle Gallie venir Zenodoro, mo-stra che Nerone non credeva che fosse in Roma altroscultore a cui una tal opera si potesse affidare. Ma degnesono d'osservazione le parole che, dopo aver parlato diquesto colosso, soggiugne Plinio. Ea statua indi cavitinteriisse fundendi æris scientiam, cum et Nero largiriaurum argentumque paratus esset, et Zenodorus scien-tia fingendi cælandique nulli veterum postponeretur. Edopo aver narrato di due tazze di bronzo da lui formatein modo che nulla si distinguevano da due antiche fatteper mano di Calamide scultore illustre, conchiude:quantoque major in Zenodoro præstiantia fuit, tantomagis deprehendi æris obliteratio potest. Che mai haegli preteso Plinio di dirci con tali parole? Io confessosinceramente che non l'intendo. È evidente ch'egli affer-ma che allor si vide esser perita l'arte di fondere il bron-zo. Ma come ciò? Non era ella di bronzo la statua di Ne-rone? Alcuni citati dal Winckelmann (Hist. de l'Art. t. 2,

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nelle Gallie Zenodoro scultore insigne, di cui narra Pli-nio (l. 34, c. 7.) che nella città di Auvergne avea con unlavoro di dieci anni fatta una statua, di Mercurio di sìgran pregio, che fu venduta per quaranta milioni di se-sterzj che corrispondono circa un milione di scudi roma-ni. Or questi chiamato a Roma ebbe ordine da Nerone difare un colosso alto centodieci piedi, o, come dice Sve-tonio (in Ner. c. 31), centoventi; e il fece poi collocareinnanzi al suo palazzo d'oro. Fu dunque Zenodoro egre-gio scultore di questi tempi, e io non so se altri allora vifosse che in quest'arte avesse ottenuta fama. Anzi il ve-dere che fecesi perciò dalle Gallie venir Zenodoro, mo-stra che Nerone non credeva che fosse in Roma altroscultore a cui una tal opera si potesse affidare. Ma degnesono d'osservazione le parole che, dopo aver parlato diquesto colosso, soggiugne Plinio. Ea statua indi cavitinteriisse fundendi æris scientiam, cum et Nero largiriaurum argentumque paratus esset, et Zenodorus scien-tia fingendi cælandique nulli veterum postponeretur. Edopo aver narrato di due tazze di bronzo da lui formatein modo che nulla si distinguevano da due antiche fatteper mano di Calamide scultore illustre, conchiude:quantoque major in Zenodoro præstiantia fuit, tantomagis deprehendi æris obliteratio potest. Che mai haegli preteso Plinio di dirci con tali parole? Io confessosinceramente che non l'intendo. È evidente ch'egli affer-ma che allor si vide esser perita l'arte di fondere il bron-zo. Ma come ciò? Non era ella di bronzo la statua di Ne-rone? Alcuni citati dal Winckelmann (Hist. de l'Art. t. 2,

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p. 291) ne han dubitato, e han creduto ch'essa fosse dimarmo. Ma il contesto di Plinio contradice a ciò troppoapertamente. In questo luogo ei non parla che di lavorodi bronzo; de' marmi ragiona altrove. Or se era di bron-zo, non si dovette egli fondere il metallo per fare sìgrande statua? Come dunque era perita l'arte del fonde-re? Il Winckelmann spiega queste parole (l. c.), come sePlinio volesse dire che Zenodoro con tutta la sua abilitànon vi potè riuscire. Ma in che non riuscì egli? Nel fon-dere il bronzo? Ma egli ne avea fuso altre volte, perchèoltre altri lavori avea fatta la mentovata statua di Mercu-rio. Nel fonderlo a dovere e secondo le giuste leggi? Mase egli era si felicemente riuscito nella statua di Mercu-rio, ne sapea dunque l'arte; e ancorchè il colosso gli fos-se mal riuscito, non poteva Plinio a ragione inferirne cheperita fosse l'arte di fondere il bronzo. Potrebbe dirsi peravventura che Plinio volesse solo indicare ch'era peritain Roma l'arte del fondere, e che perciò convenne chia-mar dalle Gallie Zenodoro. Ma anche questo senso nonpuò ammettersi. Plinio dice espressamente che l'arte delfondere il bronzo era perita, essendo pur Zenodoro si ec-cellente scultore: interiisse fundendi æris scientiam,cum... Zenodorus scientia fingendi cælandique nulli ve-terum postponeretur. Io non trovo, tra gl'interpreti di Pli-nio, chi faccia riflessione alcuna su questa difficoltà. Lasola spiegazione che a queste parole si possa dire conqualche probabilità, si è quella che il valoroso sig. CarloBianconi bolognese nella storia al pari che nella scienzadelle belle arti versatissimo, mi ha in una sua lettera

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p. 291) ne han dubitato, e han creduto ch'essa fosse dimarmo. Ma il contesto di Plinio contradice a ciò troppoapertamente. In questo luogo ei non parla che di lavorodi bronzo; de' marmi ragiona altrove. Or se era di bron-zo, non si dovette egli fondere il metallo per fare sìgrande statua? Come dunque era perita l'arte del fonde-re? Il Winckelmann spiega queste parole (l. c.), come sePlinio volesse dire che Zenodoro con tutta la sua abilitànon vi potè riuscire. Ma in che non riuscì egli? Nel fon-dere il bronzo? Ma egli ne avea fuso altre volte, perchèoltre altri lavori avea fatta la mentovata statua di Mercu-rio. Nel fonderlo a dovere e secondo le giuste leggi? Mase egli era si felicemente riuscito nella statua di Mercu-rio, ne sapea dunque l'arte; e ancorchè il colosso gli fos-se mal riuscito, non poteva Plinio a ragione inferirne cheperita fosse l'arte di fondere il bronzo. Potrebbe dirsi peravventura che Plinio volesse solo indicare ch'era peritain Roma l'arte del fondere, e che perciò convenne chia-mar dalle Gallie Zenodoro. Ma anche questo senso nonpuò ammettersi. Plinio dice espressamente che l'arte delfondere il bronzo era perita, essendo pur Zenodoro si ec-cellente scultore: interiisse fundendi æris scientiam,cum... Zenodorus scientia fingendi cælandique nulli ve-terum postponeretur. Io non trovo, tra gl'interpreti di Pli-nio, chi faccia riflessione alcuna su questa difficoltà. Lasola spiegazione che a queste parole si possa dire conqualche probabilità, si è quella che il valoroso sig. CarloBianconi bolognese nella storia al pari che nella scienzadelle belle arti versatissimo, mi ha in una sua lettera

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suggerito cioè che Plinio voglia dire che la grandezza diquesto colosso, la difficoltà dell'opera, e in conseguenzal'eccellenza di Zenodoro, è stata l'ultimo termine di per-fezione, a cui giugnesse l'arte di fondere il metallo; poi-chè essendovi qui congiunte due cose troppo difficili aritrovarsi, cioè un imperadore pronto a qualunque spesa,e un artefice di una somma eccellenza, n'era quindi riu-scita la più grande opera che fosse mai; e perciò era adaspettarsi che quest'arte giunta al sommo, ricadessequindi, come suole avvenire, e tornasse al nulla. In so-migliante maniera dice il Vasari che l'eccellenza a cui learti erano al suo tempo arrivate, era indicio della vicinalor decadenza. Se egli avesse detto in vece che il valoredi Michelangiolo e di Rafaello mostravano che l'arte pe-riva, avrebbe parlato più oscuramente, ma avrebbe dettoappunto ciò che sembra intendere Plinio colle allegateparole. Che se ad altri sembra che altra spiegazione sipossa più felicemente dare alle recate parole io ben vo-lentieri l'abbraccerò, e godrò in veder finalmente illu-strato questo si oscuro passo di Plinio (4).4 Io mi compiaccio che questo passo della mia Storia ha eccitati alcuni inge-

gni italiani ad esaminare più attentamente che non si fosse fatto questopasso di Plinio sulla decadenza dell'arte di fondere. Il primo a comunicar-mi su ciò l'ingegnose sue riflessioni fu il p. Eust. Mich. d'Afflitto dell'Ord.de' Predicatori, ora custode della Real Bibl. di Napoli, il quale con una sualettera scritta da Napoli agli 8 d'ag. del 1775 mi fece riflettere che lo scol-pire in bronzo, e il fondere il bronzo, sono due cose distinte, e che Plinioloda sempre Zenodoro per la scultura, e rileva sempre la perdita dell'artedel fondere il bronzo, aggiugnendo che il bronzo nasce perfetto dalla piùperfetta composizion de' metalli, sicchè non basti l'usare i metalli preziosi,ma convenga saperli unire, e comporre con quella proporzion che forma ilbronzo perfetto, e che perciò Plinio osserva che Nerone era pronto a dar

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suggerito cioè che Plinio voglia dire che la grandezza diquesto colosso, la difficoltà dell'opera, e in conseguenzal'eccellenza di Zenodoro, è stata l'ultimo termine di per-fezione, a cui giugnesse l'arte di fondere il metallo; poi-chè essendovi qui congiunte due cose troppo difficili aritrovarsi, cioè un imperadore pronto a qualunque spesa,e un artefice di una somma eccellenza, n'era quindi riu-scita la più grande opera che fosse mai; e perciò era adaspettarsi che quest'arte giunta al sommo, ricadessequindi, come suole avvenire, e tornasse al nulla. In so-migliante maniera dice il Vasari che l'eccellenza a cui learti erano al suo tempo arrivate, era indicio della vicinalor decadenza. Se egli avesse detto in vece che il valoredi Michelangiolo e di Rafaello mostravano che l'arte pe-riva, avrebbe parlato più oscuramente, ma avrebbe dettoappunto ciò che sembra intendere Plinio colle allegateparole. Che se ad altri sembra che altra spiegazione sipossa più felicemente dare alle recate parole io ben vo-lentieri l'abbraccerò, e godrò in veder finalmente illu-strato questo si oscuro passo di Plinio (4).4 Io mi compiaccio che questo passo della mia Storia ha eccitati alcuni inge-

gni italiani ad esaminare più attentamente che non si fosse fatto questopasso di Plinio sulla decadenza dell'arte di fondere. Il primo a comunicar-mi su ciò l'ingegnose sue riflessioni fu il p. Eust. Mich. d'Afflitto dell'Ord.de' Predicatori, ora custode della Real Bibl. di Napoli, il quale con una sualettera scritta da Napoli agli 8 d'ag. del 1775 mi fece riflettere che lo scol-pire in bronzo, e il fondere il bronzo, sono due cose distinte, e che Plinioloda sempre Zenodoro per la scultura, e rileva sempre la perdita dell'artedel fondere il bronzo, aggiugnendo che il bronzo nasce perfetto dalla piùperfetta composizion de' metalli, sicchè non basti l'usare i metalli preziosi,ma convenga saperli unire, e comporre con quella proporzion che forma ilbronzo perfetto, e che perciò Plinio osserva che Nerone era pronto a dar

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VI. Or tornando a Nerone, se egli era avidoricercatore de' lavori dell'arte, non eranesempre buon giudice; e ben diello a vedere,quando ordinò che fosse dorata una statua diAlessandro fatta per man di Lisippo (Plin. l.

34, c. 8.); benchè poscia conoscendo egli pure che l'oro

argento ed oro, quanto fosse bisogno, per farci conoscere che se il bronzonon riuscì perfetto, ciò non fu per mancanza di que' metalli, onde esser do-vea composto, ma perchè l'artefice non fu abbastanza sperto nel far quellacomposizione, e che Plinio perciò ebbe ragion di affermare interiisse fun-dendi æris scientiam. Dopo ciò il sig. ab. Gian-Girolamo Carli seg. dellareale Accad. di Mantova in due sue lettere de' 6 e de' 23 di genn. del 1777mi diede avviso che in una dissertazione da lui recitata in Mantova nelgiug. del 1775, e prima ancora, benchè più in compendio, detta in Sienanella primavera del 1774, ne avea recata a un dipresso la medesima spie-gazione. Più a lungo si stese nel rischiarar questo punto, e nel comprovarmaggiormente la medesima spiegazione il sig. ab. Tomm. Puccini in unasua lettera scrittami da Roma a' 25 di lug. del 1778, ch'io stimo di far cosagrata a' lettori col riportare qui stesamente. "Voi lo avete detto nel DiscorsoPreliminare della dottissima Storia tanto decorosa alla letteratura italiana,che anzi che sdegnarvi contro chi vi additasse le inesattezze e gli sbaglicorsi nella vostra opera, gliene sapreste buon grado. Profitto della libertàche avete fatta comune a tutti, e vi prego a riassumer meco per un momen-to ciò che nel l. 1, t. 2 p. 231, 232 avete scritto su quel passo di Plinio,Hist. nat. l. 34, c. 7, allusivo al colosso di bronzo, che Nerone fè innalzarealle sue glorie, mediante l'opera e l'industria di Zenodoro chiamato a que-sto effetto dalle Gallie in Roma, come il più abile artista che fiorisse a queltempo. Ecco le precise parole onde la quistione ha origine: Ea statua indi-cavit periisse fundendi æris scientiam, cum et Nero largiri aurum argen-tumque paratus esset, et Zenodorus scientia fingendi, cælandique nulli ve-terum posponeretur; e più sotto: Quantoque major in Zenodoro præstantiafuit, eo magis deprehendi æris obliteratio potest. Che mai, dite voi, ha vo-luto, intender Plinio con queste parole? Come poteva asserire esser perital'arte di fondere il bronzo, quando Zenodoro in fare statue di questo metal-lo era tanto eccellente da non esser posposto agli antichi di maggior fama?Quindi rigettate saviamente le stravaganti opinioni di molti insigni lettera-ti, la sola spiegazione probabile trovate esser quella che in una sua lettera

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Novità in-trodottenella pittu-ra.

VI. Or tornando a Nerone, se egli era avidoricercatore de' lavori dell'arte, non eranesempre buon giudice; e ben diello a vedere,quando ordinò che fosse dorata una statua diAlessandro fatta per man di Lisippo (Plin. l.

34, c. 8.); benchè poscia conoscendo egli pure che l'oro

argento ed oro, quanto fosse bisogno, per farci conoscere che se il bronzonon riuscì perfetto, ciò non fu per mancanza di que' metalli, onde esser do-vea composto, ma perchè l'artefice non fu abbastanza sperto nel far quellacomposizione, e che Plinio perciò ebbe ragion di affermare interiisse fun-dendi æris scientiam. Dopo ciò il sig. ab. Gian-Girolamo Carli seg. dellareale Accad. di Mantova in due sue lettere de' 6 e de' 23 di genn. del 1777mi diede avviso che in una dissertazione da lui recitata in Mantova nelgiug. del 1775, e prima ancora, benchè più in compendio, detta in Sienanella primavera del 1774, ne avea recata a un dipresso la medesima spie-gazione. Più a lungo si stese nel rischiarar questo punto, e nel comprovarmaggiormente la medesima spiegazione il sig. ab. Tomm. Puccini in unasua lettera scrittami da Roma a' 25 di lug. del 1778, ch'io stimo di far cosagrata a' lettori col riportare qui stesamente. "Voi lo avete detto nel DiscorsoPreliminare della dottissima Storia tanto decorosa alla letteratura italiana,che anzi che sdegnarvi contro chi vi additasse le inesattezze e gli sbaglicorsi nella vostra opera, gliene sapreste buon grado. Profitto della libertàche avete fatta comune a tutti, e vi prego a riassumer meco per un momen-to ciò che nel l. 1, t. 2 p. 231, 232 avete scritto su quel passo di Plinio,Hist. nat. l. 34, c. 7, allusivo al colosso di bronzo, che Nerone fè innalzarealle sue glorie, mediante l'opera e l'industria di Zenodoro chiamato a que-sto effetto dalle Gallie in Roma, come il più abile artista che fiorisse a queltempo. Ecco le precise parole onde la quistione ha origine: Ea statua indi-cavit periisse fundendi æris scientiam, cum et Nero largiri aurum argen-tumque paratus esset, et Zenodorus scientia fingendi, cælandique nulli ve-terum posponeretur; e più sotto: Quantoque major in Zenodoro præstantiafuit, eo magis deprehendi æris obliteratio potest. Che mai, dite voi, ha vo-luto, intender Plinio con queste parole? Come poteva asserire esser perital'arte di fondere il bronzo, quando Zenodoro in fare statue di questo metal-lo era tanto eccellente da non esser posposto agli antichi di maggior fama?Quindi rigettate saviamente le stravaganti opinioni di molti insigni lettera-ti, la sola spiegazione probabile trovate esser quella che in una sua lettera

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Novità in-trodottenella pittu-ra.

rendevala più preziosa sì, ma men bella, gliel fè toglierd'intorno. Anche di pitture si compiaceva Nerone, e ilsuo pazzo capriccio diè occasione a un nuovo ritrovatoper maggiormente perfezionarla. Egli volle esser dipintoin gigantesca statura di cento venti piedi, cioè della stes-sa misura a un dipresso di cui volle che fosse ancora il

vi comunicò il sig. Carlo Bianconi degno segr. dell'Accad. delle belle artiin Milano, vostro e mio intimo amico; cioè che abbia voluto dir Plinio del-la eccellenza di Zenodoro ciò che di Michelangelo e di Rafaello dice il Va-sari, i quali essendo arrivati all'ultimo termine di perfezione nelle arti, perla natura delle umane cose tutte che giunte al loro apice declinano, dieronosicuro indizio della vicina lor decadenza. Perdonatemi, gentilissimo Sig.Tiraboschi: l'interpretazione del dotto Bolognese è ingegnosa e degna dellasua profonda cognizione nella storia delle arti, e tale certamente da esserpreferita a quella dell'ab. Winckelmann e degli altri atri autori da lui citati;ma in quanto a me ella è poco probabile, e meno vera. Se Plinio avesseusato di questa espressione parlando di una statua di Lisippo, il quale forseportò quest'arte all'ultimo grado di perfezione, sarei men difficile a conve-nire in un tal sentimento; ma parlando di Zenodoro il quale per quanto fos-se eccellente di uguagliar gli antichi, ed anche Lisippo istesso, pure fiorivaun secolo in cui le arti aveano perduto tanto della loro primaria bellezza,non bene avrebbe il romano filosofo asserito delle di lui opere esser ellenotanto squisite e perfette da annunziare la prossima decadenza dell'arte. In-fatti se al presente ci fosse un genio privilegiato di nulla inferiore al granRafaello, ne inferireste forse piuttosto la decadenza delle arti, che il loro ri-sorgimento? Voi che sicuramente dovete aver l'occhio formato al bello, co-noscerete meglio di me che pur troppo hanno esse anticipato questo passofatale. So bene che le arti dopo il secolo fortunato d'Alessandro, persegui-tate in Egitto dalla crudeltà del tiranno Tolomeo Fiscone, si ricovrarono inGrecia, dove fiorirono di nuovo assistite dal favor dei Romani che l'aveanodichiarata libera; ma gli artisti di questa epoca non han maggior pregio deiCaracci con la loro scuola numerosa, i quali benchè dessero una nuova vitaalla pittura piena di licenza e d'affettazione nel pennello di Gius. d'Arpino,ignobile e grossolana in Michelang. da Caravaggio, pure non giunsero mai(sebbene ivi mirassero) a quella estrema eccellenza che tanto dagli altri di-stingue Raffaello, sicchè non possa dirsi con verità che anche nelle loroopere più sublimi scorgesi sempre la decadenza dell'arte. E quando il para-

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rendevala più preziosa sì, ma men bella, gliel fè toglierd'intorno. Anche di pitture si compiaceva Nerone, e ilsuo pazzo capriccio diè occasione a un nuovo ritrovatoper maggiormente perfezionarla. Egli volle esser dipintoin gigantesca statura di cento venti piedi, cioè della stes-sa misura a un dipresso di cui volle che fosse ancora il

vi comunicò il sig. Carlo Bianconi degno segr. dell'Accad. delle belle artiin Milano, vostro e mio intimo amico; cioè che abbia voluto dir Plinio del-la eccellenza di Zenodoro ciò che di Michelangelo e di Rafaello dice il Va-sari, i quali essendo arrivati all'ultimo termine di perfezione nelle arti, perla natura delle umane cose tutte che giunte al loro apice declinano, dieronosicuro indizio della vicina lor decadenza. Perdonatemi, gentilissimo Sig.Tiraboschi: l'interpretazione del dotto Bolognese è ingegnosa e degna dellasua profonda cognizione nella storia delle arti, e tale certamente da esserpreferita a quella dell'ab. Winckelmann e degli altri atri autori da lui citati;ma in quanto a me ella è poco probabile, e meno vera. Se Plinio avesseusato di questa espressione parlando di una statua di Lisippo, il quale forseportò quest'arte all'ultimo grado di perfezione, sarei men difficile a conve-nire in un tal sentimento; ma parlando di Zenodoro il quale per quanto fos-se eccellente di uguagliar gli antichi, ed anche Lisippo istesso, pure fiorivaun secolo in cui le arti aveano perduto tanto della loro primaria bellezza,non bene avrebbe il romano filosofo asserito delle di lui opere esser ellenotanto squisite e perfette da annunziare la prossima decadenza dell'arte. In-fatti se al presente ci fosse un genio privilegiato di nulla inferiore al granRafaello, ne inferireste forse piuttosto la decadenza delle arti, che il loro ri-sorgimento? Voi che sicuramente dovete aver l'occhio formato al bello, co-noscerete meglio di me che pur troppo hanno esse anticipato questo passofatale. So bene che le arti dopo il secolo fortunato d'Alessandro, persegui-tate in Egitto dalla crudeltà del tiranno Tolomeo Fiscone, si ricovrarono inGrecia, dove fiorirono di nuovo assistite dal favor dei Romani che l'aveanodichiarata libera; ma gli artisti di questa epoca non han maggior pregio deiCaracci con la loro scuola numerosa, i quali benchè dessero una nuova vitaalla pittura piena di licenza e d'affettazione nel pennello di Gius. d'Arpino,ignobile e grossolana in Michelang. da Caravaggio, pure non giunsero mai(sebbene ivi mirassero) a quella estrema eccellenza che tanto dagli altri di-stingue Raffaello, sicchè non possa dirsi con verità che anche nelle loroopere più sublimi scorgesi sempre la decadenza dell'arte. E quando il para-

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colosso. Convenne dunque, poichè non era possibileaver tavole di sì enorme grandezza, di usare a tal fine ditele, cosa, dice Plinio (l. 35, c. 7) finallora non usata. Nèquesto fu il solo progresso che la pittura facesse di que-sti tempi in Roma. Sotto l'impero di Claudio, dice il me-desimo Plinio (ib. c. 1), si trovò l'arte di dipinger sul

gone dei Caracci con gli artisti di quel tempo, per la mancanza di sicuridocumenti, non vi persuadesse pienamente, rammentatevi le stragi e la de-solazione che portò Silla in tutta la Grecia, per aver protette le parti di Mi-tridate, e allora toccherete con mano che poco dopo il loro ristabilimento,cioè nella centesima settuagesima quinta olimpiade, furono le arti quasi af-fatto distrutte. Parmi che questa riflessione escluda affatto il sentimentodel nostro ingegnosissimo interprete, quando non si voglia accusar Plinio odi poca perizia nella storia delle arti, o di troppa incoerenza nella sue illa-zioni; il che non credo che possa dirsi senza fare oltraggio ad uno de' piùinsigni letterati dell'antichità. Ma quello che più mi conferma nella miaopinione, è il senso limpido e netto, che scorgo in questo passo di Plinio,dopo aver letto ciò che egli stesso scrive al c. 2 di questo istesso l. 34. Sen-tite di grazia che bravo interprete di se medesimo è il nostro autore. Quon-dam æs confusum auro argentoque miscebatur, et tamen ars pretiosiorerat; nunc incertum est pejor hæc sit, an materia, mirumque, cum ad infi-nitum operum pretia creverint, auctoritas artis extincta est. Quæstus causaenim ut omnia exerceri cæpta quæ gloriæ solebant. Ideo etiam deorum ad-scripta operi, cum proceres genitum claritatem et hac via quaererent;adeoque exolevit fundendi aeris pretiosi ratio, ut jamdiu ne fortuna qui-dem in aere jus artis habeat. Dunque siam pienamente informati da questopasso di Plinio, che al suo tempo (e in conseguenza anche sotto l'impero diNerone, perchè non vi corse di mezzo che un brevissimo spazio di anni, edegli parla come di una cosa accaduta qualche secolo innanzi), siamo infor-mati, io dissi, che per la troppa avidità del guadagno erasi già deteriorata laqualità del bronzo e in Roma e altrove, perchè altrimenti Nerone dispostoa profondere oro ed argento per ben riuscire in un'opera che tanto lusinga-va la sua vanità, lo avrebbe tratto da qualunque parte del mondo la più re-mota. Ma perchè, dite voi, non lo cercò egli nelle Gallie, giacchè il Mercu-rio era ivi riuscito così felicemente, come ce ne fanno fede il prezzo e lafama che indi ne trasse il suo autore? Chi sa? forse tutti insieme i cittadinid'Auvergne interessati per la gloria della patria ottennero con le assidue

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colosso. Convenne dunque, poichè non era possibileaver tavole di sì enorme grandezza, di usare a tal fine ditele, cosa, dice Plinio (l. 35, c. 7) finallora non usata. Nèquesto fu il solo progresso che la pittura facesse di que-sti tempi in Roma. Sotto l'impero di Claudio, dice il me-desimo Plinio (ib. c. 1), si trovò l'arte di dipinger sul

gone dei Caracci con gli artisti di quel tempo, per la mancanza di sicuridocumenti, non vi persuadesse pienamente, rammentatevi le stragi e la de-solazione che portò Silla in tutta la Grecia, per aver protette le parti di Mi-tridate, e allora toccherete con mano che poco dopo il loro ristabilimento,cioè nella centesima settuagesima quinta olimpiade, furono le arti quasi af-fatto distrutte. Parmi che questa riflessione escluda affatto il sentimentodel nostro ingegnosissimo interprete, quando non si voglia accusar Plinio odi poca perizia nella storia delle arti, o di troppa incoerenza nella sue illa-zioni; il che non credo che possa dirsi senza fare oltraggio ad uno de' piùinsigni letterati dell'antichità. Ma quello che più mi conferma nella miaopinione, è il senso limpido e netto, che scorgo in questo passo di Plinio,dopo aver letto ciò che egli stesso scrive al c. 2 di questo istesso l. 34. Sen-tite di grazia che bravo interprete di se medesimo è il nostro autore. Quon-dam æs confusum auro argentoque miscebatur, et tamen ars pretiosiorerat; nunc incertum est pejor hæc sit, an materia, mirumque, cum ad infi-nitum operum pretia creverint, auctoritas artis extincta est. Quæstus causaenim ut omnia exerceri cæpta quæ gloriæ solebant. Ideo etiam deorum ad-scripta operi, cum proceres genitum claritatem et hac via quaererent;adeoque exolevit fundendi aeris pretiosi ratio, ut jamdiu ne fortuna qui-dem in aere jus artis habeat. Dunque siam pienamente informati da questopasso di Plinio, che al suo tempo (e in conseguenza anche sotto l'impero diNerone, perchè non vi corse di mezzo che un brevissimo spazio di anni, edegli parla come di una cosa accaduta qualche secolo innanzi), siamo infor-mati, io dissi, che per la troppa avidità del guadagno erasi già deteriorata laqualità del bronzo e in Roma e altrove, perchè altrimenti Nerone dispostoa profondere oro ed argento per ben riuscire in un'opera che tanto lusinga-va la sua vanità, lo avrebbe tratto da qualunque parte del mondo la più re-mota. Ma perchè, dite voi, non lo cercò egli nelle Gallie, giacchè il Mercu-rio era ivi riuscito così felicemente, come ce ne fanno fede il prezzo e lafama che indi ne trasse il suo autore? Chi sa? forse tutti insieme i cittadinid'Auvergne interessati per la gloria della patria ottennero con le assidue

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marmo, e sotto quel di Nerone si prese ancora a contraf-fare le macchie dei marmi stessi, aggiugnendo a quellech'eran loro naturali, altre diverse macchie di altri mar-mi. Così il lusso, e, dirò ancora, il capriccio degli impe-radori, giovava ad aggiugnere nuova perfezione alle arti,poichè sembrava omai che non potesse piacere se non

loro premure ciò che non poterono ottenere l'imperatore e l'artefice; forsech'eglino si servirono di bronzo già preparato, quando l'arte di fonderlo eraanche in fiore, e non posto in uso, o impiegato in opere di niun conto; for-se che quel colosso fu anch'esso di basso metallo, e di eccellente lavoro.Par che le parole di Plinio favoriscano questa mia ultima opinione, poichèparlando delle due tazze fatte a imitazione delle due celebri di Calamide,conchiude egli: ut vix ulla differentia esset artis; quasi coll'averci indivi-duata la somiglianza del lavoro, ci abbia voluto significare la differenzadel metallo inferiore in bontà, quando al contrario sul proposito della garafra Mirone e Policlete al c. 2 di questo istesso l. 34 espresse chiaramentel'emulazione di questi due condiscepoli, non tanto nell'arte, che nella mate-ria: Æmulatio iis et in materia fuit. Se questa riflessione è sana, anche lastatua colossale del Mercurio, perchè lavorata contemporaneamente alledue tazze, non dovea essere di prezioso metallo. Qual contraddizione dun-que trovate voi in Plinio, quando asserisce esser perita l'arte di fondere ilbronzo, essendo Nerone preparato a qualunque spesa, e Zenodoro a niundegli antichi secondo in modellare e in cesellare? Contraddizione ci trova-rei quando l'espressione fundendi aeris scientiam dovesse necessariamentesignificare la perdita totale di fare il getto delle statue in bronzo, intantoche Zenodoro ne avea eseguita una di tanta difficoltà. Ma no, era accadutonel bronzo quel che nelle arti tutte vediamo non di rado accadere, le qualise smontano dal primo grado di perfezione, qualunque ne sia la causa, van-no insensibilmente a cadere in uno stato di corruttela, dal quale è quasi im-possibile che risorgano; perchè non evvi più alcuno che conosca ed esegui-sca quelle regole tanto ben conosciute, ma non eseguite dai primi autoridella decadenza. Così è: era perduta l'arte di preparare, temperare e mesce-re insieme il metallo, sicchè ne risultasse un ottimo bronzo capace di pre-starsi docile alle intenzioni dell'artefice statuario, il quale in questa prepa-razione, tempera e mistura non avea parte alcuna, essendo un mestiero to-talmente diverso, e che altre volte avea fatta la gloria di poche città dellaGrecia, come parlando del bronzo eginetico, si esprime il nostro autore al

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marmo, e sotto quel di Nerone si prese ancora a contraf-fare le macchie dei marmi stessi, aggiugnendo a quellech'eran loro naturali, altre diverse macchie di altri mar-mi. Così il lusso, e, dirò ancora, il capriccio degli impe-radori, giovava ad aggiugnere nuova perfezione alle arti,poichè sembrava omai che non potesse piacere se non

loro premure ciò che non poterono ottenere l'imperatore e l'artefice; forsech'eglino si servirono di bronzo già preparato, quando l'arte di fonderlo eraanche in fiore, e non posto in uso, o impiegato in opere di niun conto; for-se che quel colosso fu anch'esso di basso metallo, e di eccellente lavoro.Par che le parole di Plinio favoriscano questa mia ultima opinione, poichèparlando delle due tazze fatte a imitazione delle due celebri di Calamide,conchiude egli: ut vix ulla differentia esset artis; quasi coll'averci indivi-duata la somiglianza del lavoro, ci abbia voluto significare la differenzadel metallo inferiore in bontà, quando al contrario sul proposito della garafra Mirone e Policlete al c. 2 di questo istesso l. 34 espresse chiaramentel'emulazione di questi due condiscepoli, non tanto nell'arte, che nella mate-ria: Æmulatio iis et in materia fuit. Se questa riflessione è sana, anche lastatua colossale del Mercurio, perchè lavorata contemporaneamente alledue tazze, non dovea essere di prezioso metallo. Qual contraddizione dun-que trovate voi in Plinio, quando asserisce esser perita l'arte di fondere ilbronzo, essendo Nerone preparato a qualunque spesa, e Zenodoro a niundegli antichi secondo in modellare e in cesellare? Contraddizione ci trova-rei quando l'espressione fundendi aeris scientiam dovesse necessariamentesignificare la perdita totale di fare il getto delle statue in bronzo, intantoche Zenodoro ne avea eseguita una di tanta difficoltà. Ma no, era accadutonel bronzo quel che nelle arti tutte vediamo non di rado accadere, le qualise smontano dal primo grado di perfezione, qualunque ne sia la causa, van-no insensibilmente a cadere in uno stato di corruttela, dal quale è quasi im-possibile che risorgano; perchè non evvi più alcuno che conosca ed esegui-sca quelle regole tanto ben conosciute, ma non eseguite dai primi autoridella decadenza. Così è: era perduta l'arte di preparare, temperare e mesce-re insieme il metallo, sicchè ne risultasse un ottimo bronzo capace di pre-starsi docile alle intenzioni dell'artefice statuario, il quale in questa prepa-razione, tempera e mistura non avea parte alcuna, essendo un mestiero to-talmente diverso, e che altre volte avea fatta la gloria di poche città dellaGrecia, come parlando del bronzo eginetico, si esprime il nostro autore al

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ciò che era nuovo.

VII. Vespasiano e Tito come alle lettere,medesimo c. 2 di questo libro: Proxima laus Æginetico fuit insula et ipsa,nec aes gignens, sed officiarum temperatura nobilitata. Certamente o chel'isola d'Egina fu sempre la sede degli statuarj in metallo, il che non ho mainè udito, nè letto, o che il fondere il bronzo era un'arte affatto distinta dalgettare o cesellare le statue. Nè per dimostrare all'ultima evidenza la perdi-ta di questa arte poteva egli dirci più sicuro riscontro che l'intervento delledue circostanze, di un imperador prodigo, e di un'artista eccellente. L'avi-dità del guadagno indusse i primi fonditori a deteriorare la qualità delbronzo; eppure per qualunque più ampia mercede non fu possibile a Nero-ne di averla per il suo colosso, quale in origine, forbito a perfetto, tanto diforbirlo o perfezionarlo erasi perduta ogni scienza. Gli artisti quanto piùsono eccellenti nella professione ch'esercitano, tanto meglio san celare idifetti che nella materia s'incontrarono, e tanto più solleciti della scelta del-la medesima, il che molto contribuisce a render più belle e più durevoli leopere loro. La gara tra Mirone e Policlete conferma abbastanza ciò che ab-biamo tutti i giorni sotto i nostri occhi, che vediamo le opere di quei pochipittori, i quali più che al guadagno aspirano alla gloria, da capo a fondo ri-coperte di colori più stagionati e più fini, mentre gli statuarj animati dalmedesimo desiderio si sdegnano per qualunque macchia più leggera siscuopra nei marmi, che con sommo studio fra mille altri si elessero: ciònon nonostante la singolare abilità e le premure di Zenodoro (le quali do-vettero essere il sommo diligenti; perchè dalla bontà e ricchezza della pro-digalità del bronzo non ne risentiva dispendio alcuno) non ebbero più feli-ce successo della prodigalità di un imperadore. È egli possibile d'immagi-nare che siansi mai combinate insieme due riprove più certe, e più atte apersuadere la perdita di qualunque arte, o scienza che sia stata una voltanel più florido stato di perfezione? Nè punto discorda dalla mia interpreta-zione, anzi con essa combina a maraviglia ciò che in ultimo luogo riflettePlinio, cioè che tanto più rese evidente la dimenticanza di fondere il bron-zo, quanto fu maggiore in Zenodoro la perizia nell'arte. Infatti, se Zenodo-ro non fosse stato che un mediocre artefice, quali erano per la massima

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Gli altri im-peradori sono essi pure favo-revoli alle arti.

ciò che era nuovo.

VII. Vespasiano e Tito come alle lettere,medesimo c. 2 di questo libro: Proxima laus Æginetico fuit insula et ipsa,nec aes gignens, sed officiarum temperatura nobilitata. Certamente o chel'isola d'Egina fu sempre la sede degli statuarj in metallo, il che non ho mainè udito, nè letto, o che il fondere il bronzo era un'arte affatto distinta dalgettare o cesellare le statue. Nè per dimostrare all'ultima evidenza la perdi-ta di questa arte poteva egli dirci più sicuro riscontro che l'intervento delledue circostanze, di un imperador prodigo, e di un'artista eccellente. L'avi-dità del guadagno indusse i primi fonditori a deteriorare la qualità delbronzo; eppure per qualunque più ampia mercede non fu possibile a Nero-ne di averla per il suo colosso, quale in origine, forbito a perfetto, tanto diforbirlo o perfezionarlo erasi perduta ogni scienza. Gli artisti quanto piùsono eccellenti nella professione ch'esercitano, tanto meglio san celare idifetti che nella materia s'incontrarono, e tanto più solleciti della scelta del-la medesima, il che molto contribuisce a render più belle e più durevoli leopere loro. La gara tra Mirone e Policlete conferma abbastanza ciò che ab-biamo tutti i giorni sotto i nostri occhi, che vediamo le opere di quei pochipittori, i quali più che al guadagno aspirano alla gloria, da capo a fondo ri-coperte di colori più stagionati e più fini, mentre gli statuarj animati dalmedesimo desiderio si sdegnano per qualunque macchia più leggera siscuopra nei marmi, che con sommo studio fra mille altri si elessero: ciònon nonostante la singolare abilità e le premure di Zenodoro (le quali do-vettero essere il sommo diligenti; perchè dalla bontà e ricchezza della pro-digalità del bronzo non ne risentiva dispendio alcuno) non ebbero più feli-ce successo della prodigalità di un imperadore. È egli possibile d'immagi-nare che siansi mai combinate insieme due riprove più certe, e più atte apersuadere la perdita di qualunque arte, o scienza che sia stata una voltanel più florido stato di perfezione? Nè punto discorda dalla mia interpreta-zione, anzi con essa combina a maraviglia ciò che in ultimo luogo riflettePlinio, cioè che tanto più rese evidente la dimenticanza di fondere il bron-zo, quanto fu maggiore in Zenodoro la perizia nell'arte. Infatti, se Zenodo-ro non fosse stato che un mediocre artefice, quali erano per la massima

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Gli altri im-peradori sono essi pure favo-revoli alle arti.

così alle arti ancora accordarono protezione e favore.Del primo singolarmente narra Svetonio (In Vesp. c. 18)che soleva comperar egli stesso per poi liberarli colortra gli schiavi, che in qualche arte erano eccellenti; chel'artefice che rifece il colosso di Nerone, cioè che allatesta di questo odiato imperadore sostituì l'immagin del

parte i suoi contemporanei, niuno forse sarebbe stato accorto a rilevare lapessima qualità del metallo, come impiegato in opera di poca estimazione;ma essendo egli di tanta eccellenza da andar del pari con gli antichi dimaggior fama, ed avendo perciò ben modellato e cesellato il suo colosso, èda credere che niuno vi fosse in Roma, al quale non riuscissero molto sen-sibili i difetti della materia di gran lunga inferiore alle finezze dell'arte;tanto più che a quel tempo vi era (dirò così) un popolo di statue tratte dallaGrecia in metallo il più prezioso e più fino. Ecco la mia interpretazione.Certamente o che io prendo un grosso sbaglio, o che ella è chiarissima. Viprego di esaminarla e comunicarmi, se vi piace, il vostro sentimento, assi-curandovi che non sono sì tenace delle mie opinioni da non sacrificarle dibuona voglia alla verità. Sono certo che Bianconi non si offenderà che altridissenta dai suoi pensieri. Io lo conosco; egli è troppo docile, e troppo vir-tuoso. La gloria è per lui un forte incentivo a coltivare gli studj; ma sabene ch'egli è anche glorioso il confessare gli errori, onde dalle propriemeditazioni non ne derivi altrui inganno ed ignoranza, come saviamenteriflette Celso (l. 8, c. 4): Magno ingenio, multaque nihilominus habituroconvenit etiam simplex veri erroris confessio, ec. ne qui decipiantur ea-dem ratione, qua quis ante deceptus est. Egli di più sarà animato a seguirel'esempio vostro, che in molti luoghi della vostra Storia, ma in questo pas-so precisamente, avete promesso al pubblico di abbracciare ben volentieriqualunque altra più confacente interpretazione, godendo di vedere final-mente illustrato questo sì oscuro passo di Plinio". Io volli comunicar que-sta lettera allo stesso sig. Carlo Bianconi ora seg. della reale Accad. dellebelle arti in Milano; ed egli, lasciando l'antica sua spiegazione, e non pa-rendogli abbastanza probabile quella con molto ingegno sostenuta dall'ab.Puccini, un'altra me ne propose alquanto diversa. Ecco la lettera su ciò cheegli mi scrisse da Milano a' 22 dec. 1779. "Ho ricevuto giorni sono la gen-tilissima vostra delli 12 corrente, che di nuovo ricerca il mio parere soprala lettera scrittami dal sig. ab. Puccini in spiegazione del noto passo di Pli-nio, ove parla di Zenodoro, ec., lettera che mi mandaste tanto tempo fa allo

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così alle arti ancora accordarono protezione e favore.Del primo singolarmente narra Svetonio (In Vesp. c. 18)che soleva comperar egli stesso per poi liberarli colortra gli schiavi, che in qualche arte erano eccellenti; chel'artefice che rifece il colosso di Nerone, cioè che allatesta di questo odiato imperadore sostituì l'immagin del

parte i suoi contemporanei, niuno forse sarebbe stato accorto a rilevare lapessima qualità del metallo, come impiegato in opera di poca estimazione;ma essendo egli di tanta eccellenza da andar del pari con gli antichi dimaggior fama, ed avendo perciò ben modellato e cesellato il suo colosso, èda credere che niuno vi fosse in Roma, al quale non riuscissero molto sen-sibili i difetti della materia di gran lunga inferiore alle finezze dell'arte;tanto più che a quel tempo vi era (dirò così) un popolo di statue tratte dallaGrecia in metallo il più prezioso e più fino. Ecco la mia interpretazione.Certamente o che io prendo un grosso sbaglio, o che ella è chiarissima. Viprego di esaminarla e comunicarmi, se vi piace, il vostro sentimento, assi-curandovi che non sono sì tenace delle mie opinioni da non sacrificarle dibuona voglia alla verità. Sono certo che Bianconi non si offenderà che altridissenta dai suoi pensieri. Io lo conosco; egli è troppo docile, e troppo vir-tuoso. La gloria è per lui un forte incentivo a coltivare gli studj; ma sabene ch'egli è anche glorioso il confessare gli errori, onde dalle propriemeditazioni non ne derivi altrui inganno ed ignoranza, come saviamenteriflette Celso (l. 8, c. 4): Magno ingenio, multaque nihilominus habituroconvenit etiam simplex veri erroris confessio, ec. ne qui decipiantur ea-dem ratione, qua quis ante deceptus est. Egli di più sarà animato a seguirel'esempio vostro, che in molti luoghi della vostra Storia, ma in questo pas-so precisamente, avete promesso al pubblico di abbracciare ben volentieriqualunque altra più confacente interpretazione, godendo di vedere final-mente illustrato questo sì oscuro passo di Plinio". Io volli comunicar que-sta lettera allo stesso sig. Carlo Bianconi ora seg. della reale Accad. dellebelle arti in Milano; ed egli, lasciando l'antica sua spiegazione, e non pa-rendogli abbastanza probabile quella con molto ingegno sostenuta dall'ab.Puccini, un'altra me ne propose alquanto diversa. Ecco la lettera su ciò cheegli mi scrisse da Milano a' 22 dec. 1779. "Ho ricevuto giorni sono la gen-tilissima vostra delli 12 corrente, che di nuovo ricerca il mio parere soprala lettera scrittami dal sig. ab. Puccini in spiegazione del noto passo di Pli-nio, ove parla di Zenodoro, ec., lettera che mi mandaste tanto tempo fa allo

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sole, come narra Plinio (l. 34, c. 7), fu da lui magnifica-mente ricompensato; e che ad un valoroso meccanicoche si offerse a sollevare al Campidoglio con piccolaspesa ampie colonne, diede per l'ingegnoso suo ritrovatoampia mercede; ma insieme disse che volea usare de'volgari ed ordinarj artefici, perchè potessero procacciar-

stesso oggetto da me non mai adempito. Eccomi alla fine ad obbedirvi.Non incolpate di mia straordinaria tardanza i favori e le grazie che ricevoda questi milanesi signori, credendomi da essi troppo distratto, ma piutto-sto la renitenza che provavo a scrivere qualche cosa contro il sentimento(giacchè non mi accordo interamente con lui) di chi amo e stimo somma-mente. Mi ha determinato alla fine il reiterato chieder vostro: ed il rifletterche Puccini, sempre amante del vero non si offenderà che, cercandoanch'io, in qualche modo me gli opponga. Si venga adunque a ciò che vo-lete. Per farlo con chiarezza, lasciatemi trascrivere il passo di Plinio su cuis'aggira la quistione, poichè quantunque a voi notissimo, non è che benel'averlo presente". Verum omnem amplitudinem statuarum hujus generis(colossale) vicit aetate nostra Zenodorus Mercurio facto in civitate Gal-liae Arvernis per annos decem H. S. CCCC manu pretio. Postquam satisibi artem approbaverat, Romam accitus est a Nerone, ubi destinatum illiusprincipis simulacrum colossum fecit CX. pedum longitudine... Ea statuaindicavit interiisse fundendi aeris scientiam, cum et Nero largiri aurumargentumque paratus esset, et Zenodorus scientia fingendi coelandiquenulli veterum postponeretur. Statuam Arvernorum cum faceret... duo pocu-la Calamidis manu caelata emulatus est, ut vix ulla, differentia esset artis.Quantoque major in Zenodoro praestantia fuit, tanto magis deprehendiaeris obliteratio potest (l. 34. t. 7). Se Zenodoro ha fatto di bronzo questocolosso di Nerone, come può dirsi che con questa statua si sia scoperto losmarrimento dell'arte, o scienza di fondere il bronzo? Voi sapete che qual-cheduno ha pensato che Zenodoro non facesse altrimenti di bronzo il nero-niano colosso, ma di sasso, e così è stata tolta la difficoltà, se con ragione,o no, lo vedremo sul fine di questa; e intanto veniamo al Sig. Puccini, chedopo aver di moltiplice erudizione sparsa la lettera sua, cerca di togliere lasupposta contraddizione asserendo che l'arte smarrita, indicata da Plinio,non era quella di fondere semplicemente il bronzo, ma di preparare, tem-perare, e mischiare insieme il metallo, sicchè ne risultasse un ottimo bron-zo capace di prestarsi docile all'intenzione dell'artefice statuario, sue pa-

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sole, come narra Plinio (l. 34, c. 7), fu da lui magnifica-mente ricompensato; e che ad un valoroso meccanicoche si offerse a sollevare al Campidoglio con piccolaspesa ampie colonne, diede per l'ingegnoso suo ritrovatoampia mercede; ma insieme disse che volea usare de'volgari ed ordinarj artefici, perchè potessero procacciar-

stesso oggetto da me non mai adempito. Eccomi alla fine ad obbedirvi.Non incolpate di mia straordinaria tardanza i favori e le grazie che ricevoda questi milanesi signori, credendomi da essi troppo distratto, ma piutto-sto la renitenza che provavo a scrivere qualche cosa contro il sentimento(giacchè non mi accordo interamente con lui) di chi amo e stimo somma-mente. Mi ha determinato alla fine il reiterato chieder vostro: ed il rifletterche Puccini, sempre amante del vero non si offenderà che, cercandoanch'io, in qualche modo me gli opponga. Si venga adunque a ciò che vo-lete. Per farlo con chiarezza, lasciatemi trascrivere il passo di Plinio su cuis'aggira la quistione, poichè quantunque a voi notissimo, non è che benel'averlo presente". Verum omnem amplitudinem statuarum hujus generis(colossale) vicit aetate nostra Zenodorus Mercurio facto in civitate Gal-liae Arvernis per annos decem H. S. CCCC manu pretio. Postquam satisibi artem approbaverat, Romam accitus est a Nerone, ubi destinatum illiusprincipis simulacrum colossum fecit CX. pedum longitudine... Ea statuaindicavit interiisse fundendi aeris scientiam, cum et Nero largiri aurumargentumque paratus esset, et Zenodorus scientia fingendi coelandiquenulli veterum postponeretur. Statuam Arvernorum cum faceret... duo pocu-la Calamidis manu caelata emulatus est, ut vix ulla, differentia esset artis.Quantoque major in Zenodoro praestantia fuit, tanto magis deprehendiaeris obliteratio potest (l. 34. t. 7). Se Zenodoro ha fatto di bronzo questocolosso di Nerone, come può dirsi che con questa statua si sia scoperto losmarrimento dell'arte, o scienza di fondere il bronzo? Voi sapete che qual-cheduno ha pensato che Zenodoro non facesse altrimenti di bronzo il nero-niano colosso, ma di sasso, e così è stata tolta la difficoltà, se con ragione,o no, lo vedremo sul fine di questa; e intanto veniamo al Sig. Puccini, chedopo aver di moltiplice erudizione sparsa la lettera sua, cerca di togliere lasupposta contraddizione asserendo che l'arte smarrita, indicata da Plinio,non era quella di fondere semplicemente il bronzo, ma di preparare, tem-perare, e mischiare insieme il metallo, sicchè ne risultasse un ottimo bron-zo capace di prestarsi docile all'intenzione dell'artefice statuario, sue pa-

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si il vitto (5). Ma Traiano singolarmente ed Adriano sor-passarono in ciò tutti i loro antecessori. Egli è vero chela ridicolosa gelosia di Adriano di non avere alcuno a sèsuperiore in qualunque arte, o scienza si fosse, gli feceusare di crudeltà contro alcuni de' più valorosi artefici, esingolarmente contro il celebre architetto Apollodoro,

role. Per conoscere se ciò regga, vi prego a riflettere che si scopre lo smar-rimento sopra indicato nel fare un colosso, e nel farsi da Zenodoro. Questedue particolarità tolgono a mio giudizio la forza al pensiere del sig. Pucci-ni perchè se v'è mai occasione in cui s'abbia bisogno di docilità nel metal-lo, è nel rinettare e cisellare il gettito d'un colosso. Le parti grandiosissimedi simil gigantesche moli non richiedono che pochissime finezze, essendosuperflua ogni cura ulteriore. Ma figuriamoci ancora che Nerone avessevoluta finitezza somma nel suo colosso, e però fosse stata vantaggiosa ladocilità del metallo. Lo smarrimento di essa non si sarebbe scoperto certoin Zenodoro, giacchè avrebbe potuto finire il colosso come una statuina dagabinetto anche senza la docilità non ritrovata. Bastava che lo finisse comele due giare o vasi da bere che in Francia avea fatte ad imitazione di duetravagliate da Calamide scultore eccellentissimo; le quali riuscirono tali utvix ulla differentia esset artis. E poi non era Zenodoro maestro sommo nelcisellare e nello scolpire quanto qualunque de' passati? Et Zenodorusscientia fingendi caelandique nulli veterum postponebatur. Ma vi è di più.Come sarà mai che dall'essere Zenodoro maestro eccellente si possa sco-prire ch'era perduta la composizione di codesto docile metallo? Zenodoroessendo bravissimo, poteva bensì occultare e facilmente i difetti della ma-teria, ma perchè egli è valorosissimo, che si abbiano a farsi palesi? Questo,abate veneratissimo, non può stare in conto veruno. E pure Plinio parlachiaro. Quantoque major in Zenodoro praestantia fuit, tanto magis depre-hendi aeris obliteratio potest. Aggiugnete alla fine che il metallo capace diprestarsi docile all'intenzione dell'artefice statuario era a quel tempo cono-sciutissimo. Plinio ci dà il modo, onde comporre la lega del metallo che gliartefici usavano per le statue, il quale se era tanto in uso (lo era moltissimoin que' giorni il fare statue di bronzo), dovea avere le qualità necessarie peressere rinettato bene, e cisellato finalmente, e perciò dovea avere la docili-tà. Eccovi le parole di Plinio al l. 34, c. 9. Sequens temperatura statuariaest... hoc modo; Massa proflatur in primis; mox in proflatum additur tertiaportio aeris collectanei. Miscentur, ec. Sicchè permettetemi che io dica

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si il vitto (5). Ma Traiano singolarmente ed Adriano sor-passarono in ciò tutti i loro antecessori. Egli è vero chela ridicolosa gelosia di Adriano di non avere alcuno a sèsuperiore in qualunque arte, o scienza si fosse, gli feceusare di crudeltà contro alcuni de' più valorosi artefici, esingolarmente contro il celebre architetto Apollodoro,

role. Per conoscere se ciò regga, vi prego a riflettere che si scopre lo smar-rimento sopra indicato nel fare un colosso, e nel farsi da Zenodoro. Questedue particolarità tolgono a mio giudizio la forza al pensiere del sig. Pucci-ni perchè se v'è mai occasione in cui s'abbia bisogno di docilità nel metal-lo, è nel rinettare e cisellare il gettito d'un colosso. Le parti grandiosissimedi simil gigantesche moli non richiedono che pochissime finezze, essendosuperflua ogni cura ulteriore. Ma figuriamoci ancora che Nerone avessevoluta finitezza somma nel suo colosso, e però fosse stata vantaggiosa ladocilità del metallo. Lo smarrimento di essa non si sarebbe scoperto certoin Zenodoro, giacchè avrebbe potuto finire il colosso come una statuina dagabinetto anche senza la docilità non ritrovata. Bastava che lo finisse comele due giare o vasi da bere che in Francia avea fatte ad imitazione di duetravagliate da Calamide scultore eccellentissimo; le quali riuscirono tali utvix ulla differentia esset artis. E poi non era Zenodoro maestro sommo nelcisellare e nello scolpire quanto qualunque de' passati? Et Zenodorusscientia fingendi caelandique nulli veterum postponebatur. Ma vi è di più.Come sarà mai che dall'essere Zenodoro maestro eccellente si possa sco-prire ch'era perduta la composizione di codesto docile metallo? Zenodoroessendo bravissimo, poteva bensì occultare e facilmente i difetti della ma-teria, ma perchè egli è valorosissimo, che si abbiano a farsi palesi? Questo,abate veneratissimo, non può stare in conto veruno. E pure Plinio parlachiaro. Quantoque major in Zenodoro praestantia fuit, tanto magis depre-hendi aeris obliteratio potest. Aggiugnete alla fine che il metallo capace diprestarsi docile all'intenzione dell'artefice statuario era a quel tempo cono-sciutissimo. Plinio ci dà il modo, onde comporre la lega del metallo che gliartefici usavano per le statue, il quale se era tanto in uso (lo era moltissimoin que' giorni il fare statue di bronzo), dovea avere le qualità necessarie peressere rinettato bene, e cisellato finalmente, e perciò dovea avere la docili-tà. Eccovi le parole di Plinio al l. 34, c. 9. Sequens temperatura statuariaest... hoc modo; Massa proflatur in primis; mox in proflatum additur tertiaportio aeris collectanei. Miscentur, ec. Sicchè permettetemi che io dica

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come si è detto. Ma ciò non ostante le opere magnificheda lui (6), e prima di lui da Traiano intraprese, gli archi,le colonne, gli acquedotti, i tempj, i ponti, le ville ed al-tre di somigliante natura, e gli onori ed i premj accordatiagli artefici più illustri, erano certamente valevoli a ri-svegliare l'ardore nel coltivamento delle belle arti, e il

con qualche asseveranza che la qualità nel bronzo ricercata, di cui si co-nobbe Zenodoro ignorante, non potea riguardare la docilità, o altro cherendesse l'opera più fina ed isquisita in genere di travaglio, ma dovea esse-re in genere di lega intrinsecamente pregiata, ed avuta in estimazione. Ve-diamo se questa proposizione si possa provare bastevolmente. Per far que-sto, riflettete, che ve ne prego, chi era Nerone in genere di gusto; giacchèper esso, d'ordine suo è fatto questo colosso da Zenodoro. Non v'è stato,credo io, principe di lui più amante dell'ultimo grado di magnificenza, digrandiosità, e di finezza. Agitato da questa in lui sfrenata passione, arrivòalla convulsione ed al furore, onde bruciò un pezzo di Roma non ad altrofine che per allargare la sua immensa casa, e sordo divenendo al pianto edalle strida d'infinite vittime, giunse ad un grado di barbarie e crudeltà nonpiù intesa. Chi è, direi quasi, che non si senta ancora fra il romoreggiardelle fiamme e il gemito de' Romani il consiglio di cedere l'intera Roma achi mostrava per sua abitazione sì vasta città? Tralascio adunque tutto que-sto, ma non posso lasciar d'indicarvi la poetica espressione di Plinio su diessa casa che le dà l'epiteto, aureae domus urbem ambientis. Non menopoi cerca questo forsennato amatore del bello che ricca sia la sua abitazio-ne di quello fosse estesa. Domus aurea per ciò fu nominata non solo daPlinio, ma da chiunque, come è notissimo, e ciò quando le case de' privatiandavano d'oro pomposamente vestite. Non credeste che esagerassi conquest'ultimo detto. Sentite Plinio testimonio di vista. Laquearia quae nuncet in privatis domibus auro teguntur, post Carthaginem eversam primoinaurata sunt in Capitolio Censura L. Mummii. Inde transiere in camerasquoque, atque parietis, qui jam et ipsi tamquam vasa inaurantur. Vuol farvedere Nerone a Tiridate re d'Armenia il teatro di Pompeo: lo fa coprird'oro. Pompeij theatrum (così sempre Plinio) operuit auro in unum diem,quod Tiridati regi Armeniae ostenderet. S'innamora della statua di bronzorappresentante Alessandro fatta da Lisippo; la fa dorare, come se per averel'ingresso al suo appartamento non le bastasse l'essere produzione di unode' primi scultori che vantasse la Grecia: Fecit Lysippus et Alexandrum

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come si è detto. Ma ciò non ostante le opere magnificheda lui (6), e prima di lui da Traiano intraprese, gli archi,le colonne, gli acquedotti, i tempj, i ponti, le ville ed al-tre di somigliante natura, e gli onori ed i premj accordatiagli artefici più illustri, erano certamente valevoli a ri-svegliare l'ardore nel coltivamento delle belle arti, e il

con qualche asseveranza che la qualità nel bronzo ricercata, di cui si co-nobbe Zenodoro ignorante, non potea riguardare la docilità, o altro cherendesse l'opera più fina ed isquisita in genere di travaglio, ma dovea esse-re in genere di lega intrinsecamente pregiata, ed avuta in estimazione. Ve-diamo se questa proposizione si possa provare bastevolmente. Per far que-sto, riflettete, che ve ne prego, chi era Nerone in genere di gusto; giacchèper esso, d'ordine suo è fatto questo colosso da Zenodoro. Non v'è stato,credo io, principe di lui più amante dell'ultimo grado di magnificenza, digrandiosità, e di finezza. Agitato da questa in lui sfrenata passione, arrivòalla convulsione ed al furore, onde bruciò un pezzo di Roma non ad altrofine che per allargare la sua immensa casa, e sordo divenendo al pianto edalle strida d'infinite vittime, giunse ad un grado di barbarie e crudeltà nonpiù intesa. Chi è, direi quasi, che non si senta ancora fra il romoreggiardelle fiamme e il gemito de' Romani il consiglio di cedere l'intera Roma achi mostrava per sua abitazione sì vasta città? Tralascio adunque tutto que-sto, ma non posso lasciar d'indicarvi la poetica espressione di Plinio su diessa casa che le dà l'epiteto, aureae domus urbem ambientis. Non menopoi cerca questo forsennato amatore del bello che ricca sia la sua abitazio-ne di quello fosse estesa. Domus aurea per ciò fu nominata non solo daPlinio, ma da chiunque, come è notissimo, e ciò quando le case de' privatiandavano d'oro pomposamente vestite. Non credeste che esagerassi conquest'ultimo detto. Sentite Plinio testimonio di vista. Laquearia quae nuncet in privatis domibus auro teguntur, post Carthaginem eversam primoinaurata sunt in Capitolio Censura L. Mummii. Inde transiere in camerasquoque, atque parietis, qui jam et ipsi tamquam vasa inaurantur. Vuol farvedere Nerone a Tiridate re d'Armenia il teatro di Pompeo: lo fa coprird'oro. Pompeij theatrum (così sempre Plinio) operuit auro in unum diem,quod Tiridati regi Armeniae ostenderet. S'innamora della statua di bronzorappresentante Alessandro fatta da Lisippo; la fa dorare, come se per averel'ingresso al suo appartamento non le bastasse l'essere produzione di unode' primi scultori che vantasse la Grecia: Fecit Lysippus et Alexandrum

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risvegliarono di fatto. Ma ciò non ostante le arti dicad-dero, e vennero come le scienze sempre più degeneran-do dall'antico loro splendore, come fra poco vedremo.

VIII. Rimane per ultimo che si annoverino

magnum, quam statuam inaurari jussit Nero princeps delectatus admodumilla. Da ciò, e da molt'altro che tralascio, argomentate se Nerone potea vo-lere di bronzo comune l'immagine sua colossale da porsi nel vestibolo del-la suddetta aurea sua casa, ove da Tranquillo sappiam che fu posta. La do-vea volere senza dubbio d'un bronzo pregevolissimo. Ma che sto cercandoio ragioni per persuadervi d'una cosa già indicatavi dallo stesso passo Pli-niano? Che vogliono dire se non questo le parole: cum et Nero largiri au-rum argentumque paratus esset? Nel bronzo usuale nè ora nè a' tempi diPlinio v'entrava oro, o argento. Quest'autore parlando della decadenzadell'arte della scultura dice: Quondam aes confusum auro argentoque mi-scebatur, et tamen ars pretiosior erat; nunc incertum est pejor haec sit, anmateria. Cosa che non potrebbe dire, se la mia proposizione non reggesse.Parleremo più avanti, perchè gli antichi mischiavano questi metalli prezio-si nel bronzo. Se il desiderio poi di Nerone non restò soddisfatto, benchèdesse, o fosse pronto a dare tutto l'oro e l'argento che avesse bramato Ze-nodoro, bisogna dire che per fare il bronzo richiesto da questo imperadorenon erano stati necessarj solo questi preziosi ingredienti, ma vi volea anco-ra cognizione e sapere non ordinario per formarlo, e per questa ragioneavrà Plinio dato il titolo di scienza alla composizione di farlo; Aeris fun-dendi scientiam. Parmi adunque dimostrato che la qualità del bronzo ri-chiesto da Nerone pel suo colosso, e di cui non era al fatto Zenodoro, erain genere di lega intrinsecamente pregiata e rara. Fosse così facile a cono-scersi la qualità precisa di esso, giacchè molti erano i bronzi che da' Roma-ni aveansi in estimazione. Seguitemi un altro poco, che con la scorta diPlinio vo' cercarlo. Questo autore bravissimo al principio del l. 34, dopoaver parlato dei metalli non composti, passa a discorrere dei composti,cioè di quelli che con varj metalli si formano, e della estimazione cheaveano. A quattro si riducono i più accreditati. Al deliaco, all'eginetico, alcorintio, ed all'hepatizon. In Delo fu nobilitato il bronzo prima di ogni al-tro, egli ci dice; ivi stima grande, e nome di deliaco acquistossi. In seguitosi apprezzò l'eginetico così dettto dall'isola egina che famosa per questo di-

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Pittori più rinomati in Roma.

risvegliarono di fatto. Ma ciò non ostante le arti dicad-dero, e vennero come le scienze sempre più degeneran-do dall'antico loro splendore, come fra poco vedremo.

VIII. Rimane per ultimo che si annoverino

magnum, quam statuam inaurari jussit Nero princeps delectatus admodumilla. Da ciò, e da molt'altro che tralascio, argomentate se Nerone potea vo-lere di bronzo comune l'immagine sua colossale da porsi nel vestibolo del-la suddetta aurea sua casa, ove da Tranquillo sappiam che fu posta. La do-vea volere senza dubbio d'un bronzo pregevolissimo. Ma che sto cercandoio ragioni per persuadervi d'una cosa già indicatavi dallo stesso passo Pli-niano? Che vogliono dire se non questo le parole: cum et Nero largiri au-rum argentumque paratus esset? Nel bronzo usuale nè ora nè a' tempi diPlinio v'entrava oro, o argento. Quest'autore parlando della decadenzadell'arte della scultura dice: Quondam aes confusum auro argentoque mi-scebatur, et tamen ars pretiosior erat; nunc incertum est pejor haec sit, anmateria. Cosa che non potrebbe dire, se la mia proposizione non reggesse.Parleremo più avanti, perchè gli antichi mischiavano questi metalli prezio-si nel bronzo. Se il desiderio poi di Nerone non restò soddisfatto, benchèdesse, o fosse pronto a dare tutto l'oro e l'argento che avesse bramato Ze-nodoro, bisogna dire che per fare il bronzo richiesto da questo imperadorenon erano stati necessarj solo questi preziosi ingredienti, ma vi volea anco-ra cognizione e sapere non ordinario per formarlo, e per questa ragioneavrà Plinio dato il titolo di scienza alla composizione di farlo; Aeris fun-dendi scientiam. Parmi adunque dimostrato che la qualità del bronzo ri-chiesto da Nerone pel suo colosso, e di cui non era al fatto Zenodoro, erain genere di lega intrinsecamente pregiata e rara. Fosse così facile a cono-scersi la qualità precisa di esso, giacchè molti erano i bronzi che da' Roma-ni aveansi in estimazione. Seguitemi un altro poco, che con la scorta diPlinio vo' cercarlo. Questo autore bravissimo al principio del l. 34, dopoaver parlato dei metalli non composti, passa a discorrere dei composti,cioè di quelli che con varj metalli si formano, e della estimazione cheaveano. A quattro si riducono i più accreditati. Al deliaco, all'eginetico, alcorintio, ed all'hepatizon. In Delo fu nobilitato il bronzo prima di ogni al-tro, egli ci dice; ivi stima grande, e nome di deliaco acquistossi. In seguitosi apprezzò l'eginetico così dettto dall'isola egina che famosa per questo di-

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Pittori più rinomati in Roma.

alcuni dei pittori che in questo tempo furono in Roma.Un Doroteo vien nominato da Plinio (l. 35, c. 3) a' tempidi Nerone, benchè non ci dica di qual valore egli fossenella sua arte. Egli fa più distinta menzione di Amulio(ib.), di cui abbiam favellato nel primo tomo. A lui diceche succederono nella fama di valenti pittori Cornelio

venne. Nel Foro boario si vedea un bue di eginetico bronzo. Ma più delleindicate due sorti di bronzo pregiavasi il corintio che dalla mischianza ac-cidentale (come ognuno sa) nell'incendio di Corinto ebbe nome e l'essersuo totale. Un altro bronzo eravi poi di grande estimazione dal colore cheavea il fegato, chiamato hepatizon. Non arrivava in pregio al Corintio; masuperava il deliaco e l'eginetico. Il corintio non potea comporsi da veruno,non così i due sunnominati eginetico e deliaco. Dell'hepatizon poi, quan-tunque fosse inventore il caso come lo è stato delle più interessanti scoper-te, pure non avea mancato l'umana sagacità di giugnervi benchè di rado. SeNerone, come abbiamo veduto, dovea volere il suo colosso d'un bronzo inestimazione, uno di questi quattro dovea bramare. Resta ora a vedere qualepoteva essere. È dimostrabile che non potea volere il corintio, giacchè nèsi conoscea il modo di comporlo, come si è detto, e quello ch'esisteva, eratutto impiegato. Non vi porto i passi di tutte queste mie proposizioni pernon accrescere lunghezza a lunghezza. Restavano solo le tre altre qualità,deliaco, eginetico, ed hepatizon. Mi pare molto giusto il credere che diquest'ultimo Nerone volesse l'immagine sua colossea. Troppi pregi s'uni-vano in questo bronzo per solleticare il genio di imperadore così trasporta-to per il più raro, come abbiamo veduto, più stimato del deliaco, e dell'egi-netico per il suo colore di fegato, e però oscuro, non soggetto alle altera-zioni come gli altri bronzi a cagione delle ingiurie e mutazioni delle sta-gioni, e poi più raro, perchè difficilissimo a comporsi. Quantunque non siache una conghiettura, non vi so negare che mi fa impressione e non picco-la. Che nella sua composizione vi entrasse oro ed argento, non posso dirloasseverantemente, ma ho gran ragione di sospettarlo, giacchè se, come ab-biamo per altra ragione veduto, Quondam aes confusum auro argentoquemiscebatur, è da pensare che ciò succedesse ne' più stimati, fra' quali certa-mente era l'hepatizon, onde la disposizione di Nerone di dare oro e argentosi ritrova ragionevole, e giusto il rilevarla di Plinio. Dopo tutte questecose, ditemi, se v'è, o esser può contradizione in Plinio? Zenodoro di finis-simo ingegno con tutti i possibili preziosi metalli non arriva a fare il bron-

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alcuni dei pittori che in questo tempo furono in Roma.Un Doroteo vien nominato da Plinio (l. 35, c. 3) a' tempidi Nerone, benchè non ci dica di qual valore egli fossenella sua arte. Egli fa più distinta menzione di Amulio(ib.), di cui abbiam favellato nel primo tomo. A lui diceche succederono nella fama di valenti pittori Cornelio

venne. Nel Foro boario si vedea un bue di eginetico bronzo. Ma più delleindicate due sorti di bronzo pregiavasi il corintio che dalla mischianza ac-cidentale (come ognuno sa) nell'incendio di Corinto ebbe nome e l'essersuo totale. Un altro bronzo eravi poi di grande estimazione dal colore cheavea il fegato, chiamato hepatizon. Non arrivava in pregio al Corintio; masuperava il deliaco e l'eginetico. Il corintio non potea comporsi da veruno,non così i due sunnominati eginetico e deliaco. Dell'hepatizon poi, quan-tunque fosse inventore il caso come lo è stato delle più interessanti scoper-te, pure non avea mancato l'umana sagacità di giugnervi benchè di rado. SeNerone, come abbiamo veduto, dovea volere il suo colosso d'un bronzo inestimazione, uno di questi quattro dovea bramare. Resta ora a vedere qualepoteva essere. È dimostrabile che non potea volere il corintio, giacchè nèsi conoscea il modo di comporlo, come si è detto, e quello ch'esisteva, eratutto impiegato. Non vi porto i passi di tutte queste mie proposizioni pernon accrescere lunghezza a lunghezza. Restavano solo le tre altre qualità,deliaco, eginetico, ed hepatizon. Mi pare molto giusto il credere che diquest'ultimo Nerone volesse l'immagine sua colossea. Troppi pregi s'uni-vano in questo bronzo per solleticare il genio di imperadore così trasporta-to per il più raro, come abbiamo veduto, più stimato del deliaco, e dell'egi-netico per il suo colore di fegato, e però oscuro, non soggetto alle altera-zioni come gli altri bronzi a cagione delle ingiurie e mutazioni delle sta-gioni, e poi più raro, perchè difficilissimo a comporsi. Quantunque non siache una conghiettura, non vi so negare che mi fa impressione e non picco-la. Che nella sua composizione vi entrasse oro ed argento, non posso dirloasseverantemente, ma ho gran ragione di sospettarlo, giacchè se, come ab-biamo per altra ragione veduto, Quondam aes confusum auro argentoquemiscebatur, è da pensare che ciò succedesse ne' più stimati, fra' quali certa-mente era l'hepatizon, onde la disposizione di Nerone di dare oro e argentosi ritrova ragionevole, e giusto il rilevarla di Plinio. Dopo tutte questecose, ditemi, se v'è, o esser può contradizione in Plinio? Zenodoro di finis-simo ingegno con tutti i possibili preziosi metalli non arriva a fare il bron-

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Pino e Accio Prisco, i quali dipinsero il tempiodell'Onore e della Virtù riedificato per opera di Vespa-siano; tra essi però, per testimonio di Plinio, Accio Pri-sco più dell'altro rassomigliavasi agli antichi. Finalmen-te nomina Plinio tra' pittori anche Antistio Labeone (ib.)morto di fresco, egli dice, in estrema vecchiezza, dopo

zo che vuole Nerone, e però con ragione si dice: Ea statua indicavit (per-chè per mezzo di questo colosso si scoperse) interiise fundendi aerisscientiam. Giustamente poi si rivela: Quantoque major in Zenodoro prae-stantia fuit, tanto magis deprehendi aeris obliteratio potest, perchè quantopiù era il talento di Zenodoro, tanto più si conobbe che non potea sperarsiche alcuno arrivasse a quello, a cui esso non giugneva. A me pare la cosatanto chiara che niente più. Resta ora a mostrarvi, che non regge il senti-mento di chi dice che Zenodoro non fece il colosso di bronzo, ma d'altramateria. Se passo ora a questo, non è per vaghezza di dire, ma per togliereun parere, che quantunque non sussistente potrebbe appresso di alcuni ave-re forza per l'autorità della persona che l'ha stampato. È certo che Neronevolea di bronzo il suo colosso, perchè parlando della materia da darsi peresso non si menzionano che metalli. Nero aurum argentumque largiri pa-ratus esset. È certo che si chiama Zenodoro di Francia per questo giacchèha dato abbastanza pruove per essere chiamato: Postquam satis artem ibi(in Francia) approbaverat, Romam accitus est a Nerone. Dunque in Fran-cia Zenodoro avea fatto qualche cosa di grande in bronzo, altrimenti nonavrebbe dato prove bastevoli, onde essere chiamato per far un colosso dibronzo chi ha fatto solo opere grandi di marmo, che sarebbe ridicola cosa.Se ha fatto qualche cosa di grande in bronzo è il Mercurio di cui parla Pli-nio, e che realmente era un colosso, anzi ben grande. Omnem amplitudi-nem statuarum hujus generis (colossale) vicit aetate nostra ZenodorusMercurio facto in civitate Arvernis. Ma se ha fatto un colosso di bronzo inFrancia, perchè non lo deve saper fare a Roma, obbedendo a Nerone impe-radore? Non so come leggendo attentamente Plinio, e riflettendovi sopra,si possa dire diversamente. Ma se non sussistente è il parer che finisco diconfutare, è insussistente pure la spiegazione che io diedi anni sono al me-desimo luogo. Ha ben ragione Puccini di chiamarla tale, e le cose dette lodebbono dimostrare chiaramente. Se sono stato più lungo di quello crede-vate, assicuratevi che io pure non volevo esserlo tanto. Ma già ch'è fatto, silasci, si lasci, se così non vi spiace. Sarò ben contento, se la mia spiegazio-

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Pino e Accio Prisco, i quali dipinsero il tempiodell'Onore e della Virtù riedificato per opera di Vespa-siano; tra essi però, per testimonio di Plinio, Accio Pri-sco più dell'altro rassomigliavasi agli antichi. Finalmen-te nomina Plinio tra' pittori anche Antistio Labeone (ib.)morto di fresco, egli dice, in estrema vecchiezza, dopo

zo che vuole Nerone, e però con ragione si dice: Ea statua indicavit (per-chè per mezzo di questo colosso si scoperse) interiise fundendi aerisscientiam. Giustamente poi si rivela: Quantoque major in Zenodoro prae-stantia fuit, tanto magis deprehendi aeris obliteratio potest, perchè quantopiù era il talento di Zenodoro, tanto più si conobbe che non potea sperarsiche alcuno arrivasse a quello, a cui esso non giugneva. A me pare la cosatanto chiara che niente più. Resta ora a mostrarvi, che non regge il senti-mento di chi dice che Zenodoro non fece il colosso di bronzo, ma d'altramateria. Se passo ora a questo, non è per vaghezza di dire, ma per togliereun parere, che quantunque non sussistente potrebbe appresso di alcuni ave-re forza per l'autorità della persona che l'ha stampato. È certo che Neronevolea di bronzo il suo colosso, perchè parlando della materia da darsi peresso non si menzionano che metalli. Nero aurum argentumque largiri pa-ratus esset. È certo che si chiama Zenodoro di Francia per questo giacchèha dato abbastanza pruove per essere chiamato: Postquam satis artem ibi(in Francia) approbaverat, Romam accitus est a Nerone. Dunque in Fran-cia Zenodoro avea fatto qualche cosa di grande in bronzo, altrimenti nonavrebbe dato prove bastevoli, onde essere chiamato per far un colosso dibronzo chi ha fatto solo opere grandi di marmo, che sarebbe ridicola cosa.Se ha fatto qualche cosa di grande in bronzo è il Mercurio di cui parla Pli-nio, e che realmente era un colosso, anzi ben grande. Omnem amplitudi-nem statuarum hujus generis (colossale) vicit aetate nostra ZenodorusMercurio facto in civitate Arvernis. Ma se ha fatto un colosso di bronzo inFrancia, perchè non lo deve saper fare a Roma, obbedendo a Nerone impe-radore? Non so come leggendo attentamente Plinio, e riflettendovi sopra,si possa dire diversamente. Ma se non sussistente è il parer che finisco diconfutare, è insussistente pure la spiegazione che io diedi anni sono al me-desimo luogo. Ha ben ragione Puccini di chiamarla tale, e le cose dette lodebbono dimostrare chiaramente. Se sono stato più lungo di quello crede-vate, assicuratevi che io pure non volevo esserlo tanto. Ma già ch'è fatto, silasci, si lasci, se così non vi spiace. Sarò ben contento, se la mia spiegazio-

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essere stato pretore e proconsole ancora nella Gallia nar-bonese. Egli dilettavasi di dipingere piccoli quadri; maanzi che riceverne onore, n'era disprezzato e deriso.Cosi Plinio. Il p. Arduino pensa (in Ind. Auctor post 1 l.Plin.) che questo Antistio Labeone sia il giureconsulto,di cui altrove abbiamo parlato; ma s'egli era morto pocoprima che Plinio scrivesse, extinctus nuper, per quantolunga fosse stata la sua vecchiezza, parmi difficilech'egli fosse vissuto anche parecchi anni sotto Augusto,a' cui tempi era certamente vissuto il giureconsulto, e intale età che, come si è detto, avrebbe potuto essere in-

ne incontrerà appresso di voi, anzi sarà solo allora che l'approverò. Voi co-noscete troppo bene gli antichi autori, e il loro linguaggio, ed io non sonoche ozioso veneratore delle finezze dei loro talenti, ed ammiratore riveren-te delle produzioni sublimi che le belle arti da essi trattate ci fanno goderea dispetto delle barbarie e della voracità de' secoli trascorsi. Amate chiv'ama e stima, ed amerete me moltissimo. Sono immutabilmente, ec". Cosìpare omai illustrato questo difficil passo, e sarebbe a bramare che collastessa diligenza si prendessero ad esaminare altri passi non meno oscuri diPlinio, su' quali i commentatori non hanno finora avuto coraggio di tratte-nersi. Il sig. ab. Fea, dopo aver accennate le diverse opinioni di questi in-gegnosi scrittori qui da me riportate, sembra che voglia egli darci in pocheparole una nuova e non più udita spiegazione, cioè che ai tempi di Neronepiù non si sapeva fare quella bella qualità di bronzo con lega d'oro ed'argento, come si faceva in altri tempi (Winckelmann Storia dell'arte t. 2,p. 354). Ma questa in somma è la spiegazione medesima del sig. ab. Bian-coni, come ognuno leggendone la lettera può osservare.

5 Non doveasi tacere che Domiziano fu amante di magnifiche fabbriche,benchè in esse talvolta costringesse gli architetti a secondar più che le re-gole dell'architettura, i suoi pazzi capricci. Veggasi ciò che ne narra il sig.Franc. Milizia parlando dell'archit. Rabirio, di cui singolarmente si valse(Mem. degli Archit. t. 2, p. 61 ed. bass.).

6 Adriano nelle sue fabbriche si valse molto dell'opera dell'archit. Detriano,e a lui singolarmente si attribuiscono, la Mole di Adriano, e il Fonte dettooggi S. Angelo (Milizia l. c. p. 69).

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essere stato pretore e proconsole ancora nella Gallia nar-bonese. Egli dilettavasi di dipingere piccoli quadri; maanzi che riceverne onore, n'era disprezzato e deriso.Cosi Plinio. Il p. Arduino pensa (in Ind. Auctor post 1 l.Plin.) che questo Antistio Labeone sia il giureconsulto,di cui altrove abbiamo parlato; ma s'egli era morto pocoprima che Plinio scrivesse, extinctus nuper, per quantolunga fosse stata la sua vecchiezza, parmi difficilech'egli fosse vissuto anche parecchi anni sotto Augusto,a' cui tempi era certamente vissuto il giureconsulto, e intale età che, come si è detto, avrebbe potuto essere in-

ne incontrerà appresso di voi, anzi sarà solo allora che l'approverò. Voi co-noscete troppo bene gli antichi autori, e il loro linguaggio, ed io non sonoche ozioso veneratore delle finezze dei loro talenti, ed ammiratore riveren-te delle produzioni sublimi che le belle arti da essi trattate ci fanno goderea dispetto delle barbarie e della voracità de' secoli trascorsi. Amate chiv'ama e stima, ed amerete me moltissimo. Sono immutabilmente, ec". Cosìpare omai illustrato questo difficil passo, e sarebbe a bramare che collastessa diligenza si prendessero ad esaminare altri passi non meno oscuri diPlinio, su' quali i commentatori non hanno finora avuto coraggio di tratte-nersi. Il sig. ab. Fea, dopo aver accennate le diverse opinioni di questi in-gegnosi scrittori qui da me riportate, sembra che voglia egli darci in pocheparole una nuova e non più udita spiegazione, cioè che ai tempi di Neronepiù non si sapeva fare quella bella qualità di bronzo con lega d'oro ed'argento, come si faceva in altri tempi (Winckelmann Storia dell'arte t. 2,p. 354). Ma questa in somma è la spiegazione medesima del sig. ab. Bian-coni, come ognuno leggendone la lettera può osservare.

5 Non doveasi tacere che Domiziano fu amante di magnifiche fabbriche,benchè in esse talvolta costringesse gli architetti a secondar più che le re-gole dell'architettura, i suoi pazzi capricci. Veggasi ciò che ne narra il sig.Franc. Milizia parlando dell'archit. Rabirio, di cui singolarmente si valse(Mem. degli Archit. t. 2, p. 61 ed. bass.).

6 Adriano nelle sue fabbriche si valse molto dell'opera dell'archit. Detriano,e a lui singolarmente si attribuiscono, la Mole di Adriano, e il Fonte dettooggi S. Angelo (Milizia l. c. p. 69).

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nalzato al consolato. Comunque sia, a lui poco onorevo-le fu la pittura, o perchè non vi riuscisse molto felice-mente, o perchè non si stimasse cosa conveniente a unuomo autorevole ed esercitato ne' magistrati l'occuparsiin tal arte.

IX. Le lodi che Plinio dà ad alcuni de' men-tovati pittori, potrebbono persuaderci chequest'arte fosse allora nella sua perfezionein Roma. Ma egli medesimo troppo chiara-mente ci mostra il contrario. Perciocchè

dopo aver parlato dell'onore che alcuni imperadori ren-derono a certe più egregie pitture, dice: Hactenus dic-tum sit de dignitate artis morientis (l. 35, c. 5): paroleche in altro senso non si possono a mio parere intenderese non in questo, che la pittura era decaduta per modoche sembrava omai vicina a perdersene interamentel'arte. Di questo decadimento medesimo doleasi fin da'suoi tempi anche Vitruvio (l. 7, c. 5), e nel precedentevolume abbiamo osservato che in qualche edificio che cirimane dei tempi d'Augusto, vedesi l'architettura mede-sima allontanarsi dalla sua bella e maestosa semplicità.Lo stesso osserva il Winckelmann (Hist. de l'Art t. 2, p.309) nelle sculture che ci sono rimaste singolarmente de'tempi di Traiano e di Adriano. Ma non parmi probabilela ragione che egli ne adduce. Forse, egli dice, se ne deeindicar la cagione nell'impero della superstizione di-strutto, e nella propagazione del cristianesimo. La reli-

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L'arte non-dimeno de-cade, e per qual ragio-ne.

nalzato al consolato. Comunque sia, a lui poco onorevo-le fu la pittura, o perchè non vi riuscisse molto felice-mente, o perchè non si stimasse cosa conveniente a unuomo autorevole ed esercitato ne' magistrati l'occuparsiin tal arte.

IX. Le lodi che Plinio dà ad alcuni de' men-tovati pittori, potrebbono persuaderci chequest'arte fosse allora nella sua perfezionein Roma. Ma egli medesimo troppo chiara-mente ci mostra il contrario. Perciocchè

dopo aver parlato dell'onore che alcuni imperadori ren-derono a certe più egregie pitture, dice: Hactenus dic-tum sit de dignitate artis morientis (l. 35, c. 5): paroleche in altro senso non si possono a mio parere intenderese non in questo, che la pittura era decaduta per modoche sembrava omai vicina a perdersene interamentel'arte. Di questo decadimento medesimo doleasi fin da'suoi tempi anche Vitruvio (l. 7, c. 5), e nel precedentevolume abbiamo osservato che in qualche edificio che cirimane dei tempi d'Augusto, vedesi l'architettura mede-sima allontanarsi dalla sua bella e maestosa semplicità.Lo stesso osserva il Winckelmann (Hist. de l'Art t. 2, p.309) nelle sculture che ci sono rimaste singolarmente de'tempi di Traiano e di Adriano. Ma non parmi probabilela ragione che egli ne adduce. Forse, egli dice, se ne deeindicar la cagione nell'impero della superstizione di-strutto, e nella propagazione del cristianesimo. La reli-

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L'arte non-dimeno de-cade, e per qual ragio-ne.

gione cristiana non era a questi tempi così diffusa, che ilmaggior numero non fosse d'idolatri. E innoltre, se nonostante la religion cristiana vi ebbe, come vi ebbe di fat-to, gran copia di scultori, di pittori, di architetti, perchènon furon essi eccellenti? Le ragioni medesime che nel-la Dissertazion preliminare abbiamo arrecate a spiegareil decadimento delle scienze, debbonsi arrecare qui an-cora: mancanza di stimoli e amore di novità. Quella di-stolse molti dall'applicarsi a coltivar le bell'arti; e quin-di, come allor quando moltissimi le coltivavano, solo al-cuni pochi furono eccellenti; così scemandosi il numerode' coltivatori, appena trovossi chi in esse si acquistassegran fama. Questo invogliando coloro che pur coltivava-no l'arti, di superare in gloria gli antichi maestri, essi in-vece di seguirne gli esempj, s'aprirono nuove strade, eper divenir più eccellenti, divenner viziosi. Così al me-desimo tempo e per la ragion medesima le scienze el'arti cominciarono a decadere in Roma, e vennero po-scia a stato sempre peggiore, come or ora vedremo.

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gione cristiana non era a questi tempi così diffusa, che ilmaggior numero non fosse d'idolatri. E innoltre, se nonostante la religion cristiana vi ebbe, come vi ebbe di fat-to, gran copia di scultori, di pittori, di architetti, perchènon furon essi eccellenti? Le ragioni medesime che nel-la Dissertazion preliminare abbiamo arrecate a spiegareil decadimento delle scienze, debbonsi arrecare qui an-cora: mancanza di stimoli e amore di novità. Quella di-stolse molti dall'applicarsi a coltivar le bell'arti; e quin-di, come allor quando moltissimi le coltivavano, solo al-cuni pochi furono eccellenti; così scemandosi il numerode' coltivatori, appena trovossi chi in esse si acquistassegran fama. Questo invogliando coloro che pur coltivava-no l'arti, di superare in gloria gli antichi maestri, essi in-vece di seguirne gli esempj, s'aprirono nuove strade, eper divenir più eccellenti, divenner viziosi. Così al me-desimo tempo e per la ragion medesima le scienze el'arti cominciarono a decadere in Roma, e vennero po-scia a stato sempre peggiore, come or ora vedremo.

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LIBRO II.Letteratura de' Romani dalla morte di Adria-

no fino ai principj di Costantino.

I. Quando morì Adriano, era corso poco oltre ad un se-colo dopo la morte d'Augusto. E nondimeno qual cam-biamento era già avvenuto nella romana letteratura! Sequesto imperadore avesse potuto levar dalla tomba ilcapo, avrebbe egli più riconosciuta la sua Roma? Nuovamaniera di pensare, d'immaginare, di scrivere; nuoveidee intorno la poesia e l'eloquenza; nuove parole e nuo-vo stile (7) che in qualche parte ei non avrebbe forse piùinteso. Tutto in somma lo stato della letteratura intera-mente cambiato. Ciò non ostante il fervor degli studjnon era ancora estinto; e se essi erano in un funesto de-cadimento, ciò doveasi anzi al cattivo gusto, che allascarsezza, o alla negligenza de' loro coltivatori. Ma poi-chè la civile e politica costituzion dell'impero si fè sem-7 L'ab. Lampillas si è altamente scandalizzato del ritratto ch'io ho fatto

dell'infelice stato della letteratura romana al tempo della morte di Adriano(t. 1, p. 65, ec.), e per provare che non è vero che allora fosse "nuova ma-niera di pensare, d'immaginare, di scrivere, nuove idee intorno la poesia el'eloquenza, nuove parole, e nuovo stile," mi ricorda, perchè forse ha cre-duto ch'io nol sapessi, che in quel tempo la storia naturale, la filosofia mo-rale, la geografia, ec. furono egregiamente illustrate da Plinio, da Seneca,da Columella, ec. Ciò parmi lo stesso che se ad uno che affermasse che uncotale è zoppo, si desse una mentita, dicendo che ciò è falso, perchè egliha molte migliaia di scudi d'entrata.

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LIBRO II.Letteratura de' Romani dalla morte di Adria-

no fino ai principj di Costantino.

I. Quando morì Adriano, era corso poco oltre ad un se-colo dopo la morte d'Augusto. E nondimeno qual cam-biamento era già avvenuto nella romana letteratura! Sequesto imperadore avesse potuto levar dalla tomba ilcapo, avrebbe egli più riconosciuta la sua Roma? Nuovamaniera di pensare, d'immaginare, di scrivere; nuoveidee intorno la poesia e l'eloquenza; nuove parole e nuo-vo stile (7) che in qualche parte ei non avrebbe forse piùinteso. Tutto in somma lo stato della letteratura intera-mente cambiato. Ciò non ostante il fervor degli studjnon era ancora estinto; e se essi erano in un funesto de-cadimento, ciò doveasi anzi al cattivo gusto, che allascarsezza, o alla negligenza de' loro coltivatori. Ma poi-chè la civile e politica costituzion dell'impero si fè sem-7 L'ab. Lampillas si è altamente scandalizzato del ritratto ch'io ho fatto

dell'infelice stato della letteratura romana al tempo della morte di Adriano(t. 1, p. 65, ec.), e per provare che non è vero che allora fosse "nuova ma-niera di pensare, d'immaginare, di scrivere, nuove idee intorno la poesia el'eloquenza, nuove parole, e nuovo stile," mi ricorda, perchè forse ha cre-duto ch'io nol sapessi, che in quel tempo la storia naturale, la filosofia mo-rale, la geografia, ec. furono egregiamente illustrate da Plinio, da Seneca,da Columella, ec. Ciò parmi lo stesso che se ad uno che affermasse che uncotale è zoppo, si desse una mentita, dicendo che ciò è falso, perchè egliha molte migliaia di scudi d'entrata.

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pre peggiore e le interne discordie e i vizi de' regnanti el'universale corruzione del costume crebbero vie mag-giormente, questo ardor medesimo si venne successiva-mente scemando, e gli studj quasi del tutto furono di-menticati e sprezzati. Le riflessioni che già abbiam fattenella Dissertazione preliminare premessa a questo volu-me, ci dispensano dall'entrare su questo punto a lungoragionamento; e le cose che in questa epoca dobbiamnarrare, serviranno a confermare colla esperienza ciòche allora abbiamo affermato.

CAPO I. Idea generale dello stato civile e letterario di questi

tempi.

I. Tito Antonino soprannominato il Pio, chel'an. 138 succedette nell'impero ad Adriano,fu uno de' più saggi principi che salisser sultrono. Se se ne tragga la pudicizia, di cui,per confessione ancora di Marco Aureliosuo successore che di lui parla con grandielogi, egli non fu troppo severo custode (De

Reb. suis l. 1, c. 13), non vi ebbe virtù di cui egli nondesse luminosi esempj. Persuaso di non esser sovrano senon per giovare a tutti, a ciò rivolse singolarmente lesue mire. Annullare le leggi ingiuste, punire i turbatoridella pubblica tranquillità, sovvenire liberalmente a bi-sognosi d'ogni maniera, provvedere in somma con affet-

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Elogio dell'imp. Antonino, eprotezione da lui ac-cordata allescienze.

pre peggiore e le interne discordie e i vizi de' regnanti el'universale corruzione del costume crebbero vie mag-giormente, questo ardor medesimo si venne successiva-mente scemando, e gli studj quasi del tutto furono di-menticati e sprezzati. Le riflessioni che già abbiam fattenella Dissertazione preliminare premessa a questo volu-me, ci dispensano dall'entrare su questo punto a lungoragionamento; e le cose che in questa epoca dobbiamnarrare, serviranno a confermare colla esperienza ciòche allora abbiamo affermato.

CAPO I. Idea generale dello stato civile e letterario di questi

tempi.

I. Tito Antonino soprannominato il Pio, chel'an. 138 succedette nell'impero ad Adriano,fu uno de' più saggi principi che salisser sultrono. Se se ne tragga la pudicizia, di cui,per confessione ancora di Marco Aureliosuo successore che di lui parla con grandielogi, egli non fu troppo severo custode (De

Reb. suis l. 1, c. 13), non vi ebbe virtù di cui egli nondesse luminosi esempj. Persuaso di non esser sovrano senon per giovare a tutti, a ciò rivolse singolarmente lesue mire. Annullare le leggi ingiuste, punire i turbatoridella pubblica tranquillità, sovvenire liberalmente a bi-sognosi d'ogni maniera, provvedere in somma con affet-

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Elogio dell'imp. Antonino, eprotezione da lui ac-cordata allescienze.

to da padre e con vigor da sovrano a tutte le necessitàdello Stato; queste furono le più dolci e le più ordinariesue occupazioni. Le scienze ebbero anch'esse parte nelleprovvide cure di questo ottimo imperadore. Vespasiano,come si è detto nel libro primo, avea a' professori di ret-torica assegnato annuo stipendio, e forse fin d'allora era-si questa legge stesa anche a' professori dell'altre scien-ze in Roma; ma Antonino ampliolla ancor maggiormen-te, perciocchè, come narra Giulio Capitolino (in Anton.c. II), a retori ed a' filosofi non solo in Roma, ma in tutteancor le provincie dell'impero egli concedette liberal-mente e onori e stipendj; ma con discernere saggiamentequei che ne fossero meritevoli; perciocchè lo stesso au-tore racconta (c. 7) che a un certo Mosamede poeta liri-co greco (di cui il Salmasio recita (in not. ad hunc loc.)alcuni versi) egli sminuì lo stipendio di cui godeva, for-se perchè gli parve che fosse maggior di quello che gliconveniva. Molti privilegi ancora accordò loro Antoni-no; e singolarmente l'esenzione da' varj pubblici impie-ghi; e stabilì innoltre qual numero di professori in cia-scheduna scienza aver dovessero le città, cioè che le mi-nori avessero cinque medici, tre sofisti, ossia retori, e tregramatici, che godessero delle suddette immunità; lemaggiori, sette medici, quattro retori ed altrettanti gra-matici; le massime, dieci medici, cinque retori ed altret-tanti gramatici. Le stesse immunità accordate furono aifilosofi, de' quali però non fu fissato numero determina-to, e a' professori di legge, che aveano scuola in Roma.Tutti questi privilegi conservatici dall'antico giurec. Mo-

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to da padre e con vigor da sovrano a tutte le necessitàdello Stato; queste furono le più dolci e le più ordinariesue occupazioni. Le scienze ebbero anch'esse parte nelleprovvide cure di questo ottimo imperadore. Vespasiano,come si è detto nel libro primo, avea a' professori di ret-torica assegnato annuo stipendio, e forse fin d'allora era-si questa legge stesa anche a' professori dell'altre scien-ze in Roma; ma Antonino ampliolla ancor maggiormen-te, perciocchè, come narra Giulio Capitolino (in Anton.c. II), a retori ed a' filosofi non solo in Roma, ma in tutteancor le provincie dell'impero egli concedette liberal-mente e onori e stipendj; ma con discernere saggiamentequei che ne fossero meritevoli; perciocchè lo stesso au-tore racconta (c. 7) che a un certo Mosamede poeta liri-co greco (di cui il Salmasio recita (in not. ad hunc loc.)alcuni versi) egli sminuì lo stipendio di cui godeva, for-se perchè gli parve che fosse maggior di quello che gliconveniva. Molti privilegi ancora accordò loro Antoni-no; e singolarmente l'esenzione da' varj pubblici impie-ghi; e stabilì innoltre qual numero di professori in cia-scheduna scienza aver dovessero le città, cioè che le mi-nori avessero cinque medici, tre sofisti, ossia retori, e tregramatici, che godessero delle suddette immunità; lemaggiori, sette medici, quattro retori ed altrettanti gra-matici; le massime, dieci medici, cinque retori ed altret-tanti gramatici. Le stesse immunità accordate furono aifilosofi, de' quali però non fu fissato numero determina-to, e a' professori di legge, che aveano scuola in Roma.Tutti questi privilegi conservatici dall'antico giurec. Mo-

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destino sono stati diligentemente raccolti ed illustrati dalcelebre Antonio Agostino (Ad Modestinum l. sing. p.241, ec.). Egli ancora fu uomo "di eccellente ingegno, dicolta letteratura e di singolare eloquenza" (Capit. c. 2).Questo è il solo elogio che degli studj di Antonino ci falo scrittor della sua Vita, ed è un elogio assai glorioso adun sovrano a cui il peso de' pubblici affari non permettedi dar molto tempo agli ameni studj. Ma l'ab. Long-champs non è pago di questo elogio ed altre più pelle-grine notizie ci somministra (Tabl. des gens de lettr. t. 1,p. 136) del sapere di Antonino; giacchè a lui, e primaagli autori della storia letteraria di Francia (t. 1. p. 277)è sembrato di dovergli dar luogo tra' Francesi illustri indottrina; nè si può negare che con qualche ragione nonl'abbian fatta, affermando Capitolino: parentum genus eGallia transalpina, Nemausens scilicet (c. 1). Or l'ab.Longchamps, oltre aver affermato dopo i suddetti autori,non solo che egli era originario della città di Nimes, ilche da noi loro non si contrasta, ma che ancora il padree l'avolo di Antonino vi eran nati, il che non so comeessi possan provare, così ci parla degli studi da lui fatti:"Nella sua gioventù ei potè senz'altra guida che il suoproprio genio innoltrarsi nella carriera cui bastava mo-strargli; talchè si può dire che a se medesimo ei dovettela gloria di essere uno dei più dotti uomini del suo tem-po. Avea un'erudizion prodigiosa fino da quell'età chenon suol essere capace che de' primi elementi. Poichè fubastantemente nudrito della letteratura degli autori grecie latini, pensò essere omai tempo di usare de' materiali

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destino sono stati diligentemente raccolti ed illustrati dalcelebre Antonio Agostino (Ad Modestinum l. sing. p.241, ec.). Egli ancora fu uomo "di eccellente ingegno, dicolta letteratura e di singolare eloquenza" (Capit. c. 2).Questo è il solo elogio che degli studj di Antonino ci falo scrittor della sua Vita, ed è un elogio assai glorioso adun sovrano a cui il peso de' pubblici affari non permettedi dar molto tempo agli ameni studj. Ma l'ab. Long-champs non è pago di questo elogio ed altre più pelle-grine notizie ci somministra (Tabl. des gens de lettr. t. 1,p. 136) del sapere di Antonino; giacchè a lui, e primaagli autori della storia letteraria di Francia (t. 1. p. 277)è sembrato di dovergli dar luogo tra' Francesi illustri indottrina; nè si può negare che con qualche ragione nonl'abbian fatta, affermando Capitolino: parentum genus eGallia transalpina, Nemausens scilicet (c. 1). Or l'ab.Longchamps, oltre aver affermato dopo i suddetti autori,non solo che egli era originario della città di Nimes, ilche da noi loro non si contrasta, ma che ancora il padree l'avolo di Antonino vi eran nati, il che non so comeessi possan provare, così ci parla degli studi da lui fatti:"Nella sua gioventù ei potè senz'altra guida che il suoproprio genio innoltrarsi nella carriera cui bastava mo-strargli; talchè si può dire che a se medesimo ei dovettela gloria di essere uno dei più dotti uomini del suo tem-po. Avea un'erudizion prodigiosa fino da quell'età chenon suol essere capace che de' primi elementi. Poichè fubastantemente nudrito della letteratura degli autori grecie latini, pensò essere omai tempo di usare de' materiali

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che avea raccolti. L'attività della sua immaginazionenon lasciavagli quasi luogo ad altra scelta che della elo-quenza, o della poesia. Ei si volse alla prima; e la gloriache acquistossi in questa luminosa carriera, è fondata sudiverse opere di cui Capitolino fa grandissimi encomj".L'elogio non può essere più eloquente. Ma il valorosoautor mi perdoni, se io mi fo a chiedergli con rispettoquali prove egli possa arrecare di sì gloriose asserzioni.Ove ha egli trovato che Antonino senza guida alcunaapprendesse le scienze? Ove ch'ei fosse un de' più dottiuomini del suo tempo? Ove che ancor giovinetto avesseun'erudizion prodigiosa? Ove ch'ei facesse professionedi eloquenza? In qual edizione finalmente di Capitolinoha egli trovato che questo autore faccia encomj dell'ope-re di Antonino, o almen le accenni? Io certo nulla viveggo di tutto ciò, nè in alcun antico autore incontroombra o vestigio di quelle sì grandi cose che questoscrittor ci racconta. Anzi Giulio Capitolino afferma chealcune orazioni che correvano sotto il nome di questoprincipe, credevasi comunemente che fossero altrui la-voro; benchè Mario Massimo sostenesse ch'egli eraneveramente autore (c. 11). Come dunque e con qual fon-damento l'ab. Longchamps ha potuto formare ad Anto-nino un sì magnifico elogio? Ma rimettiamoci in sentie-ro.

II. Nulla meno felice alle lettere fu l'imperodi Marco Aurelio soprannominato il filoso-

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Elogio di M. Aurelio.

che avea raccolti. L'attività della sua immaginazionenon lasciavagli quasi luogo ad altra scelta che della elo-quenza, o della poesia. Ei si volse alla prima; e la gloriache acquistossi in questa luminosa carriera, è fondata sudiverse opere di cui Capitolino fa grandissimi encomj".L'elogio non può essere più eloquente. Ma il valorosoautor mi perdoni, se io mi fo a chiedergli con rispettoquali prove egli possa arrecare di sì gloriose asserzioni.Ove ha egli trovato che Antonino senza guida alcunaapprendesse le scienze? Ove ch'ei fosse un de' più dottiuomini del suo tempo? Ove che ancor giovinetto avesseun'erudizion prodigiosa? Ove ch'ei facesse professionedi eloquenza? In qual edizione finalmente di Capitolinoha egli trovato che questo autore faccia encomj dell'ope-re di Antonino, o almen le accenni? Io certo nulla viveggo di tutto ciò, nè in alcun antico autore incontroombra o vestigio di quelle sì grandi cose che questoscrittor ci racconta. Anzi Giulio Capitolino afferma chealcune orazioni che correvano sotto il nome di questoprincipe, credevasi comunemente che fossero altrui la-voro; benchè Mario Massimo sostenesse ch'egli eraneveramente autore (c. 11). Come dunque e con qual fon-damento l'ab. Longchamps ha potuto formare ad Anto-nino un sì magnifico elogio? Ma rimettiamoci in sentie-ro.

II. Nulla meno felice alle lettere fu l'imperodi Marco Aurelio soprannominato il filoso-

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Elogio di M. Aurelio.

fo, e di Lucio Vero, che adottati da Antonino per volerdi Adriano gli succederon nel trono l'an. 161; non giàche il secondo di essi recasse loro ornamento, o onorealcuno ch'egli, benchè avesse a maestri i più valenti gra-matici, retori e filosofi così greci come latini, che alloraerano in Roma, e benchè avesse continuamente al fiancomolti uomini eruditi, poca disposizion nondimeno aglistudj ricevuta avea dalla natura; e perciò, trattine alcuniversi e poscia alcune orazioni che giovinetto egli scris-se, e non troppo felicemente (seppure egli stesso lescrisse e non altri per lui come da alcuni si sospettava),egli non fece nelle scienze progresso alcuno (Capit. inejus Vita c. 2); e molto meno allor quando salitoall'impero abbandonossi liberamente a' più detestabilivizj. Ma Marco Aurelio degno successor d'Antonino, enelle virtù filosofiche migliore ancora del suo predeces-sore, seppe impedire il danno che dalla dissolutezza delsuo collega venir poteva all'impero. Io non so se in tuttal'antichità profana vi abbia un uomo che possa con luivenire a confronto. Tutte le virtù di un privato furono inlui congiunte a tutte le virtù di un sovrano. Modesto nel-la grandezza, sobrio nelle delicie, casto in mezzo a' pia-ceri, austero in mezzo agli agi fino a dormire sul terrennudo, fu al tempo medesimo guerrier valoroso, giudiceincorrotto, padre amantissimo de' suoi sudditi, e liberaleristoratore delle pubbliche e delle private calamità. Lasetta stoica, di cui volle essere rigoroso seguace, trasfu-se in lui ancora alquanto di quell'orgoglioso fasto che acotali filosofi era comune; e effetto di esso probabil-

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fo, e di Lucio Vero, che adottati da Antonino per volerdi Adriano gli succederon nel trono l'an. 161; non giàche il secondo di essi recasse loro ornamento, o onorealcuno ch'egli, benchè avesse a maestri i più valenti gra-matici, retori e filosofi così greci come latini, che alloraerano in Roma, e benchè avesse continuamente al fiancomolti uomini eruditi, poca disposizion nondimeno aglistudj ricevuta avea dalla natura; e perciò, trattine alcuniversi e poscia alcune orazioni che giovinetto egli scris-se, e non troppo felicemente (seppure egli stesso lescrisse e non altri per lui come da alcuni si sospettava),egli non fece nelle scienze progresso alcuno (Capit. inejus Vita c. 2); e molto meno allor quando salitoall'impero abbandonossi liberamente a' più detestabilivizj. Ma Marco Aurelio degno successor d'Antonino, enelle virtù filosofiche migliore ancora del suo predeces-sore, seppe impedire il danno che dalla dissolutezza delsuo collega venir poteva all'impero. Io non so se in tuttal'antichità profana vi abbia un uomo che possa con luivenire a confronto. Tutte le virtù di un privato furono inlui congiunte a tutte le virtù di un sovrano. Modesto nel-la grandezza, sobrio nelle delicie, casto in mezzo a' pia-ceri, austero in mezzo agli agi fino a dormire sul terrennudo, fu al tempo medesimo guerrier valoroso, giudiceincorrotto, padre amantissimo de' suoi sudditi, e liberaleristoratore delle pubbliche e delle private calamità. Lasetta stoica, di cui volle essere rigoroso seguace, trasfu-se in lui ancora alquanto di quell'orgoglioso fasto che acotali filosofi era comune; e effetto di esso probabil-

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mente si fu il rammentar ne' suoi libri, de' quali or orafavelleremo, alcune cose in sua lode, come di non averfatta cosa di cui avesse a pentirsi, di non essersi mai sot-tratto dal soccorrere a' poveri coll'usato pretesto di nonavere denaro (l. 1 de reb. suis), ed altre sì fatte cosech'egli attribuisce a beneficio degl'iddii, ma che migliorconsiglio sarebbe stato tacere modestamente. Egli non-dimeno, come afferma Galeno (l. de Prognost.) ch'era dique' tempi in Roma, egli ben conosceva quanto pochi vifossero veri filosofi, e la sperienza gli avea fatto cono-scere che la più parte erano uomini avari e superbi, eche altro non curavano che la lor gloria e il loro interes-se. Ma troppo è difficile all'uomo scorto dalla sola ra-gione guardarsi da que' difetti medesimi ch'ei ravvisa eriprende in altrui. Ciò non ostante, ei fu certamente ilpiù saggio tra' tutti gl'imperadori idolatri. Perciò che ap-partiene a' Cristiani, ei ne fu ostinato persecutore; e ilmiracolo celebre della pioggia al suo esercito ottenutadalle preghiere de' soldati cristiani sospese bensì per al-cun tempo la spada sopra essi levata, ma non estinsel'odio che contro di essi avea Marco Aurelio; il qualeper ciò appunto ch'era per falsa pietà adoratore supersti-zioso de' suoi iddii, credeva di dover aspramente punircoloro che ricusavan di riconoscerli e di adorarli. Non èqui luogo di parlare ampiamente di tali cose che potran-nosi vedere diligentemente esaminate dagli scrittori del-la Storia Ecclesiastica.

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mente si fu il rammentar ne' suoi libri, de' quali or orafavelleremo, alcune cose in sua lode, come di non averfatta cosa di cui avesse a pentirsi, di non essersi mai sot-tratto dal soccorrere a' poveri coll'usato pretesto di nonavere denaro (l. 1 de reb. suis), ed altre sì fatte cosech'egli attribuisce a beneficio degl'iddii, ma che migliorconsiglio sarebbe stato tacere modestamente. Egli non-dimeno, come afferma Galeno (l. de Prognost.) ch'era dique' tempi in Roma, egli ben conosceva quanto pochi vifossero veri filosofi, e la sperienza gli avea fatto cono-scere che la più parte erano uomini avari e superbi, eche altro non curavano che la lor gloria e il loro interes-se. Ma troppo è difficile all'uomo scorto dalla sola ra-gione guardarsi da que' difetti medesimi ch'ei ravvisa eriprende in altrui. Ciò non ostante, ei fu certamente ilpiù saggio tra' tutti gl'imperadori idolatri. Perciò che ap-partiene a' Cristiani, ei ne fu ostinato persecutore; e ilmiracolo celebre della pioggia al suo esercito ottenutadalle preghiere de' soldati cristiani sospese bensì per al-cun tempo la spada sopra essi levata, ma non estinsel'odio che contro di essi avea Marco Aurelio; il qualeper ciò appunto ch'era per falsa pietà adoratore supersti-zioso de' suoi iddii, credeva di dover aspramente punircoloro che ricusavan di riconoscerli e di adorarli. Non èqui luogo di parlare ampiamente di tali cose che potran-nosi vedere diligentemente esaminate dagli scrittori del-la Storia Ecclesiastica.

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III. Or un sì saggio principe fu coltivatoreindefesso ad un tempo e fomentatore gene-roso de' buoni studj. Egli avea spesso inbocca il detto celebre di Platone, che allorfiorite sarebbono le città, quando o regnas-

sero i filosofi, o i regnanti filosofassero (Capit. in ejusVita c. 27). Quindi con ogni cura attese e a coltivare eglistesso le scienze, e ad eccitarne al coltivamento i suoiRomani. Molti egli ebbe chiarissimi uomini di quel tem-po destinati ad istruirlo negli anni suoi giovanili, i cuinomi si posson vedere presso Giulio Capitolino (c. 2),anzi egli stesso ne ha fatta ne' suoi libri onorevol men-zione (l. 1 de reb. suis). I più celebri tra essi furono Ero-de Attico, Cornelio Frontone, Procolo, Giunio Rustico,Sesto di Cherona nipote di Plutarco, e Apollonio di Cal-cide tanto da lui onorato, che non si arrossì di frequen-tarne la casa anche imperadore (Capit. c. 4). A' suoimaestri mostrossi egli grato singolarmente; a Frontoneinnalzò una statua nel senato; Procolo fu da lui fattoproconsole; e per Giunio Rustico avea egli sì grande sti-ma ed affetto, che oltre l'averlo continuamente a suoconfidente, e l'innalzarlo due volte all'onore del consola-to, egli solea baciarlo pubblicamente innanzi a' prefettidel pretorio; e poichè fu morto, chiese al senato che glisi ergessero statue. Di tutti finalmente ei teneva le im-magini in oro tra quelle de' dei penati, e dopo lor morteofferiva al loro sepolcro vittime e sacrificj (ib. c. 2, 3,

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Quanto ei coltivasse efomentasse gli studj.

III. Or un sì saggio principe fu coltivatoreindefesso ad un tempo e fomentatore gene-roso de' buoni studj. Egli avea spesso inbocca il detto celebre di Platone, che allorfiorite sarebbono le città, quando o regnas-

sero i filosofi, o i regnanti filosofassero (Capit. in ejusVita c. 27). Quindi con ogni cura attese e a coltivare eglistesso le scienze, e ad eccitarne al coltivamento i suoiRomani. Molti egli ebbe chiarissimi uomini di quel tem-po destinati ad istruirlo negli anni suoi giovanili, i cuinomi si posson vedere presso Giulio Capitolino (c. 2),anzi egli stesso ne ha fatta ne' suoi libri onorevol men-zione (l. 1 de reb. suis). I più celebri tra essi furono Ero-de Attico, Cornelio Frontone, Procolo, Giunio Rustico,Sesto di Cherona nipote di Plutarco, e Apollonio di Cal-cide tanto da lui onorato, che non si arrossì di frequen-tarne la casa anche imperadore (Capit. c. 4). A' suoimaestri mostrossi egli grato singolarmente; a Frontoneinnalzò una statua nel senato; Procolo fu da lui fattoproconsole; e per Giunio Rustico avea egli sì grande sti-ma ed affetto, che oltre l'averlo continuamente a suoconfidente, e l'innalzarlo due volte all'onore del consola-to, egli solea baciarlo pubblicamente innanzi a' prefettidel pretorio; e poichè fu morto, chiese al senato che glisi ergessero statue. Di tutti finalmente ei teneva le im-magini in oro tra quelle de' dei penati, e dopo lor morteofferiva al loro sepolcro vittime e sacrificj (ib. c. 2, 3,

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Quanto ei coltivasse efomentasse gli studj.

4). Ma benchè a tutte le scienze egli si applicasse, prestonondimeno abbandonò l'eloquenza, la poesia e le bellelettere, per applicarsi unicamente alla filosofia; e tra' be-neficj, di cui egli rende grazie agl'iddii, annovera quellodi averlo prontamente distolto da tali studj (l. de reb.suis) che a lui doveano per avventura sembrare leggeretroppo e puerili. Tutto dunque ingolfatosi nella sua stoi-ca filosofia lascionne ancora a' posteri un pregevole mo-numento ne' dodici libri da lui scritti in greco, e intitolatiDelle cose sue, ne' quali egli altro non fa che esporre ipensieri, le riflessioni, le massime ch'egli secostesso an-dava meditando. Alcuni, e singolarmente il Boeclero(Bibliogr. crit.), taccian quest'opera come mancante diordine e di connessione; ma ella è cosa leggiadra il cer-care ordine e connessione, ove l'autore non ha volutousarla. Ma Marco Aurelio seguito poscia da più famosiscrittori ha voluto darci una raccolta de' suoi pensiericosì come gli venivano alla mente; nè ha mai preteso difare dissertazioni e trattati. Con qual diritto adunque sipretende da lui un ben ordinato e seguito ragionamento?Più giustamente gli si può dare l'accusa di superbia e difasto, ch'egli non seppe ne' suoi libri abbastanza dissi-mulare. Nel che però parmi che assai meno di Seneca eisia degno di riprensione. Di Marco Aurelio ha trattatoassai lungamente e non meno eruditamente il Bruckero(Hist. crit. Phil. t. 2, p. 578). Gli eruditi, pe' quali ioscrivo, non hanno bisogno di essere da me avvisati chel'opera sotto il nome di Marco Aurelio pubblicata dallospagnuolo Guevara col titolo di Orologio de' Principi è

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4). Ma benchè a tutte le scienze egli si applicasse, prestonondimeno abbandonò l'eloquenza, la poesia e le bellelettere, per applicarsi unicamente alla filosofia; e tra' be-neficj, di cui egli rende grazie agl'iddii, annovera quellodi averlo prontamente distolto da tali studj (l. de reb.suis) che a lui doveano per avventura sembrare leggeretroppo e puerili. Tutto dunque ingolfatosi nella sua stoi-ca filosofia lascionne ancora a' posteri un pregevole mo-numento ne' dodici libri da lui scritti in greco, e intitolatiDelle cose sue, ne' quali egli altro non fa che esporre ipensieri, le riflessioni, le massime ch'egli secostesso an-dava meditando. Alcuni, e singolarmente il Boeclero(Bibliogr. crit.), taccian quest'opera come mancante diordine e di connessione; ma ella è cosa leggiadra il cer-care ordine e connessione, ove l'autore non ha volutousarla. Ma Marco Aurelio seguito poscia da più famosiscrittori ha voluto darci una raccolta de' suoi pensiericosì come gli venivano alla mente; nè ha mai preteso difare dissertazioni e trattati. Con qual diritto adunque sipretende da lui un ben ordinato e seguito ragionamento?Più giustamente gli si può dare l'accusa di superbia e difasto, ch'egli non seppe ne' suoi libri abbastanza dissi-mulare. Nel che però parmi che assai meno di Seneca eisia degno di riprensione. Di Marco Aurelio ha trattatoassai lungamente e non meno eruditamente il Bruckero(Hist. crit. Phil. t. 2, p. 578). Gli eruditi, pe' quali ioscrivo, non hanno bisogno di essere da me avvisati chel'opera sotto il nome di Marco Aurelio pubblicata dallospagnuolo Guevara col titolo di Orologio de' Principi è

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una mera finzione.IV. Gli onori e i premi co' quali Antonino eMarco Aurelio ricompensarono gli uominidotti de' loro tempi, sembra che ravvivaredovessero il fervor de' Romani nel coltiva-re le scienze. E nondimeno si poco numero

abbiamo d'uomini a questa età celebri per sapere, se sene traggano i filosofi, e questi ancora per la più partestranieri. A dir vero, benchè questi due principi a tutti icoltivatori di qualunque genere di letteratura si mostras-sero favorevoli e liberali, chiaramente vedevasi nondi-meno ch'essi, e Marco Aurelio singolarmente, sopra tuttiavean in pregio i filosofi. Quindi non è maraviglia se,abbandonati gli altri studi, i più si volgessero alla filoso-fia, o almen mostrassero di coltivarla per far cosa grataa' sovrani. E così avvenne di fatto; poichè accenna Giu-lio Capitolino (c. 23) che molti al tempo di M. Aureliocredendo di potere sotto il filosofico pallio nascondereogni loro delitto, turbavano e sconvolgevano la repub-blica, e perciò fu d'uopo all'imperadore di usar diligenzaper conoscerli e punirli. Come poi il costume andavasiognor più corrompendo in Roma, e l'ardor concepito ne'tempi addietro pel coltivamento degli studi erasicoll'andar del tempo per le ragioni altre volte accennaterattepidito assai, perciò l'impegno di questi due impera-dori nel fomentare le scienze non ebbe gran forza se nontra' Greci, i quali venendo a Roma singolarmente perfarvi pompa del lor sapere, godevano volentieri di sì op-

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Ciò non ostante la let-teratura sem-pre più illan-guidisce.

una mera finzione.IV. Gli onori e i premi co' quali Antonino eMarco Aurelio ricompensarono gli uominidotti de' loro tempi, sembra che ravvivaredovessero il fervor de' Romani nel coltiva-re le scienze. E nondimeno si poco numero

abbiamo d'uomini a questa età celebri per sapere, se sene traggano i filosofi, e questi ancora per la più partestranieri. A dir vero, benchè questi due principi a tutti icoltivatori di qualunque genere di letteratura si mostras-sero favorevoli e liberali, chiaramente vedevasi nondi-meno ch'essi, e Marco Aurelio singolarmente, sopra tuttiavean in pregio i filosofi. Quindi non è maraviglia se,abbandonati gli altri studi, i più si volgessero alla filoso-fia, o almen mostrassero di coltivarla per far cosa grataa' sovrani. E così avvenne di fatto; poichè accenna Giu-lio Capitolino (c. 23) che molti al tempo di M. Aureliocredendo di potere sotto il filosofico pallio nascondereogni loro delitto, turbavano e sconvolgevano la repub-blica, e perciò fu d'uopo all'imperadore di usar diligenzaper conoscerli e punirli. Come poi il costume andavasiognor più corrompendo in Roma, e l'ardor concepito ne'tempi addietro pel coltivamento degli studi erasicoll'andar del tempo per le ragioni altre volte accennaterattepidito assai, perciò l'impegno di questi due impera-dori nel fomentare le scienze non ebbe gran forza se nontra' Greci, i quali venendo a Roma singolarmente perfarvi pompa del lor sapere, godevano volentieri di sì op-

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Ciò non ostante la let-teratura sem-pre più illan-guidisce.

portuna occasione per salire agli onori e per radunar lericchezze a cui aspiravano. Nondimeno se gli altri impe-radori che venner dopo avesser seguite le vestigia diquesti due gloriosi loro predecessori, Roma forse si sa-rebbe riscossa, e come nello stato civile così ancor nelletterario si sarebbono rinnovati i lieti tempi d'Augusto.Ma Marco Aurelio ebbe la sventura di avere un figlio eun successore troppo da sè diverso.

V. Fu questi Comodo che l'an. 180 succedu-to nell'impero a Marco Aurelio suo padre(Lucio Vero era già morto d'apoplesia l'an.169) rinnovò gli orrori de' Tiberj, de' Nero-ni, e de' Domiziani, de' quali uguagliò e su-però forse ancora la crudeltà non meno chele brutali disonestà. Marco Aurelio suo pa-

dre aveagli posto al fianco per istruirlo nelle lettere al-cuni de' più dotti uomini che fossero in Roma; ma tuttiquesti maestri, dice Lampridio (in Comm. c. 1), non gligiovarono punto; nè egli di altro occupossi giammai chedel libero sfogo di tutte le sue passioni. Ei fu ucciso l'an.193, per congiura dei suoi più fidi, poichè essi si avvide-ro ch'egli risoluta avea ancora la loro morte. Gli succe-dette Elvio Pertinace uomo di vil condizione, perciocchèfiglio di un venditore di legna. Qual luogo sia la Villa diMarte sull'Appennino in cui egli nacque, e se apparten-ga al Monferrato, o alla Liguria, non è cosa agevole adiffinire, nè è di quest'opera l'esaminarlo. Egli non

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Il regno di Comodo, diPertinace e di Didio Giuliano poco favo-revole a' dotti.

portuna occasione per salire agli onori e per radunar lericchezze a cui aspiravano. Nondimeno se gli altri impe-radori che venner dopo avesser seguite le vestigia diquesti due gloriosi loro predecessori, Roma forse si sa-rebbe riscossa, e come nello stato civile così ancor nelletterario si sarebbono rinnovati i lieti tempi d'Augusto.Ma Marco Aurelio ebbe la sventura di avere un figlio eun successore troppo da sè diverso.

V. Fu questi Comodo che l'an. 180 succedu-to nell'impero a Marco Aurelio suo padre(Lucio Vero era già morto d'apoplesia l'an.169) rinnovò gli orrori de' Tiberj, de' Nero-ni, e de' Domiziani, de' quali uguagliò e su-però forse ancora la crudeltà non meno chele brutali disonestà. Marco Aurelio suo pa-

dre aveagli posto al fianco per istruirlo nelle lettere al-cuni de' più dotti uomini che fossero in Roma; ma tuttiquesti maestri, dice Lampridio (in Comm. c. 1), non gligiovarono punto; nè egli di altro occupossi giammai chedel libero sfogo di tutte le sue passioni. Ei fu ucciso l'an.193, per congiura dei suoi più fidi, poichè essi si avvide-ro ch'egli risoluta avea ancora la loro morte. Gli succe-dette Elvio Pertinace uomo di vil condizione, perciocchèfiglio di un venditore di legna. Qual luogo sia la Villa diMarte sull'Appennino in cui egli nacque, e se apparten-ga al Monferrato, o alla Liguria, non è cosa agevole adiffinire, nè è di quest'opera l'esaminarlo. Egli non

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Il regno di Comodo, diPertinace e di Didio Giuliano poco favo-revole a' dotti.

ostante la bassezza della sua nascita apprese i primi ele-menti e l'aritmetica, e quindi la lingua greca ancora e iprecetti dell'eloquenza. Anzi egli stesso per alcun tempotenne scuola di gramatica in Roma (Capit. in Pertin. c.1). Ma sembrandogli questo esercizio sterile e infruttuo-so, gittati i libri si diè all'armi; e dopo varie vicende fat-to prefetto di Roma, venne quindi innalzato all'imperialdignità. Un gramatico divenuto imperadore sarebbe sta-to probabilmente favorevole alla letteratura. Ma la giu-sta severità del suo impero irritò i pretoriani avvezzi anon soffrir legge alcuna; e fu da essi ucciso dopo tre noninteri mesi di regno. Di pochi giorni più lungo fu l'impe-ro di Didio Giuliano milanese di patria, e pronipote delcelebre giurec. Salvio Giuliano, di cui altrove abbiamfavellato. Ei comperò l'impero da' pretoriani; ma allorafu che cominciarono a vedersi quelle sollevazioni or inuna or in altra provincia, che furon poscia quasi conti-nue, sorgendo da ogni parte uomini ambiziosi della im-periale corona, che formandosi un numeroso partito sivolgevano contro de' loro rivali, e colle stragi si disputa-van lo scettro. A me non appartiene il far menzione ditutti; ma basterammi l'accennare quelli a cui venne fattodi stabilirsi sul trono.

VI. Settimio Severo fu il successor di Giu-liano ucciso dopo tre mesi e sei giornid'impero. Era egli nato in Lepti città dellaLibia. Dione dice (in Excerptis) ch'egli era

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Carattere diSettimio Severo.

ostante la bassezza della sua nascita apprese i primi ele-menti e l'aritmetica, e quindi la lingua greca ancora e iprecetti dell'eloquenza. Anzi egli stesso per alcun tempotenne scuola di gramatica in Roma (Capit. in Pertin. c.1). Ma sembrandogli questo esercizio sterile e infruttuo-so, gittati i libri si diè all'armi; e dopo varie vicende fat-to prefetto di Roma, venne quindi innalzato all'imperialdignità. Un gramatico divenuto imperadore sarebbe sta-to probabilmente favorevole alla letteratura. Ma la giu-sta severità del suo impero irritò i pretoriani avvezzi anon soffrir legge alcuna; e fu da essi ucciso dopo tre noninteri mesi di regno. Di pochi giorni più lungo fu l'impe-ro di Didio Giuliano milanese di patria, e pronipote delcelebre giurec. Salvio Giuliano, di cui altrove abbiamfavellato. Ei comperò l'impero da' pretoriani; ma allorafu che cominciarono a vedersi quelle sollevazioni or inuna or in altra provincia, che furon poscia quasi conti-nue, sorgendo da ogni parte uomini ambiziosi della im-periale corona, che formandosi un numeroso partito sivolgevano contro de' loro rivali, e colle stragi si disputa-van lo scettro. A me non appartiene il far menzione ditutti; ma basterammi l'accennare quelli a cui venne fattodi stabilirsi sul trono.

VI. Settimio Severo fu il successor di Giu-liano ucciso dopo tre mesi e sei giornid'impero. Era egli nato in Lepti città dellaLibia. Dione dice (in Excerptis) ch'egli era

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Carattere diSettimio Severo.

oriondo delle Gallie; Sparziano (in Sev. c. 1), che i suoimaggiori erano cavalieri romani. Checchè ne fosse, eglifu diligentemente istruito nella greca e nella latina lette-ratura; e in età di diciotto anni cominciò a declamarepubblicamente (Spart. ib.). Quindi sen venne a Romaper attendere più facilmente agli studj (ib.); e dopo aversostenute in più provincie le onorevoli cariche, viaggiòad Atene singolarmente per acquistar nuove cognizioni,e per vedere i monumenti d'antichità, di cui quella cittàera adorna (ib. c. 3). A tutti in somma gli studj ei si ri-volse con non ordinario fervore; benchè Dione affermi(l. c.) ch'egli avea più passione che talento per coltivarli.Avea egli stesso composta la Storia della sua vita, cheda Dione (l. 75) e da Sparziano (in Sev. c. 3) talvoltaviene citata, ma di essa non ci è rimasto pure un fram-mento. Il suo impero avrebbe potuto alle scienze recarevantaggio e lustro, se un'indomabile crudeltà non loavesse renduto oggetto di orrore a tutti, e oscurato losplendore delle molte e non ordinarie virtù che in lui sivedevano. Giulia Donna sua moglie, i cui costumi noneran troppo lodevoli, volle almeno farsi gran nome colproteggere i dotti. Quindi ella avea sempre al fianco fi-losofi, sofisti, geometri ed altri uomini eruditi d'ognimaniera (Philostr. in Vita Apollon. l. 1, c. 3); ed a lei sin-golarmente dobbiamo la famosa storia ossia il romanzodell'impostore Apollonio Tianeo, che a sua istanza scrit-ta fu da Filostrato, uno de' filosofi da lei favoriti.

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oriondo delle Gallie; Sparziano (in Sev. c. 1), che i suoimaggiori erano cavalieri romani. Checchè ne fosse, eglifu diligentemente istruito nella greca e nella latina lette-ratura; e in età di diciotto anni cominciò a declamarepubblicamente (Spart. ib.). Quindi sen venne a Romaper attendere più facilmente agli studj (ib.); e dopo aversostenute in più provincie le onorevoli cariche, viaggiòad Atene singolarmente per acquistar nuove cognizioni,e per vedere i monumenti d'antichità, di cui quella cittàera adorna (ib. c. 3). A tutti in somma gli studj ei si ri-volse con non ordinario fervore; benchè Dione affermi(l. c.) ch'egli avea più passione che talento per coltivarli.Avea egli stesso composta la Storia della sua vita, cheda Dione (l. 75) e da Sparziano (in Sev. c. 3) talvoltaviene citata, ma di essa non ci è rimasto pure un fram-mento. Il suo impero avrebbe potuto alle scienze recarevantaggio e lustro, se un'indomabile crudeltà non loavesse renduto oggetto di orrore a tutti, e oscurato losplendore delle molte e non ordinarie virtù che in lui sivedevano. Giulia Donna sua moglie, i cui costumi noneran troppo lodevoli, volle almeno farsi gran nome colproteggere i dotti. Quindi ella avea sempre al fianco fi-losofi, sofisti, geometri ed altri uomini eruditi d'ognimaniera (Philostr. in Vita Apollon. l. 1, c. 3); ed a lei sin-golarmente dobbiamo la famosa storia ossia il romanzodell'impostore Apollonio Tianeo, che a sua istanza scrit-ta fu da Filostrato, uno de' filosofi da lei favoriti.

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VII. Benchè la crudeltà di Settimio Severolo avesse fatto esecrabile a' suoi Romani,poichè ei nondimeno fu morto l'an. 211, e fulevato sul trono Bassiano Caracalla di lui fi-gliuolo, ognuno avrebbe voluto ch'egli an-

cora vivesse; tanto più crudele del padre mostrossi il fi-glio, senza avere alcuna di quelle virtù che in qualchemaniera temperavano la crudeltà di Severo. I primi sag-gi ch'egli ne diede, furono l'uccisione di Plautilla suamoglie, di Plauzio suo cognato, e del suo fratello e col-lega Geta. Quindi è facile a conghietturare qual fossecontro gli altri, chi era sì brutale verso de' suoi. Il suo re-gno non fu che un continuo esercizio della più barbaracrudeltà che non ebbe riguardo a' più celebri personaggidi quel tempo; poichè nel numero degli uccisi si videancora il famoso giurec. Papiniano. Il solo di cui si leg-ga che fosse da Caracalla onorato e ricompensato pelsuo sapere, è Oppiano poeta greco di Anazarbo nella Ci-licia, autore de' due poemi che ancor ci rimangono, dellaPesca e della Caccia. Questi avendo seguito suo padreche da Settimio Severo era stato rilegato nell'isola diMalta, o in quella di Meleda, come altri vogliono, venu-to poscia a Roma offerì a Caracalla le sue poesie, dellequali mostrò egli gradimento sì grande, che non solo glipermise di tornarsene alla sua patria col padre, ma quan-ti erano i versi, di tante monete di oro gli fece dono.Così si narra in un'antica Vita di Oppiano, che suol pre-

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Di Caracal-la, di Ma-crino e di Eliogabalo.

VII. Benchè la crudeltà di Settimio Severolo avesse fatto esecrabile a' suoi Romani,poichè ei nondimeno fu morto l'an. 211, e fulevato sul trono Bassiano Caracalla di lui fi-gliuolo, ognuno avrebbe voluto ch'egli an-

cora vivesse; tanto più crudele del padre mostrossi il fi-glio, senza avere alcuna di quelle virtù che in qualchemaniera temperavano la crudeltà di Severo. I primi sag-gi ch'egli ne diede, furono l'uccisione di Plautilla suamoglie, di Plauzio suo cognato, e del suo fratello e col-lega Geta. Quindi è facile a conghietturare qual fossecontro gli altri, chi era sì brutale verso de' suoi. Il suo re-gno non fu che un continuo esercizio della più barbaracrudeltà che non ebbe riguardo a' più celebri personaggidi quel tempo; poichè nel numero degli uccisi si videancora il famoso giurec. Papiniano. Il solo di cui si leg-ga che fosse da Caracalla onorato e ricompensato pelsuo sapere, è Oppiano poeta greco di Anazarbo nella Ci-licia, autore de' due poemi che ancor ci rimangono, dellaPesca e della Caccia. Questi avendo seguito suo padreche da Settimio Severo era stato rilegato nell'isola diMalta, o in quella di Meleda, come altri vogliono, venu-to poscia a Roma offerì a Caracalla le sue poesie, dellequali mostrò egli gradimento sì grande, che non solo glipermise di tornarsene alla sua patria col padre, ma quan-ti erano i versi, di tante monete di oro gli fece dono.Così si narra in un'antica Vita di Oppiano, che suol pre-

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Di Caracal-la, di Ma-crino e di Eliogabalo.

mettersi a' suoi poemi, da Suida e da qualche altro stori-co non molto antico, l'autorità de' quali non so se basti apersuaderci di un fatto che dall'indole di Caracalla sirende poco probabile. Ma ancorchè ciò fosse veramenteavvenuto, un tal esempio poco giovar poteva ad avviva-re agli studj in mezzo a tanti altri esempj di crudeltà e dibarbarie, che sotto l'impero di Caracalla si videro inRoma. Molto più ch'egli, benchè Severo lo avesse fattodiligentemente istruir nelle scienze, non mai però erasiad esse applicato (Dio l. 77). Anzi contro i filosofi se-guaci di Aristotele egli era sdegnato per modo, che tolseloro quanti luoghi di radunanze aveano in Alessandria, eavrebbe voluto dare alle fiamme i libri tutti di quel fa-moso filosofo, perchè pazzamente diceva che della mor-te di Alessandro egli era stato colpevole (ib.). Macrinouccisore e successore di Caracalla l'an. 217 avrebbe for-se ancor più di lui travagliato l'impero; ma ucciso dopocirca un anno di regno, lasciò il trono ad Antonino Elio-gabalo o Elagabalo nipote di Settimio Severo per partedi Giulia Soemia sua madre, figlia di Giulia Mesa ch'erasorella di Giulia Donna moglie del detto imperadore.Principe più dissoluto non occupò giammai il trono de'Cesari; e la crudeltà non ne fu punto inferiore a quellade' più crudeli imperadori. Ma non molto tempo ebbe asfogarla, ucciso l'an. 222 dopo quasi quattro annid'impero, contandone egli soli diciotto di età.

VIII. Era ormai tempo che salisse sul tro-

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Alessandro Se-vero si sforza di far risorger gli studj.

mettersi a' suoi poemi, da Suida e da qualche altro stori-co non molto antico, l'autorità de' quali non so se basti apersuaderci di un fatto che dall'indole di Caracalla sirende poco probabile. Ma ancorchè ciò fosse veramenteavvenuto, un tal esempio poco giovar poteva ad avviva-re agli studj in mezzo a tanti altri esempj di crudeltà e dibarbarie, che sotto l'impero di Caracalla si videro inRoma. Molto più ch'egli, benchè Severo lo avesse fattodiligentemente istruir nelle scienze, non mai però erasiad esse applicato (Dio l. 77). Anzi contro i filosofi se-guaci di Aristotele egli era sdegnato per modo, che tolseloro quanti luoghi di radunanze aveano in Alessandria, eavrebbe voluto dare alle fiamme i libri tutti di quel fa-moso filosofo, perchè pazzamente diceva che della mor-te di Alessandro egli era stato colpevole (ib.). Macrinouccisore e successore di Caracalla l'an. 217 avrebbe for-se ancor più di lui travagliato l'impero; ma ucciso dopocirca un anno di regno, lasciò il trono ad Antonino Elio-gabalo o Elagabalo nipote di Settimio Severo per partedi Giulia Soemia sua madre, figlia di Giulia Mesa ch'erasorella di Giulia Donna moglie del detto imperadore.Principe più dissoluto non occupò giammai il trono de'Cesari; e la crudeltà non ne fu punto inferiore a quellade' più crudeli imperadori. Ma non molto tempo ebbe asfogarla, ucciso l'an. 222 dopo quasi quattro annid'impero, contandone egli soli diciotto di età.

VIII. Era ormai tempo che salisse sul tro-

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Alessandro Se-vero si sforza di far risorger gli studj.

no un principe da cui Roma sperar potesse finalmentesicurezza e pace. E tal fu il giovane Alessandro Severo.Era egli figlio della celebre Giulia Mammea sorella del-la madre di Eliogabalo, che da molti autori si crede conassai probabile fondamento che fosse cristiana (V. Til-lem. mém. des Emper. Vie d'Alex.). L'educazione ch'elladiede ad Alessandro, fu la più saggia che una madrepossa dare ad un figlio destinato a regnare; e il fruttoche Alessandro ne trasse, corrispose perfettamenteall'intenzione e al desiderio dell'ottima madre. Salito altrono in età di tredici anni, sotto la direzione di Mam-mea e di Mesa sua avola e di tre consiglieri di sommaprudenza, resse l'impero per tal maniera, ch'ei parve dalciel mandato a ristorarne i passati danni. Le virtù diTito, di Traiano, di Antonino, di Marco Aurelio si viderrivivere in Alessandro con tanto maggior suo onore,quanto egli era di essi più giovane assai. Ma le scienzesingolarmente trovarono in lui un coltivator diligente eun magnanimo protettore. I maestri, che in esse egliebbe, furono i più dotti uomini che allor fossero inRoma, e da essi venne istruito nella greca e nella latinaletteratura. Egli però nella prima fece più felici progres-si che nella seconda (Lampr. in Alex. c. 3). Ma tutti idotti di qualunque nazione fossero aveva cari, tenevalidi continuo al fianco, e rendeva loro non ordinarj onori,anche perchè, dice Lampridio (ib.) egli temeva ch'essine' loro libri non inserissero alcuna cosa contro il suonome. Il lor parere voleva egli intendere, quando siavesse a decider di affar rilevante; e in occasione di

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no un principe da cui Roma sperar potesse finalmentesicurezza e pace. E tal fu il giovane Alessandro Severo.Era egli figlio della celebre Giulia Mammea sorella del-la madre di Eliogabalo, che da molti autori si crede conassai probabile fondamento che fosse cristiana (V. Til-lem. mém. des Emper. Vie d'Alex.). L'educazione ch'elladiede ad Alessandro, fu la più saggia che una madrepossa dare ad un figlio destinato a regnare; e il fruttoche Alessandro ne trasse, corrispose perfettamenteall'intenzione e al desiderio dell'ottima madre. Salito altrono in età di tredici anni, sotto la direzione di Mam-mea e di Mesa sua avola e di tre consiglieri di sommaprudenza, resse l'impero per tal maniera, ch'ei parve dalciel mandato a ristorarne i passati danni. Le virtù diTito, di Traiano, di Antonino, di Marco Aurelio si viderrivivere in Alessandro con tanto maggior suo onore,quanto egli era di essi più giovane assai. Ma le scienzesingolarmente trovarono in lui un coltivator diligente eun magnanimo protettore. I maestri, che in esse egliebbe, furono i più dotti uomini che allor fossero inRoma, e da essi venne istruito nella greca e nella latinaletteratura. Egli però nella prima fece più felici progres-si che nella seconda (Lampr. in Alex. c. 3). Ma tutti idotti di qualunque nazione fossero aveva cari, tenevalidi continuo al fianco, e rendeva loro non ordinarj onori,anche perchè, dice Lampridio (ib.) egli temeva ch'essine' loro libri non inserissero alcuna cosa contro il suonome. Il lor parere voleva egli intendere, quando siavesse a decider di affar rilevante; e in occasione di

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guerre trattenevasi volentieri co' vecchi soldati e cogliuomini versati nelle antiche storie, per sapere da essiqual fosse stata in somiglianti occasioni la condotta de'più celebri generali (id. c. 16). In guerra ugualmente chein pace avea destinate alcune ore del giorno alla letturasingolarmente de' libri greci, fra' quali sopra tutti piace-vagli la Repubblica di Platone: talvolta però faceva usoancor degli oratori e de' poeti latini, e singolarmente del-le poesie di Sereno Samonico cui egli avea conosciutoed amato assai, e di Orazio (id c. 30). Anzi alla mensaancora egli o teneva seco alcun libro, e univa al cibo lostudio, o almeno voleva che uomini dotti gli assistesse-ro, e gli tenessero eruditi ragionamenti (id. c. 34). DiVirgilio ancora e di Cicerone avea sì grande stima, chene teneva le immagini tra quelle de' più famosi eroi (id.c. 31). Egli stesso esercitossi nella poesia, e alcune Vitedei migliori imperadori scrisse in versi (id. c. 27). Nèsolo le umane lettere, ma le scienze ancora e le arti tuttefuron da lui coltivate. Egli era versato nella geometria,nella pittura, nella musica e in tutti gli esercizj cavalle-reschi, e nel canto e nel suono di molti stromenti era ec-cellente, benchè, lontano dall'imitare la capricciosa leg-gerezza di Nerone, egli non ne usasse giammai se nonco' suoi paggì (ib.). Non pago d'istruirsi nelle scienze enell'arti, cercava di risvegliarne negli altri desiderio estima. Quindi udiva spesso gli oratori e i poeti, non giàse alcun panegirico avesser voluto fare in sua lode,ch'egli nol sofferiva, ma quando recitavano le loro ora-zioni, o i lor poemi, singolarmente se ad argomento di

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guerre trattenevasi volentieri co' vecchi soldati e cogliuomini versati nelle antiche storie, per sapere da essiqual fosse stata in somiglianti occasioni la condotta de'più celebri generali (id. c. 16). In guerra ugualmente chein pace avea destinate alcune ore del giorno alla letturasingolarmente de' libri greci, fra' quali sopra tutti piace-vagli la Repubblica di Platone: talvolta però faceva usoancor degli oratori e de' poeti latini, e singolarmente del-le poesie di Sereno Samonico cui egli avea conosciutoed amato assai, e di Orazio (id c. 30). Anzi alla mensaancora egli o teneva seco alcun libro, e univa al cibo lostudio, o almeno voleva che uomini dotti gli assistesse-ro, e gli tenessero eruditi ragionamenti (id. c. 34). DiVirgilio ancora e di Cicerone avea sì grande stima, chene teneva le immagini tra quelle de' più famosi eroi (id.c. 31). Egli stesso esercitossi nella poesia, e alcune Vitedei migliori imperadori scrisse in versi (id. c. 27). Nèsolo le umane lettere, ma le scienze ancora e le arti tuttefuron da lui coltivate. Egli era versato nella geometria,nella pittura, nella musica e in tutti gli esercizj cavalle-reschi, e nel canto e nel suono di molti stromenti era ec-cellente, benchè, lontano dall'imitare la capricciosa leg-gerezza di Nerone, egli non ne usasse giammai se nonco' suoi paggì (ib.). Non pago d'istruirsi nelle scienze enell'arti, cercava di risvegliarne negli altri desiderio estima. Quindi udiva spesso gli oratori e i poeti, non giàse alcun panegirico avesser voluto fare in sua lode,ch'egli nol sofferiva, ma quando recitavano le loro ora-zioni, o i lor poemi, singolarmente se ad argomento di

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essi prendeano la storia d'Alessandro il Macedone, o leazioni di alcuno de' più virtuosi imperadori; e a tal finerecavasi egli spesso or al pubblico Ateneo, ove i retori ei poeti greci e latini recitavano i loro componimenti, oral Foro, ove si trattavan le cause (id. c. 35). Finalmenteaprendo a vantaggio delle scienze il suo erario egli conregia munificenza nuove scuole fondò di rettorica, dimedicina, di meccanica, d'architettura; e assegnò stipen-dj non solo a' professori di tutte queste arti, ma ancora a'fanciulli poveri di onesta condizione, perchè potesseroapprenderle, e agli avvocati nelle provincie, i quali trat-tassero gratuitamente le cause (id. c. 44). Così tra lescienze da sè coltivate e protette non avesse egli datoluogo ancora all'astrologia giudiciaria! Ma era questo unerrore troppo allor radicato negli animi de' Romani, edera troppo difficile il tenersi lontan da uno scoglio a cuiquasi tutti urtavano anche i più dotti uomini di quel tem-po.

IX. Era egli a temersi che un sì saggio e siamabile principe nel più bel fiore della suavita dovesse rimaner trucidato barbaramen-te? E nondimeno tal fu l'infelice sorte diAlessandro Severo ucciso nel suo campopresso Magonza da' suoi soldati impazientidella militar disciplina, a cui egli volea sog-

gettarli, in età di soli ventisei anni insieme con Mammeasua madre l'an. 235. Massimino che fu da' soldati tumul-

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Caratteredegli altriimperadorida Massi-mino fino aGordiano ilgiovane.

essi prendeano la storia d'Alessandro il Macedone, o leazioni di alcuno de' più virtuosi imperadori; e a tal finerecavasi egli spesso or al pubblico Ateneo, ove i retori ei poeti greci e latini recitavano i loro componimenti, oral Foro, ove si trattavan le cause (id. c. 35). Finalmenteaprendo a vantaggio delle scienze il suo erario egli conregia munificenza nuove scuole fondò di rettorica, dimedicina, di meccanica, d'architettura; e assegnò stipen-dj non solo a' professori di tutte queste arti, ma ancora a'fanciulli poveri di onesta condizione, perchè potesseroapprenderle, e agli avvocati nelle provincie, i quali trat-tassero gratuitamente le cause (id. c. 44). Così tra lescienze da sè coltivate e protette non avesse egli datoluogo ancora all'astrologia giudiciaria! Ma era questo unerrore troppo allor radicato negli animi de' Romani, edera troppo difficile il tenersi lontan da uno scoglio a cuiquasi tutti urtavano anche i più dotti uomini di quel tem-po.

IX. Era egli a temersi che un sì saggio e siamabile principe nel più bel fiore della suavita dovesse rimaner trucidato barbaramen-te? E nondimeno tal fu l'infelice sorte diAlessandro Severo ucciso nel suo campopresso Magonza da' suoi soldati impazientidella militar disciplina, a cui egli volea sog-

gettarli, in età di soli ventisei anni insieme con Mammeasua madre l'an. 235. Massimino che fu da' soldati tumul-

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Caratteredegli altriimperadorida Massi-mino fino aGordiano ilgiovane.

tuosamente levato al trono, fu il principal autore di sìbarbaro attentato. Era egli di vilissima nascita, ed aveaper più anni condotte al pascolo le pecore. Poscia entra-to nella milizia, era successivamente salito alle primariecariche dell'impero. Egli lo resse appunto come potevaaspettarsi da un pecoraio. Feroce, crudele, avaro ful'oggetto dell'odio e del disprezzo di tutti. Quindi con-giure e sollevazioni da ogni parte. I due Gordiani padree figlio proclamati imperadori in Affrica, ma poco dopouccisi, il secondo in battaglia, il primo per disperazioneda se medesimo: Puppieno Massimo e Celio Balbino(che da Giulio Capitolino vien detto (in Max. et Balb. c.7) il miglior poeta de' tempi suoi) sollevati al medesimotempo all'imperial dignità dal senato, e ad essi per volerdel popolo aggiunto col nome di Cesare il terzo Gordia-no: ucciso poscia da' lor soldati l'an. 238 Massimino in-sieme con suo figliuolo dello stesso nome, e uccisi purenello stesso anno da' soldati pretoriani i due imperadoriMassimo e Balbino, rimase finalmente solo sul trono ilgiovane Gordiano. Era egli secondo alcuni, figlio del se-condo Gordiano, secondo altri, figlio di una figlia delprimo. Comunque fosse, fu egli principe amabile, e chesotto la condotta di Misiteo suo zio resse lodevolmentel'impero. Avea egli coltivate felicemente le scienze (Jul.Capit. in Gordianis c. 31), ed è probabile ch'ei fosse diciò debitore agli altri due Gordiani; poichè del primosappiamo ch'era uomo di continuo studio, e che moltepoesie da lui composte aveansi in pregio, e singolar-mente un poema in trenta libri in lode di Antonino e di

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tuosamente levato al trono, fu il principal autore di sìbarbaro attentato. Era egli di vilissima nascita, ed aveaper più anni condotte al pascolo le pecore. Poscia entra-to nella milizia, era successivamente salito alle primariecariche dell'impero. Egli lo resse appunto come potevaaspettarsi da un pecoraio. Feroce, crudele, avaro ful'oggetto dell'odio e del disprezzo di tutti. Quindi con-giure e sollevazioni da ogni parte. I due Gordiani padree figlio proclamati imperadori in Affrica, ma poco dopouccisi, il secondo in battaglia, il primo per disperazioneda se medesimo: Puppieno Massimo e Celio Balbino(che da Giulio Capitolino vien detto (in Max. et Balb. c.7) il miglior poeta de' tempi suoi) sollevati al medesimotempo all'imperial dignità dal senato, e ad essi per volerdel popolo aggiunto col nome di Cesare il terzo Gordia-no: ucciso poscia da' lor soldati l'an. 238 Massimino in-sieme con suo figliuolo dello stesso nome, e uccisi purenello stesso anno da' soldati pretoriani i due imperadoriMassimo e Balbino, rimase finalmente solo sul trono ilgiovane Gordiano. Era egli secondo alcuni, figlio del se-condo Gordiano, secondo altri, figlio di una figlia delprimo. Comunque fosse, fu egli principe amabile, e chesotto la condotta di Misiteo suo zio resse lodevolmentel'impero. Avea egli coltivate felicemente le scienze (Jul.Capit. in Gordianis c. 31), ed è probabile ch'ei fosse diciò debitore agli altri due Gordiani; poichè del primosappiamo ch'era uomo di continuo studio, e che moltepoesie da lui composte aveansi in pregio, e singolar-mente un poema in trenta libri in lode di Antonino e di

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Marco Aurelio (ib. c. 3, 7); e del secondo ancora sappia-mo che grande fama ottenne negli studj d'ogni maniera(ib. c. 18), e che da Sereno Samonico il giovane gli fuper testamento lasciata la biblioteca di sessantaduemilavolumi, ch'egli da suo padre avea ricevuto (ib. c. 20).Capitolino rammenta ancora alcuni componimenti inprosa e in versi da lui composti, tali, egli dice (ib. c. 20),che appaion d'uomo ingegnoso, ma troppo libero, e chenon segue il suo proprio ingegno.

X. Gordiano terzo ebbe egli pur breve regnoucciso da' soldati l'an. 244 per suggestion diFilippo prefetto del pretorio in età di soli di-ciannove anni. Filippo che coll'uccision di

Gordiano si aprì la strada all'impero, era, secondo il pa-rer di molti, cristiano (V. Tillem. Hist. des Emper. note 1sur Philippe). Ma se così fu veramente, la sua condottanon fu certo conforme alla sua religione. Non troviamoche cosa alcuna ei facesse a pro delle lettere; anzi unasua legge si cita nel Codice di Gustiniano (Cod. l. 10,tit. 52, lex 3), in cui comanda che a' poeti non debbasiconcedere immunità di sorte alcuna. Egli ancora peròebbe somigliante sorte a quella che per lui avea incon-trata Gordiano, perciocchè essendosi Decio contro di luisollevato l'an. 249, venuti i due partiti a battaglia pressoVerona, Filippo vi fu sconfitto ed ucciso. Due anni solipotè Decio godere dell'usurpato impero; e benchè alcuniantichi scrittori ci parlin di lui come di principe ornato

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Da Gordia-no III fino aValeriano.

Marco Aurelio (ib. c. 3, 7); e del secondo ancora sappia-mo che grande fama ottenne negli studj d'ogni maniera(ib. c. 18), e che da Sereno Samonico il giovane gli fuper testamento lasciata la biblioteca di sessantaduemilavolumi, ch'egli da suo padre avea ricevuto (ib. c. 20).Capitolino rammenta ancora alcuni componimenti inprosa e in versi da lui composti, tali, egli dice (ib. c. 20),che appaion d'uomo ingegnoso, ma troppo libero, e chenon segue il suo proprio ingegno.

X. Gordiano terzo ebbe egli pur breve regnoucciso da' soldati l'an. 244 per suggestion diFilippo prefetto del pretorio in età di soli di-ciannove anni. Filippo che coll'uccision di

Gordiano si aprì la strada all'impero, era, secondo il pa-rer di molti, cristiano (V. Tillem. Hist. des Emper. note 1sur Philippe). Ma se così fu veramente, la sua condottanon fu certo conforme alla sua religione. Non troviamoche cosa alcuna ei facesse a pro delle lettere; anzi unasua legge si cita nel Codice di Gustiniano (Cod. l. 10,tit. 52, lex 3), in cui comanda che a' poeti non debbasiconcedere immunità di sorte alcuna. Egli ancora peròebbe somigliante sorte a quella che per lui avea incon-trata Gordiano, perciocchè essendosi Decio contro di luisollevato l'an. 249, venuti i due partiti a battaglia pressoVerona, Filippo vi fu sconfitto ed ucciso. Due anni solipotè Decio godere dell'usurpato impero; e benchè alcuniantichi scrittori ci parlin di lui come di principe ornato

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Da Gordia-no III fino aValeriano.

di non ordinaria virtù, certo è nondimeno che la sangui-nosa persecuzione da lui mossa contro de' Cristiani celmostra uom trasportato e crudele. Egli morì l'an. 251combattendo contro de' Goti o da essi ucciso, o, comealtri scrivono, affogato in una palude. Due anni soli pa-rimente occupò l'imperial trono Treboniano Gallo ucci-so col suo figliuol Volusiano dai suoi soldati medesimi,dacchè Emiliano si fu contro di lui sollevato; ucciso egliancor poco dopo da' suoi stessi soldati che amaron me-glio di soggettarsi a Valeriano. Questi dopo avere persette anni governato non troppo felicemente l'impero,diede finalmente l'an. 260 in se stesso un funesto spetta-colo, e non più ancora veduto al mondo; cioè un impera-dor romano fatto schiavo dai Persiani, carico di catene,condotto per ogni parte in trionfo, e costretto a servir disgabello al vincitor Sapore, quando saliva sul cocchio, oa cavallo. Gallieno suo figlio, e da lui dichiarato già suocollega, parve rimirare con una snaturata indolenza unoggetto sì vergognoso a lui e a tutto l'impero, e nulla cu-rarsi di riscattare l'infelice suo padre che in quello statod'obbrobrio e di confusione durò secondo la Cronacaalessandrina fino all'an. 269 quando i Persiani finironod'insultarlo col dargli morte.

XI. Qual fosse il tumulto e lo sconvolgimen-to di tutto il mondo in tante e sì frequenti e sìsanguinose rivoluzioni, è facile l'immaginar-lo. Ma peggiore ancora e più turbolento di as-

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Impero infelice diGallieno.

di non ordinaria virtù, certo è nondimeno che la sangui-nosa persecuzione da lui mossa contro de' Cristiani celmostra uom trasportato e crudele. Egli morì l'an. 251combattendo contro de' Goti o da essi ucciso, o, comealtri scrivono, affogato in una palude. Due anni soli pa-rimente occupò l'imperial trono Treboniano Gallo ucci-so col suo figliuol Volusiano dai suoi soldati medesimi,dacchè Emiliano si fu contro di lui sollevato; ucciso egliancor poco dopo da' suoi stessi soldati che amaron me-glio di soggettarsi a Valeriano. Questi dopo avere persette anni governato non troppo felicemente l'impero,diede finalmente l'an. 260 in se stesso un funesto spetta-colo, e non più ancora veduto al mondo; cioè un impera-dor romano fatto schiavo dai Persiani, carico di catene,condotto per ogni parte in trionfo, e costretto a servir disgabello al vincitor Sapore, quando saliva sul cocchio, oa cavallo. Gallieno suo figlio, e da lui dichiarato già suocollega, parve rimirare con una snaturata indolenza unoggetto sì vergognoso a lui e a tutto l'impero, e nulla cu-rarsi di riscattare l'infelice suo padre che in quello statod'obbrobrio e di confusione durò secondo la Cronacaalessandrina fino all'an. 269 quando i Persiani finironod'insultarlo col dargli morte.

XI. Qual fosse il tumulto e lo sconvolgimen-to di tutto il mondo in tante e sì frequenti e sìsanguinose rivoluzioni, è facile l'immaginar-lo. Ma peggiore ancora e più turbolento di as-

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Impero infelice diGallieno.

sai fu l'impero di Gallieno. Se altro in lui non avessimoa considerare che l'uom di lettere, egli dovrebbe aversiin conto di un de' migliori imperadori. Fu egli, comedice Trebellio Pollione (in Gallieno c. 11), e per elo-quenza e per poesia e per tutte le belle arti assai illustre;e molti componimenti in prosa e in versi da lui compostierano allora in gran pregio; fra' quali tre versi recita ilsuddetto scrittore da lui fatti nelle nozze de' suoi nipoti,mentre tutti gli altri poeti latini recitavano a gara epita-lamj in loro lode. Ma, come soggiunse il mentovato sto-rico, altre virtù richieggonsi in un oratore e in un poeta,altre in un imperadore. Trattone il valore nell'armi,quando era costretto a combattere, non videsi in lui al-cuna delle virtù che rendono un sovrano amabile e ri-spettabile agli occhi de' sudditi. Vile e indolente, parevanon esser salito sul trono che per giacersi in un vergo-gnoso ozio, e l'onor suo istesso non che quel dell'imperonon avea bastante forza a riscuoterlo. Quindi mentreegli vivea abbandonato a' suoi piaceri, vidersi tutte quasile provincie sconvolte, saccheggiate, e piene di rovine edi stragi, o da' Barbari che da ogni parte le correvano fu-riosamente, o da' Romani generali medesimi che valen-dosi dell'indolenza di Gallieno si facevano dalle lortruppe acclamare imperadori. Fu questo il tempo che ri-mase celebre nelle storie sotto il nome de' trenta tiranni,perchè tanti a un dipresso furon coloro (contando ancorgli anni in cui Galieno regnò con suo padre), che siusurparono scettro e corona. L'impero ne fu scosso permodo che più non risorse all'antica grandezza, e le lette-

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sai fu l'impero di Gallieno. Se altro in lui non avessimoa considerare che l'uom di lettere, egli dovrebbe aversiin conto di un de' migliori imperadori. Fu egli, comedice Trebellio Pollione (in Gallieno c. 11), e per elo-quenza e per poesia e per tutte le belle arti assai illustre;e molti componimenti in prosa e in versi da lui compostierano allora in gran pregio; fra' quali tre versi recita ilsuddetto scrittore da lui fatti nelle nozze de' suoi nipoti,mentre tutti gli altri poeti latini recitavano a gara epita-lamj in loro lode. Ma, come soggiunse il mentovato sto-rico, altre virtù richieggonsi in un oratore e in un poeta,altre in un imperadore. Trattone il valore nell'armi,quando era costretto a combattere, non videsi in lui al-cuna delle virtù che rendono un sovrano amabile e ri-spettabile agli occhi de' sudditi. Vile e indolente, parevanon esser salito sul trono che per giacersi in un vergo-gnoso ozio, e l'onor suo istesso non che quel dell'imperonon avea bastante forza a riscuoterlo. Quindi mentreegli vivea abbandonato a' suoi piaceri, vidersi tutte quasile provincie sconvolte, saccheggiate, e piene di rovine edi stragi, o da' Barbari che da ogni parte le correvano fu-riosamente, o da' Romani generali medesimi che valen-dosi dell'indolenza di Gallieno si facevano dalle lortruppe acclamare imperadori. Fu questo il tempo che ri-mase celebre nelle storie sotto il nome de' trenta tiranni,perchè tanti a un dipresso furon coloro (contando ancorgli anni in cui Galieno regnò con suo padre), che siusurparono scettro e corona. L'impero ne fu scosso permodo che più non risorse all'antica grandezza, e le lette-

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re ancora n'ebbero si gran danno, che non potè più ripa-rarsi.

XII. Claudio che l'an. 168 succedette aGallieno ucciso da' suoi soldati medesi-mi, fu uno de' migliori principi che sedes-ser sul trono e forse avrebbe egli ristoratoalmen in parte l'impero da' sofferti danni,

se più lungamente avesse regnato ma dopo due soli anniegli morì di peste. Più felice fu il regno di Aureliano,celebre per le vittorie riportate sopra i Barbari, e singo-larmente pel trionfo della famosa Zenobia, ma insiemeodiato da' suoi per l'eccessiva severità che il fece sem-brar crudele. Ucciso da' suoi soldati l'an. 275, ebbe asuccessore M. Claudio Tacito che trovò l'impero pel va-lor di Aureliano rimesso finalmeme in calma. Era questiuomo assai versato negli studj, e tra le acclamazioni alui fatte in senato, che riferisconsi da Vopisco (in Tac. c.4), vedesi a lui dato il nome d'uom letterato: Et quis me-lius quam literatus imperat? Niuna notte, dice lo stessostorico (c. 11), soleva passare senza leggere, o scriverequalche cosa; e di Cornelio Tacito singolarmente, da cuidiceva egli di discendere, avea sì grande stima, che fecelegge che se ne avesse copia in tutte le biblioteche, e cheogni anno se ne facessero dieci nuovi esemplari (ib. c.10). Principe innoltre saggio, prudente, amabile, di mol-to giovamento sarebbe stato all'impero, se dopo sei solimesi d'impero ei non avesse perduta la vita o per malat-tia, come dicono alcuni, o ucciso da' suoi soldati, come

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Seguito degl'imperadorida Claudio II fino a Probo.

re ancora n'ebbero si gran danno, che non potè più ripa-rarsi.

XII. Claudio che l'an. 168 succedette aGallieno ucciso da' suoi soldati medesi-mi, fu uno de' migliori principi che sedes-ser sul trono e forse avrebbe egli ristoratoalmen in parte l'impero da' sofferti danni,

se più lungamente avesse regnato ma dopo due soli anniegli morì di peste. Più felice fu il regno di Aureliano,celebre per le vittorie riportate sopra i Barbari, e singo-larmente pel trionfo della famosa Zenobia, ma insiemeodiato da' suoi per l'eccessiva severità che il fece sem-brar crudele. Ucciso da' suoi soldati l'an. 275, ebbe asuccessore M. Claudio Tacito che trovò l'impero pel va-lor di Aureliano rimesso finalmeme in calma. Era questiuomo assai versato negli studj, e tra le acclamazioni alui fatte in senato, che riferisconsi da Vopisco (in Tac. c.4), vedesi a lui dato il nome d'uom letterato: Et quis me-lius quam literatus imperat? Niuna notte, dice lo stessostorico (c. 11), soleva passare senza leggere, o scriverequalche cosa; e di Cornelio Tacito singolarmente, da cuidiceva egli di discendere, avea sì grande stima, che fecelegge che se ne avesse copia in tutte le biblioteche, e cheogni anno se ne facessero dieci nuovi esemplari (ib. c.10). Principe innoltre saggio, prudente, amabile, di mol-to giovamento sarebbe stato all'impero, se dopo sei solimesi d'impero ei non avesse perduta la vita o per malat-tia, come dicono alcuni, o ucciso da' suoi soldati, come

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Seguito degl'imperadorida Claudio II fino a Probo.

più comunemente si crede. Floriano fratello uterino diTacito, e Probo che comandava in Oriente, furono cia-scheduno da lor soldati sollevati all'impero, ma Florianoabbandonato presto ed ucciso dagli stessi soldati, lasciòlibero il trono a Probo, principe degnissimo d'occuparlo,e che ne' sei anni che resse l'impero, seppe tenere in fre-no e domare così i Barbari invasori delle provincie,come gli ambiziosi usurpatori della corona. Vopiscograndi cose ci narra delle virtù di cui era adorno; e dopoaverne narrata la morte, "O dei, esclama, qual sì grandedelitto ha ella commesso la romana repubblica, perchèvoi doveste togliere un tal sovrano" (in Probo c. 23)? Ilsol difetto che da alcuni in lui si riprende, si è un'ecces-siva severità co' soldati, i quali già da molti anni avvezzia ricusare ogni giogo, contro di lui rivoltisi, l'ucciserol'an. 282.

XIII. Uguale a Probo in virtù e in coraggioera Marco Aurelio Caro che gli fu dato asuccessore; ma ancor più breve impero egliebbe, ucciso l'anno seguente dal fulminesulle sponde del Tigri. Carino e Numeriano

figli e successori di Caro fra non molto gli tennero die-tro, ucciso il secondo a tradimento dopo un solo anno diregno da Arrio Apro suo zio, il primo dopo due anni uc-ciso in una battaglia contro Diocleziano, acclamato dalletruppe imperadore, che rimase così solo e pacifico pos-sessore del trono. Erano questi fratelli d'indole e di co-

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Da M. Au-relio Caro fino a Cari-no e a Nu-meriano.

più comunemente si crede. Floriano fratello uterino diTacito, e Probo che comandava in Oriente, furono cia-scheduno da lor soldati sollevati all'impero, ma Florianoabbandonato presto ed ucciso dagli stessi soldati, lasciòlibero il trono a Probo, principe degnissimo d'occuparlo,e che ne' sei anni che resse l'impero, seppe tenere in fre-no e domare così i Barbari invasori delle provincie,come gli ambiziosi usurpatori della corona. Vopiscograndi cose ci narra delle virtù di cui era adorno; e dopoaverne narrata la morte, "O dei, esclama, qual sì grandedelitto ha ella commesso la romana repubblica, perchèvoi doveste togliere un tal sovrano" (in Probo c. 23)? Ilsol difetto che da alcuni in lui si riprende, si è un'ecces-siva severità co' soldati, i quali già da molti anni avvezzia ricusare ogni giogo, contro di lui rivoltisi, l'ucciserol'an. 282.

XIII. Uguale a Probo in virtù e in coraggioera Marco Aurelio Caro che gli fu dato asuccessore; ma ancor più breve impero egliebbe, ucciso l'anno seguente dal fulminesulle sponde del Tigri. Carino e Numeriano

figli e successori di Caro fra non molto gli tennero die-tro, ucciso il secondo a tradimento dopo un solo anno diregno da Arrio Apro suo zio, il primo dopo due anni uc-ciso in una battaglia contro Diocleziano, acclamato dalletruppe imperadore, che rimase così solo e pacifico pos-sessore del trono. Erano questi fratelli d'indole e di co-

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Da M. Au-relio Caro fino a Cari-no e a Nu-meriano.

stumi troppo l'un l'altro diversi. Carino abbandonato a'vizj e alle dissolutezze, Numeriano giovane saggio; eciò che da noi deve singolarmente osservarsi, amantissi-mo degli studj. Avea egli, come narra Vopisco (in Nu-mer. c. 1) coltivata assai l'eloquenza, e declamato ancorin pubblico spesse volte; e corsero per qualche tempotra le mani de' dotti alcune sue orazioni più confacentiperò, dice lo stesso storico, allo stile di declamatore, chea quello di Tullio. In poesia poi egli fu sì eccellente, chetutti vinse i poeti del suo tempo; perciocchè ei vennepoetando a contendere con Olimpio Nemesiano poetacelebre di questa età, e oscurò di molto la gloria di Au-relio Apollinare, poeta esso ancor famoso. Un'orazioneda lui mandata al senato dicesi che fosse di tanta forza,che si fece decreto per innalzargli nella biblioteca diTraiano una statua, non come Cesare, ma come oratorecon questa gloriosa iscrizione: Numeriano Caesari ora-tori temporibus suis potentissimo. Tutto ciò da Volpisco.Destino veramente infelice di Roma che gli ottimi prin-cipi ch'essa ebbe di questi tempi, e da' quali lo stato e lescienze avrebbon potuto trovar ristoro agli antichi lordanni, tutti le fosser rapiti da presta morte; e che perciòper mancanza di opportuni rimedj il male si facesseognora peggiore, e si rendesse troppo difficile, e quasiimpossibile il rimediarvi.

XIV. Diocleziano nato di bassa stirpe nellaDalmazia, ebbe nondimeno virtù e talenti

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Da Diocle-ziano fino a Costantino.

stumi troppo l'un l'altro diversi. Carino abbandonato a'vizj e alle dissolutezze, Numeriano giovane saggio; eciò che da noi deve singolarmente osservarsi, amantissi-mo degli studj. Avea egli, come narra Vopisco (in Nu-mer. c. 1) coltivata assai l'eloquenza, e declamato ancorin pubblico spesse volte; e corsero per qualche tempotra le mani de' dotti alcune sue orazioni più confacentiperò, dice lo stesso storico, allo stile di declamatore, chea quello di Tullio. In poesia poi egli fu sì eccellente, chetutti vinse i poeti del suo tempo; perciocchè ei vennepoetando a contendere con Olimpio Nemesiano poetacelebre di questa età, e oscurò di molto la gloria di Au-relio Apollinare, poeta esso ancor famoso. Un'orazioneda lui mandata al senato dicesi che fosse di tanta forza,che si fece decreto per innalzargli nella biblioteca diTraiano una statua, non come Cesare, ma come oratorecon questa gloriosa iscrizione: Numeriano Caesari ora-tori temporibus suis potentissimo. Tutto ciò da Volpisco.Destino veramente infelice di Roma che gli ottimi prin-cipi ch'essa ebbe di questi tempi, e da' quali lo stato e lescienze avrebbon potuto trovar ristoro agli antichi lordanni, tutti le fosser rapiti da presta morte; e che perciòper mancanza di opportuni rimedj il male si facesseognora peggiore, e si rendesse troppo difficile, e quasiimpossibile il rimediarvi.

XIV. Diocleziano nato di bassa stirpe nellaDalmazia, ebbe nondimeno virtù e talenti

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Da Diocle-ziano fino a Costantino.

superiori alla sua condizione; e in ciò singolarmente cheappartiene a prudenza e a valor militare, potè andar delpari coi più famosi guerrieri. Il fasto e l'avarizia però, emolto più la crudelissima persecuzione mossa contro deiCristiani, oscurarono molto sì grandi pregi. Di questanondimeno il principale autore non fu egli, ma Massi-miano Galero di cui or parleremo, che non cessòd'importunare Diocleziano, finchè non n'ebbe ottenuto ilfatale editto di morte contro i seguaci di Cristo. Diocle-ziano nel secondo anno del suo impero elesse a suo col-lega Massimiano soprannominato Erculeo, uomo corag-gioso esso pure, ma del rimanente rozzo, crudele e malcostumato. Quindi l'an. 292 per le turbolenze ond'erasconvolto l'impero, convennero insieme i due imperado-ri di nominare altri due loro colleghi col nome di Cesari,e Diocleziano adottò a tal fine Massimiano Galero fi-gliuolo di un bifolco della Dacia, come ei ben dava a ve-dere ne' suoi costumi e nel suo portamento, MassimianoErculeo adottò Costanzo Cloro pronipote dell'imp. Clau-dio II, principe di bontà e di clemenza non ordinaria, edegno di aver per figlio il gran Costantino. Essi diviseroin quattro parti l'impero, cosa non ancor veduta; maDiocleziano tenne sempre un grado d'autorità superioreagli altri. Fu mirabile per molti anni la scambievoleunione che strinse insieme i quattro sovrani. Ma l'an.305 Massimiano Galero costrinse minacciosamente idue Augusti Diocleziano e Massimiano Erculeo a rinun-ciare l'impero. Galero e Costanzo furon dunque ricono-sciuti Augusti; e il nome di Cesare fu dato a Severo

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superiori alla sua condizione; e in ciò singolarmente cheappartiene a prudenza e a valor militare, potè andar delpari coi più famosi guerrieri. Il fasto e l'avarizia però, emolto più la crudelissima persecuzione mossa contro deiCristiani, oscurarono molto sì grandi pregi. Di questanondimeno il principale autore non fu egli, ma Massi-miano Galero di cui or parleremo, che non cessòd'importunare Diocleziano, finchè non n'ebbe ottenuto ilfatale editto di morte contro i seguaci di Cristo. Diocle-ziano nel secondo anno del suo impero elesse a suo col-lega Massimiano soprannominato Erculeo, uomo corag-gioso esso pure, ma del rimanente rozzo, crudele e malcostumato. Quindi l'an. 292 per le turbolenze ond'erasconvolto l'impero, convennero insieme i due imperado-ri di nominare altri due loro colleghi col nome di Cesari,e Diocleziano adottò a tal fine Massimiano Galero fi-gliuolo di un bifolco della Dacia, come ei ben dava a ve-dere ne' suoi costumi e nel suo portamento, MassimianoErculeo adottò Costanzo Cloro pronipote dell'imp. Clau-dio II, principe di bontà e di clemenza non ordinaria, edegno di aver per figlio il gran Costantino. Essi diviseroin quattro parti l'impero, cosa non ancor veduta; maDiocleziano tenne sempre un grado d'autorità superioreagli altri. Fu mirabile per molti anni la scambievoleunione che strinse insieme i quattro sovrani. Ma l'an.305 Massimiano Galero costrinse minacciosamente idue Augusti Diocleziano e Massimiano Erculeo a rinun-ciare l'impero. Galero e Costanzo furon dunque ricono-sciuti Augusti; e il nome di Cesare fu dato a Severo

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uomo da nulla, e a Massimino Daza figliuolo di una so-rella di Galero. Diocleziano visse poscia privatamente aSolona in Dalmazia, ove morì l'anno 313. MassimianoErculeo al contrario ripigliò lo scettro nello sconvolgi-mento in cui trovossi l'impero alla morte di CostanzoCloro. Io non tratterrommi a raccontarne le varie e fune-ste vicende. Basti il dire che si videro quasi al medesi-mo tempo otto imperadori, Massimiano Galero, Severo,Massimino, Costantino il grande, dopo la morte di suopadre Costanzo levato da' soldati alla dignità imperiale,Massenzio figliuolo di Massimiano Erculeo, che da semedesimo usurpolla in Roma, lo stesso Massimiano Er-culeo, che ad istanza del figliuolo di nuovo la prese lostesso an. 306, Licinio dichiarato imperadore l'anno se-guente da Massimiano Galero, e Alessandro che si usur-pò l'impero in Cartagine l'an. 308. Ciaschedun di essicollegato or con gli uni, or cogli altri si disputarono lun-gamente l'impero; ma tutti un dopo l'altro caddero vitti-ma della loro ambizione, e finalmente l'an. 313 Costan-tino e Licinio soli ne rimaser padroni; il secondo peròtroppo inferiore così in merito come in autorità al primo,con cui perchè volle poscia contendere perdette l'an. 323e l'impero e la vita.

XV. Di tutti questi imperadori che abbiamveduti in questi ultimi anni salir sul trono,niuno ve n'ebbe da cui le lettere ricevesse-ro protezione e favore. Uomini per la più

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Condotta di questi ultimi imperadori verso le lette-re.

uomo da nulla, e a Massimino Daza figliuolo di una so-rella di Galero. Diocleziano visse poscia privatamente aSolona in Dalmazia, ove morì l'anno 313. MassimianoErculeo al contrario ripigliò lo scettro nello sconvolgi-mento in cui trovossi l'impero alla morte di CostanzoCloro. Io non tratterrommi a raccontarne le varie e fune-ste vicende. Basti il dire che si videro quasi al medesi-mo tempo otto imperadori, Massimiano Galero, Severo,Massimino, Costantino il grande, dopo la morte di suopadre Costanzo levato da' soldati alla dignità imperiale,Massenzio figliuolo di Massimiano Erculeo, che da semedesimo usurpolla in Roma, lo stesso Massimiano Er-culeo, che ad istanza del figliuolo di nuovo la prese lostesso an. 306, Licinio dichiarato imperadore l'anno se-guente da Massimiano Galero, e Alessandro che si usur-pò l'impero in Cartagine l'an. 308. Ciaschedun di essicollegato or con gli uni, or cogli altri si disputarono lun-gamente l'impero; ma tutti un dopo l'altro caddero vitti-ma della loro ambizione, e finalmente l'an. 313 Costan-tino e Licinio soli ne rimaser padroni; il secondo peròtroppo inferiore così in merito come in autorità al primo,con cui perchè volle poscia contendere perdette l'an. 323e l'impero e la vita.

XV. Di tutti questi imperadori che abbiamveduti in questi ultimi anni salir sul trono,niuno ve n'ebbe da cui le lettere ricevesse-ro protezione e favore. Uomini per la più

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Condotta di questi ultimi imperadori verso le lette-re.

parte o nati di bassa stirpe, o allevati fin da fanciulli fral'armi, appena le conoscevan per nome; e le guerre chedi continuo doveano sostenere o contro i domestici, ocontro gli stranieri nimici, tenevano i lor pensieri atutt'altro rivolti che alle scienze. Egli è vero che Eume-nio nell'Orazione detta in Autun l'an. 296 per indurre ilprefetto delle Gallie a ristorare in quella città le pubbli-che scuole, ci rappresenta i due imperadori Dioclezianoe Massimiano (Eum. Oratio pro restaur. scholis interPaneg. vet. ed. Paris. 1718, p. 149) come solleciti pelcoltivamento degli studj nulla meno che pel buon ordinedelle lor truppe, e di Massimiano singolarmente afferma(ib. p. 151) ch'egli ben persuaso le scienze essere il fon-damento delle virtù tutte, credeva di dover provvedereugualmente all'arte di ben parlare che a quella di viveresaggiamente. Ma ognun vede che poco conto vuol farsidi tali testimonianze, nelle quali troppo gran parte suoleavere l'adulazione. L'unica cosa che da essi veggiamofatta a vantaggio delle scienze, si è la legge riferita nelCodice di Giustiniano, con cui si vieta che a niuno deb-bansi accordare le immunità trattine i professori dellearti liberali, e i medici (l. 10, tit. 46, lex 1); con alcunealtre leggi di somigliante tenore. Ma quanto a Massi-miano Galero, Lattanzio ce ne parla come di nemico im-placabile d'ogni letteratura. "L'eloquenza, dic'egli (demort. persec. c. 22), fu estinta; tolti di mezzo i causidici;i giureconsulti o rilegati, o uccisi. Le lettere aveansi inconto di arti malvagie, e que' che in esse eran versati,furono come nimici abbattuti e oppressi". Nel che però è

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parte o nati di bassa stirpe, o allevati fin da fanciulli fral'armi, appena le conoscevan per nome; e le guerre chedi continuo doveano sostenere o contro i domestici, ocontro gli stranieri nimici, tenevano i lor pensieri atutt'altro rivolti che alle scienze. Egli è vero che Eume-nio nell'Orazione detta in Autun l'an. 296 per indurre ilprefetto delle Gallie a ristorare in quella città le pubbli-che scuole, ci rappresenta i due imperadori Dioclezianoe Massimiano (Eum. Oratio pro restaur. scholis interPaneg. vet. ed. Paris. 1718, p. 149) come solleciti pelcoltivamento degli studj nulla meno che pel buon ordinedelle lor truppe, e di Massimiano singolarmente afferma(ib. p. 151) ch'egli ben persuaso le scienze essere il fon-damento delle virtù tutte, credeva di dover provvedereugualmente all'arte di ben parlare che a quella di viveresaggiamente. Ma ognun vede che poco conto vuol farsidi tali testimonianze, nelle quali troppo gran parte suoleavere l'adulazione. L'unica cosa che da essi veggiamofatta a vantaggio delle scienze, si è la legge riferita nelCodice di Giustiniano, con cui si vieta che a niuno deb-bansi accordare le immunità trattine i professori dellearti liberali, e i medici (l. 10, tit. 46, lex 1); con alcunealtre leggi di somigliante tenore. Ma quanto a Massi-miano Galero, Lattanzio ce ne parla come di nemico im-placabile d'ogni letteratura. "L'eloquenza, dic'egli (demort. persec. c. 22), fu estinta; tolti di mezzo i causidici;i giureconsulti o rilegati, o uccisi. Le lettere aveansi inconto di arti malvagie, e que' che in esse eran versati,furono come nimici abbattuti e oppressi". Nel che però è

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probabile che ne' Cristiani singolarmente odiasse Massi-miano le lettere e gli studj d'ogni maniera.

XVI. Tal fu lo stato dell'impero romanodall'an. 138 in cui morì Adriano, fino al

principio del quarto secolo; e l'averlo brevemente de-scritto basta a farci comprendere quanto funesti fosseroa' buoni studj i tempi di cui parliamo. Ciò che ora dovre-mo dire in particolare di ciascheduno di essi il confer-merà maggiormente.

CAPO II.Poesia.

I. Anche in quest'epoca vi ebber poeti, main numero e in valore troppo inferiori nonsolo a quelli del secolo di Augusto, ma aquelli ancora che vissero nel secol che glivenne appresso. Abbiam veduto che Ales-sandro Severo solea recarsi spesso al pub-blico Ateneo ad udirvi i poeti latini e greci,

che recitavano i loro componimenti; de' quali perciòconvien dire che vi avesse buon numero in Roma; e diGallieno ancora si è detto che gareggiò co' poeti in unepitalamio sulle nozze de' suoi nipoti. Anzi TrebellioPollione ci dice che cento furono allora i poeti che aquesta occasion verseggiarono: Epithalamium, quod in-

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Conclusione.

Fra molti poeti di quest'epocapochi son degni di di-stinta men-zione.

probabile che ne' Cristiani singolarmente odiasse Massi-miano le lettere e gli studj d'ogni maniera.

XVI. Tal fu lo stato dell'impero romanodall'an. 138 in cui morì Adriano, fino al

principio del quarto secolo; e l'averlo brevemente de-scritto basta a farci comprendere quanto funesti fosseroa' buoni studj i tempi di cui parliamo. Ciò che ora dovre-mo dire in particolare di ciascheduno di essi il confer-merà maggiormente.

CAPO II.Poesia.

I. Anche in quest'epoca vi ebber poeti, main numero e in valore troppo inferiori nonsolo a quelli del secolo di Augusto, ma aquelli ancora che vissero nel secol che glivenne appresso. Abbiam veduto che Ales-sandro Severo solea recarsi spesso al pub-blico Ateneo ad udirvi i poeti latini e greci,

che recitavano i loro componimenti; de' quali perciòconvien dire che vi avesse buon numero in Roma; e diGallieno ancora si è detto che gareggiò co' poeti in unepitalamio sulle nozze de' suoi nipoti. Anzi TrebellioPollione ci dice che cento furono allora i poeti che aquesta occasion verseggiarono: Epithalamium, quod in-

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Conclusione.

Fra molti poeti di quest'epocapochi son degni di di-stinta men-zione.

ter centum poetas praecipuum fuit (in Gallieno c. 11).Del mentovato Alessandro Severo racconta ancora Lam-pridio che Agoni praesedit (in Alex. Sev. c. 35), collequali parole sembra ch'egli indichi i giuochi capitolinialtrove da noi rammentati, che ogni cinque anni sole-vansi celebrare, e ne' quali i Poeti e gli oratori venivanoa disfida d'ingegno per riportarne la corona al vincitordestinata. Questi durarono per molto tempo, poichèCensorino che scrisse il suo libro del Dì Natalizio l'an.238 in cui fu ucciso Massimino I, come osserva il p. Pe-tavio (De doctr. Temp. l. 11, c. 21), dice che inquell'anno appunto eransi i detti giuochi celebrati latrentesima nona volta (De die nat c. 6). Fino a quando sicontinuasse a celebrarli, non si può facilmente determi-nare. Il Pitisco pensa congetturando (Lex. Antiq. rom., V.Agon.) che durassero ancora ne' più bassi secoli; ma par-mi poco probabile che nello sconvolgimento in cui gitta-rono Roma le invasioni de' Barbari, si potesse ancorapensare a gareggiar poetando. Forse ancor prima di esselo stabilimento della religion cristiana li fè cessare, pertoglier così ogni occasione di altri giuochi profani e sa-crileghi. Ma benchè ai tempi de' quali ora trattiamo, sicelebrassero cotali giuochi, e benchè veggiam nominatipoeti che recitavano nell'Ateneo, e che componevanoepitalamj in occasione di nozze, e questi ancora fino alnumero di cento, certo è nondimeno che assai minore fuil numero de' poeti, di quel che fosse in addietro. In fattiin tutto questo spazio di tempo tre soli ne possiamo ad-ditare, le cui poesie siano a noi pervenute; e di quelli an-

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ter centum poetas praecipuum fuit (in Gallieno c. 11).Del mentovato Alessandro Severo racconta ancora Lam-pridio che Agoni praesedit (in Alex. Sev. c. 35), collequali parole sembra ch'egli indichi i giuochi capitolinialtrove da noi rammentati, che ogni cinque anni sole-vansi celebrare, e ne' quali i Poeti e gli oratori venivanoa disfida d'ingegno per riportarne la corona al vincitordestinata. Questi durarono per molto tempo, poichèCensorino che scrisse il suo libro del Dì Natalizio l'an.238 in cui fu ucciso Massimino I, come osserva il p. Pe-tavio (De doctr. Temp. l. 11, c. 21), dice che inquell'anno appunto eransi i detti giuochi celebrati latrentesima nona volta (De die nat c. 6). Fino a quando sicontinuasse a celebrarli, non si può facilmente determi-nare. Il Pitisco pensa congetturando (Lex. Antiq. rom., V.Agon.) che durassero ancora ne' più bassi secoli; ma par-mi poco probabile che nello sconvolgimento in cui gitta-rono Roma le invasioni de' Barbari, si potesse ancorapensare a gareggiar poetando. Forse ancor prima di esselo stabilimento della religion cristiana li fè cessare, pertoglier così ogni occasione di altri giuochi profani e sa-crileghi. Ma benchè ai tempi de' quali ora trattiamo, sicelebrassero cotali giuochi, e benchè veggiam nominatipoeti che recitavano nell'Ateneo, e che componevanoepitalamj in occasione di nozze, e questi ancora fino alnumero di cento, certo è nondimeno che assai minore fuil numero de' poeti, di quel che fosse in addietro. In fattiin tutto questo spazio di tempo tre soli ne possiamo ad-ditare, le cui poesie siano a noi pervenute; e di quelli an-

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cora di cui sappiamo che esercitaronsi in verseggiare,vedremo che fu scarso il numero. E forse a quel tempovi eran parecchi che solo in qualche occasione prende-van tra le mani la cetra, ma fuor di essa non si curavanodi coltivare uno studio che non era più in gran pregio.

II. Il primo de' tre accennati poeti (se pur glipuò convenire un tal nome) è Quinto SerenoSamonico, di cui abbiamo un poema dida-scalico, o, a dir meglio, molti versi intorno

alla medicina, che non sono i più eleganti del mondo, eche punto non hanno di brio e di vigore poetico. Di qualpatria e di qual condizione egli fosse, nol possiamo rac-cogliere. Alcuni hanno affermato ch'e' fosse spagnuolo,ma questa opinione è combattuta ancor dall'autore dellaBiblioteca spagnuola, cioè dal celebre Niccolò Antonio(Bibl. hisp. vet. l. 1, c. 20). Sappiamo ch'egli era uomoassai dotto; e tale il dice Macrobio (Saturn. l. 2, c. 12)che reca un passo di non so quale sua opera scritta adAntonino Caracalla. Da questo passo medesimo nondi-meno noi raccogliamo che cominciavasi allora a nonavere molta perizia nella stessa storia del secolo prece-dente; perciocchè Sereno citando un detto di Plinio ilvecchio dice che questi visse fino a' tempi di Traiano,confondendo così insieme i due Plinj. Un altro fram-mento tratto da non so qual altra di lui opera, ove parladella legge fannia contro il lusso delle mense, ci ha con-servato lo stesso Macrobio (ib. c. 13); il quale innoltre

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Notizie di Sereno Sa-monico.

cora di cui sappiamo che esercitaronsi in verseggiare,vedremo che fu scarso il numero. E forse a quel tempovi eran parecchi che solo in qualche occasione prende-van tra le mani la cetra, ma fuor di essa non si curavanodi coltivare uno studio che non era più in gran pregio.

II. Il primo de' tre accennati poeti (se pur glipuò convenire un tal nome) è Quinto SerenoSamonico, di cui abbiamo un poema dida-scalico, o, a dir meglio, molti versi intorno

alla medicina, che non sono i più eleganti del mondo, eche punto non hanno di brio e di vigore poetico. Di qualpatria e di qual condizione egli fosse, nol possiamo rac-cogliere. Alcuni hanno affermato ch'e' fosse spagnuolo,ma questa opinione è combattuta ancor dall'autore dellaBiblioteca spagnuola, cioè dal celebre Niccolò Antonio(Bibl. hisp. vet. l. 1, c. 20). Sappiamo ch'egli era uomoassai dotto; e tale il dice Macrobio (Saturn. l. 2, c. 12)che reca un passo di non so quale sua opera scritta adAntonino Caracalla. Da questo passo medesimo nondi-meno noi raccogliamo che cominciavasi allora a nonavere molta perizia nella stessa storia del secolo prece-dente; perciocchè Sereno citando un detto di Plinio ilvecchio dice che questi visse fino a' tempi di Traiano,confondendo così insieme i due Plinj. Un altro fram-mento tratto da non so qual altra di lui opera, ove parladella legge fannia contro il lusso delle mense, ci ha con-servato lo stesso Macrobio (ib. c. 13); il quale innoltre

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Notizie di Sereno Sa-monico.

fa menzione (ib. l. 3, c. 9) del quinto libro delle Cose re-condite dello stesso Samonico, e da esso trae le due so-lenni gravissime formule con cui gli antichi Romani so-levan talvolta sopra le nemiche città chiamare lo sdegnode' loro dii; le quali formole dicevansi l'una evocaredeos, l'altra devovere diis. Altri frammenti ancor di Sa-monico si citano da Arnobio (l. 6 adv. Gentes) e da Ser-vio (ad l. 1 Georg. Virg.); e altrove abbiam detto de' Di-stici di Catone, di cui vuolsi da alcuni ch'egli sia autore(V. t. 1, p. 144). Fu egli assai caro a Geta fratello di Ca-racalla, di cui narra Sparziano, che soleva leggere spes-so i libri di Samonico indirizzati a suo fratello (in Getac. 5), che eran forse quell'opera stessa che abbiam vedu-ta rammentarsi da Macrobio. Così pure di Aless. Severonarra Lampridio (in ejus Vita c. 30), che avendo assaiamato in vita Samonico, con piacere leggavane i libri.Egli finalmente aveva una copiosissima biblioteca disessantaduemila volumi, che essendo poscia passata allemani di Sereno Samonico suo figlio, questi morendo nefè dono al secondo de' tre Gordiani, di cui era stato mae-stro (Capit in Gordianis c. 18). Ma questo valentuomoebbe un fine troppo diverso da quello ch'ei meritava.Perciocchè standosi alla cena insieme con Caracalla, fuda lui per qualche si fosse ragione barbaramente ucciso(Spart. in Carac. c. 4). Sparziano dopo averne narrata lamorte, dice che molti eruditi libri da lui scritti conserva-vansi ancora; ma trattone il poema di sopra accennato,per cui l'abbiam posto insiem co' poeti, niun'altra operadi lui ci è rimasta. Intorno a Samonico hanno scritto con

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fa menzione (ib. l. 3, c. 9) del quinto libro delle Cose re-condite dello stesso Samonico, e da esso trae le due so-lenni gravissime formule con cui gli antichi Romani so-levan talvolta sopra le nemiche città chiamare lo sdegnode' loro dii; le quali formole dicevansi l'una evocaredeos, l'altra devovere diis. Altri frammenti ancor di Sa-monico si citano da Arnobio (l. 6 adv. Gentes) e da Ser-vio (ad l. 1 Georg. Virg.); e altrove abbiam detto de' Di-stici di Catone, di cui vuolsi da alcuni ch'egli sia autore(V. t. 1, p. 144). Fu egli assai caro a Geta fratello di Ca-racalla, di cui narra Sparziano, che soleva leggere spes-so i libri di Samonico indirizzati a suo fratello (in Getac. 5), che eran forse quell'opera stessa che abbiam vedu-ta rammentarsi da Macrobio. Così pure di Aless. Severonarra Lampridio (in ejus Vita c. 30), che avendo assaiamato in vita Samonico, con piacere leggavane i libri.Egli finalmente aveva una copiosissima biblioteca disessantaduemila volumi, che essendo poscia passata allemani di Sereno Samonico suo figlio, questi morendo nefè dono al secondo de' tre Gordiani, di cui era stato mae-stro (Capit in Gordianis c. 18). Ma questo valentuomoebbe un fine troppo diverso da quello ch'ei meritava.Perciocchè standosi alla cena insieme con Caracalla, fuda lui per qualche si fosse ragione barbaramente ucciso(Spart. in Carac. c. 4). Sparziano dopo averne narrata lamorte, dice che molti eruditi libri da lui scritti conserva-vansi ancora; ma trattone il poema di sopra accennato,per cui l'abbiam posto insiem co' poeti, niun'altra operadi lui ci è rimasta. Intorno a Samonico hanno scritto con

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particolar diligenza Roberto Keuchenio (proleg. ad Q.Ser. Samon.) e il cel. Giamb. Morgagni (Ep. ad Jo. Ant.Vulpium ante Samon. ed. comin. 1722). Diverso da' dueSamonici padre e figlio sembra che fosse quell'Aulo Se-reno poeta lirico che da da alcuni vien nominato, comedimostrano i due mentovati scrittori.

III. Gli altri due poeti vissero al medesimotempo, cioè sotto Caro e sotto Carino eNumeriano di lui figlioli, e nel medesimogenere di poesia si esercitarono. Furono

essi M. Aurelio Olimpio Nemesiano e Tito Calpurnio. Ilprimo fu di patria cartaginese; ma sembra che avesse al-meno per qualche tempo dimora stabile in Roma; per-ciocchè egli è quel medesimo con cui vedemmopoc'anzi che Numeriano soleva gareggiar verseggiando,e di cui dice Vopisco (in Caro, ec. c. 11), che scripsitHalieutica, Cynegetica, et Nautica, cioè tre poemi sullapesca, sulla caccia, e sulla nautica. Di questi solo il se-condo ci è rimasto da lui dedicato a' due suddetti fratelliCarino e Numeriano dopo la morte di Caro lor padre, acui egli perciò dà il nome di divo: divi fortissima pigno-ra Cari (in Cyneg. v. 64). Un passo però di questo poe-ma fa nascere qualche dubbio intorno al soggiorno diNemesiano in Roma. Egli parlando a' due fratelli impe-radori così dice (v. 76, ec.): Haec vobis nostrae libarunt carmina Musae Cum primum vultus sacros, bona numina terrae,

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Di Olimpio Nemesiano edi Calpurnio.

particolar diligenza Roberto Keuchenio (proleg. ad Q.Ser. Samon.) e il cel. Giamb. Morgagni (Ep. ad Jo. Ant.Vulpium ante Samon. ed. comin. 1722). Diverso da' dueSamonici padre e figlio sembra che fosse quell'Aulo Se-reno poeta lirico che da da alcuni vien nominato, comedimostrano i due mentovati scrittori.

III. Gli altri due poeti vissero al medesimotempo, cioè sotto Caro e sotto Carino eNumeriano di lui figlioli, e nel medesimogenere di poesia si esercitarono. Furono

essi M. Aurelio Olimpio Nemesiano e Tito Calpurnio. Ilprimo fu di patria cartaginese; ma sembra che avesse al-meno per qualche tempo dimora stabile in Roma; per-ciocchè egli è quel medesimo con cui vedemmopoc'anzi che Numeriano soleva gareggiar verseggiando,e di cui dice Vopisco (in Caro, ec. c. 11), che scripsitHalieutica, Cynegetica, et Nautica, cioè tre poemi sullapesca, sulla caccia, e sulla nautica. Di questi solo il se-condo ci è rimasto da lui dedicato a' due suddetti fratelliCarino e Numeriano dopo la morte di Caro lor padre, acui egli perciò dà il nome di divo: divi fortissima pigno-ra Cari (in Cyneg. v. 64). Un passo però di questo poe-ma fa nascere qualche dubbio intorno al soggiorno diNemesiano in Roma. Egli parlando a' due fratelli impe-radori così dice (v. 76, ec.): Haec vobis nostrae libarunt carmina Musae Cum primum vultus sacros, bona numina terrae,

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Di Olimpio Nemesiano edi Calpurnio.

Contigerit vidisse mihi:

E poco dopo: Videorque mihi jam cernere fratrum Augustos habitus, Romam, clarumque Senatum

Non è ella questa maniera di parlare propria di chi nonmai, abbia veduti nè gl'imperadori nè Roma? Comedunque si puo dire ch'egli vivesse in Roma, e che Nu-meriano con lui contendesse in poesia prima di esseresollevato all'impero? Giacchè dopo ei nol potè certa-mente, ucciso, mentre dalla guerra di Persia sen tornavaa Roma. Alcuni interpreti ne escon col dire che Neme-siano era stato prima in Roma, che poscia o se n'era ri-tornato a Cartagine, o erasi ritirato in qualche luogo fuo-ri di Roma, ove pensava di nuovamente recarsi. Può es-sere che tale veramente sia il senso di Nemesiano; ma adir vero le sue parole parmi che indichin piuttosto unaprima che una seconda venuta a Roma; nel quel caso ionon saprei come accordarle col racconto che fa Vopisco.Checchè ne sia, il poema, che ci è rimasto, di Nemesia-no, è colto ed elegante per riguardo a' tempi in cui fuscritto. Egli certo non ha alcuno de' vizj del secolo pre-cedente; e ove se ne tragga la non sempre pura espres-sione, effetto del corrompersi che faceva il latino idio-ma, e una soverchia prolissità singolarmente nell'intro-duzione, in cui egli occupa quasi una terza parte del suopoema, egli può a ragione essere annoverato tra' miglio-ri poeti dopo il secol d'Augusto.

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Contigerit vidisse mihi:

E poco dopo: Videorque mihi jam cernere fratrum Augustos habitus, Romam, clarumque Senatum

Non è ella questa maniera di parlare propria di chi nonmai, abbia veduti nè gl'imperadori nè Roma? Comedunque si puo dire ch'egli vivesse in Roma, e che Nu-meriano con lui contendesse in poesia prima di esseresollevato all'impero? Giacchè dopo ei nol potè certa-mente, ucciso, mentre dalla guerra di Persia sen tornavaa Roma. Alcuni interpreti ne escon col dire che Neme-siano era stato prima in Roma, che poscia o se n'era ri-tornato a Cartagine, o erasi ritirato in qualche luogo fuo-ri di Roma, ove pensava di nuovamente recarsi. Può es-sere che tale veramente sia il senso di Nemesiano; ma adir vero le sue parole parmi che indichin piuttosto unaprima che una seconda venuta a Roma; nel quel caso ionon saprei come accordarle col racconto che fa Vopisco.Checchè ne sia, il poema, che ci è rimasto, di Nemesia-no, è colto ed elegante per riguardo a' tempi in cui fuscritto. Egli certo non ha alcuno de' vizj del secolo pre-cedente; e ove se ne tragga la non sempre pura espres-sione, effetto del corrompersi che faceva il latino idio-ma, e una soverchia prolissità singolarmente nell'intro-duzione, in cui egli occupa quasi una terza parte del suopoema, egli può a ragione essere annoverato tra' miglio-ri poeti dopo il secol d'Augusto.

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IV. A lui pure comunemente si attribuisconquattro egloghe, che si sogliono aggiugnereal suo poema sopra la caccia. Ma Giano Uli-zio seguito ancora da Pier Burmanno e da

altri pensa (in praef. et in not. ad Nemes. Eclogas) cheesse siano di Tito Calpurino ossia Calfurnio siciliano, dicui son certamente altre sette egloghe. Le ragioni ch'egline arreca, sono la somiglianza dello stile, alcuni versiche quasi colle stesse parole s'incontrano nelle une enelle altre, qualche espressione da cui par che raccolgasiche l'autor di esso fosse siciliano, l'autorità della primaedizione di queste Egloghe, in cui tutte si attribuiscono aCalpurnio, ed altri sì fatti argomenti che hanno qualcheforza, ma che non rendono abbastanza certa questa opi-nione. Calpurnio fu siciliano e assai povero di sostanze,come da varj passi de' suoi versi medesimi si raccoglie(l. 4, v. 26, ec.). Visse al tempo medesimo di Nemesianoa cui anche dedicò le sue Egloghe. Queste o siano tuttedi Calpurnio, o altre siano di lui, altre di Nemesiano,hanno eleganza e soavità superiore a quella degli altriscrittori di questi tempi. L'ab. Quadrio accusa il Fonte-nelle di averle antiposte a quelle ancor di Virgilio (Stor.della Poes. t. 2, p. 609); ma nè egli cita, nè io trovo inqual luogo abbia egli recato un sì travolto giudizio; eparmi strano ch'ei l'abbia recato, perchè in un luogo eglidice apertamente che Calpurnio non ha il merito di Vir-gilio (Discours sur la nature de l'égl. t. 4 Oevr. Paris

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Egloghe alsecondo at-tribuite.

IV. A lui pure comunemente si attribuisconquattro egloghe, che si sogliono aggiugnereal suo poema sopra la caccia. Ma Giano Uli-zio seguito ancora da Pier Burmanno e da

altri pensa (in praef. et in not. ad Nemes. Eclogas) cheesse siano di Tito Calpurino ossia Calfurnio siciliano, dicui son certamente altre sette egloghe. Le ragioni ch'egline arreca, sono la somiglianza dello stile, alcuni versiche quasi colle stesse parole s'incontrano nelle une enelle altre, qualche espressione da cui par che raccolgasiche l'autor di esso fosse siciliano, l'autorità della primaedizione di queste Egloghe, in cui tutte si attribuiscono aCalpurnio, ed altri sì fatti argomenti che hanno qualcheforza, ma che non rendono abbastanza certa questa opi-nione. Calpurnio fu siciliano e assai povero di sostanze,come da varj passi de' suoi versi medesimi si raccoglie(l. 4, v. 26, ec.). Visse al tempo medesimo di Nemesianoa cui anche dedicò le sue Egloghe. Queste o siano tuttedi Calpurnio, o altre siano di lui, altre di Nemesiano,hanno eleganza e soavità superiore a quella degli altriscrittori di questi tempi. L'ab. Quadrio accusa il Fonte-nelle di averle antiposte a quelle ancor di Virgilio (Stor.della Poes. t. 2, p. 609); ma nè egli cita, nè io trovo inqual luogo abbia egli recato un sì travolto giudizio; eparmi strano ch'ei l'abbia recato, perchè in un luogo eglidice apertamente che Calpurnio non ha il merito di Vir-gilio (Discours sur la nature de l'égl. t. 4 Oevr. Paris

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Egloghe alsecondo at-tribuite.

1742, p. 148), benchè in un tal passo di cui ragiono, cre-da che Calpurnio sia stato più di Virgilio felice non giànell'espressione, ma nel pensiero. Calpurnio fu in sì granpregio in alcune delle età trapassate, che veniva nellepubbliche scuole proposto ad esemplare di poesia. Cosìafferma il Giraldi, il quale però saggiamente non ne recasì favorevol giudizio: Bucolica hic scripsit, quae extant,et a multis leguntur probanturque. Ego certe in eo faci-litatem et sermonis volubilitatem, sed parum interdumnervi et concinnitatis offendi. Fuit quidem, cum ego easomnes septem Eclogas avidissime legerem, nam et mepuero magni quidam professores, ut tunc erant tempora,eas etiam publice praelegebant (De Poetis Hist. dal.). Ilqual sentimento si può ugualmente adattare a Nemesia-no ancora.

V. Alcuni altri poeti troviam nominati pres-so gli antichi autori, de' quali però non ci èrimasta cosa alcuna; nè io credo che abbia-

mo a dolercene molto. Gellio rammenta un Anniano (l.7, c. 7) poeta, com'egli dice, di leggiadro ingegno, e nel-le antichità erudito, e dotato innoltre di una maraviglio-sa facilità di parlare; e un Giulio Paolo, cui dice uomo asua memoria dottissimo (l. 1, c. 22; l. 5, c. 4), e uomdabbene e nella antica letteratura versato assai (l. 19, c.7). Tossozio senatore della famiglia degli Antonini vi-vea al tempo di Massimino I, e alcuni poemi avea com-posti, che al tempo di Giulio Capitolino ancora si con-

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Altri poetidi quest'età.

1742, p. 148), benchè in un tal passo di cui ragiono, cre-da che Calpurnio sia stato più di Virgilio felice non giànell'espressione, ma nel pensiero. Calpurnio fu in sì granpregio in alcune delle età trapassate, che veniva nellepubbliche scuole proposto ad esemplare di poesia. Cosìafferma il Giraldi, il quale però saggiamente non ne recasì favorevol giudizio: Bucolica hic scripsit, quae extant,et a multis leguntur probanturque. Ego certe in eo faci-litatem et sermonis volubilitatem, sed parum interdumnervi et concinnitatis offendi. Fuit quidem, cum ego easomnes septem Eclogas avidissime legerem, nam et mepuero magni quidam professores, ut tunc erant tempora,eas etiam publice praelegebant (De Poetis Hist. dal.). Ilqual sentimento si può ugualmente adattare a Nemesia-no ancora.

V. Alcuni altri poeti troviam nominati pres-so gli antichi autori, de' quali però non ci èrimasta cosa alcuna; nè io credo che abbia-

mo a dolercene molto. Gellio rammenta un Anniano (l.7, c. 7) poeta, com'egli dice, di leggiadro ingegno, e nel-le antichità erudito, e dotato innoltre di una maraviglio-sa facilità di parlare; e un Giulio Paolo, cui dice uomo asua memoria dottissimo (l. 1, c. 22; l. 5, c. 4), e uomdabbene e nella antica letteratura versato assai (l. 19, c.7). Tossozio senatore della famiglia degli Antonini vi-vea al tempo di Massimino I, e alcuni poemi avea com-posti, che al tempo di Giulio Capitolino ancora si con-

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Altri poetidi quest'età.

servavano (Capit. in Maximin. jun. c. 1). Abbiam giàfatta menzione di Aurelio Apollinare che da Vopisco sidice scrittor di iambi (in Caro, ec. c. 11), e autore di unaVita dell'imp. Caro, la qual però non sappiamo se scrittafosse in versi, o in prosa. Aggiungansi quelli tragl'imperadori, da' quali abbiam detto che fu coltivata lapoesia, come Lucio Vero, Aless. Severo, i Gordiani,Gallieno, e Numeriano. Fuor di questi e di qualche altroche venga per avventura accennato dagli antichi scritto-ri, io non saprei quali altri poeti additare di questi tempi.Il che dee farci conoscere che e pochi coltivatori ebbeallora la poesia, trattone alcune rare occasioni in cui eraonorevole e vantaggioso l'esser poeta, o, se ebbene mol-ti, questi non furon troppo felici nel poetare, e i lor versiperciò vennero presto dimenticati.

VI. Ciò che mi sembra più strano, si è cheanche di poesie teatrali appena trovasi inquest'epoca autore alcuno. Io veggo sol no-minato da Giulio Capitolino (in M. Aur. c.8) un Marullo scrittor di Mimi, di cui egli

racconta che soleva co' mordaci suoi scherzi pungere idue imperadori Marco Aurelio e Lucio Vero, e che que-sti dieder pruova della loro mansuetudine col non farnerisentimento. Di lui parla ancora Servio (ad ecl. 7 Virg.)dicendo che nel comporre egli poneva mente a sollazza-re il popolo, anzi che a scrivere correttamente. Nè io sose alcun altro scrittore o di tragedie, o di commedie a

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La poesia teatrale quasi del tutto ne-gletta.

servavano (Capit. in Maximin. jun. c. 1). Abbiam giàfatta menzione di Aurelio Apollinare che da Vopisco sidice scrittor di iambi (in Caro, ec. c. 11), e autore di unaVita dell'imp. Caro, la qual però non sappiamo se scrittafosse in versi, o in prosa. Aggiungansi quelli tragl'imperadori, da' quali abbiam detto che fu coltivata lapoesia, come Lucio Vero, Aless. Severo, i Gordiani,Gallieno, e Numeriano. Fuor di questi e di qualche altroche venga per avventura accennato dagli antichi scritto-ri, io non saprei quali altri poeti additare di questi tempi.Il che dee farci conoscere che e pochi coltivatori ebbeallora la poesia, trattone alcune rare occasioni in cui eraonorevole e vantaggioso l'esser poeta, o, se ebbene mol-ti, questi non furon troppo felici nel poetare, e i lor versiperciò vennero presto dimenticati.

VI. Ciò che mi sembra più strano, si è cheanche di poesie teatrali appena trovasi inquest'epoca autore alcuno. Io veggo sol no-minato da Giulio Capitolino (in M. Aur. c.8) un Marullo scrittor di Mimi, di cui egli

racconta che soleva co' mordaci suoi scherzi pungere idue imperadori Marco Aurelio e Lucio Vero, e che que-sti dieder pruova della loro mansuetudine col non farnerisentimento. Di lui parla ancora Servio (ad ecl. 7 Virg.)dicendo che nel comporre egli poneva mente a sollazza-re il popolo, anzi che a scrivere correttamente. Nè io sose alcun altro scrittore o di tragedie, o di commedie a

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La poesia teatrale quasi del tutto ne-gletta.

questi tempi si trovi essere vissuto. E non di meno i tea-trali spettacoli usavansi ancora, benchè nella storia diquest'età non sembri ch'essi fossero nè si frequenti nè simagnifici come in addietro. Certo io non trovo menzio-ne di teatri o ristorati, o nuovamente edificati, fuorchè diquel di Marcello, di cui si narra che Aless. Severo pensòdi rifabbricarlo (Lampr. in Alex. c. 44), benchè non sidica se conducesse ad effetto il suo disegno. Sembradunque che cominciasse allora a curarsi poco il teatro, equindi non è maraviglia che pochi fossero gli autori diteatrali poesie, potendosi usare, ove ne venisse occasio-ne, di quelle che da' poeti dell'età precedenti erano statecomposte.

CAPO III. Eloquenza.

I. Nulla meno infelice fu a questi tempi lasorte dell'eloquenza. Il cambiamento dellarepubblica in monarchia avea già scematodi molto il numero degli oratori, percioc-chè più poche eran le cause che si doves-

ser da essi trattare, come altrove si è detto. E come il po-ter degl'imperadori coll'andar de' tempi si fece sempremaggiore, così minore dovette ognor divenire il lor nu-mero. Abbiamo veduto, parlando de' tempi d'Augusto,che alcuni gramatici e alcuni retori erano talvolta passatial foro a perorare le cause; il che allor rimiravasi come

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L'eloquenza va sempre piùdecadendo e per qual ra-gione.

questi tempi si trovi essere vissuto. E non di meno i tea-trali spettacoli usavansi ancora, benchè nella storia diquest'età non sembri ch'essi fossero nè si frequenti nè simagnifici come in addietro. Certo io non trovo menzio-ne di teatri o ristorati, o nuovamente edificati, fuorchè diquel di Marcello, di cui si narra che Aless. Severo pensòdi rifabbricarlo (Lampr. in Alex. c. 44), benchè non sidica se conducesse ad effetto il suo disegno. Sembradunque che cominciasse allora a curarsi poco il teatro, equindi non è maraviglia che pochi fossero gli autori diteatrali poesie, potendosi usare, ove ne venisse occasio-ne, di quelle che da' poeti dell'età precedenti erano statecomposte.

CAPO III. Eloquenza.

I. Nulla meno infelice fu a questi tempi lasorte dell'eloquenza. Il cambiamento dellarepubblica in monarchia avea già scematodi molto il numero degli oratori, percioc-chè più poche eran le cause che si doves-

ser da essi trattare, come altrove si è detto. E come il po-ter degl'imperadori coll'andar de' tempi si fece sempremaggiore, così minore dovette ognor divenire il lor nu-mero. Abbiamo veduto, parlando de' tempi d'Augusto,che alcuni gramatici e alcuni retori erano talvolta passatial foro a perorare le cause; il che allor rimiravasi come

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L'eloquenza va sempre piùdecadendo e per qual ra-gione.

cosa rara ed insolita. Ma questo costume cominciò adessere assai più frequente, quando mancando gli oratori,la professione de' quali non era più onorevole nè vantag-giosa come in addietro, convenne spesso trovare chi sot-tentrasse alle lor veci. E a questo tempo singolarmentedi cui ora parliamo, io non so se possa additarsi uno chefosse oratore di professione. Erano appunto o gramatici,o più spesso retori, quelli che all'occasione trattavan lecause; e a fare la storia dell'eloquenza di quest'età, egli ènecessario il raccoglier le notizie di quelli di cui ci viendetto che o furono per arte di ben ragionare illustri echiari, o l'arte medesima insegnarono ad altri. E in que-sto ancora converrà che seguiam ciecamente il pareredegli antichi scrittori, e che crediamo che alcuni furonoeloquenti, perchè essi ce ne fan fede; perciocchè di que-sto spazio di tempo che nella presente epoca abbiamracchiuso, non ci è rimasta nè orazione nè altro qualun-que componimento di autore italiano appartenente a elo-quenza. Dico di autore italiano, perciocchè Claudio Ma-mertino ed Eumenio, di cui abbiamo alcune orazioni epanegirici, appartengono alla storia letteraria delle Gal-lie, di cui essi furono nativi, nè a noi si spetta il parlar-ne, se non vogliamo incorrere nel difetto che abbiam ri-preso in altri, di usurparci ciò che non è di nostro diritto.

II. Quegli che maggior fama per avventuraottenesse in quest'arte, fu Frontone Corneliodi cui parla Gellio con grandissimi elogi.

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Elogio di Frontone Cornelio.

cosa rara ed insolita. Ma questo costume cominciò adessere assai più frequente, quando mancando gli oratori,la professione de' quali non era più onorevole nè vantag-giosa come in addietro, convenne spesso trovare chi sot-tentrasse alle lor veci. E a questo tempo singolarmentedi cui ora parliamo, io non so se possa additarsi uno chefosse oratore di professione. Erano appunto o gramatici,o più spesso retori, quelli che all'occasione trattavan lecause; e a fare la storia dell'eloquenza di quest'età, egli ènecessario il raccoglier le notizie di quelli di cui ci viendetto che o furono per arte di ben ragionare illustri echiari, o l'arte medesima insegnarono ad altri. E in que-sto ancora converrà che seguiam ciecamente il pareredegli antichi scrittori, e che crediamo che alcuni furonoeloquenti, perchè essi ce ne fan fede; perciocchè di que-sto spazio di tempo che nella presente epoca abbiamracchiuso, non ci è rimasta nè orazione nè altro qualun-que componimento di autore italiano appartenente a elo-quenza. Dico di autore italiano, perciocchè Claudio Ma-mertino ed Eumenio, di cui abbiamo alcune orazioni epanegirici, appartengono alla storia letteraria delle Gal-lie, di cui essi furono nativi, nè a noi si spetta il parlar-ne, se non vogliamo incorrere nel difetto che abbiam ri-preso in altri, di usurparci ciò che non è di nostro diritto.

II. Quegli che maggior fama per avventuraottenesse in quest'arte, fu Frontone Corneliodi cui parla Gellio con grandissimi elogi.

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Elogio di Frontone Cornelio.

"Ed io, dice (l. 19, c. 8), essendo ancor giovinetto, primadi trasportarmi di Roma in Atene, nelle ore che mi rima-nevan libere dalla scuola, me n'andava a visitar Fronto-ne Cornelio, e godeva de' discorsi elegantissimi e pienid'erudizione che da lui si tenevano; nè avvenne mai ame, o ad altri di udirlo, senzachè ne tornassimo piùistruiti, o più dotti." Un'altra volta ce lo descrive (ib. c.10) circondato da una turba d'uomini per dottrina, pernascita e per ricchezze ragguardevoli, concorsi per udir-ne gli eruditi ragionamenti. Dione lo chiama uomo disomma autorità, e che più di tutti era in pregio nel tratta-re le cause (l. 69). Nella Cronaca eusebiana ancora egliè detto chiarissimo oratore (ad an. Ch. 163). Sembranondimeno ch'egli esercitasse la professione di retore,poichè fu dato a maestro a M. Aurelio e a Lucio Vero(Jul. Capit. in M. Aur. c. 2; in L. Vero c. 2), e Capitolinodi ciò parlando una volta gli dà il nome di oratore, l'altraquello di retore. Anzi i discorsi che Gellio gli fa tenere(l. c. et l. 2, c. 26), e alcuni precetti che di lui ci sono ri-masti sulla proprietà delle parole, e che si veggononell'edizioni degli Antichi Gramatici, ci potrebbero dileggeri far credere ch'egli fosse gramatico. Ma qualun-que fosse la professione da lui esercitata, egli ottennecolla sua eloquenza applausi e onori non ordinarj. M.Aurelio che loda i saggi avvertimenti che avea da lui ri-cevuti, il fe' sollevare all'onore del consolato (Auson. inGrat. Act.), e innoltre chiese al senato che gli fosse in-nalzata una statua (Capit. in M. Aurel. c. 2). Nè la gloriadi Frontone Cornelio ebbe fine colla sua vita. La sua

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"Ed io, dice (l. 19, c. 8), essendo ancor giovinetto, primadi trasportarmi di Roma in Atene, nelle ore che mi rima-nevan libere dalla scuola, me n'andava a visitar Fronto-ne Cornelio, e godeva de' discorsi elegantissimi e pienid'erudizione che da lui si tenevano; nè avvenne mai ame, o ad altri di udirlo, senzachè ne tornassimo piùistruiti, o più dotti." Un'altra volta ce lo descrive (ib. c.10) circondato da una turba d'uomini per dottrina, pernascita e per ricchezze ragguardevoli, concorsi per udir-ne gli eruditi ragionamenti. Dione lo chiama uomo disomma autorità, e che più di tutti era in pregio nel tratta-re le cause (l. 69). Nella Cronaca eusebiana ancora egliè detto chiarissimo oratore (ad an. Ch. 163). Sembranondimeno ch'egli esercitasse la professione di retore,poichè fu dato a maestro a M. Aurelio e a Lucio Vero(Jul. Capit. in M. Aur. c. 2; in L. Vero c. 2), e Capitolinodi ciò parlando una volta gli dà il nome di oratore, l'altraquello di retore. Anzi i discorsi che Gellio gli fa tenere(l. c. et l. 2, c. 26), e alcuni precetti che di lui ci sono ri-masti sulla proprietà delle parole, e che si veggononell'edizioni degli Antichi Gramatici, ci potrebbero dileggeri far credere ch'egli fosse gramatico. Ma qualun-que fosse la professione da lui esercitata, egli ottennecolla sua eloquenza applausi e onori non ordinarj. M.Aurelio che loda i saggi avvertimenti che avea da lui ri-cevuti, il fe' sollevare all'onore del consolato (Auson. inGrat. Act.), e innoltre chiese al senato che gli fosse in-nalzata una statua (Capit. in M. Aurel. c. 2). Nè la gloriadi Frontone Cornelio ebbe fine colla sua vita. La sua

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eloquenza rimase illustre tra' posteri più secoli dopo lasua morte, anzi ei fu considerato come capo di una nuo-va setta, per così dir, di eloquenza. Infatti Macrobio cheviveva a' tempi di Teodosio il grande, volendo parlare didiversi generi d'eloquenza, così li divide e li diffinisce:Quatuor sunt genera dicendi, copiosum in quo Cicerodominatur; breve, in quo Sullustius regnat; siccum,quod Frontoni adscribitur; pingue et floridum, in quoPlinius Secundus quondam, nunc nullo veterum minornoster Symmacus luxuriatur. (Saturn. l. 5, c. 1). E Sido-nio Apollinare ancora, che fiorì nel V. sec., fa menzionede' Frontoniani (l. 1, ep. 1), cioè di quelli che anche al-lora seguir volevano l'eloquenza di Frontone, e dellagravità frontoniana (l. 3, ep. 3), e scrivendo a un certoLeone che contava Frontone tra' suoi maggiori, gli diceche non è maraviglia ch'ei sia eloquente, essendosi in luitrasfusa l'eloquenza di sì grande oratore (l. 8, ep. 3). Egliricorda singolarmente un'orazion di Frontone contro diPelope, dicendo che nelle altre egli aveva superato glialtri oratori, in questa se stesso (l. 8 ep. 10). Ma nel lo-dare Frontone più di tutti si è inoltrato, benchè con po-che parole, Eumenio oratore del IV. sec. il quale ram-mentando un panegirico da lui fatto all'imp. Antonino,lo chiama romanae eloquentiae non secundum sed alte-rum decus (Pan. Costantio n. 14); colle quali parolesembra ch'egli il metta del paro con Cicerone. Questi sìgrandi elogi che veggiam fatti di Frontone, ci fan bra-mare di avere alcuno de' suoi componimenti, da cui co-noscerne lo stile e l'eloquenza. Ma trattine i precetti

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eloquenza rimase illustre tra' posteri più secoli dopo lasua morte, anzi ei fu considerato come capo di una nuo-va setta, per così dir, di eloquenza. Infatti Macrobio cheviveva a' tempi di Teodosio il grande, volendo parlare didiversi generi d'eloquenza, così li divide e li diffinisce:Quatuor sunt genera dicendi, copiosum in quo Cicerodominatur; breve, in quo Sullustius regnat; siccum,quod Frontoni adscribitur; pingue et floridum, in quoPlinius Secundus quondam, nunc nullo veterum minornoster Symmacus luxuriatur. (Saturn. l. 5, c. 1). E Sido-nio Apollinare ancora, che fiorì nel V. sec., fa menzionede' Frontoniani (l. 1, ep. 1), cioè di quelli che anche al-lora seguir volevano l'eloquenza di Frontone, e dellagravità frontoniana (l. 3, ep. 3), e scrivendo a un certoLeone che contava Frontone tra' suoi maggiori, gli diceche non è maraviglia ch'ei sia eloquente, essendosi in luitrasfusa l'eloquenza di sì grande oratore (l. 8, ep. 3). Egliricorda singolarmente un'orazion di Frontone contro diPelope, dicendo che nelle altre egli aveva superato glialtri oratori, in questa se stesso (l. 8 ep. 10). Ma nel lo-dare Frontone più di tutti si è inoltrato, benchè con po-che parole, Eumenio oratore del IV. sec. il quale ram-mentando un panegirico da lui fatto all'imp. Antonino,lo chiama romanae eloquentiae non secundum sed alte-rum decus (Pan. Costantio n. 14); colle quali parolesembra ch'egli il metta del paro con Cicerone. Questi sìgrandi elogi che veggiam fatti di Frontone, ci fan bra-mare di avere alcuno de' suoi componimenti, da cui co-noscerne lo stile e l'eloquenza. Ma trattine i precetti

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mentovati di sopra e qualche parola che se ne vede cita-ta da Sosipatro Carisio, nulla ce n'è rimasto.

III. Ma noi parliam di Frontone come sefosse nostro e i Francesi se ne dorranno peravventura, poichè affermano che Frontonedeesi porre nel numero de' loro uomini illu-

stri. Alcuni, dicono i dotti autori della Storia Letterariadi Francia (t. 1. part. 2. p. 282), il fan nativo d'Alvernia,alcuni altri di Perigord, altri indeterminatamentedell'Aquitania. Quando essi ne recheranno le pruove, cirallegreremo con loro di questo onore. "Checchè ne sia"continuano gli stessi autori "pare che non si possa dubi-tare ch'ei fosse gallo di nascita. È certo che alla fine delIV sec. e al principio del quinto vi avea in Clermontnell'Alvernia una famiglia del nome del nostro autore, eche s. Sidonio (Apollinare) lo annovera tra gli antenatidel dotto Leone ch'era di Narbona e ministro del re Enri-co." Ecco tutte le prove che da' Francesi si possono arre-care in conferma della loro opinione. Ma la famiglia de'Frontoni, che era in Alvernia al fine del IV sec. era ellala stessa che la famiglia del nostro Frontone Cornelio? ELeon di Narbona non potea egli discendere da Frontoneper canto di madre, ed esser perciò di famiglia e di pa-tria diversa dal nostro oratore? Ma diasi ancora che e ilFrontone mentovato da Sidonio discendesse dal nostro,e dal nostro pur discendesse per canto di padre Leon diNarbona; che argomento è questo mai? La famiglia de'Frontoni era in Alvernia al fine del IV sec.; dunque

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S'ei fosse francese o italiano.

mentovati di sopra e qualche parola che se ne vede cita-ta da Sosipatro Carisio, nulla ce n'è rimasto.

III. Ma noi parliam di Frontone come sefosse nostro e i Francesi se ne dorranno peravventura, poichè affermano che Frontonedeesi porre nel numero de' loro uomini illu-

stri. Alcuni, dicono i dotti autori della Storia Letterariadi Francia (t. 1. part. 2. p. 282), il fan nativo d'Alvernia,alcuni altri di Perigord, altri indeterminatamentedell'Aquitania. Quando essi ne recheranno le pruove, cirallegreremo con loro di questo onore. "Checchè ne sia"continuano gli stessi autori "pare che non si possa dubi-tare ch'ei fosse gallo di nascita. È certo che alla fine delIV sec. e al principio del quinto vi avea in Clermontnell'Alvernia una famiglia del nome del nostro autore, eche s. Sidonio (Apollinare) lo annovera tra gli antenatidel dotto Leone ch'era di Narbona e ministro del re Enri-co." Ecco tutte le prove che da' Francesi si possono arre-care in conferma della loro opinione. Ma la famiglia de'Frontoni, che era in Alvernia al fine del IV sec. era ellala stessa che la famiglia del nostro Frontone Cornelio? ELeon di Narbona non potea egli discendere da Frontoneper canto di madre, ed esser perciò di famiglia e di pa-tria diversa dal nostro oratore? Ma diasi ancora che e ilFrontone mentovato da Sidonio discendesse dal nostro,e dal nostro pur discendesse per canto di padre Leon diNarbona; che argomento è questo mai? La famiglia de'Frontoni era in Alvernia al fine del IV sec.; dunque

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S'ei fosse francese o italiano.

l'orator Frontone, che visse circa la metà del II sec., eranativo d'Alvernia. Non poteva ella esser passata dall'Ita-lia in Francia? E queste trasmigrazioni non erano essefrequenti in questi secoli? Par dunque che si possa ancordubitare se Frontone fosse nativo delle Gallie. Ciò nonostante l'ab. Longchamps non vuol dubitarne. Confessache gli argomenti addotti da' Maurini non sono che con-getture (Tabl. hist. t. 1, p. 142), e poi soggiunge: Ciòche vi ha di certo, si è che Frontone fu nativo delle Gal-lie. Ne ha egli qualche altro argomento? Ei non si degnadi farcene parte. E noi perciò ci atterremo al nostro co-stume di non credere se non ciò che veggiamo con buo-ne ragioni provarsi. Ma abbiam noi ragione di dirlo ita-liano? Se volessimo seguir l'esempio de' mentovati scrit-tori, troveremmo noi pure de' Frontoni italiani, e po-tremmo trarne per conseguenza che italiano fu ancoraquesto oratore. Anzi l'iscrizione in onore di M. AufidioFrontone, pronipote del nostro autore, che ancor conser-vasi in Pesaro (V. Oliverii Marm. pisaur. p. 30), non cidarebbe ella probabile argomento per affermare ch'ei fuitaliano? Noi però non abbiam bisogno di queste conget-ture. Frontone visse lungamente, e forse la più parte del-la sua vita in Roma, come dalle cose dette è manifesto.E questo ci basta perchè in quest'opera gli dobbiamo darluogo.

IV. Antonio Giuliano fu egli pure a questitempi famoso per l'eloquenza, e per la pro-

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Notizie ed elogio di Antonio Giuliano.

l'orator Frontone, che visse circa la metà del II sec., eranativo d'Alvernia. Non poteva ella esser passata dall'Ita-lia in Francia? E queste trasmigrazioni non erano essefrequenti in questi secoli? Par dunque che si possa ancordubitare se Frontone fosse nativo delle Gallie. Ciò nonostante l'ab. Longchamps non vuol dubitarne. Confessache gli argomenti addotti da' Maurini non sono che con-getture (Tabl. hist. t. 1, p. 142), e poi soggiunge: Ciòche vi ha di certo, si è che Frontone fu nativo delle Gal-lie. Ne ha egli qualche altro argomento? Ei non si degnadi farcene parte. E noi perciò ci atterremo al nostro co-stume di non credere se non ciò che veggiamo con buo-ne ragioni provarsi. Ma abbiam noi ragione di dirlo ita-liano? Se volessimo seguir l'esempio de' mentovati scrit-tori, troveremmo noi pure de' Frontoni italiani, e po-tremmo trarne per conseguenza che italiano fu ancoraquesto oratore. Anzi l'iscrizione in onore di M. AufidioFrontone, pronipote del nostro autore, che ancor conser-vasi in Pesaro (V. Oliverii Marm. pisaur. p. 30), non cidarebbe ella probabile argomento per affermare ch'ei fuitaliano? Noi però non abbiam bisogno di queste conget-ture. Frontone visse lungamente, e forse la più parte del-la sua vita in Roma, come dalle cose dette è manifesto.E questo ci basta perchè in quest'opera gli dobbiamo darluogo.

IV. Antonio Giuliano fu egli pure a questitempi famoso per l'eloquenza, e per la pro-

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Notizie ed elogio di Antonio Giuliano.

fessione di retore da lui esercitata. Ne dobbiam la noti-zia a Gellio che eragli confidente amico, e che raccontaparecchi eruditi discorsi con lui tenuti, e rammenta unviaggio con lui fatto a Napoli (l. 9, c. 15), e alcuni giornidi lieta ed erudita villeggiatura con lui e con più altrigiovani passati in Pozzuolo (l. 18, c. 5). Or questi eraspagnuolo di nascita, come chiaramente afferma lo stes-so autore (l. 19, c. 9) che lo dice uomo di leggiadra elo-quenza, e nell'antica letteratura assai erudito; e altrovene loda singolarmente la diligenza con cui esaminava ilibri degli antichi autori, e i pregi e i difetti tutti ne rile-vava con giusto e saggio discernimento (l. 1, c. 4). Usa-va egli spesso di declamare pubblicamente, e leggevansiposcia in Roma le declamazioni da lui composte, nellequali sempre scorgevasi il valoroso uomo ch'egli era, edi singolare eloquenza, benchè non tutte fossero egual-mente felici (l. 15, c. 1). Leggiadro è il fatto che di luinarra lo stesso Gellio (l. 19, c. 9). In un convito a cuicon molti giovani greci erano intervenuti anche Gellio eAntonio Giuliano, recitaronsi alcuni eleganti versi diAnacreonte; uditi i quali si rivolsero i Greci ad AntonioGiuliano, scherzando, presero a motteggiarlo, comeuomo barbaro e rozzo, poichè era natio di Spagna, ag-giugnendo ch'egli era mero declamatore, e d'una rabbio-sa e contenziosa eloquenza; e innoltre ch'esercitava isuoi discepoli in una lingua che non avea vezzi nè gra-zie di sorta alcuna, e sfidavanlo a produr cosa alcuna de'latini poeti, che a' versi d'Anacreonte si potesse parago-nare. Un tal motteggio punse alquanto il valoroso retore,

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fessione di retore da lui esercitata. Ne dobbiam la noti-zia a Gellio che eragli confidente amico, e che raccontaparecchi eruditi discorsi con lui tenuti, e rammenta unviaggio con lui fatto a Napoli (l. 9, c. 15), e alcuni giornidi lieta ed erudita villeggiatura con lui e con più altrigiovani passati in Pozzuolo (l. 18, c. 5). Or questi eraspagnuolo di nascita, come chiaramente afferma lo stes-so autore (l. 19, c. 9) che lo dice uomo di leggiadra elo-quenza, e nell'antica letteratura assai erudito; e altrovene loda singolarmente la diligenza con cui esaminava ilibri degli antichi autori, e i pregi e i difetti tutti ne rile-vava con giusto e saggio discernimento (l. 1, c. 4). Usa-va egli spesso di declamare pubblicamente, e leggevansiposcia in Roma le declamazioni da lui composte, nellequali sempre scorgevasi il valoroso uomo ch'egli era, edi singolare eloquenza, benchè non tutte fossero egual-mente felici (l. 15, c. 1). Leggiadro è il fatto che di luinarra lo stesso Gellio (l. 19, c. 9). In un convito a cuicon molti giovani greci erano intervenuti anche Gellio eAntonio Giuliano, recitaronsi alcuni eleganti versi diAnacreonte; uditi i quali si rivolsero i Greci ad AntonioGiuliano, scherzando, presero a motteggiarlo, comeuomo barbaro e rozzo, poichè era natio di Spagna, ag-giugnendo ch'egli era mero declamatore, e d'una rabbio-sa e contenziosa eloquenza; e innoltre ch'esercitava isuoi discepoli in una lingua che non avea vezzi nè gra-zie di sorta alcuna, e sfidavanlo a produr cosa alcuna de'latini poeti, che a' versi d'Anacreonte si potesse parago-nare. Un tal motteggio punse alquanto il valoroso retore,

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e "sì certo riprese in tono sdegnoso, era ben convenienteche voi, i quali nel lusso e nella mollezza ci avete vinti,in queste tenere cantilene ancora ci superaste. Ma per-chè non pensiate che noi Latini siamo in tutto privi divenustà e di eleganza, mi permettete di grazia ch'io av-volgami il pallio al capo, come già fece Socrate costret-to a tenere un non troppo onesto ragionamento; e ap-prendete che i nostri più antichi poeti ancora sepperoamoreggiando verseggiar dolcemente". E così detto, ab-bassandosi e coprendosi il capo, con soavissima vocerecitò alcuni epigrammi amatorj de' più antichi poeti la-tini, mostrando loro per tal maniera che e la lingua lati-na era anch'essa dolce e vezzosa, e ch'egli, benchè spa-gnuolo, sapeva nondimeno conoscere ed esprimere reci-tando la dolcezza de' sentimenti e delle espressioni. Mi-nuzio Felice fa menzione di una storia scritta da Anto-nio Giuliano (in Octav.), in cui trattavasi ancora dellesventure de' Giudei, ed è probabile che fosse lo stesso dicui parliamo.

V. Con lode nulla minore parla lo stessoGellio, di Tito Castrizio retore egli pure, dicui dice (l. 13, c. 20) che fu un uomo di gra-vità e di autorità non ordinaria, e che a' suoi

tempi nell'insegnare e nel declamare superò tutti. Fu eglimaestro dello stesso Gellio; e da Adriano imp. a' cuitempi cominciò a rendersi celebre, venne pe' suoi costu-mi non meno che pel suo sapere onorato assai. Ma quai

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Altri oratorie retori in Roma.

e "sì certo riprese in tono sdegnoso, era ben convenienteche voi, i quali nel lusso e nella mollezza ci avete vinti,in queste tenere cantilene ancora ci superaste. Ma per-chè non pensiate che noi Latini siamo in tutto privi divenustà e di eleganza, mi permettete di grazia ch'io av-volgami il pallio al capo, come già fece Socrate costret-to a tenere un non troppo onesto ragionamento; e ap-prendete che i nostri più antichi poeti ancora sepperoamoreggiando verseggiar dolcemente". E così detto, ab-bassandosi e coprendosi il capo, con soavissima vocerecitò alcuni epigrammi amatorj de' più antichi poeti la-tini, mostrando loro per tal maniera che e la lingua lati-na era anch'essa dolce e vezzosa, e ch'egli, benchè spa-gnuolo, sapeva nondimeno conoscere ed esprimere reci-tando la dolcezza de' sentimenti e delle espressioni. Mi-nuzio Felice fa menzione di una storia scritta da Anto-nio Giuliano (in Octav.), in cui trattavasi ancora dellesventure de' Giudei, ed è probabile che fosse lo stesso dicui parliamo.

V. Con lode nulla minore parla lo stessoGellio, di Tito Castrizio retore egli pure, dicui dice (l. 13, c. 20) che fu un uomo di gra-vità e di autorità non ordinaria, e che a' suoi

tempi nell'insegnare e nel declamare superò tutti. Fu eglimaestro dello stesso Gellio; e da Adriano imp. a' cuitempi cominciò a rendersi celebre, venne pe' suoi costu-mi non meno che pel suo sapere onorato assai. Ma quai

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Altri oratorie retori in Roma.

fossero questi onori, e fin a quando ei vivesse, nol pos-siamo sapere; poichè di lui da niun altro scrittor si parlafuorchè da Gellio. Più scarse ancora son le notizie cheabbiamo di Atteio Santo che istruì nell'eloquenza Co-modo (Lampr. in Comm. c. 1), di Silvino retore maestrodi Aless. Severo, crudelmente ucciso da Eliogabalo(Lampr. in Heliog. c. 16), e di Giulio Frontino, forse fi-gliuolo dell'altro Frontino da noi mentovato nel libroprecedente di Belio Macrino, e di Giulio Graniano retoriessi pure e maestri dello stesso Alessandro (Id. in Alex.c. 3.); poichè non ne troviamo che il mero nome mento-vato nella Storia Augusta. Solo di Graniano aggiungeLampridio che leggevansi ancora a' suoi tempi le decla-mazioni da lui composte. Lo stesso autore nomina unClaudio Venato oratore chiarissimo a' tempi dello stessoAlessandro (ib. c. 68). Un Messala fu parimenti a que'tempi orator potentissimo e dottissimo uomo, a cui ebbequalche pensiero Alessandro di dar in moglie la sua so-rella Teoclia (Jul. Capit. in Maximino jun. c. 3). Mapoco giova il sapere i semplici nomi de retori e deglioratori, se più certe notizie non possiamo trovare intor-no al genere di eloquenza da essi seguito.

VI. Più frequente menzione troviamo pressogli antichi scrittori di Giulio Tiziano. GiulioCapitolino parlando del giovane Massiminofigliuolo dell'imperadore dello stesso nome,

tra' maestri ch'egli ebbe, annovera ancor Tiziano (che

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Notizie di Giulio Ti-ziano.

fossero questi onori, e fin a quando ei vivesse, nol pos-siamo sapere; poichè di lui da niun altro scrittor si parlafuorchè da Gellio. Più scarse ancora son le notizie cheabbiamo di Atteio Santo che istruì nell'eloquenza Co-modo (Lampr. in Comm. c. 1), di Silvino retore maestrodi Aless. Severo, crudelmente ucciso da Eliogabalo(Lampr. in Heliog. c. 16), e di Giulio Frontino, forse fi-gliuolo dell'altro Frontino da noi mentovato nel libroprecedente di Belio Macrino, e di Giulio Graniano retoriessi pure e maestri dello stesso Alessandro (Id. in Alex.c. 3.); poichè non ne troviamo che il mero nome mento-vato nella Storia Augusta. Solo di Graniano aggiungeLampridio che leggevansi ancora a' suoi tempi le decla-mazioni da lui composte. Lo stesso autore nomina unClaudio Venato oratore chiarissimo a' tempi dello stessoAlessandro (ib. c. 68). Un Messala fu parimenti a que'tempi orator potentissimo e dottissimo uomo, a cui ebbequalche pensiero Alessandro di dar in moglie la sua so-rella Teoclia (Jul. Capit. in Maximino jun. c. 3). Mapoco giova il sapere i semplici nomi de retori e deglioratori, se più certe notizie non possiamo trovare intor-no al genere di eloquenza da essi seguito.

VI. Più frequente menzione troviamo pressogli antichi scrittori di Giulio Tiziano. GiulioCapitolino parlando del giovane Massiminofigliuolo dell'imperadore dello stesso nome,

tra' maestri ch'egli ebbe, annovera ancor Tiziano (che

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Notizie di Giulio Ti-ziano.

così si legge nell'edizioni di questo autore, invece di Ti-ziano, come è evidente doversi leggere): Usus est....oratore Titiano filio Titiani senioris, qui, Provinciarumlibros pulcherrimos scripsit, et qui dictus est simia tem-poris sui, quod cuncta imitatus esset (ib.). Vi ebber dun-que a quest'epoca due Tiziani, padre e figlio e questi fuil maestro di Massimino. Ma ciò che poi si soggiunge:qui Provinciarum libros ec. a chi de' due appartiene, alpadre, o al figlio? Le parole non sono abbastanza chiare,perchè esse bastino a determinarne il senso. I Maurini,autori della Storia Letteraria di Francia osservano (t. 1,par. 2, p. 401) che secondo la costruzione ordinaria essedovrebbono intendersi del padre, ma che lo scopo di Ca-pitolino essendo di parlare del figlio, a lui si deve attri-buire ciò ch'ei ne dice; e quindi di Tiziano il figlio essivoglion che siano tutte le opere che ad un Tiziano siveggono attribuite dagli antichi autori, e aggiungono chetale è il sentimento di Elia Vineto e del p. Sirmondo. Ionon ho potuto vedere i comenti di Vineto sulle opere diAusonio, in cui egli parla di Tiziano; ma il p. Sirmondoè certamente di contrario parere, perciocchè ove Sidonionomina le Lettere di Tiziano, egli comenta (ad Sidon.ep. 1, l. 1) Titianus senior pater Titiani alterius, quomagistro usus est filius Maximini Aug., e siegue annove-rando le altre opere da lui composte, e singolarmente ilibri delle Provincie. Tale è ancora il sentimento d'Isac-co Casaubono (in not. ad Capit. l. c.). I Maurini aggiun-gono che il loro sentimento sembra ancor confermarsida ciò che Ausonio dice di Tiziano. Or che ne dice egli?

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così si legge nell'edizioni di questo autore, invece di Ti-ziano, come è evidente doversi leggere): Usus est....oratore Titiano filio Titiani senioris, qui, Provinciarumlibros pulcherrimos scripsit, et qui dictus est simia tem-poris sui, quod cuncta imitatus esset (ib.). Vi ebber dun-que a quest'epoca due Tiziani, padre e figlio e questi fuil maestro di Massimino. Ma ciò che poi si soggiunge:qui Provinciarum libros ec. a chi de' due appartiene, alpadre, o al figlio? Le parole non sono abbastanza chiare,perchè esse bastino a determinarne il senso. I Maurini,autori della Storia Letteraria di Francia osservano (t. 1,par. 2, p. 401) che secondo la costruzione ordinaria essedovrebbono intendersi del padre, ma che lo scopo di Ca-pitolino essendo di parlare del figlio, a lui si deve attri-buire ciò ch'ei ne dice; e quindi di Tiziano il figlio essivoglion che siano tutte le opere che ad un Tiziano siveggono attribuite dagli antichi autori, e aggiungono chetale è il sentimento di Elia Vineto e del p. Sirmondo. Ionon ho potuto vedere i comenti di Vineto sulle opere diAusonio, in cui egli parla di Tiziano; ma il p. Sirmondoè certamente di contrario parere, perciocchè ove Sidonionomina le Lettere di Tiziano, egli comenta (ad Sidon.ep. 1, l. 1) Titianus senior pater Titiani alterius, quomagistro usus est filius Maximini Aug., e siegue annove-rando le altre opere da lui composte, e singolarmente ilibri delle Provincie. Tale è ancora il sentimento d'Isac-co Casaubono (in not. ad Capit. l. c.). I Maurini aggiun-gono che il loro sentimento sembra ancor confermarsida ciò che Ausonio dice di Tiziano. Or che ne dice egli?

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Dice (Gratiar. Act. ad Gratian.) che Tiziano fu dal suodiscepolo sollevato all'onore del consolato, e che egliposcia reggendo la scuola ora in Besanzone ora in Lioneinvecchiò in questo non molto onorevole impiego. Que-sto dee intendersi certamente del figlio, ma qui d'operenon si fa motto. Due altre volte ei fa menzion di Tizianoe di alcune favole da lui composte, e lo chiama fandi Ti-tianus artifex (ep. 16 ad Probum et Carm. ad eund.). Equeste ancora è probabile che fossero opera del figlio,come si rende verisimile dall'aggiunto con cui Ausoniolo chiama: fandi artifex, e dal vedere ch'egli non distin-gue il Tiziano di cui qui ragiona, dal Tiziano maestro diMassimino, di cui parla altrove. Ma che a Tiziano il pa-dre si debba attribuir tutto ciò che di un Tiziano si leggenegli antichi scrittori, come mai raccogliesi da Ausonio?Non vi ha dunque a mio credere motivo bastevole a di-partirci dal letteral senso di Giulio Capitolino che sem-bra parlar del padre; e di lui pare che intender si debbaciò ch'ei racconta, che scrisse egregi libri sulle Provinciedell'impero romano, i quali credesi che sieno que' mede-simi che da altri col titol di Corografia vengono citati(V. Fabr. Bibl. lat. t. 1, p. 410, ed. ven.). Che a lui fossedato il sopranome di Scimia, perchè affettava d'imitar lostile degli antichi scrittori, confermasi ancor da Sidonio(l. 1, ep. 1), il qual rammenta le lettere da Tiziano scrittesotto il nome di alcune celebri donne a imitazion dellostile di Tullio, nel che però, egli dice, non era troppo fe-licemente riuscito. S. Isidoro di Siviglia annovera Tizia-no tra quelli che cercarono di far fiorire tra' Romani la

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Dice (Gratiar. Act. ad Gratian.) che Tiziano fu dal suodiscepolo sollevato all'onore del consolato, e che egliposcia reggendo la scuola ora in Besanzone ora in Lioneinvecchiò in questo non molto onorevole impiego. Que-sto dee intendersi certamente del figlio, ma qui d'operenon si fa motto. Due altre volte ei fa menzion di Tizianoe di alcune favole da lui composte, e lo chiama fandi Ti-tianus artifex (ep. 16 ad Probum et Carm. ad eund.). Equeste ancora è probabile che fossero opera del figlio,come si rende verisimile dall'aggiunto con cui Ausoniolo chiama: fandi artifex, e dal vedere ch'egli non distin-gue il Tiziano di cui qui ragiona, dal Tiziano maestro diMassimino, di cui parla altrove. Ma che a Tiziano il pa-dre si debba attribuir tutto ciò che di un Tiziano si leggenegli antichi scrittori, come mai raccogliesi da Ausonio?Non vi ha dunque a mio credere motivo bastevole a di-partirci dal letteral senso di Giulio Capitolino che sem-bra parlar del padre; e di lui pare che intender si debbaciò ch'ei racconta, che scrisse egregi libri sulle Provinciedell'impero romano, i quali credesi che sieno que' mede-simi che da altri col titol di Corografia vengono citati(V. Fabr. Bibl. lat. t. 1, p. 410, ed. ven.). Che a lui fossedato il sopranome di Scimia, perchè affettava d'imitar lostile degli antichi scrittori, confermasi ancor da Sidonio(l. 1, ep. 1), il qual rammenta le lettere da Tiziano scrittesotto il nome di alcune celebri donne a imitazion dellostile di Tullio, nel che però, egli dice, non era troppo fe-licemente riuscito. S. Isidoro di Siviglia annovera Tizia-no tra quelli che cercarono di far fiorire tra' Romani la

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vera eloquenza (Origin. l. 2, c. 2), il che pare che del pa-dre si debba intender più facilmente che del figlio. Qual-che trattato d'agricoltura si attribuisce ancora a Tiziano,come osserva il p. Sirmondo (l. c.); ma di questo non viè ragione per cui crederne autore uno a preferenzadell'altro. Intorno alle opere di Tiziano, chiunque eglisia, veggansi ancora i suddetti autori della Storia Lette-raria di Francia. Ma perchè gli hanno essi dato luogo tragli scrittori francesi? Essi confessano che dagli autoriantichi non si trae argomento a provare ch'ei fosse natiodelle Gallie; ma tutti i moderni, dicon essi, credono cheegli, come pure altri Tiziani, de' quali si vede fatta men-zione, fossero galli. Essi però non citano che il Vineto; eio non so chi siano tutti questi moderni autori che se-guono la loro opinione. Oltre che, chiunque essi siano,se non ci additano qualche fondamento del lor parerenegli autori antichi, noi li pregheremo a permetterci didubitarne ancora. Essi potrebbono addurre un più sicuroargomento del lor diritto di porre Tiziano maestro diMassimino non tra' loro concittadini, ma tra' loro profes-sori, per la scuola da lui avuta in Besanzone e in Lione,come noi abbiam diritto a annoverarlo tra' nostri, se nonper la patria, di che anche noi non abbiam pruova ba-stante, almeno pel lungo soggiorno in Roma.

VII. Finalmente di Aspasio nativo di Ra-venna ci ha lasciato distinta memoria Filo-strato (Vit. Soph. l. 2, c. 31) che rammenta

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Di Aspasio da Raven-na.

vera eloquenza (Origin. l. 2, c. 2), il che pare che del pa-dre si debba intender più facilmente che del figlio. Qual-che trattato d'agricoltura si attribuisce ancora a Tiziano,come osserva il p. Sirmondo (l. c.); ma di questo non viè ragione per cui crederne autore uno a preferenzadell'altro. Intorno alle opere di Tiziano, chiunque eglisia, veggansi ancora i suddetti autori della Storia Lette-raria di Francia. Ma perchè gli hanno essi dato luogo tragli scrittori francesi? Essi confessano che dagli autoriantichi non si trae argomento a provare ch'ei fosse natiodelle Gallie; ma tutti i moderni, dicon essi, credono cheegli, come pure altri Tiziani, de' quali si vede fatta men-zione, fossero galli. Essi però non citano che il Vineto; eio non so chi siano tutti questi moderni autori che se-guono la loro opinione. Oltre che, chiunque essi siano,se non ci additano qualche fondamento del lor parerenegli autori antichi, noi li pregheremo a permetterci didubitarne ancora. Essi potrebbono addurre un più sicuroargomento del lor diritto di porre Tiziano maestro diMassimino non tra' loro concittadini, ma tra' loro profes-sori, per la scuola da lui avuta in Besanzone e in Lione,come noi abbiam diritto a annoverarlo tra' nostri, se nonper la patria, di che anche noi non abbiam pruova ba-stante, almeno pel lungo soggiorno in Roma.

VII. Finalmente di Aspasio nativo di Ra-venna ci ha lasciato distinta memoria Filo-strato (Vit. Soph. l. 2, c. 31) che rammenta

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Di Aspasio da Raven-na.

singolarmente come egli fu nell'arte rettorica istruito daDemetriano suo padre, uomo egli pure versatissimo inquest'arte; che fu uomo dottissimo, che viaggiò per mol-te provincie or coll'imp. Alessandro, or con altri; e chefu a lui confidata la romana cattedra, cioè, come pareche intender si debba, l'impiego d'insegnar la rettoricanel romano ateneo. Altre notizie a lui attinenti si possonvedere presso il mentovato scrittore, e presso l'eruditis-simo p. ab. Ginanni (Mem. degli Scritt. Ravenn. t. 1, p.60).

VIII. Ed ecco tutto ciò che della romanaeloquenza di questi tempi ho potuto agrande stento raccogliere; giacchè più ol-tre non ci somministrano le storie e i mo-numenti antichi. Solo ci conviene qui ag-

giugnere alcuna cosa de' greci sofisti che per l'eloquenzasi renderono illustri in Roma, dei quali era proprio sin-golarmente il parlare senza apparecchio di qualunque ar-gomento venisse loro proposto. Tra essi il più famoso fuTiberio Claudio Attico Erode ateniese di patria, e mae-stro nell'eloquenza greca di M. Aurelio e di Lucio Vero(Jul. Capit. in M. Aur. c. 2, et in Vero c. 2). Eglidall'imp. Antonino fu in ricompensa sollevato all'onoredel consolato l'an. 143. Filostrato ne parla assai lunga-mente e con molte lodi (Vit. Soph. l. 2, c. 1), e narra, frale altre cose, che amava meglio la gloria di fareall'improvviso un ragionamento eloquente, che qualun-

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Sofisti greci in Roma, e pri-mieramente At-tico Erode.

singolarmente come egli fu nell'arte rettorica istruito daDemetriano suo padre, uomo egli pure versatissimo inquest'arte; che fu uomo dottissimo, che viaggiò per mol-te provincie or coll'imp. Alessandro, or con altri; e chefu a lui confidata la romana cattedra, cioè, come pareche intender si debba, l'impiego d'insegnar la rettoricanel romano ateneo. Altre notizie a lui attinenti si possonvedere presso il mentovato scrittore, e presso l'eruditis-simo p. ab. Ginanni (Mem. degli Scritt. Ravenn. t. 1, p.60).

VIII. Ed ecco tutto ciò che della romanaeloquenza di questi tempi ho potuto agrande stento raccogliere; giacchè più ol-tre non ci somministrano le storie e i mo-numenti antichi. Solo ci conviene qui ag-

giugnere alcuna cosa de' greci sofisti che per l'eloquenzasi renderono illustri in Roma, dei quali era proprio sin-golarmente il parlare senza apparecchio di qualunque ar-gomento venisse loro proposto. Tra essi il più famoso fuTiberio Claudio Attico Erode ateniese di patria, e mae-stro nell'eloquenza greca di M. Aurelio e di Lucio Vero(Jul. Capit. in M. Aur. c. 2, et in Vero c. 2). Eglidall'imp. Antonino fu in ricompensa sollevato all'onoredel consolato l'an. 143. Filostrato ne parla assai lunga-mente e con molte lodi (Vit. Soph. l. 2, c. 1), e narra, frale altre cose, che amava meglio la gloria di fareall'improvviso un ragionamento eloquente, che qualun-

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Sofisti greci in Roma, e pri-mieramente At-tico Erode.

que altro ancor grandissimo onore; e che avendone fattouno in età giovanile innanzi ad Adriano, conoscendo dinon esservi ben riuscito, se ne afflisse per modo che fuvicino a gittarsi disperatamente entro il Danubio. Nèsolo tenne egli scuola d'eloquenza a' due mentovati im-peradori, ma insegnolla ancora pubblicamente in Roma.Essendo in Atene, ove poscia si trasferì, ebbe l'onore dialloggiar in sua casa l'imp. Lucio Vero. Convien direche il suo sapere medesimo lo rendesse orgoglioso edaltero; poichè ebbe ardire di declamare pubblicamentecontro di M. Aurelio in presenza di lui medesimo, pertal maniera che pareva che avesse ad aspettarne la mor-te. Ma il mansueto imperadore dissimulò l'audacia deltemerario sofista; ed anzi avendo poi questi avuto il co-raggio di scrivergli, dolendosi che più non l'onorasse,come era solito di sue lettere, l'imperadore gli fece unasì amichevol risposta che sembrava non aver mai rice-vuta da lui offesa di sorte alcuna. Di Erode Attico parlaancora più volte Aulo Gellio (l. 1, c. 2; l. 9, c. 2; l. 18, c.10; l. 19, c. 12.) che il conobbe e con lui conversò spes-so in Atene, e ne loda l'ingegno e il sapere, e rammentala bella e amenissima casa di campagna, ch'egli aveapresso Atene, detta Cefisia.

IX. Molti altri sofisti greci vissuti a questotempo medesimo quai più quai meno inRoma trovansi nominati presso Filostrato;come Alessandro di Seleucia (Vit. Soph l. 1,

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Altri Sofi-sti, e gene-ral loro ca-rattere.

que altro ancor grandissimo onore; e che avendone fattouno in età giovanile innanzi ad Adriano, conoscendo dinon esservi ben riuscito, se ne afflisse per modo che fuvicino a gittarsi disperatamente entro il Danubio. Nèsolo tenne egli scuola d'eloquenza a' due mentovati im-peradori, ma insegnolla ancora pubblicamente in Roma.Essendo in Atene, ove poscia si trasferì, ebbe l'onore dialloggiar in sua casa l'imp. Lucio Vero. Convien direche il suo sapere medesimo lo rendesse orgoglioso edaltero; poichè ebbe ardire di declamare pubblicamentecontro di M. Aurelio in presenza di lui medesimo, pertal maniera che pareva che avesse ad aspettarne la mor-te. Ma il mansueto imperadore dissimulò l'audacia deltemerario sofista; ed anzi avendo poi questi avuto il co-raggio di scrivergli, dolendosi che più non l'onorasse,come era solito di sue lettere, l'imperadore gli fece unasì amichevol risposta che sembrava non aver mai rice-vuta da lui offesa di sorte alcuna. Di Erode Attico parlaancora più volte Aulo Gellio (l. 1, c. 2; l. 9, c. 2; l. 18, c.10; l. 19, c. 12.) che il conobbe e con lui conversò spes-so in Atene, e ne loda l'ingegno e il sapere, e rammentala bella e amenissima casa di campagna, ch'egli aveapresso Atene, detta Cefisia.

IX. Molti altri sofisti greci vissuti a questotempo medesimo quai più quai meno inRoma trovansi nominati presso Filostrato;come Alessandro di Seleucia (Vit. Soph l. 1,

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Altri Sofi-sti, e gene-ral loro ca-rattere.

c. 6), Adriano di Tiro (ib. c. 10), Pausania di Cesarea(ib. c. 13), Erodiano di Smirne (ib. c. 16) (8), Antipatro diJerapoli (ib. c. 24), Eliodoro (ib. c. 30), ed altri. Ma ionon penso di dovermi trattenere a parlarne più lunga-mente, sì perchè essi non furono italiani, e molti ancoradi loro non molto tempo si fermarono in Roma, si per-chè a parlare sinceramente io non credo di dovermitroppo affidare alla narrazion di Filostrato, scrittore cheparmi assai impegnato ad esaltare i suoi sofisti, e che diessi ci narra talvolta cose che difficilmente possono ot-tener fede; come a cagion d'esempio, ciò ch'ei raccontadel sopradetto Adriano che quando ne' giorni de' più so-lenni giuochi ei mandava al teatro l'avviso che egliavrebbe declamato nel pubblico ateneo, vedevansi tostoe senatori e cavalieri e uomini di qualunque condizione,e quelli ancora che non sapevan di greco, levarsi fretto-losamente, e dal teatro correr con impeto, e urtandosil'un l'altro, ove gli attendea l'eloquente sofista, cosa chenon parmi credibile al tempo di cui trattiamo, in cui noneran certo i Romani trasportati tanto dall'amor degli stu-dj, che con sì grande furore volessero dal teatro volarse-ne all'ateneo. Così pure io non farò che accennare AnnioMarco, Caninio Celere, Apollonio, che si annoverano daGiulio Capitolino tra' greci maestri di Marco Aurelio edi Lucio Vero nell'eloquenza (in M. Aur. c. 2; in Vero c.2), e Serapione maestro pur di eloquenza ad Aless. Se-vero (Lampr. in Alex. c. 3), ed Euganio maestro del gio-8 Sembra diverso da Erodiano di Smirne quell'altro Erodiano aless. parimen-

ti gram. vissuto a' tempi di M. Antonino, di cui fa menzione Suida.

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c. 6), Adriano di Tiro (ib. c. 10), Pausania di Cesarea(ib. c. 13), Erodiano di Smirne (ib. c. 16) (8), Antipatro diJerapoli (ib. c. 24), Eliodoro (ib. c. 30), ed altri. Ma ionon penso di dovermi trattenere a parlarne più lunga-mente, sì perchè essi non furono italiani, e molti ancoradi loro non molto tempo si fermarono in Roma, si per-chè a parlare sinceramente io non credo di dovermitroppo affidare alla narrazion di Filostrato, scrittore cheparmi assai impegnato ad esaltare i suoi sofisti, e che diessi ci narra talvolta cose che difficilmente possono ot-tener fede; come a cagion d'esempio, ciò ch'ei raccontadel sopradetto Adriano che quando ne' giorni de' più so-lenni giuochi ei mandava al teatro l'avviso che egliavrebbe declamato nel pubblico ateneo, vedevansi tostoe senatori e cavalieri e uomini di qualunque condizione,e quelli ancora che non sapevan di greco, levarsi fretto-losamente, e dal teatro correr con impeto, e urtandosil'un l'altro, ove gli attendea l'eloquente sofista, cosa chenon parmi credibile al tempo di cui trattiamo, in cui noneran certo i Romani trasportati tanto dall'amor degli stu-dj, che con sì grande furore volessero dal teatro volarse-ne all'ateneo. Così pure io non farò che accennare AnnioMarco, Caninio Celere, Apollonio, che si annoverano daGiulio Capitolino tra' greci maestri di Marco Aurelio edi Lucio Vero nell'eloquenza (in M. Aur. c. 2; in Vero c.2), e Serapione maestro pur di eloquenza ad Aless. Se-vero (Lampr. in Alex. c. 3), ed Euganio maestro del gio-8 Sembra diverso da Erodiano di Smirne quell'altro Erodiano aless. parimen-

ti gram. vissuto a' tempi di M. Antonino, di cui fa menzione Suida.

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vine Massimino (Jul. Capit. in Maximino jun. c. 3), edaltri che si potrebbono nominare; ma de' quali poco piùsappiamo comunemente che il mero nome. Il vedere,però sì gran numero di retori e sofisti greci in confrontodi sì scarso numero de' latini ci fa conoscere quanto fos-sero allora tra' Romani illanguiditi gli studj. Essi se nestavano spettatori tranquilli e oziosi ammiratori de' Gre-ci; ma non avendo motivo alcuno che gli spingesse adimitarne l'esempio, appena si curavano di volgersi aquegli studj che lodavano in altrui.

X. Io passerò ancor leggermente su' diversiFilostrati che fiorirono di questi tempi. È in-certo quanti essi fossero, e quali sian le ope-re di ciascheduno. Veggansi i diversi pareri

di Suida, del Vossio, del Meursio, del Jonsio, del Tille-mont, del Fabricio raccolti insieme da Goffredo Olearionella magnifica edizione delle Opere dei Filostrati da luipubblicata in Lipsia l'an. 1709. A me sembra più di tutteprobabile l'opinion dello stesso Oleario che tre Filostratiriconosce: il primo figliuol di Vero, sofista in Atene, eautor di più opere che rammentansi da Suida, ma tutteora smarrite. Il secondo figliuol del primo, che visselungo tempo in Roma regnando Settimio Severo, ed en-trato nella grazia di Giulia Donna moglie dell'imperado-re, la quale volea mostrarsi fomentatrice e coltivatricede' filosofici studj, per comando da essa avutone scrissein otto libri la Vita di Apollonio da Tiana, della quale

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Notizie de' tre Filostra-ti.

vine Massimino (Jul. Capit. in Maximino jun. c. 3), edaltri che si potrebbono nominare; ma de' quali poco piùsappiamo comunemente che il mero nome. Il vedere,però sì gran numero di retori e sofisti greci in confrontodi sì scarso numero de' latini ci fa conoscere quanto fos-sero allora tra' Romani illanguiditi gli studj. Essi se nestavano spettatori tranquilli e oziosi ammiratori de' Gre-ci; ma non avendo motivo alcuno che gli spingesse adimitarne l'esempio, appena si curavano di volgersi aquegli studj che lodavano in altrui.

X. Io passerò ancor leggermente su' diversiFilostrati che fiorirono di questi tempi. È in-certo quanti essi fossero, e quali sian le ope-re di ciascheduno. Veggansi i diversi pareri

di Suida, del Vossio, del Meursio, del Jonsio, del Tille-mont, del Fabricio raccolti insieme da Goffredo Olearionella magnifica edizione delle Opere dei Filostrati da luipubblicata in Lipsia l'an. 1709. A me sembra più di tutteprobabile l'opinion dello stesso Oleario che tre Filostratiriconosce: il primo figliuol di Vero, sofista in Atene, eautor di più opere che rammentansi da Suida, ma tutteora smarrite. Il secondo figliuol del primo, che visselungo tempo in Roma regnando Settimio Severo, ed en-trato nella grazia di Giulia Donna moglie dell'imperado-re, la quale volea mostrarsi fomentatrice e coltivatricede' filosofici studj, per comando da essa avutone scrissein otto libri la Vita di Apollonio da Tiana, della quale

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Notizie de' tre Filostra-ti.

già abbiamo veduto qual conto sì debba fare. Egli scris-se innoltre le Vite de' Sofisti, delle quali abbiamo fattouso in questo Capo medesimo; alcuni Dialoghi da lui in-titolati Eroici, nei quali all'occasion di parlare degli eroida Omero mentovati fa una severa critica di questo illu-stre poeta; due libri intitolati le Immagini in cui descrivele pitture che a suo tempo vedevansi in un portico diNapoli, e molte lettere; le quali opere tutte ancor ci ri-mangono. Il terzo Filostrato finalmente figliuolo di unasorella del secondo, che ad imitazione del suo zio mater-no scrisse egli pure un libro d'Immagini. Questi sembrache almeno per qualche tempo si stesse in Roma, poichèil materno suo zio racconta (Vit. Soph. l. 2, c. 30) che es-sendo egli in età di 24 anni, e avendo declamato innanzia Caracalla, questi per ricompensa il dichiarò immuneda' pubblici impieghi. Ma tutti questi Filostrati non ap-partengono se non assai di lontano al nostro argomento;poichè non furono nostri, e solo per qualche tempo sitrattener fra noi; e quindi, contento di averne accennataalcuna cosa, lascerò che chi è bramoso di saperne piùoltre consulti gli autori or or mentovati.

XI. Ma una riflessione non vuolsi omet-tere intorno a tutti questi sofisti greci de'quali abbiamo parlato. Io penso che adessi debbasi attribuire in gran parte il to-tale decadimento della latina eloquenza.

Erano essi uomini comunemente, il cui pregio maggiore

113

A' Sofisti deesi attribuire in gran parte il decadimento dell'eloquenza.

già abbiamo veduto qual conto sì debba fare. Egli scris-se innoltre le Vite de' Sofisti, delle quali abbiamo fattouso in questo Capo medesimo; alcuni Dialoghi da lui in-titolati Eroici, nei quali all'occasion di parlare degli eroida Omero mentovati fa una severa critica di questo illu-stre poeta; due libri intitolati le Immagini in cui descrivele pitture che a suo tempo vedevansi in un portico diNapoli, e molte lettere; le quali opere tutte ancor ci ri-mangono. Il terzo Filostrato finalmente figliuolo di unasorella del secondo, che ad imitazione del suo zio mater-no scrisse egli pure un libro d'Immagini. Questi sembrache almeno per qualche tempo si stesse in Roma, poichèil materno suo zio racconta (Vit. Soph. l. 2, c. 30) che es-sendo egli in età di 24 anni, e avendo declamato innanzia Caracalla, questi per ricompensa il dichiarò immuneda' pubblici impieghi. Ma tutti questi Filostrati non ap-partengono se non assai di lontano al nostro argomento;poichè non furono nostri, e solo per qualche tempo sitrattener fra noi; e quindi, contento di averne accennataalcuna cosa, lascerò che chi è bramoso di saperne piùoltre consulti gli autori or or mentovati.

XI. Ma una riflessione non vuolsi omet-tere intorno a tutti questi sofisti greci de'quali abbiamo parlato. Io penso che adessi debbasi attribuire in gran parte il to-tale decadimento della latina eloquenza.

Erano essi uomini comunemente, il cui pregio maggiore

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A' Sofisti deesi attribuire in gran parte il decadimento dell'eloquenza.

era una singolar facilità di parlare, e una prosontuosaaudacia di rispondere improvvisamente a qualunquequestione lor si facesse. Erano perciò uditi con maravi-glia; e l'orgoglio di cui erano gonfi, faceva che qualun-que cosa dicessero, si pronunciasse da essi in un tuonoautorevole d'impostura, che sorprendeva ed abbagliavanon solo il volgo ignorante, ma quelli ancora ch'eranomediocremente colti. Quindi al vedere uomini che senzagrande studio dicevano nondimeno cose maravigliosetanto e sublimi, spargevasi una cotal opinione che nonera poi necessario l'affaticarsi tanto su' libri per divenireuomo eloquente; e i buoni studj venivan perciò dimenti-cati e negletti. Aggiungasi che costoro di ogni altrascienza che non fosse quella di ben parlare, ragionavanocon disprezzo, di che li riprende aspramente Galeno (Depulsuum differen.); e quindi a chi gli udiva e gli ammira-va persuadevano facilmente di non curarsi punto di qua-lunque altra letteratura. E che aggiunto alle altre circo-stanze in cui trovavansi i Romani affrettò maggiormentetra essi il decadimento totale di tutte le scienze.

CAPO IV.Storia.

I. Qualche maggior numero di coltivatoriebbe a questo tempo la storia, o almenohanno essi avuto più felice destino, poichèalcuni de' loro libri, benchè in piccolo nu-

114

Confusione e inesattezzadelle storie di questi tempi.

era una singolar facilità di parlare, e una prosontuosaaudacia di rispondere improvvisamente a qualunquequestione lor si facesse. Erano perciò uditi con maravi-glia; e l'orgoglio di cui erano gonfi, faceva che qualun-que cosa dicessero, si pronunciasse da essi in un tuonoautorevole d'impostura, che sorprendeva ed abbagliavanon solo il volgo ignorante, ma quelli ancora ch'eranomediocremente colti. Quindi al vedere uomini che senzagrande studio dicevano nondimeno cose maravigliosetanto e sublimi, spargevasi una cotal opinione che nonera poi necessario l'affaticarsi tanto su' libri per divenireuomo eloquente; e i buoni studj venivan perciò dimenti-cati e negletti. Aggiungasi che costoro di ogni altrascienza che non fosse quella di ben parlare, ragionavanocon disprezzo, di che li riprende aspramente Galeno (Depulsuum differen.); e quindi a chi gli udiva e gli ammira-va persuadevano facilmente di non curarsi punto di qua-lunque altra letteratura. E che aggiunto alle altre circo-stanze in cui trovavansi i Romani affrettò maggiormentetra essi il decadimento totale di tutte le scienze.

CAPO IV.Storia.

I. Qualche maggior numero di coltivatoriebbe a questo tempo la storia, o almenohanno essi avuto più felice destino, poichèalcuni de' loro libri, benchè in piccolo nu-

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Confusione e inesattezzadelle storie di questi tempi.

mero, si sono fino a noi tramandati. Ma questo studioancora soggiacque alle vicende degli altri in ciò ch'è ele-ganza di scrivere. Anzi la confusione e il disordine incui era il romano Impero, pare che agli storici ancora sicomunicasse, e disordinate e confuse rendesse le lorostorie. Di ciò appunto si duole uno di essi, cioè GiulioCapitolino, mostrando che benchè essi scrivesser di coseseguite quasi a' lor tempi, aveanle nondimeno sconvolteper modo, che molti oltre altri errori eran giunti perfinoa fare di Massimo e di Balbino, che regnarono, insieme,un solo imperadore (in Max. et Balb. c. 15). E TrebellioPollione ancora dimostra quanto diverse e contrarie coseavessero scritte intorno a' trenta Tiranni (in Trig. Tirann.c. 1); e que' medesimi che così si dolgono degli altri,non ci hanno comunemente lasciate storie di tal natura,che non abbiamo, a desiderare in essi parimenti un ordi-ne o una chiarezza maggiore. Cominciamo da quelli de'quali ancor ci rimangon le storie, e poscia ragionaremodi coloro le cui opere sono perite.

II. Giustino che in qualche codice si chiamaMarco Giuniano Giustino, in qualche altroGiustino Frontino (V. Voss. de Hist. Lat. l. 1,c. 32, et Fabr. Bibl. lat. l. 3, c. 3) credesi co-munemente che vivesse a' tempi di Antoni-

no Pio, e il motivo di crederlo son le parole che leggonsiin alcune antiche edizioni di questo autore, colle qualiegli gl'indirizza la sua Storia. Altri però affermano che

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Storia di Giustino e notizie di esso.

mero, si sono fino a noi tramandati. Ma questo studioancora soggiacque alle vicende degli altri in ciò ch'è ele-ganza di scrivere. Anzi la confusione e il disordine incui era il romano Impero, pare che agli storici ancora sicomunicasse, e disordinate e confuse rendesse le lorostorie. Di ciò appunto si duole uno di essi, cioè GiulioCapitolino, mostrando che benchè essi scrivesser di coseseguite quasi a' lor tempi, aveanle nondimeno sconvolteper modo, che molti oltre altri errori eran giunti perfinoa fare di Massimo e di Balbino, che regnarono, insieme,un solo imperadore (in Max. et Balb. c. 15). E TrebellioPollione ancora dimostra quanto diverse e contrarie coseavessero scritte intorno a' trenta Tiranni (in Trig. Tirann.c. 1); e que' medesimi che così si dolgono degli altri,non ci hanno comunemente lasciate storie di tal natura,che non abbiamo, a desiderare in essi parimenti un ordi-ne o una chiarezza maggiore. Cominciamo da quelli de'quali ancor ci rimangon le storie, e poscia ragionaremodi coloro le cui opere sono perite.

II. Giustino che in qualche codice si chiamaMarco Giuniano Giustino, in qualche altroGiustino Frontino (V. Voss. de Hist. Lat. l. 1,c. 32, et Fabr. Bibl. lat. l. 3, c. 3) credesi co-munemente che vivesse a' tempi di Antoni-

no Pio, e il motivo di crederlo son le parole che leggonsiin alcune antiche edizioni di questo autore, colle qualiegli gl'indirizza la sua Storia. Altri però affermano che

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Storia di Giustino e notizie di esso.

le accennate parole non veggonsi in alcuno de' codici apenna, che ancor si conservano; e certamente in due diessi assai belli che ne ha questa celebre biblioteca esten-se, esse non si ritrovano, nè si può quindi stabilire que-sta opinione con tal certezza, che non rimanga ancorluogo, a dubitarne. Egli ridusse in compendio latino leampie Storie scritte già nella stessa lingua da TrogoPompeo, di cui abbiamo parlato tra gli storici del secold'Augusto; Storie che comincian da Nino, e giungonofino a' tempi del medesimo Augusto, e che da lui furonointitolate Filippiche, perchè singolarmente si stendevanonel racconto delle cose appartenenti all'impero dei Ma-cedoni. Qualche scrittore de' bassi secoli ha confusoGiustino lo storico latino col martire greco; errore cheda se medesimo chiaramente si manifesta. Egli ha unostile, per riguardo a' tempi in cui visse, colto ed elegan-te; ma in poco pregio n'è la storica fedeltà, in ciò singo-larmente che appartiene alla cronologia. Veggasi intornoa Giustino la bella prefazione premessa dall'ab. Favieralla traduzione francese di questo storico, che egli hapubblicata in Parigi l'an. 1737.

III. Dopo Giustino, supposto ch'egli fiorissea' tempi di Antonino Pio, un grande vuotoincontriamo nella storia romana; perciocchè

non ne abbiamo scrittore alcuno fino ai tempi di Diocle-ziano, cioè per oltre ad un secolo. Nè è già che non vifossero allora alcuni che scrivesser la storia de' tempi

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Notizie di Censorino.

le accennate parole non veggonsi in alcuno de' codici apenna, che ancor si conservano; e certamente in due diessi assai belli che ne ha questa celebre biblioteca esten-se, esse non si ritrovano, nè si può quindi stabilire que-sta opinione con tal certezza, che non rimanga ancorluogo, a dubitarne. Egli ridusse in compendio latino leampie Storie scritte già nella stessa lingua da TrogoPompeo, di cui abbiamo parlato tra gli storici del secold'Augusto; Storie che comincian da Nino, e giungonofino a' tempi del medesimo Augusto, e che da lui furonointitolate Filippiche, perchè singolarmente si stendevanonel racconto delle cose appartenenti all'impero dei Ma-cedoni. Qualche scrittore de' bassi secoli ha confusoGiustino lo storico latino col martire greco; errore cheda se medesimo chiaramente si manifesta. Egli ha unostile, per riguardo a' tempi in cui visse, colto ed elegan-te; ma in poco pregio n'è la storica fedeltà, in ciò singo-larmente che appartiene alla cronologia. Veggasi intornoa Giustino la bella prefazione premessa dall'ab. Favieralla traduzione francese di questo storico, che egli hapubblicata in Parigi l'an. 1737.

III. Dopo Giustino, supposto ch'egli fiorissea' tempi di Antonino Pio, un grande vuotoincontriamo nella storia romana; perciocchè

non ne abbiamo scrittore alcuno fino ai tempi di Diocle-ziano, cioè per oltre ad un secolo. Nè è già che non vifossero allora alcuni che scrivesser la storia de' tempi

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Notizie di Censorino.

loro. Ne vedremo frappoco i nomi. Ma convien dire chepoco conto si facesse delle loro fatiche; poichè sembraimpossibile, come osserva il Vossio (De Hist. lat. l. 2, c.1), che se esse fossero state in pregio, alcune almenonon si dovessero conservare. L'unico scrittor di questitempi, che ancor abbiamo, e che in qualche modo appar-tiene agli scrittori di storia, è Censorino, il quale nellasua operetta de Die Natali molte questioni ha trattato,che a rischiarare la crolonogia e la storia giovano mira-bilmente, e che perciò dal p. Petavio vien detto (D Doc-tr. Temp. l. 9, c. 45) auctor omnium judicio probatissi-mus ac diligentissimus in egregio nec unquam satis lau-dato opere de die Natali, ec. Viveva egli e scriveva ilsuo libro, come attesta egli stesso (c. 21), l'an. di Roma991, ossia dell'era crist. 238, regnando il terzo Gordiano.Sembra che egli a qualche onorevole dignità fosse solle-vato in Roma; perciocchè indirizzando il suo libro a Q.Cerellio, confessa di essere a lui debitore della dignità,dell'onore, e di tutti gli agi di cui godeva. Di lui parlaancor con lode Prisciano, e il chiama uomo dottissimoin gramatica (l. 1), e ne rammenta ancora un libro sopragli accenti, di cui pur fa menzione il celebre Cassiodoro(l. de Geometria, et l. de Musica). Lo stile però di Cen-sorino è qual conveniva alla età in cui scrisse, lontanoassai dall'antica eleganza, e sparso di parole nuove e nonpiù usate, effetto dell'affollato concorrere che facevanoa Roma gli stranieri d'ogni nazione, che i lor costumi ela lor lingua comunicavano ai Romani. Io aggiungeròqui ancora Giulio Obsequente autore di un libro de' Pro-

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loro. Ne vedremo frappoco i nomi. Ma convien dire chepoco conto si facesse delle loro fatiche; poichè sembraimpossibile, come osserva il Vossio (De Hist. lat. l. 2, c.1), che se esse fossero state in pregio, alcune almenonon si dovessero conservare. L'unico scrittor di questitempi, che ancor abbiamo, e che in qualche modo appar-tiene agli scrittori di storia, è Censorino, il quale nellasua operetta de Die Natali molte questioni ha trattato,che a rischiarare la crolonogia e la storia giovano mira-bilmente, e che perciò dal p. Petavio vien detto (D Doc-tr. Temp. l. 9, c. 45) auctor omnium judicio probatissi-mus ac diligentissimus in egregio nec unquam satis lau-dato opere de die Natali, ec. Viveva egli e scriveva ilsuo libro, come attesta egli stesso (c. 21), l'an. di Roma991, ossia dell'era crist. 238, regnando il terzo Gordiano.Sembra che egli a qualche onorevole dignità fosse solle-vato in Roma; perciocchè indirizzando il suo libro a Q.Cerellio, confessa di essere a lui debitore della dignità,dell'onore, e di tutti gli agi di cui godeva. Di lui parlaancor con lode Prisciano, e il chiama uomo dottissimoin gramatica (l. 1), e ne rammenta ancora un libro sopragli accenti, di cui pur fa menzione il celebre Cassiodoro(l. de Geometria, et l. de Musica). Lo stile però di Cen-sorino è qual conveniva alla età in cui scrisse, lontanoassai dall'antica eleganza, e sparso di parole nuove e nonpiù usate, effetto dell'affollato concorrere che facevanoa Roma gli stranieri d'ogni nazione, che i lor costumi ela lor lingua comunicavano ai Romani. Io aggiungeròqui ancora Giulio Obsequente autore di un libro de' Pro-

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digi avvenuti in Roma e altrove, ch'egli raccolse singo-larmente da Livio, usando spesso ancor delle stesse pa-role. Non si sa precisamente a quale età ei vivesse, e di-versi sono su di ciò i pareri degli eruditi. Io credo di do-verlo porre a questi tempi, poichè lo stile di cui egli usanon parmi convenire a' secoli posteriori. Non tutto peròquesto libro, ma una parte sola ce n'è pervenuta.

IV. Gli ultimi storici di questa età vissuti aun dipresso al tempo medesimo, e esercitati-si nel medesimo argomento, sono gli scritto-ri della Storia Augusta. Con questo nome sichiama una raccolta di Vite degl'imperadori,

cominciando da Adriano fino a Carino e a Numeriano,scritte da diversi autori, ma tutte nel medesimo stile in-colto comunemente e senza ornamento, e eleganza disorte alcuna; talchè trattene le notizie che vi si conten-gono, ed esse ancora non sempre esatte, e spesso disor-dinate e confuse, non trovasi in esse cosa che le rendapregevoli. Degli autori stessi poco più sappiamo che inomi, e l'età a cui vissero. Essi sono Elio Sparziano,Giulio Capitolino, Elio Lampridio, Vulcazio Gallicano,Trebellio Pollione, e Flavio Vopisco di patria siracusanoch'è il meno incolto di tutti gli altri. Anzi alcuni sospet-tano che quattro soli debbansi riconoscere autori di que-ste Vite. Perciocchè di Vulcazio Galicano, dicono essi,non abbiam che la Vita di Avidio Cassio che usurpossi iltrono per qualche tempo regnando M. Aurelio. Or que-

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Incertezza intorno agliscrittori della StoriaAugusta.

digi avvenuti in Roma e altrove, ch'egli raccolse singo-larmente da Livio, usando spesso ancor delle stesse pa-role. Non si sa precisamente a quale età ei vivesse, e di-versi sono su di ciò i pareri degli eruditi. Io credo di do-verlo porre a questi tempi, poichè lo stile di cui egli usanon parmi convenire a' secoli posteriori. Non tutto peròquesto libro, ma una parte sola ce n'è pervenuta.

IV. Gli ultimi storici di questa età vissuti aun dipresso al tempo medesimo, e esercitati-si nel medesimo argomento, sono gli scritto-ri della Storia Augusta. Con questo nome sichiama una raccolta di Vite degl'imperadori,

cominciando da Adriano fino a Carino e a Numeriano,scritte da diversi autori, ma tutte nel medesimo stile in-colto comunemente e senza ornamento, e eleganza disorte alcuna; talchè trattene le notizie che vi si conten-gono, ed esse ancora non sempre esatte, e spesso disor-dinate e confuse, non trovasi in esse cosa che le rendapregevoli. Degli autori stessi poco più sappiamo che inomi, e l'età a cui vissero. Essi sono Elio Sparziano,Giulio Capitolino, Elio Lampridio, Vulcazio Gallicano,Trebellio Pollione, e Flavio Vopisco di patria siracusanoch'è il meno incolto di tutti gli altri. Anzi alcuni sospet-tano che quattro soli debbansi riconoscere autori di que-ste Vite. Perciocchè di Vulcazio Galicano, dicono essi,non abbiam che la Vita di Avidio Cassio che usurpossi iltrono per qualche tempo regnando M. Aurelio. Or que-

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Incertezza intorno agliscrittori della StoriaAugusta.

sta Vita in altri codici si attribuisce a Sparziano, e molteragioni sembrano render probabile questa opinione. In-noltre Elio Lampridio credesi da alcuni che non sia di-verso da Sparziano, il cui nome voglion che fosse ElioLampridio Sparziano; e recano essi pure a prova del lorsentimento l'autorità di alcuni codici ne' quali le Viteche soglionsi attribuire a Lampridio, attribuite si veggo-no a Sparziano. Molto ancor si contende tra gli eruditinel dividere fra' diversi autori le diverse Vite, e non sonmolte quelle in cui tutti convengono in riconoscere perautore uno a preferenza degli altri. Ma io mi asterròdall'entrare in queste aride e spinose quistioni, in cui,dopo aver lungamente annoiati i lettori, altro finalmentenon potrei fare, che conchiudere non potersi intorno adesse determinare cosa alcuna di certo. Ciò che con piùsicurezza si può affermare, sì è ch'essi vissero a' tempidi Diocleziano e ancora di Costantino, perciocchè Spar-ziano e Vulcazio e Lampridio (se furono da lui diversi),e Giulio Capitolino dedicarono parte a Diocleziano, par-te a Costantino le loro Vite; Trebellio Pollione scrisseregnando Costanzo Cloro, e al tempo medesimo, o pocoappresso scrisse ancora Vopisco. Intorno a tutte questequistioni che da noi si sono brevemente accennate, veg-gansi i commentatori della Storia Augusta, e singolar-mente, il Salmasio e il Casaubono, il Vossio (De Hist.lat. l. 2, c. 5, 6, 7) e il Fabricio (Bibl. lat. l. 3, c. 6), ilquale ancora ha diligentemente raccolti i sentimenti de-gli eruditi intorno a questi scrittori, e il Tillemont (inDiocl. art. 26, 27).

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sta Vita in altri codici si attribuisce a Sparziano, e molteragioni sembrano render probabile questa opinione. In-noltre Elio Lampridio credesi da alcuni che non sia di-verso da Sparziano, il cui nome voglion che fosse ElioLampridio Sparziano; e recano essi pure a prova del lorsentimento l'autorità di alcuni codici ne' quali le Viteche soglionsi attribuire a Lampridio, attribuite si veggo-no a Sparziano. Molto ancor si contende tra gli eruditinel dividere fra' diversi autori le diverse Vite, e non sonmolte quelle in cui tutti convengono in riconoscere perautore uno a preferenza degli altri. Ma io mi asterròdall'entrare in queste aride e spinose quistioni, in cui,dopo aver lungamente annoiati i lettori, altro finalmentenon potrei fare, che conchiudere non potersi intorno adesse determinare cosa alcuna di certo. Ciò che con piùsicurezza si può affermare, sì è ch'essi vissero a' tempidi Diocleziano e ancora di Costantino, perciocchè Spar-ziano e Vulcazio e Lampridio (se furono da lui diversi),e Giulio Capitolino dedicarono parte a Diocleziano, par-te a Costantino le loro Vite; Trebellio Pollione scrisseregnando Costanzo Cloro, e al tempo medesimo, o pocoappresso scrisse ancora Vopisco. Intorno a tutte questequistioni che da noi si sono brevemente accennate, veg-gansi i commentatori della Storia Augusta, e singolar-mente, il Salmasio e il Casaubono, il Vossio (De Hist.lat. l. 2, c. 5, 6, 7) e il Fabricio (Bibl. lat. l. 3, c. 6), ilquale ancora ha diligentemente raccolti i sentimenti de-gli eruditi intorno a questi scrittori, e il Tillemont (inDiocl. art. 26, 27).

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V. Assai, maggiore è il numero degli scritto-ri da cui sappiamo che furon composte Sto-rie ora interamente perite; ma null'altro co-munemente sappiamo fuorchè questo stesso,

ch'essi scrissero, perchè li veggiamo citati da' posterioriscrittori; anzi non troviam pure non poche volte di qualpatria essi fossero e in qual lingua scrivessero le loroStorie. Già abbiam parlato di Giulio Tiziano che scrittiavea alcuni libri sulle Provincie dell'Impero, da' qualiprobabilmente sarebbonsi potuti raccogliere molti lumiper la storia di que' tempi; e detto abbiam parimentidell'opera sulle Cose recondite composta da Samonico ilpadre. Così pure abbiam rammentato e la Vita che di semedesimo avea scritta Settimio Severo, e gli elogi de'migliori principi composti da Aless. Severo. Altri moltise ne veggon citati dagli scrittori della Storia Augusta,come Elio Mauro liberto di Flegonte, liberto esso puredi Adriano, il quale qualche cosa avea scritta apparte-nente alla Vita di Settimio Severo (Spart. in Sev. c. 20),Lollio Urbico che avea scritta la storia de' suoi tempicioè del regno di Severo e de' successori (Lampr. in An-ton. Diadum. c. 9), Aurelio Filippo ed Encolpio e Setti-mio ed Acolio che scrissero la Vita di Aless. Severo (id.in Alex. Sev. c. 3, 48), Gargilio Marziale che oltre la Vitadel medesimo imperadore (ib. c. 37) avea scritti ancoraalcuni libri sulla cultura degli orti (Pallad. de re rust.),seppure non son questi due scrittori diversi; e MarioMassimo, e Elio ovver Giunio Cordo, che di molti im-peradori aveano scritta la Vita, e spesso perciò vengono

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Altre operestoricheperdute.

V. Assai, maggiore è il numero degli scritto-ri da cui sappiamo che furon composte Sto-rie ora interamente perite; ma null'altro co-munemente sappiamo fuorchè questo stesso,

ch'essi scrissero, perchè li veggiamo citati da' posterioriscrittori; anzi non troviam pure non poche volte di qualpatria essi fossero e in qual lingua scrivessero le loroStorie. Già abbiam parlato di Giulio Tiziano che scrittiavea alcuni libri sulle Provincie dell'Impero, da' qualiprobabilmente sarebbonsi potuti raccogliere molti lumiper la storia di que' tempi; e detto abbiam parimentidell'opera sulle Cose recondite composta da Samonico ilpadre. Così pure abbiam rammentato e la Vita che di semedesimo avea scritta Settimio Severo, e gli elogi de'migliori principi composti da Aless. Severo. Altri moltise ne veggon citati dagli scrittori della Storia Augusta,come Elio Mauro liberto di Flegonte, liberto esso puredi Adriano, il quale qualche cosa avea scritta apparte-nente alla Vita di Settimio Severo (Spart. in Sev. c. 20),Lollio Urbico che avea scritta la storia de' suoi tempicioè del regno di Severo e de' successori (Lampr. in An-ton. Diadum. c. 9), Aurelio Filippo ed Encolpio e Setti-mio ed Acolio che scrissero la Vita di Aless. Severo (id.in Alex. Sev. c. 3, 48), Gargilio Marziale che oltre la Vitadel medesimo imperadore (ib. c. 37) avea scritti ancoraalcuni libri sulla cultura degli orti (Pallad. de re rust.),seppure non son questi due scrittori diversi; e MarioMassimo, e Elio ovver Giunio Cordo, che di molti im-peradori aveano scritta la Vita, e spesso perciò vengono

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Altre operestoricheperdute.

rammentati nella Storia Augusta; ma ripresi amendue diavere usata soverchia prolissità, e di avere nelle loro sto-rie inseriti racconti favolosi, inutili e puerili (Vop. inFirm., ec. c. 1; Capitolin. in Gordianis c. 21, ec.), e inmolti altri che io potrei qui rammentare, se volessi tesse-re una lunga e noiosa serie di nomi. Ma veggasi il Vos-sio che gli ha già diligentemente raccolti (De Hist. lat. l.2, c. 2, 3, 4, 5).

VI. Prima d'innoltrarmi a parlar degli storicigreci che fiorirono o scrissero in Roma,vuolsi qui fare alquanto di riflessione sul ca-rattere degli scrittori della Storia Augusta,de' quali abbiam or or favellato. Svetonio

che fu il primo a scriver separatamente le Vite dei Cesa-ri, tenne, come a suo luogo abbiamo osservato, un cotalsuo modo di scrivere, per cui parve che volesse anzi tra-mandarci la domestica che la pubblica storia diquegl'imperadori, e maggior diligenza usò comunemen-te nel descriverci il privato tenore della lor vita, che leguerre e le altre vicende del loro impero. Or come i pri-mi esempi si seguono facilmente, il metodo di Svetoniofu abbracciato e seguito da quegli scrittori che ne conti-nuarono l'argomento collo scriver le Vite degl'Imperado-ri seguenti, poichè anch'essi furono comunemente minu-ti troppo, e, direi quasi, superstiziosi nel descriverci ilportamento, le costumanze, l'abito, il vitto ed altre similicircostanze di non molto peso della vita dei loro princi-

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Carattere de' suddetti scrittori della StoriaAugusta.

rammentati nella Storia Augusta; ma ripresi amendue diavere usata soverchia prolissità, e di avere nelle loro sto-rie inseriti racconti favolosi, inutili e puerili (Vop. inFirm., ec. c. 1; Capitolin. in Gordianis c. 21, ec.), e inmolti altri che io potrei qui rammentare, se volessi tesse-re una lunga e noiosa serie di nomi. Ma veggasi il Vos-sio che gli ha già diligentemente raccolti (De Hist. lat. l.2, c. 2, 3, 4, 5).

VI. Prima d'innoltrarmi a parlar degli storicigreci che fiorirono o scrissero in Roma,vuolsi qui fare alquanto di riflessione sul ca-rattere degli scrittori della Storia Augusta,de' quali abbiam or or favellato. Svetonio

che fu il primo a scriver separatamente le Vite dei Cesa-ri, tenne, come a suo luogo abbiamo osservato, un cotalsuo modo di scrivere, per cui parve che volesse anzi tra-mandarci la domestica che la pubblica storia diquegl'imperadori, e maggior diligenza usò comunemen-te nel descriverci il privato tenore della lor vita, che leguerre e le altre vicende del loro impero. Or come i pri-mi esempi si seguono facilmente, il metodo di Svetoniofu abbracciato e seguito da quegli scrittori che ne conti-nuarono l'argomento collo scriver le Vite degl'Imperado-ri seguenti, poichè anch'essi furono comunemente minu-ti troppo, e, direi quasi, superstiziosi nel descriverci ilportamento, le costumanze, l'abito, il vitto ed altre similicircostanze di non molto peso della vita dei loro princi-

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Carattere de' suddetti scrittori della StoriaAugusta.

pi. Abbiamo accennato che questo difetto rimproverava-si singolarmente a Giunio Cordo. "Noi non abbiam vo-luto" dice Giulio Capitolino (in Gordianis c. 21) "narra-re alcune cose che Giunio Cordo ridicolosamente escioccamente ha raccolte intorno a' domestici piaceri ead altri più vili oggetti. Chi fosse avido di saperne, leggalo stesso Cordo, il quale racconta ancora quali schiavi equali amici avesse ognuno de' principi, e quante vesti; lascienza delle quali cose non giova punto". E altrove (inOpilio Macrino c. 1) "Giunio Cordo ha voluto scriver leVite di quegl'Imperadori cui vedeva essere men famosi;ma in ciò non è stato molto felice; perciocchè pochecose potè rinvenire, e quelle ancora non degne d'essereraccontate, essendosi egli medesimo prefisso di voler ri-cercare le più piccole cose, come se molto importar cidovesse il saper di Traiano, di Antonino Pio, e di M.Aurelio, quante volte, uscisser di casa, come variassero icibi, quando cambiasser le vesti, e chi promovessero equando; le quali cose avendo egli volute narrare, hariempite le sue Storie di favolosi racconti". Ma lo stessoGiulio Capitolino che riprende Cordo di un tal difetto,non ha saputo andarne esente egli stesso. Basta leggerealcune delle Vite da lui e dagli altri autori della StoriaAugusta descritte per riconoscere come essi ancora,contenti di accennare in breve le pubbliche rivoluzioni,si perdono inutilmente in racconti domestici di tali coseche a chi vive singolarmente lontan da que' tempi nonrecano nè utile nè piacere alcuno. Così l'esempio di Sve-tonio fu dagli altri imitato; e così avviene spesso che

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pi. Abbiamo accennato che questo difetto rimproverava-si singolarmente a Giunio Cordo. "Noi non abbiam vo-luto" dice Giulio Capitolino (in Gordianis c. 21) "narra-re alcune cose che Giunio Cordo ridicolosamente escioccamente ha raccolte intorno a' domestici piaceri ead altri più vili oggetti. Chi fosse avido di saperne, leggalo stesso Cordo, il quale racconta ancora quali schiavi equali amici avesse ognuno de' principi, e quante vesti; lascienza delle quali cose non giova punto". E altrove (inOpilio Macrino c. 1) "Giunio Cordo ha voluto scriver leVite di quegl'Imperadori cui vedeva essere men famosi;ma in ciò non è stato molto felice; perciocchè pochecose potè rinvenire, e quelle ancora non degne d'essereraccontate, essendosi egli medesimo prefisso di voler ri-cercare le più piccole cose, come se molto importar cidovesse il saper di Traiano, di Antonino Pio, e di M.Aurelio, quante volte, uscisser di casa, come variassero icibi, quando cambiasser le vesti, e chi promovessero equando; le quali cose avendo egli volute narrare, hariempite le sue Storie di favolosi racconti". Ma lo stessoGiulio Capitolino che riprende Cordo di un tal difetto,non ha saputo andarne esente egli stesso. Basta leggerealcune delle Vite da lui e dagli altri autori della StoriaAugusta descritte per riconoscere come essi ancora,contenti di accennare in breve le pubbliche rivoluzioni,si perdono inutilmente in racconti domestici di tali coseche a chi vive singolarmente lontan da que' tempi nonrecano nè utile nè piacere alcuno. Così l'esempio di Sve-tonio fu dagli altri imitato; e così avviene spesso che

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uno scrittore, singolarmente se sia uomo di qualchefama, basti ad infettare col suo esempio tutta una città eanche una intera provincia.

VII. Or venendo a parlare degli storicigreci che vissero almen qualche tempo inRoma, e le cui Storie ci son rimaste, giac-chè di essi soli farem menzione, i più anti-chi di quest'epoca sono Appiano alessan-drino e Arriano di Nicomedia. Il primoscriveva la sua Storia, com'egli stesso af-

ferma (in Syriac.), circa dugent'anni dopo il comincia-mento della monarchia di Cesare, cioè circa la metà delII sec. crist. Egli erasi per qualche tempo esercitato neltrattar le cause nel foro; poscia gli fu dagl'imperadori af-fidata l'aniministrazione de' loro beni, come dalla suastessa prefazion si raccoglie. Prese egli a trattare un ar-gomento che già da molti altri scrittori era stato illustra-to, cioè la storia romana; ma per dare alla sua opera unnuovo aspetto, invece di seguir l'ordine cronologico,come gli altri avean fatto, scrisse separatamente di cia-scheduna delle nazioni, che dai Romani erano state sog-giogate, e delle guerre ch'essi perciò aveano sostenute.Quindi scrisse ancora la storia delle funeste guerre civiliche per tanti anni travagliata aveano la repubblica. Setteintieri libri delle guerre straniere, e cinque delle civili cison rimasti, oltre qualche frammento. Ma assai piùaveane egli scritto, come raccogliesi e da lui stesso che

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Storici greci in Roma e pri-mieramente Appiano ales-sandrino e Ar-riano da Nico-media.

uno scrittore, singolarmente se sia uomo di qualchefama, basti ad infettare col suo esempio tutta una città eanche una intera provincia.

VII. Or venendo a parlare degli storicigreci che vissero almen qualche tempo inRoma, e le cui Storie ci son rimaste, giac-chè di essi soli farem menzione, i più anti-chi di quest'epoca sono Appiano alessan-drino e Arriano di Nicomedia. Il primoscriveva la sua Storia, com'egli stesso af-

ferma (in Syriac.), circa dugent'anni dopo il comincia-mento della monarchia di Cesare, cioè circa la metà delII sec. crist. Egli erasi per qualche tempo esercitato neltrattar le cause nel foro; poscia gli fu dagl'imperadori af-fidata l'aniministrazione de' loro beni, come dalla suastessa prefazion si raccoglie. Prese egli a trattare un ar-gomento che già da molti altri scrittori era stato illustra-to, cioè la storia romana; ma per dare alla sua opera unnuovo aspetto, invece di seguir l'ordine cronologico,come gli altri avean fatto, scrisse separatamente di cia-scheduna delle nazioni, che dai Romani erano state sog-giogate, e delle guerre ch'essi perciò aveano sostenute.Quindi scrisse ancora la storia delle funeste guerre civiliche per tanti anni travagliata aveano la repubblica. Setteintieri libri delle guerre straniere, e cinque delle civili cison rimasti, oltre qualche frammento. Ma assai piùaveane egli scritto, come raccogliesi e da lui stesso che

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Storici greci in Roma e pri-mieramente Appiano ales-sandrino e Ar-riano da Nico-media.

cita alcuni suoi libri che or più non abbiamo, e da Fozioche ne annovera ventiquattro (Bibl. c. 57). Lo stile, se-condo il parere dello stesso Fozio, n'è semplice, ma èsincero il racconto, e assai opportuno ad istruire chi illegge nell'arte militare. Egli è però ripreso da alcuni diessersi fatto bello delle fatiche altrui, e di aver presomolto da Polibio e da Plutarco (V. Voss. de Histor. gr. l.2, c. 13; e Fabr. Bibl. gr. l. 4, c. 12). Il secondo, cioè Ar-riano di Nicomedia, fu, come altrove s'è accennato, di-scepolo di Epitetto, di cui scrisse la Vita, e raccolse isentimenti e le massime. Fozio dice (Bibl. c. 58) ch'ei fuchiamato il secondo Senofonte, e ch'ebbe ancor l'onoredel consolato. Ei visse secondo Suida (in Lex.) a' tempidi Adriano, di Antonino e di M. Aurelio. Di lui abbiamopiù opere elegantemente scritte, cioè quattro libri de' Di-scorsi di Epitteto, sette libri delle spedizioni di Alessan-dro il grande, la descrizione delle Coste del Ponto Eusi-no, un libro intorno all'ordinare le schiere, oltre altreopere che son perite, delle quali veggasi il Fabricio(Bibl. gr. l. 4. c. 8). Pausania forse ancora vuol qui ram-mentarsi, di cui abbiamo i dieci libri della descriziondella Grecia, la quale, benchè contenga de' favolosi rac-conti, è nondimeno una delle opere più importanti per lostudio delle antichità e per la storia delle arti. Egli deeaver luogo nella Storia dell'Italiana Letteratura, quandosia vera l'opinione del Vossio (ib. c. 14) che questi siaquel Pausania sofista e discepolo di Erode Attico, di cuiparla Filostrato (Vit. Soph. l. 2), e di cui racconta che de-clamò non solo in Atene, ma in Roma ancora, e che in

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cita alcuni suoi libri che or più non abbiamo, e da Fozioche ne annovera ventiquattro (Bibl. c. 57). Lo stile, se-condo il parere dello stesso Fozio, n'è semplice, ma èsincero il racconto, e assai opportuno ad istruire chi illegge nell'arte militare. Egli è però ripreso da alcuni diessersi fatto bello delle fatiche altrui, e di aver presomolto da Polibio e da Plutarco (V. Voss. de Histor. gr. l.2, c. 13; e Fabr. Bibl. gr. l. 4, c. 12). Il secondo, cioè Ar-riano di Nicomedia, fu, come altrove s'è accennato, di-scepolo di Epitetto, di cui scrisse la Vita, e raccolse isentimenti e le massime. Fozio dice (Bibl. c. 58) ch'ei fuchiamato il secondo Senofonte, e ch'ebbe ancor l'onoredel consolato. Ei visse secondo Suida (in Lex.) a' tempidi Adriano, di Antonino e di M. Aurelio. Di lui abbiamopiù opere elegantemente scritte, cioè quattro libri de' Di-scorsi di Epitteto, sette libri delle spedizioni di Alessan-dro il grande, la descrizione delle Coste del Ponto Eusi-no, un libro intorno all'ordinare le schiere, oltre altreopere che son perite, delle quali veggasi il Fabricio(Bibl. gr. l. 4. c. 8). Pausania forse ancora vuol qui ram-mentarsi, di cui abbiamo i dieci libri della descriziondella Grecia, la quale, benchè contenga de' favolosi rac-conti, è nondimeno una delle opere più importanti per lostudio delle antichità e per la storia delle arti. Egli deeaver luogo nella Storia dell'Italiana Letteratura, quandosia vera l'opinione del Vossio (ib. c. 14) che questi siaquel Pausania sofista e discepolo di Erode Attico, di cuiparla Filostrato (Vit. Soph. l. 2), e di cui racconta che de-clamò non solo in Atene, ma in Roma ancora, e che in

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questa città invecchiato finì i suoi giorni. Ma a dir veronon facendo Filostrato menzione alcuna di questa operascritta dal suo Pausania, il che sembra ch'ei non avrebbedovuto tacere, parmi più verisimile l'opinione di Tille-mont (in M. Aur. §. 33) che inclina a credere che il sofi-sta Pausania diverso sia dallo storico, vissuti però altempo medesimo.

VIII. Con più certezza e per assai miglioreragione dobbiamo a questo luogo parlaredel celebre storico Dione Cassio detto ancorCocceiano. Egli ebbe a padre Aproniano

che fu governatore della Cilicia (Dio. l. 69), e della Pan-nonia (ib. l. 49) e ch'è perciò probabile che gran partedella sua vita passasse in Roma. Dione nondimeno dice-si nativo di Nicea nella Bitinia; ma certo egli era già inRoma a' tempi di Commodo; poichè venendo a raccon-tare le crudeltà da lui usate, dice di narrar cose che aveavedute egli stesso (l. 72); anzi era egli allora già senato-re, e rammenta il consiglio ch'ei diede ad alcuni de' suoicolleghi di porsi in bocca una foglia d'alloro per frenarele risa, allor quando Commodo in pien senato vantavaridicolosamente le sue prodezze (ib.). Pertinace succes-sore di Commodo avealo nominato alla dignità di preto-re (l. 83); ma pare che la morte dello stesso imperadoregli impedisse il conseguirla; molto più che Giuliano suc-cessore di Pertinace non eragli molto amico, poichè,avendo Dione trattate talvolta contro di lui alcune cause

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Notizie di Dione Cas-sio.

questa città invecchiato finì i suoi giorni. Ma a dir veronon facendo Filostrato menzione alcuna di questa operascritta dal suo Pausania, il che sembra ch'ei non avrebbedovuto tacere, parmi più verisimile l'opinione di Tille-mont (in M. Aur. §. 33) che inclina a credere che il sofi-sta Pausania diverso sia dallo storico, vissuti però altempo medesimo.

VIII. Con più certezza e per assai miglioreragione dobbiamo a questo luogo parlaredel celebre storico Dione Cassio detto ancorCocceiano. Egli ebbe a padre Aproniano

che fu governatore della Cilicia (Dio. l. 69), e della Pan-nonia (ib. l. 49) e ch'è perciò probabile che gran partedella sua vita passasse in Roma. Dione nondimeno dice-si nativo di Nicea nella Bitinia; ma certo egli era già inRoma a' tempi di Commodo; poichè venendo a raccon-tare le crudeltà da lui usate, dice di narrar cose che aveavedute egli stesso (l. 72); anzi era egli allora già senato-re, e rammenta il consiglio ch'ei diede ad alcuni de' suoicolleghi di porsi in bocca una foglia d'alloro per frenarele risa, allor quando Commodo in pien senato vantavaridicolosamente le sue prodezze (ib.). Pertinace succes-sore di Commodo avealo nominato alla dignità di preto-re (l. 83); ma pare che la morte dello stesso imperadoregli impedisse il conseguirla; molto più che Giuliano suc-cessore di Pertinace non eragli molto amico, poichè,avendo Dione trattate talvolta contro di lui alcune cause

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Notizie di Dione Cas-sio.

nel foro, avealo tacciato d'ingiusto (ib.). Pare ch'egli fos-se console la prima volta sotto Settimio Severo (l. 76).Di molte provincie ebbe egli poscia il governo; di Per-gamo e di Smirne dall'imp. Macrino (l. 79): e da' se-guenti imperadori, della Bitinia, dell'Egitto, e della Pan-nonia superiore (l. 80). Aless. Severo gli fè l'onore dinominarlo seco console per la seconda volta l'anno 229.Ma egli che sapeva di aver incorso l'odio de' pretoriani,perchè era esattor rigoroso della militar disciplina, temè,come egli stesso racconta (ib.), che quando il vedesserorivestito delle consolari insegne, non l'uccidessero.Alessandro perciò comandogli che in tempo di questosuo consolato se ne stesse fuori di Roma in qualche cittàd'Italia. Il che avendo egli fatto, tornossene poscia aRoma, e quindi recossi ad Alessandro che stavasi in Ter-ra di Lavoro; e trattenutosi alcuni giorni con lui, otten-ne, per cagione di non so quale infermità che soffrivanei piedi, di tornarsene alla sua patria per passarvi tran-quillamente ciò che gli rimaneva di vita.

IX. Scrisse egli in ottanta libri un'intera Sto-ria romana dalla venuta di Enea in Italiafino a' tempi di Aless. Severo. Confessa eglistesso di avere impiegati dieci anni (l. 72) a

raccoglier le notizie per ciò opportune, e dodici anni adistender la Storia fino alla morte di Commodo, a cuiposcia aggiunse ciò che apparteneva agli altri imperado-ri. Ma i primi trentaquattro libri e una gran parte del

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Carattere della sua Storia.

nel foro, avealo tacciato d'ingiusto (ib.). Pare ch'egli fos-se console la prima volta sotto Settimio Severo (l. 76).Di molte provincie ebbe egli poscia il governo; di Per-gamo e di Smirne dall'imp. Macrino (l. 79): e da' se-guenti imperadori, della Bitinia, dell'Egitto, e della Pan-nonia superiore (l. 80). Aless. Severo gli fè l'onore dinominarlo seco console per la seconda volta l'anno 229.Ma egli che sapeva di aver incorso l'odio de' pretoriani,perchè era esattor rigoroso della militar disciplina, temè,come egli stesso racconta (ib.), che quando il vedesserorivestito delle consolari insegne, non l'uccidessero.Alessandro perciò comandogli che in tempo di questosuo consolato se ne stesse fuori di Roma in qualche cittàd'Italia. Il che avendo egli fatto, tornossene poscia aRoma, e quindi recossi ad Alessandro che stavasi in Ter-ra di Lavoro; e trattenutosi alcuni giorni con lui, otten-ne, per cagione di non so quale infermità che soffrivanei piedi, di tornarsene alla sua patria per passarvi tran-quillamente ciò che gli rimaneva di vita.

IX. Scrisse egli in ottanta libri un'intera Sto-ria romana dalla venuta di Enea in Italiafino a' tempi di Aless. Severo. Confessa eglistesso di avere impiegati dieci anni (l. 72) a

raccoglier le notizie per ciò opportune, e dodici anni adistender la Storia fino alla morte di Commodo, a cuiposcia aggiunse ciò che apparteneva agli altri imperado-ri. Ma i primi trentaquattro libri e una gran parte del

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Carattere della sua Storia.

XXXV. si son perduti. Abbiamo i venticinque seguenti;benchè alcuni credano che tra questi gli ultimi sei sianotronchi ed imperfetti. Ma dopo il LX libro tutti gli altrisono perduti; e solo ci è fortunatamente rimasto il com-pendio che di Dione ha fatto Giovanni Sifilino nipote diun patriarca di Costantinopoli dello stesso nomenell'undecimo sec. che comincia dal XXXV. libro, egiunge fino all'ultimo, trattone il LXX. libro ch'erasmarrito fin da' tempi di Sifilino, e a cui perciò egli altronon potè fare che sostituire un brevissimo supplemento.Dione, in ciò che appartiene allo stile, è uno dei più coltiscrittori che abbia la lingua greca; ma in ciò che appar-tiene a fedeltà di storico, molti in lui la vorrebbon mag-giore; ed oltre i prodigi ch'egli seguendo il comun pre-giudizio ciecamente adotta, le accuse con cui egli hacercato di oscurar la fama di Cicerone, di Cassio, di Se-neca e di altri avuti fra' Romani in grandissima stima,pare che cel dimostrino o bugiardo calunniatore, o scrit-tore non bene informato. Non è qui luogo a cercare se imentovati personaggi fosser rei di que' delitti ch'ei lorooppone, e quanto a Seneca, abbiam già mostrato di so-pra ch'ei non era certo quel santissimo uomo che da al-cuni si è creduto. Ma checchessia di ciò, egli è verisimi-le che Dione seguisse scrivendo le voci che vedeva allo-ra più comunemente sparse e ricevute in Roma; e perciòsembra che, se egli scrisse il falso, debba dirsi scrittorecredulo anzichè maligno calunniatore. E a dir vero glionorevoli impieghi da Dione sostenuti anche a tempo diottimi imperadori, e singolarmente di Alessandro, sono

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XXXV. si son perduti. Abbiamo i venticinque seguenti;benchè alcuni credano che tra questi gli ultimi sei sianotronchi ed imperfetti. Ma dopo il LX libro tutti gli altrisono perduti; e solo ci è fortunatamente rimasto il com-pendio che di Dione ha fatto Giovanni Sifilino nipote diun patriarca di Costantinopoli dello stesso nomenell'undecimo sec. che comincia dal XXXV. libro, egiunge fino all'ultimo, trattone il LXX. libro ch'erasmarrito fin da' tempi di Sifilino, e a cui perciò egli altronon potè fare che sostituire un brevissimo supplemento.Dione, in ciò che appartiene allo stile, è uno dei più coltiscrittori che abbia la lingua greca; ma in ciò che appar-tiene a fedeltà di storico, molti in lui la vorrebbon mag-giore; ed oltre i prodigi ch'egli seguendo il comun pre-giudizio ciecamente adotta, le accuse con cui egli hacercato di oscurar la fama di Cicerone, di Cassio, di Se-neca e di altri avuti fra' Romani in grandissima stima,pare che cel dimostrino o bugiardo calunniatore, o scrit-tore non bene informato. Non è qui luogo a cercare se imentovati personaggi fosser rei di que' delitti ch'ei lorooppone, e quanto a Seneca, abbiam già mostrato di so-pra ch'ei non era certo quel santissimo uomo che da al-cuni si è creduto. Ma checchessia di ciò, egli è verisimi-le che Dione seguisse scrivendo le voci che vedeva allo-ra più comunemente sparse e ricevute in Roma; e perciòsembra che, se egli scrisse il falso, debba dirsi scrittorecredulo anzichè maligno calunniatore. E a dir vero glionorevoli impieghi da Dione sostenuti anche a tempo diottimi imperadori, e singolarmente di Alessandro, sono

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argomento della stima in cui dovea egli essere d'uomsaggio e onesto. Suida rammenta (in Lex.) alcune altreopere di Dione, che sono interamente perite, delle quali,e di tutto ciò che appartiene a questo scrittore, veggasi ilFabricio (Bibl. gr. l. 4, c. 10).

X. Erodiano, di cui abbiamo otto libri ingreco della storia romana dalla morte di M.Aurelio fino al regno de' Gordiani, fiorì egli

pure a questi tempi. Egli dice di narrar cose ch'egli stes-so avea vedute e udite, e in molte delle quali aveva avu-to parte, perciocchè era stato adoperato in pubblici rag-guardevoli impieghi (l. 1, n. 4). Ma di lui null'altro sap-piamo. Fozio ne loda assai l'eleganza dello stile (Bibl. c.81), ma la maniera non troppo favorevole con cui egliparla di Aless. Severo, e le lodi che dà al crudele Massi-mino, rendono a molti sospetta la sua sincerità (V. Voss.de Hist. gr. l. 2. c. 15). Per ultimo non deesi qui tacer diEliano, e tanto più che credesi comunemente ch'ei fosseromano di patria. Abbiamo altrove parlato di un Elianogreco autore di un'opera intorno all'ordinare le schiere,che visse ai tempi di Adriano, e abbiamo ivi accennatol'opinione di Jacopo Perizon appoggiata ad assai forteragioni, che non sia già egli l'autore di due altre opereche sotto il nome di Eliano ancor ci rimangono, una inti-tolata Storia varia, l'altra Della natura degli Animali;ma che sia un altro Eliano diverso dal primo. Filostratoparla (Vit. Soph. l. 2) di un Eliano sofista nato in Pale-

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Erodianoed Eliano.

argomento della stima in cui dovea egli essere d'uomsaggio e onesto. Suida rammenta (in Lex.) alcune altreopere di Dione, che sono interamente perite, delle quali,e di tutto ciò che appartiene a questo scrittore, veggasi ilFabricio (Bibl. gr. l. 4, c. 10).

X. Erodiano, di cui abbiamo otto libri ingreco della storia romana dalla morte di M.Aurelio fino al regno de' Gordiani, fiorì egli

pure a questi tempi. Egli dice di narrar cose ch'egli stes-so avea vedute e udite, e in molte delle quali aveva avu-to parte, perciocchè era stato adoperato in pubblici rag-guardevoli impieghi (l. 1, n. 4). Ma di lui null'altro sap-piamo. Fozio ne loda assai l'eleganza dello stile (Bibl. c.81), ma la maniera non troppo favorevole con cui egliparla di Aless. Severo, e le lodi che dà al crudele Massi-mino, rendono a molti sospetta la sua sincerità (V. Voss.de Hist. gr. l. 2. c. 15). Per ultimo non deesi qui tacer diEliano, e tanto più che credesi comunemente ch'ei fosseromano di patria. Abbiamo altrove parlato di un Elianogreco autore di un'opera intorno all'ordinare le schiere,che visse ai tempi di Adriano, e abbiamo ivi accennatol'opinione di Jacopo Perizon appoggiata ad assai forteragioni, che non sia già egli l'autore di due altre opereche sotto il nome di Eliano ancor ci rimangono, una inti-tolata Storia varia, l'altra Della natura degli Animali;ma che sia un altro Eliano diverso dal primo. Filostratoparla (Vit. Soph. l. 2) di un Eliano sofista nato in Pale-

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Erodianoed Eliano.

strina, ma così erudito nella lingua greca, che in essaesprimevasi scrivendo e parlando non altrimenti che sefosse ateniese; e di lui racconta che dopo essersi eserci-tato per alcun tempo nel declamare, secondo il costumeordinario de' Sofisti, non reggendoli a ciò le forze, sivolse a scrivere. Di lui parla ancora Suida (in Lex.), edice con parole troppo generali, che dopo i tempi diAdriano insegnò rettorica in Roma. Or il Perizon dimo-stra con ottimi argomenti (praef. ad Aelian. Var. Hist.),che questi non potè vivere che a' tempi di Aless. Severo,e che perciò non può essere quell'Eliano medesimo chescrisse sotto Adriano. Oltrechè questi era, come s'è giàveduto, greco di patria; quegli di cui ora parliamo, era diPalestrina. Fin qui il discorso del Perizon non soffre dif-ficoltà. Ma non parmi ch'egli pruovi abbastanza chel'Eliano di cui parlano Filostrato e Suida, sia l'autoredelle due opere di sopra mentovate. E due difficoltà, sin-golarmente io vi veggo, alle quali non so che cosa po-trebbe rispondere questo dotto scrittore. Se egli avessecomposte le dette opere, Filostrato e Suida ne avrebbo-no probabilmente fatta parola. Or Filostrato altro nondice se non ch'ei si rivolse a scrivere senza accennarquali opere; e, ciò ch'è più, Suida, il qual suole comune-mente recar i titoli delle opere scritte da quelli di cui ra-giona, non fa motto di libro alcuno composto da Eliano.Innoltre Filostrato narra che il sofista Eliano soleva diredi non aver giammai posto piede fuori d'Italia, nè diaver mai veduto il mare. Or l'autore de' libri Della natu-ra degli Animali parla (l. 11, c. 40) di un bue cui dice

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strina, ma così erudito nella lingua greca, che in essaesprimevasi scrivendo e parlando non altrimenti che sefosse ateniese; e di lui racconta che dopo essersi eserci-tato per alcun tempo nel declamare, secondo il costumeordinario de' Sofisti, non reggendoli a ciò le forze, sivolse a scrivere. Di lui parla ancora Suida (in Lex.), edice con parole troppo generali, che dopo i tempi diAdriano insegnò rettorica in Roma. Or il Perizon dimo-stra con ottimi argomenti (praef. ad Aelian. Var. Hist.),che questi non potè vivere che a' tempi di Aless. Severo,e che perciò non può essere quell'Eliano medesimo chescrisse sotto Adriano. Oltrechè questi era, come s'è giàveduto, greco di patria; quegli di cui ora parliamo, era diPalestrina. Fin qui il discorso del Perizon non soffre dif-ficoltà. Ma non parmi ch'egli pruovi abbastanza chel'Eliano di cui parlano Filostrato e Suida, sia l'autoredelle due opere di sopra mentovate. E due difficoltà, sin-golarmente io vi veggo, alle quali non so che cosa po-trebbe rispondere questo dotto scrittore. Se egli avessecomposte le dette opere, Filostrato e Suida ne avrebbo-no probabilmente fatta parola. Or Filostrato altro nondice se non ch'ei si rivolse a scrivere senza accennarquali opere; e, ciò ch'è più, Suida, il qual suole comune-mente recar i titoli delle opere scritte da quelli di cui ra-giona, non fa motto di libro alcuno composto da Eliano.Innoltre Filostrato narra che il sofista Eliano soleva diredi non aver giammai posto piede fuori d'Italia, nè diaver mai veduto il mare. Or l'autore de' libri Della natu-ra degli Animali parla (l. 11, c. 40) di un bue cui dice

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dice aver veduto egli stesso in Alessandria. Se dunqueFilostrato che fu contemporaneo al sofista Eliano, ci hadetto il vero, quando ha affermato che Eliano non uscìmai dall'Italia, questi non fu certamente l'autore de' libriDella natura degli Animali. Queste riflessioni mi fan so-spettare che a questo tempo medesimo vi fossero dueEliani, uno sofista di cui parlano Suida e Filostrato,l'altro autore delle due opere mentovate. Quando però sidia qualche probabile spiegazione alle accennate diffi-coltà, la opinione del Perizon potrà allora ammettersisenza pericol d'errore. Pare nondimeno che l'Elianoscrittore della Storia varia fosse certamente romano,perciocchè in un antico codice di essa, che conservasinella biblioteca Laurenziana, e di cui fa menzione l'eru-ditiss. can. Bandini bibliotecario della medesima, nel ti-tolo si legge: Aeliani Romani (v. Cat. Bibl. Laurent. t. 2,p. 609).

XI. Io non parlo qui nè di Diogene Laerzioautor delle Vite de' Filosofi antichi, nè diPolieno scrittore di otto libri degli Strata-gemmi de' gran capitani, nè di alcuni altrimen celebri storici greci che vissero a questi

tempi medesimi; perciocchè io non trovo fondamentobastevole ad affermare ch'essi vivessero in Roma. Con-chiuderò dunque ciò che appartiene agli storici di questaetà, riflettendo che in questo studio ancora i Grecich'erano in Roma, andarono innanzi a' Latini; percioc-

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Per qual ra-gione gli storici grecisian miglio-ri dei latini.

dice aver veduto egli stesso in Alessandria. Se dunqueFilostrato che fu contemporaneo al sofista Eliano, ci hadetto il vero, quando ha affermato che Eliano non uscìmai dall'Italia, questi non fu certamente l'autore de' libriDella natura degli Animali. Queste riflessioni mi fan so-spettare che a questo tempo medesimo vi fossero dueEliani, uno sofista di cui parlano Suida e Filostrato,l'altro autore delle due opere mentovate. Quando però sidia qualche probabile spiegazione alle accennate diffi-coltà, la opinione del Perizon potrà allora ammettersisenza pericol d'errore. Pare nondimeno che l'Elianoscrittore della Storia varia fosse certamente romano,perciocchè in un antico codice di essa, che conservasinella biblioteca Laurenziana, e di cui fa menzione l'eru-ditiss. can. Bandini bibliotecario della medesima, nel ti-tolo si legge: Aeliani Romani (v. Cat. Bibl. Laurent. t. 2,p. 609).

XI. Io non parlo qui nè di Diogene Laerzioautor delle Vite de' Filosofi antichi, nè diPolieno scrittore di otto libri degli Strata-gemmi de' gran capitani, nè di alcuni altrimen celebri storici greci che vissero a questi

tempi medesimi; perciocchè io non trovo fondamentobastevole ad affermare ch'essi vivessero in Roma. Con-chiuderò dunque ciò che appartiene agli storici di questaetà, riflettendo che in questo studio ancora i Grecich'erano in Roma, andarono innanzi a' Latini; percioc-

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Per qual ra-gione gli storici grecisian miglio-ri dei latini.

chè di questi, se se ne tragga Giustino, di cui non è an-cora ben certo se vivesse di questi tempi, non vi è stori-co alcuno che per eleganza di stile, o per arte di narra-zione sia degno di molta lode. Tra' Greci al contrarioquasi tutti que' che abbiam nominati, si hanno in pregiodi storici eleganti e colti. Nè è a stupirne. Questi veniva-no a Roma singolarmente per acquistarvi fama co' lorostudj, e a questi perciò si applicavano seriamente; e scri-vevano in un linguaggio che, non essendo in Roma illinguaggio del volgo, non soffriva quelle vicende e que'danni che il miscuglio di tante genti straniere recava allalingua latina. I Romani al contrario, avviliti dalla tiran-nia di tanti pessimi imperadori, ammolliti dal lusso eguasti dal comun libertinaggio sfuggivan gli studj chesenza noia e fatica non possono coltivarsi, e quegli an-cora che li coltivavano, usando d'una lingua che per laragione accennata venivasi vieppiù corrompendo ognigiorno, recavano nel loro stile quella rozzezza medesi-ma che ne' famigliari ragionamenti erasi introdotta. Cosìe pochi erano quelli che si volgessero con ardore aglistudj, e quegli ancora che in essi si esercitavano, il face-vano comunemente con poco felice successo. Madell'indolenza de' Romani di questi tempi nel coltivaregli studj avremo pruove ancora più chiare nel capo se-guente.

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chè di questi, se se ne tragga Giustino, di cui non è an-cora ben certo se vivesse di questi tempi, non vi è stori-co alcuno che per eleganza di stile, o per arte di narra-zione sia degno di molta lode. Tra' Greci al contrarioquasi tutti que' che abbiam nominati, si hanno in pregiodi storici eleganti e colti. Nè è a stupirne. Questi veniva-no a Roma singolarmente per acquistarvi fama co' lorostudj, e a questi perciò si applicavano seriamente; e scri-vevano in un linguaggio che, non essendo in Roma illinguaggio del volgo, non soffriva quelle vicende e que'danni che il miscuglio di tante genti straniere recava allalingua latina. I Romani al contrario, avviliti dalla tiran-nia di tanti pessimi imperadori, ammolliti dal lusso eguasti dal comun libertinaggio sfuggivan gli studj chesenza noia e fatica non possono coltivarsi, e quegli an-cora che li coltivavano, usando d'una lingua che per laragione accennata venivasi vieppiù corrompendo ognigiorno, recavano nel loro stile quella rozzezza medesi-ma che ne' famigliari ragionamenti erasi introdotta. Cosìe pochi erano quelli che si volgessero con ardore aglistudj, e quegli ancora che in essi si esercitavano, il face-vano comunemente con poco felice successo. Madell'indolenza de' Romani di questi tempi nel coltivaregli studj avremo pruove ancora più chiare nel capo se-guente.

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CAPO V.Filosofia.

I. Se il favor de' principi fosse bastante a farrifiorire gli studj, quello della filosofia sin-golarmente dovea a questo tempo risorgeretra' Romani. Antonino e Marco Aurelio edaltri degl'imperadori che saliron sul trono,furon ammiratori e protettori e premiatori

de' filosofi; e sembra perciò che gran numero di romanivalorosi filosofi ci si dovrebbe offerire in quest'epoca, esomministrarci copioso argomento a ragionarne. Già ab-biam veduto in qual pregio gli avessero i mentovati im-peradori, e gli onori e gli stipendj di cui gli arricchirono.E nondimeno in tutto questo spazio di tempo appenatroviam tra' Romani chi si rendesse illustre ne' filosoficistudj, mentre al medesimo tempo i Greci e in Roma e inAlessandria e in Atene e altrove davano in essi non ordi-narie pruove del lor sapere. Troviamo bensì in Galeno(De libri prop.) che tutti coloro che in Roma attendeva-no allo studio della logica, solevano ogni giorno adunar-si nel tempio della Pace a udirvi i lor maestri, e disputa-re tra loro; ma non sappiamo se fosser tra essi molti Ro-mani; e dalle cose che or dobbiam rammentare. si vedràchiaramente ch'essi poco comunemente curavansi di talistudj.

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Scarso nu-mero di fi-losofi ro-mani in quest'epo-ca.

CAPO V.Filosofia.

I. Se il favor de' principi fosse bastante a farrifiorire gli studj, quello della filosofia sin-golarmente dovea a questo tempo risorgeretra' Romani. Antonino e Marco Aurelio edaltri degl'imperadori che saliron sul trono,furon ammiratori e protettori e premiatori

de' filosofi; e sembra perciò che gran numero di romanivalorosi filosofi ci si dovrebbe offerire in quest'epoca, esomministrarci copioso argomento a ragionarne. Già ab-biam veduto in qual pregio gli avessero i mentovati im-peradori, e gli onori e gli stipendj di cui gli arricchirono.E nondimeno in tutto questo spazio di tempo appenatroviam tra' Romani chi si rendesse illustre ne' filosoficistudj, mentre al medesimo tempo i Greci e in Roma e inAlessandria e in Atene e altrove davano in essi non ordi-narie pruove del lor sapere. Troviamo bensì in Galeno(De libri prop.) che tutti coloro che in Roma attendeva-no allo studio della logica, solevano ogni giorno adunar-si nel tempio della Pace a udirvi i lor maestri, e disputa-re tra loro; ma non sappiamo se fosser tra essi molti Ro-mani; e dalle cose che or dobbiam rammentare. si vedràchiaramente ch'essi poco comunemente curavansi di talistudj.

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Scarso nu-mero di fi-losofi ro-mani in quest'epo-ca.

II. Di filosofi romani che ci abbian lasciatone' loro scritti qualche monumento de' lorostudj, un solo possiam nominare, cioè C.Giulio Solino, il quale anche appena meritadi aver luogo tra' filosofi; e noi qui ne par-

liamo solo perchè altro quasi ei non ha fatto nel suo Po-listore ossia Trattato della situazione e delle cose mara-vigliose del mondo, che compendiare non troppo felice-mente Plinio il vecchio, a cui abbiam parimenti tra' filo-sofi dato luogo. Del rimanente nulla di lui sappiamo, senon che ei dovette probabilmente vivere circa questitempi. Prisciano e s. Girolamo ne fanno menzione. Pen-sano alcuni ch'ei sia quel Solino medesimo detto da altriSolone senator romano che fu ucciso da Settimio Severo(Dio. l. 74). Ma come non vi è ragion che basti a negar-lo, così non vi è pure fondamento valevole ad affermar-lo. Intorno a Solino si posson vedere le Esercitazionipliniane del Salmasio, il Vossio (De Histor. lat. l. 3) e ilFabricio (Bibl. lat. l. 2, c. 13).

III. Uomini ancora versati ne' filosofici stu-dj doveano essere i quattro maestri che inessi ebbe M. Aurelio, che a nome sembranlatini, cioè Giunio Rustico, Claudio Massi-

mo, Cinna Catullo nella filosofia stoica, e Claudio Seve-ro nella peripatetica (Capit. in M. Aur. c. 3). E GiunioRustico singolarmente era da lui avuto in sì grande sti-ma, che soleva chiamarlo a parte di tutti i suoi consigli

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Solino è il solo tra essidi qualche nome.

Alcuni altrifilosofi lati-ni.

II. Di filosofi romani che ci abbian lasciatone' loro scritti qualche monumento de' lorostudj, un solo possiam nominare, cioè C.Giulio Solino, il quale anche appena meritadi aver luogo tra' filosofi; e noi qui ne par-

liamo solo perchè altro quasi ei non ha fatto nel suo Po-listore ossia Trattato della situazione e delle cose mara-vigliose del mondo, che compendiare non troppo felice-mente Plinio il vecchio, a cui abbiam parimenti tra' filo-sofi dato luogo. Del rimanente nulla di lui sappiamo, senon che ei dovette probabilmente vivere circa questitempi. Prisciano e s. Girolamo ne fanno menzione. Pen-sano alcuni ch'ei sia quel Solino medesimo detto da altriSolone senator romano che fu ucciso da Settimio Severo(Dio. l. 74). Ma come non vi è ragion che basti a negar-lo, così non vi è pure fondamento valevole ad affermar-lo. Intorno a Solino si posson vedere le Esercitazionipliniane del Salmasio, il Vossio (De Histor. lat. l. 3) e ilFabricio (Bibl. lat. l. 2, c. 13).

III. Uomini ancora versati ne' filosofici stu-dj doveano essere i quattro maestri che inessi ebbe M. Aurelio, che a nome sembranlatini, cioè Giunio Rustico, Claudio Massi-

mo, Cinna Catullo nella filosofia stoica, e Claudio Seve-ro nella peripatetica (Capit. in M. Aur. c. 3). E GiunioRustico singolarmente era da lui avuto in sì grande sti-ma, che soleva chiamarlo a parte di tutti i suoi consigli

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Solino è il solo tra essidi qualche nome.

Alcuni altrifilosofi lati-ni.

così ne' pubblici come ne' privati affari; e gli rendettesingolarissimi onori, come altrove abbiamo osservato.Di lui e ancora di Massimo ci ha egli lasciato ne' suoi li-bri onorevoli encomj (De rebus suis l. 1), rammentandole sagge riflessioni ch'essi gli aveano ispirato e di Mas-simo singolarmente dice ch'egli era uomo di tal costu-me, che ben conoscevasi che le sue parole eran confor-mi a' suoi sentimenti, e che in ogni cosa operava con ret-to fine. Ma anche di questi invano ci affaticheremo a ri-cercare altre notizie; e negli scrittori latini di questa etàdifficilmente troverassi fatta menzione di altri Romaniche pel coltivamento della filosofia si acquistasser grannome.

IV. Ma mentre questi studj illanguidivano intal maniera presso i Romani, i Greci eranoad essi rivolti con tal fervore, che parevanrinnovarsi gli antichi tempi di Pittagora e diPlatone. Potamone, Ammonio, Plotino, Por-firio, Luciano, Sesto di Cherona, Massimo

Tirio, e molti altri furono a' tempi di cui parliamo. Lasetta eclettica, a cui Potamone prima diede principio, eche fu poscia da Ammonio stabilita meglio ed illustrata,nacque a questa medesima età, cioè verso il fin del II, overso il principio del III secolo; setta che non facendosischiava di alcuno degli antichi filosofi capi delle variesette, raccoglieva da ciascuna di esse ciò che pareva piùsomigliante al vero e più ragionevole. Intorno a questa

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Filosofi greci in Roma; se visi spargessela setta eclettica.

così ne' pubblici come ne' privati affari; e gli rendettesingolarissimi onori, come altrove abbiamo osservato.Di lui e ancora di Massimo ci ha egli lasciato ne' suoi li-bri onorevoli encomj (De rebus suis l. 1), rammentandole sagge riflessioni ch'essi gli aveano ispirato e di Mas-simo singolarmente dice ch'egli era uomo di tal costu-me, che ben conoscevasi che le sue parole eran confor-mi a' suoi sentimenti, e che in ogni cosa operava con ret-to fine. Ma anche di questi invano ci affaticheremo a ri-cercare altre notizie; e negli scrittori latini di questa etàdifficilmente troverassi fatta menzione di altri Romaniche pel coltivamento della filosofia si acquistasser grannome.

IV. Ma mentre questi studj illanguidivano intal maniera presso i Romani, i Greci eranoad essi rivolti con tal fervore, che parevanrinnovarsi gli antichi tempi di Pittagora e diPlatone. Potamone, Ammonio, Plotino, Por-firio, Luciano, Sesto di Cherona, Massimo

Tirio, e molti altri furono a' tempi di cui parliamo. Lasetta eclettica, a cui Potamone prima diede principio, eche fu poscia da Ammonio stabilita meglio ed illustrata,nacque a questa medesima età, cioè verso il fin del II, overso il principio del III secolo; setta che non facendosischiava di alcuno degli antichi filosofi capi delle variesette, raccoglieva da ciascuna di esse ciò che pareva piùsomigliante al vero e più ragionevole. Intorno a questa

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Filosofi greci in Roma; se visi spargessela setta eclettica.

setta si è in questi ultimi anni disputato assai, singolar-mente per la maniera con cui dal Bruckero (Hist. crit.Phil. t. 2, p. 189, ec.) e più ancora dagli Enciclopedisti(art. Eclectisme), se n'è favellato, ch'è sembrata a ragio-ne ingiuriosa alla religion cristiana, e che perciò è statadiligentemente esaminata e confutata, oltre altri scrittori,da l'anonimo autor francese della Storia dell'Eclettismo.A me non appartiene l'entrare in tali cose. La setta eclet-tica nacque e crebbe e dilatossi ampiamente in Alessan-dria, e alessandrini furono Potamone ed Ammonio, nèinsegnarono altrove che nella lor patria. Se Plotino eAmelio e alcuni altri filosofi la recarono a Roma, ellanon vi gittò profonde radici, e al partire di essi essa an-cora svanì. Sembra che i Romani non fossero di lor na-tura molto inclinati alle sottili speculazioni; poichè difatti veggiamo che niuna nuova setta nacque ed allignòtra essi; anzi ella è riflessione che facilmente si offre achi legge la storia ecclesiastica, che delle antiche eresieche aggiravansi intorno ad astruse e speculative quistio-ni, quasi niuna ebbe origine nella Chiesa latina, ma nac-quer comunemente tra' Greci, benchè poscia i loro auto-ri le recasser talvolta a Roma, e ne infettasser l'Italia: Ionon debbo dunque trattenermi a disputare di ciò a che iRomani non ebbero che piccolissima parte.

V. Egli è vero però, che se dovessimo crede-re a tutto ciò che Porfirio raccontane di Plo-tino uno dei più famosi discepoli di Ammo-

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Esame del-le cose che si narrano di Plotino.

setta si è in questi ultimi anni disputato assai, singolar-mente per la maniera con cui dal Bruckero (Hist. crit.Phil. t. 2, p. 189, ec.) e più ancora dagli Enciclopedisti(art. Eclectisme), se n'è favellato, ch'è sembrata a ragio-ne ingiuriosa alla religion cristiana, e che perciò è statadiligentemente esaminata e confutata, oltre altri scrittori,da l'anonimo autor francese della Storia dell'Eclettismo.A me non appartiene l'entrare in tali cose. La setta eclet-tica nacque e crebbe e dilatossi ampiamente in Alessan-dria, e alessandrini furono Potamone ed Ammonio, nèinsegnarono altrove che nella lor patria. Se Plotino eAmelio e alcuni altri filosofi la recarono a Roma, ellanon vi gittò profonde radici, e al partire di essi essa an-cora svanì. Sembra che i Romani non fossero di lor na-tura molto inclinati alle sottili speculazioni; poichè difatti veggiamo che niuna nuova setta nacque ed allignòtra essi; anzi ella è riflessione che facilmente si offre achi legge la storia ecclesiastica, che delle antiche eresieche aggiravansi intorno ad astruse e speculative quistio-ni, quasi niuna ebbe origine nella Chiesa latina, ma nac-quer comunemente tra' Greci, benchè poscia i loro auto-ri le recasser talvolta a Roma, e ne infettasser l'Italia: Ionon debbo dunque trattenermi a disputare di ciò a che iRomani non ebbero che piccolissima parte.

V. Egli è vero però, che se dovessimo crede-re a tutto ciò che Porfirio raccontane di Plo-tino uno dei più famosi discepoli di Ammo-

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Esame del-le cose che si narrano di Plotino.

nio, e dopo lui il più fermo sostegno dell'eclettismo,converrebbe concepir de' Romani un'idea assai più van-taggiosa di quella che noi or ora ne abbiam formato:Racconta egli (in Vita Plot.) che Plotino dopo essersi perpiù anni istruito nella scuola di Ammonio sen venne aRoma, mentre regnava Filippo, essendo egli allora in etàdi 40 anni; che per alcuni anni non fè palesi ad alcuno isegreti della filosofia del suo maestro, come tra' disce-poli di esso erasi convenuto; ma che veggendo altri nonmantenere la data fede, ruppe anch'egli il silenzio, e co-minciò ad insegnare pubblicamente. Non eran molti,dice Porfirio, que' che accorrevano ad udirlo: ma tra essicontavansi alcuni de' più illustri Romani, come CastricioFermo, e Marcello Oronzio, Sabinillo, e Rogaziano se-natori, i quali con grande ardore si volsero a' filosoficistudj; e Rogaziano singolarmente erane così trasportato,che più non ebbe pensiero alcuno de' suoi beni, cacciòtutti gli schiavi di casa, rigettò gli onori, ed essendo pre-tore non prendevasi alcuna cura de' suoi doveri; anzinemmeno abitava nella propria sua casa, ma cenava edormiva con alcuni de' suoi amici; col qual disprezzodella sua vita, continua Porfirio, egli ottenne di liberarsidalla podagra che il molestava (Vit. Plot. c. 7). Quindivenne Plotino in sì grande stima, che ne' 26 anni ch'e'visse in Roma, fu scelto ad arbitro di molte liti; e ciònon ostante non ebbe mai chi gli fosse nimico, ma tuttigareggiavano in amarlo ed in onorarlo (ib. c. 9). Anzil'imp. Gallieno e Salonina di lui moglie l'ebbero caroper modo, che avendogli Plotino pregati a voler rifabbri-

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nio, e dopo lui il più fermo sostegno dell'eclettismo,converrebbe concepir de' Romani un'idea assai più van-taggiosa di quella che noi or ora ne abbiam formato:Racconta egli (in Vita Plot.) che Plotino dopo essersi perpiù anni istruito nella scuola di Ammonio sen venne aRoma, mentre regnava Filippo, essendo egli allora in etàdi 40 anni; che per alcuni anni non fè palesi ad alcuno isegreti della filosofia del suo maestro, come tra' disce-poli di esso erasi convenuto; ma che veggendo altri nonmantenere la data fede, ruppe anch'egli il silenzio, e co-minciò ad insegnare pubblicamente. Non eran molti,dice Porfirio, que' che accorrevano ad udirlo: ma tra essicontavansi alcuni de' più illustri Romani, come CastricioFermo, e Marcello Oronzio, Sabinillo, e Rogaziano se-natori, i quali con grande ardore si volsero a' filosoficistudj; e Rogaziano singolarmente erane così trasportato,che più non ebbe pensiero alcuno de' suoi beni, cacciòtutti gli schiavi di casa, rigettò gli onori, ed essendo pre-tore non prendevasi alcuna cura de' suoi doveri; anzinemmeno abitava nella propria sua casa, ma cenava edormiva con alcuni de' suoi amici; col qual disprezzodella sua vita, continua Porfirio, egli ottenne di liberarsidalla podagra che il molestava (Vit. Plot. c. 7). Quindivenne Plotino in sì grande stima, che ne' 26 anni ch'e'visse in Roma, fu scelto ad arbitro di molte liti; e ciònon ostante non ebbe mai chi gli fosse nimico, ma tuttigareggiavano in amarlo ed in onorarlo (ib. c. 9). Anzil'imp. Gallieno e Salonina di lui moglie l'ebbero caroper modo, che avendogli Plotino pregati a voler rifabbri-

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care una città rovinata in Terra di Lavoro, e a permetterea coloro che l'abitassero, tra' quali sarebbe stato eglistesso coi suoi amici, di vivere colle leggi della Repub-blica di Platone, e che alla città medesima desse il nomedi Platonopoli, avrebbe egli probabilmente ottenuto ciòche bramava, se i consiglieri di Gallieno non l'avesseroimpedito (ib. c. 12). Ma in cotali gloriosi racconti chi èche non conosca la sfacciata impostura del menzogneroPorfirio, che ardendo l'odio implacabile contro de' Cri-stiani usava d'ogni arte per oscurare le glorie del divinoloro Autore, e degli antichi e de' moderni filosofi facevaa tal fine uomini maravigliosi, e operatori di strani pro-digi che a quelli di Cristo rassomigliassero? Nel che egligiunse a segno tal d'impudenza, che ardì ancor di affer-mare che, mentre Plotino sollevavasi una volta col pen-siero, e tutto immergevasi in Dio, Dio stesso gli apparvenon avente forma nè idea alcuna, ma sopra ogni umanointendimento consistente in se stesso (ib. c. 24). Qualconto possiam dunque noi fare di un sì ardito imposto-re? Sarebbe a bramare che di Plotino e dello stato dellafilosofia in Roma di questi tempi qualche altro scrittoreci avesse lasciata più sincera contezza; ma invano lacerchiamo altrove fuorchè presso Porfirio, e gli altri chene adottarono i racconti. Morì Plotino, secondo lo stessoPorfirio, in Terra di Lavoro ove erasi ritirato, essendo inetà di 66 anni l'anno dell'era cristiana 270.

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care una città rovinata in Terra di Lavoro, e a permetterea coloro che l'abitassero, tra' quali sarebbe stato eglistesso coi suoi amici, di vivere colle leggi della Repub-blica di Platone, e che alla città medesima desse il nomedi Platonopoli, avrebbe egli probabilmente ottenuto ciòche bramava, se i consiglieri di Gallieno non l'avesseroimpedito (ib. c. 12). Ma in cotali gloriosi racconti chi èche non conosca la sfacciata impostura del menzogneroPorfirio, che ardendo l'odio implacabile contro de' Cri-stiani usava d'ogni arte per oscurare le glorie del divinoloro Autore, e degli antichi e de' moderni filosofi facevaa tal fine uomini maravigliosi, e operatori di strani pro-digi che a quelli di Cristo rassomigliassero? Nel che egligiunse a segno tal d'impudenza, che ardì ancor di affer-mare che, mentre Plotino sollevavasi una volta col pen-siero, e tutto immergevasi in Dio, Dio stesso gli apparvenon avente forma nè idea alcuna, ma sopra ogni umanointendimento consistente in se stesso (ib. c. 24). Qualconto possiam dunque noi fare di un sì ardito imposto-re? Sarebbe a bramare che di Plotino e dello stato dellafilosofia in Roma di questi tempi qualche altro scrittoreci avesse lasciata più sincera contezza; ma invano lacerchiamo altrove fuorchè presso Porfirio, e gli altri chene adottarono i racconti. Morì Plotino, secondo lo stessoPorfirio, in Terra di Lavoro ove erasi ritirato, essendo inetà di 66 anni l'anno dell'era cristiana 270.

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VI. Fra' più famosi discepoli di Plotino unone rammenta Porfirio, che di buona ragioneappartiene a noi, cioè Amelio toscano di na-scita, come afferma lo stesso Porfirio checon lui visse (Vit. Plot. c. 7), e non di Apa-

mea, come ha scritto Suida (in Lex.). Fu egli uno de' piùfidi discepoli di Plotino, e per 14 anni indivisibil compa-gno, finchè ritiratosi Plotino, come già si è detto, daRoma, Amelio ancora andossene ad Apamea in Siria,dove sembra ch'egli passasse il rimanente della sua vita.Il diligente ed erudito Bruckero ha raccolto tutto ciò cheda Porfirio e da altri antichi scrittori si è scritto intorno aquesto illustre filosofo, e intorno a molti libri da lui pub-blicati, fra' quali rammentansi cento libri di osservazionidiverse tratte dalle lezioni e dalle dispute di Plotino, unlibro intorno alla diversità che passava tra la dottrina deldetto Plotino e quella di Numenio, e 40 libri contro unlibro apocrifo di un cotal Zostriano ed altri, de' quali, edi tutto ciò che a lui appartiene, veggasi il lodato Bruc-kero (t. 2, p. 233) e il ch. co. Mazzucchelli ne' suoiScrittori Italiani. Romano ancora o italiano per avventu-ra fu Erennio che dal Bruckero si annovera (ib. p. 216)tra' più famigliari discepoli di Plotino. Ma non abbiamoaltra ragione per crederlo, che il nome stesso di Erennio,che sembra italiano, benchè per altro si trovi ancor qual-che Greco del medesimo nome.

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Amelio ed Erennio di lui discepo-li.

VI. Fra' più famosi discepoli di Plotino unone rammenta Porfirio, che di buona ragioneappartiene a noi, cioè Amelio toscano di na-scita, come afferma lo stesso Porfirio checon lui visse (Vit. Plot. c. 7), e non di Apa-

mea, come ha scritto Suida (in Lex.). Fu egli uno de' piùfidi discepoli di Plotino, e per 14 anni indivisibil compa-gno, finchè ritiratosi Plotino, come già si è detto, daRoma, Amelio ancora andossene ad Apamea in Siria,dove sembra ch'egli passasse il rimanente della sua vita.Il diligente ed erudito Bruckero ha raccolto tutto ciò cheda Porfirio e da altri antichi scrittori si è scritto intorno aquesto illustre filosofo, e intorno a molti libri da lui pub-blicati, fra' quali rammentansi cento libri di osservazionidiverse tratte dalle lezioni e dalle dispute di Plotino, unlibro intorno alla diversità che passava tra la dottrina deldetto Plotino e quella di Numenio, e 40 libri contro unlibro apocrifo di un cotal Zostriano ed altri, de' quali, edi tutto ciò che a lui appartiene, veggasi il lodato Bruc-kero (t. 2, p. 233) e il ch. co. Mazzucchelli ne' suoiScrittori Italiani. Romano ancora o italiano per avventu-ra fu Erennio che dal Bruckero si annovera (ib. p. 216)tra' più famigliari discepoli di Plotino. Ma non abbiamoaltra ragione per crederlo, che il nome stesso di Erennio,che sembra italiano, benchè per altro si trovi ancor qual-che Greco del medesimo nome.

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Amelio ed Erennio di lui discepo-li.

VII. Porfirio nato o in Tiro, o almen certonella Fenicia, discepolo egli pur di Plotino,visse parecchi anni ora in Roma, ora in Sici-lia, anzi vuolsi da alcuni, che in Sicilia scri-vesse egli i suoi libri contro la religion cri-

stiana (V. Bruck. t. 2, p. 246). Ma noi non veggiamo cheavesse tra gl'Italiani molti ammiratori e seguaci; nè che ilibri da lui pubblicati fossero molto celebri in queste no-stre provincie, in cui, come abbiamo osservato, le sottilispeculazioni non avevano, singolarmente a questi tempi,gran plauso. E innoltre noi non avremmo a vantarcimolto di un tale scrittore che, benchè al dir di Eusebio(Praepar. evang. l. 3, c. 1) debba annoverarsi tra' più il-lustri filosofi della Grecia, trasportato nondimeno da unfanatismo sfrenato troppo abusò del suo ingegno, nonsol combattendo aspramente la religion cristiana, il chein un pagano filosofo sarebbe degno di scusa, ma usan-do ancora della più audace impostura nel fingere e nelraccontare i sognati maravigliosi prodigi ch'egli attribui-sce a Pittagora e a Plotino; il che a saggio scrittore, diqualunque setta egli sia, troppo mal si conviene. Di que-ste imposture e di tutto ciò che appartiene a Porfirio,parla lungamente il Bruckero (t. 2, p. 236, ec.), presso ilquale potrannosi veder citati altri autori che di lui hannoscritto. Morì al principio del IV sec.; ma è difficile stabi-lire in qual anno ciò accadesse precisamente. Il Mongi-tore appoggiato singolarmente a un testo di s. Agostino(ep. 102 edit. Maur.; et Retract. l. 2, c. 31), in cui egliprendendo a sciogliere alcune difficoltà contro la reli-

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Porfirio ed altri filosofidi questi tempi.

VII. Porfirio nato o in Tiro, o almen certonella Fenicia, discepolo egli pur di Plotino,visse parecchi anni ora in Roma, ora in Sici-lia, anzi vuolsi da alcuni, che in Sicilia scri-vesse egli i suoi libri contro la religion cri-

stiana (V. Bruck. t. 2, p. 246). Ma noi non veggiamo cheavesse tra gl'Italiani molti ammiratori e seguaci; nè che ilibri da lui pubblicati fossero molto celebri in queste no-stre provincie, in cui, come abbiamo osservato, le sottilispeculazioni non avevano, singolarmente a questi tempi,gran plauso. E innoltre noi non avremmo a vantarcimolto di un tale scrittore che, benchè al dir di Eusebio(Praepar. evang. l. 3, c. 1) debba annoverarsi tra' più il-lustri filosofi della Grecia, trasportato nondimeno da unfanatismo sfrenato troppo abusò del suo ingegno, nonsol combattendo aspramente la religion cristiana, il chein un pagano filosofo sarebbe degno di scusa, ma usan-do ancora della più audace impostura nel fingere e nelraccontare i sognati maravigliosi prodigi ch'egli attribui-sce a Pittagora e a Plotino; il che a saggio scrittore, diqualunque setta egli sia, troppo mal si conviene. Di que-ste imposture e di tutto ciò che appartiene a Porfirio,parla lungamente il Bruckero (t. 2, p. 236, ec.), presso ilquale potrannosi veder citati altri autori che di lui hannoscritto. Morì al principio del IV sec.; ma è difficile stabi-lire in qual anno ciò accadesse precisamente. Il Mongi-tore appoggiato singolarmente a un testo di s. Agostino(ep. 102 edit. Maur.; et Retract. l. 2, c. 31), in cui egliprendendo a sciogliere alcune difficoltà contro la reli-

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Porfirio ed altri filosofidi questi tempi.

gion cristiana, che si dicevano prese dagli scritti del filo-sofo Porfirio, scrive ch'ei pensa non esser questi quelPorfirio filosofo siciliano di cui sì grande era la fama,appoggiato, dico, il Mongitore a questo testo crede(Bibl. Sic. art. Porphyr.) che un altro Porfirio vi fossecelebre filosofo, e siciliano di patria, diverso da quellodi cui abbiamo ora parlato. Ma ei non ne porta ragionche basti a provarlo. Egli è certo che un sol Porfirio filo-sofo illustre troviamo nominato negli antichi autori, ilquale potè dirsi ancora siciliano, perchè visse più anni inSicilia; e quindi nè il dubbio di s. Agostino nè le ragioniaddotte dal Mongitore son sufficienti a stabilir l'esisten-za di un altro Porfirio. Molto meno dobbiam noi quiparlare nè del famoso Luciano ardito dileggiatore nonsolo della religion cristiana, ma di qualunque altra setta,il quale fiorì verso il fine del II secolo; perciocchè e fustraniero, cioè di Samosata, e non sappiamo ch'egli maisoggiornasse in Italia, nè di Apuleio scrittor latino (9),ma nativo di Madaura in Africa, e che solo pochi anni fuin Roma ad apprendervi la lingua latina, colla qual occa-sione egli ancora perorò talvolta nel foro (V. Bruk. t. 2,p. 172); nè, finalmente del celebre astronomo e geografoClaudio Tolomeo che a' tempi di M. Aurelio visse sem-pre in Egitto.

9 Il Sig. Landi non sa intendere perchè non abbia io parlato di Apuleio, mane abbia ragionato sol di passaggio e anche tra' filosofi greci (t. 4, p. 343).La ragione è stata da me chiaramente indicata in questo luogo medesimo, ese io l'ho unito a' Greci, ho però avvertito ch'egli era africano e scrittor lati-no.

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gion cristiana, che si dicevano prese dagli scritti del filo-sofo Porfirio, scrive ch'ei pensa non esser questi quelPorfirio filosofo siciliano di cui sì grande era la fama,appoggiato, dico, il Mongitore a questo testo crede(Bibl. Sic. art. Porphyr.) che un altro Porfirio vi fossecelebre filosofo, e siciliano di patria, diverso da quellodi cui abbiamo ora parlato. Ma ei non ne porta ragionche basti a provarlo. Egli è certo che un sol Porfirio filo-sofo illustre troviamo nominato negli antichi autori, ilquale potè dirsi ancora siciliano, perchè visse più anni inSicilia; e quindi nè il dubbio di s. Agostino nè le ragioniaddotte dal Mongitore son sufficienti a stabilir l'esisten-za di un altro Porfirio. Molto meno dobbiam noi quiparlare nè del famoso Luciano ardito dileggiatore nonsolo della religion cristiana, ma di qualunque altra setta,il quale fiorì verso il fine del II secolo; perciocchè e fustraniero, cioè di Samosata, e non sappiamo ch'egli maisoggiornasse in Italia, nè di Apuleio scrittor latino (9),ma nativo di Madaura in Africa, e che solo pochi anni fuin Roma ad apprendervi la lingua latina, colla qual occa-sione egli ancora perorò talvolta nel foro (V. Bruk. t. 2,p. 172); nè, finalmente del celebre astronomo e geografoClaudio Tolomeo che a' tempi di M. Aurelio visse sem-pre in Egitto.

9 Il Sig. Landi non sa intendere perchè non abbia io parlato di Apuleio, mane abbia ragionato sol di passaggio e anche tra' filosofi greci (t. 4, p. 343).La ragione è stata da me chiaramente indicata in questo luogo medesimo, ese io l'ho unito a' Greci, ho però avvertito ch'egli era africano e scrittor lati-no.

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VIII. Straniero pure, cioè nativo di Cheronanella Beozia e figliuolo di una sorella diPlutarco fu Sesto; ma pare che tutta la suavita ei passasse in Roma. Certo ei fu tra'

maestri di M. Aurelio, il quale di lui ragiona con grandeencomio, e ricorda i saggi avvertimenti che da lui appre-se (De reb. suis l. 1). Se Filostrato fosse scrittor degnodi fede, dovremmo credere che questo imperadore in etàgià avanzata se n'andasse colle tavolette pendenti dallacintura come un fanciullo a udir Sesto (Vit. Soph. l. 2, c.1); ma abbiamo altre volte mostrato quanto poco dob-biam fidarci all'autorità di un tal impostore. Di luinull'altro sappiamo. Solo alcuni gli attribuiscono le Dis-sertazioni contro gli Sceptici, che sogliono andar con-giunte alle Opere di Sesto Empirico. Fu questi un altrofilosofo e medico insieme, di cui s'ignora la patria, macertamente straniero all'Italia, vissuto verso questi tempimedesimi in Alessandria, e che perciò nulla a noi appar-tiene. Il celebre monsig. Huet ha voluto dimostrare ch'einon sia diverso da Sesto di Cherona (De la Foiblesse del'esprit humain l. 1, c. 14); ma alle ragioni di esso halungamente risposto il Bruckero (t. 2, p. 633). MassimoTirio finalmente, di cui abbiamo ancora molte disserta-zioni, fu a questa medesima età; perciocchè da alcuni sidice vissuto a' tempi di Antonino Pio, da altri a' tempi diComodo. Ei fece qualche viaggio a Roma, come da' suoilibri medesimi si raccoglie; ma non pare che vi avessemai stabil dimora. Il Tillemont (in Anton. art. 15), e al-cuni altri pensano ch'ei sia quel medesimo Claudio Mas-

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Sesto da Cherona, ed altri.

VIII. Straniero pure, cioè nativo di Cheronanella Beozia e figliuolo di una sorella diPlutarco fu Sesto; ma pare che tutta la suavita ei passasse in Roma. Certo ei fu tra'

maestri di M. Aurelio, il quale di lui ragiona con grandeencomio, e ricorda i saggi avvertimenti che da lui appre-se (De reb. suis l. 1). Se Filostrato fosse scrittor degnodi fede, dovremmo credere che questo imperadore in etàgià avanzata se n'andasse colle tavolette pendenti dallacintura come un fanciullo a udir Sesto (Vit. Soph. l. 2, c.1); ma abbiamo altre volte mostrato quanto poco dob-biam fidarci all'autorità di un tal impostore. Di luinull'altro sappiamo. Solo alcuni gli attribuiscono le Dis-sertazioni contro gli Sceptici, che sogliono andar con-giunte alle Opere di Sesto Empirico. Fu questi un altrofilosofo e medico insieme, di cui s'ignora la patria, macertamente straniero all'Italia, vissuto verso questi tempimedesimi in Alessandria, e che perciò nulla a noi appar-tiene. Il celebre monsig. Huet ha voluto dimostrare ch'einon sia diverso da Sesto di Cherona (De la Foiblesse del'esprit humain l. 1, c. 14); ma alle ragioni di esso halungamente risposto il Bruckero (t. 2, p. 633). MassimoTirio finalmente, di cui abbiamo ancora molte disserta-zioni, fu a questa medesima età; perciocchè da alcuni sidice vissuto a' tempi di Antonino Pio, da altri a' tempi diComodo. Ei fece qualche viaggio a Roma, come da' suoilibri medesimi si raccoglie; ma non pare che vi avessemai stabil dimora. Il Tillemont (in Anton. art. 15), e al-cuni altri pensano ch'ei sia quel medesimo Claudio Mas-

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Sesto da Cherona, ed altri.

simo che fu maestro di M. Aurelio; ma altri il negano; efra essi il Bruckero (t. 2 p. 177); perciocchè MassimoTirio fu platonico, e il Massimo precettor di M. Aureliosi dice stoico.

IX. Oltre questi più insigni filosofi greci, al-cuni altri ne troviam nominati nelle Storie diquesti tempi, e singolarmente Apollonio na-

tivo di Calcide, o secondo altri di Calcedonia, stoico diprofessione, il quale, fu da Tito Antonino chiamato aRoma per istruire M. Aurelio. Ma egli diede ben a cono-scere la stoica sua alterigia; poichè avvisato da Antoni-no di venirsene alla corte per dare le sue lezioni, super-bamente rispose che il maestro non dovea già andare aldiscepolo, ma si il discepolo al maestro, a cui sorriden-do Antonino, è stato dunque, soggiunse, più facile adApollonio il venir da Calcide a Roma, che il portarsidalla sua casa alla corte. Così racconta Giulio Capitoli-no (in Anton. c. 10), il quale soggiugne che nello stipen-dio ebbe ancora Antonino occasion di conoscere la nontroppo filosofica avarizia di Apollonio. M. Aurelio non-dimeno anche di questo suo maestro parla con lode (Dereb. suis l. 1), e da ciò che narra altrove Capitolino (inM. Aur. c. 3) raccogliesi ch'egli cedette all'alterigia delsuo maestro, andando egli stesso alla casa ove esso abi-tava, ancor quando già era ornato dell'imperial dignità.Aggiungasi un certo Stilione filosofo che vedesi nomi-nato tra' maestri di Alessandro Severo (Lampr. in Alex.

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Apollonio da Calcide.

simo che fu maestro di M. Aurelio; ma altri il negano; efra essi il Bruckero (t. 2 p. 177); perciocchè MassimoTirio fu platonico, e il Massimo precettor di M. Aureliosi dice stoico.

IX. Oltre questi più insigni filosofi greci, al-cuni altri ne troviam nominati nelle Storie diquesti tempi, e singolarmente Apollonio na-

tivo di Calcide, o secondo altri di Calcedonia, stoico diprofessione, il quale, fu da Tito Antonino chiamato aRoma per istruire M. Aurelio. Ma egli diede ben a cono-scere la stoica sua alterigia; poichè avvisato da Antoni-no di venirsene alla corte per dare le sue lezioni, super-bamente rispose che il maestro non dovea già andare aldiscepolo, ma si il discepolo al maestro, a cui sorriden-do Antonino, è stato dunque, soggiunse, più facile adApollonio il venir da Calcide a Roma, che il portarsidalla sua casa alla corte. Così racconta Giulio Capitoli-no (in Anton. c. 10), il quale soggiugne che nello stipen-dio ebbe ancora Antonino occasion di conoscere la nontroppo filosofica avarizia di Apollonio. M. Aurelio non-dimeno anche di questo suo maestro parla con lode (Dereb. suis l. 1), e da ciò che narra altrove Capitolino (inM. Aur. c. 3) raccogliesi ch'egli cedette all'alterigia delsuo maestro, andando egli stesso alla casa ove esso abi-tava, ancor quando già era ornato dell'imperial dignità.Aggiungasi un certo Stilione filosofo che vedesi nomi-nato tra' maestri di Alessandro Severo (Lampr. in Alex.

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Apollonio da Calcide.

c. 3), e alcuni altri, di cui potrebbonsi dagli antichi scrit-tori raccogliere i nomi, ma de' quali è inutile il ragiona-re, poichè non ne abbiamo più distinta contezza.

X. Peggiore ancora fu a questi tempi lo statodella matematica in Roma; poichè non sap-piamo di alcuno che in essa si rendesse illu-stre. Filostrato ci rappresenta, l'imperadriceGiulia Donna moglie di Settimio Severo cir-condata sempre da filosofi e da geometri

(Vit. Apol. l. 1, c. 3). Ma chi fossero questi geometri,egli nol dice, e parmi che si possa non senza ragion so-spettare che l'adulatore Filostrato esagerasse di nonpoco le lodi di questa Augusta di cui egli godeva il fa-vore. Se dovessimo spiegare letteralmente ciò che Lam-pridio racconta di Aless. Severo, converrebbe dire chequesti fosse egregiamente istruito in tale scienza; per-ciocchè di lui dice che nella matematica egli era versatoper tal maniera, che per suo comando i matematici ten-nero pubblica scuola in Roma (in Alex. c. 27). Ma dallecose che altrove abbiamo su ciò osservato, è manifestoche qui si parla dell'astrologia giudiciaria, da cui questoper altro ottimo principe ciecamente si lasciò abbagliare,ed ebbe tra' suoi più stretti amici l'astrologo Trasibulo(ib. c. 62). Il Tillemont afferma (in Alex. art. 13) chenon deesi fede a Lampridio quando racconta che Ales-sandro permise e comandò agli astrologi d'insegnarepubblicamente; e reca un frammento di Ulpiano, in cui

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L'astrologiagiudiciaria continua adaver molti seguaci in Roma.

c. 3), e alcuni altri, di cui potrebbonsi dagli antichi scrit-tori raccogliere i nomi, ma de' quali è inutile il ragiona-re, poichè non ne abbiamo più distinta contezza.

X. Peggiore ancora fu a questi tempi lo statodella matematica in Roma; poichè non sap-piamo di alcuno che in essa si rendesse illu-stre. Filostrato ci rappresenta, l'imperadriceGiulia Donna moglie di Settimio Severo cir-condata sempre da filosofi e da geometri

(Vit. Apol. l. 1, c. 3). Ma chi fossero questi geometri,egli nol dice, e parmi che si possa non senza ragion so-spettare che l'adulatore Filostrato esagerasse di nonpoco le lodi di questa Augusta di cui egli godeva il fa-vore. Se dovessimo spiegare letteralmente ciò che Lam-pridio racconta di Aless. Severo, converrebbe dire chequesti fosse egregiamente istruito in tale scienza; per-ciocchè di lui dice che nella matematica egli era versatoper tal maniera, che per suo comando i matematici ten-nero pubblica scuola in Roma (in Alex. c. 27). Ma dallecose che altrove abbiamo su ciò osservato, è manifestoche qui si parla dell'astrologia giudiciaria, da cui questoper altro ottimo principe ciecamente si lasciò abbagliare,ed ebbe tra' suoi più stretti amici l'astrologo Trasibulo(ib. c. 62). Il Tillemont afferma (in Alex. art. 13) chenon deesi fede a Lampridio quando racconta che Ales-sandro permise e comandò agli astrologi d'insegnarepubblicamente; e reca un frammento di Ulpiano, in cui

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L'astrologiagiudiciaria continua adaver molti seguaci in Roma.

dice che talvolta s'introdusse in Roma un tal costume,ma più per ardir degli astrologi, che per licenza ottenu-tane (l. 7. de Offic. Procons.). Ma io mi maraviglio chequesto dotto scrittore non abbia posto mente a ciòch'egli stesso scrive non molto dopo (art. 17), cioè ch'èprobabile che la citata opera fosse da Ulpiano compostainnanzi al regno di Alessandro; e che perciò non può re-carsene l'autorità per riguardo a' tempi in cui questo im-peradore occupava il trono. D'Alessandro però soggiu-gne ancora Lampridio, che geometriam fecit; e parequindi che qualche cognizione egli avesse di questascienza, seppure non fu anch'essa rivolta alle supersti-ziose osservazioni del cielo. Nè altra monumento ab-biam nelle storie di questi tempi, che appartenga aglistudj della matematica; e solo veggiamo in ogni partegli astrologi impostori continuare colle lor frodi ad in-gannare gli uomini. Così troviamo che gli astrologi con-sultati furono da Settimio Severo (Spart. in Sev. c. 2, 4);ch'essi predissero un ugual corso di vita ad Antonino fi-gliuolo di M. Aurelio che a Comodo suo fratello, ben-chè poscia Antonino morisse fra poco tempo (Lampr. inComm. c. 1); che pronosticarono ancor l'impero a' treGordiani (Capit. in Gordian. c. 20), ed altre somigliantisciocchezze che buonamente credevansi da coloro a cuigli astrologi le imponevano, e spesso ancor dagli storiciche ne rammentavano i successi.

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dice che talvolta s'introdusse in Roma un tal costume,ma più per ardir degli astrologi, che per licenza ottenu-tane (l. 7. de Offic. Procons.). Ma io mi maraviglio chequesto dotto scrittore non abbia posto mente a ciòch'egli stesso scrive non molto dopo (art. 17), cioè ch'èprobabile che la citata opera fosse da Ulpiano compostainnanzi al regno di Alessandro; e che perciò non può re-carsene l'autorità per riguardo a' tempi in cui questo im-peradore occupava il trono. D'Alessandro però soggiu-gne ancora Lampridio, che geometriam fecit; e parequindi che qualche cognizione egli avesse di questascienza, seppure non fu anch'essa rivolta alle supersti-ziose osservazioni del cielo. Nè altra monumento ab-biam nelle storie di questi tempi, che appartenga aglistudj della matematica; e solo veggiamo in ogni partegli astrologi impostori continuare colle lor frodi ad in-gannare gli uomini. Così troviamo che gli astrologi con-sultati furono da Settimio Severo (Spart. in Sev. c. 2, 4);ch'essi predissero un ugual corso di vita ad Antonino fi-gliuolo di M. Aurelio che a Comodo suo fratello, ben-chè poscia Antonino morisse fra poco tempo (Lampr. inComm. c. 1); che pronosticarono ancor l'impero a' treGordiani (Capit. in Gordian. c. 20), ed altre somigliantisciocchezze che buonamente credevansi da coloro a cuigli astrologi le imponevano, e spesso ancor dagli storiciche ne rammentavano i successi.

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XI. Accennerò qui finalmente i nomi didue scrittori d'agricoltura, che probabil-mente vissero circa questi tempi, benchè

nulla si possa intorno ad essi accertare, cioè Siculo Flac-co, e Aggeno Urbico. Del primo abbiamo parte di unaopera da lui scritta De conditionibus agrorum: del se-condo abbiamo parte de' suoi comentarj sul libro attri-buito a Frontino De limitibus agrorum, e di un TrattatoDe controversiis agrorum. Esse sono inserite nelle rac-colte degli antichi scrittori d'agricoltura (V. Fabr. Bibl.lat. l. 4, c. 11).

CAPO VI.Medicina.

I. Se le circostanze de' tempi furono spessoin quest'epoca favorevoli alla filosofia, nullameno il furono alla medicina. E nondimeno,come ciò non ostante la filosofia si giacque

tra' Romani abbandonata e negletta presso la maggiorparte, così ancora la medicina non ebbe in Roma que'felici progressi che aspettar si potevano. I medici cheper l'addietro vi avean fiorito, erano in gran parte statiimpostori che niun altro studio aveano coltivato e eser-citato tanto, quanto quel d'ingannare. La venuta di Gale-no a Roma, e il lungo soggiorno che egli vi tenne, pare-va che risvegliar dovesse il comun fervore nello studiodi arte sì importante, e che molti ei dovesse avere imita-

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Scrittorid'agricoltura.

Stato della medicina inRoma.

XI. Accennerò qui finalmente i nomi didue scrittori d'agricoltura, che probabil-mente vissero circa questi tempi, benchè

nulla si possa intorno ad essi accertare, cioè Siculo Flac-co, e Aggeno Urbico. Del primo abbiamo parte di unaopera da lui scritta De conditionibus agrorum: del se-condo abbiamo parte de' suoi comentarj sul libro attri-buito a Frontino De limitibus agrorum, e di un TrattatoDe controversiis agrorum. Esse sono inserite nelle rac-colte degli antichi scrittori d'agricoltura (V. Fabr. Bibl.lat. l. 4, c. 11).

CAPO VI.Medicina.

I. Se le circostanze de' tempi furono spessoin quest'epoca favorevoli alla filosofia, nullameno il furono alla medicina. E nondimeno,come ciò non ostante la filosofia si giacque

tra' Romani abbandonata e negletta presso la maggiorparte, così ancora la medicina non ebbe in Roma que'felici progressi che aspettar si potevano. I medici cheper l'addietro vi avean fiorito, erano in gran parte statiimpostori che niun altro studio aveano coltivato e eser-citato tanto, quanto quel d'ingannare. La venuta di Gale-no a Roma, e il lungo soggiorno che egli vi tenne, pare-va che risvegliar dovesse il comun fervore nello studiodi arte sì importante, e che molti ei dovesse avere imita-

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Scrittorid'agricoltura.

Stato della medicina inRoma.

tori e seguaci. Ma non veggiamo che tra' Romani vi fos-se alcuno che in essa si acquistasse gran nome. Di que-sto cel. medico non mi tratterrò a descrivere lungamentela vita. Si può vedere quella che ne ha scritta il p. Lab-be, che dal Fabricio è stata ancora inserita nella sua Bi-blioteca greca (t. 3, p. 509), la Storia della Medicina diDaniello le Clerc che ne ha trattato ampiamente (par. 3,l. 3), e il Discorso preliminare del James al suo Diziona-rio di Medicina. Io non farò che accenarne le cose piùimportanti, le pruove delle quali si potranno vederepresso i mentovati scrittori che le hanno per lo più tratteda' libri medesimi di Galeno, e singolarmente da quelliin cui egli ci ha lasciata memoria delle opere da sè com-poste.

II. Claudio Galeno figliuol di Nicone, uomoversato assai nella geometria, nell'architettu-ra e in altre parti delle matematiche scienze,nacque a Pergamo in Asia l'anno 131. Dopoavere coltivati diligentemente i più nobili

studj, e quello singolarmente della filosofia, e dopo averviaggiato in diverse provincie, tutto si rivolse alla medi-cina, e coll'assidua lettura degli antichi medici e colle at-tente sue riflessioni si acquistò in essa quel nome chepresso tutte le nazioni lo ha renduto immortale. Venne aRoma la prima volta in età di circa 33 anni, ma non vifece dimora che per lo spazio di presso 4 anni; e presal'occasione di una fierissima pestilenza che grande stra-

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Venuta di Galeno a Roma e no-tizie.

tori e seguaci. Ma non veggiamo che tra' Romani vi fos-se alcuno che in essa si acquistasse gran nome. Di que-sto cel. medico non mi tratterrò a descrivere lungamentela vita. Si può vedere quella che ne ha scritta il p. Lab-be, che dal Fabricio è stata ancora inserita nella sua Bi-blioteca greca (t. 3, p. 509), la Storia della Medicina diDaniello le Clerc che ne ha trattato ampiamente (par. 3,l. 3), e il Discorso preliminare del James al suo Diziona-rio di Medicina. Io non farò che accenarne le cose piùimportanti, le pruove delle quali si potranno vederepresso i mentovati scrittori che le hanno per lo più tratteda' libri medesimi di Galeno, e singolarmente da quelliin cui egli ci ha lasciata memoria delle opere da sè com-poste.

II. Claudio Galeno figliuol di Nicone, uomoversato assai nella geometria, nell'architettu-ra e in altre parti delle matematiche scienze,nacque a Pergamo in Asia l'anno 131. Dopoavere coltivati diligentemente i più nobili

studj, e quello singolarmente della filosofia, e dopo averviaggiato in diverse provincie, tutto si rivolse alla medi-cina, e coll'assidua lettura degli antichi medici e colle at-tente sue riflessioni si acquistò in essa quel nome chepresso tutte le nazioni lo ha renduto immortale. Venne aRoma la prima volta in età di circa 33 anni, ma non vifece dimora che per lo spazio di presso 4 anni; e presal'occasione di una fierissima pestilenza che grande stra-

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Venuta di Galeno a Roma e no-tizie.

ge faceva in Roma, tornossene alla patria. La stimaperò, ch'egli erasi acquistata, fece sì che M. Aurelio eLucio Vero presto nel richiamassero, e il volesser conloro. M. Aurelio singolarmente avea sì gran fiducia inGaleno, che partendo da Roma per la guerra di Germa-nia, e lasciandovi Comodo suo figlio ancor fanciullo,comandò che, se questi cadesse infermo, si dovesse inogni cosa seguire il parere di questo cel. medico. D'allo-ra in poi sembra che tutto il rimanente della sua vita eipassasse in Roma; ma non si sa precisamente fin a qualtempo vivesse. Alcuni moderni scrittori, e fra essi ilCarterio (Vita Galen. c. 14), raccontano ch'eglinell'estrema sua vecchiezza udendo dei gran prodigj cheda' Cristiani facevansi nella Giudea, fermo di conoscereed abbracciare la lor religione, si pose sur un legno, enavigò verso la Palestina: ma non reggendo a' disagidella navigazione morì nel viaggio. Appena si può in-tendere come uom ragionevole possa dar fede a tai rac-conti, quasi che i Cristiani fossero solo nella Giudea enon anche in Roma, e qui ancora non si vedessero alloraalle lor preghiere segnalati prodigj.

III. Benchè grande fosse la stima di cui Ga-leno godeva in Roma, ei si duol nondimenodi essere stato oggetto all'invidia e al livoredi molti (De libris propr.). Accusavanlo sin-

golarmente come disprezzator degli antichi, perciocchèGaleno vantavasi di non essere schiavo di alcuno, ma di

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Carattere diesso e dellesue opere.

ge faceva in Roma, tornossene alla patria. La stimaperò, ch'egli erasi acquistata, fece sì che M. Aurelio eLucio Vero presto nel richiamassero, e il volesser conloro. M. Aurelio singolarmente avea sì gran fiducia inGaleno, che partendo da Roma per la guerra di Germa-nia, e lasciandovi Comodo suo figlio ancor fanciullo,comandò che, se questi cadesse infermo, si dovesse inogni cosa seguire il parere di questo cel. medico. D'allo-ra in poi sembra che tutto il rimanente della sua vita eipassasse in Roma; ma non si sa precisamente fin a qualtempo vivesse. Alcuni moderni scrittori, e fra essi ilCarterio (Vita Galen. c. 14), raccontano ch'eglinell'estrema sua vecchiezza udendo dei gran prodigj cheda' Cristiani facevansi nella Giudea, fermo di conoscereed abbracciare la lor religione, si pose sur un legno, enavigò verso la Palestina: ma non reggendo a' disagidella navigazione morì nel viaggio. Appena si può in-tendere come uom ragionevole possa dar fede a tai rac-conti, quasi che i Cristiani fossero solo nella Giudea enon anche in Roma, e qui ancora non si vedessero alloraalle lor preghiere segnalati prodigj.

III. Benchè grande fosse la stima di cui Ga-leno godeva in Roma, ei si duol nondimenodi essere stato oggetto all'invidia e al livoredi molti (De libris propr.). Accusavanlo sin-

golarmente come disprezzator degli antichi, perciocchèGaleno vantavasi di non essere schiavo di alcuno, ma di

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Carattere diesso e dellesue opere.

seguire quella opinione che gli paresse migliore, e sco-priva gli errori che molti di essi avean commessi. E cer-to non si può negare che, se Galeno usava parlando diquello stile medesimo con cui sono scritti i suoi libri, einon dovesse naturalmente risvegliare contro di se mede-simo la gelosia e l'odio di molti. Degli altri medici eiparla comunemente con quel disprezzo ch'è proprio diun uomo che scuopre l'altrui ignoranza; ma che non siperdona mai da coloro che divengon l'oggetto delle pub-bliche risa. Di sè parla troppo sovente, e meno modesta-mente che non convenga a chi parla di se medesimo.Egli è eloquente e colto nel suo favellare, ma prolissooltre al bisogno. Tutti questi difetti però sono troppo bencompensati dalle massime, da' precetti, dalle osservazio-ni utilissime, di cui i suoi libri son pieni. Non giovach'io rammenti gli elogi che di essi han fatto i medicipiù famosi. Ippocrate e Galeno son tali che non possonlodarsi meglio che col solo nominarli.

IV. L'invidia di cui i medici ardevano controdi Galeno, fu la ragione probabilmente percui egli non ebbe, per quanto io sappia, di-scepolo alcuno che cogl'insegnamenti di luigiungesse ad acquistarsi gran nome in

quest'arte medesima. Certo io non trovo a questi tempialcun altro in Roma celebre in medicina. Forse aquest'epoca appartiene Celio Aureliano, di cui ancor cirimangono alcune opere nella Raccolta de' medici anti-

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Ei non la-scia dicepo-li nè segua-ci.

seguire quella opinione che gli paresse migliore, e sco-priva gli errori che molti di essi avean commessi. E cer-to non si può negare che, se Galeno usava parlando diquello stile medesimo con cui sono scritti i suoi libri, einon dovesse naturalmente risvegliare contro di se mede-simo la gelosia e l'odio di molti. Degli altri medici eiparla comunemente con quel disprezzo ch'è proprio diun uomo che scuopre l'altrui ignoranza; ma che non siperdona mai da coloro che divengon l'oggetto delle pub-bliche risa. Di sè parla troppo sovente, e meno modesta-mente che non convenga a chi parla di se medesimo.Egli è eloquente e colto nel suo favellare, ma prolissooltre al bisogno. Tutti questi difetti però sono troppo bencompensati dalle massime, da' precetti, dalle osservazio-ni utilissime, di cui i suoi libri son pieni. Non giovach'io rammenti gli elogi che di essi han fatto i medicipiù famosi. Ippocrate e Galeno son tali che non possonlodarsi meglio che col solo nominarli.

IV. L'invidia di cui i medici ardevano controdi Galeno, fu la ragione probabilmente percui egli non ebbe, per quanto io sappia, di-scepolo alcuno che cogl'insegnamenti di luigiungesse ad acquistarsi gran nome in

quest'arte medesima. Certo io non trovo a questi tempialcun altro in Roma celebre in medicina. Forse aquest'epoca appartiene Celio Aureliano, di cui ancor cirimangono alcune opere nella Raccolta de' medici anti-

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Ei non la-scia dicepo-li nè segua-ci.

chi pubblicata da Enrico Stefano. Nulla però si può af-fermar con certezza, poichè altri il voglion più antico,altri più moderno (V. Fabr. Bibl. lat. t. 2, p. 585). Nèegli appartiene al nostro argomento, poichè ei fu africa-no nativo di Sicca nella Numidia. Niun altro scrittor lati-no di medicina abbiamo a questa età, e niuna cosa tro-viamo, onde si possa illustrarne la storia. Solo leggiamodi Alessandro Severo ch'egli a un solo dei medici dellacorte accordò un determinato stipendio; gli altri ch'eranosei volle che fosser paghi di averne il vitto (Lampr. inAlex. c. 42); il che sembra indicarci che non fosse allorain molto pregio quest'arte, e che non vi avesse gran co-pia di medici valorosi e degni di essere dalla corte ono-rati e premiati.

CAPO VII.Giurisprudenza.

I. Questi fu per avventura l'unico stu-dio che a' tempi di cui trattiamo, avessein Roma molti e valorosi coltivatori.Tra essi ancor nondimeno vi ebberonon pochi stranieri ma che per avere

continuamente soggiornato in Roma possono a ragioneannoverarsi tra' nostri. Dopo l'editto perpetuo pubblicatoper ordine di Adriano, di cui abbiamo parlato nel prece-dente libro, niun cangiamento importante avvenne nellaromana giurisprudenza. Ognun degl'imperadori aggiun-

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La giurisprudenzaè il solo studio che a questi tempifiorisce in Roma.

chi pubblicata da Enrico Stefano. Nulla però si può af-fermar con certezza, poichè altri il voglion più antico,altri più moderno (V. Fabr. Bibl. lat. t. 2, p. 585). Nèegli appartiene al nostro argomento, poichè ei fu africa-no nativo di Sicca nella Numidia. Niun altro scrittor lati-no di medicina abbiamo a questa età, e niuna cosa tro-viamo, onde si possa illustrarne la storia. Solo leggiamodi Alessandro Severo ch'egli a un solo dei medici dellacorte accordò un determinato stipendio; gli altri ch'eranosei volle che fosser paghi di averne il vitto (Lampr. inAlex. c. 42); il che sembra indicarci che non fosse allorain molto pregio quest'arte, e che non vi avesse gran co-pia di medici valorosi e degni di essere dalla corte ono-rati e premiati.

CAPO VII.Giurisprudenza.

I. Questi fu per avventura l'unico stu-dio che a' tempi di cui trattiamo, avessein Roma molti e valorosi coltivatori.Tra essi ancor nondimeno vi ebberonon pochi stranieri ma che per avere

continuamente soggiornato in Roma possono a ragioneannoverarsi tra' nostri. Dopo l'editto perpetuo pubblicatoper ordine di Adriano, di cui abbiamo parlato nel prece-dente libro, niun cangiamento importante avvenne nellaromana giurisprudenza. Ognun degl'imperadori aggiun-

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La giurisprudenzaè il solo studio che a questi tempifiorisce in Roma.

se alle antiche leggi quelle che gli parvero opportune; ein tal maniera il corpo delle leggi romane si andò sem-pre più accrescendo. Lo stesso Marco Aurelio, di cuiracconta Giulio Capitolino che cercò anzi di rimettere invigore le antiche leggi, che di formarne altre nuove (inM. Aur. c. 11), aggiunse anch'ei nondimeno qualchenuova legge, come dallo stesso autor si raccoglie (c. 10.11.). Ma assai vantaggioso, come dimostra l'Eineccio(Hist. Jur. rom. l. 1, c. 4, § 32), sarebbe riuscito alla ro-mana giurisprudenza, se fosse stato eseguito il disegnodell'imp. Opilio Macrino. Era egli uomo di qualche spe-rienza nello studio delle leggi, come narra Giulio Capi-tolino (in Macrino c. 13), e veggendo che qualunque re-scritto si facesse ne' casi particolari dagl'imperadori,avea forza di legge, e che quindi ciò ch'essi aveano tal-volta o per capriccio o per favorire alcuno ordinato, in-serivasi tosto nel corpo della giurisprudenza, voleva an-nullare cotali rescritti, sicchè non avessero forza alcuna,dicendo non esser conveniente che il volere d'uominiinesperti, come a cagion d'esempio di Comodo e di Ca-racalla, fosse avuto in conto di legge, mentre il saggioTraiano perciò appunto non avea mai voluto decidereper iscritto, acciocchè non si stendesse a tutti ciò ch'eglivoleva solo in favore di alcuno. Ma il breve tempoch'egli ebbe a regnare, non gli permise il condurre adesecuzione il suo disegno.

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se alle antiche leggi quelle che gli parvero opportune; ein tal maniera il corpo delle leggi romane si andò sem-pre più accrescendo. Lo stesso Marco Aurelio, di cuiracconta Giulio Capitolino che cercò anzi di rimettere invigore le antiche leggi, che di formarne altre nuove (inM. Aur. c. 11), aggiunse anch'ei nondimeno qualchenuova legge, come dallo stesso autor si raccoglie (c. 10.11.). Ma assai vantaggioso, come dimostra l'Eineccio(Hist. Jur. rom. l. 1, c. 4, § 32), sarebbe riuscito alla ro-mana giurisprudenza, se fosse stato eseguito il disegnodell'imp. Opilio Macrino. Era egli uomo di qualche spe-rienza nello studio delle leggi, come narra Giulio Capi-tolino (in Macrino c. 13), e veggendo che qualunque re-scritto si facesse ne' casi particolari dagl'imperadori,avea forza di legge, e che quindi ciò ch'essi aveano tal-volta o per capriccio o per favorire alcuno ordinato, in-serivasi tosto nel corpo della giurisprudenza, voleva an-nullare cotali rescritti, sicchè non avessero forza alcuna,dicendo non esser conveniente che il volere d'uominiinesperti, come a cagion d'esempio di Comodo e di Ca-racalla, fosse avuto in conto di legge, mentre il saggioTraiano perciò appunto non avea mai voluto decidereper iscritto, acciocchè non si stendesse a tutti ciò ch'eglivoleva solo in favore di alcuno. Ma il breve tempoch'egli ebbe a regnare, non gli permise il condurre adesecuzione il suo disegno.

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II. Non furono dunque le novità che nellagiurisprudenza s'introducessero, ma le fa-tiche e l'ingegno di quelli i quali la colti-varono, che fiorir la fecero a quest'epoca,

e mantenere l'onore in cui ella era nelle età precedenti.Cinque ne annovera Giulio Capitolino de' quali dice chevalevasi Antonino Pio nel pubblicare le leggi, e sono Vi-nidio ossia Vindio Vero, Salvio Valente, Volusio Mecia-no, Ulpio Marcello, e Jaboleno. De' primi due non ab-biamo altre notizie, se non che di Vinidio fanno qualchevolta menzione gli antichi giureconsulti (V. Heinecc. cit.§ 308), e Salvio Valente vien nominato da Ulpiano checita un rescritto a lui indirizzato da Antonino Pio (l. 7de Offic. Procons.). Volusio Meciano fu maestro nelleleggi di M. Aurelio (Capit. in M. Aur. c. 3). Ma posciaessendo governatore d'Alessandria, tratto nelle sue partida Avidio Cassio, quando ei ribellossi contro di M. Au-relio, da' romani soldati fu ucciso (Vulcat. Gall. in Avi-dio c. 7). Jaboleno ossia Prisco Javoleno è stato già danoi nominato nell'epoca precedente in cui singolarmenteegli fiorì. Il più celebre di questi è Ulpio Marcello, ilquale non solamente nella giurisprudenza, ma nella mi-litare disciplina ancora salì a gran fama. Da una iscrizio-ne presso il Grutero (p. 100) raccogliesi ch'ei fu col ca-rattere di legato nella Pannonia inferiore. Ma degno è dileggersi singolarmente l'elogio che di lui fa Dione. Co-modo, dic'egli (l. 72), atterrito (alla nuova della solleva-zion de' Britanni) mandò contro di essi Ulpio Marcello.Era questi uom modesto e frugale, perciocchè per ri-

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Giureconsulti ai tempi di Antonino Pio.

II. Non furono dunque le novità che nellagiurisprudenza s'introducessero, ma le fa-tiche e l'ingegno di quelli i quali la colti-varono, che fiorir la fecero a quest'epoca,

e mantenere l'onore in cui ella era nelle età precedenti.Cinque ne annovera Giulio Capitolino de' quali dice chevalevasi Antonino Pio nel pubblicare le leggi, e sono Vi-nidio ossia Vindio Vero, Salvio Valente, Volusio Mecia-no, Ulpio Marcello, e Jaboleno. De' primi due non ab-biamo altre notizie, se non che di Vinidio fanno qualchevolta menzione gli antichi giureconsulti (V. Heinecc. cit.§ 308), e Salvio Valente vien nominato da Ulpiano checita un rescritto a lui indirizzato da Antonino Pio (l. 7de Offic. Procons.). Volusio Meciano fu maestro nelleleggi di M. Aurelio (Capit. in M. Aur. c. 3). Ma posciaessendo governatore d'Alessandria, tratto nelle sue partida Avidio Cassio, quando ei ribellossi contro di M. Au-relio, da' romani soldati fu ucciso (Vulcat. Gall. in Avi-dio c. 7). Jaboleno ossia Prisco Javoleno è stato già danoi nominato nell'epoca precedente in cui singolarmenteegli fiorì. Il più celebre di questi è Ulpio Marcello, ilquale non solamente nella giurisprudenza, ma nella mi-litare disciplina ancora salì a gran fama. Da una iscrizio-ne presso il Grutero (p. 100) raccogliesi ch'ei fu col ca-rattere di legato nella Pannonia inferiore. Ma degno è dileggersi singolarmente l'elogio che di lui fa Dione. Co-modo, dic'egli (l. 72), atterrito (alla nuova della solleva-zion de' Britanni) mandò contro di essi Ulpio Marcello.Era questi uom modesto e frugale, perciocchè per ri-

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Giureconsulti ai tempi di Antonino Pio.

guardo al cibo e all'altre cose ei vivea come gli altrisoldati; coraggioso e ardito, quando era d'uopo com-battere; lontano dal lasciarsi corrompere per avidità diricchezze; ma non troppo cortese e piacevole cogli altri.Quindi prosiegue a dire della singolar vigilanza ch'egli eusava ed esigeva dal campo, della maravigliosa sua so-brietà nel vitto, nella quale però non so se Dione troveràfacilmente chi creda ciò ch'ei racconta, cioè che facevasimandare il pane da Roma, perchè essendo così diseccatofosse costretto a mangiarne assai poco. Ei riportò su inemici gloriose vittorie; ma per esse appunto poco man-cò che il crudel imperadore nol togliesse di vita. Moltilibri legali da lui composti si citano dagli antichi giure-consulti e singolarmente trentun libri di Digesti (Hei-necc. l. c. § 320). Mi nasce però qualche dubbio se Ul-pio Marcello il guerriero non debba per avventura di-stinguersi da Ulpio Marcello il giureconsulto; percioc-chè non par molto probabile che un uomo il quale a'tempi di Antonino che cominciò a regnare l'an. 138, eragià in età matura per essere consigliere dell'imperadore,fosse ancora in istato d'andare a combattere in Brettagnal'an. 183, in cui accadde la mentovata guerra. Ma il pocolume che abbiamo dagli storici di questi tempi, non cipermette l'accertar cosa alcuna.

III. Furono a questo tempo medesimo,cioè sotto il regno di T. Antonino e di M.Aurelio, Sesto Cecilio africano, Terenzio

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Altri giure-consulti della stessa età.

guardo al cibo e all'altre cose ei vivea come gli altrisoldati; coraggioso e ardito, quando era d'uopo com-battere; lontano dal lasciarsi corrompere per avidità diricchezze; ma non troppo cortese e piacevole cogli altri.Quindi prosiegue a dire della singolar vigilanza ch'egli eusava ed esigeva dal campo, della maravigliosa sua so-brietà nel vitto, nella quale però non so se Dione troveràfacilmente chi creda ciò ch'ei racconta, cioè che facevasimandare il pane da Roma, perchè essendo così diseccatofosse costretto a mangiarne assai poco. Ei riportò su inemici gloriose vittorie; ma per esse appunto poco man-cò che il crudel imperadore nol togliesse di vita. Moltilibri legali da lui composti si citano dagli antichi giure-consulti e singolarmente trentun libri di Digesti (Hei-necc. l. c. § 320). Mi nasce però qualche dubbio se Ul-pio Marcello il guerriero non debba per avventura di-stinguersi da Ulpio Marcello il giureconsulto; percioc-chè non par molto probabile che un uomo il quale a'tempi di Antonino che cominciò a regnare l'an. 138, eragià in età matura per essere consigliere dell'imperadore,fosse ancora in istato d'andare a combattere in Brettagnal'an. 183, in cui accadde la mentovata guerra. Ma il pocolume che abbiamo dagli storici di questi tempi, non cipermette l'accertar cosa alcuna.

III. Furono a questo tempo medesimo,cioè sotto il regno di T. Antonino e di M.Aurelio, Sesto Cecilio africano, Terenzio

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Altri giure-consulti della stessa età.

Clemente, Giunio Mauriciano, Caio e Q. Cervidio Sce-vola, de' quali e dell'opere loro diligentemente favellal'Eineccio (l. c. § 306, 309, 313, 318). Sopra tutti peròha egli voluto illustrare con una lunga ed erudita disser-tazione tutto ciò che appartiene alla vita e alle opere delcel. giurec. Sesto Pomponio (Op. t. 3, p. 66, ec.) che vis-se egli pure singolarmente a' tempi di M. Aurelio, e mo-stra quanto versato egli fosse non nelle leggi soltanto,ma nella storia ancora e nella filosofia e in altre scienze.Moltissimi erano i libri da lui composti intorno alle leg-gi; e molti pure sono i frammenti che ce ne sono rimasti.Ma pregevole singolarmente è quello che abbiam ne' Di-gesti, dell'origine del Diritto, che molte notizie ci som-ministra intorno alle leggi, a' magistrati, ai giureconsultiromani, che invano cercheremmo altrove, e delle qualici siam noi pure in quest'opera opportunamente giovati.

IV. Nulla meno, e forse più ancora fecondodi celebri giureconsulti fu il regnodegl'imperadori che vennero dopo M. Aure-lio fino ad Aless. Severo. Tra essi illustre

singolarmente si rendette Papiniano che da Sparzianovien detto asilo del diritto, e tesoro di regale dottrina(in Serv. c. 22), e da Cassiodoro uomo di acutissimo in-gegno (l. 6 Variar. 5). Alcuni affermano ch'egli era ita-liano, appoggiati a un'iscrizione del Grutero la qualeperò, come chiaramente mostra l'Eineccio (l. c. § 328),non si può creder sincera. Altri più precisamente vo-

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Notizie ed elogio di Papiano.

Clemente, Giunio Mauriciano, Caio e Q. Cervidio Sce-vola, de' quali e dell'opere loro diligentemente favellal'Eineccio (l. c. § 306, 309, 313, 318). Sopra tutti peròha egli voluto illustrare con una lunga ed erudita disser-tazione tutto ciò che appartiene alla vita e alle opere delcel. giurec. Sesto Pomponio (Op. t. 3, p. 66, ec.) che vis-se egli pure singolarmente a' tempi di M. Aurelio, e mo-stra quanto versato egli fosse non nelle leggi soltanto,ma nella storia ancora e nella filosofia e in altre scienze.Moltissimi erano i libri da lui composti intorno alle leg-gi; e molti pure sono i frammenti che ce ne sono rimasti.Ma pregevole singolarmente è quello che abbiam ne' Di-gesti, dell'origine del Diritto, che molte notizie ci som-ministra intorno alle leggi, a' magistrati, ai giureconsultiromani, che invano cercheremmo altrove, e delle qualici siam noi pure in quest'opera opportunamente giovati.

IV. Nulla meno, e forse più ancora fecondodi celebri giureconsulti fu il regnodegl'imperadori che vennero dopo M. Aure-lio fino ad Aless. Severo. Tra essi illustre

singolarmente si rendette Papiniano che da Sparzianovien detto asilo del diritto, e tesoro di regale dottrina(in Serv. c. 22), e da Cassiodoro uomo di acutissimo in-gegno (l. 6 Variar. 5). Alcuni affermano ch'egli era ita-liano, appoggiati a un'iscrizione del Grutero la qualeperò, come chiaramente mostra l'Eineccio (l. c. § 328),non si può creder sincera. Altri più precisamente vo-

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Notizie ed elogio di Papiano.

glion mostrarne la patria, cioè Benevento, appoggiati acerte parole di una risposta di Papiniano che ancora esi-ste. Ma l'eruditiss. can. Giovanni de Vita, che per altronaturalmente avrebbe dovuto abbracciare quest'opinio-ne, confessa che ella non è bastantemente fondata (An-tiq. Benev. diss. 8, p. 214). Dicevasi da alcuni, comenarra Sparziano (in Carac. c. 8), ch'ei fosse parente diSettimio Severo per parte di Giulia Donna sua moglie inseconde nozze; nel qual caso converrebbe dire ch'ei fos-se nativo della Siria. Ma parlandosi da Sparziano di unatal parentela, come di una voce sparsa fra alcuni, non sipuò sopra essa fondare opinione veruna. Ciò ch'è certo,si è che per sapere, per probità, per prudenza ei fu unodei più celebri uomini del suo tempo. Avea egli, comenarra Sparziano (ib.), appreso il civile diritto da Carci-dio Scevola insieme coll'imp. Severo, e a questo erasucceduto nella carica di avvocato del fisco. Quindi Se-vero morendo a lui singolarmente volle raccomandati isuoi figli Caracalla, e Geta, e il saggio uomo con ognisforzo adoperossi a unirli insieme in iscambievole ami-cizia; e veggendo il mal animo di Caracalla contro disuo fratello, cercò, ma inutilmente, d'impedirne la mor-te. Ma le virtù di Papiniano furono quelle appunto checontro di lui irritarono il crudel Caracalla, il quale glitolse dapprima la dignità di prefetto del pretorio (Dio l.77.), e poscia o comandò, o certamente permise che fos-se dai soldati ucciso. Molte opere legali avea egli pub-blicate, delle quali si citano ne' Digesti varj frammenti,ed esse furono in sì gran pregio, che nel Codice teodo-

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glion mostrarne la patria, cioè Benevento, appoggiati acerte parole di una risposta di Papiniano che ancora esi-ste. Ma l'eruditiss. can. Giovanni de Vita, che per altronaturalmente avrebbe dovuto abbracciare quest'opinio-ne, confessa che ella non è bastantemente fondata (An-tiq. Benev. diss. 8, p. 214). Dicevasi da alcuni, comenarra Sparziano (in Carac. c. 8), ch'ei fosse parente diSettimio Severo per parte di Giulia Donna sua moglie inseconde nozze; nel qual caso converrebbe dire ch'ei fos-se nativo della Siria. Ma parlandosi da Sparziano di unatal parentela, come di una voce sparsa fra alcuni, non sipuò sopra essa fondare opinione veruna. Ciò ch'è certo,si è che per sapere, per probità, per prudenza ei fu unodei più celebri uomini del suo tempo. Avea egli, comenarra Sparziano (ib.), appreso il civile diritto da Carci-dio Scevola insieme coll'imp. Severo, e a questo erasucceduto nella carica di avvocato del fisco. Quindi Se-vero morendo a lui singolarmente volle raccomandati isuoi figli Caracalla, e Geta, e il saggio uomo con ognisforzo adoperossi a unirli insieme in iscambievole ami-cizia; e veggendo il mal animo di Caracalla contro disuo fratello, cercò, ma inutilmente, d'impedirne la mor-te. Ma le virtù di Papiniano furono quelle appunto checontro di lui irritarono il crudel Caracalla, il quale glitolse dapprima la dignità di prefetto del pretorio (Dio l.77.), e poscia o comandò, o certamente permise che fos-se dai soldati ucciso. Molte opere legali avea egli pub-blicate, delle quali si citano ne' Digesti varj frammenti,ed esse furono in sì gran pregio, che nel Codice teodo-

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siano si ordina (V. Heinecc. l. c. § 329) che, ove parifossero i voti de' giudici, prevalesse quell'opinione cheavesse in suo favore l'autorità di Papiniano.

V. A Papiniano nella fama di celebre giure-consulto succedette Domizio Ulpiano nativodi Tiro, e nella sorte infelice ancora gli fu

somigliante. Il dissoluto Eliogabalo perciò appunto al-lontanollo dalla corte, perchè era uomo di probità incor-rotta (Lampr. in Heliog. c. 16.), ma non giunse a privar-lo di vita. Alessandro Severo ne riconobbe il merito, e ilfece ancora prefetto del pretorio, benchè altri voglianoche tal dignità avesse già ricevuta da Eliogabalo, (id. inAlex. c. 26). Anzi Alessandro lo ebbe sempre in conto disuo tutore, e a lui concedeva ciò che negava ad ogni al-tro, cioè di trattenersi solo a solo con lui (ib. c. 31); e a'consigli di Ulpiano singolarmente attribuivasi il pruden-te e saggio sistema di governare ch'egli tenne (ib. c. 51).Ma Ulpiano era uomo d'inflessibile severità, e perciòodiato da' pretoriani che cominciavano allora a non vo-ler ricevere legge alcuna. Alessandro il difese più voltedal loro furore ricoprendolo della sua porpora (ib.). Mafinalmente lo sdegno de' pretoriani prevalse, e di nottetempo essi si scagliarono sopra l'infelice Ulpiano, e ben-chè egli fuggendo si fosse ricoverato presso l'imperado-re, sugli occhi nondimeno dello stesso Alessandro fucrudelmente ucciso (Dio. l. 80.). Delle moltissime operelegali da lui scritte (V. Hein. l. c. § 339) ci rimangon

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Di DomizioUlpiano.

siano si ordina (V. Heinecc. l. c. § 329) che, ove parifossero i voti de' giudici, prevalesse quell'opinione cheavesse in suo favore l'autorità di Papiniano.

V. A Papiniano nella fama di celebre giure-consulto succedette Domizio Ulpiano nativodi Tiro, e nella sorte infelice ancora gli fu

somigliante. Il dissoluto Eliogabalo perciò appunto al-lontanollo dalla corte, perchè era uomo di probità incor-rotta (Lampr. in Heliog. c. 16.), ma non giunse a privar-lo di vita. Alessandro Severo ne riconobbe il merito, e ilfece ancora prefetto del pretorio, benchè altri voglianoche tal dignità avesse già ricevuta da Eliogabalo, (id. inAlex. c. 26). Anzi Alessandro lo ebbe sempre in conto disuo tutore, e a lui concedeva ciò che negava ad ogni al-tro, cioè di trattenersi solo a solo con lui (ib. c. 31); e a'consigli di Ulpiano singolarmente attribuivasi il pruden-te e saggio sistema di governare ch'egli tenne (ib. c. 51).Ma Ulpiano era uomo d'inflessibile severità, e perciòodiato da' pretoriani che cominciavano allora a non vo-ler ricevere legge alcuna. Alessandro il difese più voltedal loro furore ricoprendolo della sua porpora (ib.). Mafinalmente lo sdegno de' pretoriani prevalse, e di nottetempo essi si scagliarono sopra l'infelice Ulpiano, e ben-chè egli fuggendo si fosse ricoverato presso l'imperado-re, sugli occhi nondimeno dello stesso Alessandro fucrudelmente ucciso (Dio. l. 80.). Delle moltissime operelegali da lui scritte (V. Hein. l. c. § 339) ci rimangon

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Di DomizioUlpiano.

frammenti nell'antico Digesto più che di qualunque altrogiureconsulto. Questi come ci scuoprono un uom dottis-simo nella giurisprudenza, così ancora cel mostrano, ciòche alquanto ne oscura la gloria, nemico fiero e impla-cabile de' Cristiani, e credesi comunemente lui esserequel Domizio di cui dice Lattanzio (l. 5 Div. Inst. c. 11),che avea raccolti tutti i rescritti da diversi principi pub-blicati contro di essi.

VI. Visse al medesimo tempo, e non fumeno celebre di Papiniano, Giulio Paolo. Diqual patria egli fosse non è ben certo; altri il

vogliono padovano, altri romano, altri il fan nativo diTiro, altri greco; ma niuno ne adduce prova che rendaabbastanza probabile la sua opinione. Fu egli pure avutoin gran pregio da Aless. Severo; ed ebbe egli ancora laprefettura del pretorio (Lampr. in Alex. c. 26.). AurelioVittore racconta che egli era stato esiliato da Eliogabalo,e che fu poi richiamato a Roma da Alessandro (in Cae-sar. c. 24); ma forse egli ha confuso Giulio Paolo conUlpiano. Egli vien chiamato da Lampridio (ib. c. 68)peritissimo del diritto; e autori del diritto diconsi daAurelio Vittore (l. c.) egli ed Ulpiano. Moltissime opereaveva egli composte (V. Hein. l. c. § 333), delle qualiabbiam vari frammenti nell'antico Digesto.

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Di Giulio Paolo.

frammenti nell'antico Digesto più che di qualunque altrogiureconsulto. Questi come ci scuoprono un uom dottis-simo nella giurisprudenza, così ancora cel mostrano, ciòche alquanto ne oscura la gloria, nemico fiero e impla-cabile de' Cristiani, e credesi comunemente lui esserequel Domizio di cui dice Lattanzio (l. 5 Div. Inst. c. 11),che avea raccolti tutti i rescritti da diversi principi pub-blicati contro di essi.

VI. Visse al medesimo tempo, e non fumeno celebre di Papiniano, Giulio Paolo. Diqual patria egli fosse non è ben certo; altri il

vogliono padovano, altri romano, altri il fan nativo diTiro, altri greco; ma niuno ne adduce prova che rendaabbastanza probabile la sua opinione. Fu egli pure avutoin gran pregio da Aless. Severo; ed ebbe egli ancora laprefettura del pretorio (Lampr. in Alex. c. 26.). AurelioVittore racconta che egli era stato esiliato da Eliogabalo,e che fu poi richiamato a Roma da Alessandro (in Cae-sar. c. 24); ma forse egli ha confuso Giulio Paolo conUlpiano. Egli vien chiamato da Lampridio (ib. c. 68)peritissimo del diritto; e autori del diritto diconsi daAurelio Vittore (l. c.) egli ed Ulpiano. Moltissime opereaveva egli composte (V. Hein. l. c. § 333), delle qualiabbiam vari frammenti nell'antico Digesto.

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Di Giulio Paolo.

VII. Lascio di parlare di altri men cele-bri giureconsulti che vissero a questitempi medesimi, quali furono Tertullia-no che non vuol confondersi collo scrit-tor sacro del medesimo nome, Claudio,

Trifoniano Callistrato, Elio Marciano, Florentino, Emi-lio Macro, e Erennio Modestino, de' quali e delle opereloro veggasi l'Eineccio (l. c. § 332, ec.), e l'altre volte ci-tata Storia della giurisprudenza romana dell'avv. Terras-son (par. 3.), e singolarmente il trattato di Gio. NiccolòFunccio De vegeta latinae linguae senectute (c. 6), oveegli non solo parla di questi e di più altri celebri giure-consulti di questa età, ma con una laboriosissima dili-genza tutti ad uno per uno accenna i frammenti che diessi ci son rimasti nel Corpo delle leggi romane. Dopola morte di Alessandro vedesi nella romana giurispru-denza un notabile decadimento; e appena si trova sino a'tempi di Costantino un sol giureconsulto che possa veni-re a confronto con quelli dei quali abbiamo finor ragio-nato. Lo sconvolgimento in cui trovossi per lungo tem-po il romano impero, mentre quasi ogni giorno sorgeva-no nuovi imperadori a combatter gli antichi, ed ognicosa era piena di sedizioni, di congiure e di tumulti, do-vette essere sommamente dannoso a una scienza chenon può aver luogo fra il rumore dell'armi. Quindi perlungo tratto di tempo e gl'imperadori furono in tutt'altrooccupati che in formar leggi, e i giureconsulti non ebbe-ro occasion di far pompa del loro sapere nello spiegarle.Diocleziano e Massimiano, il cui impero fu e più lungo

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Decadimento della giurispru-denza dopo la morte di Aless. Severo.

VII. Lascio di parlare di altri men cele-bri giureconsulti che vissero a questitempi medesimi, quali furono Tertullia-no che non vuol confondersi collo scrit-tor sacro del medesimo nome, Claudio,

Trifoniano Callistrato, Elio Marciano, Florentino, Emi-lio Macro, e Erennio Modestino, de' quali e delle opereloro veggasi l'Eineccio (l. c. § 332, ec.), e l'altre volte ci-tata Storia della giurisprudenza romana dell'avv. Terras-son (par. 3.), e singolarmente il trattato di Gio. NiccolòFunccio De vegeta latinae linguae senectute (c. 6), oveegli non solo parla di questi e di più altri celebri giure-consulti di questa età, ma con una laboriosissima dili-genza tutti ad uno per uno accenna i frammenti che diessi ci son rimasti nel Corpo delle leggi romane. Dopola morte di Alessandro vedesi nella romana giurispru-denza un notabile decadimento; e appena si trova sino a'tempi di Costantino un sol giureconsulto che possa veni-re a confronto con quelli dei quali abbiamo finor ragio-nato. Lo sconvolgimento in cui trovossi per lungo tem-po il romano impero, mentre quasi ogni giorno sorgeva-no nuovi imperadori a combatter gli antichi, ed ognicosa era piena di sedizioni, di congiure e di tumulti, do-vette essere sommamente dannoso a una scienza chenon può aver luogo fra il rumore dell'armi. Quindi perlungo tratto di tempo e gl'imperadori furono in tutt'altrooccupati che in formar leggi, e i giureconsulti non ebbe-ro occasion di far pompa del loro sapere nello spiegarle.Diocleziano e Massimiano, il cui impero fu e più lungo

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Decadimento della giurispru-denza dopo la morte di Aless. Severo.

e più tranquillo, molte leggi aggiunsero al Corpo dellaromana giurisprudenza, e queste dovettero risvegliarel'impegno nel coltivarne lo studio, e formare i celebrigiureconsulti che poi fiorirono sotto il regno di Costanti-no, e de' quali avrem noi pure a parlare nel IV libro.

CAPO VIII.Gramatici.

I. Delle pubbliche scuole, e degli onori ede' privilegi che da alcuni imperadori diquesta età vennero conceduti a' professoridelle scienze, e de' retori ancora che per

eloquenza si renderon famosi abbiam già favellato,come l'argomento chiedea, nel I e nel III capo di questolibro. Qui dunque altro non ci rimane che a trattar de'gramatici, che a questo tempo medesimo furon più illu-stri. Il più celebre tra essi è Gellio, il quale, benchè nonsappiamo ch'ei tenesse pubblica scuola, per le materienondimeno ch'egli ha trattate, a questa più che a qualun-que altra classe appartiene. Io lascerò che i più minuti eoziosi critici decidano la gran contesa intorno al nomedi questo scrittore, cioè se debba dirsi Agellio, o AuloGellio. Io penso che questa seconda maniera si debbaprescegliere. Ma se altri fosse di contrario parere, io cer-to non lo sfiderò perciò a battaglia. Più importante è laquestione a qual tempo ei vivesse. Alcuni pensano ch'eifiorisse a' tempi di Adriano, e il raccolgono dall'amicizia

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A qual tempovivesse Aulo Gellio.

e più tranquillo, molte leggi aggiunsero al Corpo dellaromana giurisprudenza, e queste dovettero risvegliarel'impegno nel coltivarne lo studio, e formare i celebrigiureconsulti che poi fiorirono sotto il regno di Costanti-no, e de' quali avrem noi pure a parlare nel IV libro.

CAPO VIII.Gramatici.

I. Delle pubbliche scuole, e degli onori ede' privilegi che da alcuni imperadori diquesta età vennero conceduti a' professoridelle scienze, e de' retori ancora che per

eloquenza si renderon famosi abbiam già favellato,come l'argomento chiedea, nel I e nel III capo di questolibro. Qui dunque altro non ci rimane che a trattar de'gramatici, che a questo tempo medesimo furon più illu-stri. Il più celebre tra essi è Gellio, il quale, benchè nonsappiamo ch'ei tenesse pubblica scuola, per le materienondimeno ch'egli ha trattate, a questa più che a qualun-que altra classe appartiene. Io lascerò che i più minuti eoziosi critici decidano la gran contesa intorno al nomedi questo scrittore, cioè se debba dirsi Agellio, o AuloGellio. Io penso che questa seconda maniera si debbaprescegliere. Ma se altri fosse di contrario parere, io cer-to non lo sfiderò perciò a battaglia. Più importante è laquestione a qual tempo ei vivesse. Alcuni pensano ch'eifiorisse a' tempi di Adriano, e il raccolgono dall'amicizia

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A qual tempovivesse Aulo Gellio.

ch'egli ebbe col filos. Favorino, di cui egli fa menzionein più luoghi. Ma egli è certo che Gellio nominando piuvolte Adriano gli aggiugne il nome di Divo (l. 3, c. 20, l.11, c. 6,), il che è sicuro argomento a conchiudere che,quando egli scriveva, era già morto Adriano. Innoltre eichiama col nome di consolare Erode Attico (l. 1, c. 2,ec.), e di Erucio Claro dice (l. 13, c. 16) che fu due volteconsole. Or Erode Attico fu console l'an. 143 che era ilsesto di Antonino, e Erucio Claro ebbe la seconda voltauna tal dignità l'an. 146, nono dello stesso imperadore(V. Fast. Capitol.). Dunque dopo quel tempo scrisse cer-tamente Gellio; ed è verisimile che toccasse ancora il re-gno di M. Aurelio; e potè quindi nella sua gioventù averconosciuto il filos. Favorino. Ma un passo del medesimoGellio ha posto in non leggero imbarazzo gli eruditi. Inuna disputa intorno le leggi delle XII tavole, ch'egli ri-porta, seguita tra Favorino e Sesto Cecilio (l. 20, c. 1),questi così dice: trecentesimo namque anno post Ro-mam conditam tabulae compositae scriptaeque sunt. Aquo tempore ad hanc diem anni esse non longe minusseptingenti videntur. Afferma egli dunque che dalla fon-dazion di Roma fino a quel tempo erano corsi pocomeno di mille anni. Or egli è certo che a' tempi dell'imp.Filippo soltanto si compierono i mille anni della fonda-zion di Roma, di che si fecero feste solenni l'an. dell'eracrist. 248, cioè più di un secolo dopo la morte di Adria-no. Ma il testo di Gellio non ha certamente bastevoleautorità a distruggere l'opinione di tutti gli antichi e mo-derni cronologi: e perciò convien dire che il passo sia

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ch'egli ebbe col filos. Favorino, di cui egli fa menzionein più luoghi. Ma egli è certo che Gellio nominando piuvolte Adriano gli aggiugne il nome di Divo (l. 3, c. 20, l.11, c. 6,), il che è sicuro argomento a conchiudere che,quando egli scriveva, era già morto Adriano. Innoltre eichiama col nome di consolare Erode Attico (l. 1, c. 2,ec.), e di Erucio Claro dice (l. 13, c. 16) che fu due volteconsole. Or Erode Attico fu console l'an. 143 che era ilsesto di Antonino, e Erucio Claro ebbe la seconda voltauna tal dignità l'an. 146, nono dello stesso imperadore(V. Fast. Capitol.). Dunque dopo quel tempo scrisse cer-tamente Gellio; ed è verisimile che toccasse ancora il re-gno di M. Aurelio; e potè quindi nella sua gioventù averconosciuto il filos. Favorino. Ma un passo del medesimoGellio ha posto in non leggero imbarazzo gli eruditi. Inuna disputa intorno le leggi delle XII tavole, ch'egli ri-porta, seguita tra Favorino e Sesto Cecilio (l. 20, c. 1),questi così dice: trecentesimo namque anno post Ro-mam conditam tabulae compositae scriptaeque sunt. Aquo tempore ad hanc diem anni esse non longe minusseptingenti videntur. Afferma egli dunque che dalla fon-dazion di Roma fino a quel tempo erano corsi pocomeno di mille anni. Or egli è certo che a' tempi dell'imp.Filippo soltanto si compierono i mille anni della fonda-zion di Roma, di che si fecero feste solenni l'an. dell'eracrist. 248, cioè più di un secolo dopo la morte di Adria-no. Ma il testo di Gellio non ha certamente bastevoleautorità a distruggere l'opinione di tutti gli antichi e mo-derni cronologi: e perciò convien dire che il passo sia

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guasto e corrotto. E certo se invece di septingenti si leg-gesse sexcenti, allora il computo riuscirebbe ottimamen-te; poichè Adriano regnava appunto verso la fine del IXsec. di Roma, e morì l'an. 891 dalla fondazione di essa.Intorno all'età di Gellio veggasi oltre gli altri scrittorìdal Fabricio allegati (Bibl. lat. l. 3, c. 1) un'erudita dis-sertazione del co. Camillo Silvestri inserita nella Rac-colta calogeriana (t. 6).

II. Se Gellio fosse romano, non si può consicurezza affermare, non essendovi, ch'iosappia, passo alcun dei suoi libri, che cel di-mostri. Ma in Roma ei fece certamente lun-go soggiorno, ivi attese giovinetto agli stu-

dj, ivi coltivò l'amicizia de' più dotti uomini del suotempo, ivi ancora fu da' pretori scelto tra' giudici dellecause private (l. 14, c. 2). Fu ancora per qualche tempoin Atene, e vi strinse amicizia co' più illustri filosofi cheallor vi erano. Da questo suo soggiorno in Atene ei die-de il nome alla sua opera intitolandola Notti attiche; per-ciocchè allora avea cominciato a scrivere di notte tempociò che o leggendo, o conversando cogli altri eragli sem-brato degno di averne memoria. Di quest'opera diversisono i pareri de' diversi scrittori, ed altri non si sazianoin ammirarla e in lodarla, come il Lipsio che chiamaGellio autore di purissima latinità (Centur. 4 Miscell. ep.57); altri ne dicono il più gran male del mondo, comeLodovico Vives che ne forma un carattere troppo spre-

160

Carattere delle sue Notti atti-che.

guasto e corrotto. E certo se invece di septingenti si leg-gesse sexcenti, allora il computo riuscirebbe ottimamen-te; poichè Adriano regnava appunto verso la fine del IXsec. di Roma, e morì l'an. 891 dalla fondazione di essa.Intorno all'età di Gellio veggasi oltre gli altri scrittorìdal Fabricio allegati (Bibl. lat. l. 3, c. 1) un'erudita dis-sertazione del co. Camillo Silvestri inserita nella Rac-colta calogeriana (t. 6).

II. Se Gellio fosse romano, non si può consicurezza affermare, non essendovi, ch'iosappia, passo alcun dei suoi libri, che cel di-mostri. Ma in Roma ei fece certamente lun-go soggiorno, ivi attese giovinetto agli stu-

dj, ivi coltivò l'amicizia de' più dotti uomini del suotempo, ivi ancora fu da' pretori scelto tra' giudici dellecause private (l. 14, c. 2). Fu ancora per qualche tempoin Atene, e vi strinse amicizia co' più illustri filosofi cheallor vi erano. Da questo suo soggiorno in Atene ei die-de il nome alla sua opera intitolandola Notti attiche; per-ciocchè allora avea cominciato a scrivere di notte tempociò che o leggendo, o conversando cogli altri eragli sem-brato degno di averne memoria. Di quest'opera diversisono i pareri de' diversi scrittori, ed altri non si sazianoin ammirarla e in lodarla, come il Lipsio che chiamaGellio autore di purissima latinità (Centur. 4 Miscell. ep.57); altri ne dicono il più gran male del mondo, comeLodovico Vives che ne forma un carattere troppo spre-

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Carattere delle sue Notti atti-che.

gevole e vile: Homo rhapsodus plane, congestor potiusquam digestor, et ostentator quam peritus; loquaculussine eruditione, in verbis ac sententiis putidulus (Detradend. discipl. l. 3). Nel che a mio parere e gli uni egli altri hanno passato di troppo i giusti confini. In Gel-lio troviam certamente molte osservazioni frivole e leg-gere e che poco importava che ci venissero conservate.Ma egli è certo ancora che moltissime cose appartenentialla storia, alla cronologia, a' costumi, alle leggi di tuttal'antichità invano altrove si cercherebbero che pressoGellio. Egli ci ha conservati i nomi e i sentimenti dimolti celebri uomini della sua età, e molti frammenti de'più antichi scrittori, che senza lui sarebbon periti. Insomma l'opera di Gellio si può chiamare un vasto e benripieno fondaco in cui tra poche merci di niun prezzomolte ancora ve n'ha di non ordinario valore, che altrovenon si potrebbono rinvenire. Ma in ciò ch'è dello stile, ionon so ove trovi il Lipsio quella purissima latinità chetanto egli ammira in Gellio. A me anzi pare di vedervi lacorruzion del linguaggio, che allora si faceva sempremaggiore; talchè in mezzo a molte parole e a molteespressioni del buon secolo molte ancora ve n'ha di co-nio affatto nuovo e, direi quasi, straniero. Di esse voleadarci un glossario Gaspare Barthio, e un saggio ne hapubblicato (Advers. l. 8, c. 16). Ma non so che l'operaintera sia uscita a luce. Un'opera somigliante avea purdisegnata Cristiano Falstero. Ma di essa ancora non soche sia stata data alle stampe. Intorno a Gellio degno èdi vedersi ciò che scrivono il Funccio (De vegeta lat.

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gevole e vile: Homo rhapsodus plane, congestor potiusquam digestor, et ostentator quam peritus; loquaculussine eruditione, in verbis ac sententiis putidulus (Detradend. discipl. l. 3). Nel che a mio parere e gli uni egli altri hanno passato di troppo i giusti confini. In Gel-lio troviam certamente molte osservazioni frivole e leg-gere e che poco importava che ci venissero conservate.Ma egli è certo ancora che moltissime cose appartenentialla storia, alla cronologia, a' costumi, alle leggi di tuttal'antichità invano altrove si cercherebbero che pressoGellio. Egli ci ha conservati i nomi e i sentimenti dimolti celebri uomini della sua età, e molti frammenti de'più antichi scrittori, che senza lui sarebbon periti. Insomma l'opera di Gellio si può chiamare un vasto e benripieno fondaco in cui tra poche merci di niun prezzomolte ancora ve n'ha di non ordinario valore, che altrovenon si potrebbono rinvenire. Ma in ciò ch'è dello stile, ionon so ove trovi il Lipsio quella purissima latinità chetanto egli ammira in Gellio. A me anzi pare di vedervi lacorruzion del linguaggio, che allora si faceva sempremaggiore; talchè in mezzo a molte parole e a molteespressioni del buon secolo molte ancora ve n'ha di co-nio affatto nuovo e, direi quasi, straniero. Di esse voleadarci un glossario Gaspare Barthio, e un saggio ne hapubblicato (Advers. l. 8, c. 16). Ma non so che l'operaintera sia uscita a luce. Un'opera somigliante avea purdisegnata Cristiano Falstero. Ma di essa ancora non soche sia stata data alle stampe. Intorno a Gellio degno èdi vedersi ciò che scrivono il Funccio (De vegeta lat.

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ling. senect. c. 4) e Pier Daniello Longolio nella prefa-zione premessa all'edizione di Gellio fatta in Haff inSassonia l'an. 1741.

III. Le Notti attiche di Gellio, di cui finorabbiam favellato, ci fan conoscere il nontroppo felice stato della letteratura di questitempi. Noi veggiamo i più dotti uomini cheallora fossero in Roma, occupati spesso infaticose ricerche intorno a quistioni gramati-cali di niuna importanza e mi par di scorge-

re in essi un certo spirito, per così dire di picciolezza,ben lontano dal pensar grande e sublime degli antichiRomani. Ma forse era questo un effetto di sollecitudinee di zelo per la conservazione della lingua latina. Gellioin fatti si duole del dicadimento in cui ella era a' suoitempi. Noi possiamo osservare, egli dice (l. 13, c. 27),che la più parte delle parole latine dal senso che aveva-no, quando furon formate, passate sono ad averne unaltro o somigliante, o diverso assai; e ciò è avvenutoper l'uso e per l'ignoranza di coloro che senza esameadoprano quelle parole, di cui non hanno appreso ilsenso. Quindi è che sì spesso s'incontrano presso lui mi-nutissime riflessioni sul vero senso di alcune parole, esugli abusi nella lingua latina introdotti. Ma meglio for-se avrebbon fatto que' valentuomini se non tanto nellostudio delle parole quanto in quello de' sentimenti e deipensieri si fossero esercitati, e avessero procurato di far

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Notizie in-torno allostato dellaletteraturadaquell'operaraccolte.

ling. senect. c. 4) e Pier Daniello Longolio nella prefa-zione premessa all'edizione di Gellio fatta in Haff inSassonia l'an. 1741.

III. Le Notti attiche di Gellio, di cui finorabbiam favellato, ci fan conoscere il nontroppo felice stato della letteratura di questitempi. Noi veggiamo i più dotti uomini cheallora fossero in Roma, occupati spesso infaticose ricerche intorno a quistioni gramati-cali di niuna importanza e mi par di scorge-

re in essi un certo spirito, per così dire di picciolezza,ben lontano dal pensar grande e sublime degli antichiRomani. Ma forse era questo un effetto di sollecitudinee di zelo per la conservazione della lingua latina. Gellioin fatti si duole del dicadimento in cui ella era a' suoitempi. Noi possiamo osservare, egli dice (l. 13, c. 27),che la più parte delle parole latine dal senso che aveva-no, quando furon formate, passate sono ad averne unaltro o somigliante, o diverso assai; e ciò è avvenutoper l'uso e per l'ignoranza di coloro che senza esameadoprano quelle parole, di cui non hanno appreso ilsenso. Quindi è che sì spesso s'incontrano presso lui mi-nutissime riflessioni sul vero senso di alcune parole, esugli abusi nella lingua latina introdotti. Ma meglio for-se avrebbon fatto que' valentuomini se non tanto nellostudio delle parole quanto in quello de' sentimenti e deipensieri si fossero esercitati, e avessero procurato di far

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Notizie in-torno allostato dellaletteraturadaquell'operaraccolte.

rivivere, se pur era possibile, in Roma il fervore insiemee il buon gusto nel coltivamento dell'eloquenza, dellapoesia e degli altri studj.

IV. Alcuni degl'illustri gramatici che a' suoitempi erano in Roma, troviam rammenti daGellio. Tra essi ei fa menzione di SulpizioApollinare uomo a sua memoria dottissimo(l. 18, c. 4; l. 20, c. 5, ec.) che vantavasi di

essere il solo che intender potesse le Storie di Sallustio.Egli ebbe l'onore di avere a suo discepolo Pertinace chefu poscia imperadore; anzi questi sottentrò per alcuntempo all'impiego della pubblica scuola che Sulpizio te-neva (Jul. Capit. in Pertin. c. 2) finchè annoiato dellagramatica passò all'armi, e quindi al trono. Alcuni versidi Sulpizio Apollinare sul comando che avea dato Virgi-lio di dare alle fiamme l'Eneide, ci sono stati conservatida Donato nella Vita da lui scritta di questo poeta. Gel-lio loda parimenti un cotal Elio Melisso, dicendo ch'essoa' suoi giorni avea ottenuto tra' gramatici sommo onore(l. 18, c. 6); accenna varie opere da lui scritte, ma diceinsieme che l'arroganza era in lui maggior del sapere.

V. La Storia Augusta ancora ci somministrail nome di alcuni gramatici di questa età,che dovean essere in credito di non ordina-rio sapere, poichè dagl'imperadori furon dati

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Alcuni gra-matici in essa nomi-nati.

Altri nomi-nati nella Storia Au-gusta.

rivivere, se pur era possibile, in Roma il fervore insiemee il buon gusto nel coltivamento dell'eloquenza, dellapoesia e degli altri studj.

IV. Alcuni degl'illustri gramatici che a' suoitempi erano in Roma, troviam rammenti daGellio. Tra essi ei fa menzione di SulpizioApollinare uomo a sua memoria dottissimo(l. 18, c. 4; l. 20, c. 5, ec.) che vantavasi di

essere il solo che intender potesse le Storie di Sallustio.Egli ebbe l'onore di avere a suo discepolo Pertinace chefu poscia imperadore; anzi questi sottentrò per alcuntempo all'impiego della pubblica scuola che Sulpizio te-neva (Jul. Capit. in Pertin. c. 2) finchè annoiato dellagramatica passò all'armi, e quindi al trono. Alcuni versidi Sulpizio Apollinare sul comando che avea dato Virgi-lio di dare alle fiamme l'Eneide, ci sono stati conservatida Donato nella Vita da lui scritta di questo poeta. Gel-lio loda parimenti un cotal Elio Melisso, dicendo ch'essoa' suoi giorni avea ottenuto tra' gramatici sommo onore(l. 18, c. 6); accenna varie opere da lui scritte, ma diceinsieme che l'arroganza era in lui maggior del sapere.

V. La Storia Augusta ancora ci somministrail nome di alcuni gramatici di questa età,che dovean essere in credito di non ordina-rio sapere, poichè dagl'imperadori furon dati

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Alcuni gra-matici in essa nomi-nati.

Altri nomi-nati nella Storia Au-gusta.

per maestri a' loro figliuoli. M. Aurelio ebbe, come nar-ra Capitolino (in M. Aur. c. 2), a suoi maestri negli studjgramaticali Alessandro per la lingua greca, per la latinaTrosio Apro Pollione, ed Eutichio Procolo nativo di Sic-ca nell'Africa. Ma di essi null'altro sappiamo, se non chedi Procolo aggiugne Capitolino, che fu da M. Aureliosollevato all'onore di proconsole, ma facendolo esenteda quelle spese che per ciò erano necessarie. Forse egliè quello stesso che da Trebellio Pollione si dice gramati-co, dottissimo del suo tempo (in Aemiliano), e di cui ac-cenna un'opera, non sappiam quale, in cui parlava dipaesi stranieri. Lo stesso Capitolino fa menzione diScauro gramatico latino maestro di Lucio Vero (inVero), figliuolo, egli dice, di quello Scauro che fu gra-matico a' tempi di Adriano. Il Salmasio però conghiettu-ra (in not. ad hunc loc.) che debbasi leggere Scaurino,poichè Lampridio nella Vita di Aless. Severo (c. 3.) no-mina tra i maestri ch'egli ebbe, Scaurino maestro rino-matissimo figliuol di Scaurino. Del gram. Scauro chevisse a' tempi di Adriano, parla anche Gellio con moltalode (l. 11, c. 15), e abbiamo qualche sua operetta gra-maticale nella Raccolta degli antichi Gramatici. Lo stes-so Vero ebbe pure a suoi maestri nelle lettere greche Te-lefo, quello stesso probabilmente di cui Suida rammentaparecchie opere, Efestione ch'è verisimilmente l'autoredi un picciol trattato de' metri, che abbiamo, e Arpocra-zione che forse è quell'Elio Arpocrazione di cui parlaSuida. Parimenti nella Vita di Commodo troviam nomi-nati de' gramatici a' quali però ivi si dà il titolo di lette-

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per maestri a' loro figliuoli. M. Aurelio ebbe, come nar-ra Capitolino (in M. Aur. c. 2), a suoi maestri negli studjgramaticali Alessandro per la lingua greca, per la latinaTrosio Apro Pollione, ed Eutichio Procolo nativo di Sic-ca nell'Africa. Ma di essi null'altro sappiamo, se non chedi Procolo aggiugne Capitolino, che fu da M. Aureliosollevato all'onore di proconsole, ma facendolo esenteda quelle spese che per ciò erano necessarie. Forse egliè quello stesso che da Trebellio Pollione si dice gramati-co, dottissimo del suo tempo (in Aemiliano), e di cui ac-cenna un'opera, non sappiam quale, in cui parlava dipaesi stranieri. Lo stesso Capitolino fa menzione diScauro gramatico latino maestro di Lucio Vero (inVero), figliuolo, egli dice, di quello Scauro che fu gra-matico a' tempi di Adriano. Il Salmasio però conghiettu-ra (in not. ad hunc loc.) che debbasi leggere Scaurino,poichè Lampridio nella Vita di Aless. Severo (c. 3.) no-mina tra i maestri ch'egli ebbe, Scaurino maestro rino-matissimo figliuol di Scaurino. Del gram. Scauro chevisse a' tempi di Adriano, parla anche Gellio con moltalode (l. 11, c. 15), e abbiamo qualche sua operetta gra-maticale nella Raccolta degli antichi Gramatici. Lo stes-so Vero ebbe pure a suoi maestri nelle lettere greche Te-lefo, quello stesso probabilmente di cui Suida rammentaparecchie opere, Efestione ch'è verisimilmente l'autoredi un picciol trattato de' metri, che abbiamo, e Arpocra-zione che forse è quell'Elio Arpocrazione di cui parlaSuida. Parimenti nella Vita di Commodo troviam nomi-nati de' gramatici a' quali però ivi si dà il titolo di lette-

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ratori (c. 1), come abbiam detto altrove essersi talvoltausato; un di essi greco, cioè Onesicrito, l'altro latino det-to Capella Antimio, de' quali null'altro sappiamo. DiMassimino il giovane narra Giulio Capitolino (c. 1), cheebbe tra' suoi maestri Fabilio letterator greco, di cuidice che ancor leggevansi molti epigrammi greci, e spe-cialmente alcuni versi di Virgilio in lingua greca da luirecati, e inoltre Filemone gramatico latino, di cui purenon abbiamo altra più distinta notizia.

VI. Io ben vedo che questa sterile e ignudaserie di nomi, ch'io son venuto tessendo,avrà recata non poca noia a' miei lettori. Mase un terreno è così sterile che non produca

fiori nè frutta di sorta alcuna, non se ne dee incolpare illaborioso ma infelice coltivatore. Per non accresceremaggiormente il tedio a chi legge, io lascerò di parlaredi altri, antichi gramatici, de' quali benchè sia incertal'età, si può nondimeno credere probabilmente che vi-vessero circa questo medesimo tempo, e delle opere de'quali ci sono rimasti più, o meno ampj frammenti inseri-ti nelle Raccolte che abbiamo dei loro scritti. Il Fabriciopotrà soddisfare al desiderio di chi voglia pur risaperne inomi, e quelle pochissime notizie che ce ne son perve-nute (Bibl. lat. l. 4, c. 6, 7). Io mi dipartirò ancora dalmio usato costume di trattare a questo luogo distinta-mente degli eruditi stranieri che concorsero a Roma. Ilnumero de' Romani amanti delle lettere è stato a

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Sterilità di questo ar-gomento.

ratori (c. 1), come abbiam detto altrove essersi talvoltausato; un di essi greco, cioè Onesicrito, l'altro latino det-to Capella Antimio, de' quali null'altro sappiamo. DiMassimino il giovane narra Giulio Capitolino (c. 1), cheebbe tra' suoi maestri Fabilio letterator greco, di cuidice che ancor leggevansi molti epigrammi greci, e spe-cialmente alcuni versi di Virgilio in lingua greca da luirecati, e inoltre Filemone gramatico latino, di cui purenon abbiamo altra più distinta notizia.

VI. Io ben vedo che questa sterile e ignudaserie di nomi, ch'io son venuto tessendo,avrà recata non poca noia a' miei lettori. Mase un terreno è così sterile che non produca

fiori nè frutta di sorta alcuna, non se ne dee incolpare illaborioso ma infelice coltivatore. Per non accresceremaggiormente il tedio a chi legge, io lascerò di parlaredi altri, antichi gramatici, de' quali benchè sia incertal'età, si può nondimeno credere probabilmente che vi-vessero circa questo medesimo tempo, e delle opere de'quali ci sono rimasti più, o meno ampj frammenti inseri-ti nelle Raccolte che abbiamo dei loro scritti. Il Fabriciopotrà soddisfare al desiderio di chi voglia pur risaperne inomi, e quelle pochissime notizie che ce ne son perve-nute (Bibl. lat. l. 4, c. 6, 7). Io mi dipartirò ancora dalmio usato costume di trattare a questo luogo distinta-mente degli eruditi stranieri che concorsero a Roma. Ilnumero de' Romani amanti delle lettere è stato a

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Sterilità di questo ar-gomento.

quest'epoca così scarso, che a rintracciare qual fosse lostato della letteratura ci è convenuto necessariamenteaccennare in ciascheduno de' precedenti Capi i più illu-stri tra gli stranieri ch'erano in Roma di questi tempi, nèperciò ci rimane che aggiugnere intorno ad essi.

CAPO IX.Biblioteche.

I. Da questo Capo ancor dobbiamo necessa-riamente spedirci in poche parole, poichèappena troviamo di questi tempi, in ciò cheappartiene alle romane biblioteche, cosa al-cuna che degna sia di memoria. L'impero di

Comodo fu fatale a quella che era contigua al tempiodella Pace, di cui abbiamo parlato nell'epoca precedente.Un orribile incendio che d'improvviso si accese, tutto ri-dusse in cenere quel vasto tempio che, come dice Ero-diano (Hist. l. 1, c. 44), era il più magnifico e il più riccoche fosse in Roma. Col tempio fu incendiata ancorl'annessa biblioteca. Galeno si duole che in tal occasionemolti de' libri da lui composti che ivi si conservavano,perirono miseramente (De libris propr.), e, ciò che fu as-sai peggio, quasi tutte le scritture appartenenti all'imperofuron consunte dal fuoco (Dio l. 72). E forse altre bi-blioteche ancora in questa occasione divennero predadelle fiamme, poichè Erodiano aggiugne ch'esse daltempio della Pace si sparsero anche altrove, e molte par-

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Stato infeli-ce delle bi-blioteche pubbliche.

quest'epoca così scarso, che a rintracciare qual fosse lostato della letteratura ci è convenuto necessariamenteaccennare in ciascheduno de' precedenti Capi i più illu-stri tra gli stranieri ch'erano in Roma di questi tempi, nèperciò ci rimane che aggiugnere intorno ad essi.

CAPO IX.Biblioteche.

I. Da questo Capo ancor dobbiamo necessa-riamente spedirci in poche parole, poichèappena troviamo di questi tempi, in ciò cheappartiene alle romane biblioteche, cosa al-cuna che degna sia di memoria. L'impero di

Comodo fu fatale a quella che era contigua al tempiodella Pace, di cui abbiamo parlato nell'epoca precedente.Un orribile incendio che d'improvviso si accese, tutto ri-dusse in cenere quel vasto tempio che, come dice Ero-diano (Hist. l. 1, c. 44), era il più magnifico e il più riccoche fosse in Roma. Col tempio fu incendiata ancorl'annessa biblioteca. Galeno si duole che in tal occasionemolti de' libri da lui composti che ivi si conservavano,perirono miseramente (De libris propr.), e, ciò che fu as-sai peggio, quasi tutte le scritture appartenenti all'imperofuron consunte dal fuoco (Dio l. 72). E forse altre bi-blioteche ancora in questa occasione divennero predadelle fiamme, poichè Erodiano aggiugne ch'esse daltempio della Pace si sparsero anche altrove, e molte par-

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Stato infeli-ce delle bi-blioteche pubbliche.

ti della città distrussero per due giorni. Certo è che Vopi-sco, il quale andava diligentemente raccogliendo, quellenotizie che alla sua Storia eran necessarie, di altre bi-blioteche non fa menzione che della ulpia, cioè di quelladi Trajano (in Aureliano c. 1; in Tac. c. 8), di cui diceche a suo tempo era nelle terme di Diocleziano (in Pro-bo c. 2) e di quella di Tiberio (ib.).

II. Questo è ciò solo che noi troviamo aquest'epoca appartenente alle pubbliche bi-blioteche. Quanto alle private, io credo cer-to che molte ve ne fossero in Roma. Ma nel-le Storie non ne troviamo rammentata alcu-

na, fuorchè quella del medico Sereno Sammonico, di cuiabbiam già parlato, ch'era composta di sessantaduemilavolumi, e che dal figlio dello stesso Sammonico fu poidonata al secondo Gordiano. Io non mi sono pure avve-nuto nè nelle antiche iscrizioni, nè in alcun monumento,a trovare il nome di talun di coloro che in questo tempodovettero presiedere alle biblioteche. La scarsezza deglistorici che abbiamo di queste età, sarà forse cagione chenon possiamo avere altre memorie intorno a questo ar-gomento. Ma io credo ancora che lo sconvolgimento ditutto l'impero e la universale corruzion de' costumi ren-desse poco curanti i Romani come di ogni letteratura,così ancora de' libri, e che perciò e perissero molte delleantiche biblioteche, e non si pensasse, se non da pochis-simi, a formarne altre nuove. "Non ostante però lo scar-

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Peggiore ancora quello delleprivate.

ti della città distrussero per due giorni. Certo è che Vopi-sco, il quale andava diligentemente raccogliendo, quellenotizie che alla sua Storia eran necessarie, di altre bi-blioteche non fa menzione che della ulpia, cioè di quelladi Trajano (in Aureliano c. 1; in Tac. c. 8), di cui diceche a suo tempo era nelle terme di Diocleziano (in Pro-bo c. 2) e di quella di Tiberio (ib.).

II. Questo è ciò solo che noi troviamo aquest'epoca appartenente alle pubbliche bi-blioteche. Quanto alle private, io credo cer-to che molte ve ne fossero in Roma. Ma nel-le Storie non ne troviamo rammentata alcu-

na, fuorchè quella del medico Sereno Sammonico, di cuiabbiam già parlato, ch'era composta di sessantaduemilavolumi, e che dal figlio dello stesso Sammonico fu poidonata al secondo Gordiano. Io non mi sono pure avve-nuto nè nelle antiche iscrizioni, nè in alcun monumento,a trovare il nome di talun di coloro che in questo tempodovettero presiedere alle biblioteche. La scarsezza deglistorici che abbiamo di queste età, sarà forse cagione chenon possiamo avere altre memorie intorno a questo ar-gomento. Ma io credo ancora che lo sconvolgimento ditutto l'impero e la universale corruzion de' costumi ren-desse poco curanti i Romani come di ogni letteratura,così ancora de' libri, e che perciò e perissero molte delleantiche biblioteche, e non si pensasse, se non da pochis-simi, a formarne altre nuove. "Non ostante però lo scar-

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Peggiore ancora quello delleprivate.

so numero delle biblioteche veggiamo che fin d'allorapensavasi a prescrivere il metodo per la scelta de' libri,affine di non ammassare insieme i buoni co' malvagi.Perciocchè Suida ci narra che Damofilo vissuto a' tempidi M. Aurelio, oltre più altre opere, una ne scrisse intito-lata Philobiblos, cioè de' libri degni di essere acquistati,la quale fu da lui diretta a Lollio Massimo".

CAPO X.Arti liberali.

I. Abbiamo già altre volte e fin dal principiodi quest'opera osservato che le scienze e learti sembrano darsi vicendevolmente lamano, e che non possono le une o sorgere apiù felice stato, o decadere miseramentesenza che la medesima sorte incontrino an-

cor le altre. Ciò che ora siamo per dire intorno allo statoin cui furono a quest'epoca le arti liberali, confermeràvie maggiormente la nostra, o, a dir meglio, la comuneopinione. Le scienze erano in un rovinoso decadimento:pochi ne erano i coltivator tra' Romani; e que' medesimiche pure le coltivavano, parte pel corrompimento dellalingua latina, parte pel vizioso gusto da' sofisti greci in-trodotto, parte ancora per l'infelice condizione de' tempitorbidi e sconvolti, nol facevano comunemente che conpoco felice successo. Non altrimenti avvenne delle arti.L'erudito Winckelmann saggiamente riflette (Hist. de

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Sotto il re-gno degli Antonini le Arti fiori-scono feli-cemente.

so numero delle biblioteche veggiamo che fin d'allorapensavasi a prescrivere il metodo per la scelta de' libri,affine di non ammassare insieme i buoni co' malvagi.Perciocchè Suida ci narra che Damofilo vissuto a' tempidi M. Aurelio, oltre più altre opere, una ne scrisse intito-lata Philobiblos, cioè de' libri degni di essere acquistati,la quale fu da lui diretta a Lollio Massimo".

CAPO X.Arti liberali.

I. Abbiamo già altre volte e fin dal principiodi quest'opera osservato che le scienze e learti sembrano darsi vicendevolmente lamano, e che non possono le une o sorgere apiù felice stato, o decadere miseramentesenza che la medesima sorte incontrino an-

cor le altre. Ciò che ora siamo per dire intorno allo statoin cui furono a quest'epoca le arti liberali, confermeràvie maggiormente la nostra, o, a dir meglio, la comuneopinione. Le scienze erano in un rovinoso decadimento:pochi ne erano i coltivator tra' Romani; e que' medesimiche pure le coltivavano, parte pel corrompimento dellalingua latina, parte pel vizioso gusto da' sofisti greci in-trodotto, parte ancora per l'infelice condizione de' tempitorbidi e sconvolti, nol facevano comunemente che conpoco felice successo. Non altrimenti avvenne delle arti.L'erudito Winckelmann saggiamente riflette (Hist. de

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Sotto il re-gno degli Antonini le Arti fiori-scono feli-cemente.

l'Art. t. 2, p. 314) che il tempo degli Antonini fu perl'arte ciò ch'esser suole in una mortal malattiaquell'apparente miglioramento che precede la morte, ocome la più viva luce istantanea che gitta una candela,quando è vicina ad estinguersi. In fatti a' tempi di Anto-nino e di M. Aurelio molte grandiose fabbriche sorseroin Roma e altrove; e alcune statue ed altri lavori di queltempo, che sono assai da pregiarsi, ancor ci rimangonode' quali si può vedere la descrizione presso il lodatoWinckelmann (ib. et seq.). Il celebre Erode Attico, dicui abbiam ragionato a suo luogo, uomo ricco e splendi-do sopra ogni altro de' tempi suoi, moltissimi monumen-ti di non ordinario pregio fece innalzare in Roma e inAtene. Filostrato ce ne ha lasciata la descrizione (Vit.Soph. l. 2.), seppur non l'ha egli, come vi ha luogo a so-spettare esagerata di troppo. Lo stesso M. Aurelio aveaappresa l'arte della pittura sotto un cotal Diogneto (Jul.Capit. in M. Aur. c. 4) di cui egli però loda bensì ne' suoilibri (De reb. suis l. 1), i morali insegnamenti che n'avearicevuti, ma non accenna alcuna istruzione avutanell'arte di pingere, il che ha fatto sospettare al Salmasio(in not. ad Jul. Capit.), che due Diogneti vi fossero altempo stesso, pittore l'uno, l'altro filosofo; di che nonvale la pena di disputar lungamente.

II. Ma questi famosi artefici, continua l'eru-dito Winckelmann, erano que' medesimi chesotto il regno di Traiano e di Adriano si eran

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Ma posciacomincianoa decadere.

l'Art. t. 2, p. 314) che il tempo degli Antonini fu perl'arte ciò ch'esser suole in una mortal malattiaquell'apparente miglioramento che precede la morte, ocome la più viva luce istantanea che gitta una candela,quando è vicina ad estinguersi. In fatti a' tempi di Anto-nino e di M. Aurelio molte grandiose fabbriche sorseroin Roma e altrove; e alcune statue ed altri lavori di queltempo, che sono assai da pregiarsi, ancor ci rimangonode' quali si può vedere la descrizione presso il lodatoWinckelmann (ib. et seq.). Il celebre Erode Attico, dicui abbiam ragionato a suo luogo, uomo ricco e splendi-do sopra ogni altro de' tempi suoi, moltissimi monumen-ti di non ordinario pregio fece innalzare in Roma e inAtene. Filostrato ce ne ha lasciata la descrizione (Vit.Soph. l. 2.), seppur non l'ha egli, come vi ha luogo a so-spettare esagerata di troppo. Lo stesso M. Aurelio aveaappresa l'arte della pittura sotto un cotal Diogneto (Jul.Capit. in M. Aur. c. 4) di cui egli però loda bensì ne' suoilibri (De reb. suis l. 1), i morali insegnamenti che n'avearicevuti, ma non accenna alcuna istruzione avutanell'arte di pingere, il che ha fatto sospettare al Salmasio(in not. ad Jul. Capit.), che due Diogneti vi fossero altempo stesso, pittore l'uno, l'altro filosofo; di che nonvale la pena di disputar lungamente.

II. Ma questi famosi artefici, continua l'eru-dito Winckelmann, erano que' medesimi chesotto il regno di Traiano e di Adriano si eran

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Ma posciacomincianoa decadere.

formati alla scuola degli altri ancor migliori che gliaveano preceduti. Il regno degli Antonini non era moltoopportuno a produrne de' nuovi. I filosofi e i sofisti, de'quali Roma era inondata, aveansi unicamente in pregio;ed essi disprezzatori superbi di ogni altra scienza e diogni altra arte non permettevano che il merito de' valo-rosi artefici fosse, come conveniva pregiato e ricompen-sato. Egli osserva in fatti (ib. p. 322) che una testa diCommodo, fatta mentre egli era ancor giovane, è assaibella; ma che quelle degl'imperadori seguenti non pos-sono venir con essa al confronto. Molti monumenti diquesti tempi viene egli esaminando coll'usata sua dili-genza, e così nell'Arco di Settimio Severo, come in altrestatue e in altri bassi-rilievi che ci sono rimasti, mostraquanto precipitosamente decadessero allora le arti.Aless. Severo però sembra che usasse di ogni sforzo perfar rifiorire le belle arti, il che dal Winckelmann non si èavvertito; poichè egli solo rammenta (p. 327.) le statuedegli uomini illustri, che da ogni parte ei fè raccoglieree collocare nel Foro di Traiano. Ma oltre di ciò non soloLampridio dice (in Alex. c. 27.) ch'egli dipingea mirabil-mente, ma ancora che molte rinnovò delle fabbriche de'precedenti imperadori, molte nuove ne fece innalzareegli stesso, e fra le altre le terme a cui diede il suo pro-prio nome; che molti colossi fece ergere in Roma, chia-mando perciò da ogni parte artefici valorosi; anzi a luiattribuisce l'invenzione di unire e di intarsiare insiememarmi di diversi generi (ib. c. 25); nel che però se egliintende che Alessandro fosse l'inventore de' lavori che

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formati alla scuola degli altri ancor migliori che gliaveano preceduti. Il regno degli Antonini non era moltoopportuno a produrne de' nuovi. I filosofi e i sofisti, de'quali Roma era inondata, aveansi unicamente in pregio;ed essi disprezzatori superbi di ogni altra scienza e diogni altra arte non permettevano che il merito de' valo-rosi artefici fosse, come conveniva pregiato e ricompen-sato. Egli osserva in fatti (ib. p. 322) che una testa diCommodo, fatta mentre egli era ancor giovane, è assaibella; ma che quelle degl'imperadori seguenti non pos-sono venir con essa al confronto. Molti monumenti diquesti tempi viene egli esaminando coll'usata sua dili-genza, e così nell'Arco di Settimio Severo, come in altrestatue e in altri bassi-rilievi che ci sono rimasti, mostraquanto precipitosamente decadessero allora le arti.Aless. Severo però sembra che usasse di ogni sforzo perfar rifiorire le belle arti, il che dal Winckelmann non si èavvertito; poichè egli solo rammenta (p. 327.) le statuedegli uomini illustri, che da ogni parte ei fè raccoglieree collocare nel Foro di Traiano. Ma oltre di ciò non soloLampridio dice (in Alex. c. 27.) ch'egli dipingea mirabil-mente, ma ancora che molte rinnovò delle fabbriche de'precedenti imperadori, molte nuove ne fece innalzareegli stesso, e fra le altre le terme a cui diede il suo pro-prio nome; che molti colossi fece ergere in Roma, chia-mando perciò da ogni parte artefici valorosi; anzi a luiattribuisce l'invenzione di unire e di intarsiare insiememarmi di diversi generi (ib. c. 25); nel che però se egliintende che Alessandro fosse l'inventore de' lavori che

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diciamo a mosaico, essi erano più antichi di assai, comedall'erudita opera del card. Aless. Furietti su questo ar-gomento raccogliesi chiaramente.

III. Se dopo Aless. Severo fossero statitranquilli e lieti i tempi della repubblica, ese i seguenti imperadori ne avessero imitatol'esempio, forse sarebbono le arti ritornateall'antico onore; ma le guerre, le sedizioni, e

i tumulti che d'allora in poi furono sì frequenti, le con-dussero a un'estrema rovina. Una statua di Pupieno, cheregnò per breve tempo alcuni anni dopo la morte diAlessandro, si rammenta dal Winckelmann (p. 328), sta-tua che, benchè abbia non pochi difetti, è nondimenoforse la sola di qualche pregio; ed ella fu opera probabil-mente di alcun degli artefici che da Aless. erano statichiamati a Roma. Ma sotto l'impero di Gallieno singo-larmente, e ne' torbidi tempi che venner dopo, le artisoffrirono grandissimo danno. Nè è già che statue ed al-tri lavori non si facessero allora. Una statua d'oro altadieci piedi troviam innalzata dal popol romano in onoredi Claudio II, e un'altra d'argento di millecinquecentolibbre di peso innalzata a lui pure nel Foro (Trebell.Poll. in Claud. c. 3), e tre statue d'argento dall'imp. Taci-to innalzate in onore di Aureliano suo predecessore(Vop. in Tac. c. 9); e statue ancora dello stesso Tacito edel suo fratello Floriano (id. in Floriano c. 2). Nuoviedificj ancora e nuovi palazzi di grandissimo lusso si

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E quindi vengono a una estremarovina.

diciamo a mosaico, essi erano più antichi di assai, comedall'erudita opera del card. Aless. Furietti su questo ar-gomento raccogliesi chiaramente.

III. Se dopo Aless. Severo fossero statitranquilli e lieti i tempi della repubblica, ese i seguenti imperadori ne avessero imitatol'esempio, forse sarebbono le arti ritornateall'antico onore; ma le guerre, le sedizioni, e

i tumulti che d'allora in poi furono sì frequenti, le con-dussero a un'estrema rovina. Una statua di Pupieno, cheregnò per breve tempo alcuni anni dopo la morte diAlessandro, si rammenta dal Winckelmann (p. 328), sta-tua che, benchè abbia non pochi difetti, è nondimenoforse la sola di qualche pregio; ed ella fu opera probabil-mente di alcun degli artefici che da Aless. erano statichiamati a Roma. Ma sotto l'impero di Gallieno singo-larmente, e ne' torbidi tempi che venner dopo, le artisoffrirono grandissimo danno. Nè è già che statue ed al-tri lavori non si facessero allora. Una statua d'oro altadieci piedi troviam innalzata dal popol romano in onoredi Claudio II, e un'altra d'argento di millecinquecentolibbre di peso innalzata a lui pure nel Foro (Trebell.Poll. in Claud. c. 3), e tre statue d'argento dall'imp. Taci-to innalzate in onore di Aureliano suo predecessore(Vop. in Tac. c. 9); e statue ancora dello stesso Tacito edel suo fratello Floriano (id. in Floriano c. 2). Nuoviedificj ancora e nuovi palazzi di grandissimo lusso si

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E quindi vengono a una estremarovina.

aggiunsero a Roma; e la pittura parimenti vi fu coltiva-ta; poichè fra gli altri monumenti che ne abbiam veggia-mo nominati da Vopisco i solenni giuochi che Carinoavea dati al popolo romano, e che egli avea fatto dipin-gere in un portico del suo palazzo (in Carino c. 19). Matutti quasi i lavori dell'arte si risentivano di quella barba-rie che la condizione de' tempi cominciava a spargere inRoma. Basta osservar le medaglie degl'imperadori daGallieno fino a Costantino, per conoscer la rozzezza de-gli artefici di questa età, tanto lontana dall'antica finez-za, quanto i tempi di Gallieno e de' successori eran di-versi da que' d'Augusto.

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aggiunsero a Roma; e la pittura parimenti vi fu coltiva-ta; poichè fra gli altri monumenti che ne abbiam veggia-mo nominati da Vopisco i solenni giuochi che Carinoavea dati al popolo romano, e che egli avea fatto dipin-gere in un portico del suo palazzo (in Carino c. 19). Matutti quasi i lavori dell'arte si risentivano di quella barba-rie che la condizione de' tempi cominciava a spargere inRoma. Basta osservar le medaglie degl'imperadori daGallieno fino a Costantino, per conoscer la rozzezza de-gli artefici di questa età, tanto lontana dall'antica finez-za, quanto i tempi di Gallieno e de' successori eran di-versi da que' d'Augusto.

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LIBRO III.Della Letteratura delle Provincie d'Italia, e de' Cristiani ne' pri-

mi tre secoli.

Roma è stata finora il principale oggetto delle nostre ri-cerche. Essa consideravasi come la capitale del mondotutto, essa era l'ordinaria sede degl'imperadori: ad essaperciò concorrevano dalle altre parti del mondo tutti co-loro che nel maneggio de' pubblici affari o nel coltiva-mento delle arti, o delle scienze bramavano o speravanodi acquistarsi nome. Quindi non è maraviglia che i piùfamosi poeti, oratori, filosofi ed eruditi di ogni manierain questo, direi quasi, centro comune si trovasser raccol-ti; e che le altre provincie d'Italia rimanessero in con-fronto a Roma abbandonate e diserte. Così veggiamoaccadere comunemente in qualunque vasto dominio, cheil più bel fiore della nazione vada a riunirsi insieme nel-la capitale; e che se nelle provincie vi sono uomini o persenno, o per sapere famosi, tutti procurino, ove qualcheparticolar motivo non li ritenga, di procacciare a' lorproprj talenti un più luminoso teatro. Nondimeno anchele provincie d'Italia non furono in tutto prive di letterarialode, e dotti uomini e scuole e biblioteche pubbliche sividero in esse ancora. A render dunque, quanto più sipossa, compita la Storia dell'Italiana Letteratura, diquella ancora delle provincie ci conviene dir qualchecosa. Inoltre i dotti uomini, de' quali abbiam finora par-

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LIBRO III.Della Letteratura delle Provincie d'Italia, e de' Cristiani ne' pri-

mi tre secoli.

Roma è stata finora il principale oggetto delle nostre ri-cerche. Essa consideravasi come la capitale del mondotutto, essa era l'ordinaria sede degl'imperadori: ad essaperciò concorrevano dalle altre parti del mondo tutti co-loro che nel maneggio de' pubblici affari o nel coltiva-mento delle arti, o delle scienze bramavano o speravanodi acquistarsi nome. Quindi non è maraviglia che i piùfamosi poeti, oratori, filosofi ed eruditi di ogni manierain questo, direi quasi, centro comune si trovasser raccol-ti; e che le altre provincie d'Italia rimanessero in con-fronto a Roma abbandonate e diserte. Così veggiamoaccadere comunemente in qualunque vasto dominio, cheil più bel fiore della nazione vada a riunirsi insieme nel-la capitale; e che se nelle provincie vi sono uomini o persenno, o per sapere famosi, tutti procurino, ove qualcheparticolar motivo non li ritenga, di procacciare a' lorproprj talenti un più luminoso teatro. Nondimeno anchele provincie d'Italia non furono in tutto prive di letterarialode, e dotti uomini e scuole e biblioteche pubbliche sividero in esse ancora. A render dunque, quanto più sipossa, compita la Storia dell'Italiana Letteratura, diquella ancora delle provincie ci conviene dir qualchecosa. Inoltre i dotti uomini, de' quali abbiam finora par-

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lato furono tutti idolatri. Questa era la religion dominan-te e perciò la più numerosa, la sola avuta in pregio da'principi, e spesso ancora la sola che fosse lecito di pro-fessare. I Cristiani, benchè non piccolo fosse il loro nu-mero, costretti però sovente a tenersi nascosti e a sot-trarsi al furore de' loro persecutori, non aveano per lopiù nè agio nè tempo a coltivare attentamente gli studj; eil loro orrore per le gentilesche superstizioni faceva an-cora che molti si tenesser lontani da quegli studj che po-tean sembrar gentileschi. Contuttociò anche tra essiebbe luogo il coltivamento delle scienze, e delle sacresingolarmente; e dobbiamo perciò esaminare ancora ciòche appartiene alla letteratura de' Cristiani d'Italia. Que-ste due ricerche formeran l'argomento di questo libro;dopo il quale non dovrem più separare gli studj di Romadagli studj delle provincie d'Italia, nè la letteratura degliIdolatri da quella de' Cristiani. Roma da' tempi di Co-stantino in poi non fu più la stabile ed ordinaria sede de'Cesari; e la religion cristiana essendo divenuta la reli-gion del trono, divenne ancor la religion dell'impero; egl'idolatri tollerati solo ancora per qualche tempo nonebber molti che per sapere si rendesser famosi. Così se-condo i diversi tempi, di cui scriviamo, ci convienecambiar ordine e metodo, di ragionare, perchè la Lette-ratura Italiana ci si offra in quell'aspetto in cui ella fuveramente.

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lato furono tutti idolatri. Questa era la religion dominan-te e perciò la più numerosa, la sola avuta in pregio da'principi, e spesso ancora la sola che fosse lecito di pro-fessare. I Cristiani, benchè non piccolo fosse il loro nu-mero, costretti però sovente a tenersi nascosti e a sot-trarsi al furore de' loro persecutori, non aveano per lopiù nè agio nè tempo a coltivare attentamente gli studj; eil loro orrore per le gentilesche superstizioni faceva an-cora che molti si tenesser lontani da quegli studj che po-tean sembrar gentileschi. Contuttociò anche tra essiebbe luogo il coltivamento delle scienze, e delle sacresingolarmente; e dobbiamo perciò esaminare ancora ciòche appartiene alla letteratura de' Cristiani d'Italia. Que-ste due ricerche formeran l'argomento di questo libro;dopo il quale non dovrem più separare gli studj di Romadagli studj delle provincie d'Italia, nè la letteratura degliIdolatri da quella de' Cristiani. Roma da' tempi di Co-stantino in poi non fu più la stabile ed ordinaria sede de'Cesari; e la religion cristiana essendo divenuta la reli-gion del trono, divenne ancor la religion dell'impero; egl'idolatri tollerati solo ancora per qualche tempo nonebber molti che per sapere si rendesser famosi. Così se-condo i diversi tempi, di cui scriviamo, ci convienecambiar ordine e metodo, di ragionare, perchè la Lette-ratura Italiana ci si offra in quell'aspetto in cui ella fuveramente.

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CAPO I.Letteratura delle provincie d'Italia.

I. Ad avere una giusta idea dello stato in cuiera nei tempi della repubblica e de' primiimperadori romani la letteratura nelle pro-vincie italiane, ci farebbe d'uopo avere alcu-ni de' loro storici antichi che qualche esatta

notizia ce ne avesser lasciata. Ma o esse non ebbero sto-rici di sorta alcuna, o, se ne ebbero, niuno di essi ci èpervenuto. Altro dunque non possiam fare che andarraccogliendo laboriosamente ciò che quasi per incidenzace ne hanno detto gli storici romani e greci e ciò chedall'esame di alcuni antichi monumenti si può ricavare.Noi il faremo con quella maggior diligenza che sia pos-sibile, per illustrare un argomento che non so se da alcu-no finora sia stato espressamente trattato. Nè io intendoperò di parlare di ciascheduna delle italiane città, e diesaminare qual fosse in esso lo stato della letteratura.Oltre che sarebbe ella cosa di troppo lunga e noiosa ri-cerca, converrebbe ancora che ogni città avesse avuti di-ligenti raccoglitori degli antichi suoi monumenti. Orbenchè l'Italia sia stata in ciò più assai ch'ogn'altra pro-vincia felice pel gran numero di valentuomini che singo-larmente in questi ultimi tempi si son rivolti a ricercaree ad illustrare le antichità della lor patria, vi sono peròancora città e provincie che non hanno avuta tal sorte; enemmeno tutti i libri, che abbiam moltissimi su questo

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Difficoltà nel ben trattare questo ar-gomento.

CAPO I.Letteratura delle provincie d'Italia.

I. Ad avere una giusta idea dello stato in cuiera nei tempi della repubblica e de' primiimperadori romani la letteratura nelle pro-vincie italiane, ci farebbe d'uopo avere alcu-ni de' loro storici antichi che qualche esatta

notizia ce ne avesser lasciata. Ma o esse non ebbero sto-rici di sorta alcuna, o, se ne ebbero, niuno di essi ci èpervenuto. Altro dunque non possiam fare che andarraccogliendo laboriosamente ciò che quasi per incidenzace ne hanno detto gli storici romani e greci e ciò chedall'esame di alcuni antichi monumenti si può ricavare.Noi il faremo con quella maggior diligenza che sia pos-sibile, per illustrare un argomento che non so se da alcu-no finora sia stato espressamente trattato. Nè io intendoperò di parlare di ciascheduna delle italiane città, e diesaminare qual fosse in esso lo stato della letteratura.Oltre che sarebbe ella cosa di troppo lunga e noiosa ri-cerca, converrebbe ancora che ogni città avesse avuti di-ligenti raccoglitori degli antichi suoi monumenti. Orbenchè l'Italia sia stata in ciò più assai ch'ogn'altra pro-vincia felice pel gran numero di valentuomini che singo-larmente in questi ultimi tempi si son rivolti a ricercaree ad illustrare le antichità della lor patria, vi sono peròancora città e provincie che non hanno avuta tal sorte; enemmeno tutti i libri, che abbiam moltissimi su questo

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Difficoltà nel ben trattare questo ar-gomento.

argomento, ho io potuti vedere. E qual biblioteca vi èmai che possa vantarsi d'averli tutti? Io dunque verròsponendo ciò che di più memorabile mi è avvenuto di ri-trovare in questa materia; il che ho voluto avvertire per-chè non siavi per avventura chi pensi ch'io di tale, o dital altra città non abbia parlato, perchè l'abbia in contodi trascurata e negligente nel volgersi a coltivare lescienze.

II. E primieramente a tutta l'Italiarende Cicerone un'onorevole testimo-nianza, dicendo che negli anni suoigiovanili era essa con ardore rivoltaalla greca letteratura, e nel Lazio sin-

golarmente coltivavasi questa con grande impegno, ben-chè poscia il fervore si fosse rattepidito: Erat Italia tuncplena graecurum artium ac disciplinarum; studiaquehaec et in Latio vehementius colebantur quant nunc ii-sdem, in oppidis (pro Archia n. 3.). Ma in particolar ma-niera ei loda gli abitanti di Taranto, di Reggio in Cala-bria, e di Napoli, perchè ad Archia da essi conosciuto edonorato come eccellente poeta aveano per ciò solo con-ceduta la cittadinanza ed altri privilegi (ib.) Erano questiin fatti que' paesi medesimi anticamente compresi nellaMagna Grecia, ne' quali quanto felicemente fiorissero iserj non meno che gli ameni studj, abbiam dimostrato asuo luogo. Nè è perciò maraviglia che qualche vestigio

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Nella Magna Grecia,e singolarmente inNapoli si continua acoltivare gli studj.

argomento, ho io potuti vedere. E qual biblioteca vi èmai che possa vantarsi d'averli tutti? Io dunque verròsponendo ciò che di più memorabile mi è avvenuto di ri-trovare in questa materia; il che ho voluto avvertire per-chè non siavi per avventura chi pensi ch'io di tale, o dital altra città non abbia parlato, perchè l'abbia in contodi trascurata e negligente nel volgersi a coltivare lescienze.

II. E primieramente a tutta l'Italiarende Cicerone un'onorevole testimo-nianza, dicendo che negli anni suoigiovanili era essa con ardore rivoltaalla greca letteratura, e nel Lazio sin-

golarmente coltivavasi questa con grande impegno, ben-chè poscia il fervore si fosse rattepidito: Erat Italia tuncplena graecurum artium ac disciplinarum; studiaquehaec et in Latio vehementius colebantur quant nunc ii-sdem, in oppidis (pro Archia n. 3.). Ma in particolar ma-niera ei loda gli abitanti di Taranto, di Reggio in Cala-bria, e di Napoli, perchè ad Archia da essi conosciuto edonorato come eccellente poeta aveano per ciò solo con-ceduta la cittadinanza ed altri privilegi (ib.) Erano questiin fatti que' paesi medesimi anticamente compresi nellaMagna Grecia, ne' quali quanto felicemente fiorissero iserj non meno che gli ameni studj, abbiam dimostrato asuo luogo. Nè è perciò maraviglia che qualche vestigio

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Nella Magna Grecia,e singolarmente inNapoli si continua acoltivare gli studj.

ancora vi rimanesse dell'antico fervore nel coltivarli (10).E in ciò che appartiene a poesia singolarmente, abbiamonon pochi documenti a provare che essa era ancora ingran pregio presso quei popoli. Svetonio fa menzione diun combattimento in Napoli istituito in onor di Augustoche ogni cinque anni doveasi rinnovare (in Aug. c. 99.)Ei dice solo ch'era combattimento di ginnastica; ma daStrabone autore contemporaneo noi raccogliamo ch'eraancora di musica (Geogr. l. 5), e in conseguenza diazion teatrale. E veramente lo stesso Svetonio raccontache l'imp. Claudio rappresentar fece in Napoli una suagreca commedia che per sentenza de' giudici destinati adecidere intorno al valor de' gareggianti poeti fu riputatameritevole di corona (in Claud. c. 11). E questi appuntofurono que' poetici combattimenti ne' quali abbiamo al-trove veduto che il padre di Stazio e poscia il poeta Sta-zio medesimo furon più volte dichiarati gloriosamentevincitori (V. sup. l. 1, c. 1). E questa forse fu ancorl'occasione a cui Nerone salì in Napoli sul teatro a darvipruove più della sua stoltezza che della sua voce (Svet.

10 Già abbiamo altrove avvertito che quando la Magna Grecia e la Siciliavennero in poter de' Romani, la lingua latina cominciò prima ad esservipiù conosciuta, poi a contrastar colla greca, e finalmente giunse quasi avincerla e sbandirla da quelle provincie talchè Strabone dolevasi che a'suoi tempi Napoli, Taranto, e Reggio eran le sole città, che tuttor potesserodirsi greche. Gli onori che qui si accennano, renduti in quelle città ad Ar-chia, e la commedia greca fatta rappresentar da Claudio in Napoli ci mo-strano che continuava ivi ad essere in fiore la greca letteratura. E più altrepruove ne arreca il sig. d. Pietro Napoli Signorelli che recentemente ha as-sai bene illustrato questo argomento (Vicende della coltura nelle due Sici-lie, t. 2, p. 1, ec.)

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ancora vi rimanesse dell'antico fervore nel coltivarli (10).E in ciò che appartiene a poesia singolarmente, abbiamonon pochi documenti a provare che essa era ancora ingran pregio presso quei popoli. Svetonio fa menzione diun combattimento in Napoli istituito in onor di Augustoche ogni cinque anni doveasi rinnovare (in Aug. c. 99.)Ei dice solo ch'era combattimento di ginnastica; ma daStrabone autore contemporaneo noi raccogliamo ch'eraancora di musica (Geogr. l. 5), e in conseguenza diazion teatrale. E veramente lo stesso Svetonio raccontache l'imp. Claudio rappresentar fece in Napoli una suagreca commedia che per sentenza de' giudici destinati adecidere intorno al valor de' gareggianti poeti fu riputatameritevole di corona (in Claud. c. 11). E questi appuntofurono que' poetici combattimenti ne' quali abbiamo al-trove veduto che il padre di Stazio e poscia il poeta Sta-zio medesimo furon più volte dichiarati gloriosamentevincitori (V. sup. l. 1, c. 1). E questa forse fu ancorl'occasione a cui Nerone salì in Napoli sul teatro a darvipruove più della sua stoltezza che della sua voce (Svet.

10 Già abbiamo altrove avvertito che quando la Magna Grecia e la Siciliavennero in poter de' Romani, la lingua latina cominciò prima ad esservipiù conosciuta, poi a contrastar colla greca, e finalmente giunse quasi avincerla e sbandirla da quelle provincie talchè Strabone dolevasi che a'suoi tempi Napoli, Taranto, e Reggio eran le sole città, che tuttor potesserodirsi greche. Gli onori che qui si accennano, renduti in quelle città ad Ar-chia, e la commedia greca fatta rappresentar da Claudio in Napoli ci mo-strano che continuava ivi ad essere in fiore la greca letteratura. E più altrepruove ne arreca il sig. d. Pietro Napoli Signorelli che recentemente ha as-sai bene illustrato questo argomento (Vicende della coltura nelle due Sici-lie, t. 2, p. 1, ec.)

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in Ner. c. 20). Tali letterarie gare ci fan conoscere cheuomini amanti della amena letteratura erano i Napoleta-ni: il qual fervore si mantenne tra lor lungamente, per-ciocchè Filostrato ancora, che vivea a' tempi di SettimioSevero, dice (praef. ad l. 1 Icon.) che uomini colti essierano e nelle lettere greche assai esercitati (11).

III. Nè in Napoli solamente, ma in altre cit-tà ancora che ora appartengono al regno diquesto nome, noi ritroviamo non pochi indi-cj a provare il felice stato in che vi eran glistudj singolarmente poetici. Il teatro che

nelle rovine di Ercolano si è scoperto ci mostra che lesceniche rappresentazioni vi erano in uso; e perciò,come in Napoli ancora, esser dovevanvi probabilmentepoeti che le componessero. E inoltre i bei monumentiche ne sono stati disotterrati, come ci provano l'eccel-lenza di quegli abitanti nelle arti liberali, così possonoancora servire di conghiettura a conoscere il loro impe-gno nel coltivare gli studj che sogliono aver colle artiuna medesima sorte. È degna d'essere letta su questo ar-gomento una dissertazione di Giannersto Emanuele

11 A' monumenti qui da me accennati, i quali ci mostrano che in Napoli ne'tempi della repubblica e de' primi Cesari fiorirono felicemente gli studj, sene possono aggiunger più altri prodotti del sig. Giangiuseppe Origlia nelprimo libro della erudita sua Istoria dello studio di Napoli stampata in que-sta stessa città nel 1753, in cui viene di secolo in secolo dimostrando lacontinuata successione che ivi fu di scuole non meno che d'uomini dottifino alla fine del XIII secolo.

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Teatri in di-verse altre città di quelle pro-vincie.

in Ner. c. 20). Tali letterarie gare ci fan conoscere cheuomini amanti della amena letteratura erano i Napoleta-ni: il qual fervore si mantenne tra lor lungamente, per-ciocchè Filostrato ancora, che vivea a' tempi di SettimioSevero, dice (praef. ad l. 1 Icon.) che uomini colti essierano e nelle lettere greche assai esercitati (11).

III. Nè in Napoli solamente, ma in altre cit-tà ancora che ora appartengono al regno diquesto nome, noi ritroviamo non pochi indi-cj a provare il felice stato in che vi eran glistudj singolarmente poetici. Il teatro che

nelle rovine di Ercolano si è scoperto ci mostra che lesceniche rappresentazioni vi erano in uso; e perciò,come in Napoli ancora, esser dovevanvi probabilmentepoeti che le componessero. E inoltre i bei monumentiche ne sono stati disotterrati, come ci provano l'eccel-lenza di quegli abitanti nelle arti liberali, così possonoancora servire di conghiettura a conoscere il loro impe-gno nel coltivare gli studj che sogliono aver colle artiuna medesima sorte. È degna d'essere letta su questo ar-gomento una dissertazione di Giannersto Emanuele

11 A' monumenti qui da me accennati, i quali ci mostrano che in Napoli ne'tempi della repubblica e de' primi Cesari fiorirono felicemente gli studj, sene possono aggiunger più altri prodotti del sig. Giangiuseppe Origlia nelprimo libro della erudita sua Istoria dello studio di Napoli stampata in que-sta stessa città nel 1753, in cui viene di secolo in secolo dimostrando lacontinuata successione che ivi fu di scuole non meno che d'uomini dottifino alla fine del XIII secolo.

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Teatri in di-verse altre città di quelle pro-vincie.

Walchio sulle letterarie antichità di Ercolano stampata inJena l'an. 1751, nella quale però parmi che talvolta l'eru-dito autore più alle conghietture si appoggi che allepruove. Teatro parimenti eravi in Pozzuoli per testimo-nio di Gellio, il quale racconta (l. 18, c. 5) che eravi asuo tempo un cotale che radunato il popolo sul teatro so-leva ad alta voce leggere gli Annali di Ennio; il che nonavrebbe egli fatto, se gli abitanti non fossero stati vaghidi erudizione e di poesia. Ed è verisimile che somiglian-ti teatri fosser pure in molte altre città di queste provin-cie medesime. In Capova eravi certamente non sol tea-tro (Murat. N. Thes. Inscr. t. 1, p. 290), ma anfiteatro an-cora, di cui ha con somma erudizione trattato il cel. can.Mazzocchi. Ma degli anfiteatri non è mia intenzione diqui favellare; perchè non essendo essi destinati a lettera-rie rappresentazioni, ma solo a' giuochi ed agli spettaco-li, non ne possiam ricavare argomento alcuno a vantag-gio della italiana letteratura.

IV. Oltre i teatri de' quali abbiamo parlato,altri monumenti ancora possiam recare delfiorir che facevano in queste provincie glistudi d'ogni maniera. Racconta Gellio (c. 9,l. 4.) che tornando egli da Grecia in Italia, e

avendo posto piede a terra in Brindisi, si vide alla vendi-ta esposto un mucchio di libri greci ch'egli tosto compe-rò avidamente, i quali non si sarebbono ivi esposti, se icittadini non fossero stati tali che si potesse sperare di

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Altri indicj di coltura nelle mede-sime.

Walchio sulle letterarie antichità di Ercolano stampata inJena l'an. 1751, nella quale però parmi che talvolta l'eru-dito autore più alle conghietture si appoggi che allepruove. Teatro parimenti eravi in Pozzuoli per testimo-nio di Gellio, il quale racconta (l. 18, c. 5) che eravi asuo tempo un cotale che radunato il popolo sul teatro so-leva ad alta voce leggere gli Annali di Ennio; il che nonavrebbe egli fatto, se gli abitanti non fossero stati vaghidi erudizione e di poesia. Ed è verisimile che somiglian-ti teatri fosser pure in molte altre città di queste provin-cie medesime. In Capova eravi certamente non sol tea-tro (Murat. N. Thes. Inscr. t. 1, p. 290), ma anfiteatro an-cora, di cui ha con somma erudizione trattato il cel. can.Mazzocchi. Ma degli anfiteatri non è mia intenzione diqui favellare; perchè non essendo essi destinati a lettera-rie rappresentazioni, ma solo a' giuochi ed agli spettaco-li, non ne possiam ricavare argomento alcuno a vantag-gio della italiana letteratura.

IV. Oltre i teatri de' quali abbiamo parlato,altri monumenti ancora possiam recare delfiorir che facevano in queste provincie glistudi d'ogni maniera. Racconta Gellio (c. 9,l. 4.) che tornando egli da Grecia in Italia, e

avendo posto piede a terra in Brindisi, si vide alla vendi-ta esposto un mucchio di libri greci ch'egli tosto compe-rò avidamente, i quali non si sarebbono ivi esposti, se icittadini non fossero stati tali che si potesse sperare di

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Altri indicj di coltura nelle mede-sime.

farne vendita. Una biblioteca pure veggiamo in Suessain una iscrizione dell'anno della nostra era 139 presso ilGrutero (t. 2, p. 475). Veggansi ancora le antichità diBenevento dell'eruditiss. can. Gio. di Vita, in cui eglimostra (diss. 8, p. 219) esservi stati fin da' più antichitempi in questa città pubbliche scuole, e fervore nel col-tivare gli studj. E certo non solo i frequenti viaggi, ma ilvilleggiare che i Romani facevano in queste provincie,molto dovea concorrere a mantenervi quell'amor deglistudj e delle bell'arti, onde fin dai tempi più antichi era-no esse state famose. Fin a quanto durasser le cose in sìlieto stato, non si può accertare; ma egli è probabile chequelle medesime turbolenze che a poco a poco estinseroin Roma l'ardore con cui si coltivavan gli studi, produ-cesser nelle provincie ancora lo stesso funesto effetto.

V. Anche la Sicilia non avea cessato di amarquegli studj che anticamente sì celebrel'avean renduta. Non vi erano più nè gli Ste-sicori nè i Teocriti nè i Moschi, ma ciò, nonostante le poesia non doveva esserne stata

ancora cacciata in bando, poichè sappiamo che vi eranopiù teatri, come in Palermo, secondo che da un'anticaiscrizione raccoglie e pruova Agostino Inveges (Ann.Panormit. aera 3, §. 29), in Siracusa, il cui teatro ram-mentasi da Cicerone coll'aggiunto di massimo (l. 4 inVerr. n. 53), e in altre città di quell'isola, di che si possonvedere i recenti siciliani scrittori che le antichità della

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Nella Sici-lia ancora continuano a fiorire gli studj.

farne vendita. Una biblioteca pure veggiamo in Suessain una iscrizione dell'anno della nostra era 139 presso ilGrutero (t. 2, p. 475). Veggansi ancora le antichità diBenevento dell'eruditiss. can. Gio. di Vita, in cui eglimostra (diss. 8, p. 219) esservi stati fin da' più antichitempi in questa città pubbliche scuole, e fervore nel col-tivare gli studj. E certo non solo i frequenti viaggi, ma ilvilleggiare che i Romani facevano in queste provincie,molto dovea concorrere a mantenervi quell'amor deglistudj e delle bell'arti, onde fin dai tempi più antichi era-no esse state famose. Fin a quanto durasser le cose in sìlieto stato, non si può accertare; ma egli è probabile chequelle medesime turbolenze che a poco a poco estinseroin Roma l'ardore con cui si coltivavan gli studi, produ-cesser nelle provincie ancora lo stesso funesto effetto.

V. Anche la Sicilia non avea cessato di amarquegli studj che anticamente sì celebrel'avean renduta. Non vi erano più nè gli Ste-sicori nè i Teocriti nè i Moschi, ma ciò, nonostante le poesia non doveva esserne stata

ancora cacciata in bando, poichè sappiamo che vi eranopiù teatri, come in Palermo, secondo che da un'anticaiscrizione raccoglie e pruova Agostino Inveges (Ann.Panormit. aera 3, §. 29), in Siracusa, il cui teatro ram-mentasi da Cicerone coll'aggiunto di massimo (l. 4 inVerr. n. 53), e in altre città di quell'isola, di che si possonvedere i recenti siciliani scrittori che le antichità della

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Nella Sici-lia ancora continuano a fiorire gli studj.

lor patria hanno in questi ultimi anni ricercate e illustra-te con diligenza non meno che con erudizion singolare.Il lungo soggiorno che fece Porfirio, come abbiamo al-trove veduto, in Sicilia, ci fa congetturare che anche i fi-losofici studj vi fossero con ardor coltivati; perciocchèegli non avrebbe verisimilmente fissata la sua dimora trauomini che non curassero punto i suoi studi e le sue dot-trine.

VI. Io non uscirei facilmente da questo ar-gomento, se a pruova del fiorire che facevangli studi nelle altre città d'Italia volessi ram-mentar tutte quelle in cui troviamo esservistato teatro. Avea Padova il suo; e leggiamo

in Tacito (Ann. l. 16, c. 21) che il cel. Trasea Peto ch'eranatio di questa città, non isdegnò di salirvi, e di rappre-sentare un personaggio di tragedia. Aveva il suo ancorPesaro, come dimostra il celebre, e tanto benemeritodelle antichità italiane sig. Annibale degli Abati Olivieri(Not. ad marm. pisaur. p. 13). Un teatro presso il lago diBolsena vien rammentato in un'antica iscrizione pubbli-cata dal Muratori (Thes. Inscr. t. 1, p. 274); e general-mente nella Toscana doveano i teatri essere assai fre-quenti sì per l'amore de' teatrali spettacoli, che nei tempipiù antichi era stato proprio degli Etruschi, sì per la vici-nanza con Roma, il cui esempio avrà facilmente risve-gliato nelle confinanti provincie desiderio d'imitazione.In fatti attesta il Borghini (Discorsi t. 2, p. 183), che in

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Teatri in più altre città di Ita-lia.

lor patria hanno in questi ultimi anni ricercate e illustra-te con diligenza non meno che con erudizion singolare.Il lungo soggiorno che fece Porfirio, come abbiamo al-trove veduto, in Sicilia, ci fa congetturare che anche i fi-losofici studj vi fossero con ardor coltivati; perciocchèegli non avrebbe verisimilmente fissata la sua dimora trauomini che non curassero punto i suoi studi e le sue dot-trine.

VI. Io non uscirei facilmente da questo ar-gomento, se a pruova del fiorire che facevangli studi nelle altre città d'Italia volessi ram-mentar tutte quelle in cui troviamo esservistato teatro. Avea Padova il suo; e leggiamo

in Tacito (Ann. l. 16, c. 21) che il cel. Trasea Peto ch'eranatio di questa città, non isdegnò di salirvi, e di rappre-sentare un personaggio di tragedia. Aveva il suo ancorPesaro, come dimostra il celebre, e tanto benemeritodelle antichità italiane sig. Annibale degli Abati Olivieri(Not. ad marm. pisaur. p. 13). Un teatro presso il lago diBolsena vien rammentato in un'antica iscrizione pubbli-cata dal Muratori (Thes. Inscr. t. 1, p. 274); e general-mente nella Toscana doveano i teatri essere assai fre-quenti sì per l'amore de' teatrali spettacoli, che nei tempipiù antichi era stato proprio degli Etruschi, sì per la vici-nanza con Roma, il cui esempio avrà facilmente risve-gliato nelle confinanti provincie desiderio d'imitazione.In fatti attesta il Borghini (Discorsi t. 2, p. 183), che in

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Teatri in più altre città di Ita-lia.

quasi tutte le principali terre della Toscana si veggonorovinosi avanzi di antichi teatri. Lo stesso dicasi del La-zio, nelle cui città è probabile che molti fossero i teatri;perchè ivi ancora eran frequenti le villeggiature de' ca-valieri romani. Certamente eravi teatro in Anzio, comecon molti argomenti dimostra il p. Giuseppe Rocco Vol-pi della Comp. Di Gesù (Vet. Latium t. 3, p. 143), il qua-le inoltre opportunamente al nostro intento riflette che lapersuasione in cui erano i Romani e gli altri antichi Ido-latri, che i teatrali spettacoli molto contribuissero a pla-car lo sdegno degl'iddii dovette rendere assai frequenti iteatri. Io ben so che il vedere in una città il teatro nonbasta a conchiudere che vi sian valorosi poeti. Ciò cheabbiam sotto gli occhi ne' nostri tempi, ci può servire dinorma a ragionar su gli antichi. Ma nondimeno egli ècerto, e noi appunto il veggiamo colla sperienza, che inuna provincia in cui siano frequenti i teatri, benchè spes-so si rappresentino in essi tragedie e commedie di anti-chi, o stranieri autori, appena però è mai che non vi sia-no alcuni poeti che mossi dell'occasione e dalla speranzadi farsi nome si volgono a coltivare la poesia drammati-ca. Quindi il veder sì frequenti i teatri in Italia a' tempidi cui parliamo, può essere sufficiente argomento a infe-rirne l'amor e lo studio della teatral poesia negli abitanti.

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quasi tutte le principali terre della Toscana si veggonorovinosi avanzi di antichi teatri. Lo stesso dicasi del La-zio, nelle cui città è probabile che molti fossero i teatri;perchè ivi ancora eran frequenti le villeggiature de' ca-valieri romani. Certamente eravi teatro in Anzio, comecon molti argomenti dimostra il p. Giuseppe Rocco Vol-pi della Comp. Di Gesù (Vet. Latium t. 3, p. 143), il qua-le inoltre opportunamente al nostro intento riflette che lapersuasione in cui erano i Romani e gli altri antichi Ido-latri, che i teatrali spettacoli molto contribuissero a pla-car lo sdegno degl'iddii dovette rendere assai frequenti iteatri. Io ben so che il vedere in una città il teatro nonbasta a conchiudere che vi sian valorosi poeti. Ciò cheabbiam sotto gli occhi ne' nostri tempi, ci può servire dinorma a ragionar su gli antichi. Ma nondimeno egli ècerto, e noi appunto il veggiamo colla sperienza, che inuna provincia in cui siano frequenti i teatri, benchè spes-so si rappresentino in essi tragedie e commedie di anti-chi, o stranieri autori, appena però è mai che non vi sia-no alcuni poeti che mossi dell'occasione e dalla speranzadi farsi nome si volgono a coltivare la poesia drammati-ca. Quindi il veder sì frequenti i teatri in Italia a' tempidi cui parliamo, può essere sufficiente argomento a infe-rirne l'amor e lo studio della teatral poesia negli abitanti.

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VII. Di questo argomento medesimo potreivalermi a mostrare il lieto stato della lettera-tura anche in quelle altre città e provincieche ora sotto il nome di Lombardia vengoncomprese; perciocchè egli è verisimile che

in esse ancora fosser teatri; e per riguardo ad alcune po-tremmo ancora asserirlo con probabile fondamento,come in Brescia, dove Ottavio Rossi afferma esisterneancora i vestigi (Mem. Bresciane p. 32). Ma come neabbiam altre anche più certe pruove, di queste anzi pia-cemi a questo luogo dì usare. E innanzi a tutte le altrecittà vuolsi qui far menzione di Como, perciocchè unsuo cittadino, cioè Plinio il giov. ne ha renduto colla suabeneficenza celebre ed immortale il nome. Abbiamo giàaltrove accennato com'egli udì con dolore che nella suapatria non vi eran pubbliche scuole, e che i giovani eranperciò costretti ad andarsene a Milano. Ma troppo è bel-lo tutto quel passo di Plinio, perchè non debba esser quiriferito. "Essendo io stato di fresco in patria, scrive egliallo storico Tacito (l. 7, ep. 13), venne a trovarmi ungiovinetto figliuolo d'un mio concittadino, a cui io; studjtu, dissi? Sì certo. E dove? In Milano. Perchè non anziqui in patria? Allora il padre ch'era presente, e che ave-vami condotto il giovane, perchè qui, disse, non abbiammaestri. E perchè ciò? soggiunsi io. Voi che siete padri(e opportunamente n'avea molti ad udirmi) dovreste cer-to bramare che qui anzi che altrove studiassero i vostrifigli; perciocchè dove staranno essi più volentieri chenella lor patria? dove saranno allevati più onestamente

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Plinio in-troduce in Como le scuole pub-bliche.

VII. Di questo argomento medesimo potreivalermi a mostrare il lieto stato della lettera-tura anche in quelle altre città e provincieche ora sotto il nome di Lombardia vengoncomprese; perciocchè egli è verisimile che

in esse ancora fosser teatri; e per riguardo ad alcune po-tremmo ancora asserirlo con probabile fondamento,come in Brescia, dove Ottavio Rossi afferma esisterneancora i vestigi (Mem. Bresciane p. 32). Ma come neabbiam altre anche più certe pruove, di queste anzi pia-cemi a questo luogo dì usare. E innanzi a tutte le altrecittà vuolsi qui far menzione di Como, perciocchè unsuo cittadino, cioè Plinio il giov. ne ha renduto colla suabeneficenza celebre ed immortale il nome. Abbiamo giàaltrove accennato com'egli udì con dolore che nella suapatria non vi eran pubbliche scuole, e che i giovani eranperciò costretti ad andarsene a Milano. Ma troppo è bel-lo tutto quel passo di Plinio, perchè non debba esser quiriferito. "Essendo io stato di fresco in patria, scrive egliallo storico Tacito (l. 7, ep. 13), venne a trovarmi ungiovinetto figliuolo d'un mio concittadino, a cui io; studjtu, dissi? Sì certo. E dove? In Milano. Perchè non anziqui in patria? Allora il padre ch'era presente, e che ave-vami condotto il giovane, perchè qui, disse, non abbiammaestri. E perchè ciò? soggiunsi io. Voi che siete padri(e opportunamente n'avea molti ad udirmi) dovreste cer-to bramare che qui anzi che altrove studiassero i vostrifigli; perciocchè dove staranno essi più volentieri chenella lor patria? dove saranno allevati più onestamente

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Plinio in-troduce in Como le scuole pub-bliche.

che sotto gli occhi de' lor genitori? dove mantenuti conminor dispendio che nella propria casa? Che gran cosa èella dunque unire insieme il denaro, e chiamare pubbliciprofessori? E ciò che voi ora spendete nelle abitazioni,ne' viaggi, e nelle cose che si comprano ne' paesi stra-nieri (come tutte veramente si comprano), rivolgerlo aloro stipendio? Io stesso che non ho ancor figliuoli, sonpronto a dare per questa nostra repubblica, come se ellafosse mia figlia, o anzi mia madre, la terza parte di quel-la somma che a voi piacerà perciò di fissare. Tutta anco-ra io la prometterei, se non temessi che questo mio dononon servisse un giorno di pascolo all'altrui ambizione,come veggo accadere in molte città, ove a spese delpubblico si fan venire i maestri. Questo danno non sipuò prevenire altrimenti che col lasciare ai soli genitoriil diritto di scegliere i professori, e, obbligandoli a con-tribuirvi parte delle lor proprie sostanze, determinarli auna saggia elezione. Perciocchè coloro che non sareb-bon forse troppo solleciti de' beni altrui, saranno certosolleciti de' loro proprj; e faranno in modo che non sidoni se non a chi ne sia degno il mio denaro, se il lor de-naro ancor dovranno donargli. Raccoglietevi dunque eunitevi insieme in un medesimo sentimento e prendetecoraggio ed esempio da me che bramo che sia moltissi-mo ciò che a tal fine dovrò impiegare. Voi non potete farcosa nè più onesta pe' vostri figli nè alla patria vostrapiù grata. Color che qui nascono, qui ancora siano edu-cati; e fin da fanciulli prendano ad amar la lor patria ead abitarvi. E piaccia al cielo che sì valorosi siano i

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che sotto gli occhi de' lor genitori? dove mantenuti conminor dispendio che nella propria casa? Che gran cosa èella dunque unire insieme il denaro, e chiamare pubbliciprofessori? E ciò che voi ora spendete nelle abitazioni,ne' viaggi, e nelle cose che si comprano ne' paesi stra-nieri (come tutte veramente si comprano), rivolgerlo aloro stipendio? Io stesso che non ho ancor figliuoli, sonpronto a dare per questa nostra repubblica, come se ellafosse mia figlia, o anzi mia madre, la terza parte di quel-la somma che a voi piacerà perciò di fissare. Tutta anco-ra io la prometterei, se non temessi che questo mio dononon servisse un giorno di pascolo all'altrui ambizione,come veggo accadere in molte città, ove a spese delpubblico si fan venire i maestri. Questo danno non sipuò prevenire altrimenti che col lasciare ai soli genitoriil diritto di scegliere i professori, e, obbligandoli a con-tribuirvi parte delle lor proprie sostanze, determinarli auna saggia elezione. Perciocchè coloro che non sareb-bon forse troppo solleciti de' beni altrui, saranno certosolleciti de' loro proprj; e faranno in modo che non sidoni se non a chi ne sia degno il mio denaro, se il lor de-naro ancor dovranno donargli. Raccoglietevi dunque eunitevi insieme in un medesimo sentimento e prendetecoraggio ed esempio da me che bramo che sia moltissi-mo ciò che a tal fine dovrò impiegare. Voi non potete farcosa nè più onesta pe' vostri figli nè alla patria vostrapiù grata. Color che qui nascono, qui ancora siano edu-cati; e fin da fanciulli prendano ad amar la lor patria ead abitarvi. E piaccia al cielo che sì valorosi siano i

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maestri da voi trascelti, che le vicine città da voi appren-dan le scienze, e come ora i vostri figliuoli sen vanno tragli stranieri, così gli stranieri vengano in avvenire travoi. Tutto ciò ho io pensato di doverti svolgere, o Taci-to, e raccontare distesamente, perchè tu intenda quantomi sarà caro che ti adoperi in ciò ch'io ti chieggo. Or ioti chieggo, e per l'importanza dell'affare caldamente tiprego, che tra '1 numero degli eruditi i quali per ammi-rare il tuo ingegno vengono a visitarti, osservi diligente-mente chi sian coloro a cui possiamo ricorrere per que-sto impiego: a tal patto però ch'io dia parola ad alcuno.Tutto debb'essere in mano de' genitori. Essi giudichino;scelgano essi; io mi riserbo soltanto il pensiero di questoaffare e la spesa. Se alcun dunque si troverà che si fididel suo sapere ei vada a Como, a condizione però ch'einon porti seco altra sicurezza di essere trascelto a mae-stro se non la fiducia che ha nel suo proprio ingegno".Qual esito avesse questo generoso e prudente consigliodell'ottimo Plinio, noi nol sappiamo; ma egli era troppoamante della sua patria per credere che nol conducessead effetto. Forse a questo fine medesimo fu indirizzatauna liberal donazione che ad essa egli fece, come eglistesso racconta (l. 7, ep. 18). Avea egli promesso cin-quecentomila sesterzj ossia dodicimila cinquecento scu-di romani pel mantenimento di fanciulli e di fanciulleingenue, ma ridotte a povero stato. E perchè egli temevache, se data avesse la somma intera questa non venissedissipata e dispersa, ei donò al pubblico un suo poderedi assai maggior valore; e poscia il prese egli stesso a

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maestri da voi trascelti, che le vicine città da voi appren-dan le scienze, e come ora i vostri figliuoli sen vanno tragli stranieri, così gli stranieri vengano in avvenire travoi. Tutto ciò ho io pensato di doverti svolgere, o Taci-to, e raccontare distesamente, perchè tu intenda quantomi sarà caro che ti adoperi in ciò ch'io ti chieggo. Or ioti chieggo, e per l'importanza dell'affare caldamente tiprego, che tra '1 numero degli eruditi i quali per ammi-rare il tuo ingegno vengono a visitarti, osservi diligente-mente chi sian coloro a cui possiamo ricorrere per que-sto impiego: a tal patto però ch'io dia parola ad alcuno.Tutto debb'essere in mano de' genitori. Essi giudichino;scelgano essi; io mi riserbo soltanto il pensiero di questoaffare e la spesa. Se alcun dunque si troverà che si fididel suo sapere ei vada a Como, a condizione però ch'einon porti seco altra sicurezza di essere trascelto a mae-stro se non la fiducia che ha nel suo proprio ingegno".Qual esito avesse questo generoso e prudente consigliodell'ottimo Plinio, noi nol sappiamo; ma egli era troppoamante della sua patria per credere che nol conducessead effetto. Forse a questo fine medesimo fu indirizzatauna liberal donazione che ad essa egli fece, come eglistesso racconta (l. 7, ep. 18). Avea egli promesso cin-quecentomila sesterzj ossia dodicimila cinquecento scu-di romani pel mantenimento di fanciulli e di fanciulleingenue, ma ridotte a povero stato. E perchè egli temevache, se data avesse la somma intera questa non venissedissipata e dispersa, ei donò al pubblico un suo poderedi assai maggior valore; e poscia il prese egli stesso a

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pigione, obbligandosi a pagare ogni anno al pubblicostesso trentamila sesterzj ossia settecentocinquanta scu-di romani. Il qual denaro, come abbiamo accennato, es-sendo indirizzato al mantenimento di fanciulli e di fan-ciulle, era forse destinato insieme allo stipendio de' pub-blici professori. Così questo incomparabile cittadinoprovvedeva a' vantaggi della sua patria, e assicurava in-sieme, quanto era possibile, la durevolezza de' suoi me-desimi beneficj.

VIII. Nè qui si ristette l'amore e la benefi-cenza di Plinio verso la sua patria. Di unapubblica biblioteca ancora egli le fece dono,e perchè la solennità dell'aprimento di essaaccendesse maggior desiderio ne' suoi con-

cittadini di ben usarne, nel giorno in cui egli secondol'usato rito la dedicò, fece un'orazione in presenza deidecurioni ossia de' capi della repubblica, di cui egli par-la due volte nelle sue lettere (l. 1, ep. 8, l. 2, ep. 5) conquell'amabile compiacenza ch'è propria delle animegrandi nel far beneficj. L'esempio di Plinio fu quelloprobabilmente che determinò ancora altri Comaschi ausare di somigliante liberalità verso la loro patria. Eglirammenta un certo Caninio che una somma di denarodonata avea al pubblico, perchè giovasse a distribuire alpopolo vittovaglie (l. 7, ep. 18). A questi tempi forse an-cora appartiene un'iscrizione pubblicata dall'Apiani (In-scr. Sacr. Vetust. p. 78) come esistente nella chiesa di s.

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E vi apre una pubbli-ca bibliote-ca.

pigione, obbligandosi a pagare ogni anno al pubblicostesso trentamila sesterzj ossia settecentocinquanta scu-di romani. Il qual denaro, come abbiamo accennato, es-sendo indirizzato al mantenimento di fanciulli e di fan-ciulle, era forse destinato insieme allo stipendio de' pub-blici professori. Così questo incomparabile cittadinoprovvedeva a' vantaggi della sua patria, e assicurava in-sieme, quanto era possibile, la durevolezza de' suoi me-desimi beneficj.

VIII. Nè qui si ristette l'amore e la benefi-cenza di Plinio verso la sua patria. Di unapubblica biblioteca ancora egli le fece dono,e perchè la solennità dell'aprimento di essaaccendesse maggior desiderio ne' suoi con-

cittadini di ben usarne, nel giorno in cui egli secondol'usato rito la dedicò, fece un'orazione in presenza deidecurioni ossia de' capi della repubblica, di cui egli par-la due volte nelle sue lettere (l. 1, ep. 8, l. 2, ep. 5) conquell'amabile compiacenza ch'è propria delle animegrandi nel far beneficj. L'esempio di Plinio fu quelloprobabilmente che determinò ancora altri Comaschi ausare di somigliante liberalità verso la loro patria. Eglirammenta un certo Caninio che una somma di denarodonata avea al pubblico, perchè giovasse a distribuire alpopolo vittovaglie (l. 7, ep. 18). A questi tempi forse an-cora appartiene un'iscrizione pubblicata dall'Apiani (In-scr. Sacr. Vetust. p. 78) come esistente nella chiesa di s.

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E vi apre una pubbli-ca bibliote-ca.

Fedele della stessa città, e posta in onore di un certo Ati-lio gramatico che di tutto il suo avere avea fatto dono aquel pubblico. Ella è del seguente tenore:

P. ATILII P. FILII O. V. F. (leg. OVF.)

SEPTICIANIGRAMATICI LATINICVI ORDO COMENS

ORNAMENTADECVR. DECREVITQVI VNIVERSAMSVBSTANCIAM.

SVAM AD REMPVBLICAMPERTINERE VOLVIT

Io crederei di non andar lungi dal vero congetturandoche questo Atilio fosse appunto uno de' professori chia-mati a Como secondo il consiglio di Plinio. Certo nonpare che un gramatico latino potess'essere in Como in-nanzi a' tempi di Plinio; poichè abbiam veduto che nonvi erano scuole; e dall'altra parte il terso stile della iscri-zione ci fa credere ch'essa sia di età non molto lontanada quella di cui trattiamo, e che perciò questo splendidobenefattor de' Comaschi dall'esempio stesso di Pliniofosse eccitato a usare di una somigliante munificenza.Per tal maniera e per l'amore e per la liberalità di un suoconcittadino ebbe Como e scuole pubbliche e pubblicabiblioteca, e vide tra' suoi accesa una nobile gara nelgiovare alla comune lor patria.

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Fedele della stessa città, e posta in onore di un certo Ati-lio gramatico che di tutto il suo avere avea fatto dono aquel pubblico. Ella è del seguente tenore:

P. ATILII P. FILII O. V. F. (leg. OVF.)

SEPTICIANIGRAMATICI LATINICVI ORDO COMENS

ORNAMENTADECVR. DECREVITQVI VNIVERSAMSVBSTANCIAM.

SVAM AD REMPVBLICAMPERTINERE VOLVIT

Io crederei di non andar lungi dal vero congetturandoche questo Atilio fosse appunto uno de' professori chia-mati a Como secondo il consiglio di Plinio. Certo nonpare che un gramatico latino potess'essere in Como in-nanzi a' tempi di Plinio; poichè abbiam veduto che nonvi erano scuole; e dall'altra parte il terso stile della iscri-zione ci fa credere ch'essa sia di età non molto lontanada quella di cui trattiamo, e che perciò questo splendidobenefattor de' Comaschi dall'esempio stesso di Pliniofosse eccitato a usare di una somigliante munificenza.Per tal maniera e per l'amore e per la liberalità di un suoconcittadino ebbe Como e scuole pubbliche e pubblicabiblioteca, e vide tra' suoi accesa una nobile gara nelgiovare alla comune lor patria.

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IX. Gli scrittori milanesi ed altri stra-nieri ancora vogliono che una pubbli-ca biblioteca fosse pure in Milano o

aperta, o almen dotata dal medesimo Plinio. Il fonda-mento a cui si appoggiano, è una iscrizione che vedevasiin addietro nella basilica di s. Ambrogio scolpita in ungran sasso che copriva il sepolcro del re Lottario, mache ora più non si vede, e come narra il diligentissimoillustratore delle antichità milanesi de' bassi secoli co.Giorgio Giulini (Mem. della città e camp. di Mil. t. 2, p.233), fin dall'an. 1612 il card. Federigo Borromeo cercòinvano di ritrovarla. L'iscrizione, fu prima d'ogni altrocopiata sul sasso stesso da Tristano Calchi che la inserìnella sua Storia milanese da lui composta verso il prin-cipio del XVI sec., ma pubblicata solamente l'an. 1618,poscia il cel. Andrea Alciati la inserì egli nella breve suaStoria della sua patria scritta poco dopo quella del Cal-chi; ma essa pure stampata solo l'an. 1625: ma dove ilCalchi aveala sinceremente copiata, qual era, guasta da'moderni scalpelli, sicchè appena in più luoghi se ne rile-vava il senso, l'Alciati, come egli stesso confessa, a for-za di congetture la diede intera e finita (12). Da lui è pro-babile che l'avesse l'Appiani, il quale le diede luogo nel-la sua Raccolta d'Iscrizioni (p. 55), per tacere di altrimoderni autori che similmente l'han pubblicata, tra' qua-12 L'iscrizione di Plinio fu dal tempio di S. Ambrogio dopo la metà del sec.

XVI trasportata entro del monastero, così divisa, com'era, ma poscia pochianni dopo indi pure fu tolta, e tre pezzi, non si sa come, ne furon trasporta-ti a Tradate nella diocesi di Milano, e poscia si smarrirono totalmente (V.Cicercij Epist. t. 2, p. 109.).

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Se un'altra ei ne aprisse in Milano.

IX. Gli scrittori milanesi ed altri stra-nieri ancora vogliono che una pubbli-ca biblioteca fosse pure in Milano o

aperta, o almen dotata dal medesimo Plinio. Il fonda-mento a cui si appoggiano, è una iscrizione che vedevasiin addietro nella basilica di s. Ambrogio scolpita in ungran sasso che copriva il sepolcro del re Lottario, mache ora più non si vede, e come narra il diligentissimoillustratore delle antichità milanesi de' bassi secoli co.Giorgio Giulini (Mem. della città e camp. di Mil. t. 2, p.233), fin dall'an. 1612 il card. Federigo Borromeo cercòinvano di ritrovarla. L'iscrizione, fu prima d'ogni altrocopiata sul sasso stesso da Tristano Calchi che la inserìnella sua Storia milanese da lui composta verso il prin-cipio del XVI sec., ma pubblicata solamente l'an. 1618,poscia il cel. Andrea Alciati la inserì egli nella breve suaStoria della sua patria scritta poco dopo quella del Cal-chi; ma essa pure stampata solo l'an. 1625: ma dove ilCalchi aveala sinceremente copiata, qual era, guasta da'moderni scalpelli, sicchè appena in più luoghi se ne rile-vava il senso, l'Alciati, come egli stesso confessa, a for-za di congetture la diede intera e finita (12). Da lui è pro-babile che l'avesse l'Appiani, il quale le diede luogo nel-la sua Raccolta d'Iscrizioni (p. 55), per tacere di altrimoderni autori che similmente l'han pubblicata, tra' qua-12 L'iscrizione di Plinio fu dal tempio di S. Ambrogio dopo la metà del sec.

XVI trasportata entro del monastero, così divisa, com'era, ma poscia pochianni dopo indi pure fu tolta, e tre pezzi, non si sa come, ne furon trasporta-ti a Tradate nella diocesi di Milano, e poscia si smarrirono totalmente (V.Cicercij Epist. t. 2, p. 109.).

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Se un'altra ei ne aprisse in Milano.

li è stato il ch. Muratori (Thes. Inscr. t. 2, p. 732). Inessa dopo avere esposte tutte le dignità e gl'impieghi diPlinio, e dopo annoverati i doni e i legati da lui fatti alpopolo per testamento, si aggiugne ancora: In tutelamBiblioth. H. - S. C. cioè che a mantenere ed accrescere labiblioteca egli lasciò centomila sesterzj ossia duemila-cinquecento scudi romani. Or questa biblioteca, dice fragli altri scrittori milanesi l'eruditiss. dott. Giuseppant.Sassi (de studiis mediol. c. 2), che da Plinio fu per talmodo dotata, non può credersi che fosse altrove che inMilano. Le ragioni ch'egli ne arreca, sono l'essere statoPlinio proconsole e vicario di Traiano in Milano, l'esser-si in Milano trovata la lapida su cui scolpita è l'inscrizio-ne, che essendo di straordinaria grandezza non è proba-bile che sia stata trasportata d'altronde, il farsi in essamenzione ancora di terme per comando dello stesso Pli-nio fabbricate, delle quali non si ha documento che vene avesse in Como ne' tempi antichi, ma sì in Milanoper testimonianza d'Ausonio. In difesa di questa stessaopinione parla lungamente ancora l'Alciati, le cui parolesi posson vedere presso il medesimo Sassi. Io ancora inaltro tempo ho pensato così (Or. de Patriae Hist. p. 17);ma a dir vero, quantunque io desideri sinceramente disostenere, quanto più possa, le glorie di una città la cuimemoria per lungo soggiorno ch'io vi ho fatto e pel sa-pere e per la gentilezza de' suoi cittadini mi sarà semprevenerabile e cara, esaminando però attentamente ognicosa parmi che il sentimento di questi dotti scrittori sof-fra non lieve difficoltà. E in primo luogo, ciò che il Sas-

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li è stato il ch. Muratori (Thes. Inscr. t. 2, p. 732). Inessa dopo avere esposte tutte le dignità e gl'impieghi diPlinio, e dopo annoverati i doni e i legati da lui fatti alpopolo per testamento, si aggiugne ancora: In tutelamBiblioth. H. - S. C. cioè che a mantenere ed accrescere labiblioteca egli lasciò centomila sesterzj ossia duemila-cinquecento scudi romani. Or questa biblioteca, dice fragli altri scrittori milanesi l'eruditiss. dott. Giuseppant.Sassi (de studiis mediol. c. 2), che da Plinio fu per talmodo dotata, non può credersi che fosse altrove che inMilano. Le ragioni ch'egli ne arreca, sono l'essere statoPlinio proconsole e vicario di Traiano in Milano, l'esser-si in Milano trovata la lapida su cui scolpita è l'inscrizio-ne, che essendo di straordinaria grandezza non è proba-bile che sia stata trasportata d'altronde, il farsi in essamenzione ancora di terme per comando dello stesso Pli-nio fabbricate, delle quali non si ha documento che vene avesse in Como ne' tempi antichi, ma sì in Milanoper testimonianza d'Ausonio. In difesa di questa stessaopinione parla lungamente ancora l'Alciati, le cui parolesi posson vedere presso il medesimo Sassi. Io ancora inaltro tempo ho pensato così (Or. de Patriae Hist. p. 17);ma a dir vero, quantunque io desideri sinceramente disostenere, quanto più possa, le glorie di una città la cuimemoria per lungo soggiorno ch'io vi ho fatto e pel sa-pere e per la gentilezza de' suoi cittadini mi sarà semprevenerabile e cara, esaminando però attentamente ognicosa parmi che il sentimento di questi dotti scrittori sof-fra non lieve difficoltà. E in primo luogo, ciò che il Sas-

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si, citando ancora l'autorità del Calchi, asserisce, cioèche Plinio fu proconsole in Milano, non so con quai mo-numenti possa provarsi. Nè le sue Lettere nè gli altriscrittori antichi noti ce ne danno indicio alcuno; anzi laserie della sua vita ci mostra chiaramente il contrario, esi può provare con evidenza ch'ei non fu nella sua patriae molto meno in Milano, se non per tempo assai breve enella stessa iscrizione, ove pur tutti si accennanogl'impieghi da liti sostenuti, di questo non si fa motto.Per altra parte Plinio era uomo troppo amante della suapatria, perchè si possa credere ch'egli volesse così bene-ficare una vicina città, della quale anzi pare che il suospirito patriottico lo rendesse geloso; poichè abbiamoveduto che, perchè i Comaschi non fosser costretti adandarsene alle scuole in Milano, egli fondò in gran partecol suo denaro scuole pubbliche in Como. È egli dunqueprobabile che un uom tanto sollecito dell'onore della suapatria volesse a vantaggio di una straniera città usare diliberalità così grandi, quali sono le espresse nella men-tovata iscrizione? E non è anzi verisimile che dopo ave-re aperta in Como la pubblica biblioteca, il che da niunosi nega, egli assegnasse ancora per testamento un capita-le con cui mantenerla? Ma non sappiamo, dice il Sassi,che fossero terme in Como; eppure nell'iscrizione si diceche Plinio ordinò per testamento che si fabbricassero, elasciò copiosi legati per ornarle e mantenerle. A ciò iComaschi posson rispondere che il non sapersi che vifossero terme, non pruova che non vi fossero; poichènon è questa cosa di tanto pregio che il non aversene

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si, citando ancora l'autorità del Calchi, asserisce, cioèche Plinio fu proconsole in Milano, non so con quai mo-numenti possa provarsi. Nè le sue Lettere nè gli altriscrittori antichi noti ce ne danno indicio alcuno; anzi laserie della sua vita ci mostra chiaramente il contrario, esi può provare con evidenza ch'ei non fu nella sua patriae molto meno in Milano, se non per tempo assai breve enella stessa iscrizione, ove pur tutti si accennanogl'impieghi da liti sostenuti, di questo non si fa motto.Per altra parte Plinio era uomo troppo amante della suapatria, perchè si possa credere ch'egli volesse così bene-ficare una vicina città, della quale anzi pare che il suospirito patriottico lo rendesse geloso; poichè abbiamoveduto che, perchè i Comaschi non fosser costretti adandarsene alle scuole in Milano, egli fondò in gran partecol suo denaro scuole pubbliche in Como. È egli dunqueprobabile che un uom tanto sollecito dell'onore della suapatria volesse a vantaggio di una straniera città usare diliberalità così grandi, quali sono le espresse nella men-tovata iscrizione? E non è anzi verisimile che dopo ave-re aperta in Como la pubblica biblioteca, il che da niunosi nega, egli assegnasse ancora per testamento un capita-le con cui mantenerla? Ma non sappiamo, dice il Sassi,che fossero terme in Como; eppure nell'iscrizione si diceche Plinio ordinò per testamento che si fabbricassero, elasciò copiosi legati per ornarle e mantenerle. A ciò iComaschi posson rispondere che il non sapersi che vifossero terme, non pruova che non vi fossero; poichènon è questa cosa di tanto pregio che il non aversene

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monumento basti a conchiudere che non vi era. InnoltrePlinio comandò nel suo testamento che esse si facesse-ro, testamento fieri jussit; ma forse come spesso avvie-ne, il comando di Plinio, qualunque ragion ve ne avesse,non fu eseguito. La ragione presa dall'essersi in Milanotrovata la lapida e dal non esser probabile che vi fossetrasportata da Como, non parmi di gran peso. Quante al-tre lapide son passate per somigliante maniera da unluogo a un altro? Chi non sa che i celebri marmi aron-delliani dalla Grecia sono stati trasportati in Inghilterra?e tutte le antiche lapide che sono ora in Venezia, non vison elleno venute altronde? Nell'arrabbiata guerra che alprincipio del XII sec. si accese tra' Milanesi e i Coma-schi, in cui i primi furono vincitori, non poteron essi in-siem con altri ornamenti e con altre spoglie trasportaredalla vinta città a Milano la stessa lapida? molto piùch'ella era, come lo stesso Alciati afferma, infranta inpiù pezzi, effetto probabilmente del negligente trasportoda un luogo all'altro. Queste sono le ragioni che non mipermettono di seguire l'opinione de' sopraccitati scrittorimilanesi la quale però, quando io vegga da più autore-voli pruove che non sono le recate finora, nuovamenteconfermata, abbraccerò pur di buon animo, e rallegre-rommi di questo onorevole pregio accresciuto a una cit-tà che di tanti altri è già adorna e famosa (13). Così pari-13 Questa mia breve dissertazione in cui ho procurato di dimostrare che la bi-

blioteca di cui si parla nella iscrizione pliniana era in Como, non in Mila-no, ha data occasione al sig. co. Ottavio Boari ferrarese, morto non hamolto in età giovanile, di pubblicarne nel 1773 una assai più diffusa, in cuicon molto ardore combatte la mia opinione. E in alcune cose egli ha ri-

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monumento basti a conchiudere che non vi era. InnoltrePlinio comandò nel suo testamento che esse si facesse-ro, testamento fieri jussit; ma forse come spesso avvie-ne, il comando di Plinio, qualunque ragion ve ne avesse,non fu eseguito. La ragione presa dall'essersi in Milanotrovata la lapida e dal non esser probabile che vi fossetrasportata da Como, non parmi di gran peso. Quante al-tre lapide son passate per somigliante maniera da unluogo a un altro? Chi non sa che i celebri marmi aron-delliani dalla Grecia sono stati trasportati in Inghilterra?e tutte le antiche lapide che sono ora in Venezia, non vison elleno venute altronde? Nell'arrabbiata guerra che alprincipio del XII sec. si accese tra' Milanesi e i Coma-schi, in cui i primi furono vincitori, non poteron essi in-siem con altri ornamenti e con altre spoglie trasportaredalla vinta città a Milano la stessa lapida? molto piùch'ella era, come lo stesso Alciati afferma, infranta inpiù pezzi, effetto probabilmente del negligente trasportoda un luogo all'altro. Queste sono le ragioni che non mipermettono di seguire l'opinione de' sopraccitati scrittorimilanesi la quale però, quando io vegga da più autore-voli pruove che non sono le recate finora, nuovamenteconfermata, abbraccerò pur di buon animo, e rallegre-rommi di questo onorevole pregio accresciuto a una cit-tà che di tanti altri è già adorna e famosa (13). Così pari-13 Questa mia breve dissertazione in cui ho procurato di dimostrare che la bi-

blioteca di cui si parla nella iscrizione pliniana era in Como, non in Mila-no, ha data occasione al sig. co. Ottavio Boari ferrarese, morto non hamolto in età giovanile, di pubblicarne nel 1773 una assai più diffusa, in cuicon molto ardore combatte la mia opinione. E in alcune cose egli ha ri-

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menti io crederò facilmente, al dottiss. Sassi (let. c.), chefin dal sec. II fosse in Milano una regal copia di libri, eche una splendida biblioteca ecclesiastica fosse ivi purefin da' tempi antichi per opera de' primi vescovi, quandoegli mi arrechi l'autorità di qualche scrittore di que' tem-pi, o non troppo da essi lontano. Ma finchè egli non pro-duca altra prova che il detto del Ripamonti e del Galesi-ni, egli mi permetterà ch'io sospenda di prestar fede allaloro asserzione.

schiarato questo punto di storia più ch'io non avessi fatto. Egli ha avvertitoche non fu il primo l'Apiani a pubblicare questa iscrizione, ma che primadi lui era essa stata data alla luce in un'edizione delle Note di M. ValerioProbo fatta in Venezia nel 1525. Al che deesi aggiugnere che il prima a co-piarla non fu Tristano Calchi, ma Ciriaco d'Ancona, come altrove ho osser-vato (t. 6, par. 1). Egli ha diligentemente confrontate tra loro le diverse le-zioni che trovansi di questa iscrizione in diversi codici e in più libri stam-pati ne' quali ella è stata inserita. Egli ancora ha giustamente rilevata unamia inavvertenza nel creder probabile che quel sasso fosse da Como tra-sportato a Milano al principio del sec. XII, percìocchè esso serviva già achiuder l'arca in cui era sepolto Lotario re d'Italia morto l'an. 950. In questipunti io seguo di buon animo il parere del mio avversario. Ma nel puntoprincipale della questione, cioè se nella detta iscrizione si parli di una bi-blioteca aperta in Como, o veramente in Milano, io sono ancora nel mio, enon parmi che siano di alcun peso le ragioni in contrario addotte dal Co.Boari, e che non vaglia neppur la pena di disputarne più oltre. E quanto altrasporto del sasso da Como a Milano, se esso non seguì, come io aveacongetturato, al principio del sec. XII, potè avvenire in qualche altra qualche si fosse occasione, alla stessa maniera che tante altre antiche iscrizionisono state portate sovente o per caso, o avvertitamente da un luogoall'altro.

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menti io crederò facilmente, al dottiss. Sassi (let. c.), chefin dal sec. II fosse in Milano una regal copia di libri, eche una splendida biblioteca ecclesiastica fosse ivi purefin da' tempi antichi per opera de' primi vescovi, quandoegli mi arrechi l'autorità di qualche scrittore di que' tem-pi, o non troppo da essi lontano. Ma finchè egli non pro-duca altra prova che il detto del Ripamonti e del Galesi-ni, egli mi permetterà ch'io sospenda di prestar fede allaloro asserzione.

schiarato questo punto di storia più ch'io non avessi fatto. Egli ha avvertitoche non fu il primo l'Apiani a pubblicare questa iscrizione, ma che primadi lui era essa stata data alla luce in un'edizione delle Note di M. ValerioProbo fatta in Venezia nel 1525. Al che deesi aggiugnere che il prima a co-piarla non fu Tristano Calchi, ma Ciriaco d'Ancona, come altrove ho osser-vato (t. 6, par. 1). Egli ha diligentemente confrontate tra loro le diverse le-zioni che trovansi di questa iscrizione in diversi codici e in più libri stam-pati ne' quali ella è stata inserita. Egli ancora ha giustamente rilevata unamia inavvertenza nel creder probabile che quel sasso fosse da Como tra-sportato a Milano al principio del sec. XII, percìocchè esso serviva già achiuder l'arca in cui era sepolto Lotario re d'Italia morto l'an. 950. In questipunti io seguo di buon animo il parere del mio avversario. Ma nel puntoprincipale della questione, cioè se nella detta iscrizione si parli di una bi-blioteca aperta in Como, o veramente in Milano, io sono ancora nel mio, enon parmi che siano di alcun peso le ragioni in contrario addotte dal Co.Boari, e che non vaglia neppur la pena di disputarne più oltre. E quanto altrasporto del sasso da Como a Milano, se esso non seguì, come io aveacongetturato, al principio del sec. XII, potè avvenire in qualche altra qualche si fosse occasione, alla stessa maniera che tante altre antiche iscrizionisono state portate sovente o per caso, o avvertitamente da un luogoall'altro.

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X. In niun modo poi io penso che si possaattribuire a Milano un'altra iscrizione dacui, quando ciò fosse, il lietissimo statodella letteratura in questa città sì compro-verebbe ancora più chiaramente. Ella è sta-

ta pubblicata prima dall'Apiani (p. 29) e poscia dopo al-tri dal Muratori (Thes. Inscr. t. 2, p. 1067), ed è la se-guente:

IMP. CAESAR T. AELIVS HADRIANVSANTONINVS AVG. PIVS CONS. III.

TRIB. POT. II. P. P. AQVAEDVCTVM IN NOVIS ATHENIS

COEPTVM A DIVO HADRIANOPATRE SVO CONSVMMAVIT

DEDICAVITQVE

La qual iscrizione dall'Apiani si riferisce come esistentein Milano nella basilica di S. Ambrogio. Ora suppostoche questo acquedotto cominciato da Adriano e finito daAntonino Pio fosse in Milano, ne verrebbe per certissi-ma conseguenza che questa città venisse soprannomina-ta col titolo di nuova Atene, sicuro e onorevolissimo in-dizio del fiorir ivi degli studj d'ogni maniera, come giàfiorivano nell'antica Atene. E tale è veramente l'opinio-ne di molti e gravi scrittori, quai sono il Cellario, il Clu-verio, il Martiniere ed il Salmasio, le parole de' quali siarrecano dal soprallodato dott. Sassi, che di tutto il suoingegno e di tutta l'erudizion sua ha usato a difenderequesto nuovo pregio della sua patria (de stud. Mediol. c.

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Se Milano avesse il so-prannome di nuova Atene.

X. In niun modo poi io penso che si possaattribuire a Milano un'altra iscrizione dacui, quando ciò fosse, il lietissimo statodella letteratura in questa città sì compro-verebbe ancora più chiaramente. Ella è sta-

ta pubblicata prima dall'Apiani (p. 29) e poscia dopo al-tri dal Muratori (Thes. Inscr. t. 2, p. 1067), ed è la se-guente:

IMP. CAESAR T. AELIVS HADRIANVSANTONINVS AVG. PIVS CONS. III.

TRIB. POT. II. P. P. AQVAEDVCTVM IN NOVIS ATHENIS

COEPTVM A DIVO HADRIANOPATRE SVO CONSVMMAVIT

DEDICAVITQVE

La qual iscrizione dall'Apiani si riferisce come esistentein Milano nella basilica di S. Ambrogio. Ora suppostoche questo acquedotto cominciato da Adriano e finito daAntonino Pio fosse in Milano, ne verrebbe per certissi-ma conseguenza che questa città venisse soprannomina-ta col titolo di nuova Atene, sicuro e onorevolissimo in-dizio del fiorir ivi degli studj d'ogni maniera, come giàfiorivano nell'antica Atene. E tale è veramente l'opinio-ne di molti e gravi scrittori, quai sono il Cellario, il Clu-verio, il Martiniere ed il Salmasio, le parole de' quali siarrecano dal soprallodato dott. Sassi, che di tutto il suoingegno e di tutta l'erudizion sua ha usato a difenderequesto nuovo pregio della sua patria (de stud. Mediol. c.

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Se Milano avesse il so-prannome di nuova Atene.

3). E ad essi si può aggiungere ancora l'eruditiss. Mura-tori (loc. cit.). E tale pure è stato altre volte il mio senti-mento (Or. de Hist. Patr. p. 18). Ciò nonostante io soncostretto a confessare al presente di avere allora errato; ecredo che il confesserebbono meco tutti que' dottissimiuomini che furono in questa opinione. Tutte le ragionida essi addotte a provarla, cioè che questa iscrizione nonpuò appartenere alla città di Atene, perchè non è verisi-mile che in una città greca si ponesse un'iscrizione lati-na, e che questa poi da Atene fosse trasportata fino aMilano; e che non si sa che Adriano desse nome di nuo-va Atene alla città di questo nome; ch'egli fece in piùluoghi molti acquedotti, e che è probabil perciò che unone facesse in Milano: tutte queste, io dico, ed altre somi-glianti ragioni cadono a terra, perchè son combattute edistrutte dal fatto. La controversa iscrizione esiste anco-ra almeno in gran parte in Atene, o certo vi esisteva an-che in questi ultimi anni. Jacopo Spon che nel 1724 ciha data relazione de' suoi viaggi, parlando di Atene de-scrive e pone ancora sotto gli occhi la figura di un arcosostenuto da quattro colonne, di cui due sole or ne ri-mangono in piedi (Voyage d'Ital. de Dalmat. ec. t. 1, p.270). Nell'architrave di esse vedesi ancora scolpita lametà di questa iscrizione, poichè l'altra parte è cadutainsieme colle colonne che la sostenevano. Le parole chesi leggono, sono le seguenti ch'io porrò in caratteri gran-di, segnando in caratteri piccioli quelle che son perite.

IMP. CESAR T. ÆLIVS Adrianus Antoninus

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3). E ad essi si può aggiungere ancora l'eruditiss. Mura-tori (loc. cit.). E tale pure è stato altre volte il mio senti-mento (Or. de Hist. Patr. p. 18). Ciò nonostante io soncostretto a confessare al presente di avere allora errato; ecredo che il confesserebbono meco tutti que' dottissimiuomini che furono in questa opinione. Tutte le ragionida essi addotte a provarla, cioè che questa iscrizione nonpuò appartenere alla città di Atene, perchè non è verisi-mile che in una città greca si ponesse un'iscrizione lati-na, e che questa poi da Atene fosse trasportata fino aMilano; e che non si sa che Adriano desse nome di nuo-va Atene alla città di questo nome; ch'egli fece in piùluoghi molti acquedotti, e che è probabil perciò che unone facesse in Milano: tutte queste, io dico, ed altre somi-glianti ragioni cadono a terra, perchè son combattute edistrutte dal fatto. La controversa iscrizione esiste anco-ra almeno in gran parte in Atene, o certo vi esisteva an-che in questi ultimi anni. Jacopo Spon che nel 1724 ciha data relazione de' suoi viaggi, parlando di Atene de-scrive e pone ancora sotto gli occhi la figura di un arcosostenuto da quattro colonne, di cui due sole or ne ri-mangono in piedi (Voyage d'Ital. de Dalmat. ec. t. 1, p.270). Nell'architrave di esse vedesi ancora scolpita lametà di questa iscrizione, poichè l'altra parte è cadutainsieme colle colonne che la sostenevano. Le parole chesi leggono, sono le seguenti ch'io porrò in caratteri gran-di, segnando in caratteri piccioli quelle che son perite.

IMP. CESAR T. ÆLIVS Adrianus Antoninus

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AVG.PIVS.COS.III.TRIB.POT.II.ACQVÆDVCTVMIN NOVIS

Athenis coeptam a Divo Hadriano Patre suoCONSVMMAVIT Dedicavitque

Può egli nascere un menomo dubbio che l'iscrizionenon sia appunto quella medesima che si suppone esserein Milano? Questa medesima iscrizione è stata più re-centemente veduta dall'erudito viaggiatore inglese Ric-cardo Pococke, e l'ha riferita nella sua Raccolta d'Iscri-zioni da lui pubblicata in Londra l'an. 1752. (Inscr. anti-quae, ec. p. 55). Anzi lo Spon aggiugne ch'egli avea ve-duto in Zara un antico codice manoscritto in cuiquell'iscrizione medesima riportavasi intera, e dicevasiesistente in Atene. E veramente chi mai ha veduta inMilano una tal lapida? Egli è vero che Giov. Choler inuna lettera del primo di nov. 1533, premessa alla Rac-colta dell'Apiani, dice che le iscrizioni che in questa soncontenute, furono fedelmente copiate dall'originale. Maei non dice di averle vedute egli stesso, nè nomina altrida cui siano state esaminate. E chi v'ha che non sappiaquanto facilmente si commettano degli errori e non pic-cioli da coloro che raccogliendo da ogni parte iscrizioninotano frettolosamente il luogo ove esse conservansi?Aggiungasi che se questa iscrizione era in Milano versoil 1533, poteva dunque vedersi ancora dallo storico Tri-stano Calchi e da Andrea Alciati il quale singolarmentefu diligentissimo ricercatore delle antichità della sua pa-tria. Eppure ne l'un nè l'altro di questa lapida non fan

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AVG.PIVS.COS.III.TRIB.POT.II.ACQVÆDVCTVMIN NOVIS

Athenis coeptam a Divo Hadriano Patre suoCONSVMMAVIT Dedicavitque

Può egli nascere un menomo dubbio che l'iscrizionenon sia appunto quella medesima che si suppone esserein Milano? Questa medesima iscrizione è stata più re-centemente veduta dall'erudito viaggiatore inglese Ric-cardo Pococke, e l'ha riferita nella sua Raccolta d'Iscri-zioni da lui pubblicata in Londra l'an. 1752. (Inscr. anti-quae, ec. p. 55). Anzi lo Spon aggiugne ch'egli avea ve-duto in Zara un antico codice manoscritto in cuiquell'iscrizione medesima riportavasi intera, e dicevasiesistente in Atene. E veramente chi mai ha veduta inMilano una tal lapida? Egli è vero che Giov. Choler inuna lettera del primo di nov. 1533, premessa alla Rac-colta dell'Apiani, dice che le iscrizioni che in questa soncontenute, furono fedelmente copiate dall'originale. Maei non dice di averle vedute egli stesso, nè nomina altrida cui siano state esaminate. E chi v'ha che non sappiaquanto facilmente si commettano degli errori e non pic-cioli da coloro che raccogliendo da ogni parte iscrizioninotano frettolosamente il luogo ove esse conservansi?Aggiungasi che se questa iscrizione era in Milano versoil 1533, poteva dunque vedersi ancora dallo storico Tri-stano Calchi e da Andrea Alciati il quale singolarmentefu diligentissimo ricercatore delle antichità della sua pa-tria. Eppure ne l'un nè l'altro di questa lapida non fan

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motto; pruova evidente, a mio credere, ch'essa non v'era.Ella è dunque cosa troppo chiara e palese che questa la-pida non appartiene punto a Milano; e io son certo che ipiù eruditi ancora tra i Milanesi confesseranno che nonpossono all'autorità di essa appoggiarsi per alcun modo.

XI. Ed essi in fatti non abbisognano nè diquesta iscrizione, nè dell'altra soprammen-tovata di Plinio, per provare che fino dagliantichi tempi fiorivan tra essi gli studj. Giàne abbiamo accennate più pruove nel primo

volume. I gramatici, che da Roma si sparsero nelle altreprovincie d'Italia, e singolarmente nella Gallia cisalpina,e il soggiorno che in Milano fece per alcun tempo Virgi-lio, e il passo poc'anzi riferito di Plinio, ci fanno cono-scere che vi si coltivavano, e vi si insegnavan le lettere,e che vi accorrevano a tal fine anche le confinanti città.Aggiungasi che in Milano si trattavan le cause non altri-menti che in Roma. Ne abbiamo una sicura pruova inciò che Svetonio narra di Albuzio Silo retore, da noimentovato nel precedente volume, cioè che in Milanodifese con grand'ardore una causa innanzi al procons.Pisone; e che sì frequenti erano e sì romorose le accla-mazioni con cui era ascoltato, che convenne al littore farcenno al popolo perchè s'acchetasse (De clar. rethor. c.6). Or se vi si trattavan le cause all'usanza romana, comeda questo passo è palese, eranvi dunque e oratori e stu-dio dell'eloquenza e delle altre scienze che all'eloquenza

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Prova del fiore in cui erano ivi le scienze.

motto; pruova evidente, a mio credere, ch'essa non v'era.Ella è dunque cosa troppo chiara e palese che questa la-pida non appartiene punto a Milano; e io son certo che ipiù eruditi ancora tra i Milanesi confesseranno che nonpossono all'autorità di essa appoggiarsi per alcun modo.

XI. Ed essi in fatti non abbisognano nè diquesta iscrizione, nè dell'altra soprammen-tovata di Plinio, per provare che fino dagliantichi tempi fiorivan tra essi gli studj. Giàne abbiamo accennate più pruove nel primo

volume. I gramatici, che da Roma si sparsero nelle altreprovincie d'Italia, e singolarmente nella Gallia cisalpina,e il soggiorno che in Milano fece per alcun tempo Virgi-lio, e il passo poc'anzi riferito di Plinio, ci fanno cono-scere che vi si coltivavano, e vi si insegnavan le lettere,e che vi accorrevano a tal fine anche le confinanti città.Aggiungasi che in Milano si trattavan le cause non altri-menti che in Roma. Ne abbiamo una sicura pruova inciò che Svetonio narra di Albuzio Silo retore, da noimentovato nel precedente volume, cioè che in Milanodifese con grand'ardore una causa innanzi al procons.Pisone; e che sì frequenti erano e sì romorose le accla-mazioni con cui era ascoltato, che convenne al littore farcenno al popolo perchè s'acchetasse (De clar. rethor. c.6). Or se vi si trattavan le cause all'usanza romana, comeda questo passo è palese, eranvi dunque e oratori e stu-dio dell'eloquenza e delle altre scienze che all'eloquenza

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Prova del fiore in cui erano ivi le scienze.

son necessarie. Aveva finalmente Milano ancora il suoteatro, e ne rimane ancor la memoria nel nome di unachiesa posta ove esso era anticamente, e detta perciò dis. Vittore al teatro (V. Giulini t. 3, p. 48, ec.); e quindi sipuò probabilmente raccogliere che i poetici studj vi fos-sero in fiore. E perciò a ragione Ausonio tra le altre lodi,di cui onora questa città, quella ancora accenna del valo-roso ingegno de' cittadini: Facunda virorum ingenia (inClar. Urbib. epigr. 5).

XII. Le altre città ancora di Lombardia noneran prive, per quanto possiam raccogliere,di scuole e di studj. Il ret. Albuzio Siloquando da Novara sua patria sen venne aRoma, si diè subito a vedere uomo eloquen-

te, come altrove abbiam detto. Avea dunque egli fatti inpatria i suoi studj, e avea avuto agio di formarsi quel va-loroso declamatore che da Seneca ci vien descritto. InBergamo ancora abbiam già dimostrato che eravi proba-bilmente scuola, poichè ivi è una lapida in cui si fa men-zione di Pudente gramatico a' tempi d'Augusto; se puredir non vogliamo ch'essa vi sia stata trasportata d'altron-de, di che però non vi è motivo a sospettare. Scuole pa-rimenti esser doveano in Cremona, poichè la Cronacaeusebiana afferma che Virgilio vi attese agli studj, di chequesta città come di suo pregio non ordinario può glo-riarsi a ragione. Da una lapida torinese possiam racco-gliere che ivi era in fiore lo studio della medicina, e

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Scuole pub-bliche di al-tre città d'Italia.

son necessarie. Aveva finalmente Milano ancora il suoteatro, e ne rimane ancor la memoria nel nome di unachiesa posta ove esso era anticamente, e detta perciò dis. Vittore al teatro (V. Giulini t. 3, p. 48, ec.); e quindi sipuò probabilmente raccogliere che i poetici studj vi fos-sero in fiore. E perciò a ragione Ausonio tra le altre lodi,di cui onora questa città, quella ancora accenna del valo-roso ingegno de' cittadini: Facunda virorum ingenia (inClar. Urbib. epigr. 5).

XII. Le altre città ancora di Lombardia noneran prive, per quanto possiam raccogliere,di scuole e di studj. Il ret. Albuzio Siloquando da Novara sua patria sen venne aRoma, si diè subito a vedere uomo eloquen-

te, come altrove abbiam detto. Avea dunque egli fatti inpatria i suoi studj, e avea avuto agio di formarsi quel va-loroso declamatore che da Seneca ci vien descritto. InBergamo ancora abbiam già dimostrato che eravi proba-bilmente scuola, poichè ivi è una lapida in cui si fa men-zione di Pudente gramatico a' tempi d'Augusto; se puredir non vogliamo ch'essa vi sia stata trasportata d'altron-de, di che però non vi è motivo a sospettare. Scuole pa-rimenti esser doveano in Cremona, poichè la Cronacaeusebiana afferma che Virgilio vi attese agli studj, di chequesta città come di suo pregio non ordinario può glo-riarsi a ragione. Da una lapida torinese possiam racco-gliere che ivi era in fiore lo studio della medicina, e

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Scuole pub-bliche di al-tre città d'Italia.

quindi dell'altre scienze che ad essa son necessarie; poi-chè un certo C. Quinzio Abascanzio assegnò un tempioinnalzato in onor di Traiano a' medici torinesi (14), ac-ciocchè ivi si unissero insieme, probabilmente a colti-varvi la loro arte, e a disputare tra loro de' mezzi ondepromoverla (V. Marm. taurinens. t. 1, p. 217, ec.). Ed èsimilmente probabile che molte delle altre città d'Italiaancora avessero le loro scuole in cui istruir nelle lettere ifanciulli; benchè poscia comunemente avvenisse che chisperava di salir per esse a gran nome, abbandonata lapatria si recasse a Roma, dove tutto il fior dell'impero sivedeva come in ampio teatro raccolto insieme. Maquando Roma cessò in certo modo di esser la capitaledel mondo, non accorrendovi più in tanta folla i popolid'ogni nazione, le provincie d'Italia si vider piene, perquanto la condizion de' tempi lo permetteva, d'uominiche col loro sapere erano di ornamento e di vantaggioassai grande alle lor patrie, come nel decorso diquest'opera dovrem vedere.

CAPO II.Letteratura de' Cristiani de' primi tre secoli in Italia.

14 Questa iscrizione è stata riprodotta dal sig. Vincenzo Malacarne innanzi alprimo tomo delle erudite sue Memorie de' Medici e de' Chirurghi Piemon-tesi, insieme con più altre iscrizioni appartenenti o a medici, o a cose ap-partenenti a medicina. Ivi però si accenna qualche dubbio mosso dal p. let-tor Tommaso Verani agostiniano da me più volte lodato, che le prime paro-le Divo Trajano siano state aggiunte posteriormente, e nulla abbian chefare.

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quindi dell'altre scienze che ad essa son necessarie; poi-chè un certo C. Quinzio Abascanzio assegnò un tempioinnalzato in onor di Traiano a' medici torinesi (14), ac-ciocchè ivi si unissero insieme, probabilmente a colti-varvi la loro arte, e a disputare tra loro de' mezzi ondepromoverla (V. Marm. taurinens. t. 1, p. 217, ec.). Ed èsimilmente probabile che molte delle altre città d'Italiaancora avessero le loro scuole in cui istruir nelle lettere ifanciulli; benchè poscia comunemente avvenisse che chisperava di salir per esse a gran nome, abbandonata lapatria si recasse a Roma, dove tutto il fior dell'impero sivedeva come in ampio teatro raccolto insieme. Maquando Roma cessò in certo modo di esser la capitaledel mondo, non accorrendovi più in tanta folla i popolid'ogni nazione, le provincie d'Italia si vider piene, perquanto la condizion de' tempi lo permetteva, d'uominiche col loro sapere erano di ornamento e di vantaggioassai grande alle lor patrie, come nel decorso diquest'opera dovrem vedere.

CAPO II.Letteratura de' Cristiani de' primi tre secoli in Italia.

14 Questa iscrizione è stata riprodotta dal sig. Vincenzo Malacarne innanzi alprimo tomo delle erudite sue Memorie de' Medici e de' Chirurghi Piemon-tesi, insieme con più altre iscrizioni appartenenti o a medici, o a cose ap-partenenti a medicina. Ivi però si accenna qualche dubbio mosso dal p. let-tor Tommaso Verani agostiniano da me più volte lodato, che le prime paro-le Divo Trajano siano state aggiunte posteriormente, e nulla abbian chefare.

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I. Gli autori dell'Enciclopedia ci han dataessi i primi un'assai pregevol notizia, di cuieravamo stati finora al buio, cioè che i primiCristiani diedero alle fiamme tutti que' lorolibri che nulla potevan giovare alla religione(Encycl. t. 2, art. Bibliothéque). Essi ne re-cano in pruova gli Atti degli Apostoli. Ma

nel passo da loro allegato (c. 19, 19.) altro non leggesise non che multi ex eis qui fuerant curiosa sectati, con-tulerunt libros, et combusserunt coram omnibus. Dove,come è evidente che si ragiona di quelli che avevanocoltivate le superstiziose arti dell'astrologia e della ma-gia, così è ancora evidente che non si debbe intendereche di que' libri che a queste medesime arti apparteneva-no. Oltre che quando pur si volessero le riferite paroleintendere de' libri d'ogni maniera, ciò non raccontasi fi-nalmente che di quelli d'Efeso; nè si può provare chefosse questo o legge, o costume generalmente ricevutoda' Cristiani. Anzi noi veggiam che S. Paolo e nelle sueLettere, e parlando cogli Ateniesi si vale più volte diqualche passo de' greci poeti, come S. Girolamo recandoi passi medesimi chiaramente dimostra (ep. 70 edit. ve-ron.). Ma più chiaramente ancora raccogliesi la falsità diquesta opinione dal vedere che i cristiani scrittori de'primi secoli mostrano una perfettissima cognizione de'sentimenti e de' libri degli autori idolatri; e molte coseappartenenti all'antica filosofia invano cercheremmo al-trove che negli scritti di Clemente Alessandrino, di Ter-tulliano, di Origene, di Lattanzio, di Eusebio di Cesarea,

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Se a' primi Cristiani fosse per-messa la lettura de' libri profa-ni.

I. Gli autori dell'Enciclopedia ci han dataessi i primi un'assai pregevol notizia, di cuieravamo stati finora al buio, cioè che i primiCristiani diedero alle fiamme tutti que' lorolibri che nulla potevan giovare alla religione(Encycl. t. 2, art. Bibliothéque). Essi ne re-cano in pruova gli Atti degli Apostoli. Ma

nel passo da loro allegato (c. 19, 19.) altro non leggesise non che multi ex eis qui fuerant curiosa sectati, con-tulerunt libros, et combusserunt coram omnibus. Dove,come è evidente che si ragiona di quelli che avevanocoltivate le superstiziose arti dell'astrologia e della ma-gia, così è ancora evidente che non si debbe intendereche di que' libri che a queste medesime arti apparteneva-no. Oltre che quando pur si volessero le riferite paroleintendere de' libri d'ogni maniera, ciò non raccontasi fi-nalmente che di quelli d'Efeso; nè si può provare chefosse questo o legge, o costume generalmente ricevutoda' Cristiani. Anzi noi veggiam che S. Paolo e nelle sueLettere, e parlando cogli Ateniesi si vale più volte diqualche passo de' greci poeti, come S. Girolamo recandoi passi medesimi chiaramente dimostra (ep. 70 edit. ve-ron.). Ma più chiaramente ancora raccogliesi la falsità diquesta opinione dal vedere che i cristiani scrittori de'primi secoli mostrano una perfettissima cognizione de'sentimenti e de' libri degli autori idolatri; e molte coseappartenenti all'antica filosofia invano cercheremmo al-trove che negli scritti di Clemente Alessandrino, di Ter-tulliano, di Origene, di Lattanzio, di Eusebio di Cesarea,

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Se a' primi Cristiani fosse per-messa la lettura de' libri profa-ni.

e di altri autori cristiani che su' libri degl'Idolatri avevanfatto continuo e diligente studio per confutarli. Egli èben vero che abbiamo un canone di un antico concilio,in cui a' vescovi si divieta il leggere i libri degli scrittoriGentili (Conc. Cartagin. 4, c. 16); ma questo è un divie-to fatto a' vescovi solamente, de' quali la principale sol-lecitudine debb'esser rivolta a' vantaggi del loro gregge.Così, pure noi veggiam S. Girolamo lagnarsi amaramen-te, che alcuni sacerdoti, lasciati in disparte gli Evangelje i Profeti, leggevano commedie, cantavano eglogheamatorie, e tenevano nelle mani Virgilio (ep. 21. edit.veron.). Ma egli è evidente che solo un soverchio abusoei vuole riprendere a questo luogo; perciocchè egli stes-so nomina altrove molti autori profani de' quali soleavalersi. E se talvolta, egli dice, noi siam costretti a ri-cordarci dei secolareschi studj che abbiamo abbando-nati, non è già di nostro volere, ma direi quasi di solanecessità, affin di mostrare che le cose da' profeti pre-dette molti secoli addietro trovansi ancor ne' libri de'Greci e de' Latini e di altre nazioni (Prol. in Daniel.).Dal qual passo e da altri somiglianti che si potrebbon re-care, raccogliesi chiaramente che non vietavasi già a'Cristiani la lettura de' profani scrittori: ma si voleva cheella fosse fatta a fin di convincerne gli errori, e di stabi-lire e confermare la verità della religione cristiana. Veroè nondimeno che le frequenti persecuzioni da cui trava-gliati furono i Cristiani, dovettero frastornarli non pocoda qualunque sorta di studio. Ma noi vedremo ciò nonostante che uomini colti furono ancora tra essi e nelle

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e di altri autori cristiani che su' libri degl'Idolatri avevanfatto continuo e diligente studio per confutarli. Egli èben vero che abbiamo un canone di un antico concilio,in cui a' vescovi si divieta il leggere i libri degli scrittoriGentili (Conc. Cartagin. 4, c. 16); ma questo è un divie-to fatto a' vescovi solamente, de' quali la principale sol-lecitudine debb'esser rivolta a' vantaggi del loro gregge.Così, pure noi veggiam S. Girolamo lagnarsi amaramen-te, che alcuni sacerdoti, lasciati in disparte gli Evangelje i Profeti, leggevano commedie, cantavano eglogheamatorie, e tenevano nelle mani Virgilio (ep. 21. edit.veron.). Ma egli è evidente che solo un soverchio abusoei vuole riprendere a questo luogo; perciocchè egli stes-so nomina altrove molti autori profani de' quali soleavalersi. E se talvolta, egli dice, noi siam costretti a ri-cordarci dei secolareschi studj che abbiamo abbando-nati, non è già di nostro volere, ma direi quasi di solanecessità, affin di mostrare che le cose da' profeti pre-dette molti secoli addietro trovansi ancor ne' libri de'Greci e de' Latini e di altre nazioni (Prol. in Daniel.).Dal qual passo e da altri somiglianti che si potrebbon re-care, raccogliesi chiaramente che non vietavasi già a'Cristiani la lettura de' profani scrittori: ma si voleva cheella fosse fatta a fin di convincerne gli errori, e di stabi-lire e confermare la verità della religione cristiana. Veroè nondimeno che le frequenti persecuzioni da cui trava-gliati furono i Cristiani, dovettero frastornarli non pocoda qualunque sorta di studio. Ma noi vedremo ciò nonostante che uomini colti furono ancora tra essi e nelle

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scienze versati. Nel che assai più ampio argomento diragionare ci si offrirebbe, se dovessimo abbracciare an-cora la Grecia e l'Africa; ma noi non dobbiamo trattarese non di ciò che appartiene alla nostra Italia.

II. Prima però di entrare a favellar di quellitra' Cristiani, che furon celebri in Italia pellor sapere, egli è necessario esaminare at-tentamente quali studj e quai letterarj eserci-zj in particolare leciti fossero a' Cristiani de'primi secoli, perchè meglio ancor si conosca

ciò che sopra abbiamo accennato, che la religion crist.non recò danno alle lettere. E in primo luogo tanto eralungi ch'essa divietasse generalmente lo studio degli au-tori profani, che abbiamo perfin l'esempio di un Cristia-no de' primi secoli, che teneva pubblica scuola a' fan-ciulli. Egli è il martire S. Cassiano d'Imola, intorno a cuiabbiamo un Inno del poeta Prudenzio, nel quale ei narra(Peristephanon, hymn. 9) che, mentre in detta città oc-cupavasi nell'accennato esercizio, sollevatasi una perse-cuzione contro de' Cristiani, ei fu come tale accusato Praefuerat studiis puerilibus, et grege multo

Septus magister literarum sederat . . . . . . . . . . . . . .

Ecce fidem quatiens tempestas saeva premebatPlebem dicatum christianae gloriae.

Quindi siegue a descrivere come il magnanimo confes-

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Quali studj e quali let-terarj eser-cizj fosser loro per-messi.

scienze versati. Nel che assai più ampio argomento diragionare ci si offrirebbe, se dovessimo abbracciare an-cora la Grecia e l'Africa; ma noi non dobbiamo trattarese non di ciò che appartiene alla nostra Italia.

II. Prima però di entrare a favellar di quellitra' Cristiani, che furon celebri in Italia pellor sapere, egli è necessario esaminare at-tentamente quali studj e quai letterarj eserci-zj in particolare leciti fossero a' Cristiani de'primi secoli, perchè meglio ancor si conosca

ciò che sopra abbiamo accennato, che la religion crist.non recò danno alle lettere. E in primo luogo tanto eralungi ch'essa divietasse generalmente lo studio degli au-tori profani, che abbiamo perfin l'esempio di un Cristia-no de' primi secoli, che teneva pubblica scuola a' fan-ciulli. Egli è il martire S. Cassiano d'Imola, intorno a cuiabbiamo un Inno del poeta Prudenzio, nel quale ei narra(Peristephanon, hymn. 9) che, mentre in detta città oc-cupavasi nell'accennato esercizio, sollevatasi una perse-cuzione contro de' Cristiani, ei fu come tale accusato Praefuerat studiis puerilibus, et grege multo

Septus magister literarum sederat . . . . . . . . . . . . . .

Ecce fidem quatiens tempestas saeva premebatPlebem dicatum christianae gloriae.

Quindi siegue a descrivere come il magnanimo confes-

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Quali studj e quali let-terarj eser-cizj fosser loro per-messi.

sore di Cristo dannato a morte, fu abbandonato al pueri-le ma troppo crudele sdegno de' suoi scolari, ch'esserdovevano idolatri, e come questi co' medesimi stiletti diferro, di cui solevano usare scrivendo in iscuola, controdi lui avventandosi con lungo e stentato martirio lo stra-ziarono sino ad ucciderlo. Io ben so ch'ella è opinione dimolti che ciò accadesse solo a' tempi di Giuliano aposta-ta; il che se fosse, non potremmo ritrarne argomento al-cuno al nostro proposito, poichè nell'impero di Costanti-no e de' suoi figli, essendo la religion crist. divenuta ladominante, non è maraviglia che allora e poscia i Cri-stiani tenessero scuola. Ma i continuatori del Bollandocon ragioni a mio parere assai forti dimostrano (ActaSS. Aug. t. 3, p. 16, ec.) che questo fatto non potè acca-dere che nell'impero di Diocleziano al più tardi. E vera-mente, oltrechè non sappiamo che in Italia si sollevassepersecuzione alcuna contro de' Cristiani al tempo diGiuliano, il poeta Prudenzio parla del martirio di S. Cas-siano come di cosa antica assai; perciocchè ci dice chestandosi egli nella chiesa d'Imola a contemplar la pitturain cui esso era rappresentato, e non avendone contezzaalcuna, ne chiese al sagrestano, il qual gli rispose che viera dipinto un antico avvenimento ch'era registrato ne'libri, cioè il suddetto martirio: Historiam pictura refert, quae tradita libris

Veram vetusti tempori monstrat fidem. Or se il martirio di S. Cassiano avvenuto fosse ai tempidi Giuliano, potevasi egli chiamare antico? Prudenzio,

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sore di Cristo dannato a morte, fu abbandonato al pueri-le ma troppo crudele sdegno de' suoi scolari, ch'esserdovevano idolatri, e come questi co' medesimi stiletti diferro, di cui solevano usare scrivendo in iscuola, controdi lui avventandosi con lungo e stentato martirio lo stra-ziarono sino ad ucciderlo. Io ben so ch'ella è opinione dimolti che ciò accadesse solo a' tempi di Giuliano aposta-ta; il che se fosse, non potremmo ritrarne argomento al-cuno al nostro proposito, poichè nell'impero di Costanti-no e de' suoi figli, essendo la religion crist. divenuta ladominante, non è maraviglia che allora e poscia i Cri-stiani tenessero scuola. Ma i continuatori del Bollandocon ragioni a mio parere assai forti dimostrano (ActaSS. Aug. t. 3, p. 16, ec.) che questo fatto non potè acca-dere che nell'impero di Diocleziano al più tardi. E vera-mente, oltrechè non sappiamo che in Italia si sollevassepersecuzione alcuna contro de' Cristiani al tempo diGiuliano, il poeta Prudenzio parla del martirio di S. Cas-siano come di cosa antica assai; perciocchè ci dice chestandosi egli nella chiesa d'Imola a contemplar la pitturain cui esso era rappresentato, e non avendone contezzaalcuna, ne chiese al sagrestano, il qual gli rispose che viera dipinto un antico avvenimento ch'era registrato ne'libri, cioè il suddetto martirio: Historiam pictura refert, quae tradita libris

Veram vetusti tempori monstrat fidem. Or se il martirio di S. Cassiano avvenuto fosse ai tempidi Giuliano, potevasi egli chiamare antico? Prudenzio,

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come prova il p. Sirmondo (in not. ad Ennodii opusc. 5),nacque l'an. 348. Giuliano salì sul trono l'an. 361. Comedunque chiamare antico un avvenimento seguito mentreegli contava almeno 13. anni di età? Egli è dunque trop-po probabile, come abbiam detto, che il martirio di S.Cassiano si debba fissare al più tardi sotto l'impero diDiocleziano, e abbiamo perciò in esso l'esempio di unCristiano che anche sotto gl'imperadori idolatri tenevapubblica scuola, nè credeva con ciò di far cosa dalla suareligione vietata.

III. Ma a parlare sinceramente, sembra cheS. Cassiano altro non insegnasse a' fanciullifuorchè il semplice scrivere; nè in tuttol'Inno di Prudenzio io non trovo espressioneche accenni scuola di gramatica, o di rettori-

ca. Potrebbe dunque poco opportuno parer questo fatto aprovare che i Cristiani coltivassero ancora nei primi se-coli i profani studj; ma non ce ne mancano altri piùchiari esempj. Potrei qui fare menzione della filosoficascuola che tennero pubblicamente in Alessandria e Pan-teno e Ammonio e Clemente alessandrino e Origene,tutti vissuti a tempo degli imperadori idolatri; ma io nonvoglio far motto se non di ciò che appartiene all'Italia.Egli è vero che Panteno non solo dai Siciliani (V. Mon-git. Bibl. Sic.) ma da altri ancora (V. Acta SS. Jul. t. 2, p.460) dicesi siciliano di patria; ma, s'io debbo parlare sin-ceramente, il testo di Clemente alessandrino, a cui

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Professori cristiani nelle pub-bliche scuole.

come prova il p. Sirmondo (in not. ad Ennodii opusc. 5),nacque l'an. 348. Giuliano salì sul trono l'an. 361. Comedunque chiamare antico un avvenimento seguito mentreegli contava almeno 13. anni di età? Egli è dunque trop-po probabile, come abbiam detto, che il martirio di S.Cassiano si debba fissare al più tardi sotto l'impero diDiocleziano, e abbiamo perciò in esso l'esempio di unCristiano che anche sotto gl'imperadori idolatri tenevapubblica scuola, nè credeva con ciò di far cosa dalla suareligione vietata.

III. Ma a parlare sinceramente, sembra cheS. Cassiano altro non insegnasse a' fanciullifuorchè il semplice scrivere; nè in tuttol'Inno di Prudenzio io non trovo espressioneche accenni scuola di gramatica, o di rettori-

ca. Potrebbe dunque poco opportuno parer questo fatto aprovare che i Cristiani coltivassero ancora nei primi se-coli i profani studj; ma non ce ne mancano altri piùchiari esempj. Potrei qui fare menzione della filosoficascuola che tennero pubblicamente in Alessandria e Pan-teno e Ammonio e Clemente alessandrino e Origene,tutti vissuti a tempo degli imperadori idolatri; ma io nonvoglio far motto se non di ciò che appartiene all'Italia.Egli è vero che Panteno non solo dai Siciliani (V. Mon-git. Bibl. Sic.) ma da altri ancora (V. Acta SS. Jul. t. 2, p.460) dicesi siciliano di patria; ma, s'io debbo parlare sin-ceramente, il testo di Clemente alessandrino, a cui

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Professori cristiani nelle pub-bliche scuole.

quest'opinione s'appoggia, è così intralciato, che non sene può abbastanza accertare il senso e oltre ciò, ancor-chè di Panteno si dovessero veramente intendere quelleparole sicula apis, ciò non ostante, come sappiamo chele api siciliane erano singolarmente in pregio per la dol-cezza del loro mele (Plin. Hist. l. 11, c. 13, 14) potreb-besi dubitare che Clemente con un tal nome appellassePanteno non a indicarne la patria, ma a spiegarne l'eru-dizione, nella stessa maniera che noi d'un uomo furiosoe impotente diciamo che egli pare un leone africano. Ionon voglio dunque nè togliere un tal onore a' Siciliani,nè valermene come di cosa che appartenga certamenteall'Italia, e molto più che non sappiamo ch'egli in Italiaponesse il piede, vissuto prima in Alessandria, e di làpassato a recare il Vangelo all'India. L'esempio sol diLattanzio chiamato a Nicomedia per tenervi scuola direttorica basta a mostrarci che fin da' primi secoli nonera questo esercizio creduto non proprio d'uom cristia-no; e che perciò non dee credersi al Funcio (De vegetalat. ling. senect. c. 1, § 21) e ad alcuni altri scrittori, iquali affermano che tutti quelli i quali dall'idolatria pas-savano al cristianesimo, abbandonavano tosto i profanistudj della poesia e dell'eloquenza. Ma di Lattanzio do-vrem favellare tra poco, e allora insiem mostreremo perquali ragioni crediamo di poterlo probabilmente annove-rare tra' nostri scrittori.

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quest'opinione s'appoggia, è così intralciato, che non sene può abbastanza accertare il senso e oltre ciò, ancor-chè di Panteno si dovessero veramente intendere quelleparole sicula apis, ciò non ostante, come sappiamo chele api siciliane erano singolarmente in pregio per la dol-cezza del loro mele (Plin. Hist. l. 11, c. 13, 14) potreb-besi dubitare che Clemente con un tal nome appellassePanteno non a indicarne la patria, ma a spiegarne l'eru-dizione, nella stessa maniera che noi d'un uomo furiosoe impotente diciamo che egli pare un leone africano. Ionon voglio dunque nè togliere un tal onore a' Siciliani,nè valermene come di cosa che appartenga certamenteall'Italia, e molto più che non sappiamo ch'egli in Italiaponesse il piede, vissuto prima in Alessandria, e di làpassato a recare il Vangelo all'India. L'esempio sol diLattanzio chiamato a Nicomedia per tenervi scuola direttorica basta a mostrarci che fin da' primi secoli nonera questo esercizio creduto non proprio d'uom cristia-no; e che perciò non dee credersi al Funcio (De vegetalat. ling. senect. c. 1, § 21) e ad alcuni altri scrittori, iquali affermano che tutti quelli i quali dall'idolatria pas-savano al cristianesimo, abbandonavano tosto i profanistudj della poesia e dell'eloquenza. Ma di Lattanzio do-vrem favellare tra poco, e allora insiem mostreremo perquali ragioni crediamo di poterlo probabilmente annove-rare tra' nostri scrittori.

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IV. Veggiamo ancora tra' Cristiani de' primisecoli il cel. Minucio Felice trattar le causenel foro romano. È incerto a qual tempo eivivesse precisamente, perciocchè il Dod-

wello sostiene ch'egli fiorisse agli ultimi anni dell'imp.Antonino Pio (Diss. cyprian. 16), altri più comunementeil fan posteriore di molto; ma certamente egli è più anti-co di Lattanzio, il quale fa menzion di Minucio (Inst. l.1, c. 11; l. 5, c. 1); e perciò convien dire ch'egli vivesseal più tardi circa la metà del III. secolo. Credesi da moltich'ei fosse africano, ne noi abbiam ragione a negarlo;ma visse lungamente in Roma, e vi si esercitò nel tratta-re le cause, come abbiamo da S. Girolamo: MinutiusFelix Romae insigni caussidicus (De Vir. ill. c. 58.) Mavi sarà forse chi pensi, come ho dubitato io pure, ch'eglisolamente, mentre era ancor gentile, in ciò si occupasse,e che abbracciata la religion crist., abbandonasse l'anticasua professione. Egli stesso però chiaramente ci mostrach'egli anche cristiano proseguì a trattare le cause; per-ciocchè nell'esordio dei suo Dialogo intitolato Ottavioegli dice che era uscito di Roma godendo l'opportunaoccasion del riposo che gli davano dalle giudiciali fati-che le ferie autunnali; sane et ad vindemiam feriae ju-dictariam curam relaxaverunt (c. 2.). Continuò egli dun-que ancor cristiano a esercitarsi nel foro, nè pensò che lareligione da lui abbracciata gliel divietasse. E forse lostudio delle leggi e dell'eloquenza, a cui perciò dovetteimpiegar molto tempo, non gli permise di acquistarequella cognizione intera e profonda de' nostri misterj,

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Essi tratta-no ancora le cause.

IV. Veggiamo ancora tra' Cristiani de' primisecoli il cel. Minucio Felice trattar le causenel foro romano. È incerto a qual tempo eivivesse precisamente, perciocchè il Dod-

wello sostiene ch'egli fiorisse agli ultimi anni dell'imp.Antonino Pio (Diss. cyprian. 16), altri più comunementeil fan posteriore di molto; ma certamente egli è più anti-co di Lattanzio, il quale fa menzion di Minucio (Inst. l.1, c. 11; l. 5, c. 1); e perciò convien dire ch'egli vivesseal più tardi circa la metà del III. secolo. Credesi da moltich'ei fosse africano, ne noi abbiam ragione a negarlo;ma visse lungamente in Roma, e vi si esercitò nel tratta-re le cause, come abbiamo da S. Girolamo: MinutiusFelix Romae insigni caussidicus (De Vir. ill. c. 58.) Mavi sarà forse chi pensi, come ho dubitato io pure, ch'eglisolamente, mentre era ancor gentile, in ciò si occupasse,e che abbracciata la religion crist., abbandonasse l'anticasua professione. Egli stesso però chiaramente ci mostrach'egli anche cristiano proseguì a trattare le cause; per-ciocchè nell'esordio dei suo Dialogo intitolato Ottavioegli dice che era uscito di Roma godendo l'opportunaoccasion del riposo che gli davano dalle giudiciali fati-che le ferie autunnali; sane et ad vindemiam feriae ju-dictariam curam relaxaverunt (c. 2.). Continuò egli dun-que ancor cristiano a esercitarsi nel foro, nè pensò che lareligione da lui abbracciata gliel divietasse. E forse lostudio delle leggi e dell'eloquenza, a cui perciò dovetteimpiegar molto tempo, non gli permise di acquistarequella cognizione intera e profonda de' nostri misterj,

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Essi tratta-no ancora le cause.

che a trattar l'argomento del suddetto suo Dialogo sareb-be stata opportuna. Perciocchè, quanto egli è felice nelderidere i superstiziosi errori degl'Idolatri, altrettanto èsuperficiale e leggiero nel provare la verità della reli-gion cristiana; e quindi di lui disse Lattanzio (l. 5. c. 1)che questo Dialogo mostra quanto valoroso difenditoredi essa sarebbe stato Minucio, se tutto ad essa rivoltoavesse il suo studio. E certo, per ciò ch'è dello stile, essoè assai più colto di quello che comunemente soglia ve-dersi negli scrittori del III secolo.

V. Egli è probabile che altri ancora tra' Cri-stiani seguisser l'esempio di Minucio Felice,per quanto loro il permettevan le circostan-ze de' tempi. Questi furon per essi talvolta

così felici, che un Cristiano si vide perfino assiso tra' se-natori romani. Fu questo Apollonio, che con tal nome èonorato da S. Girolamo (De Vir. ill. c. 42), il quale di luiracconta che a' tempi di Commodo tradito da un suo ser-vo, ed accusato qual cristiano, ottenne di poter renderragione della sua fede, e che avendo intorno ad essacomposto un insigne libro, il lesse pubblicamente nellostesso senato, e che ciò non ostante fu condennato a per-der la vita sotto la scure. Lo stesso raccontasi da Euse-bio (Hist. eccl. l. 5, c. 21), il quale aggiugne che Apollo-nio era uomo e nelle lettere umane e nella filosofia eru-dito assai. Egli non gli dà veramente il titolo di senatore;ma non è a credere che S. Girolamo gli desse tal nome

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Altri studj da essi col-tivati.

che a trattar l'argomento del suddetto suo Dialogo sareb-be stata opportuna. Perciocchè, quanto egli è felice nelderidere i superstiziosi errori degl'Idolatri, altrettanto èsuperficiale e leggiero nel provare la verità della reli-gion cristiana; e quindi di lui disse Lattanzio (l. 5. c. 1)che questo Dialogo mostra quanto valoroso difenditoredi essa sarebbe stato Minucio, se tutto ad essa rivoltoavesse il suo studio. E certo, per ciò ch'è dello stile, essoè assai più colto di quello che comunemente soglia ve-dersi negli scrittori del III secolo.

V. Egli è probabile che altri ancora tra' Cri-stiani seguisser l'esempio di Minucio Felice,per quanto loro il permettevan le circostan-ze de' tempi. Questi furon per essi talvolta

così felici, che un Cristiano si vide perfino assiso tra' se-natori romani. Fu questo Apollonio, che con tal nome èonorato da S. Girolamo (De Vir. ill. c. 42), il quale di luiracconta che a' tempi di Commodo tradito da un suo ser-vo, ed accusato qual cristiano, ottenne di poter renderragione della sua fede, e che avendo intorno ad essacomposto un insigne libro, il lesse pubblicamente nellostesso senato, e che ciò non ostante fu condennato a per-der la vita sotto la scure. Lo stesso raccontasi da Euse-bio (Hist. eccl. l. 5, c. 21), il quale aggiugne che Apollo-nio era uomo e nelle lettere umane e nella filosofia eru-dito assai. Egli non gli dà veramente il titolo di senatore;ma non è a credere che S. Girolamo gli desse tal nome

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Altri studj da essi col-tivati.

senza averne almeno un probabile fondamento. La me-dicina per ultimo fu, anch'essa da' Cristiani de' primi se-coli esercitata, e oltre l'esempio dell'evangelista S. Luca,il dottiss. p. Mamachi dell'Ord. De' predic. reca alcuneantiche lapide (Origin. et antiq. christ. t. 3, p. 16, ec.),nelle quali alcuni medici cristiani si veggono nominati.Sul qual proposito è degnissima d'esser letta l'eruditadissertazione di questo cel. autore intorno alle arti concui gli antichi Cristiani sostentavan la vita. Ma io nondebbo parlare se non di ciò che alla letteratura appartie-ne, e parmi di aver già mostrato abbastanza che la reli-gion crist., anche quando i seguaci ne erano più rigorosiosservatori, non fu nemica degli studj di qualunque ma-niera nè vietò il coltivarli, trattine quelli che più a super-stizione appartenevano che non a scienza.

VI. Non è dunque a stupire che anche ne'primi secoli vi fossero tra' Cristiani uominidotti non sol nelle sacre, ma ancora nelleprofane scienze. Io verrò annoverando alcu-

ni di quelli che furono di nazione italiani. Di essi peròparlerò brevemente; perciocchè tutto ciò che appartieneagli scrittori ecclesiastici, è stato già rischiarato per talmaniera da molti valentuomini, e singolarmente dalCave tra i Protestanti, e dal Ceillier tra i Cattolici, cheappena rimane che aggiugnere alle erudite loro ricerche.Tra questi io non parlerò de' romani pontefici, benchèitaliani di patria, de' quali qualche lettera sol ci sia rima-

207

Uomini dotti tra' Cristiani.

senza averne almeno un probabile fondamento. La me-dicina per ultimo fu, anch'essa da' Cristiani de' primi se-coli esercitata, e oltre l'esempio dell'evangelista S. Luca,il dottiss. p. Mamachi dell'Ord. De' predic. reca alcuneantiche lapide (Origin. et antiq. christ. t. 3, p. 16, ec.),nelle quali alcuni medici cristiani si veggono nominati.Sul qual proposito è degnissima d'esser letta l'eruditadissertazione di questo cel. autore intorno alle arti concui gli antichi Cristiani sostentavan la vita. Ma io nondebbo parlare se non di ciò che alla letteratura appartie-ne, e parmi di aver già mostrato abbastanza che la reli-gion crist., anche quando i seguaci ne erano più rigorosiosservatori, non fu nemica degli studj di qualunque ma-niera nè vietò il coltivarli, trattine quelli che più a super-stizione appartenevano che non a scienza.

VI. Non è dunque a stupire che anche ne'primi secoli vi fossero tra' Cristiani uominidotti non sol nelle sacre, ma ancora nelleprofane scienze. Io verrò annoverando alcu-

ni di quelli che furono di nazione italiani. Di essi peròparlerò brevemente; perciocchè tutto ciò che appartieneagli scrittori ecclesiastici, è stato già rischiarato per talmaniera da molti valentuomini, e singolarmente dalCave tra i Protestanti, e dal Ceillier tra i Cattolici, cheappena rimane che aggiugnere alle erudite loro ricerche.Tra questi io non parlerò de' romani pontefici, benchèitaliani di patria, de' quali qualche lettera sol ci sia rima-

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Uomini dotti tra' Cristiani.

sta, come di S. Clemente romano, di cui abbiamo unaLettera a' Corinti, e parte ancora di una seconda letteraa' medesimi, la qual ultima però da molti gli si credesupposta. Egli dovrebbe bensì aver luogo in quest'Ope-ra, se fosse autore de' Canoni e delle Costituzioni Apo-stoliche, e delle Ricognizioni ossia degli Atti e dellaStoria del principe degli Apostoli. Ma non vi ha alcuntra' moderni, che non sappia ch'esse falsamente segli at-tribuiscono (V. Ceillier t. 2, p. 573, t. 3, p. 282). Lo stes-so dicasi di S. Cornelio e di S. Stefano, del primo de'quali abbiamo ancor qualche lettera, del secondo soloqualche frammento (Ceillier t. 1, p. 598). Cosi ancor iopasserò sotto silenzio que' molti che nati in paese stra-niero vennero e dimorarono per alcun tempo in Roma,come S. Policarpo, S. Giustino, S. Ippolito ed altri; edalcuni capi delle antiche eresie, quali furono Valentino,Marcione, Taziano ed altri quasi tutti stranieri che ven-nero a Roma a spargervi i loro errori. Io non seguiròdunque l'esempio degli scrittori della Storia letteraria diFrancia, a' quali basta che uno vi abbia, per così dire,posto una volta il piede, perchè il contin tra' loro; ma ri-stringerommi a que' soli che furono veramente italiani, eche co' loro scritti alle scienze o sacre, o profane recaro-no ornamento.

VII. Ma a dir vero assai poco è quello chene possiam rammentare. Il pontef. S. Soterenativo di Fondi in Terra di Lavoro, e solle-

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Tra essi sono alcuniromani pontefici.

sta, come di S. Clemente romano, di cui abbiamo unaLettera a' Corinti, e parte ancora di una seconda letteraa' medesimi, la qual ultima però da molti gli si credesupposta. Egli dovrebbe bensì aver luogo in quest'Ope-ra, se fosse autore de' Canoni e delle Costituzioni Apo-stoliche, e delle Ricognizioni ossia degli Atti e dellaStoria del principe degli Apostoli. Ma non vi ha alcuntra' moderni, che non sappia ch'esse falsamente segli at-tribuiscono (V. Ceillier t. 2, p. 573, t. 3, p. 282). Lo stes-so dicasi di S. Cornelio e di S. Stefano, del primo de'quali abbiamo ancor qualche lettera, del secondo soloqualche frammento (Ceillier t. 1, p. 598). Cosi ancor iopasserò sotto silenzio que' molti che nati in paese stra-niero vennero e dimorarono per alcun tempo in Roma,come S. Policarpo, S. Giustino, S. Ippolito ed altri; edalcuni capi delle antiche eresie, quali furono Valentino,Marcione, Taziano ed altri quasi tutti stranieri che ven-nero a Roma a spargervi i loro errori. Io non seguiròdunque l'esempio degli scrittori della Storia letteraria diFrancia, a' quali basta che uno vi abbia, per così dire,posto una volta il piede, perchè il contin tra' loro; ma ri-stringerommi a que' soli che furono veramente italiani, eche co' loro scritti alle scienze o sacre, o profane recaro-no ornamento.

VII. Ma a dir vero assai poco è quello chene possiam rammentare. Il pontef. S. Soterenativo di Fondi in Terra di Lavoro, e solle-

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Tra essi sono alcuniromani pontefici.

vato alla sede apostolica l'an. 168, avea scritto un librocontro l'eresia de' Catafrigi, di cui era autore Montano,come afferma l'antico autore che col nome di Predesti-nato è stato pubblicato dal p. Sirmondo (n. 26), al quallibro avea risposto Tertulliano lasciatosi miseramenteavvolgere nell'errore di questa eresia (ib. n. 86); ma nul-la ce n'è rimasto. Il p. Ceillier nondimeno fondato sullacronologia e sul silenzio di S. Girolamo e di Eusebiocrede, e parmi a ragione, che non debbasi in ciò dar fedea questo benchè antico scrittore (t. 2, p. 90). Un altropontefice più antico ancor di Sotere, cioè S. Lino, do-vrebbe qui aver luogo, se potessimo fidarci all'autoritàdi Sigeberto autore del XII. sec., che afferma (DeScript. eccles.) aver esso scritto due libri del martirio de'ss. apostoli Pietro e Paolo. Que' che ora abbiamo sottotal nome, non vi ha alcuno che non gli creda supposti. Equesti sono probabilmente che han tratto Sigeberto inerrore. Ma io ho voluto far menzione di questo ponteficeper chiedere agli eruditi Enciclopedisti per qual ragioneabbian di lui parlato con sì grande disprezzo, com'essihan fatto. S. Lino, dicono (art. Volterre), che ci si dà perimmediato successor di s. Pietro alla sede romana, eranatio di questa città (Volterra); ma la sua vita è intera-mente sconosciuta, e verisimilmente ella era assai oscu-ra, essendo egli senza autorità, senza chiesa, e senzacredito. Questa verisomiglianza in che è ella fondata?Un pontefice romano era egli senza autorità e senzachiesa? E che fosse ancor senza credito, come il prova-no essi? Ma torniamo agli scrittori ecclesiastici italiani.

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vato alla sede apostolica l'an. 168, avea scritto un librocontro l'eresia de' Catafrigi, di cui era autore Montano,come afferma l'antico autore che col nome di Predesti-nato è stato pubblicato dal p. Sirmondo (n. 26), al quallibro avea risposto Tertulliano lasciatosi miseramenteavvolgere nell'errore di questa eresia (ib. n. 86); ma nul-la ce n'è rimasto. Il p. Ceillier nondimeno fondato sullacronologia e sul silenzio di S. Girolamo e di Eusebiocrede, e parmi a ragione, che non debbasi in ciò dar fedea questo benchè antico scrittore (t. 2, p. 90). Un altropontefice più antico ancor di Sotere, cioè S. Lino, do-vrebbe qui aver luogo, se potessimo fidarci all'autoritàdi Sigeberto autore del XII. sec., che afferma (DeScript. eccles.) aver esso scritto due libri del martirio de'ss. apostoli Pietro e Paolo. Que' che ora abbiamo sottotal nome, non vi ha alcuno che non gli creda supposti. Equesti sono probabilmente che han tratto Sigeberto inerrore. Ma io ho voluto far menzione di questo ponteficeper chiedere agli eruditi Enciclopedisti per qual ragioneabbian di lui parlato con sì grande disprezzo, com'essihan fatto. S. Lino, dicono (art. Volterre), che ci si dà perimmediato successor di s. Pietro alla sede romana, eranatio di questa città (Volterra); ma la sua vita è intera-mente sconosciuta, e verisimilmente ella era assai oscu-ra, essendo egli senza autorità, senza chiesa, e senzacredito. Questa verisomiglianza in che è ella fondata?Un pontefice romano era egli senza autorità e senzachiesa? E che fosse ancor senza credito, come il prova-no essi? Ma torniamo agli scrittori ecclesiastici italiani.

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VIII. Caio prete della Chiesa romana, e pro-babilmente romano di nascita, fiorì sul prin-cipio del III. sec., e fu poscia ordinato Ve-scovo delle Genti, come afferma Fozio(Bibl. n. 48), ossia, come sembra doversispiegare, mandato a predicar la fede a' Gen-

tili che vivevan tra i Barbari. Alcuni libri egli scrisse aconfutazione singolarmente dell'eresia de Montanisti,coi quali ebbe una conferenza; e qualche frammento diquesto autore ci è stato conservato da Eusebio (Hist.eccl. l. 2, c. 23; l. 2, c. 28; l. 6, c. 20, ec.). I due illustra-tori della Storia letteraria di Aquileia monsig. Fontaninie il sig. Giangius. Liruti parlano lungamente di S. Erme-te che dicesi fratello del pontef. S. Pio I, e da cui si cre-de composto un trattato sulla celebrazion della Pasqua(Fontanini Hist. litter. aquil. p. 63; Liruti Scritt. delFriuli t. 1, p. 15). Il p. Cillier pare che non si fidi abba-stanza delle autorità che a provarlo, da essi si adducono(t. 1, p. 588), nè io credo di dovermi trattener nell'esamedi una questione intorno a cui nulla potrei aggiugnere a'mentovati scrittori. Ma uomo singolarmente dotto fuNovaziano, di cui due opere ancor ci rimangono, una su'cibi giudaici, l'altra sulla Trinità, oltre alcune altre cheson perite. Egli però fece uso troppo reo del suo stessotalento valendosene ad eccitare nella Chiesa romana unoscisma ch'ebbe funestissime conseguenze (V. Ceillier t.3, p. 290). Questi sono i soli scrittori sacri de' quali pos-siam gloriarci, oltre Lattanzio di cui orora ragioneremo,mentre frattanto i Greci ebbero un Clemente alessandri-

210

Altri scrit-tori sacri: perchè sia scarso il loro nume-ro.

VIII. Caio prete della Chiesa romana, e pro-babilmente romano di nascita, fiorì sul prin-cipio del III. sec., e fu poscia ordinato Ve-scovo delle Genti, come afferma Fozio(Bibl. n. 48), ossia, come sembra doversispiegare, mandato a predicar la fede a' Gen-

tili che vivevan tra i Barbari. Alcuni libri egli scrisse aconfutazione singolarmente dell'eresia de Montanisti,coi quali ebbe una conferenza; e qualche frammento diquesto autore ci è stato conservato da Eusebio (Hist.eccl. l. 2, c. 23; l. 2, c. 28; l. 6, c. 20, ec.). I due illustra-tori della Storia letteraria di Aquileia monsig. Fontaninie il sig. Giangius. Liruti parlano lungamente di S. Erme-te che dicesi fratello del pontef. S. Pio I, e da cui si cre-de composto un trattato sulla celebrazion della Pasqua(Fontanini Hist. litter. aquil. p. 63; Liruti Scritt. delFriuli t. 1, p. 15). Il p. Cillier pare che non si fidi abba-stanza delle autorità che a provarlo, da essi si adducono(t. 1, p. 588), nè io credo di dovermi trattener nell'esamedi una questione intorno a cui nulla potrei aggiugnere a'mentovati scrittori. Ma uomo singolarmente dotto fuNovaziano, di cui due opere ancor ci rimangono, una su'cibi giudaici, l'altra sulla Trinità, oltre alcune altre cheson perite. Egli però fece uso troppo reo del suo stessotalento valendosene ad eccitare nella Chiesa romana unoscisma ch'ebbe funestissime conseguenze (V. Ceillier t.3, p. 290). Questi sono i soli scrittori sacri de' quali pos-siam gloriarci, oltre Lattanzio di cui orora ragioneremo,mentre frattanto i Greci ebbero un Clemente alessandri-

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Altri scrit-tori sacri: perchè sia scarso il loro nume-ro.

no, un Origene, un Ireneo, un Dionigi alessandrino edaltri dottissimi uomini che la Chiesa illustrarono co' lorolibri. Di questa diversità tra i Latini e tra i Greci due ra-gioni si possono a mio parere arrecare. In primo luogole turbolenze di Roma e dell'Italia tutta in tanti sconvol-gimenti, a cui l'Impero fu in questi secoli sottoposto,che, come fecero illanguidir in Italia gli studj tutti, cosìancora vietarono a' Cristiani l'applicarsi ferventementealle scienze lor proprie, alle quali vicende assai meno fusottoposta la Grecia e l'Egitto. In secondo luogo le per-secuzioni che in Roma e in tutta l'Italia furono più ferocie più sanguinose assai, che in altre provincie, perchè iCristiani erano comunemente sotto l'occhio de' monar-chi persecutori; e quindi essi costretti sovente o a fuggi-re, o nascondersi, non godevano di quell'agio e di quellatranquillità senza cui mal si possono coltivare le scien-ze. Non è perciò a stupire che sì pochi scrittori sacri tro-viamo in Italia di questi tempi.

IX. Lattanzio è il solo che colle sue opereabbia in questi primi tempi acquistato grannome, ed io lo ripongo tra gli scrittori del IIIsec. perchè in esso cadde la maggior parte

della sua vita. Niuno degli antichi scrittori ne accenna lapatria. Tra' moderni alcuni il fanno africano, appoggiatia ciò che nella Cronaca eusebiana si legge ch'ei fu disce-polo di Arnobio, di cui sappiamo che tenne scuola dieloquenza in Sicca città dell'Africa; altri il fanno italia-

211

Di qual pa-tria fosse Lattanzio.

no, un Origene, un Ireneo, un Dionigi alessandrino edaltri dottissimi uomini che la Chiesa illustrarono co' lorolibri. Di questa diversità tra i Latini e tra i Greci due ra-gioni si possono a mio parere arrecare. In primo luogole turbolenze di Roma e dell'Italia tutta in tanti sconvol-gimenti, a cui l'Impero fu in questi secoli sottoposto,che, come fecero illanguidir in Italia gli studj tutti, cosìancora vietarono a' Cristiani l'applicarsi ferventementealle scienze lor proprie, alle quali vicende assai meno fusottoposta la Grecia e l'Egitto. In secondo luogo le per-secuzioni che in Roma e in tutta l'Italia furono più ferocie più sanguinose assai, che in altre provincie, perchè iCristiani erano comunemente sotto l'occhio de' monar-chi persecutori; e quindi essi costretti sovente o a fuggi-re, o nascondersi, non godevano di quell'agio e di quellatranquillità senza cui mal si possono coltivare le scien-ze. Non è perciò a stupire che sì pochi scrittori sacri tro-viamo in Italia di questi tempi.

IX. Lattanzio è il solo che colle sue opereabbia in questi primi tempi acquistato grannome, ed io lo ripongo tra gli scrittori del IIIsec. perchè in esso cadde la maggior parte

della sua vita. Niuno degli antichi scrittori ne accenna lapatria. Tra' moderni alcuni il fanno africano, appoggiatia ciò che nella Cronaca eusebiana si legge ch'ei fu disce-polo di Arnobio, di cui sappiamo che tenne scuola dieloquenza in Sicca città dell'Africa; altri il fanno italia-

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Di qual pa-tria fosse Lattanzio.

no, fondati sul nome medesimo di Firmiano, come seesso volesse indicar Fermo sua patria. Fra questi più va-lorosamente di tutti ha sostenuta una tal opinione il p.Edoardo da S. Saverio carmelitano scalzo che su questoargomento ci ha data una lunga ed erudita dissertazione(in Lactant. Op. decas 1. diss. 1, 2). Egli afferma che inquasi tutti gli esemplari a penna da lui veduti, benchènel frontespizio si leggano solo i nomi di Lattanzio Fir-miano, al fine però di ciascun libro vi sono quasi sempreaggiunti il prenome di Lucio e il nome di Celio. Dal checonchiude che ove in altri codici si legge Cecilio (comeveramente si legge in quattro almeno (V. Cat. MSS.Bibl. reg. t. 3, cod. 1662, 1663, 1667, 2627) di que' dellaregia biblioteca di Parigi) debbasi attribuire ad error de'copisti. Egli osserva inoltre, e prova con più esempj pre-si dalle antiche iscrizioni, che Firmiani si dicono ancorai cittadini di Fermo benchè a dir vero gli esempj ch'egline arreca, non mi sembrino convincenti. Da varj passi diLattanzio a lui sembra di poter raccogliere chiaramentech'egli stesso si faccia romano, benchè per altro non ven'abbia a mio credere alcuno che possa far certa pruova.Da questi e da altri somiglianti argomenti che presso luisi posson vedere, egli congettura e sostiene che Lattan-zio fosse della famiglia de' Celj, che certo era romana,ma che in occasione della spedizion di qualche coloniapassasse a Fermo. A me non pare che tutte le ragioni dalui addotte rendano abbastanza certa questa opinione;ma parmi ancora che la rendano abbastanza probabile. Ecerto s'egli ebbe tutti i nomi che in alcuni codici gli si

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no, fondati sul nome medesimo di Firmiano, come seesso volesse indicar Fermo sua patria. Fra questi più va-lorosamente di tutti ha sostenuta una tal opinione il p.Edoardo da S. Saverio carmelitano scalzo che su questoargomento ci ha data una lunga ed erudita dissertazione(in Lactant. Op. decas 1. diss. 1, 2). Egli afferma che inquasi tutti gli esemplari a penna da lui veduti, benchènel frontespizio si leggano solo i nomi di Lattanzio Fir-miano, al fine però di ciascun libro vi sono quasi sempreaggiunti il prenome di Lucio e il nome di Celio. Dal checonchiude che ove in altri codici si legge Cecilio (comeveramente si legge in quattro almeno (V. Cat. MSS.Bibl. reg. t. 3, cod. 1662, 1663, 1667, 2627) di que' dellaregia biblioteca di Parigi) debbasi attribuire ad error de'copisti. Egli osserva inoltre, e prova con più esempj pre-si dalle antiche iscrizioni, che Firmiani si dicono ancorai cittadini di Fermo benchè a dir vero gli esempj ch'egline arreca, non mi sembrino convincenti. Da varj passi diLattanzio a lui sembra di poter raccogliere chiaramentech'egli stesso si faccia romano, benchè per altro non ven'abbia a mio credere alcuno che possa far certa pruova.Da questi e da altri somiglianti argomenti che presso luisi posson vedere, egli congettura e sostiene che Lattan-zio fosse della famiglia de' Celj, che certo era romana,ma che in occasione della spedizion di qualche coloniapassasse a Fermo. A me non pare che tutte le ragioni dalui addotte rendano abbastanza certa questa opinione;ma parmi ancora che la rendano abbastanza probabile. Ecerto s'egli ebbe tutti i nomi che in alcuni codici gli si

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danno, cioè di L. Celio, o Cecilio Lattanzio Firmiano,questi medesimi il mostrano almeno di origine romano.Inoltre lo stile ch'egli usa, colto assai ed elegante nonpar convenirsi ad uomo nato e vissuto in Africa, i cuiscrittori benchè sieno eloquenti, come Tertulliano e S.Cipriano, hanno nondimeno una cotale asprezza, per cuisi distinguono agevolmente da' nativi Latini. Quindi misembra di aver sufficiente ragione a registrarlo tra gliscrittori italiani, uguale almeno a quella che gli Africanipossono avere di registrarlo tra' loro.

X. Non è parimenti ben certo s'ei nascessedi genitori cristiani, o se fosse prima per al-cun tempo idolatra. Alcuni, e tra essi gli

scrittori della Storia letteraria di Francia, che secondo illoro costume lo hanno annoverato tra gli scrittori france-si, perchè visse per alcuni anni e morì in Francia, dicono(t. 1, part. 2, p. 66) che egli abbracciò la religione crist.in Nicomedia, ove era stato chiamato a' tempi di Diocle-ziano per tenervi scuola di eloquenza, e che dopo averlaabbracciata cessò da questo esercizio. Ma il dotto p. leNourry afferma (Appar. ad Bibl. PP. t. 2, diss. 3, c. 1) dinon aver trovata in Lattanzio parola alcuna da cui sipossa raccogliere che egli sia stato per alcun tempo ido-latra. Lo scarso numero di scolari che in Nicomedia egliavea a cagione probabilmente della lingua latina pococurata in una greca città, il fè rivolgere a scriver libri,per cui assai più che per la sua scuola divenne celebre.

213

Notizie del-la sua vita.

danno, cioè di L. Celio, o Cecilio Lattanzio Firmiano,questi medesimi il mostrano almeno di origine romano.Inoltre lo stile ch'egli usa, colto assai ed elegante nonpar convenirsi ad uomo nato e vissuto in Africa, i cuiscrittori benchè sieno eloquenti, come Tertulliano e S.Cipriano, hanno nondimeno una cotale asprezza, per cuisi distinguono agevolmente da' nativi Latini. Quindi misembra di aver sufficiente ragione a registrarlo tra gliscrittori italiani, uguale almeno a quella che gli Africanipossono avere di registrarlo tra' loro.

X. Non è parimenti ben certo s'ei nascessedi genitori cristiani, o se fosse prima per al-cun tempo idolatra. Alcuni, e tra essi gli

scrittori della Storia letteraria di Francia, che secondo illoro costume lo hanno annoverato tra gli scrittori france-si, perchè visse per alcuni anni e morì in Francia, dicono(t. 1, part. 2, p. 66) che egli abbracciò la religione crist.in Nicomedia, ove era stato chiamato a' tempi di Diocle-ziano per tenervi scuola di eloquenza, e che dopo averlaabbracciata cessò da questo esercizio. Ma il dotto p. leNourry afferma (Appar. ad Bibl. PP. t. 2, diss. 3, c. 1) dinon aver trovata in Lattanzio parola alcuna da cui sipossa raccogliere che egli sia stato per alcun tempo ido-latra. Lo scarso numero di scolari che in Nicomedia egliavea a cagione probabilmente della lingua latina pococurata in una greca città, il fè rivolgere a scriver libri,per cui assai più che per la sua scuola divenne celebre.

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Notizie del-la sua vita.

Chiamato quindi nelle Gallie ad istruirvi il giovane Cri-spo primogenito di Costantino, vi passò il rimanentedella sua vita, e vi morì in estrema vecchiezza circa l'an.325. Intorno a che e alle altre cose che a lui appartengo-no, sì veggano singolarmente i suddetti autori della Sto-ria letteraria di Francia, il p. Edoardo da S. Saverio danoi mentovato poc'anzi, e il p. Ceillier (t. 3. p. 387).

XI. Tra le opere da lui composte celebrisono singolarmente le Divine Istituzioninelle quali e combatte le gentilesche super-stizioni, e pruova la verità della religion cri-

stiana. Di esse ei fece ancora un Compendio, di cui esi-ste il cel. codice nella regia biblioteca in Torino (V. Cat.Codd. MSS. Bibl. taur. t. 2, p. 268, cod. 840). Pregevo-lissimo è ancora il libro delle Morti de' Persecutori, cheper la prima volta fu pubblicato da Stefano Baluzio. Diesso alcuni vorrebbon credere autore un cotal Lucio Ce-cilio, e non Lattanzio; ma le lor ragioni non sembran talia' più intendenti, che debbano farci dipartire dalla comu-ne opinione (V. Ceillier l. c. p. 406). Nella Cronaca eu-sebiana egli vien detto il più erudito uomo dei suoi tem-pi; ma insieme si aggiugne ch'egli fu sempre povero pertal maniera, che spesse volte delle stesse cose necessarieera mancante. Di lui parla ancora con molta lode S. Gi-rolamo (De Script. eccles. c. 80) ma insieme osserva chepiù felice egli fu nel combattere le gentilesche supersti-zioni, che nel provare la verità della religion cristiana.

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Sue opere eloro carat-tere.

Chiamato quindi nelle Gallie ad istruirvi il giovane Cri-spo primogenito di Costantino, vi passò il rimanentedella sua vita, e vi morì in estrema vecchiezza circa l'an.325. Intorno a che e alle altre cose che a lui appartengo-no, sì veggano singolarmente i suddetti autori della Sto-ria letteraria di Francia, il p. Edoardo da S. Saverio danoi mentovato poc'anzi, e il p. Ceillier (t. 3. p. 387).

XI. Tra le opere da lui composte celebrisono singolarmente le Divine Istituzioninelle quali e combatte le gentilesche super-stizioni, e pruova la verità della religion cri-

stiana. Di esse ei fece ancora un Compendio, di cui esi-ste il cel. codice nella regia biblioteca in Torino (V. Cat.Codd. MSS. Bibl. taur. t. 2, p. 268, cod. 840). Pregevo-lissimo è ancora il libro delle Morti de' Persecutori, cheper la prima volta fu pubblicato da Stefano Baluzio. Diesso alcuni vorrebbon credere autore un cotal Lucio Ce-cilio, e non Lattanzio; ma le lor ragioni non sembran talia' più intendenti, che debbano farci dipartire dalla comu-ne opinione (V. Ceillier l. c. p. 406). Nella Cronaca eu-sebiana egli vien detto il più erudito uomo dei suoi tem-pi; ma insieme si aggiugne ch'egli fu sempre povero pertal maniera, che spesse volte delle stesse cose necessarieera mancante. Di lui parla ancora con molta lode S. Gi-rolamo (De Script. eccles. c. 80) ma insieme osserva chepiù felice egli fu nel combattere le gentilesche supersti-zioni, che nel provare la verità della religion cristiana.

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Sue opere eloro carat-tere.

Lactantius, dic'egli (ep. 49 ad Paullinum) quasi quidamfluvius eloquentiae Tullianae, utinam tam nostra affir-mare potuisset, quam facile aliena destruxit. E in veroparecchi errori in ciò che al dogma appartiene, trovansiin Lattanzio (V. Ceillier l. c.); molti però de' quali sonoa lui comuni con altri scrittori sacri di questo tempo me-desimo, in cui le cose della religione non avean ancor ri-cevuto quel lume che poscia da' generali Concilj e da'Padri greci e latini de' susseguenti secoli è stato loro re-cato.

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Lactantius, dic'egli (ep. 49 ad Paullinum) quasi quidamfluvius eloquentiae Tullianae, utinam tam nostra affir-mare potuisset, quam facile aliena destruxit. E in veroparecchi errori in ciò che al dogma appartiene, trovansiin Lattanzio (V. Ceillier l. c.); molti però de' quali sonoa lui comuni con altri scrittori sacri di questo tempo me-desimo, in cui le cose della religione non avean ancor ri-cevuto quel lume che poscia da' generali Concilj e da'Padri greci e latini de' susseguenti secoli è stato loro re-cato.

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LIBRO IV.Storia della Letteratura Italiana da' tempi di Costantino il gran-

de fino alla caduta dell'Impero occidentale.

CAPO I.Favore dagl'imperadori prestato alla Letteratura, e sta-

to generale di essa in Italia.

I. Costantino sollevato all'impero dopo lamorte di Costanzo Cloro suo padre l'an.306, ma non divenutone pacifico possessoreinsieme con Licinio che l'an. 313. dopo la

morte di Severo, di Massimiano Erculeo, di MassimianoGalero, di Massenzio e di Massimino, che gli aveano di-sputato il trono; e finalmente l'an. 323 ucciso Licinioche di collega gli si era fatto nimico, rimasto egli solosignore, di tutte le ampie provincie soggette al romanoimpero, ci apre innanzi agli occhi una nuova scena e unnuovo ordin di cose. La religion crist. che fino a questitempi allor solamente poteasi creder tranquilla, quandodagl'imperadori era, direi quasi dimenticata, cominciaad essere la religione del trono e l'idolatria finor trion-fante e superba, si riconosce omai felice abbastanza, seè ancora sofferta. Questo sol basterebbe perchè ne' Fastidella Chiesa si dovesse onorar Costantino del gloriososoprannome di grande, che il consenso delle nazioni ede' secoli gli ha conceduto. Ma egli se ne rendette ancor

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Caratteredell'imp.Costantino.

LIBRO IV.Storia della Letteratura Italiana da' tempi di Costantino il gran-

de fino alla caduta dell'Impero occidentale.

CAPO I.Favore dagl'imperadori prestato alla Letteratura, e sta-

to generale di essa in Italia.

I. Costantino sollevato all'impero dopo lamorte di Costanzo Cloro suo padre l'an.306, ma non divenutone pacifico possessoreinsieme con Licinio che l'an. 313. dopo la

morte di Severo, di Massimiano Erculeo, di MassimianoGalero, di Massenzio e di Massimino, che gli aveano di-sputato il trono; e finalmente l'an. 323 ucciso Licinioche di collega gli si era fatto nimico, rimasto egli solosignore, di tutte le ampie provincie soggette al romanoimpero, ci apre innanzi agli occhi una nuova scena e unnuovo ordin di cose. La religion crist. che fino a questitempi allor solamente poteasi creder tranquilla, quandodagl'imperadori era, direi quasi dimenticata, cominciaad essere la religione del trono e l'idolatria finor trion-fante e superba, si riconosce omai felice abbastanza, seè ancora sofferta. Questo sol basterebbe perchè ne' Fastidella Chiesa si dovesse onorar Costantino del gloriososoprannome di grande, che il consenso delle nazioni ede' secoli gli ha conceduto. Ma egli se ne rendette ancor

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Caratteredell'imp.Costantino.

meritevole e in guerra con valor militare, per cui com-battendo felicemente i domestici e gli stranieri nimicigiunse a tal fama che molte nazioni barbare ne chieserospontaneamente l'alleanza e la protezione, e in pace colmostrarsi adorno di tutti que' pregi che conciliano a unsovrano l'amore e la venerazione dei sudditi. Tale è ilcarattere che di Costantino ci hanno formato tutti gli au-tori per lo spazio di 14 secoli; e non i Cristiani soltanto,ma gl'Idolatri ancora, se se ne traggono Giuliano l'apo-stata e Zosimo, i quali troppo chiaramente dimostrano ilrabbioso loro livore contro de' Cristiani; talchè di Zosi-mo dice lo stesso Fozio (In bibl.) ch'egli comunementeabbaia contro tutti gli uomini dabbene. Aurelio Vittorefra gli altri, che visse al medesimo secolo di Costantino,ne parla con somme lodi (De Caesar. c. 41); benchè eglistesso ed altri non abbian dissimulati i difetti che in luipure si videro, e i falli in cui cadde singolarmente negliultimi anni della sua vita. Ma finalmente il sig. di Vol-taire ha ingegnosamente scoperto ed eloquentementemostrato in più luoghi delle sue opere, che quel Costan-tino a cui si era finor accordato il soprannome di grande,non fu che un ipocrita, un impostore, e un crudele tiran-no. Noi ci rallegriamo con lui di sì belle scoperte; maprima di dichiararci seguaci della sua opinione, cometroppo facilmente hanno fatto alcuni de' suoi adoratori,il preghiamo a rispondere, non con ingiurie nè con mot-teggi, ma con ragioni e con pruove a un certo ab. Non-notte da lui ben conosciuto, il quale ha avuto ardire dicontradirgli (Les Erreurs de Voltaire t. 1, c. 4) e di cui ci

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meritevole e in guerra con valor militare, per cui com-battendo felicemente i domestici e gli stranieri nimicigiunse a tal fama che molte nazioni barbare ne chieserospontaneamente l'alleanza e la protezione, e in pace colmostrarsi adorno di tutti que' pregi che conciliano a unsovrano l'amore e la venerazione dei sudditi. Tale è ilcarattere che di Costantino ci hanno formato tutti gli au-tori per lo spazio di 14 secoli; e non i Cristiani soltanto,ma gl'Idolatri ancora, se se ne traggono Giuliano l'apo-stata e Zosimo, i quali troppo chiaramente dimostrano ilrabbioso loro livore contro de' Cristiani; talchè di Zosi-mo dice lo stesso Fozio (In bibl.) ch'egli comunementeabbaia contro tutti gli uomini dabbene. Aurelio Vittorefra gli altri, che visse al medesimo secolo di Costantino,ne parla con somme lodi (De Caesar. c. 41); benchè eglistesso ed altri non abbian dissimulati i difetti che in luipure si videro, e i falli in cui cadde singolarmente negliultimi anni della sua vita. Ma finalmente il sig. di Vol-taire ha ingegnosamente scoperto ed eloquentementemostrato in più luoghi delle sue opere, che quel Costan-tino a cui si era finor accordato il soprannome di grande,non fu che un ipocrita, un impostore, e un crudele tiran-no. Noi ci rallegriamo con lui di sì belle scoperte; maprima di dichiararci seguaci della sua opinione, cometroppo facilmente hanno fatto alcuni de' suoi adoratori,il preghiamo a rispondere, non con ingiurie nè con mot-teggi, ma con ragioni e con pruove a un certo ab. Non-notte da lui ben conosciuto, il quale ha avuto ardire dicontradirgli (Les Erreurs de Voltaire t. 1, c. 4) e di cui ci

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vien detto che sia alquanto superbo, perchè il sig. diVoltaire non ha avuto coraggio di fargli una seria e ra-gionevol risposta. E ci permetta frattanto di parlare diCostantino, come ne han finora parlato tutti gli antichied i moderni scrittori.

II. Ma in Costantino noi non dobbiamocercare se non ciò che appartiene alla let-teratura italiana. E in questa parte, a dirvero, noi non possiamo farne que' grandielogi che per tanti altri riguardi a lui si

debbono giustamente. La città di Costantinopoli da luiinnalzata a gareggiare con Roma, e scelta a sua stabil di-mora, come a Roma e a tutta l'Italia, così all'italiana let-teratura fu sommamente fatale. Roma avea tuttora ilglorioso titolo di capitale del mondo; ma il mondo vol-geasi colà ove risieder vedeva l'imperadore. I più impor-tanti affari trattavansi a Costantinopoli, a Costantinopoliaccorrevano tutti i più illustri e i più celebri personaggie a Roma altro quasi non rimaneva che la magnificenzadelle sue fabbriche, e un'ombra apparente di pompa e dimaestà. Quindi, per così dire, gli studj passarono daRoma a Costantinopoli, ed ivi fiorirono felicemente, ovesperar potevano ricompensa ed onore. Anche allor quan-do dopo la morte di Costantino, diviso l'impero in dueparti, Roma era considerata come la capitale dell'imperod'Occidente, appena mai fu ella la ordinaria sededegl'imperadori; nè è perciò a stupire ch'ella venisse de-

218

La fondazion diCostantinopolireca danno allaletteratura ita-liana.

vien detto che sia alquanto superbo, perchè il sig. diVoltaire non ha avuto coraggio di fargli una seria e ra-gionevol risposta. E ci permetta frattanto di parlare diCostantino, come ne han finora parlato tutti gli antichied i moderni scrittori.

II. Ma in Costantino noi non dobbiamocercare se non ciò che appartiene alla let-teratura italiana. E in questa parte, a dirvero, noi non possiamo farne que' grandielogi che per tanti altri riguardi a lui si

debbono giustamente. La città di Costantinopoli da luiinnalzata a gareggiare con Roma, e scelta a sua stabil di-mora, come a Roma e a tutta l'Italia, così all'italiana let-teratura fu sommamente fatale. Roma avea tuttora ilglorioso titolo di capitale del mondo; ma il mondo vol-geasi colà ove risieder vedeva l'imperadore. I più impor-tanti affari trattavansi a Costantinopoli, a Costantinopoliaccorrevano tutti i più illustri e i più celebri personaggie a Roma altro quasi non rimaneva che la magnificenzadelle sue fabbriche, e un'ombra apparente di pompa e dimaestà. Quindi, per così dire, gli studj passarono daRoma a Costantinopoli, ed ivi fiorirono felicemente, ovesperar potevano ricompensa ed onore. Anche allor quan-do dopo la morte di Costantino, diviso l'impero in dueparti, Roma era considerata come la capitale dell'imperod'Occidente, appena mai fu ella la ordinaria sededegl'imperadori; nè è perciò a stupire ch'ella venisse de-

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La fondazion diCostantinopolireca danno allaletteratura ita-liana.

cadendo sensibilmente da quella grandezza a cui era sa-lita ne' secoli addietro, e che la presenza de' Cesari, an-che in mezzo al tumulto e al disordine dell'impero, avea-le conservato. Il danno però di Roma tornò a vantaggiodelle altre città d'Italia, poichè non essendo più ella ilcentro universale di tutto l'impero, gli studj che finoraerano stati in gran parte ristretti in essa e racchiusi, sivennero felicemente spargendo all'intorno; e gli uominidotti, non essendo più tratti a Roma dalla speranza diacquistarvi gran nome, più volentieri trattennersi nellelor patrie, e ad esse si renderon utili col lor sapere.

III. Nondimeno, benchè Costantino per lasua Costantinopoli avesse quasi dimenticataRoma, non lasciò di favorire le scienze pertal maniera che Roma ancora e l'Italia se negiovassero. Eusebio ce lo rappresenta come

coltivatore dell'eloquenza, e dice che in età giovanileerasi diligentemente esercitato negli studj di amena let-teratura (Vit. Constant. l. 1, c. 19); che soleva egli stessocomporre i solenni ragionamenti che in diverse occasio-ni teneva; e che scrivendoli in latino, facevali poidagl'interpreti traslatare in greco (ib. l. 4, c. 32, 55). Mal'autorità di Eusebio parrà forse sospetta ad alcuni comes'egli abbia composto un panegirico anzi che una storiadi Costantino. Ma oltrechè nell'Epitome delle Vitedegl'Imperadori attribuita ad Aurelio Vittore si affermach'egli fomentò gli studi delle lettere e delle arti liberali,

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Costantinonondimenoprotegge efomenta glistudj.

cadendo sensibilmente da quella grandezza a cui era sa-lita ne' secoli addietro, e che la presenza de' Cesari, an-che in mezzo al tumulto e al disordine dell'impero, avea-le conservato. Il danno però di Roma tornò a vantaggiodelle altre città d'Italia, poichè non essendo più ella ilcentro universale di tutto l'impero, gli studj che finoraerano stati in gran parte ristretti in essa e racchiusi, sivennero felicemente spargendo all'intorno; e gli uominidotti, non essendo più tratti a Roma dalla speranza diacquistarvi gran nome, più volentieri trattennersi nellelor patrie, e ad esse si renderon utili col lor sapere.

III. Nondimeno, benchè Costantino per lasua Costantinopoli avesse quasi dimenticataRoma, non lasciò di favorire le scienze pertal maniera che Roma ancora e l'Italia se negiovassero. Eusebio ce lo rappresenta come

coltivatore dell'eloquenza, e dice che in età giovanileerasi diligentemente esercitato negli studj di amena let-teratura (Vit. Constant. l. 1, c. 19); che soleva egli stessocomporre i solenni ragionamenti che in diverse occasio-ni teneva; e che scrivendoli in latino, facevali poidagl'interpreti traslatare in greco (ib. l. 4, c. 32, 55). Mal'autorità di Eusebio parrà forse sospetta ad alcuni comes'egli abbia composto un panegirico anzi che una storiadi Costantino. Ma oltrechè nell'Epitome delle Vitedegl'Imperadori attribuita ad Aurelio Vittore si affermach'egli fomentò gli studi delle lettere e delle arti liberali,

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Costantinonondimenoprotegge efomenta glistudj.

una chiara pruova ne abbiamo nella Lettera di Costanti-no scritta a Porfirio Ottaziano, che insieme coi versi diquesto poeta, di cui poscia favelleremo è stata pubblica-ta da Marco Velsero (Velseri Op. t. 2, ad calc.); percioc-chè in essa ei mostra quanto impegno egli avesse nel fo-mentare le scienze, così scrivendogli: Defuit quorum-dam ingeniis Imperatorum favor qui non secus doctri-nae deditas mentes irrigare atque alere consuevit, quasiclivosi trainitis supercilio rivus elicitus, scaturientibusvenis arva arentia temperavit. Saeculo meo scribentesdicentesque non aliter benignus auditus quam lenisaura prosequitur: denique etiam studiis meritum a metestimonium non negatur, ec. Testimonio ancor più sicu-ro del favore da Costantino prestato alle scienza è la leg-ge a tal fine da lui pubblicata. Ella è inserita nel Codicedi Giustiniano (l. 10, tit. 52, lex 6), e in essa Costantinocomanda che i medici e singolarmente gli archiatri, e igramatici, e tutti generalmente i professori delle bellearti e i dottori delle leggi insiem colle mogli, co' figli, econ tutte le cose loro esenti siano da ogni pubblica gra-vezza e che niuno si ardisca a recar loro ingiuria, o noiadi sorte alcuna e che loro si paghino i dovuti stipendj,acciocchè più agevolmente possano istruir molti nellearti e negli studj. Tre leggi di Costantino di somiglianteargomento, e che concedono a' medici e a' professori iprivilegj medesimi, trovansi ancora nel Codice di Teo-dosio (l. 13, tit. 3, lex 1, 2, 3), se non che ivi egli dichia-ra che i professori delle scienze, benchè non debbanoessere costretti ad accettare le cariche della repubblica,

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una chiara pruova ne abbiamo nella Lettera di Costanti-no scritta a Porfirio Ottaziano, che insieme coi versi diquesto poeta, di cui poscia favelleremo è stata pubblica-ta da Marco Velsero (Velseri Op. t. 2, ad calc.); percioc-chè in essa ei mostra quanto impegno egli avesse nel fo-mentare le scienze, così scrivendogli: Defuit quorum-dam ingeniis Imperatorum favor qui non secus doctri-nae deditas mentes irrigare atque alere consuevit, quasiclivosi trainitis supercilio rivus elicitus, scaturientibusvenis arva arentia temperavit. Saeculo meo scribentesdicentesque non aliter benignus auditus quam lenisaura prosequitur: denique etiam studiis meritum a metestimonium non negatur, ec. Testimonio ancor più sicu-ro del favore da Costantino prestato alle scienza è la leg-ge a tal fine da lui pubblicata. Ella è inserita nel Codicedi Giustiniano (l. 10, tit. 52, lex 6), e in essa Costantinocomanda che i medici e singolarmente gli archiatri, e igramatici, e tutti generalmente i professori delle bellearti e i dottori delle leggi insiem colle mogli, co' figli, econ tutte le cose loro esenti siano da ogni pubblica gra-vezza e che niuno si ardisca a recar loro ingiuria, o noiadi sorte alcuna e che loro si paghino i dovuti stipendj,acciocchè più agevolmente possano istruir molti nellearti e negli studj. Tre leggi di Costantino di somiglianteargomento, e che concedono a' medici e a' professori iprivilegj medesimi, trovansi ancora nel Codice di Teo-dosio (l. 13, tit. 3, lex 1, 2, 3), se non che ivi egli dichia-ra che i professori delle scienze, benchè non debbanoessere costretti ad accettare le cariche della repubblica,

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possan però accettarle, quando lor piaccia: Fungi eoshonoribus volentes permittimus, invitos non cogimus.Un'altra pruova ancora del suo amor per le scienze dièCostantino ne' privilegi e nelle libertà di cui onorò Ate-ne, ove esse allora fiorivano felicemente, di che ci ha la-sciato memoria lo stesso suo nimico e biasimatore Giu-liano (Or. 1). Finalmente per testimonianza di Eusebioegli facea con grandi spese raccogliere e moltiplicare iSacri Libri, per riparare il danno loro recato dagl'impe-radori idolatri, che di ogni sforzo aveano usato per to-glierli intieramente dal mondo (Vit. Constant. l. 3).

IV. E ciò non ostante gli eruditi Enci-clopedisti, ossia il sig. Diderot, sembra-no accusar Costantino, come se fosse sìrozzo che appena sapesse leggere. Rac-contano essi (Encycl. t. 4, art. Eclecti-

sme) sulla fede di Eunapio, che Costantino per una pue-ril vanità di raccogliere nel teatro più grandi applausi ra-dunata avea a Costantinopoli una innumerabil ciurma-glia di prigionieri, di stranieri, e di barbari. Era dunquela città piena di abitanti che solean recarsi al teatro, reg-gendosi a grande stento in piedi, tanto essi erano ubbria-chi. Ma frattanto i contrarj venti avendo vietato l'entrarnel porto alle navi che vi conduceano i viveri, il popo-laccio costretto a venir digiuno al teatro non fece udirele solite acclamazioni. Sorpreso l'imperadore ne chiedeil motivo. I nimici di Sopatro (celebre filosofo di quel

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Esame di un passodell'Enciclopedia su questo argo-mento.

possan però accettarle, quando lor piaccia: Fungi eoshonoribus volentes permittimus, invitos non cogimus.Un'altra pruova ancora del suo amor per le scienze dièCostantino ne' privilegi e nelle libertà di cui onorò Ate-ne, ove esse allora fiorivano felicemente, di che ci ha la-sciato memoria lo stesso suo nimico e biasimatore Giu-liano (Or. 1). Finalmente per testimonianza di Eusebioegli facea con grandi spese raccogliere e moltiplicare iSacri Libri, per riparare il danno loro recato dagl'impe-radori idolatri, che di ogni sforzo aveano usato per to-glierli intieramente dal mondo (Vit. Constant. l. 3).

IV. E ciò non ostante gli eruditi Enci-clopedisti, ossia il sig. Diderot, sembra-no accusar Costantino, come se fosse sìrozzo che appena sapesse leggere. Rac-contano essi (Encycl. t. 4, art. Eclecti-

sme) sulla fede di Eunapio, che Costantino per una pue-ril vanità di raccogliere nel teatro più grandi applausi ra-dunata avea a Costantinopoli una innumerabil ciurma-glia di prigionieri, di stranieri, e di barbari. Era dunquela città piena di abitanti che solean recarsi al teatro, reg-gendosi a grande stento in piedi, tanto essi erano ubbria-chi. Ma frattanto i contrarj venti avendo vietato l'entrarnel porto alle navi che vi conduceano i viveri, il popo-laccio costretto a venir digiuno al teatro non fece udirele solite acclamazioni. Sorpreso l'imperadore ne chiedeil motivo. I nimici di Sopatro (celebre filosofo di quel

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Esame di un passodell'Enciclopedia su questo argo-mento.

tempo) gli dicono essere lui appunto che con arti magi-che teneva incatenati i venti, e ottengon sul punto l'ordi-ne ch'ei sia ucciso. Così essi in poche parole ci rappre-sentano Costantino come ambizioso, imprudente, igno-rante e furioso, e quindi autorevolmente conchiudono:Perchè mai dee accadere che tanti re comandino sem-pre, e non leggan giammai? Io credo certo che se un talfatto si attribuisse da Eusebio, da Lattanzio, o da altroscrittor crist. a un Diocleziano a un Giuliano, o ad altroimperador idolatra, tutti i filosofi pensatori de' nostrigiorni lo rigetterebbono come finto a capriccio, o cometroppo semplicemente creduto da quegli autori. Ma egliè Eunapio scrittor gentile che il narra, e il narra di Co-stantino imp. cristiano. Dunque il fatto si dee avere percerto. Ma chi fu egli cotesto Eunapio? "Egli è uno scrit-tor, dice Fozio (Bibl. n. 77), che morde e maltratta tutticoloro che colla loro pietà aggiunsero nuovo splendoreall'impero, e più di tutti il gran Costantino; e al contrarioesalta i malvagi, e singolarmente Giuliano l'apostata,talchè sembra che le sue Storie abbia composto affin dilodarlo". Il Bruckero che pur non è nè un pregiudicatoclaustrale, nè un fanatico superstizioso, dice che un talracconto è privo di ogni verosimiglianza (Hist. crit.Phil. t. 2, p. 262, nota 1). Ma ciò che importa? Il fattogiova a screditar Costantino: dunque ad ogni mododebb'esser vero. Io non voglio entrare su questo punto alunga dissertazione, che non appartiene al mio argomen-to. Veggasi ciò che ne ha scritto il moderno autore dellaStoria dell'Eclettismo (Hist. de l'Eclectisme t. 1, art. 8);

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tempo) gli dicono essere lui appunto che con arti magi-che teneva incatenati i venti, e ottengon sul punto l'ordi-ne ch'ei sia ucciso. Così essi in poche parole ci rappre-sentano Costantino come ambizioso, imprudente, igno-rante e furioso, e quindi autorevolmente conchiudono:Perchè mai dee accadere che tanti re comandino sem-pre, e non leggan giammai? Io credo certo che se un talfatto si attribuisse da Eusebio, da Lattanzio, o da altroscrittor crist. a un Diocleziano a un Giuliano, o ad altroimperador idolatra, tutti i filosofi pensatori de' nostrigiorni lo rigetterebbono come finto a capriccio, o cometroppo semplicemente creduto da quegli autori. Ma egliè Eunapio scrittor gentile che il narra, e il narra di Co-stantino imp. cristiano. Dunque il fatto si dee avere percerto. Ma chi fu egli cotesto Eunapio? "Egli è uno scrit-tor, dice Fozio (Bibl. n. 77), che morde e maltratta tutticoloro che colla loro pietà aggiunsero nuovo splendoreall'impero, e più di tutti il gran Costantino; e al contrarioesalta i malvagi, e singolarmente Giuliano l'apostata,talchè sembra che le sue Storie abbia composto affin dilodarlo". Il Bruckero che pur non è nè un pregiudicatoclaustrale, nè un fanatico superstizioso, dice che un talracconto è privo di ogni verosimiglianza (Hist. crit.Phil. t. 2, p. 262, nota 1). Ma ciò che importa? Il fattogiova a screditar Costantino: dunque ad ogni mododebb'esser vero. Io non voglio entrare su questo punto alunga dissertazione, che non appartiene al mio argomen-to. Veggasi ciò che ne ha scritto il moderno autore dellaStoria dell'Eclettismo (Hist. de l'Eclectisme t. 1, art. 8);

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il quale ha preso a confutare singolarmente l'articolo danoi sopra mentovato dell'Enciclopedia, in cui la religioncrist. e que' che ne furono i più illustri sostenitori, ci sirappresentano in un aspetto odioso troppo e ingiurioso.

V. Dopo la morte di Costantino, che accad-de l'an. 337, diviso l'impero tra i tre suoi fi-gli Costantino, Costanzo e Costante, aquest'ultimo toccò in sorte l'Italia; il qualequindi a tre anni venuto a guerra col suo fra-tel Costantino, e rimastone vincitore, si vide

padrone di tutto l'Occidente; e ne resse l'impero finoall'an. 350 in cui Magnenzio contro di lui sollevatosi glitolse la corona e la vita . Ma tre anni soli godè l'usurpa-tore dei frutti del suo delitto, e poichè dalle armi di Co-stanzo si vide ridotto agli estremi, da se medesimo si uc-cise l'an. 353, e per tal modo rimase Costanzo signore ditutto l'impero. Se si potesse dar fede a ciò che di lui neracconta Giuliano l'apostata suo cugino e cognato, indue orazioni panegiriche innanzi a lui medesimo recita-te, noi dovremmo creder Costanzo dotato di una virile erobusta eloquenza (Or. 1, 2, p. 33, 77, ed. Lips. 1696).Ma ognun vede qual fede si debba a' panegirici recitatiin tale occasione e da tal personaggio. Nondimeno an-che Aurelio Vittore ne esalta assai l'eloquenza, e ad essaattribuisce l'aver vinto Vitrannione che avea usurpatol'impero (De Caesar. c. 42). Ma certo assai diversamen-te ne parla Ammian Marcellino, il quale racconta (Hist.

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Condotta de' figli e successori di Costanti-no riguardoalle lettere.

il quale ha preso a confutare singolarmente l'articolo danoi sopra mentovato dell'Enciclopedia, in cui la religioncrist. e que' che ne furono i più illustri sostenitori, ci sirappresentano in un aspetto odioso troppo e ingiurioso.

V. Dopo la morte di Costantino, che accad-de l'an. 337, diviso l'impero tra i tre suoi fi-gli Costantino, Costanzo e Costante, aquest'ultimo toccò in sorte l'Italia; il qualequindi a tre anni venuto a guerra col suo fra-tel Costantino, e rimastone vincitore, si vide

padrone di tutto l'Occidente; e ne resse l'impero finoall'an. 350 in cui Magnenzio contro di lui sollevatosi glitolse la corona e la vita . Ma tre anni soli godè l'usurpa-tore dei frutti del suo delitto, e poichè dalle armi di Co-stanzo si vide ridotto agli estremi, da se medesimo si uc-cise l'an. 353, e per tal modo rimase Costanzo signore ditutto l'impero. Se si potesse dar fede a ciò che di lui neracconta Giuliano l'apostata suo cugino e cognato, indue orazioni panegiriche innanzi a lui medesimo recita-te, noi dovremmo creder Costanzo dotato di una virile erobusta eloquenza (Or. 1, 2, p. 33, 77, ed. Lips. 1696).Ma ognun vede qual fede si debba a' panegirici recitatiin tale occasione e da tal personaggio. Nondimeno an-che Aurelio Vittore ne esalta assai l'eloquenza, e ad essaattribuisce l'aver vinto Vitrannione che avea usurpatol'impero (De Caesar. c. 42). Ma certo assai diversamen-te ne parla Ammian Marcellino, il quale racconta (Hist.

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Condotta de' figli e successori di Costanti-no riguardoalle lettere.

l. 21, c. 16) ch'egli affettava bensì di mostrarsi amante dierudizione ma che avendo ingegno ottuso nè punto abileall'eloquenza, rivoltosi a verseggiare, non fece mai cosaalcuna di qualche pregio. E somigliante è il sentimentodell'autore dell'Epitome attribuita ad Aurelio Vittore, ilqual dice (c. 66) ch'egli era bensì bramoso di mostrarsieloquente, ma che non potendolo ottenere, mirava conocchio invidioso coloro ch'erano eloquenti. Questa invi-dia però non diede egli a vedere in riguardo al celebrefilosofo e sofista Temistio. Questi l'an. 347 gli recitò inAncira un'orazione panegirica, e Costanzo l'an. 355 di-chiarollo senatore in Costantinopoli e scrisse in questaoccasione al senato stesso una lettera in cui il ricolmavadi lodi singolarmente pel coltivare ch'egli faceva i filo-sofici studj. Temistio rispose a Costanzo con un'altraorazion panegirica, in cui lo esaltava come il più grandefilosofo de' suoi tempi. Due anni appresso, mentre Co-stanzo era a Roma, Temistio ne scrisse in Costantinopoliun encomio con una nuova orazione, e mandogliela; eCostanzo ricompensollo con una statua di bronzo, chegli fece innalzare. Così Temistio e Costanzo si rendeva-no lode per lode e onor per onore. Ma nè gli elogi cheTemistio fa di Costanzo ci posson bastare perchè credia-mo ch'ei fosse qual egli cel rappresenta; nè gli onori cheCostanzo accordò a Temistio, ci basterebbono a crederech'el ne fosse degno, se le sue orazioni che ci sono rima-ste, non cel mostrassero colto ed eloquente scrittore. Sipuò vedere ciò che di Temistio raccontano il p. Arduino(Vit. Themistii ejus Or. praefix), il Fabricio (Bibl. gr. t. 8,

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l. 21, c. 16) ch'egli affettava bensì di mostrarsi amante dierudizione ma che avendo ingegno ottuso nè punto abileall'eloquenza, rivoltosi a verseggiare, non fece mai cosaalcuna di qualche pregio. E somigliante è il sentimentodell'autore dell'Epitome attribuita ad Aurelio Vittore, ilqual dice (c. 66) ch'egli era bensì bramoso di mostrarsieloquente, ma che non potendolo ottenere, mirava conocchio invidioso coloro ch'erano eloquenti. Questa invi-dia però non diede egli a vedere in riguardo al celebrefilosofo e sofista Temistio. Questi l'an. 347 gli recitò inAncira un'orazione panegirica, e Costanzo l'an. 355 di-chiarollo senatore in Costantinopoli e scrisse in questaoccasione al senato stesso una lettera in cui il ricolmavadi lodi singolarmente pel coltivare ch'egli faceva i filo-sofici studj. Temistio rispose a Costanzo con un'altraorazion panegirica, in cui lo esaltava come il più grandefilosofo de' suoi tempi. Due anni appresso, mentre Co-stanzo era a Roma, Temistio ne scrisse in Costantinopoliun encomio con una nuova orazione, e mandogliela; eCostanzo ricompensollo con una statua di bronzo, chegli fece innalzare. Così Temistio e Costanzo si rendeva-no lode per lode e onor per onore. Ma nè gli elogi cheTemistio fa di Costanzo ci posson bastare perchè credia-mo ch'ei fosse qual egli cel rappresenta; nè gli onori cheCostanzo accordò a Temistio, ci basterebbono a crederech'el ne fosse degno, se le sue orazioni che ci sono rima-ste, non cel mostrassero colto ed eloquente scrittore. Sipuò vedere ciò che di Temistio raccontano il p. Arduino(Vit. Themistii ejus Or. praefix), il Fabricio (Bibl. gr. t. 8,

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p. 1, ec.), il Tillemont (Hist. des Emper. in Theod. art.93, 94), il Bruckero (Hist. crit. Phil. t. 2, p. 484) ed altri.Ei non appartiene punto all'Italiana Letteratura; percioc-chè ei venne bensì a Roma nell'andar ch'ei fece a Gra-ziano nelle Gallie inviato da Valente l'an. 376, e i Roma-ni di ogni mezzo usarono per determinarlo a soggiornaretra loro ma egli antipose Costantinop. a Roma, e pronta-mente vi fece ritorno.

VI. Or tornando a Costanzo, dalle cose finqui dette egli è manifesto a mio credere, chequesto imperadore non ebbe grande impe-gno nel fomentare le scienze, e che se eglifu liberale di onori e di ricompense verso di

alcuno; ciò fu anzi per ambizione di esser lodato, cheper desiderio di veder fiorire gli studj nel suo impero. Infatti non troviam legge alcuna che da Costanzo a tal finesi promulgasse; mentre quasi tutti gli altri imperadori diquesto secolo se ne mostrarono in qualche modo solleci-ti, come dalle leggi lor si raccoglie, che sono inserite ne'Codici di Teodosio e di Giustiniano, e delle quali verre-mo successivamente parlando. Solo ritroviamo ch'egliaprì in Costantinopoli a comune vantaggio una pubblicabiblioteca, di che Temistio il loda, e a giusta ragion,grandemente (Or. 13; V. etiam Gothofred. not. ad Cod.theod. l. 14 tit. 9, lex 2). Ma nel rimanente egli lasciatosiciecamente aggirar dagli Ariani, poneva tutto lo studioin sostenerne il partito, e in opprimere e perseguitare i

225

Costanzonon è moltolor favore-vole.

p. 1, ec.), il Tillemont (Hist. des Emper. in Theod. art.93, 94), il Bruckero (Hist. crit. Phil. t. 2, p. 484) ed altri.Ei non appartiene punto all'Italiana Letteratura; percioc-chè ei venne bensì a Roma nell'andar ch'ei fece a Gra-ziano nelle Gallie inviato da Valente l'an. 376, e i Roma-ni di ogni mezzo usarono per determinarlo a soggiornaretra loro ma egli antipose Costantinop. a Roma, e pronta-mente vi fece ritorno.

VI. Or tornando a Costanzo, dalle cose finqui dette egli è manifesto a mio credere, chequesto imperadore non ebbe grande impe-gno nel fomentare le scienze, e che se eglifu liberale di onori e di ricompense verso di

alcuno; ciò fu anzi per ambizione di esser lodato, cheper desiderio di veder fiorire gli studj nel suo impero. Infatti non troviam legge alcuna che da Costanzo a tal finesi promulgasse; mentre quasi tutti gli altri imperadori diquesto secolo se ne mostrarono in qualche modo solleci-ti, come dalle leggi lor si raccoglie, che sono inserite ne'Codici di Teodosio e di Giustiniano, e delle quali verre-mo successivamente parlando. Solo ritroviamo ch'egliaprì in Costantinopoli a comune vantaggio una pubblicabiblioteca, di che Temistio il loda, e a giusta ragion,grandemente (Or. 13; V. etiam Gothofred. not. ad Cod.theod. l. 14 tit. 9, lex 2). Ma nel rimanente egli lasciatosiciecamente aggirar dagli Ariani, poneva tutto lo studioin sostenerne il partito, e in opprimere e perseguitare i

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Costanzonon è moltolor favore-vole.

Cattolici, avuto perciò in poco conto da' Cristiani nonmeno che da' Gentili; poichè veggiamo che tutti ugual-mente gli storici, benchè il confessin dotato di alcunevirtù che ne avrebbon potuto render felice l'impero, af-fermano nondimeno ch'egli circondato e ingannato daiconsiglieri malvagi si fece spregevole e odioso a tutti.La gelosia ch'egli ebbe de' successi felici che nelle Gal-lie avea Giuliano, il quale gli era, come abbiam detto,cugino insieme e cognato, lo accese di fiero sdegno,quando udì ch'esso dalle sue truppe in Parigi era statoacclamato augusto; ma mentre i due imperadori si acco-stavano co' loro eserciti l'un contro l'altro, Costanzomorì nella Cilicia l'an. 361, e Giuliano senza ostacoloalcuno salì all'impero.

VII. Giuliano non visse che 32 anni, e dueanni soli tenne l'impero; nondimeno non viha forse imperadore che più di lui sia noto.L'apostasia dalla religion crist. in cui era

stato allevato onde ne ha avuto l'obbrobrioso nome diapostata, lo ha renduto esecrabile ai Cristiani, e caro a'loro nemici. Egli è un degli eroi di alcuni tra gli scrittorimoderni i quali, essendo per essi una cosa medesima su-perstizione e religione, non finiscono di esaltare coloroche ne scuotono il giogo. Il sig. di Voltaire, e dietro luila turba de' suoi attoniti ammiratori, cel propone comeun esempio di tutte le più belle virtù morali (V. Que-stions sur l'Encycl. t. 2, Apostate; Mél. t. 1, ec.). A me

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Caratteredell'imp.Giuliano.

Cattolici, avuto perciò in poco conto da' Cristiani nonmeno che da' Gentili; poichè veggiamo che tutti ugual-mente gli storici, benchè il confessin dotato di alcunevirtù che ne avrebbon potuto render felice l'impero, af-fermano nondimeno ch'egli circondato e ingannato daiconsiglieri malvagi si fece spregevole e odioso a tutti.La gelosia ch'egli ebbe de' successi felici che nelle Gal-lie avea Giuliano, il quale gli era, come abbiam detto,cugino insieme e cognato, lo accese di fiero sdegno,quando udì ch'esso dalle sue truppe in Parigi era statoacclamato augusto; ma mentre i due imperadori si acco-stavano co' loro eserciti l'un contro l'altro, Costanzomorì nella Cilicia l'an. 361, e Giuliano senza ostacoloalcuno salì all'impero.

VII. Giuliano non visse che 32 anni, e dueanni soli tenne l'impero; nondimeno non viha forse imperadore che più di lui sia noto.L'apostasia dalla religion crist. in cui era

stato allevato onde ne ha avuto l'obbrobrioso nome diapostata, lo ha renduto esecrabile ai Cristiani, e caro a'loro nemici. Egli è un degli eroi di alcuni tra gli scrittorimoderni i quali, essendo per essi una cosa medesima su-perstizione e religione, non finiscono di esaltare coloroche ne scuotono il giogo. Il sig. di Voltaire, e dietro luila turba de' suoi attoniti ammiratori, cel propone comeun esempio di tutte le più belle virtù morali (V. Que-stions sur l'Encycl. t. 2, Apostate; Mél. t. 1, ec.). A me

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Caratteredell'imp.Giuliano.

non appartiene l'esaminarne il carattere, e solo io pregocoloro che dall'eloquenza de' sopraddetti scrittori si sen-tano per avventura persuasi delle eroiche virtù di Giulia-no a leggere ciò che di lui scrive tra gli altri il Tillemont(Hist. des. Emper. in Jul. art. 29, 30) il quale non affer-ma già autorevolmente, come altri fanno, ma coll'autori-tà degli stessi scrittori idolatri dimostra che tali virtùnon furon poi in quel grado sì eccelso a cui da alcunisono state innalzate. Veggasi ancora la bella Vita che neha scritta l'ab. de la Bletterie, e l'anonimo autore dellaStoria dell'Eclettismo, che esamina e ribatte (t. 1 art. 9.)ciò che di Giuliano hanno scritto gli Enciclopedisti (t. 3,art. Eclectisme). Nemmeno io debbo parlar delle opereche di lui ci sono rimaste; poichè egli non fu italiano,ma oriondo dalla Dardania, e nato a Costantinopoli, e inAtene fece per lo più i suoi studj. Io debbo dunque cer-car solamente ciò, che egli nel breve suo impero fece apro delle lettere, e le leggi che da lui a tal fine furonopubblicate, poichè essendo egli imperadore dell'Orienteinsieme e dell'Occidente, queste si stesero ed ebbero vi-gore ancor nell'Italia.

VIII. Egli uomo di vivace ingegno e colti-vator diligente de' buoni studj, pensò ancorsaggiamente a' mezzi onde farli fiorire feli-cemente. E prudentissima fu la legge da lui

pubblicata che leggesi nel Codice di Giustiniano (l, 10,tit. 52, lex 7). "I professori, dice egli, e maestri degli stu-

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Coltiva epromuovegli studj.

non appartiene l'esaminarne il carattere, e solo io pregocoloro che dall'eloquenza de' sopraddetti scrittori si sen-tano per avventura persuasi delle eroiche virtù di Giulia-no a leggere ciò che di lui scrive tra gli altri il Tillemont(Hist. des. Emper. in Jul. art. 29, 30) il quale non affer-ma già autorevolmente, come altri fanno, ma coll'autori-tà degli stessi scrittori idolatri dimostra che tali virtùnon furon poi in quel grado sì eccelso a cui da alcunisono state innalzate. Veggasi ancora la bella Vita che neha scritta l'ab. de la Bletterie, e l'anonimo autore dellaStoria dell'Eclettismo, che esamina e ribatte (t. 1 art. 9.)ciò che di Giuliano hanno scritto gli Enciclopedisti (t. 3,art. Eclectisme). Nemmeno io debbo parlar delle opereche di lui ci sono rimaste; poichè egli non fu italiano,ma oriondo dalla Dardania, e nato a Costantinopoli, e inAtene fece per lo più i suoi studj. Io debbo dunque cer-car solamente ciò, che egli nel breve suo impero fece apro delle lettere, e le leggi che da lui a tal fine furonopubblicate, poichè essendo egli imperadore dell'Orienteinsieme e dell'Occidente, queste si stesero ed ebbero vi-gore ancor nell'Italia.

VIII. Egli uomo di vivace ingegno e colti-vator diligente de' buoni studj, pensò ancorsaggiamente a' mezzi onde farli fiorire feli-cemente. E prudentissima fu la legge da lui

pubblicata che leggesi nel Codice di Giustiniano (l, 10,tit. 52, lex 7). "I professori, dice egli, e maestri degli stu-

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Coltiva epromuovegli studj.

dj conviene che siano rinnomati prima pe' loro costumi,e poscia ancora per l'eloquenza. Ma perchè a tutte le cit-tà io non posso esser presente, comando che, chiunquevuole insegnare, non accingasi di subito e senza rifles-sione a un tal ministero, ma prima sia approvato da' se-natori, e di comune consenso riceva dalla curia la facol-tà d'insegnare." Legge prudentissima certamente, e chese fosse sempre osservata con quella esattezza che siconviene, le scienze sarebbono sempre in più felice sta-to, che comunemente non sono. Egli innoltre, che gode-va sopra ogni cosa di esser creduto grave e severo filo-sofo, era ognor circondato da numerose schiere di taliuomini (Eunap. Vit. Soph. c. 5) che o erano, o vantavan-si di essere in questa scienza eccellenti. Giuliano glionorava ed essi speravano che agli onori avrebbe con-giunte ancor le ricchezze di cui la filosofica austeritànon rendevagli abbastanza nimici. Ma il breve regnoch'ebbe Giuliano, non permise loro di veder condotte adeffetto sì liete speranze.

IX. I soli Cristiani furono quelli alla lettera-tura dei quali ei mosse guerra. Egli veggen-do che i tormenti e le morti, con cui altri im-

peradori avean cercato di annientarli, aveano anzi pro-dotto un contrario effetto, si determinò di combatterli al-meno per qualche tempo in altra maniera, che certo sa-rebbe riuscita lor più fatale, se il comando da lui fattoavesse avuto vigore per lungo tempo. Ordinò egli dun-

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Ma il vietaai cristiani.

dj conviene che siano rinnomati prima pe' loro costumi,e poscia ancora per l'eloquenza. Ma perchè a tutte le cit-tà io non posso esser presente, comando che, chiunquevuole insegnare, non accingasi di subito e senza rifles-sione a un tal ministero, ma prima sia approvato da' se-natori, e di comune consenso riceva dalla curia la facol-tà d'insegnare." Legge prudentissima certamente, e chese fosse sempre osservata con quella esattezza che siconviene, le scienze sarebbono sempre in più felice sta-to, che comunemente non sono. Egli innoltre, che gode-va sopra ogni cosa di esser creduto grave e severo filo-sofo, era ognor circondato da numerose schiere di taliuomini (Eunap. Vit. Soph. c. 5) che o erano, o vantavan-si di essere in questa scienza eccellenti. Giuliano glionorava ed essi speravano che agli onori avrebbe con-giunte ancor le ricchezze di cui la filosofica austeritànon rendevagli abbastanza nimici. Ma il breve regnoch'ebbe Giuliano, non permise loro di veder condotte adeffetto sì liete speranze.

IX. I soli Cristiani furono quelli alla lettera-tura dei quali ei mosse guerra. Egli veggen-do che i tormenti e le morti, con cui altri im-

peradori avean cercato di annientarli, aveano anzi pro-dotto un contrario effetto, si determinò di combatterli al-meno per qualche tempo in altra maniera, che certo sa-rebbe riuscita lor più fatale, se il comando da lui fattoavesse avuto vigore per lungo tempo. Ordinò egli dun-

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Ma il vietaai cristiani.

que che i retori e i gramatici cristiani cessasserodall'insegnare, quando passar non volessero al culto de'numi. Ammian Marcellino scrittore idolatra chiamaquesta legge crudele: Illud inclemens, quod docere ve-tuit magistros rhetoricos et gramaticos christianos, nitransissent ad numinum cultum (Hist. l. 22, c. 10; l. 25.c. 4); e a ragione, perciocchè per tal modo egli li con-stringeva o ad abbandonar la lor religione, o a vivere inuna vergognosa ignoranza, e a divenir per tal modo og-getto del comune disprezzo, e ad essere insiem privi diquel sapere che a difender la lor credenza contro la sotti-gliezza de' pagani filosofi era necessario. Di questo edit-to di Giuliano, oltre che più altri autori fanno menzione,egli stesso ci ha lasciato memoria in una sua lettera, incui insulta a' Cristiani, perchè usino nelle loro scuole de-gli autori profani, essi che non credono in quegl'iddiiche dagli autori medesimi son nominati e comanda loroche o credano essi ancora ciò che credevan gli autori cuispiegano a' lor discepoli, o cessino dal più spiegarli, esen vadano, dic'egli, alla Chiesa de' Galilei, e vi spieghi-no Matteo e Luca (ep. 42). E così l'avvenne in fatti, dicePaolo Orosio (Hist. l. 7, c. 30), che quasi tutti i maestricristiani abbandonaron l'impiego, e cessarono dal tenerescuola; e due fra gli altri furon celebri pel generoso sa-grificio che fecero della lor cattedra, perchè celebri era-no pel lor sapere, cioè Proeresio ch'era sofista in Atene,a cui benchè Giuliano per la stima in che avealo, volesseaccordare esenzione dalla universal legge, egli non volleusarne, e spontaneamente lasciò l'impiego (Chron. Eu-

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que che i retori e i gramatici cristiani cessasserodall'insegnare, quando passar non volessero al culto de'numi. Ammian Marcellino scrittore idolatra chiamaquesta legge crudele: Illud inclemens, quod docere ve-tuit magistros rhetoricos et gramaticos christianos, nitransissent ad numinum cultum (Hist. l. 22, c. 10; l. 25.c. 4); e a ragione, perciocchè per tal modo egli li con-stringeva o ad abbandonar la lor religione, o a vivere inuna vergognosa ignoranza, e a divenir per tal modo og-getto del comune disprezzo, e ad essere insiem privi diquel sapere che a difender la lor credenza contro la sotti-gliezza de' pagani filosofi era necessario. Di questo edit-to di Giuliano, oltre che più altri autori fanno menzione,egli stesso ci ha lasciato memoria in una sua lettera, incui insulta a' Cristiani, perchè usino nelle loro scuole de-gli autori profani, essi che non credono in quegl'iddiiche dagli autori medesimi son nominati e comanda loroche o credano essi ancora ciò che credevan gli autori cuispiegano a' lor discepoli, o cessino dal più spiegarli, esen vadano, dic'egli, alla Chiesa de' Galilei, e vi spieghi-no Matteo e Luca (ep. 42). E così l'avvenne in fatti, dicePaolo Orosio (Hist. l. 7, c. 30), che quasi tutti i maestricristiani abbandonaron l'impiego, e cessarono dal tenerescuola; e due fra gli altri furon celebri pel generoso sa-grificio che fecero della lor cattedra, perchè celebri era-no pel lor sapere, cioè Proeresio ch'era sofista in Atene,a cui benchè Giuliano per la stima in che avealo, volesseaccordare esenzione dalla universal legge, egli non volleusarne, e spontaneamente lasciò l'impiego (Chron. Eu-

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seb. ad an. 366) e Mario Vittorino africano che alloraera retore in Roma, e il qual pure, per testimonio di S.Agostino (Confess. l. 8, c. 5), anzichè abbandonare lafede, scelse di rinunziare alla scuola per cui godeva inRoma sì grande onore. Nè solo fece egli divieto a' Cri-stiani di tenere scuola, ma, come afferma oltre più altriscrittori Teodoreto (Hist. l. 3, c. 8), proibì loro ancoral'applicarsi agli studj della poesia, dell'eloquenza e dellafilosofia, per riuscir meglio di tal maniera al suo intento,cioè che i Cristiani divenissero uomini incolti e vili perla loro ignoranza. Alcuni su questo secondo divieto diGiuliano hanno mosse difficoltà, e si sforzano di mo-strarlo non ben accertato; ma leggansi le pruove che nearrecano il Tillemont (Hist. eccl. t. 7, art. 3 sur Julien),l'ab. de la Bletterie (Vie de Julien p. 263, ed. 2), e TobiaEckardo (Miscell. lips. t. 4, p. 195), e vedrassi che nonvi ha cosa provata più evidentemente di questa.

X. Questo editto però assai poco tempo sitenne in vigore, perchè presto morì Giulia-no ucciso dopo due soli interi anni d'impe-ro nella guerra contro Sapore re de' Persia-ni. Gioviano che gli succedette, non ebbe

che circa 8 mesi d'impero, e nulla perciò ci offre a scri-vere che appartenga al nostro argomento. Valentiniano Isollevato dopo Gioviano all'impero, dichiarato avendosuo collega Valente suo fratello, a lui lasciò la curadell'Oriente, per se ritenne quella dell'Occidente; e l'an.

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Premure di Valentiniano I in favor de-gli studj.

seb. ad an. 366) e Mario Vittorino africano che alloraera retore in Roma, e il qual pure, per testimonio di S.Agostino (Confess. l. 8, c. 5), anzichè abbandonare lafede, scelse di rinunziare alla scuola per cui godeva inRoma sì grande onore. Nè solo fece egli divieto a' Cri-stiani di tenere scuola, ma, come afferma oltre più altriscrittori Teodoreto (Hist. l. 3, c. 8), proibì loro ancoral'applicarsi agli studj della poesia, dell'eloquenza e dellafilosofia, per riuscir meglio di tal maniera al suo intento,cioè che i Cristiani divenissero uomini incolti e vili perla loro ignoranza. Alcuni su questo secondo divieto diGiuliano hanno mosse difficoltà, e si sforzano di mo-strarlo non ben accertato; ma leggansi le pruove che nearrecano il Tillemont (Hist. eccl. t. 7, art. 3 sur Julien),l'ab. de la Bletterie (Vie de Julien p. 263, ed. 2), e TobiaEckardo (Miscell. lips. t. 4, p. 195), e vedrassi che nonvi ha cosa provata più evidentemente di questa.

X. Questo editto però assai poco tempo sitenne in vigore, perchè presto morì Giulia-no ucciso dopo due soli interi anni d'impe-ro nella guerra contro Sapore re de' Persia-ni. Gioviano che gli succedette, non ebbe

che circa 8 mesi d'impero, e nulla perciò ci offre a scri-vere che appartenga al nostro argomento. Valentiniano Isollevato dopo Gioviano all'impero, dichiarato avendosuo collega Valente suo fratello, a lui lasciò la curadell'Oriente, per se ritenne quella dell'Occidente; e l'an.

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Premure di Valentiniano I in favor de-gli studj.

367 si associò Graziano suo figlio fanciullo appena di 8.anni. Valente dunque non appartiene punto all'Italia, sucui egli non ebbe dominio alcuno. Valentiniano che inmezzo a singolari virtù che il renderono uno dei piùgrandi sovrani, ebbe ancora non pochi difetti, e quellosingolarmente di una eccessiva severità e di un impetuo-so e infrenabile sdegno, fu ancora uom colto e amantedella letteratura, poichè Ausonio afferma ch'egli ancheimperadore dilettavasi talvolta di verseggiare (Auson.Op. p. 373 ed. Paris. 1730), anzi rammenta un Centonedi versi virgiliani in occasione di nozze da lui composto;e Ammiano Marcellino aggiugne (l. 30, c. 9) ch'egliscrivea e dipingeva ancora assai bene, e che, benchèfosse parco nel ragionare, avea ciò non ostante dell'elo-quenza. Ei nondimeno l'accusa (ib. c. 8) che, a somi-glianza di Adriano, per una cotal vanità di comparireegli solo in ogni cosa eccellente, invidiasse agli uominidotti da cui potesse temere di essere superato. Ma chec-chessia di un tal difetto, che in lui non riconosceva Te-mistio, il quale anzi ne loda la regale munificenza concui fomentava gli studj, concedendo premj ed onori achi in essi si esercitava con lode (Or 11.), esso certo nonlo distolse dal provvedere ai mezzi con cui avvivar sem-pre più il fervore nel coltivarli. Ne abbiamo in pruovaparecchie leggi, le quali benchè siano pubblicate a nomecomune di lui e del suo fratello Valente, avendo essenondimeno per singolar loro scopo gli studj di Roma,egli è manifesto che debbonsi attribuire a Valentiniano.Celebre sopra tutte è quella con cui parecchi savissimi

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367 si associò Graziano suo figlio fanciullo appena di 8.anni. Valente dunque non appartiene punto all'Italia, sucui egli non ebbe dominio alcuno. Valentiniano che inmezzo a singolari virtù che il renderono uno dei piùgrandi sovrani, ebbe ancora non pochi difetti, e quellosingolarmente di una eccessiva severità e di un impetuo-so e infrenabile sdegno, fu ancora uom colto e amantedella letteratura, poichè Ausonio afferma ch'egli ancheimperadore dilettavasi talvolta di verseggiare (Auson.Op. p. 373 ed. Paris. 1730), anzi rammenta un Centonedi versi virgiliani in occasione di nozze da lui composto;e Ammiano Marcellino aggiugne (l. 30, c. 9) ch'egliscrivea e dipingeva ancora assai bene, e che, benchèfosse parco nel ragionare, avea ciò non ostante dell'elo-quenza. Ei nondimeno l'accusa (ib. c. 8) che, a somi-glianza di Adriano, per una cotal vanità di comparireegli solo in ogni cosa eccellente, invidiasse agli uominidotti da cui potesse temere di essere superato. Ma chec-chessia di un tal difetto, che in lui non riconosceva Te-mistio, il quale anzi ne loda la regale munificenza concui fomentava gli studj, concedendo premj ed onori achi in essi si esercitava con lode (Or 11.), esso certo nonlo distolse dal provvedere ai mezzi con cui avvivar sem-pre più il fervore nel coltivarli. Ne abbiamo in pruovaparecchie leggi, le quali benchè siano pubblicate a nomecomune di lui e del suo fratello Valente, avendo essenondimeno per singolar loro scopo gli studj di Roma,egli è manifesto che debbonsi attribuire a Valentiniano.Celebre sopra tutte è quella con cui parecchi savissimi

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provvedimenti da lui si danno intorno alla condotta diquelli che per motivo di studio venivano a Roma. Ella èben degna di esser qui riportata distesamente (Cod.theod. l. 14, tit. 9, lex 1). Quicumque ad Urbem discendicupiditate veniunt primitus ad Magistrum Census Pro-vincialium Judicum, a quibus copia est danda veniundi,ejusmodi litteras proferant, ut oppida hominum et nata-les et merita expressa teneantur. Deinde ut in primo sta-tim, profitteantur introitu, quibus potissimum studiisoperam navare proponant Tertio ut hospitia corum sol-licita Censualium, norit officium, quo ei rei impertiantcuram, quam se adseruerint expetisse. Idem immineantCensuales, ut singuli eorum tales se in conventibuspraebeant, quales esse debent, qui turpem inhonestam-que famam et consociationes (quas proximas putamasesse criminibus) aestimerit fugiendas, neve spectaculafrequentius adeant, aut adpetant vulgo intempestivaconvivia. Quin etiam tribuimus potestatem, ut si quis dehis non ita in Urbe se gesserit, quemadmodum libera-lium rerum dignitas poscat, publice verberibus adfectus,statimque navigio superpositus abjiciatur Urbe, do-mumque redeat. His sane, qui sedulam operam profes-sionibus navant, usque ad vigesimum aetatis suae an-num Romae licet commorari. Post id vero tempus, quineglexit sponte remeare, sollicitudine Praefecturaeetiam impurius ad patriam revertatur. Verum ne haecperfunctorie fortasse curentur, praecelsa sinceritas tuaofficium Censuale commoneat, ut per singulos menses,qui, vel unde veniant, quive sint, pro ratione temporis

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provvedimenti da lui si danno intorno alla condotta diquelli che per motivo di studio venivano a Roma. Ella èben degna di esser qui riportata distesamente (Cod.theod. l. 14, tit. 9, lex 1). Quicumque ad Urbem discendicupiditate veniunt primitus ad Magistrum Census Pro-vincialium Judicum, a quibus copia est danda veniundi,ejusmodi litteras proferant, ut oppida hominum et nata-les et merita expressa teneantur. Deinde ut in primo sta-tim, profitteantur introitu, quibus potissimum studiisoperam navare proponant Tertio ut hospitia corum sol-licita Censualium, norit officium, quo ei rei impertiantcuram, quam se adseruerint expetisse. Idem immineantCensuales, ut singuli eorum tales se in conventibuspraebeant, quales esse debent, qui turpem inhonestam-que famam et consociationes (quas proximas putamasesse criminibus) aestimerit fugiendas, neve spectaculafrequentius adeant, aut adpetant vulgo intempestivaconvivia. Quin etiam tribuimus potestatem, ut si quis dehis non ita in Urbe se gesserit, quemadmodum libera-lium rerum dignitas poscat, publice verberibus adfectus,statimque navigio superpositus abjiciatur Urbe, do-mumque redeat. His sane, qui sedulam operam profes-sionibus navant, usque ad vigesimum aetatis suae an-num Romae licet commorari. Post id vero tempus, quineglexit sponte remeare, sollicitudine Praefecturaeetiam impurius ad patriam revertatur. Verum ne haecperfunctorie fortasse curentur, praecelsa sinceritas tuaofficium Censuale commoneat, ut per singulos menses,qui, vel unde veniant, quive sint, pro ratione temporis

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ad Africam vel ad caeteras Provincias remittendi brevi-bus comprehendat, his dumtaxat exceptis, qui Corpora-torum sunt oneribus adjuncti. Similes autem brevisetiam ad scrinia mansuetudinis nostrae annis singulisdirigantur: quo meritis singulorum institutionibusquecompertis utrum quandoque nobis sint necessaria judi-cemus. Dat. IIII. Id. Mart. Triv. Valentiniano et ValenteIII. A. A. Coss. Intorno alla qual legge veggansi le anno-tazioni e le riflessioni del Gotofredo ne' suoi Comenti alCodice teodosiano. Ermando Conringio in una disserta-zione da lui pubblicata su questa legge (Sallengre t. 3.Thes. Antiq.), e il p. Gius. Caraffa chierico regol. nellaerudita sua opera de Gymnasio romano (t. 1, c. 3), ilquale ha diligentemente raccolte tutte le leggi a favordegli studj dagl'imperadori promulgate.

XI. Nè agli scolari soltanto, ma a' profes-sori ancora provvide saggiamente Valenti-niano. E primieramente per togliere ogniforza al divieto che a' Cristiani avea fatto

Giuliano, egli permise che chiunque per probità e pereloquenza fosse abile ad istruire i fanciulli, aprisse pub-blica scuola, o, se aveala interrotta, la ripigliasse (Cod.theod. l. 22, tit. 3, lex 6). A' medici e a' professori tutti diRoma confermò il privilegio di esenzione da' pubbliciaggravj, dichiarando che di esso godessero le lor mogliancora, e che non fossero costretti ad arrolarsi nella mi-lizia, nè ad alloggiare i soldati (ib. l. 7) Alle Gallie anco-

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Altre leggida lui perciòpubblicate.

ad Africam vel ad caeteras Provincias remittendi brevi-bus comprehendat, his dumtaxat exceptis, qui Corpora-torum sunt oneribus adjuncti. Similes autem brevisetiam ad scrinia mansuetudinis nostrae annis singulisdirigantur: quo meritis singulorum institutionibusquecompertis utrum quandoque nobis sint necessaria judi-cemus. Dat. IIII. Id. Mart. Triv. Valentiniano et ValenteIII. A. A. Coss. Intorno alla qual legge veggansi le anno-tazioni e le riflessioni del Gotofredo ne' suoi Comenti alCodice teodosiano. Ermando Conringio in una disserta-zione da lui pubblicata su questa legge (Sallengre t. 3.Thes. Antiq.), e il p. Gius. Caraffa chierico regol. nellaerudita sua opera de Gymnasio romano (t. 1, c. 3), ilquale ha diligentemente raccolte tutte le leggi a favordegli studj dagl'imperadori promulgate.

XI. Nè agli scolari soltanto, ma a' profes-sori ancora provvide saggiamente Valenti-niano. E primieramente per togliere ogniforza al divieto che a' Cristiani avea fatto

Giuliano, egli permise che chiunque per probità e pereloquenza fosse abile ad istruire i fanciulli, aprisse pub-blica scuola, o, se aveala interrotta, la ripigliasse (Cod.theod. l. 22, tit. 3, lex 6). A' medici e a' professori tutti diRoma confermò il privilegio di esenzione da' pubbliciaggravj, dichiarando che di esso godessero le lor mogliancora, e che non fossero costretti ad arrolarsi nella mi-lizia, nè ad alloggiare i soldati (ib. l. 7) Alle Gallie anco-

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Altre leggida lui perciòpubblicate.

ra ei rivolse il pensiero, e ordinò ad Antonio che ne eraprefetto, che nelle più popolose città vi fossero retori egramatici greci ugualmente e latini, che tenessero pub-blica scuola, e sul regio fisco assegnò loro un giusto sti-pendio (ib l. 11). E perchè alcuni per sottrarsi agl'impie-ghi e agli aggravj che nella lor patria avrebbe lor conve-nuto di sostenere, sen venivano a Roma, e vantandosivalorosi filosofi pretendevano di godere de' privilegi lorconceduti, egli comandò che trattine quelli che con dili-gente esame fossero riconosciuti degni di cotal nome,gli altri se ne tornassero alle lor case; "perciocchè,dic'egli (Cod. Justin. lib. 10, tit. 52, lex 8), ella è cosaindegna che chi si vanta di sostenere i colpi ancora dellafortuna, non voglia poi ancora sostenere gl'impieghi del-la sua patria." Vedremo altrove le prudentissime leggich'egli prescrisse a' medici, perchè essi esercitasserol'arte loro in quella maniera che al vantaggio pubblico ènecessaria. Tutte le quali leggi ci fan conoscere chiara-mente quanto fosse Valentiniano sollecito perchè fioris-ser le scienze, e perchè i loro coltivatori godessero diquegli agi che più dolce rendono il coltivarle. Abbiamoancora una legge di Valentiniano e di Valente dell'an.372, in cui alcuni opportuni provvedimenti si danno perla pubblica biblioteca; ma, come chiaramente dimostrail Gotofredo nelle note al Codice teodosiano (ad l. 14,tit. 9, lex 2), essa non appartiene che alla città di Costan-tinopoli, e non deesi perciò attribuire che al solo Valen-te.

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ra ei rivolse il pensiero, e ordinò ad Antonio che ne eraprefetto, che nelle più popolose città vi fossero retori egramatici greci ugualmente e latini, che tenessero pub-blica scuola, e sul regio fisco assegnò loro un giusto sti-pendio (ib l. 11). E perchè alcuni per sottrarsi agl'impie-ghi e agli aggravj che nella lor patria avrebbe lor conve-nuto di sostenere, sen venivano a Roma, e vantandosivalorosi filosofi pretendevano di godere de' privilegi lorconceduti, egli comandò che trattine quelli che con dili-gente esame fossero riconosciuti degni di cotal nome,gli altri se ne tornassero alle lor case; "perciocchè,dic'egli (Cod. Justin. lib. 10, tit. 52, lex 8), ella è cosaindegna che chi si vanta di sostenere i colpi ancora dellafortuna, non voglia poi ancora sostenere gl'impieghi del-la sua patria." Vedremo altrove le prudentissime leggich'egli prescrisse a' medici, perchè essi esercitasserol'arte loro in quella maniera che al vantaggio pubblico ènecessaria. Tutte le quali leggi ci fan conoscere chiara-mente quanto fosse Valentiniano sollecito perchè fioris-ser le scienze, e perchè i loro coltivatori godessero diquegli agi che più dolce rendono il coltivarle. Abbiamoancora una legge di Valentiniano e di Valente dell'an.372, in cui alcuni opportuni provvedimenti si danno perla pubblica biblioteca; ma, come chiaramente dimostrail Gotofredo nelle note al Codice teodosiano (ad l. 14,tit. 9, lex 2), essa non appartiene che alla città di Costan-tinopoli, e non deesi perciò attribuire che al solo Valen-te.

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XII. Ciò non ostante Ammian Marcellinoparlando dello stato a cui in questi tempiera Roma (l. 28, c. 4), ce ne fa una tetra eorribile dipintura, e ce la rappresenta comesepolta in tutti i più infami vizj; e per ispie-

gare a qual segno fosse arrivata insieme col libertinag-gio ancor l'ignoranza, dice che alcuni, odiando quasi ve-leno il sapere, non curavansi di leggere altri libri fuor-chè il satirico Giovenale e lo storico Mario Massimo, dicui nel Libro II si è fatto cenno. Più ampiamente ancora,anzi con una eccessiva lunghezza, egli non molto dopodescrive (l. 30, c. 4) lo stato infelice in cui le lettere era-no in Oriente a questi tempi medesimi, e il reo uso chedell'eloquenza e della giurisprudenza comunemente fa-cevasi. Ma di ciò che ivi accadesse, non è mio intento diragionare. Così tutte le leggi promulgate a promuover lescienze non giovan punto, quando il costume è guastoper tal maniera che gli uomini unicamente occupati de'lor piaceri poco, o nulla si curano degli studj e delle artie si può qui ancora applicare il detto del medesimo Am-mian Marcellino, il quale nel passo sopraccitato parlan-do del libertinaggio romano dice che i delitti e le sozzu-re dissimulate per lungo tempo dalla negligenza de' go-vernanti eransi radicate per modo che il famoso CreteseEpimenide non sarebbe stato valevole a ripurgarneRoma. Convien dir nondimeno che molto numero di fo-restieri venisse a questa città per motivo di studio, poi-

235

Nondimeno in Roma sono in deca-dimento le lettere.

XII. Ciò non ostante Ammian Marcellinoparlando dello stato a cui in questi tempiera Roma (l. 28, c. 4), ce ne fa una tetra eorribile dipintura, e ce la rappresenta comesepolta in tutti i più infami vizj; e per ispie-

gare a qual segno fosse arrivata insieme col libertinag-gio ancor l'ignoranza, dice che alcuni, odiando quasi ve-leno il sapere, non curavansi di leggere altri libri fuor-chè il satirico Giovenale e lo storico Mario Massimo, dicui nel Libro II si è fatto cenno. Più ampiamente ancora,anzi con una eccessiva lunghezza, egli non molto dopodescrive (l. 30, c. 4) lo stato infelice in cui le lettere era-no in Oriente a questi tempi medesimi, e il reo uso chedell'eloquenza e della giurisprudenza comunemente fa-cevasi. Ma di ciò che ivi accadesse, non è mio intento diragionare. Così tutte le leggi promulgate a promuover lescienze non giovan punto, quando il costume è guastoper tal maniera che gli uomini unicamente occupati de'lor piaceri poco, o nulla si curano degli studj e delle artie si può qui ancora applicare il detto del medesimo Am-mian Marcellino, il quale nel passo sopraccitato parlan-do del libertinaggio romano dice che i delitti e le sozzu-re dissimulate per lungo tempo dalla negligenza de' go-vernanti eransi radicate per modo che il famoso CreteseEpimenide non sarebbe stato valevole a ripurgarneRoma. Convien dir nondimeno che molto numero di fo-restieri venisse a questa città per motivo di studio, poi-

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Nondimeno in Roma sono in deca-dimento le lettere.

chè non avrebbe Valentiniano promulgata la legge danoi poc'anzi recata, se l'occasione e il bisogno non aves-se richiesto; e vedrassi ciò ancora più chiaramente quan-do avremo a parlare de' celebri professori d'eloquenzache vennero a Roma, e degli onori che vi riceverono.Ma anche nell'epoca precedente abbiamo osservato chemaggior era il numero degli stranieri i quali per coltiva-re le scienze venivano a Roma, che non de' Romani iquali nella lor patria stessa le coltivassero.

XIII. A questi tempi medesimi par cheappartenga un altro amaro rimproveroche lo stesso Ammian Marcellino fa a'Romani, intorno al niun conto che face-vasi de' buoni studj. Egli dopo aver detto

(l. 14, c. 6), parlando pure dello stato di Roma al tempoin cui egli scriveva, che le case nelle quali una volta sicoltivavan gli studj, risonavano allora del suono di mollistromenti, che a' filosofi succeduti erano i musici, aglioratori i giocolieri, e che le biblioteche erano a guisa disepolcri perpetuamente chiuse, così aggiugne: "Final-mente a tale indegnità si è giunto perfino che costrin-gendosi non ha molto per timore di carestia ad uscireprecipitosamente di Roma tutti gli stranieri, i coltivatoridelle belle arti ne sono stati, benchè fossero in piccolnumero, immediatamente cacciati... ma a tremila salta-trici co' loro Cori e con altrettanti loro maestri non si èpur fatto motto." Ammiano scriveva, come vedremo,

236

Testimonianzasopra ciò diAmmiano Mar-cellino.

chè non avrebbe Valentiniano promulgata la legge danoi poc'anzi recata, se l'occasione e il bisogno non aves-se richiesto; e vedrassi ciò ancora più chiaramente quan-do avremo a parlare de' celebri professori d'eloquenzache vennero a Roma, e degli onori che vi riceverono.Ma anche nell'epoca precedente abbiamo osservato chemaggior era il numero degli stranieri i quali per coltiva-re le scienze venivano a Roma, che non de' Romani iquali nella lor patria stessa le coltivassero.

XIII. A questi tempi medesimi par cheappartenga un altro amaro rimproveroche lo stesso Ammian Marcellino fa a'Romani, intorno al niun conto che face-vasi de' buoni studj. Egli dopo aver detto

(l. 14, c. 6), parlando pure dello stato di Roma al tempoin cui egli scriveva, che le case nelle quali una volta sicoltivavan gli studj, risonavano allora del suono di mollistromenti, che a' filosofi succeduti erano i musici, aglioratori i giocolieri, e che le biblioteche erano a guisa disepolcri perpetuamente chiuse, così aggiugne: "Final-mente a tale indegnità si è giunto perfino che costrin-gendosi non ha molto per timore di carestia ad uscireprecipitosamente di Roma tutti gli stranieri, i coltivatoridelle belle arti ne sono stati, benchè fossero in piccolnumero, immediatamente cacciati... ma a tremila salta-trici co' loro Cori e con altrettanti loro maestri non si èpur fatto motto." Ammiano scriveva, come vedremo,

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Testimonianzasopra ciò diAmmiano Mar-cellino.

verso i tempi di Teodosio il grande; e perciò di una cosa,accaduta a' tempi di Valentiniano poteva ragionare comecosa di recente avvenuta. Infatti pare che di questo edit-to medesimo favelli Simmaco che fu prefetto di Romal'an. 384, allor quando dice (l. 2, ep. 7): "Noi temiamo lacarestia, e perciò cacciamo coloro a cui Roma aveaaperto liberalmente il seno; e supponiamo ancora checon tal mezzo venghiamo ad esser sicuri: ma questa si-curezza medesima quale odio delle provincie tutte ac-cende contro di noi!" Quindi questa potè appunto esserequella fame che fu in Roma a' tempi di Graziano, cioèl'anno 383 in cui questo ottimo principe fu ucciso, o inalcun altro degli anni ultimi di questo secolo, ne' qualisembra che frequente fosse in Roma, e in tutta Italia lacarestia. Io facilmente mi persuado che vi abbia dellaesagerazione in questo e negli altri sopraccitati passi diAmmian Marcellino, il quale parmi scrittore che tutte lecose ci rappresenti nel più nero aspetto di cui siano ca-paci. Ma ei non dovea certo fingere interamente, scri-vendo di cose di cui potevan essere testimonj coloro cheleggevano le sue Storie, e convien perciò confessareche, benchè non mancassero in Roma anche al presenteuomini e professori assai eruditi ed eloquenti, assai non-dimeno infelice era generalmente lo stato della romanaletteratura.

XIV. Valentiniano I finì di vivere l'anno 375per un eccessivo trasporto di collera da cui

237

Elogiodell'imp.Graziano.

verso i tempi di Teodosio il grande; e perciò di una cosa,accaduta a' tempi di Valentiniano poteva ragionare comecosa di recente avvenuta. Infatti pare che di questo edit-to medesimo favelli Simmaco che fu prefetto di Romal'an. 384, allor quando dice (l. 2, ep. 7): "Noi temiamo lacarestia, e perciò cacciamo coloro a cui Roma aveaaperto liberalmente il seno; e supponiamo ancora checon tal mezzo venghiamo ad esser sicuri: ma questa si-curezza medesima quale odio delle provincie tutte ac-cende contro di noi!" Quindi questa potè appunto esserequella fame che fu in Roma a' tempi di Graziano, cioèl'anno 383 in cui questo ottimo principe fu ucciso, o inalcun altro degli anni ultimi di questo secolo, ne' qualisembra che frequente fosse in Roma, e in tutta Italia lacarestia. Io facilmente mi persuado che vi abbia dellaesagerazione in questo e negli altri sopraccitati passi diAmmian Marcellino, il quale parmi scrittore che tutte lecose ci rappresenti nel più nero aspetto di cui siano ca-paci. Ma ei non dovea certo fingere interamente, scri-vendo di cose di cui potevan essere testimonj coloro cheleggevano le sue Storie, e convien perciò confessareche, benchè non mancassero in Roma anche al presenteuomini e professori assai eruditi ed eloquenti, assai non-dimeno infelice era generalmente lo stato della romanaletteratura.

XIV. Valentiniano I finì di vivere l'anno 375per un eccessivo trasporto di collera da cui

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Elogiodell'imp.Graziano.

fu preso parlando cogli ambasciadori de' Quadi. Grazia-no suo figlio, e già, come abbiam detto, dichiarato augu-sto da suo padre, aveva allora 16 anni di età. L'esercitovolle avere un altro imperadore ancor più fanciullo, e gliassociò il suo fratello Valentiniano II che non contavaneche 4, o 5. Frattanto Valente combattendo contro de'Goti, sconfitto da essi, e rifugiatosi in una casa, vi fu da'nemici arso vivo l'anno 378. Graziano accorre al soccor-so dell'impero orientale, e chiama in suo aiuto Teodosiocapitano sperimentato che vince e risospinge di là dalDanubio i barbari vincitori; e perciò da Graziano vieneinnalzato all'impero d'Oriente. Graziano principe diamabilissima indole e di singolari virtù faceva concepirdi se stesso le più liete speranze, e gli studj ancora pote-vano lusingarsi di avere in lui uno splendido protettore.Aveali egli coltivati diligentemente sotto la direzione delcel. Ausonio, cui per segno di gratitudine sollevò posciaall'onore del consolato. Questi ne loda assai l'eloquenza,la grazia, la forza dal ragionare (Gratiar. actio pro con-sul. n. 68), e altrove dice ch'essendo imperadore, tutto iltempo che dalle guerre e dagli affari gli rimaneva libero,soleva impiegare ne' poetici studj (epigr. 1): Arma inter, Chunnosque truces, furtoque nocentes Sauromatas quantum cessat de tempore belli, Indulget Clariis tantum inter castra Camoenis. Vix posuit volucres stridentia tela sagittas, Musarum ad calamos fertur manus; otia nescit, Et commutata meditatur arundine carmen. Sed carmen non molle modis; bella horrida Martis

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fu preso parlando cogli ambasciadori de' Quadi. Grazia-no suo figlio, e già, come abbiam detto, dichiarato augu-sto da suo padre, aveva allora 16 anni di età. L'esercitovolle avere un altro imperadore ancor più fanciullo, e gliassociò il suo fratello Valentiniano II che non contavaneche 4, o 5. Frattanto Valente combattendo contro de'Goti, sconfitto da essi, e rifugiatosi in una casa, vi fu da'nemici arso vivo l'anno 378. Graziano accorre al soccor-so dell'impero orientale, e chiama in suo aiuto Teodosiocapitano sperimentato che vince e risospinge di là dalDanubio i barbari vincitori; e perciò da Graziano vieneinnalzato all'impero d'Oriente. Graziano principe diamabilissima indole e di singolari virtù faceva concepirdi se stesso le più liete speranze, e gli studj ancora pote-vano lusingarsi di avere in lui uno splendido protettore.Aveali egli coltivati diligentemente sotto la direzione delcel. Ausonio, cui per segno di gratitudine sollevò posciaall'onore del consolato. Questi ne loda assai l'eloquenza,la grazia, la forza dal ragionare (Gratiar. actio pro con-sul. n. 68), e altrove dice ch'essendo imperadore, tutto iltempo che dalle guerre e dagli affari gli rimaneva libero,soleva impiegare ne' poetici studj (epigr. 1): Arma inter, Chunnosque truces, furtoque nocentes Sauromatas quantum cessat de tempore belli, Indulget Clariis tantum inter castra Camoenis. Vix posuit volucres stridentia tela sagittas, Musarum ad calamos fertur manus; otia nescit, Et commutata meditatur arundine carmen. Sed carmen non molle modis; bella horrida Martis

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Odrysii, Tressaeque viraginis arma retractat. Exulta Aeacides, celebraris vate superbo Rursum; Romanusque tibi contingit Homerus.

Egli è da credere che in queste lodi avesse non picciolaparte l'adulazione. Non si può però dubitare che Grazia-no non avesse e talento e inclinazione a coltivare nonmeno che a fomentare le lettere.

XV. Ma le belle speranze che di lui si eranoconcepite, svaniron presto poichè sollevato-si contro di lui Massimo suo generale l'an.

383, mentre il giovane principe abbandonato dalle suetruppe, cerca di salvarsi fuggendo, raggiunto ed arresta-to a Lione vi fu ucciso in età di soli 24 anni. Teodosio fucostretto a dissimulare per alcun tempo, e a riconoscerMassimo imperadore, per timore ch'egli non opprimesseil giovinetto Valentiniano II. Ma avendo il tiranno co-stretto Valentiniano a fuggir dall'Italia, Teodosio venutocon lui a guerra il vinse ed ebbelo nelle mani; e mentreegli inclinava a usargli pietà Massimo da' soldati fu uc-ciso l'an. 388. Valentiniano II rimesso sul trono d'Occi-dente sotto la tutela di Giustina sua madre, celebre pelcieco impetuoso suo zelo a favore dell'arianesimo, pocotempo vi si mantenne, ucciso egli pure l'an. 392 in età disoli 20 anni per opera del ribelle suo generale Arboga-sto. Ma questi ancora insieme con Eugenio da lui postosul trono periron presto sconfitti da Teodosio l'an. 394,quegli uccisosi di sua propria mano, questi per comando

239

Carattere diTeodosio.

Odrysii, Tressaeque viraginis arma retractat. Exulta Aeacides, celebraris vate superbo Rursum; Romanusque tibi contingit Homerus.

Egli è da credere che in queste lodi avesse non picciolaparte l'adulazione. Non si può però dubitare che Grazia-no non avesse e talento e inclinazione a coltivare nonmeno che a fomentare le lettere.

XV. Ma le belle speranze che di lui si eranoconcepite, svaniron presto poichè sollevato-si contro di lui Massimo suo generale l'an.

383, mentre il giovane principe abbandonato dalle suetruppe, cerca di salvarsi fuggendo, raggiunto ed arresta-to a Lione vi fu ucciso in età di soli 24 anni. Teodosio fucostretto a dissimulare per alcun tempo, e a riconoscerMassimo imperadore, per timore ch'egli non opprimesseil giovinetto Valentiniano II. Ma avendo il tiranno co-stretto Valentiniano a fuggir dall'Italia, Teodosio venutocon lui a guerra il vinse ed ebbelo nelle mani; e mentreegli inclinava a usargli pietà Massimo da' soldati fu uc-ciso l'an. 388. Valentiniano II rimesso sul trono d'Occi-dente sotto la tutela di Giustina sua madre, celebre pelcieco impetuoso suo zelo a favore dell'arianesimo, pocotempo vi si mantenne, ucciso egli pure l'an. 392 in età disoli 20 anni per opera del ribelle suo generale Arboga-sto. Ma questi ancora insieme con Eugenio da lui postosul trono periron presto sconfitti da Teodosio l'an. 394,quegli uccisosi di sua propria mano, questi per comando

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Carattere diTeodosio.

di Teodosio che rimase per tal maniera imperadoredell'Oriente e dell'Occidente insieme co' due suoi figliArcadio e Onorio. Egli ancora però finì presto di vivere,morto in Milano nel seguente anno 395 in età di 50anni; principe per pietà, per valore, per tutte le più bellevirtù degno d'essere paragonato co' più illustri sovrani, edi cui tutti gli antichi scrittori gentili non meno che cri-stiani parlano co' più grandi elogj, e che solo in questiultimi anni è stato maltrattato da alcuni, presso i qualil'onorare e il proteggere la religione è troppo grave enon perdonabil delitto. A' tempi di questi imperadorinon troviamo nè alcuna legge, nè altra cosa veruna fattaa pro delle lettere. Anzi a questo tempo medesimo si deefissare ciò che racconta Simmaco che di questi giorniappunto viveva in Roma; cioè che a' professori del ro-mano ateneo tolti furono gli stipendi, di cui per legge dimolti imperadori solevan essi godere. Spera, scrive eglia Efestione, plures tibi actutum hospites adfuturos, post-quam romanae juventutis magistris subsidia detractasunt solemnis alimoniae (l. 5, ep. 33). Per qual motivociò si facesse, nè Simmaco il dice, nè alcun altro anticoautore; ma egli è verisimile che ciò avvenisse in occa-sione della carestia da cui Roma fu più volte a questitempi travagliata ed afflitta; e forse le cose continuaronosul piede medesimo sino a' tempi di Atalarico, di cui ve-dremo che fece legge che a' professori si pagassero i do-vuti stipendj.

240

di Teodosio che rimase per tal maniera imperadoredell'Oriente e dell'Occidente insieme co' due suoi figliArcadio e Onorio. Egli ancora però finì presto di vivere,morto in Milano nel seguente anno 395 in età di 50anni; principe per pietà, per valore, per tutte le più bellevirtù degno d'essere paragonato co' più illustri sovrani, edi cui tutti gli antichi scrittori gentili non meno che cri-stiani parlano co' più grandi elogj, e che solo in questiultimi anni è stato maltrattato da alcuni, presso i qualil'onorare e il proteggere la religione è troppo grave enon perdonabil delitto. A' tempi di questi imperadorinon troviamo nè alcuna legge, nè altra cosa veruna fattaa pro delle lettere. Anzi a questo tempo medesimo si deefissare ciò che racconta Simmaco che di questi giorniappunto viveva in Roma; cioè che a' professori del ro-mano ateneo tolti furono gli stipendi, di cui per legge dimolti imperadori solevan essi godere. Spera, scrive eglia Efestione, plures tibi actutum hospites adfuturos, post-quam romanae juventutis magistris subsidia detractasunt solemnis alimoniae (l. 5, ep. 33). Per qual motivociò si facesse, nè Simmaco il dice, nè alcun altro anticoautore; ma egli è verisimile che ciò avvenisse in occa-sione della carestia da cui Roma fu più volte a questitempi travagliata ed afflitta; e forse le cose continuaronosul piede medesimo sino a' tempi di Atalarico, di cui ve-dremo che fece legge che a' professori si pagassero i do-vuti stipendj.

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XVI. Dopo la morte di Teodosio l'imperooccidentale prese un rovinoso tracollo. Ono-rio principe debole e senza virtù ugualmenteche senza vizj, e Stilicone suo ministro e ge-neral dell'armata, uomo in cui i grandi vizj

pareggiavano le grandi virtù, lo trassero al precipizio,quegli colla sua viltà, questi coll'abuso de' suoi talenti. IGoti, i Vandali, gli Alani, gli Svevi ed altri popoli barba-ri cominciano a invadere l'italia e le altre provincie. Sti-licone li combatte con felicità uguale al suo valore, e livince e li rispinge più volte; ma poscia spinto dall'ambi-zione e avido di porre sul capo ad Eucherio suo figliol'imperial diadema, egli stesso di nuovo gl'invita in Ita-lia. Nè egli nè Eucherio non poteron godere il frutto dellor delitto, uccisi amendue per ordine di Onorio, poichèebbe scoperte le loro trame. Ma frattanto Alarico con unimmenso esercito de' suoi Goti ritornato in Italia, perl'imprudenza e per la viltà di Onorio giunge finalmentead entrare col suo esercito in Roma l'an. 410. Quali fos-sero i funesti effetti del sacco che per tre giorni le diede-ro i Barbari, egli è più facile immaginarlo che accertar-lo. Niuno degli scrittori che ne ragionano trovavasi allo-ra in Roma, o in altra città vicina, molti ancora sono ditempo assai posteriore. Quindi certe spaventose imma-gini che ce ne rappresentano alcuni, egli è probabile chesiano esagerate alquanto, come veggiamo spesso acca-dere che le relazioni di un fatto accaduto tanto si accre-scan più, quanto più s'allontanan dal luogo in cui è acca-duto. Alarico uscito di Roma morì poco dopo nella Ca-

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Infelice sta-to dell'impero a' tempi di Onorio.

XVI. Dopo la morte di Teodosio l'imperooccidentale prese un rovinoso tracollo. Ono-rio principe debole e senza virtù ugualmenteche senza vizj, e Stilicone suo ministro e ge-neral dell'armata, uomo in cui i grandi vizj

pareggiavano le grandi virtù, lo trassero al precipizio,quegli colla sua viltà, questi coll'abuso de' suoi talenti. IGoti, i Vandali, gli Alani, gli Svevi ed altri popoli barba-ri cominciano a invadere l'italia e le altre provincie. Sti-licone li combatte con felicità uguale al suo valore, e livince e li rispinge più volte; ma poscia spinto dall'ambi-zione e avido di porre sul capo ad Eucherio suo figliol'imperial diadema, egli stesso di nuovo gl'invita in Ita-lia. Nè egli nè Eucherio non poteron godere il frutto dellor delitto, uccisi amendue per ordine di Onorio, poichèebbe scoperte le loro trame. Ma frattanto Alarico con unimmenso esercito de' suoi Goti ritornato in Italia, perl'imprudenza e per la viltà di Onorio giunge finalmentead entrare col suo esercito in Roma l'an. 410. Quali fos-sero i funesti effetti del sacco che per tre giorni le diede-ro i Barbari, egli è più facile immaginarlo che accertar-lo. Niuno degli scrittori che ne ragionano trovavasi allo-ra in Roma, o in altra città vicina, molti ancora sono ditempo assai posteriore. Quindi certe spaventose imma-gini che ce ne rappresentano alcuni, egli è probabile chesiano esagerate alquanto, come veggiamo spesso acca-dere che le relazioni di un fatto accaduto tanto si accre-scan più, quanto più s'allontanan dal luogo in cui è acca-duto. Alarico uscito di Roma morì poco dopo nella Ca-

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Infelice sta-to dell'impero a' tempi di Onorio.

labria. Ma ciò non ostante l'impero non ebbe pace, eparvero rinnovarsi i tempi di Gallieno, quando da ogniparte sorgevan usurpatori del trono, e da ogni parte sbu-cavano Barbari a devastar le provincie. Così dopo 28anni d'infelicissimo regno morì Onorio a Ravenna l'an.423 in età di soli 39 anni. Arcadio suo fratello impera-dor d'Oriente era morto fin dall'an. 408, lasciandol'impero al suo figliuolo Teodosio II, fanciullo di solisette anni.

XVII. Valentiniano III, figliuol di Pla-cidia sorella di Onorio e del gener. Co-stanzo, poichè fu ucciso l'an. 425 Gio-

vanni segretario di Onorio che avea usurpato l'impero,fu da Teodosio II innalzato alla dignità imperialenell'Occidente sotto la tutela della sua madre Placidia,poichè egli era fanciullo di 7 anui. L'Italia sotto l'imperodi Valentiniano III fu per lungo tempo tranquilla; mentrefrattanto le rivalità del co. Bonifacio e del gener. Aeziotrassero in rovina l'Africa, e in parte ancora la Francia ela Spagna. Ma l'an. 452 il cel. Attila re degli Unni invi-tato da Onoria sorella dell'imperadore colla promessadelle sue nozze e della metà dell'impero entra furiosa-mente in Italia, espugna Aquilea, e corre saccheggiandoe incendiando gran parte d'Italia. A Roma soprastavaprobabilmente l'ultimo eccidio, se il gran pontef. S. Leo-ne venutogli incontro presso a Mantova non avesse collasua eloquenza impiacevolito quel barbaro, e determina-

242

E sotto Valenti-niano III.

labria. Ma ciò non ostante l'impero non ebbe pace, eparvero rinnovarsi i tempi di Gallieno, quando da ogniparte sorgevan usurpatori del trono, e da ogni parte sbu-cavano Barbari a devastar le provincie. Così dopo 28anni d'infelicissimo regno morì Onorio a Ravenna l'an.423 in età di soli 39 anni. Arcadio suo fratello impera-dor d'Oriente era morto fin dall'an. 408, lasciandol'impero al suo figliuolo Teodosio II, fanciullo di solisette anni.

XVII. Valentiniano III, figliuol di Pla-cidia sorella di Onorio e del gener. Co-stanzo, poichè fu ucciso l'an. 425 Gio-

vanni segretario di Onorio che avea usurpato l'impero,fu da Teodosio II innalzato alla dignità imperialenell'Occidente sotto la tutela della sua madre Placidia,poichè egli era fanciullo di 7 anui. L'Italia sotto l'imperodi Valentiniano III fu per lungo tempo tranquilla; mentrefrattanto le rivalità del co. Bonifacio e del gener. Aeziotrassero in rovina l'Africa, e in parte ancora la Francia ela Spagna. Ma l'an. 452 il cel. Attila re degli Unni invi-tato da Onoria sorella dell'imperadore colla promessadelle sue nozze e della metà dell'impero entra furiosa-mente in Italia, espugna Aquilea, e corre saccheggiandoe incendiando gran parte d'Italia. A Roma soprastavaprobabilmente l'ultimo eccidio, se il gran pontef. S. Leo-ne venutogli incontro presso a Mantova non avesse collasua eloquenza impiacevolito quel barbaro, e determina-

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E sotto Valenti-niano III.

tolo a tornarsene alle sue provincie, ove poco dopo fuucciso. Ma una particolar circostanza non vuolsi quiomettere, che troppo da vicino appartiene al nostro argo-mento, cioè che se Attila fosse rimasto padron d'Italia,sarebbe ben presto interamente perita ogni letteratura.Egli è Pietro Alcionio nel suo libro de Exilio (p. 111),che ci ha conservata memoria, tale essere stato il pensie-ro di Attila, pensiero degno veramente di un re degliUnni. Egli introduce il card. Giovanni de' Medici a rac-contare che nella sua biblioteca eravi un libro d'incertoautor greco intorno le cose da' Goti operate in Italia, incui narravasi che Attila, poichè vi entrò vincitore, tantodesiderava di propagarvi la lingua sua propria, che fecelegge che niuno più usasse della latina, e chiamò dal suopaese maestri perchè insegnasser la gotica. Ma a dirvero, io difficilmente m'induco a dar fede a questo rac-conto; nè parmi probabile che Attila, il quale altro nonfece che correre a guisa d'impetuoso torrente l'Italia, nèpotè certo considerarla mai come sua, pensasse a pub-blicare tal legge.

XVIII. Tre anni soli sopravvisse Valentinia-no all'invasione di Attila, ucciso da' congiu-rati l'an. 455 in età di 36 anni, principe timi-do, vizioso e indolente, che vide l'imperoall'orlo di una totale rovina senza puntocommuoversi, e che abbandonando ogni

cosa in mano di pessimi consiglieri, giunse persino a uc-

243

Leggi favo-revoli aglistudj da luie da Teodo-sio II pub-blicate.

tolo a tornarsene alle sue provincie, ove poco dopo fuucciso. Ma una particolar circostanza non vuolsi quiomettere, che troppo da vicino appartiene al nostro argo-mento, cioè che se Attila fosse rimasto padron d'Italia,sarebbe ben presto interamente perita ogni letteratura.Egli è Pietro Alcionio nel suo libro de Exilio (p. 111),che ci ha conservata memoria, tale essere stato il pensie-ro di Attila, pensiero degno veramente di un re degliUnni. Egli introduce il card. Giovanni de' Medici a rac-contare che nella sua biblioteca eravi un libro d'incertoautor greco intorno le cose da' Goti operate in Italia, incui narravasi che Attila, poichè vi entrò vincitore, tantodesiderava di propagarvi la lingua sua propria, che fecelegge che niuno più usasse della latina, e chiamò dal suopaese maestri perchè insegnasser la gotica. Ma a dirvero, io difficilmente m'induco a dar fede a questo rac-conto; nè parmi probabile che Attila, il quale altro nonfece che correre a guisa d'impetuoso torrente l'Italia, nèpotè certo considerarla mai come sua, pensasse a pub-blicare tal legge.

XVIII. Tre anni soli sopravvisse Valentinia-no all'invasione di Attila, ucciso da' congiu-rati l'an. 455 in età di 36 anni, principe timi-do, vizioso e indolente, che vide l'imperoall'orlo di una totale rovina senza puntocommuoversi, e che abbandonando ogni

cosa in mano di pessimi consiglieri, giunse persino a uc-

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Leggi favo-revoli aglistudj da luie da Teodo-sio II pub-blicate.

cidere di sua mano il valoroso Aezio, perchè un vile eu-nuco gliel fece credere macchinator di congiura. Ab-biam nondimeno alcune ottime leggi intorno alle scuolee a' pubblici professori da lui insieme e da Teodosio IIpromulgate. Tra esse è memorabil quella che leggesi nelCodice di Giustiniano col titolo: De studiis liberalibusUrbis Romae et Constantinopolitanae (l. 11, tit. 18),nella quale veggiamo più cose saggiamente ordinate suquest'oggetto. Vietano essi dapprima che niuno ardiscaingerirsi da se medesimo nel difficile ministero d'istruirnelle lettere la gioventù. A coloro che nelle case privatetengono scuola non si divieta il farlo, ma quelli che in-segnano nelle scuole pubbliche del Campidoglio, nonvuolsi che possano aprire ancora scuole private. Quindisi determina il numero de' professori del Campidoglio:tre oratori ossia retori latini, e cinque sofisti greci, diecigramatici latini ed altrettanti greci. A questi si aggiungauno che spieghi le quistioni alla filosofia appartenenti,due altri che dichiarino e interpretin le leggi. Tutti i pro-fessori finalmente si vuole che abbiano le scuole lor se-parate per insegnare; sicchè non siano l'uno all'altro divicendevol disturbo. Ed ecco con questa legge formata,per così dire, una intera e compita università in Roma.Ma questa legge che, qual è espressa nel Codice di Giu-stiniano, comprende veramente anche le scuole e i pro-fessori di Roma, fu ella veramente a' tempi di Valenti-niano III pubblicata per essi ancora, o solamente perquelli di Costantinopoli? Il soprallodato p. Caraffa con-tro il sentimento del Gotofredo sostiene che fin d'allora

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cidere di sua mano il valoroso Aezio, perchè un vile eu-nuco gliel fece credere macchinator di congiura. Ab-biam nondimeno alcune ottime leggi intorno alle scuolee a' pubblici professori da lui insieme e da Teodosio IIpromulgate. Tra esse è memorabil quella che leggesi nelCodice di Giustiniano col titolo: De studiis liberalibusUrbis Romae et Constantinopolitanae (l. 11, tit. 18),nella quale veggiamo più cose saggiamente ordinate suquest'oggetto. Vietano essi dapprima che niuno ardiscaingerirsi da se medesimo nel difficile ministero d'istruirnelle lettere la gioventù. A coloro che nelle case privatetengono scuola non si divieta il farlo, ma quelli che in-segnano nelle scuole pubbliche del Campidoglio, nonvuolsi che possano aprire ancora scuole private. Quindisi determina il numero de' professori del Campidoglio:tre oratori ossia retori latini, e cinque sofisti greci, diecigramatici latini ed altrettanti greci. A questi si aggiungauno che spieghi le quistioni alla filosofia appartenenti,due altri che dichiarino e interpretin le leggi. Tutti i pro-fessori finalmente si vuole che abbiano le scuole lor se-parate per insegnare; sicchè non siano l'uno all'altro divicendevol disturbo. Ed ecco con questa legge formata,per così dire, una intera e compita università in Roma.Ma questa legge che, qual è espressa nel Codice di Giu-stiniano, comprende veramente anche le scuole e i pro-fessori di Roma, fu ella veramente a' tempi di Valenti-niano III pubblicata per essi ancora, o solamente perquelli di Costantinopoli? Il soprallodato p. Caraffa con-tro il sentimento del Gotofredo sostiene che fin d'allora

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comprese amendue le città imperiali. Ma a me sembrache le ragioni dal Gotofredo arrecate comprovino chia-ramente la sua opinione (in not. ad Cod. theod. l. 14, tit.9), poichè questa legge è connessa, com'egli osserva,con altre che appartengono a Costantinopoli, e Valenti-niano III era allora fanciullo di 7 anni, e non potè perciòaver parte in questa legge che da Teodosio solo fu pub-blicata, e poscia da Giustiniano fatta comune anche aRoma.

XIX. In fatti troppo infelice era allora lostato di questa città, perchè si potesse pen-sare a farvi rifiorire le scienze; e assai peg-giore ancor se ne fece la condizione dopo la

morte di Valentiniano III, ucciso, come si è detto, l'an.455. Poco oltre a 20 anni si mantenne ancora il romanoimpero, e in sì breve spazio di tempo vedremo nove im-peridori succedere l'uno all'altro, quasi tutti costretti adiscender dal trono appena v'eran saliti. Massimo ch'erastato, benchè occultamente, il principale autore dellamorte di Valentiniano, fu il primo a prendere il diadema,uomo che per le più luminose cariche con singolareonor sostenute sarebbene sembrata degno, se non l'aves-se usurpato. Eudossia vedova di Valentiniano, nulla sa-pendo ch'ei fosse stato il traditore di suo marito, accettòle nozze di Massimo. Ma poichè egli credendosi omaisicuro le ebbe svelato l'arcano, ella montò in furor cosìgrande, che per vendicarsi chiamò dall'Africa Genserico

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Invasionedi Genseri-co.

comprese amendue le città imperiali. Ma a me sembrache le ragioni dal Gotofredo arrecate comprovino chia-ramente la sua opinione (in not. ad Cod. theod. l. 14, tit.9), poichè questa legge è connessa, com'egli osserva,con altre che appartengono a Costantinopoli, e Valenti-niano III era allora fanciullo di 7 anni, e non potè perciòaver parte in questa legge che da Teodosio solo fu pub-blicata, e poscia da Giustiniano fatta comune anche aRoma.

XIX. In fatti troppo infelice era allora lostato di questa città, perchè si potesse pen-sare a farvi rifiorire le scienze; e assai peg-giore ancor se ne fece la condizione dopo la

morte di Valentiniano III, ucciso, come si è detto, l'an.455. Poco oltre a 20 anni si mantenne ancora il romanoimpero, e in sì breve spazio di tempo vedremo nove im-peridori succedere l'uno all'altro, quasi tutti costretti adiscender dal trono appena v'eran saliti. Massimo ch'erastato, benchè occultamente, il principale autore dellamorte di Valentiniano, fu il primo a prendere il diadema,uomo che per le più luminose cariche con singolareonor sostenute sarebbene sembrata degno, se non l'aves-se usurpato. Eudossia vedova di Valentiniano, nulla sa-pendo ch'ei fosse stato il traditore di suo marito, accettòle nozze di Massimo. Ma poichè egli credendosi omaisicuro le ebbe svelato l'arcano, ella montò in furor cosìgrande, che per vendicarsi chiamò dall'Africa Genserico

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Invasionedi Genseri-co.

re de' Vandali. Questi viene in Italia con un possenteesercito. I soldati romani atterriti si rivolgono contro diMassimo, e dopo tre soli non interi mesi d'impero lo uc-cidono. Ma Genserico s'avanza ed entra furiosamente inRoma. Il gran pontef. S. Leone che avea calmato il furi-bondo Attila, ottenne ancora dal Vandalo, che non usas-se coll'infelice città e co' miseri cittadini nè fuoco nètormenti nè strage. Quattordici giorni durò il saccheg-gio, e quanto di più pregevole potè cader nelle mani dique' barbari ingordi, di tutto fecer bottino, e carichi dipreda con un gran numero di prigionieri sen tornaronoin Africa. Avito, nato di ragguardevol famiglianell'Alvernia, e gener. delle truppe romane, qualchetempo dopo la morte di Massimo fu proclamato impera-dor nelle Gallie, e riconosciuto ancor da Marciano im-perador d'Oriente sen venne a Roma, seco conducendoil cel. Apollinare Sidonio, a cui avea data in moglie unasua figlia. Questi recitò pubblicamente in Roma un pa-negirico in versi in lode del suo suocero (Carm. 7), en'ebbe l'onore di una statua di bronzo innalzatagli nelForo di Traiano (id. Carm. 8). Ma benchè egli ne dicagrandissime lodi, gli storici quasi tutti nondimeno insie-me con molte virtù riconoscono in lui molti vizj. Pocotempo però egli ebbe a dar saggio di se medesimo; poi-chè dopo un breve impero di poco oltre ad un anno, Ri-cimero da lui mandato contro de' Vandali, tornandonevincitore, se gli rivolse contro, e costrettolo a deporre laporpora, per timore che non la ripigliasse, il fè ordinarvescovo di Piacenza. Ma Avito amando meglio di vivere

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re de' Vandali. Questi viene in Italia con un possenteesercito. I soldati romani atterriti si rivolgono contro diMassimo, e dopo tre soli non interi mesi d'impero lo uc-cidono. Ma Genserico s'avanza ed entra furiosamente inRoma. Il gran pontef. S. Leone che avea calmato il furi-bondo Attila, ottenne ancora dal Vandalo, che non usas-se coll'infelice città e co' miseri cittadini nè fuoco nètormenti nè strage. Quattordici giorni durò il saccheg-gio, e quanto di più pregevole potè cader nelle mani dique' barbari ingordi, di tutto fecer bottino, e carichi dipreda con un gran numero di prigionieri sen tornaronoin Africa. Avito, nato di ragguardevol famiglianell'Alvernia, e gener. delle truppe romane, qualchetempo dopo la morte di Massimo fu proclamato impera-dor nelle Gallie, e riconosciuto ancor da Marciano im-perador d'Oriente sen venne a Roma, seco conducendoil cel. Apollinare Sidonio, a cui avea data in moglie unasua figlia. Questi recitò pubblicamente in Roma un pa-negirico in versi in lode del suo suocero (Carm. 7), en'ebbe l'onore di una statua di bronzo innalzatagli nelForo di Traiano (id. Carm. 8). Ma benchè egli ne dicagrandissime lodi, gli storici quasi tutti nondimeno insie-me con molte virtù riconoscono in lui molti vizj. Pocotempo però egli ebbe a dar saggio di se medesimo; poi-chè dopo un breve impero di poco oltre ad un anno, Ri-cimero da lui mandato contro de' Vandali, tornandonevincitore, se gli rivolse contro, e costrettolo a deporre laporpora, per timore che non la ripigliasse, il fè ordinarvescovo di Piacenza. Ma Avito amando meglio di vivere

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tranquillamente, postosi perciò in viaggio verso la suapatria, morì prima di giungervi.

XX. D'allora in poi Ricimero ful'arbitro, per così dire, del diademaimperiale, senza però ch'egli giammaisi curasse di ornarsene il capo, o per-

chè fosse allora così avvilita la dignità del trono, chenon sembrasse oggetto a bramarsi, o perchè gli paressecosa più gloriosa il farvi ascendere, o discenderne chipiù gli piacesse che il salirvi egli stesso. Dopo la mortedi Avito passarono parecchi mesi senza che si nominas-se alcun imperador d'Occidente. All'ultimo fu sollevatoal trono Maggioriano gener. dell'armate, di cui tutti gliscrittori di questi tempi commendano sommamente laprudenza, il coraggio, l'affabilità, la modestia e tutte lepiù belle virtù degne di un monarca. In lode ancora dilui scrisse Sidonio un panegirico in versi (Carm. 5) e in-nanzi ad esso recitollo in Lione; e ne parla ancora piùvolte, e cel rappresenta come ottimo principe e amantedella letteratura (l. 1, ep. 11). Le belle doti di Maggioria-no, e le vittorie che contro de' Barbari avea già egli ri-portate felicemente, davano qualche speranza chel'impero fosse per risalire all'antica sua dignità. Mal'ambizioso Ricimero veggendolo crescere ogni giornopiù in autorità e in potere, il fece crudelmente ucciderepresso Tortona a' 7 d'ag. dell'an. 461, dopo poco oltre a3 anni d'impero. Quella gelosia medesima che avea con-

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Serie degl'imperado-ri da Avito fino a Olibrio.

tranquillamente, postosi perciò in viaggio verso la suapatria, morì prima di giungervi.

XX. D'allora in poi Ricimero ful'arbitro, per così dire, del diademaimperiale, senza però ch'egli giammaisi curasse di ornarsene il capo, o per-

chè fosse allora così avvilita la dignità del trono, chenon sembrasse oggetto a bramarsi, o perchè gli paressecosa più gloriosa il farvi ascendere, o discenderne chipiù gli piacesse che il salirvi egli stesso. Dopo la mortedi Avito passarono parecchi mesi senza che si nominas-se alcun imperador d'Occidente. All'ultimo fu sollevatoal trono Maggioriano gener. dell'armate, di cui tutti gliscrittori di questi tempi commendano sommamente laprudenza, il coraggio, l'affabilità, la modestia e tutte lepiù belle virtù degne di un monarca. In lode ancora dilui scrisse Sidonio un panegirico in versi (Carm. 5) e in-nanzi ad esso recitollo in Lione; e ne parla ancora piùvolte, e cel rappresenta come ottimo principe e amantedella letteratura (l. 1, ep. 11). Le belle doti di Maggioria-no, e le vittorie che contro de' Barbari avea già egli ri-portate felicemente, davano qualche speranza chel'impero fosse per risalire all'antica sua dignità. Mal'ambizioso Ricimero veggendolo crescere ogni giornopiù in autorità e in potere, il fece crudelmente ucciderepresso Tortona a' 7 d'ag. dell'an. 461, dopo poco oltre a3 anni d'impero. Quella gelosia medesima che avea con-

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Serie degl'imperado-ri da Avito fino a Olibrio.

dotto Ricimero a un tal delitto, lo consigliò a porre sultrono un cotal Severo uomo da nulla, e di cui altra me-moria non ci è rimasta, se non che i Barbari profittandodella sua debolezza inondarono da ogni parte l'impero.Egli il tenne per circa 4 anni, morto l'an. 465 per veleno,come si crede, datogli da Ricimero. Due anni rimase al-lora vacante l'Impero occidentale; occasione troppo op-portuna a' Barbari per estendere sempre più le loro con-quiste. Finalmente i Romani chiesero a Leone imp.d'Oriente Antemio uomo di illustre famiglia in Costanti-nopoli, e valoroso nell'armi, e Leone datagli la coronaimperiale mandollo in Italia l'an. 467. Egli per aver fa-vorevole la potenza di Ricimero, diegli una sua figlia inmoglie. Ma ciò non ostante si accese presto tra essi unafatal dissensione, che sopita per qualche tempo da s.Epifanio vesc. di Pavia, si riaccese poi più crudele, efinì colla morte di Antemio ucciso da Ricimero l'an.472, e con un terzo saccheggiamento di Roma forse piùcrudele de' primi due. Antemio ancora fu con un poeticopanegirico lodato in Roma da Apollinare Sidonio(Carm. 2) che n'ebbe in ricompensa l'onorevol carica diprefetto della città (id. l. 1, ep. 9). Fra le altre lodi egline esalta il profondo studio di quanto gli antichi filosofiaveano scritto, e la diligente lettura di tutti i migliori au-tori greci e latini. Frattanto Olibrio che da Leone. imp.d'Oriente era stato inviato in Italia per sostenere Ante-mio, essendo giunto, quando egli era già morto, fu in-nalzato egli stesso per opera del medesimo Ricimero altrono. Ma l'anno stesso e il nuovo imperadore e Ricime-

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dotto Ricimero a un tal delitto, lo consigliò a porre sultrono un cotal Severo uomo da nulla, e di cui altra me-moria non ci è rimasta, se non che i Barbari profittandodella sua debolezza inondarono da ogni parte l'impero.Egli il tenne per circa 4 anni, morto l'an. 465 per veleno,come si crede, datogli da Ricimero. Due anni rimase al-lora vacante l'Impero occidentale; occasione troppo op-portuna a' Barbari per estendere sempre più le loro con-quiste. Finalmente i Romani chiesero a Leone imp.d'Oriente Antemio uomo di illustre famiglia in Costanti-nopoli, e valoroso nell'armi, e Leone datagli la coronaimperiale mandollo in Italia l'an. 467. Egli per aver fa-vorevole la potenza di Ricimero, diegli una sua figlia inmoglie. Ma ciò non ostante si accese presto tra essi unafatal dissensione, che sopita per qualche tempo da s.Epifanio vesc. di Pavia, si riaccese poi più crudele, efinì colla morte di Antemio ucciso da Ricimero l'an.472, e con un terzo saccheggiamento di Roma forse piùcrudele de' primi due. Antemio ancora fu con un poeticopanegirico lodato in Roma da Apollinare Sidonio(Carm. 2) che n'ebbe in ricompensa l'onorevol carica diprefetto della città (id. l. 1, ep. 9). Fra le altre lodi egline esalta il profondo studio di quanto gli antichi filosofiaveano scritto, e la diligente lettura di tutti i migliori au-tori greci e latini. Frattanto Olibrio che da Leone. imp.d'Oriente era stato inviato in Italia per sostenere Ante-mio, essendo giunto, quando egli era già morto, fu in-nalzato egli stesso per opera del medesimo Ricimero altrono. Ma l'anno stesso e il nuovo imperadore e Ricime-

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ro ancora finirono i loro giorni.

XXI. L'Impero occidentale è omai vicinoall'ultimo suo totale sterminio; e una guerracivile si aggiunge alle altre sue sciagure.Glicerio sollevato al trono da' Romani trova

un rivale in Giulio Nipote a cui Leone imp. d'Oriente,sdegnato, perchè non fosse stato richiesto del suo con-senso per l'elezion di Glicerio, conferisce la corona im-periale. Glicerio è costretto a deporla, e Nipote il fa or-dinar vescovo di Salona in Dalmazia l'an. 474. Mal'anno seguente egli ancora è costretto da Oreste gener.delle Gallie a fuggire da Roma, e a ritirarsi in quella cit-tà medesima di cui avea fatto ordinar vescovo Glicerio,e dove egli fu poi ucciso l'anno 480. Oreste fa proclama-re imperadore Romolo soprannomato Augustolo. Inquesto spregevol principe finì l'Impero romano. I Barba-ri, di cui in ogni parte eran piene tutte le provincie, e dicui erano in gran parte composte le truppe ancor del'impero, pretesero di avere in lor proprietà la metà delleterre d'Italia; il che avendo lor ricusato Oreste, Odoacrescelto da essi a lor capo, si volge dapprima contro Ore-ste, e assediatolo in Pavia, e vinta e saccheggiata quellacittà, lo fa uccidere quindi sen va a Roma, e vi si fa pro-clamare re d'Italia; finalmente passa a Ravenna, spogliaAugustolo della porpora, e assegnatogli di che vivereagiatamente, il confina in un castello presso Napoli; e intal maniera l'an. 476 1'Italia e tutto l'Impero occidentale

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Finedell'imperoromano.

ro ancora finirono i loro giorni.

XXI. L'Impero occidentale è omai vicinoall'ultimo suo totale sterminio; e una guerracivile si aggiunge alle altre sue sciagure.Glicerio sollevato al trono da' Romani trova

un rivale in Giulio Nipote a cui Leone imp. d'Oriente,sdegnato, perchè non fosse stato richiesto del suo con-senso per l'elezion di Glicerio, conferisce la corona im-periale. Glicerio è costretto a deporla, e Nipote il fa or-dinar vescovo di Salona in Dalmazia l'an. 474. Mal'anno seguente egli ancora è costretto da Oreste gener.delle Gallie a fuggire da Roma, e a ritirarsi in quella cit-tà medesima di cui avea fatto ordinar vescovo Glicerio,e dove egli fu poi ucciso l'anno 480. Oreste fa proclama-re imperadore Romolo soprannomato Augustolo. Inquesto spregevol principe finì l'Impero romano. I Barba-ri, di cui in ogni parte eran piene tutte le provincie, e dicui erano in gran parte composte le truppe ancor del'impero, pretesero di avere in lor proprietà la metà delleterre d'Italia; il che avendo lor ricusato Oreste, Odoacrescelto da essi a lor capo, si volge dapprima contro Ore-ste, e assediatolo in Pavia, e vinta e saccheggiata quellacittà, lo fa uccidere quindi sen va a Roma, e vi si fa pro-clamare re d'Italia; finalmente passa a Ravenna, spogliaAugustolo della porpora, e assegnatogli di che vivereagiatamente, il confina in un castello presso Napoli; e intal maniera l'an. 476 1'Italia e tutto l'Impero occidentale

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Finedell'imperoromano.

si trova in potere de' Barbari, e lor suddita e schiava siriconosce quella Roma medesima, il cui solo nome pertanti secoli riempiuti aveali di terrore.

XXII. Io son venuto brevemente accennan-do le principali vicende dell'impero rom.,perchè esse troppo son necessarie a cono-scer lo stato dell'Italiana Letteratura a questi

tempi. Ognun vede se in un sì grande sconvolgimento dicose poteva aspettarsi ch'essa fiorisse felicemente. Leinvasioni de' Barbari, le interne discordie, i saccheggia-menti, gl'incendj, le stragi, come condusser l'impero allasua estrema rovina, così condussero ancor le lettere auna total decadenza. Pochi erano quelli che avesseroagio per coltivarle; e quelli ancora che aveano e talentoe inclinazione per esse, vivendo e conversando conti-nuamente in mezzo ai Barbari, ne contraevano, per cosìdire, una cotal barbarie e rozzezza, che troppo chiara siscuopre nelle loro opere. Veggasi ciò che ne abbiam det-to nella Dissertazione preliminare premessa a questoTomo. Non è dunque a stupire se scarsa materia di ra-gionare e tenue materia di lode per la nostra Italia ci sioffrirà in quest'epoca, anzi ella è cosa degna di maravi-glia che in mezzo a sì grandi e sì universali disastri purnon mancassero totalmente gli uomini dotti; e si trovas-se ancora chi d'ogni suo potere usasse felicemente nelcoltivare e nel promuover le scienze.

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Pubblichecalamità dique' tempi.

si trova in potere de' Barbari, e lor suddita e schiava siriconosce quella Roma medesima, il cui solo nome pertanti secoli riempiuti aveali di terrore.

XXII. Io son venuto brevemente accennan-do le principali vicende dell'impero rom.,perchè esse troppo son necessarie a cono-scer lo stato dell'Italiana Letteratura a questi

tempi. Ognun vede se in un sì grande sconvolgimento dicose poteva aspettarsi ch'essa fiorisse felicemente. Leinvasioni de' Barbari, le interne discordie, i saccheggia-menti, gl'incendj, le stragi, come condusser l'impero allasua estrema rovina, così condussero ancor le lettere auna total decadenza. Pochi erano quelli che avesseroagio per coltivarle; e quelli ancora che aveano e talentoe inclinazione per esse, vivendo e conversando conti-nuamente in mezzo ai Barbari, ne contraevano, per cosìdire, una cotal barbarie e rozzezza, che troppo chiara siscuopre nelle loro opere. Veggasi ciò che ne abbiam det-to nella Dissertazione preliminare premessa a questoTomo. Non è dunque a stupire se scarsa materia di ra-gionare e tenue materia di lode per la nostra Italia ci sioffrirà in quest'epoca, anzi ella è cosa degna di maravi-glia che in mezzo a sì grandi e sì universali disastri purnon mancassero totalmente gli uomini dotti; e si trovas-se ancora chi d'ogni suo potere usasse felicemente nelcoltivare e nel promuover le scienze.

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Pubblichecalamità dique' tempi.

CAPO II.Studj sacri.

I. La pace che Costantino diede alla Chie-sa, e l'onore a cui sollevolla, permise e diècoraggio a quelli tra i Cristiani, che dal lorministero vi eran chiamati, a rivolgersi confervore ad illustrare, co' loro scritti que' sa-cri studi co' quali potesse la religione e dif-fondersi più ampiamente, e valorosamente

difendersi da' suoi nemici. In fatti i più dotti e i più cele-bri tra' Santi Padri fioriron nel IV. secolo, o al principiodel V, così nella Chiesa greca ch'ebbe un Atanasio, unBasilio, un Gregorio nazianzeno, un Giovanni Grisosto-mo, come nella latina ch'ebbe un Girolamo, un Ambro-gio, un Agostino. Ma noi non dobbiamo parlare chedegl'Italiani, e di essi ancora ci basterà l'accennar qual-che cosa, perciocchè, come altrove si è detto, tutto ciòche appartiene agli scrittori ecclesiastici, è stato già datanti valenti scrittori rischiarato per modo, che appenaaltro ci rimarrebbe a fare che ripetere inutilmente ciòche da essi si è detto.

II. E primieramente io penso che fino daquesti tempi cominciassero i vescovi ed iparrochi ancora a tenere nelle loro caseuna scuola, dirò così, di sacra letteratura,

in cui i chierici fossero istruiti in quelle scienze che al

251

Gli studi sa-cri comin-ciano ad es-sere coltivaticon maggiorcoraggio.

Scuole eccle-siastiche in-trodotte.

CAPO II.Studj sacri.

I. La pace che Costantino diede alla Chie-sa, e l'onore a cui sollevolla, permise e diècoraggio a quelli tra i Cristiani, che dal lorministero vi eran chiamati, a rivolgersi confervore ad illustrare, co' loro scritti que' sa-cri studi co' quali potesse la religione e dif-fondersi più ampiamente, e valorosamente

difendersi da' suoi nemici. In fatti i più dotti e i più cele-bri tra' Santi Padri fioriron nel IV. secolo, o al principiodel V, così nella Chiesa greca ch'ebbe un Atanasio, unBasilio, un Gregorio nazianzeno, un Giovanni Grisosto-mo, come nella latina ch'ebbe un Girolamo, un Ambro-gio, un Agostino. Ma noi non dobbiamo parlare chedegl'Italiani, e di essi ancora ci basterà l'accennar qual-che cosa, perciocchè, come altrove si è detto, tutto ciòche appartiene agli scrittori ecclesiastici, è stato già datanti valenti scrittori rischiarato per modo, che appenaaltro ci rimarrebbe a fare che ripetere inutilmente ciòche da essi si è detto.

II. E primieramente io penso che fino daquesti tempi cominciassero i vescovi ed iparrochi ancora a tenere nelle loro caseuna scuola, dirò così, di sacra letteratura,

in cui i chierici fossero istruiti in quelle scienze che al

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Gli studi sa-cri comin-ciano ad es-sere coltivaticon maggiorcoraggio.

Scuole eccle-siastiche in-trodotte.

loro stato si convenivano. Un canone del secondo Con-cilio di Vaison celebrato l'an. 529, riferito dal dotto p.Thomasin (Discipl. de Benef. pars 2, lib. 1. c. 88, n. 10),rende alla nostra Italia quest'autorevole testimonianza.Omnes presbyteri, qui sunt in parochiis constituti, se-cundum consuetudinem, quam per totam Italiam satissalubriter teneri cognovimus, juniores lectores secum indomo retineant, et eos, quomodo bon patres, spirituaiternutrientes, Psalmos parare, divinis lectionibus insistere,et in lege Domini erudire contendant, ut sibi dignos suc-cessores provideant. Il qual canone, benchè altro nonprovi se non che nel VI secolo era in Italia un tal uso,nondimeno sembra ancora che accenni che assai primaesso vi era introdotto; e tale è in fatti l'opinione del so-praccitato scrittore, il quale pensa che fin da' tempi piùantichi s'istituissero cotali scuole sacre in Italia; il cheperò io credo che non debba intendersi se non de' tempidi Costantino e de' seguenti imperadori, poichè nonsembra probabile che si potesse ciò usare anche al tem-po degl'imperadori gentili. Inoltre nel IV secolo s'intro-dusse in alcune chiese d'Italia la vita comune dei chieri-ci insieme col loro vescovo. Il primo a darne l'esempioin Occidente fu, per testimonio di s. Ambrogio, s. Euse-bio vesc. di Vercelli, di cui or ora ragioneremo (s. Amb.ep. 63 ad Vercell.). Or chi può dubitare che tra gli ordi-narj esercizi di questa vita comune non fossero ancorfissate le ore da impiegarsi ne' sacri studj necessarj a co-loro che debbono occuparsi negli ecclesiastici ministeri?E veramente se anche nelle monastiche congregazioni

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loro stato si convenivano. Un canone del secondo Con-cilio di Vaison celebrato l'an. 529, riferito dal dotto p.Thomasin (Discipl. de Benef. pars 2, lib. 1. c. 88, n. 10),rende alla nostra Italia quest'autorevole testimonianza.Omnes presbyteri, qui sunt in parochiis constituti, se-cundum consuetudinem, quam per totam Italiam satissalubriter teneri cognovimus, juniores lectores secum indomo retineant, et eos, quomodo bon patres, spirituaiternutrientes, Psalmos parare, divinis lectionibus insistere,et in lege Domini erudire contendant, ut sibi dignos suc-cessores provideant. Il qual canone, benchè altro nonprovi se non che nel VI secolo era in Italia un tal uso,nondimeno sembra ancora che accenni che assai primaesso vi era introdotto; e tale è in fatti l'opinione del so-praccitato scrittore, il quale pensa che fin da' tempi piùantichi s'istituissero cotali scuole sacre in Italia; il cheperò io credo che non debba intendersi se non de' tempidi Costantino e de' seguenti imperadori, poichè nonsembra probabile che si potesse ciò usare anche al tem-po degl'imperadori gentili. Inoltre nel IV secolo s'intro-dusse in alcune chiese d'Italia la vita comune dei chieri-ci insieme col loro vescovo. Il primo a darne l'esempioin Occidente fu, per testimonio di s. Ambrogio, s. Euse-bio vesc. di Vercelli, di cui or ora ragioneremo (s. Amb.ep. 63 ad Vercell.). Or chi può dubitare che tra gli ordi-narj esercizi di questa vita comune non fossero ancorfissate le ore da impiegarsi ne' sacri studj necessarj a co-loro che debbono occuparsi negli ecclesiastici ministeri?E veramente se anche nelle monastiche congregazioni

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che a questi tempi s'istituirono, benchè ne fosser banditele scienze profane, vollero nondimeno i lor fondatori,che le sacre vi fossero coltivate, come nella Regola di S.Pacomio osserva il p. Mabillon (De studiis monast. c. 2,ec.); e se anche s. Benedetto volle che i suoi monasteriavessero una biblioteca, de' cui libri i monaci si potesse-ro opportunamente giovare (Reg. S. Bened. c. 48), quan-to più è a credere che ciò si usasse dal clero, a cui eranecessario singolarmente l'essere provveduto di quellascienza, senza cui non si possono esercitare i ministeriad esso affidati?

III. Noi veggiamo di fatti in Italia a' tem-pi di cui scriviamo, dottissimi uomini cheseppero difendere e propagare felicemen-te la religione col lor sapere, e ci lasciaro-no monumenti gloriosi de' loro studi. Traessi io darò il primo luogo a due celebriSardi, cioè a s. Eusebio vesc. di, Vercelli

e nativo di Cagliari, e a Lucifero vesc. della stessa cittàdi Cagliari. Illustri amendue pel magnanimo zelo concui si opposero agli Ariani e al lor protettore Costanzo,e per gli esilj e disagi che per ciò ne soffersero, pe' qualis. Eusebio ha nella Chiesa il culto di martire, come furo-no per lungo tempo compagni in vita, così ancora si uni-rono nel tempo della lor morte, da cui furono rapitiamendue, secondo s. Girolamo (in Chron.) l'an. 371, s.Eusebio in Vercelli, Lucifero in Cagliari, ove egli è an-

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Uomini illustriin tali studj, e primieramente s. Eusebio di Vercelli e Lu-cifero di Ca-gliari.

che a questi tempi s'istituirono, benchè ne fosser banditele scienze profane, vollero nondimeno i lor fondatori,che le sacre vi fossero coltivate, come nella Regola di S.Pacomio osserva il p. Mabillon (De studiis monast. c. 2,ec.); e se anche s. Benedetto volle che i suoi monasteriavessero una biblioteca, de' cui libri i monaci si potesse-ro opportunamente giovare (Reg. S. Bened. c. 48), quan-to più è a credere che ciò si usasse dal clero, a cui eranecessario singolarmente l'essere provveduto di quellascienza, senza cui non si possono esercitare i ministeriad esso affidati?

III. Noi veggiamo di fatti in Italia a' tem-pi di cui scriviamo, dottissimi uomini cheseppero difendere e propagare felicemen-te la religione col lor sapere, e ci lasciaro-no monumenti gloriosi de' loro studi. Traessi io darò il primo luogo a due celebriSardi, cioè a s. Eusebio vesc. di, Vercelli

e nativo di Cagliari, e a Lucifero vesc. della stessa cittàdi Cagliari. Illustri amendue pel magnanimo zelo concui si opposero agli Ariani e al lor protettore Costanzo,e per gli esilj e disagi che per ciò ne soffersero, pe' qualis. Eusebio ha nella Chiesa il culto di martire, come furo-no per lungo tempo compagni in vita, così ancora si uni-rono nel tempo della lor morte, da cui furono rapitiamendue, secondo s. Girolamo (in Chron.) l'an. 371, s.Eusebio in Vercelli, Lucifero in Cagliari, ove egli è an-

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Uomini illustriin tali studj, e primieramente s. Eusebio di Vercelli e Lu-cifero di Ca-gliari.

cora venerato con solenne culto. Ella è opinione comunea tutti gli scrittori di Storia Ecclesiastica, che Luciferovenuto a dissensione con s. Eusebio all'occasione delloscisma di Antiochia un nuovo scisma formasse egli stes-so, e che i suoi seguaci avessero perciò il nome di Luci-feriani. Ma il cel. p. Papebrochio, uno de' continuatoridel Bollando, con ragioni a mio parere non improbabiliha dimostrato che, benchè alcuni scismatici prendesseroveramente il nome di Luciferiani, egli però non ne fucolpevole in alcun modo, e che non mai separossi dallacomunione della cattolica Chiesa (Acta SS. maii t, 5, p.203). Or tornando al nostro argomento, amendue questidifensori della cattolica religione diedero ancora pruovedel lor sapere. Di s. Eusebio non abbiamo che alcuneLettere (Ceillier t. 5. p. 439, ec.); ma sappiamo per testi-monianza di s. Girolamo (De Script. eccl. c. 96), cheegli avea recato di greco in latino linguaggio il Comentodi Eusebio di Cesarea sopra i Salmi. Più opere ci son ri-maste di Lucifero tutte da lui indirizzate a sostenere lacattolica fede contro gli argomenti non meno che controil furor degli Ariani (V. Ceillier t. 5, p. 384, ec.). Il valo-roso ab. Cotelier ne apparecchiava, come egli stesso af-ferma, una nuova edizione (in not. ad PP. apostol. p.177); ma convien dire che dalla morte gli fosse vietato ilcondurla a fine.

IV. Un altro difensore ebbe la religione aquesto medesimo tempo in Giulio Firmico

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Giulio Fir-mico Mater-no.

cora venerato con solenne culto. Ella è opinione comunea tutti gli scrittori di Storia Ecclesiastica, che Luciferovenuto a dissensione con s. Eusebio all'occasione delloscisma di Antiochia un nuovo scisma formasse egli stes-so, e che i suoi seguaci avessero perciò il nome di Luci-feriani. Ma il cel. p. Papebrochio, uno de' continuatoridel Bollando, con ragioni a mio parere non improbabiliha dimostrato che, benchè alcuni scismatici prendesseroveramente il nome di Luciferiani, egli però non ne fucolpevole in alcun modo, e che non mai separossi dallacomunione della cattolica Chiesa (Acta SS. maii t, 5, p.203). Or tornando al nostro argomento, amendue questidifensori della cattolica religione diedero ancora pruovedel lor sapere. Di s. Eusebio non abbiamo che alcuneLettere (Ceillier t. 5. p. 439, ec.); ma sappiamo per testi-monianza di s. Girolamo (De Script. eccl. c. 96), cheegli avea recato di greco in latino linguaggio il Comentodi Eusebio di Cesarea sopra i Salmi. Più opere ci son ri-maste di Lucifero tutte da lui indirizzate a sostenere lacattolica fede contro gli argomenti non meno che controil furor degli Ariani (V. Ceillier t. 5, p. 384, ec.). Il valo-roso ab. Cotelier ne apparecchiava, come egli stesso af-ferma, una nuova edizione (in not. ad PP. apostol. p.177); ma convien dire che dalla morte gli fosse vietato ilcondurla a fine.

IV. Un altro difensore ebbe la religione aquesto medesimo tempo in Giulio Firmico

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Giulio Fir-mico Mater-no.

Materno siciliano di patria. Due opere di troppo diversoargomento abbiamo sotto un tal nome; cioè 8 libri dimatematica presa in quel senso in cui allora comune-mente intendevasi, cioè di astrologia giudiciaria, ne'quali egli raccoglie tutte le superstiziose osservazioniche di essa son proprie, e tutto ciò che a difesa di essa sipuò recare, valendosi molto del poema astronomico diManilio, di cui per altro non fa alcuna menzione; e ne èperciò da alcuni tacciato qual plagiario (V. Le Clerc.Bibl. chois. t. 2. art. 5). L'altra è un libro da lui intitola-to: De errore prophanarum religionum, in cui assai benedimostra la falsità della religion de' Gentili. Quindi ilBaronio (Ann. eccl. ad an. 355), il Tillemont (Hist. desEmper. in Constant. art. 67), il Ceillier (t. 6. p. 1) ed al-tri pensano che due autori del medesimo nome si debba-no ammettere, uno cristiano autore del libro contro iGentili, l'altro più giovane idolatra autore dell'operad'astrologia. Ma non potrebbesi egli dire che Firmicofosse prima idolatra, e allora scrivesse i libri superstizio-si, poscia fatto cristiano scrivesse in difesa della sua me-desima religione? Così di fatto pensan alcuni, e tra essiil Fabricio (Bibl. lat. l. 3, c. 8). Ma una grave difficoltàsi oppone a un tal sentimento. Firmico scrisse, o almenocompiè i suoi libri d'astrologia dopo l'an. 355 perciocchèegli fa in essi menzion di Lolliano come d'uomo ch'erastato console ordinario (l. 8, c. 15), il che appunto av-venne nel detto an. 351 (V. Fast. Consul.). Non potè eglidunque compir prima quest'opera, benchè il Tillemontper varj argomenti s'induca a credere ch'egli la comin-

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Materno siciliano di patria. Due opere di troppo diversoargomento abbiamo sotto un tal nome; cioè 8 libri dimatematica presa in quel senso in cui allora comune-mente intendevasi, cioè di astrologia giudiciaria, ne'quali egli raccoglie tutte le superstiziose osservazioniche di essa son proprie, e tutto ciò che a difesa di essa sipuò recare, valendosi molto del poema astronomico diManilio, di cui per altro non fa alcuna menzione; e ne èperciò da alcuni tacciato qual plagiario (V. Le Clerc.Bibl. chois. t. 2. art. 5). L'altra è un libro da lui intitola-to: De errore prophanarum religionum, in cui assai benedimostra la falsità della religion de' Gentili. Quindi ilBaronio (Ann. eccl. ad an. 355), il Tillemont (Hist. desEmper. in Constant. art. 67), il Ceillier (t. 6. p. 1) ed al-tri pensano che due autori del medesimo nome si debba-no ammettere, uno cristiano autore del libro contro iGentili, l'altro più giovane idolatra autore dell'operad'astrologia. Ma non potrebbesi egli dire che Firmicofosse prima idolatra, e allora scrivesse i libri superstizio-si, poscia fatto cristiano scrivesse in difesa della sua me-desima religione? Così di fatto pensan alcuni, e tra essiil Fabricio (Bibl. lat. l. 3, c. 8). Ma una grave difficoltàsi oppone a un tal sentimento. Firmico scrisse, o almenocompiè i suoi libri d'astrologia dopo l'an. 355 perciocchèegli fa in essi menzion di Lolliano come d'uomo ch'erastato console ordinario (l. 8, c. 15), il che appunto av-venne nel detto an. 351 (V. Fast. Consul.). Non potè eglidunque compir prima quest'opera, benchè il Tillemontper varj argomenti s'induca a credere ch'egli la comin-

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ciasse fino da' tempi del gran Costantino (note 3 sur Co-stantin). Al contrario il libro contro gli errori de' Gentilifu da lui indirizzato a' due fratelli imperadori Costanzo,o Costante, o, come in altre edizioni si legge, Costantinoe Costante e, qualunque di queste due lezioni noi voglia-mo seguire, convien certamente supporre che il libro fuscritto assai prima dell'an. 355 perciocchè Costantino ilgiov. Morì l'an. 340, e Costante l'an. 350 e quindi egli ènecessario il confessare che l'opera astrologica fu com-posta più tardi di quella a difesa della religione. Se dun-que non sembra probabile che un Cristiano fosse super-stizioso seguace dell'astrologia giudiciaria, il che certoin quei primi secoli non è a credere, converrà dir vera-mente che due siano stati presso al tempo medesimo gliautori del medesimo nome.

V. Intorno a s. Zenone vesc. di Verona nullasi è stabilito fondatamente fino a questi ulti-mi anni. Perciocchè quasi tutti seguendosi,come suole avvenire, l'un l'altro, hanno

scritto che i Trattati sotto il nome di lui pubblicati altronon erano che una Raccolta di sermoni presi da diversiautori e molti ancora hanno creduto che egli vivesse a'tempi dell'imp. Gallieno. Il march. Maffei è stato il pri-mo che abbia alle cose di questo s. vescovo recata piùchiara luce; e poscia gli eruditissimi fratelli Ballerini lehanno rischiarate per modo nella edizione che delle ope-re di lui hanno fatta l'an. 1739 in Verona, che omai non

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S. Zenone vescovo di Verona.

ciasse fino da' tempi del gran Costantino (note 3 sur Co-stantin). Al contrario il libro contro gli errori de' Gentilifu da lui indirizzato a' due fratelli imperadori Costanzo,o Costante, o, come in altre edizioni si legge, Costantinoe Costante e, qualunque di queste due lezioni noi voglia-mo seguire, convien certamente supporre che il libro fuscritto assai prima dell'an. 355 perciocchè Costantino ilgiov. Morì l'an. 340, e Costante l'an. 350 e quindi egli ènecessario il confessare che l'opera astrologica fu com-posta più tardi di quella a difesa della religione. Se dun-que non sembra probabile che un Cristiano fosse super-stizioso seguace dell'astrologia giudiciaria, il che certoin quei primi secoli non è a credere, converrà dir vera-mente che due siano stati presso al tempo medesimo gliautori del medesimo nome.

V. Intorno a s. Zenone vesc. di Verona nullasi è stabilito fondatamente fino a questi ulti-mi anni. Perciocchè quasi tutti seguendosi,come suole avvenire, l'un l'altro, hanno

scritto che i Trattati sotto il nome di lui pubblicati altronon erano che una Raccolta di sermoni presi da diversiautori e molti ancora hanno creduto che egli vivesse a'tempi dell'imp. Gallieno. Il march. Maffei è stato il pri-mo che abbia alle cose di questo s. vescovo recata piùchiara luce; e poscia gli eruditissimi fratelli Ballerini lehanno rischiarate per modo nella edizione che delle ope-re di lui hanno fatta l'an. 1739 in Verona, che omai non

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S. Zenone vescovo di Verona.

vi è più luogo nè a questione, nè a dubbio (15). Essi dun-que han chiaramente mostrato (in Proleg. zenonian.) ches. Zenone tenne la cattedra di Verona dopo la metà delIV sec., cioè tra gli anni 356 e 380; e ch'egli è veramen-te l'autore de' 93 trattati su varj argomenti sacri, e singo-larmente scritturali, che divisi in due libri si veggono intutti i codici a penna benchè in essi egli abbia imitatoLattanzio e s. Ilario. Essi hanno ancora valorosamentedifesa la dottrina del s. vescovo dalle accuse che da al-cuni contro di essa si eran mosse; e finalmente tutto ciòche appartiene alla vita, alle opere, al culto di esso, han-no colla consueta loro erudizione e diligenza illustrato.A me basterà dunque l'aver qui accennato in breve ciòche essi dimostrano ampiamente, e aggiugnerò soloch'essi con qualche probabile conghiettura pensano ches. Zenone fosse nativo di Cesarea nella Mauritania. Maben ci dee esser lecito il dargli luogo tra' nostri per lacattedra vescovile ch'ebbe tra noi. Ed egli ancora dee ot-tener buon nome tra' coltivatori della letteratura, per-ciocchè lo stile da lui usato ha una cotal dolcezza ed ele-ganza sua propria, che di raro s'incontra negli scrittori diquesti tempi.

15 Il ch. Monsig. Gio: Jacopo Dionisi can. di Verona ci ha data nel 1784un'italiana versione delle opere di s. Zenone illustrate con note, premessaviuna nuova vita del s. vescovo.

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vi è più luogo nè a questione, nè a dubbio (15). Essi dun-que han chiaramente mostrato (in Proleg. zenonian.) ches. Zenone tenne la cattedra di Verona dopo la metà delIV sec., cioè tra gli anni 356 e 380; e ch'egli è veramen-te l'autore de' 93 trattati su varj argomenti sacri, e singo-larmente scritturali, che divisi in due libri si veggono intutti i codici a penna benchè in essi egli abbia imitatoLattanzio e s. Ilario. Essi hanno ancora valorosamentedifesa la dottrina del s. vescovo dalle accuse che da al-cuni contro di essa si eran mosse; e finalmente tutto ciòche appartiene alla vita, alle opere, al culto di esso, han-no colla consueta loro erudizione e diligenza illustrato.A me basterà dunque l'aver qui accennato in breve ciòche essi dimostrano ampiamente, e aggiugnerò soloch'essi con qualche probabile conghiettura pensano ches. Zenone fosse nativo di Cesarea nella Mauritania. Maben ci dee esser lecito il dargli luogo tra' nostri per lacattedra vescovile ch'ebbe tra noi. Ed egli ancora dee ot-tener buon nome tra' coltivatori della letteratura, per-ciocchè lo stile da lui usato ha una cotal dolcezza ed ele-ganza sua propria, che di raro s'incontra negli scrittori diquesti tempi.

15 Il ch. Monsig. Gio: Jacopo Dionisi can. di Verona ci ha data nel 1784un'italiana versione delle opere di s. Zenone illustrate con note, premessaviuna nuova vita del s. vescovo.

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VI. Celebri ugualmente furono al medesi-mo tempo due santi vescovi di Brescia, s.Filastrio, e s. Gaudenzo che a s. Filastriosuccedette in quel vescovado circa l'an.

387. La vita e le opere di amendue sono state con som-ma erudizione illustrate dal dott. can. Paolo Gagliardinell'edizione de' PP Bresciani fatta l'an. 1738, il qualegli ha ancora difesi contro l'ingiusta censura che il trop-po severo e poco esatto Dupin ne ha fatto nella sua Bi-blioteca degli scrittori ecclesiastici. Di qual patria essifossero, non si può nè accertare, nè conghietturare. S.Gaudenzo però sembra che probabilmente si possa cre-der bresciano, come osserva il mentovato scrittore. Di s.Filastrio abbiamo una Storia delle antiche eresie, in cui,benchè non veggasi sempre quella esattezza e precisioneche in tali opere si richiede, abbiam nondimeno tante esì pregevoli notizie, le quali invano cercherebbonsi al-trove ch'essa è giustamente avuta in gran conto daglieruditi. Di s. Gaudenzo abbiamo alcuni Sermoni di cui ilTillemont, giudice certamente migliore assai del Dupinparla con molta lode (Mem. pour l'Hist. eccl. t. 10, p.86).

VII. Alquanto più tardi fiorì s. Paolino vesc.di Nola alla qual sede ei fu innalzato l'an.410, e la tenne fino al 431. Noi non contra-steremo a' Francesì l'onore di annoverarlo

tra' loro uomini illustri, poichè ei nacque nelle Gallie, e

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S. Filastrio es. Gaudenziodi Brescia.

S. Paolinovescovo diNola.

VI. Celebri ugualmente furono al medesi-mo tempo due santi vescovi di Brescia, s.Filastrio, e s. Gaudenzo che a s. Filastriosuccedette in quel vescovado circa l'an.

387. La vita e le opere di amendue sono state con som-ma erudizione illustrate dal dott. can. Paolo Gagliardinell'edizione de' PP Bresciani fatta l'an. 1738, il qualegli ha ancora difesi contro l'ingiusta censura che il trop-po severo e poco esatto Dupin ne ha fatto nella sua Bi-blioteca degli scrittori ecclesiastici. Di qual patria essifossero, non si può nè accertare, nè conghietturare. S.Gaudenzo però sembra che probabilmente si possa cre-der bresciano, come osserva il mentovato scrittore. Di s.Filastrio abbiamo una Storia delle antiche eresie, in cui,benchè non veggasi sempre quella esattezza e precisioneche in tali opere si richiede, abbiam nondimeno tante esì pregevoli notizie, le quali invano cercherebbonsi al-trove ch'essa è giustamente avuta in gran conto daglieruditi. Di s. Gaudenzo abbiamo alcuni Sermoni di cui ilTillemont, giudice certamente migliore assai del Dupinparla con molta lode (Mem. pour l'Hist. eccl. t. 10, p.86).

VII. Alquanto più tardi fiorì s. Paolino vesc.di Nola alla qual sede ei fu innalzato l'an.410, e la tenne fino al 431. Noi non contra-steremo a' Francesì l'onore di annoverarlo

tra' loro uomini illustri, poichè ei nacque nelle Gallie, e

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S. Filastrio es. Gaudenziodi Brescia.

S. Paolinovescovo diNola.

vissevi per alcun tempo, e vi ebbe a maestro il cel. Au-sonio. Ma l'essere egli nato di famiglia senatoria roma-na, l'esser venuto ancor giovinetto in Italia, e l'avervisoggiornato per lungo tempo, l'esservi poi ritornato l'an.394, e l'avervi vissuto per lo spazio di 40 anni fino allasua morte, dà a noi pure un assai maggiore diritto di an-noverarlo tra' nostri. Io non tratterrommi però a esami-nare ciò che a lui appartiene, intorno a che si posson ve-dere, oltre a tutti i trattatori della storia e degli scrittoriecclesiastici, il ch. Muratori (Anecd. Lat. t. 7), e l'eruditop. Remondini Somasco che ne ha scritto con diligenzaed erudizion singolare (Stor. eccl. di Nola, t. 2). Oltre al-cune sue opere che si sono smarrite, molti poemi egliscrisse, e parecchi d'essi in lode del suo s. Felice diNola; e molte lettere ancora a diversi amici. Se gli uni ele altre non ci fossero tra le mani, noi avremmo ad esse-re inconsolabili della lor perdita: tanti e sì grandi elogine veggiam fare dagli scrittori che a lui furono uguali.Le lodi che ne dice Ausonio (ep. 19. et seq.), son talich'io non so qual maggior encomio potesse egli fare aVirgilio, o a Cicerone. Anche altri scrittori di quel me-desimo tempo ne parlarono in somma lode, e i loro elogisi posson vedere raccolti dal sopraccitato p. Remondini(l. c. p. 189, 469, ec.). E nondimeno chiunque ora leggei Poemi e le Lettere di s. Paolino, quanto più ne ammirala pietà, la perizia nelle Sacre Scritture, e una cotal suaparticolare dolcezza e soavità, tanto meno ne lodal'espressioni e lo stile, che non si può negare che non siabasso ed incolto. Esso però è migliore di quello che al-

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vissevi per alcun tempo, e vi ebbe a maestro il cel. Au-sonio. Ma l'essere egli nato di famiglia senatoria roma-na, l'esser venuto ancor giovinetto in Italia, e l'avervisoggiornato per lungo tempo, l'esservi poi ritornato l'an.394, e l'avervi vissuto per lo spazio di 40 anni fino allasua morte, dà a noi pure un assai maggiore diritto di an-noverarlo tra' nostri. Io non tratterrommi però a esami-nare ciò che a lui appartiene, intorno a che si posson ve-dere, oltre a tutti i trattatori della storia e degli scrittoriecclesiastici, il ch. Muratori (Anecd. Lat. t. 7), e l'eruditop. Remondini Somasco che ne ha scritto con diligenzaed erudizion singolare (Stor. eccl. di Nola, t. 2). Oltre al-cune sue opere che si sono smarrite, molti poemi egliscrisse, e parecchi d'essi in lode del suo s. Felice diNola; e molte lettere ancora a diversi amici. Se gli uni ele altre non ci fossero tra le mani, noi avremmo ad esse-re inconsolabili della lor perdita: tanti e sì grandi elogine veggiam fare dagli scrittori che a lui furono uguali.Le lodi che ne dice Ausonio (ep. 19. et seq.), son talich'io non so qual maggior encomio potesse egli fare aVirgilio, o a Cicerone. Anche altri scrittori di quel me-desimo tempo ne parlarono in somma lode, e i loro elogisi posson vedere raccolti dal sopraccitato p. Remondini(l. c. p. 189, 469, ec.). E nondimeno chiunque ora leggei Poemi e le Lettere di s. Paolino, quanto più ne ammirala pietà, la perizia nelle Sacre Scritture, e una cotal suaparticolare dolcezza e soavità, tanto meno ne lodal'espressioni e lo stile, che non si può negare che non siabasso ed incolto. Esso però è migliore di quello che al-

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lora comunemente si usava anche da' più dotti scrittori ecerto lo stile di s. Paolino nelle sue Lettere è assai menoincolto di quello di Sidonio Apollinare che vivea versoil medesimo tempo, e che godeva la fama di eloquenteoratore. Quindi al paragone degli altri poteva s. Paolinosembrare un nuovo Tullio e un nuovo Virgilio. E a ra-gione gli si dee gran lode, che molto studio e diligenzanon ordinaria conveniva usare a que' tempi per non es-sere in tutto barbaro fra tanta barbarie.

VIII. Due altre chiese d'Italia ebbero a que-sto tempo vescovi per santità non meno cheper sapere famosi, Ravenna s. Pier Grisolo-go di patria Imolese, Torino s. Massimo. Al

primo il soprannome medesimo di Grisologo rende te-stimonianza del pregio in cui se ne aveano i discorsi.Molti di essi ancor ci rimangono, ne' quali certo si scor-ge ingegno, soavità ed eloquenza, con uno stile però,che non può piacere a chi ha buon gusto di vera latinità,ma che allora dovea sembrare in confronto di quello chedagli altri si usava, come sopra si è detto, elegante e col-to. Egli fu innalzato alla sede di Ravenna verso l'an.433, e la morte se ne dee fissare all'an. 449. Di lui e del-le opere da lui composte hanno trattato con singolar dili-genza il p. Sebast. Paoli che di esse ha fatta una nuova eassai pregevole edizione, e il p. abate Ginanni ne' suoiScrittori Ravennati (t. 2, p. 187, ec.). Di s. Massimovesc. di Torino ha scritto eruditamente la Vita il can.

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S. Pier Gri-sologo e s. Massimo.

lora comunemente si usava anche da' più dotti scrittori ecerto lo stile di s. Paolino nelle sue Lettere è assai menoincolto di quello di Sidonio Apollinare che vivea versoil medesimo tempo, e che godeva la fama di eloquenteoratore. Quindi al paragone degli altri poteva s. Paolinosembrare un nuovo Tullio e un nuovo Virgilio. E a ra-gione gli si dee gran lode, che molto studio e diligenzanon ordinaria conveniva usare a que' tempi per non es-sere in tutto barbaro fra tanta barbarie.

VIII. Due altre chiese d'Italia ebbero a que-sto tempo vescovi per santità non meno cheper sapere famosi, Ravenna s. Pier Grisolo-go di patria Imolese, Torino s. Massimo. Al

primo il soprannome medesimo di Grisologo rende te-stimonianza del pregio in cui se ne aveano i discorsi.Molti di essi ancor ci rimangono, ne' quali certo si scor-ge ingegno, soavità ed eloquenza, con uno stile però,che non può piacere a chi ha buon gusto di vera latinità,ma che allora dovea sembrare in confronto di quello chedagli altri si usava, come sopra si è detto, elegante e col-to. Egli fu innalzato alla sede di Ravenna verso l'an.433, e la morte se ne dee fissare all'an. 449. Di lui e del-le opere da lui composte hanno trattato con singolar dili-genza il p. Sebast. Paoli che di esse ha fatta una nuova eassai pregevole edizione, e il p. abate Ginanni ne' suoiScrittori Ravennati (t. 2, p. 187, ec.). Di s. Massimovesc. di Torino ha scritto eruditamente la Vita il can.

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S. Pier Gri-sologo e s. Massimo.

Piergiacinto Callizia. Ma ciò non ostante molte cose an-cora s'incontrano oscure ed incerte sulla nascita, sull'età,sulle opere di questo cel. vescovo. Noi possiamo sperareche fra' molti dottissimi uomini di cui va al presenteadorno il Piemonte, e singolarmente la capitale Torino,vi sarà chi pensi ad illustrarne diligentemente la vita, epubblicarne con nuova ed accurata edizione le opere, se-parando ciò che a lui appartiene, da ciò ch'è di altri (16).Io accennerò qui solamente ciò che di lui dice Gennadio(De Viris Ill. c. 40) che il chiama assai versato nello stu-dio delle Divine Scritture, ed abile ad istruire il popoloparlando anche senza apparecchio; e quindi rammentatiparecchi libri e molte omilie da lui composte, conchiudech'egli morì regnando Onorio e Teodosio il giovane. Al-cuni però invece della parola moritur usata da Gennadiovogliono che si legga floruit, per conciliar con ciò chedice Gennadio, ciò che da altri monumenti ricavasi, cioèch'egli assistette a' Concilj di Milano nel 451, e di Romanel 465. Ma il ch. Vallarsi afferma (t. 2, Op. S. Hieron.p. 969) che a ciò si oppongono tutti i Codici a penna, ne'quali leggesi moritur.

IX. Il più celebre fra tutti i vescovi di que-sta età fu s. Ambrogio di Milano. Egli an-

16 Per opera singolarmente del regnante pontef. Pio VI abbiamo finalmenteavuta l'an. 1784 dalle stampe di Roma una bella ediz. delle Opere di s.Massimo in foglio, raccolte da molti codici mss. ed illustrate dal p. BrunoBruni delle Scuole Pie. Ma della vita del Vescovo più non si è potuto sape-re, per mancanza di monumenti, di ciò ch'era già noto.

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S. Ambrogio.

Piergiacinto Callizia. Ma ciò non ostante molte cose an-cora s'incontrano oscure ed incerte sulla nascita, sull'età,sulle opere di questo cel. vescovo. Noi possiamo sperareche fra' molti dottissimi uomini di cui va al presenteadorno il Piemonte, e singolarmente la capitale Torino,vi sarà chi pensi ad illustrarne diligentemente la vita, epubblicarne con nuova ed accurata edizione le opere, se-parando ciò che a lui appartiene, da ciò ch'è di altri (16).Io accennerò qui solamente ciò che di lui dice Gennadio(De Viris Ill. c. 40) che il chiama assai versato nello stu-dio delle Divine Scritture, ed abile ad istruire il popoloparlando anche senza apparecchio; e quindi rammentatiparecchi libri e molte omilie da lui composte, conchiudech'egli morì regnando Onorio e Teodosio il giovane. Al-cuni però invece della parola moritur usata da Gennadiovogliono che si legga floruit, per conciliar con ciò chedice Gennadio, ciò che da altri monumenti ricavasi, cioèch'egli assistette a' Concilj di Milano nel 451, e di Romanel 465. Ma il ch. Vallarsi afferma (t. 2, Op. S. Hieron.p. 969) che a ciò si oppongono tutti i Codici a penna, ne'quali leggesi moritur.

IX. Il più celebre fra tutti i vescovi di que-sta età fu s. Ambrogio di Milano. Egli an-

16 Per opera singolarmente del regnante pontef. Pio VI abbiamo finalmenteavuta l'an. 1784 dalle stampe di Roma una bella ediz. delle Opere di s.Massimo in foglio, raccolte da molti codici mss. ed illustrate dal p. BrunoBruni delle Scuole Pie. Ma della vita del Vescovo più non si è potuto sape-re, per mancanza di monumenti, di ciò ch'era già noto.

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S. Ambrogio.

cora è stato, da' Maurini autori della Storia letteraria diFrancia posto tra' loro uomini illustri (l. 1, part. 2, p.325), perchè a caso ei nacque nelle Gallie, ove Ambro-gio suo padre era allora prefetto. Ma io non so perchèabbian essi dissimulato che il padre era romano di pa-tria, e abbian detto soltanto ch'egli era di una delle piùillustri famiglie dell'impero romano. Di fatti essendo an-cor giovinetto il nostro santo sen venne a Roma (Paulli-nus in ejus vita n. 4), ed ivi attese agli studj con sì feliceriuscimento, e perorò ancor nelle cause con tanto ap-plauso (ib. n. 5), che da Probo prefetto allor del pretoriofu scelto a suo consigliere; e poscia prese l'insegne diconsole fu mandato a reggere la Liguria e l'Emilia, evenne a fissar sua dimora in Milano. Della maniera pro-digiosa con cui egli fu eletto vescovo, delle singolarivirtù di cui diede di continuo chiarissimi esempj, dellegloriose imprese del suo vescovado nel resistere corag-giosamente agli Ariani sostenuti invano dall'imperadriceGiustina, e nel mostrarsi in ogni occasione universale eamantissimo padre della sua greggia, della sua fermezzanel condurre a pubblica penitenza l'imperador Teodosio,e di tutti gli altri ammirabili pregi di santità, di pruden-za, di zelo, di cui egli fu adorno, io lascerò che ognunoconsulti que' tanti scrittori che ne han ragionato. Eglimorì l'an. 397 in età di soli 57 anni. Le molte opere chedi lui ci sono rimaste, parte d'interpretazione della S.Scrittura, parte di lettere e parte di trattati e di libri sudiversi sacri argomenti, sono un onorevole testimoniodel profondo sapere di questo s. dottore. Se se ne tragga

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cora è stato, da' Maurini autori della Storia letteraria diFrancia posto tra' loro uomini illustri (l. 1, part. 2, p.325), perchè a caso ei nacque nelle Gallie, ove Ambro-gio suo padre era allora prefetto. Ma io non so perchèabbian essi dissimulato che il padre era romano di pa-tria, e abbian detto soltanto ch'egli era di una delle piùillustri famiglie dell'impero romano. Di fatti essendo an-cor giovinetto il nostro santo sen venne a Roma (Paulli-nus in ejus vita n. 4), ed ivi attese agli studj con sì feliceriuscimento, e perorò ancor nelle cause con tanto ap-plauso (ib. n. 5), che da Probo prefetto allor del pretoriofu scelto a suo consigliere; e poscia prese l'insegne diconsole fu mandato a reggere la Liguria e l'Emilia, evenne a fissar sua dimora in Milano. Della maniera pro-digiosa con cui egli fu eletto vescovo, delle singolarivirtù di cui diede di continuo chiarissimi esempj, dellegloriose imprese del suo vescovado nel resistere corag-giosamente agli Ariani sostenuti invano dall'imperadriceGiustina, e nel mostrarsi in ogni occasione universale eamantissimo padre della sua greggia, della sua fermezzanel condurre a pubblica penitenza l'imperador Teodosio,e di tutti gli altri ammirabili pregi di santità, di pruden-za, di zelo, di cui egli fu adorno, io lascerò che ognunoconsulti que' tanti scrittori che ne han ragionato. Eglimorì l'an. 397 in età di soli 57 anni. Le molte opere chedi lui ci sono rimaste, parte d'interpretazione della S.Scrittura, parte di lettere e parte di trattati e di libri sudiversi sacri argomenti, sono un onorevole testimoniodel profondo sapere di questo s. dottore. Se se ne tragga

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un troppo frequente uso del senso allegorico della Scrit-tura, egli è certo ch'esse non sono inferiori ad alcuna, esuperiori a molte delle opere di altri scrittori di questotempo; e che in esse vedesi eloquenza, vivacità, forza, espesso grazia non ordinaria. La perizia ch'egli avea dellalingua greca, gli agevolò il valersi delle opere de' Padridi quella nazione, e singolarmente di Origene, da cuiperò con saggio discernimento ei non trasse se non ciòche era conforme a' dogmi della cattolica religione. Èsembrato ad alcuni che s. Girolamo parlasse di lui tal-volta con qualche disprezzo; ma è a leggere la bella apo-logia che su ciò ne ha fatta il dottiss. ed esattiss. p. Gio-vanni Stiltingo (Acta SS. sept. t. 8).

X. Noi dovremmo qui far menzione di moltiancora tra' romani pontefici, che ci lasciaro-no monumenti del lor sapere ma per amore

di brevità in un argomento che non ha bisogno di essereillustrato, ci basti l'accennar qualche cosa di due tra essipiù celebri, cioè di s. Damaso e di S. Leone il grande. s.Damaso da tutti comunemente gli autori vien detto spa-gnuolo. Ma il Tillemont fa veder chiaramente (Mem.pour l'Hist. eccl. in Dam. art. 1, note 1) che il padre dilui visse in Roma la più parte de' giorni suoi, e che nonsi può in alcun modo dubitare che s. Damaso e Irene suasorella ivi pur non nascessero. Ciò non ostante l'erud.can. Francesco Perez con una lunga e dotta dissertazio-ne pubblicata in Roma l'an. 1756, ha preso a ribattere gli

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S. Damaso papa.

un troppo frequente uso del senso allegorico della Scrit-tura, egli è certo ch'esse non sono inferiori ad alcuna, esuperiori a molte delle opere di altri scrittori di questotempo; e che in esse vedesi eloquenza, vivacità, forza, espesso grazia non ordinaria. La perizia ch'egli avea dellalingua greca, gli agevolò il valersi delle opere de' Padridi quella nazione, e singolarmente di Origene, da cuiperò con saggio discernimento ei non trasse se non ciòche era conforme a' dogmi della cattolica religione. Èsembrato ad alcuni che s. Girolamo parlasse di lui tal-volta con qualche disprezzo; ma è a leggere la bella apo-logia che su ciò ne ha fatta il dottiss. ed esattiss. p. Gio-vanni Stiltingo (Acta SS. sept. t. 8).

X. Noi dovremmo qui far menzione di moltiancora tra' romani pontefici, che ci lasciaro-no monumenti del lor sapere ma per amore

di brevità in un argomento che non ha bisogno di essereillustrato, ci basti l'accennar qualche cosa di due tra essipiù celebri, cioè di s. Damaso e di S. Leone il grande. s.Damaso da tutti comunemente gli autori vien detto spa-gnuolo. Ma il Tillemont fa veder chiaramente (Mem.pour l'Hist. eccl. in Dam. art. 1, note 1) che il padre dilui visse in Roma la più parte de' giorni suoi, e che nonsi può in alcun modo dubitare che s. Damaso e Irene suasorella ivi pur non nascessero. Ciò non ostante l'erud.can. Francesco Perez con una lunga e dotta dissertazio-ne pubblicata in Roma l'an. 1756, ha preso a ribattere gli

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S. Damaso papa.

argomenti del Tillemont, e a mostrare che S. Damaso fuveramente spagnuolo. Io non voglio entrar in ciò a con-tesa, e per far qui menzione di questo s. pontefice a mebasta che ei passasse in Italia almen la più parte dellasua vita, il che da niuno si nega (17). Sollevato alla catte-dra di s. Pietro l'an. 366, e cessate dopo due anni le tur-bolenze dello scisma contro di lui sollevato da Orsino,egli resse felicemente la Chiesa fino all'an. 384, e si pos-son vedere presso gli scrittori della storia ecclesiastica, enella dissertazione promessa alle sue Opere nell'edizio-ne fattane in Roma l'an. 1754 le cose da lui operate. Iodebbo solamente riflettere che a questo pontefice noidobbiamo singolarmente gli eruditi travagli di s. Girola-mo intorno alla S. Scrittura, ch'egli per comando di luiintraprese. Delle Opere di s. Damaso parla con lode lostesso s. Girolamo (De Script. eccl. c. 106) ma altro nonce n'è rimasto che alcune lettere e alcuni sacri epigram-mi, i quali però, come la più parte delle poesie di questotempo, son più pregevoli per la pietà che per l'eleganza.

XI. Niuno contrasta all'Italia l'onore di esserla patria di s. Leone; ma tra loro perciò con-

17 Io non ho preteso qui di decidere la quistione sulla patria di s. Damaso,benchè mi sia mostrato favorevole all'opinione del Tillemont che lo diceitaliano. L'ab. Lampillas (t. 2, p. 119, ec.) ha seguito il Bayero e ha messiin nuovo lume gli argomenti che provano ch'ei fu spagnuolo, i quali certohan molta forza. Lo ripeto che non voglio disputar su ciò, e che per parlardi s. Damaso mi basta ch'ei passasse in Italia la maggior parte della suavita.

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S. Leone il grande.

argomenti del Tillemont, e a mostrare che S. Damaso fuveramente spagnuolo. Io non voglio entrar in ciò a con-tesa, e per far qui menzione di questo s. pontefice a mebasta che ei passasse in Italia almen la più parte dellasua vita, il che da niuno si nega (17). Sollevato alla catte-dra di s. Pietro l'an. 366, e cessate dopo due anni le tur-bolenze dello scisma contro di lui sollevato da Orsino,egli resse felicemente la Chiesa fino all'an. 384, e si pos-son vedere presso gli scrittori della storia ecclesiastica, enella dissertazione promessa alle sue Opere nell'edizio-ne fattane in Roma l'an. 1754 le cose da lui operate. Iodebbo solamente riflettere che a questo pontefice noidobbiamo singolarmente gli eruditi travagli di s. Girola-mo intorno alla S. Scrittura, ch'egli per comando di luiintraprese. Delle Opere di s. Damaso parla con lode lostesso s. Girolamo (De Script. eccl. c. 106) ma altro nonce n'è rimasto che alcune lettere e alcuni sacri epigram-mi, i quali però, come la più parte delle poesie di questotempo, son più pregevoli per la pietà che per l'eleganza.

XI. Niuno contrasta all'Italia l'onore di esserla patria di s. Leone; ma tra loro perciò con-

17 Io non ho preteso qui di decidere la quistione sulla patria di s. Damaso,benchè mi sia mostrato favorevole all'opinione del Tillemont che lo diceitaliano. L'ab. Lampillas (t. 2, p. 119, ec.) ha seguito il Bayero e ha messiin nuovo lume gli argomenti che provano ch'ei fu spagnuolo, i quali certohan molta forza. Lo ripeto che non voglio disputar su ciò, e che per parlardi s. Damaso mi basta ch'ei passasse in Italia la maggior parte della suavita.

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S. Leone il grande.

trastano nella Italia stessa la Toscana e Roma. Il Que-snello però e i dottissimi Ballerini (V. S. Leon. Op. ed.ven. t. 2, p. 399) a Roma più che alla Toscana si mostra-no favorevoli. Io non mi tratterrò a narrare le grandicose da lui operate nel suo pontificato, cui egli tennedall'an. 440 fino al 461, e il combattere e l'atterrarch'egli fece le eresie de' Manichei, de' Pelagiani, degliEutichiani, e l'eloquenza con cui indusse Attila a ritirarsidall'Italia, e Genserico a non usare delle fiamme e delferro contro di Roma, la moltitudine e la magnificenzadegli edificj da lui o innalzati, o ristorati, e tutte in som-ma le virtù e le intraprese di questo s. pontefice, che gliacquistarono a ragione il soprannome di grande. Intornoa ciò si posson leggere le dissertazioni del sopraccitatoQuesnello, e l'erudite note ad esse aggiunte da' Ballerini,i quali peraltro confessano che una nuova e più esattaVita di questo grand'uomo converrebbe formare con piùdiligenza, che non siasi fatto finora. Io rifletterò sola-mente ciò che più appartiene al mio argomento, ch'eglifatto pontefice chiamò a sè i più dotti uomini che allorafossero nella Chiesa, per valersi del consiglio e dell'ope-ra loro (V. Op. S. Leon. l. c. p. 426). E che egli stessofosse uomo non sol nelle sacre, ma ancor nelle profanescienze profondamente versato, ce ne fan fede le Letteree i Sermoni, che di lui abbiamo, nelle quali oltre unagiusta ed esatta dottrina vedesi una gravità e un'eloquen-za non ordinaria, che in mezzo ancora a uno stile, qualeallora si usava, non troppo terso, piace ciò non ostanteed alletta assai. Quali sian le opere che a lui falsamente

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trastano nella Italia stessa la Toscana e Roma. Il Que-snello però e i dottissimi Ballerini (V. S. Leon. Op. ed.ven. t. 2, p. 399) a Roma più che alla Toscana si mostra-no favorevoli. Io non mi tratterrò a narrare le grandicose da lui operate nel suo pontificato, cui egli tennedall'an. 440 fino al 461, e il combattere e l'atterrarch'egli fece le eresie de' Manichei, de' Pelagiani, degliEutichiani, e l'eloquenza con cui indusse Attila a ritirarsidall'Italia, e Genserico a non usare delle fiamme e delferro contro di Roma, la moltitudine e la magnificenzadegli edificj da lui o innalzati, o ristorati, e tutte in som-ma le virtù e le intraprese di questo s. pontefice, che gliacquistarono a ragione il soprannome di grande. Intornoa ciò si posson leggere le dissertazioni del sopraccitatoQuesnello, e l'erudite note ad esse aggiunte da' Ballerini,i quali peraltro confessano che una nuova e più esattaVita di questo grand'uomo converrebbe formare con piùdiligenza, che non siasi fatto finora. Io rifletterò sola-mente ciò che più appartiene al mio argomento, ch'eglifatto pontefice chiamò a sè i più dotti uomini che allorafossero nella Chiesa, per valersi del consiglio e dell'ope-ra loro (V. Op. S. Leon. l. c. p. 426). E che egli stessofosse uomo non sol nelle sacre, ma ancor nelle profanescienze profondamente versato, ce ne fan fede le Letteree i Sermoni, che di lui abbiamo, nelle quali oltre unagiusta ed esatta dottrina vedesi una gravità e un'eloquen-za non ordinaria, che in mezzo ancora a uno stile, qualeallora si usava, non troppo terso, piace ciò non ostanteed alletta assai. Quali sian le opere che a lui falsamente

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si attribuiscono, veggasi presso i suddetti autori. Nel Di-zionario degli Autori Ecclesiastici stampato a Lyon l'an.1767 si dice (t. 3, p. 120) che l'ultima e la più correttaedizione dell'Opere di S. Leone è quella pubblicata dalp. Quesnel l'an. 1675. È egli possibile che in Francia sìtardi giunga la notizia de' buoni libri che si stampano InItalia, che ivi ancor non si sappia delle più esatte e piùpregevoli edizioni che ne hanno fatto tra noi il dotto p.Cacciari in Roma l'an. 1753, e i chiariss. Ballerini in Ve-nezia l'an. 1756?

XII. A questi vescovi e a questi ponteficiper santità non meno che per sapere illustrivuolsi aggiugnere ancora il cel. Rufino che,

comunque non possa ad essi uguagliarsi nella famad'uom santo, in quella nondimeno d'uom dotto non fuinferiore ad alcuno. Di lui più ampiamente e più erudita-mente di tutti han favellato monsig. Fontanini (Hist. litt.aquil. l. 4, 5), il p. de Rubeis domenic. (Monum. aquil.c. 8, et Diss. de Turranio Rufino), e il sig. Giangius. Li-ruti (Notiz. de' Letter. del Friuli t. 1, c. 6), i quali hannocon singolar diligenza esaminato ciò che a Rufino eall'Opere da lui composte appartiene. Egli vien dettoaquileiese pel lungo soggiorno e per la professione dellavita monastica ch'egli fece in quella città. Ma è certoche Aquileia non ne fu la patria, come col testimonio diS. Girolamo provano i mentovati scrittori. Qual ch'ellasi fosse, il che non è certo abbastanza, essa fu certamen-

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Rufino di Aquileja.

si attribuiscono, veggasi presso i suddetti autori. Nel Di-zionario degli Autori Ecclesiastici stampato a Lyon l'an.1767 si dice (t. 3, p. 120) che l'ultima e la più correttaedizione dell'Opere di S. Leone è quella pubblicata dalp. Quesnel l'an. 1675. È egli possibile che in Francia sìtardi giunga la notizia de' buoni libri che si stampano InItalia, che ivi ancor non si sappia delle più esatte e piùpregevoli edizioni che ne hanno fatto tra noi il dotto p.Cacciari in Roma l'an. 1753, e i chiariss. Ballerini in Ve-nezia l'an. 1756?

XII. A questi vescovi e a questi ponteficiper santità non meno che per sapere illustrivuolsi aggiugnere ancora il cel. Rufino che,

comunque non possa ad essi uguagliarsi nella famad'uom santo, in quella nondimeno d'uom dotto non fuinferiore ad alcuno. Di lui più ampiamente e più erudita-mente di tutti han favellato monsig. Fontanini (Hist. litt.aquil. l. 4, 5), il p. de Rubeis domenic. (Monum. aquil.c. 8, et Diss. de Turranio Rufino), e il sig. Giangius. Li-ruti (Notiz. de' Letter. del Friuli t. 1, c. 6), i quali hannocon singolar diligenza esaminato ciò che a Rufino eall'Opere da lui composte appartiene. Egli vien dettoaquileiese pel lungo soggiorno e per la professione dellavita monastica ch'egli fece in quella città. Ma è certoche Aquileia non ne fu la patria, come col testimonio diS. Girolamo provano i mentovati scrittori. Qual ch'ellasi fosse, il che non è certo abbastanza, essa fu certamen-

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Rufino di Aquileja.

te un luogo ad Aquileia vicino; in che tutti convengono idetti autori. Nondimeno ad altri n'è sembrato altrimenti,ed alcuni han fatto Rufino alessandrino, altri romano, al-tri spagnuolo, altri portoghese, altri di altra patria. Leopinioni de' quali dagli scrittori medesimi si dimostrache non hanno alcun probabile fondamento. E lo stessodicasi della nuova e non più udita opinione dell'ab. Qua-drio, che sul nome di Tiranio, che da alcuni si dà a Rufi-no, e su qualche altra frivola congettura, il fa nativo diTirano nella Valtellina (Diss. sulla Valtell. t. 3, p. 126).A questa mia Opera non appartiene l'entrare all'esamedelle controversie ch'egli ebbe a sostenere con s. Girola-mo, delle vicende a cui per esse fu esposto, e de' libriscritti dall'una e dall'altra parte. Tutto ciò si potrà vederepresso i mentovati autori, e presso gli altri scrittori dellastoria ecclesiastica, a' quali però conviene aggiugnerel'altre volte citato p. Stiltingo nella bella difesa ch'egliha fatta di s. Girolamo (Acta SS. sept. t. 8) accusato diavere nelle controversie con Rufino oltrepassati i limitidi una giusta moderazione. Non si può nondimeno nega-re a Rufino la lode di essere stato uomo singolarmentedotto, come le sue opere stesse ci mostrano apertamente.Ei morì in Sicilia l'an. 410 o non molto dopo.

XIII. Io lascio di parlare di altri che a que-sto tempo medesimo in tali studj furon fa-mosi in Italia poichè mi sono prefisso di

non parlare se non di passaggio di tale argomento, su cui

267

Altri scrit-tori omessi.

te un luogo ad Aquileia vicino; in che tutti convengono idetti autori. Nondimeno ad altri n'è sembrato altrimenti,ed alcuni han fatto Rufino alessandrino, altri romano, al-tri spagnuolo, altri portoghese, altri di altra patria. Leopinioni de' quali dagli scrittori medesimi si dimostrache non hanno alcun probabile fondamento. E lo stessodicasi della nuova e non più udita opinione dell'ab. Qua-drio, che sul nome di Tiranio, che da alcuni si dà a Rufi-no, e su qualche altra frivola congettura, il fa nativo diTirano nella Valtellina (Diss. sulla Valtell. t. 3, p. 126).A questa mia Opera non appartiene l'entrare all'esamedelle controversie ch'egli ebbe a sostenere con s. Girola-mo, delle vicende a cui per esse fu esposto, e de' libriscritti dall'una e dall'altra parte. Tutto ciò si potrà vederepresso i mentovati autori, e presso gli altri scrittori dellastoria ecclesiastica, a' quali però conviene aggiugnerel'altre volte citato p. Stiltingo nella bella difesa ch'egliha fatta di s. Girolamo (Acta SS. sept. t. 8) accusato diavere nelle controversie con Rufino oltrepassati i limitidi una giusta moderazione. Non si può nondimeno nega-re a Rufino la lode di essere stato uomo singolarmentedotto, come le sue opere stesse ci mostrano apertamente.Ei morì in Sicilia l'an. 410 o non molto dopo.

XIII. Io lascio di parlare di altri che a que-sto tempo medesimo in tali studj furon fa-mosi in Italia poichè mi sono prefisso di

non parlare se non di passaggio di tale argomento, su cui

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Altri scrit-tori omessi.

tanti valentuomini hanno già scritto in maniera che ap-pena resta che aggiugnere alle erudite loro fatiche. Di s.Agostino poi e di s. Girolamo non debbo fare parola, senon voglio incorrere nel difetto che spesso in altri ho ri-preso, di usurpare l'altrui; perciocchè niun di essi fu ita-liano di patria; e benchè vi abitassero per qualche tem-po, non vi fecero nondimeno sì stabil dimora, che pos-siamo a giusta ragione annoverarli tra' nostri. Solo di s.Agostino ci converrà dir qualche cosa nel Capo seguen-te per l'impiego di professore di rettorica, che per brevetempo ei sostenne in Roma e in Milano.

CAPO III.Oratori, Retori e Gramatici.

I. A dare una giusta idea dello stato a cuieran gli studj e le belle lettere a questi tempiin Italia, sembrami opportuno il prender in-cominciamento non dalla poesia, come fino-ra abbiam fatto, ma dall'eloquenza, alla qua-

le siamo or costretti per la scarsezza della materia a con-giungere ancora tutto ciò che appartiene alle pubblichescuole, e a' professori di eloquenza e di gramatica. Per-ciocchè in tal modo veggendo chi eran coloro che servi-vano agli altri di esempio e di guida, avremo a maravi-gliarci meno al rimirare le funeste rivoluzioni che nesoffriron gli studj. Noi vedremo la letteratura italiana,singolarmente in Roma, conservare ancora una cotal ap-

268

Metodo neltrattare di questo ar-gomento.

tanti valentuomini hanno già scritto in maniera che ap-pena resta che aggiugnere alle erudite loro fatiche. Di s.Agostino poi e di s. Girolamo non debbo fare parola, senon voglio incorrere nel difetto che spesso in altri ho ri-preso, di usurpare l'altrui; perciocchè niun di essi fu ita-liano di patria; e benchè vi abitassero per qualche tem-po, non vi fecero nondimeno sì stabil dimora, che pos-siamo a giusta ragione annoverarli tra' nostri. Solo di s.Agostino ci converrà dir qualche cosa nel Capo seguen-te per l'impiego di professore di rettorica, che per brevetempo ei sostenne in Roma e in Milano.

CAPO III.Oratori, Retori e Gramatici.

I. A dare una giusta idea dello stato a cuieran gli studj e le belle lettere a questi tempiin Italia, sembrami opportuno il prender in-cominciamento non dalla poesia, come fino-ra abbiam fatto, ma dall'eloquenza, alla qua-

le siamo or costretti per la scarsezza della materia a con-giungere ancora tutto ciò che appartiene alle pubblichescuole, e a' professori di eloquenza e di gramatica. Per-ciocchè in tal modo veggendo chi eran coloro che servi-vano agli altri di esempio e di guida, avremo a maravi-gliarci meno al rimirare le funeste rivoluzioni che nesoffriron gli studj. Noi vedremo la letteratura italiana,singolarmente in Roma, conservare ancora una cotal ap-

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Metodo neltrattare di questo ar-gomento.

parenza di maestà e di grandezza, e rivolgere a sè tuttoragli occhi e l'ammirazione degli stranieri; ma realmentedecadere vieppiù ogni giorno, e non ostante lo sforzo el'industria di alcuni protettori e fomentatori delle bellearti accostarsi alla sua estrema rovina.

II. E per cominciare da' pubblici professoridi eloquenza, che furono in Roma, noi netroviamo parecchi, de' quali gli autori lorocontemporanei ci dicon gran lodi; talchè noigli crederemmo quasi rivali di Cesare e di

Cicerone. Ma le loro opere che ci sono rimaste, ci fanconoscere doversi detrarre molto da cotai lodi, e ci mo-strano che il buon gusto era allora così universalmentecorrotto, che grandissimi encomj facevansi di tali scrit-tori, i quali a' tempi di Augusto, se avessero usato diquello stile e di quel gusto che in essi veggiamo, non sa-rebbono stati uditi che con disprezzo. Uno di essi è ilcel. Mario Vittorino africano, di cui già abbiam vedutodi sopra che allor quando Giuliano fece comandamentoche i professori cristiani dovessero abbandonare le lorocattedre, egli senz'altro lasciò quella di eloquenza cheteneva in Roma. S. Agostino lo esalta con somme lodi(l. 8, Conf. c. 2), e il chiama vecchio dottissimo e versa-tissimo in tutte le arti liberali, che molti libri de' filosofiavea letti, e esaminati, e rischiarati, e alcune opere diPlatone singolarmente recate in lingua latina, maestro ditanti nobili senatori, e che per la fama del suo magistero

269

Professori d'eloquenzain Roma; Mario Vit-torio.

parenza di maestà e di grandezza, e rivolgere a sè tuttoragli occhi e l'ammirazione degli stranieri; ma realmentedecadere vieppiù ogni giorno, e non ostante lo sforzo el'industria di alcuni protettori e fomentatori delle bellearti accostarsi alla sua estrema rovina.

II. E per cominciare da' pubblici professoridi eloquenza, che furono in Roma, noi netroviamo parecchi, de' quali gli autori lorocontemporanei ci dicon gran lodi; talchè noigli crederemmo quasi rivali di Cesare e di

Cicerone. Ma le loro opere che ci sono rimaste, ci fanconoscere doversi detrarre molto da cotai lodi, e ci mo-strano che il buon gusto era allora così universalmentecorrotto, che grandissimi encomj facevansi di tali scrit-tori, i quali a' tempi di Augusto, se avessero usato diquello stile e di quel gusto che in essi veggiamo, non sa-rebbono stati uditi che con disprezzo. Uno di essi è ilcel. Mario Vittorino africano, di cui già abbiam vedutodi sopra che allor quando Giuliano fece comandamentoche i professori cristiani dovessero abbandonare le lorocattedre, egli senz'altro lasciò quella di eloquenza cheteneva in Roma. S. Agostino lo esalta con somme lodi(l. 8, Conf. c. 2), e il chiama vecchio dottissimo e versa-tissimo in tutte le arti liberali, che molti libri de' filosofiavea letti, e esaminati, e rischiarati, e alcune opere diPlatone singolarmente recate in lingua latina, maestro ditanti nobili senatori, e che per la fama del suo magistero

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Professori d'eloquenzain Roma; Mario Vit-torio.

avea meritato e ottenuto l'onor di una statua nel Foro diTraiano. Quindi soggiugne che allora era ancor Vittorinoidolatra, e descrive poscia come per opera di S. Simpli-ciano ei venisse alla Fede, cui dopo aver seguito per al-cun tempo occultamente, ne fece poi nella Chiesa pub-blica professione. Della stima in cui era presso i RomaniMario Vittorino, e della statua innalzatagli fa testimo-nianza ancor S. Girolamo. Il p. Caraffa citando questopasso della Cronaca così lo legge (Hist. Gymn. rom. t. 1,p. 84): Victorinus rhetor, et Donatus gramaticus magi-stri et praeceptores mei Romae insignes habebantur. Marealmente S. Girolamo ha così: Victorinus Rhetor, etDonatus gramaticus praeceptor meus Romae insigneshabentur. E altrove egli dice bensì (Praef. Comment. inEp. ad Galat.) che Vittorino faceva scuola di rettorica inRoma ma ch'egli ne fosse stato scolaro, nol dice mai. Orquesta sì grande stima che avevasi di Vittorino, ci po-trebbe far credere che ei fosse veramente colto ed ele-gante scrittore. E nondimeno le Opere che ne abbiamo,cel mostrano assai inferiore alla fama. Alcune di esseappartengono alla rettorica e alla gramatica, e sono statestampate nelle Raccolte de' retori e de' gramatici antichi,fra le quali abbiamo un comento sui due libri dell'Inven-zione di Cicerone. Altre hanno argomento sacro, e fraesse quattro libri contro gli Ariani, due opusculi pubbli-cati dal p. Sirmondo (t. 1 ejus Op.), e alcuni altri cheveggonsi nella Biblioteca de' Padri (t. 4 edit. lugd.), ol-tre alcuni comenti sulle Epistole di s. Paolo, di cui sicita dallo stesso p. Sirmondo un codice mss.; finalmente

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avea meritato e ottenuto l'onor di una statua nel Foro diTraiano. Quindi soggiugne che allora era ancor Vittorinoidolatra, e descrive poscia come per opera di S. Simpli-ciano ei venisse alla Fede, cui dopo aver seguito per al-cun tempo occultamente, ne fece poi nella Chiesa pub-blica professione. Della stima in cui era presso i RomaniMario Vittorino, e della statua innalzatagli fa testimo-nianza ancor S. Girolamo. Il p. Caraffa citando questopasso della Cronaca così lo legge (Hist. Gymn. rom. t. 1,p. 84): Victorinus rhetor, et Donatus gramaticus magi-stri et praeceptores mei Romae insignes habebantur. Marealmente S. Girolamo ha così: Victorinus Rhetor, etDonatus gramaticus praeceptor meus Romae insigneshabentur. E altrove egli dice bensì (Praef. Comment. inEp. ad Galat.) che Vittorino faceva scuola di rettorica inRoma ma ch'egli ne fosse stato scolaro, nol dice mai. Orquesta sì grande stima che avevasi di Vittorino, ci po-trebbe far credere che ei fosse veramente colto ed ele-gante scrittore. E nondimeno le Opere che ne abbiamo,cel mostrano assai inferiore alla fama. Alcune di esseappartengono alla rettorica e alla gramatica, e sono statestampate nelle Raccolte de' retori e de' gramatici antichi,fra le quali abbiamo un comento sui due libri dell'Inven-zione di Cicerone. Altre hanno argomento sacro, e fraesse quattro libri contro gli Ariani, due opusculi pubbli-cati dal p. Sirmondo (t. 1 ejus Op.), e alcuni altri cheveggonsi nella Biblioteca de' Padri (t. 4 edit. lugd.), ol-tre alcuni comenti sulle Epistole di s. Paolo, di cui sicita dallo stesso p. Sirmondo un codice mss.; finalmente

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un poemetto su' sette Martiri maccabei (V. Ceillier t. 6.p. 26). Or in tutte queste opere, e nelle dogmatiche sin-golarmente, vedesi uno stile rozzo, incolto e oscuro,ch'io non so intendere come potesse aver sì gran plauso;oltrechè s. Girolamo lo riprende (l. c.), perchè non aven-do egli fatto studio sulla Sacra Scrittura, volesse nondi-meno trattar questioni di religione e di dogma. Quandoei morisse, non si può affermare precisamente. Comeperò s. Agostino ne parla qual d'uomo già trapassato,quando egli si volse a Dio, convien dire che ciò acca-desse prima dell'an. 386 in cui avvenne la conversionedel medesimo santo.

III. Più celebre ancora fu verso il tempomedesimo un sofista greco che tenne scuolapubblica d'eloquenza in Roma, cioè Proere-sio, di cui abbiam parlato nel Capo primo di

questo libro. Eunapio che ne ha lungamente scritta laVita, dice (Vit. Soph. c. 8) che in sì gran fama egli ven-ne, che a lui pure fu innalzata una statua con questa glo-riosa, o, a dir meglio, gonfia iscrizione: Regina RerumRoma Regi Eloquentiae. Io crederei facilmente che fos-se questo un racconto finto a capriccio, poichè Eunapioa imitazion di Filostrato ci narra, talvolta de' suoi Sofisticose maravigliose e quasi incredibili, e ci dà motivo disospettare che la sua Storia non sia troppo sincera. Mariflettendo che Proeresio era cristiano, ed Eunapio genti-le, sembra difficile ch'egli volesse esagerarne oltre il do-

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Proeresio sofista gre-co.

un poemetto su' sette Martiri maccabei (V. Ceillier t. 6.p. 26). Or in tutte queste opere, e nelle dogmatiche sin-golarmente, vedesi uno stile rozzo, incolto e oscuro,ch'io non so intendere come potesse aver sì gran plauso;oltrechè s. Girolamo lo riprende (l. c.), perchè non aven-do egli fatto studio sulla Sacra Scrittura, volesse nondi-meno trattar questioni di religione e di dogma. Quandoei morisse, non si può affermare precisamente. Comeperò s. Agostino ne parla qual d'uomo già trapassato,quando egli si volse a Dio, convien dire che ciò acca-desse prima dell'an. 386 in cui avvenne la conversionedel medesimo santo.

III. Più celebre ancora fu verso il tempomedesimo un sofista greco che tenne scuolapubblica d'eloquenza in Roma, cioè Proere-sio, di cui abbiam parlato nel Capo primo di

questo libro. Eunapio che ne ha lungamente scritta laVita, dice (Vit. Soph. c. 8) che in sì gran fama egli ven-ne, che a lui pure fu innalzata una statua con questa glo-riosa, o, a dir meglio, gonfia iscrizione: Regina RerumRoma Regi Eloquentiae. Io crederei facilmente che fos-se questo un racconto finto a capriccio, poichè Eunapioa imitazion di Filostrato ci narra, talvolta de' suoi Sofisticose maravigliose e quasi incredibili, e ci dà motivo disospettare che la sua Storia non sia troppo sincera. Mariflettendo che Proeresio era cristiano, ed Eunapio genti-le, sembra difficile ch'egli volesse esagerarne oltre il do-

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Proeresio sofista gre-co.

vere le lodi. Di Proeresio facea pur grande stima lo stes-so Giuliano, e ne abbiamo in pruova una lettera piena dielogi ch'egli gli scrisse (Julian. ep. 2), e il privilegio ac-cordatogli di continuare il suo magistero, benchè cristia-no; del qual beneficio però, come abbiam detto, nonvolle usar Proeresio. Libanio ancora ne parla con grandielogi, e dice che colla dottrina e coll'eloquenza, di cuiera adorno rendevasi benemerito di tutto il mondo e nonsolo rammenta la statua innalzatagli in Roma, maun'altra ancora, di cui fu onorato in Atene (ep. 278, p.136 ed. Amstel. 1738). Finalmente anche s. Gregorio na-zianzeno cel rappresenta come uomo di un'ammirabileeloquenza in un epigramma con cui ne piange la morte(Murat. Anecd. gr. p. 1). Eunapio aggiugne che quandoegli da Roma tornar volle ad Atene, i Romani pregaronoche mandasse loro un discepolo; e ch'egli scelse a talfine un cotal Eusebio alessandrino, uomo, dic'egli, op-portuno per Roma, perciocchè avvezzo ad adulare i po-tenti. Colle quali parole ei forma per vero dire un pocovantaggioso carattere de' Romani di questi tempi.

IV. Il p. Caraffa tra i professori dell'ateneoromano annovera ancor s. Girolamo (l. c.),e a provarlo si serve di un passo tratto dallaRegola delle monache inserita tra le sueOpere, ove dice (c. 11): Me, antequam vi-

gesimum annum aetatis attingerem, urbs Roma in sum-mum praelegerat magistrum in omnibus pene liberali-

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Se ad essidebba ag-giungersi s.Girolamo.

vere le lodi. Di Proeresio facea pur grande stima lo stes-so Giuliano, e ne abbiamo in pruova una lettera piena dielogi ch'egli gli scrisse (Julian. ep. 2), e il privilegio ac-cordatogli di continuare il suo magistero, benchè cristia-no; del qual beneficio però, come abbiam detto, nonvolle usar Proeresio. Libanio ancora ne parla con grandielogi, e dice che colla dottrina e coll'eloquenza, di cuiera adorno rendevasi benemerito di tutto il mondo e nonsolo rammenta la statua innalzatagli in Roma, maun'altra ancora, di cui fu onorato in Atene (ep. 278, p.136 ed. Amstel. 1738). Finalmente anche s. Gregorio na-zianzeno cel rappresenta come uomo di un'ammirabileeloquenza in un epigramma con cui ne piange la morte(Murat. Anecd. gr. p. 1). Eunapio aggiugne che quandoegli da Roma tornar volle ad Atene, i Romani pregaronoche mandasse loro un discepolo; e ch'egli scelse a talfine un cotal Eusebio alessandrino, uomo, dic'egli, op-portuno per Roma, perciocchè avvezzo ad adulare i po-tenti. Colle quali parole ei forma per vero dire un pocovantaggioso carattere de' Romani di questi tempi.

IV. Il p. Caraffa tra i professori dell'ateneoromano annovera ancor s. Girolamo (l. c.),e a provarlo si serve di un passo tratto dallaRegola delle monache inserita tra le sueOpere, ove dice (c. 11): Me, antequam vi-

gesimum annum aetatis attingerem, urbs Roma in sum-mum praelegerat magistrum in omnibus pene liberali-

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Se ad essidebba ag-giungersi s.Girolamo.

bus disciplinis. Ma convien dire che il p. Caraffa nonabbia avvertito esser quella un'operetta supposta al s.dottore, e ciò per consentimento ancora degli antichieditori non che de' recenti. Egli è vero però che s. Giro-lamo venne a' Roma fanciullo per coltivarvi gli studj, ilche ci mostra ch'erano essi in gran fama anche ne' paesistranieri. Racconta egli stesso (Comm. in Ep. ad Gal. c.2) che esercitavasi ivi nell'usato esercizio del declamare,e con finte liti si addestrava a trattar le vere; e aggiugneche andando talvolta a' tribunali de' giudici, ei vi udiva ipiù eloquenti oratori disputar gli uni contro gli altri cosìanimosamente, che spesso lasciata in disparte la causa sitrattenevan soltanto nel mordersi e nel mottegiarsi a vi-cenda.

V. Ma ciò che di s. Girolamo non si può af-fermare, sembra che negar non si possa di s.Agostino, cioè che egli tenesse in Romascuola pubblica di eloquenza. Per qual moti-

vo ei risolvesse di trasportarsi da Cartagine a Roma, eglistesso il racconta nelle sue Confessioni: "Non volli giàio, egli dice (l. 5, c. 8) andarmene a Roma per maggiorguadagno, e per l'onor maggiore che dagli amici mi siprometteva, benchè queste cose ancora mi movevano inquei giorni; ma il principale e quasi solo motivo di que-sta mia risoluzione si fu l'aver io udito che ivi studiavasicon più quiete, e che la gioventù era tenuta più in freno,sicchè non entrasse all'improvviso e sfacciatamente nel-

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S. Agostinotiene scuolain Roma.

bus disciplinis. Ma convien dire che il p. Caraffa nonabbia avvertito esser quella un'operetta supposta al s.dottore, e ciò per consentimento ancora degli antichieditori non che de' recenti. Egli è vero però che s. Giro-lamo venne a' Roma fanciullo per coltivarvi gli studj, ilche ci mostra ch'erano essi in gran fama anche ne' paesistranieri. Racconta egli stesso (Comm. in Ep. ad Gal. c.2) che esercitavasi ivi nell'usato esercizio del declamare,e con finte liti si addestrava a trattar le vere; e aggiugneche andando talvolta a' tribunali de' giudici, ei vi udiva ipiù eloquenti oratori disputar gli uni contro gli altri cosìanimosamente, che spesso lasciata in disparte la causa sitrattenevan soltanto nel mordersi e nel mottegiarsi a vi-cenda.

V. Ma ciò che di s. Girolamo non si può af-fermare, sembra che negar non si possa di s.Agostino, cioè che egli tenesse in Romascuola pubblica di eloquenza. Per qual moti-

vo ei risolvesse di trasportarsi da Cartagine a Roma, eglistesso il racconta nelle sue Confessioni: "Non volli giàio, egli dice (l. 5, c. 8) andarmene a Roma per maggiorguadagno, e per l'onor maggiore che dagli amici mi siprometteva, benchè queste cose ancora mi movevano inquei giorni; ma il principale e quasi solo motivo di que-sta mia risoluzione si fu l'aver io udito che ivi studiavasicon più quiete, e che la gioventù era tenuta più in freno,sicchè non entrasse all'improvviso e sfacciatamente nel-

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S. Agostinotiene scuolain Roma.

la scuola di quello che non è l'usato suo maestro; e cheniuno si ammettesse a scuola alcuna, se il maestro nolpermetteva. Al contrario in Cartagine ella è sfrontata eindegna la libertà degli scolari. Entrano arditamente iniscuola, e sconvolgono l'ordine e il metodo che il mae-stro prefigge all'ammaestramento de' suoi discepoli". Eprosiegue descrivendo il libertinaggio che tra la studiosagioventù regnava in Cartagine. Poscia dopo avere narra-to della pericolosa infermità da cui fu in Roma sorpreso,e della sua guarigione, così prosiegue (c. 12). "Comin-ciai dunque a adoperarmi per ciò che condotto aveami aRoma, cioè per insegnare l'arte rettorica, e a raccoglierdapprima alcuni in mia casa, a' quali io mi era già fattoconoscere. Ed ecco ch'io veggo farsi in Roma altre coseche in Africa non si facevano. Perciocchè io seppi chenon eravi veramente il disordine da me veduto in Carta-gine, ma molti giovani, dicevanmi alcuni, qui si unisco-no insieme, e per non pagare al maestro la dovuta mer-cede lo abbandonano, e sen vanno altrove". Queste ulti-me parole han fatto credere ad alcuni che s. Agostinonon avesse già la sua scuola nel Pubblico ateneo, ove iprofessori aveano dal regio erario il determinato loro sti-pendio, ma nella privata sua casa. E forse fu così vera-mente, ma le parole sopraccitate nol provano abbastanzaperciocchè il tempo in cui s. Agostino sen venne aRoma potè essere facilmente quel tempo stesso in cui a'professori sottratto fu lo stipendio, come altrove abbiamdetto, e in cui perciò dovettero esser costretti a riceverlonuovamente, come ne' più antichi tempi era in uso, da'

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la scuola di quello che non è l'usato suo maestro; e cheniuno si ammettesse a scuola alcuna, se il maestro nolpermetteva. Al contrario in Cartagine ella è sfrontata eindegna la libertà degli scolari. Entrano arditamente iniscuola, e sconvolgono l'ordine e il metodo che il mae-stro prefigge all'ammaestramento de' suoi discepoli". Eprosiegue descrivendo il libertinaggio che tra la studiosagioventù regnava in Cartagine. Poscia dopo avere narra-to della pericolosa infermità da cui fu in Roma sorpreso,e della sua guarigione, così prosiegue (c. 12). "Comin-ciai dunque a adoperarmi per ciò che condotto aveami aRoma, cioè per insegnare l'arte rettorica, e a raccoglierdapprima alcuni in mia casa, a' quali io mi era già fattoconoscere. Ed ecco ch'io veggo farsi in Roma altre coseche in Africa non si facevano. Perciocchè io seppi chenon eravi veramente il disordine da me veduto in Carta-gine, ma molti giovani, dicevanmi alcuni, qui si unisco-no insieme, e per non pagare al maestro la dovuta mer-cede lo abbandonano, e sen vanno altrove". Queste ulti-me parole han fatto credere ad alcuni che s. Agostinonon avesse già la sua scuola nel Pubblico ateneo, ove iprofessori aveano dal regio erario il determinato loro sti-pendio, ma nella privata sua casa. E forse fu così vera-mente, ma le parole sopraccitate nol provano abbastanzaperciocchè il tempo in cui s. Agostino sen venne aRoma potè essere facilmente quel tempo stesso in cui a'professori sottratto fu lo stipendio, come altrove abbiamdetto, e in cui perciò dovettero esser costretti a riceverlonuovamente, come ne' più antichi tempi era in uso, da'

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lor discepoli. Ciò accadde a' giorni di Simmaco, e a'giorni appunto di Simmaco venne a Roma s. Agostinocome da ciò che or siamo per dire, sarà manifesto.

VI. Era un anno a un dipresso che s. Ago-stino trovavasi in Roma, quando l'an. 384giunse a Simmaco prefetto della cittàun'ambasciata de' Milanesi che il richiede-

vano perchè volesse loro inviare un prof. di rettorica.Questa ambasciata è un onorevole testimonio non soldella fama in cui erano gli studj romani, ma dell'impe-gno ancora con cui coltivavansi in Milano, ove è proba-bile che il soggiorno che vi tennero di questi tempi alcu-ni imperadori, e singolarmente Valentiniano II, accre-scesse di assai l'emulazione e la gara de' cittadini nei let-terari esercizj. S. Agostino sinceramente confessa (ib. c.13) che adoperossi egli stesso, per mezzo di alcuni Ma-nichei, affine di esser prescelto a questo onorevole im-piego; e che mostrato a Simmaco un suo componimen-to, questi che in lettere umane era ottimo giudice perque' tempi, approvollo, e lui scelse tra tutti per mandarloa Milano. Vi venne dunque Agostino, e al cominciamen-to del nuovo anno recitò innanzi al cons. Bautone e anumerosissima radunanza, un'orazione pel solenne co-minciamento della sua scuola (August. contra literasPetiliani l. 3). Se egli nel raccontare per qual maniera,andò, a Milano, non avesse avuto in pensiero di scriverla storia della sua conversione anzichè de' suoi studj, ci

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E poscia inMilano: altriprofessori ivi.

lor discepoli. Ciò accadde a' giorni di Simmaco, e a'giorni appunto di Simmaco venne a Roma s. Agostinocome da ciò che or siamo per dire, sarà manifesto.

VI. Era un anno a un dipresso che s. Ago-stino trovavasi in Roma, quando l'an. 384giunse a Simmaco prefetto della cittàun'ambasciata de' Milanesi che il richiede-

vano perchè volesse loro inviare un prof. di rettorica.Questa ambasciata è un onorevole testimonio non soldella fama in cui erano gli studj romani, ma dell'impe-gno ancora con cui coltivavansi in Milano, ove è proba-bile che il soggiorno che vi tennero di questi tempi alcu-ni imperadori, e singolarmente Valentiniano II, accre-scesse di assai l'emulazione e la gara de' cittadini nei let-terari esercizj. S. Agostino sinceramente confessa (ib. c.13) che adoperossi egli stesso, per mezzo di alcuni Ma-nichei, affine di esser prescelto a questo onorevole im-piego; e che mostrato a Simmaco un suo componimen-to, questi che in lettere umane era ottimo giudice perque' tempi, approvollo, e lui scelse tra tutti per mandarloa Milano. Vi venne dunque Agostino, e al cominciamen-to del nuovo anno recitò innanzi al cons. Bautone e anumerosissima radunanza, un'orazione pel solenne co-minciamento della sua scuola (August. contra literasPetiliani l. 3). Se egli nel raccontare per qual maniera,andò, a Milano, non avesse avuto in pensiero di scriverla storia della sua conversione anzichè de' suoi studj, ci

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E poscia inMilano: altriprofessori ivi.

avrebbe probabilmente fatto conoscere in quale statofossero allora le scuole di questa illustre città, chi fosse-ro i più celebri professori, ed altre somiglianti cose chea rischiararne la storia letteraria gioverebbono assai. Maegli intento unicamente a spiegarci gli umili suoi senti-menti, delle altre cose non ci ha lasciata memoria alcu-na, e non possiamo se non congetturando raccogliere,come sopra abbiamo accennato, che fiorir doveano allo-ra felicemente, quanto la condizion de' tempi lo permet-teva, gli studj in Milano. Ei nomina solo un cotal Vere-condo cittadino e gramatico milanese suo intrinsecoamico (l. 8 Conf. c. 6), in una villa di cui, detta Cassicia-co, ei ritirossi per alcun tempo nell'autunno dopo la suaconversione prima di ricevere il battesimo (l. 9, c. 3).Era Verecondo allora idolatra; ma poichè s. Agostinoabbandonata la cattedra d'eloquenza sotto pretesto delladebol sua sanità, e già battezzato, andossene a Roma perfar ritorno a Cartagine, Verecondo venuto a morte inMilano ricevè il battesimo, e morì cristiano (ib.). Il Cal-chi nomina ancor Flagrio Manlio milanese maestro diValentiniano II (Hist. Patr. l. 3), di cui dice che un eru-dito comento sulle Georgiche di Virgilio conservasi inun monastero presso Tours. Io mi lusingo che il Calchinon iscrivesse ciò senza alcun fondamento ma pare cheal presente un tal codice si sia smarrito. Io certo non netrovo menzione presso alcun autore, nè esso vedesi nellaBiblioteca de' Manoscritti del p. Montfaucon. Questo èciò solo che della letteratura milanese di questi tempipossiamo accertare, la quale però io non dubito che non

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avrebbe probabilmente fatto conoscere in quale statofossero allora le scuole di questa illustre città, chi fosse-ro i più celebri professori, ed altre somiglianti cose chea rischiararne la storia letteraria gioverebbono assai. Maegli intento unicamente a spiegarci gli umili suoi senti-menti, delle altre cose non ci ha lasciata memoria alcu-na, e non possiamo se non congetturando raccogliere,come sopra abbiamo accennato, che fiorir doveano allo-ra felicemente, quanto la condizion de' tempi lo permet-teva, gli studj in Milano. Ei nomina solo un cotal Vere-condo cittadino e gramatico milanese suo intrinsecoamico (l. 8 Conf. c. 6), in una villa di cui, detta Cassicia-co, ei ritirossi per alcun tempo nell'autunno dopo la suaconversione prima di ricevere il battesimo (l. 9, c. 3).Era Verecondo allora idolatra; ma poichè s. Agostinoabbandonata la cattedra d'eloquenza sotto pretesto delladebol sua sanità, e già battezzato, andossene a Roma perfar ritorno a Cartagine, Verecondo venuto a morte inMilano ricevè il battesimo, e morì cristiano (ib.). Il Cal-chi nomina ancor Flagrio Manlio milanese maestro diValentiniano II (Hist. Patr. l. 3), di cui dice che un eru-dito comento sulle Georgiche di Virgilio conservasi inun monastero presso Tours. Io mi lusingo che il Calchinon iscrivesse ciò senza alcun fondamento ma pare cheal presente un tal codice si sia smarrito. Io certo non netrovo menzione presso alcun autore, nè esso vedesi nellaBiblioteca de' Manoscritti del p. Montfaucon. Questo èciò solo che della letteratura milanese di questi tempipossiamo accertare, la quale però io non dubito che non

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fosse per darci assai più ampio argomento di ragionare,se più copiosi monumenti ci fosser rimasti. Ma ritornia-mo alle scuole romane.

VII. Non dall'Africa solamente, ma dalleGallie ancora vennero illustri retori a Roma;e due tra essi rammentati vengono da Auso-nio ne' suoi Epigrammi in lode de' professo-ri delle scuole pubbliche di Bourdeaux. Il

primo è Minervio nato della suddetta città, che in Co-stantinopoli, in Roma, e finalmente nella sua patria ten-ne scuola di eloquenza. Ausonio ne dice lodi grandissi-me (Profess. Burdig. carm. 1), nè teme di paragonarlo a'più celebri professori e agli oratori più eloquenti. Di talielogi erano gli scrittori di questi tempi assai liberali, enoi possiamo, senza che essi abbian ragione a dolersene,ribassarne alquanto. Nondimeno anche s. Girolamo neparla con grande stima (Chron. ad an. 349): Minerviusburdigalensis rhetor Romae florentissime docet. Eglifiorì circa la metà del IV secolo. L'altro è un figlio diSedato cel. ret. in Tolosa e in Bourdeaux, e di cui nonsappiamo il nome, ma solo Ausonio ci narra (ib. carm.12) ch'egli era retore in Roma, e che seguiva le gloriosetracce del suo genitore. Egli fu contemporaneo dellostesso Ausonio, e visse perciò a' tempi di Graziano e diTeodosio. A questi due vuolsi aggiugner Palladio, cui gliautori della Storia letteraria di Francia annoverano tra'loro uomini illustri (t. 1, part. 2, p. 424), benchè io non

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Minervio,Sedato ePalladioprofessoriin Roma.

fosse per darci assai più ampio argomento di ragionare,se più copiosi monumenti ci fosser rimasti. Ma ritornia-mo alle scuole romane.

VII. Non dall'Africa solamente, ma dalleGallie ancora vennero illustri retori a Roma;e due tra essi rammentati vengono da Auso-nio ne' suoi Epigrammi in lode de' professo-ri delle scuole pubbliche di Bourdeaux. Il

primo è Minervio nato della suddetta città, che in Co-stantinopoli, in Roma, e finalmente nella sua patria ten-ne scuola di eloquenza. Ausonio ne dice lodi grandissi-me (Profess. Burdig. carm. 1), nè teme di paragonarlo a'più celebri professori e agli oratori più eloquenti. Di talielogi erano gli scrittori di questi tempi assai liberali, enoi possiamo, senza che essi abbian ragione a dolersene,ribassarne alquanto. Nondimeno anche s. Girolamo neparla con grande stima (Chron. ad an. 349): Minerviusburdigalensis rhetor Romae florentissime docet. Eglifiorì circa la metà del IV secolo. L'altro è un figlio diSedato cel. ret. in Tolosa e in Bourdeaux, e di cui nonsappiamo il nome, ma solo Ausonio ci narra (ib. carm.12) ch'egli era retore in Roma, e che seguiva le gloriosetracce del suo genitore. Egli fu contemporaneo dellostesso Ausonio, e visse perciò a' tempi di Graziano e diTeodosio. A questi due vuolsi aggiugner Palladio, cui gliautori della Storia letteraria di Francia annoverano tra'loro uomini illustri (t. 1, part. 2, p. 424), benchè io non

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Minervio,Sedato ePalladioprofessoriin Roma.

sappia per qual ragione. Essi affermano che dalle Lette-re di Simmaco si raccoglie che Palladio avea fatti i suoiprimi studj sotto la direzione di Ausonio, e perciò nelleGallie. Ancorchè ciò fosse vero, proverebbesi egli chePalladio fosse natìo delle Gallie? Quanti altri recavansidi questi tempi a studiar nelle Gallie, ove le lettere fiori-vano felicemente? Ma io non trovo che Simmaco affer-mi ciò che affermano i Maurini. Egli scrive ad Ausonio(l. 1, ep. 15), che Palladio, cui egli chiama nuovo ospitedel romano ateneo (mostrando con ciò ch'egli era stra-niero), avea "coll'arte delle divisioni, colla copia degliargomenti, colla gravità de' pensieri, coll'ornamento del-le parole" risvegliata l'ammirazion de' Romani; e dicebensì ch'egli credeva di far cosa grata ad Ausonio dan-dogliene avviso, ma non fa motto nè della Patria di Pal-ladio, nè degli studj da lui fatti sotto la direzione dellostesso Ausonio. Anzi conchiude dicendo: "Queste coseio ho giudicato di non doverti tacere, perchè non vi hacosa ch'io pregi più della tua amicizia, e perchè io micompiaccio del conto in cui ti degni di avermi". Se Pal-ladio fosse stato discepolo di Ausonio, non dovea egliSimmaco farne espressa menzione? Checchè sia di ciò,questa orazione fu probabilmente da Palladio recitatanell'entrar ch'egli fece alla cattedra d'eloquenza. Ma nonpare che molto tempo ei la tenesse, levatone per solle-varlo a più grandi onori. Tale sembra che sia il senso diqueste parole di Simmaco (l. 3, ep. 50): Meus Palla-dius... quem ego non minus doleo abductum a juventuteromana, quam gratulor in spem sui honoris accitum.

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sappia per qual ragione. Essi affermano che dalle Lette-re di Simmaco si raccoglie che Palladio avea fatti i suoiprimi studj sotto la direzione di Ausonio, e perciò nelleGallie. Ancorchè ciò fosse vero, proverebbesi egli chePalladio fosse natìo delle Gallie? Quanti altri recavansidi questi tempi a studiar nelle Gallie, ove le lettere fiori-vano felicemente? Ma io non trovo che Simmaco affer-mi ciò che affermano i Maurini. Egli scrive ad Ausonio(l. 1, ep. 15), che Palladio, cui egli chiama nuovo ospitedel romano ateneo (mostrando con ciò ch'egli era stra-niero), avea "coll'arte delle divisioni, colla copia degliargomenti, colla gravità de' pensieri, coll'ornamento del-le parole" risvegliata l'ammirazion de' Romani; e dicebensì ch'egli credeva di far cosa grata ad Ausonio dan-dogliene avviso, ma non fa motto nè della Patria di Pal-ladio, nè degli studj da lui fatti sotto la direzione dellostesso Ausonio. Anzi conchiude dicendo: "Queste coseio ho giudicato di non doverti tacere, perchè non vi hacosa ch'io pregi più della tua amicizia, e perchè io micompiaccio del conto in cui ti degni di avermi". Se Pal-ladio fosse stato discepolo di Ausonio, non dovea egliSimmaco farne espressa menzione? Checchè sia di ciò,questa orazione fu probabilmente da Palladio recitatanell'entrar ch'egli fece alla cattedra d'eloquenza. Ma nonpare che molto tempo ei la tenesse, levatone per solle-varlo a più grandi onori. Tale sembra che sia il senso diqueste parole di Simmaco (l. 3, ep. 50): Meus Palla-dius... quem ego non minus doleo abductum a juventuteromana, quam gratulor in spem sui honoris accitum.

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Qual fosse la carica di cui fu onorato Palladio, non èpossibile determinarlo; poichè a questi tempi medesimitroviam molti di questo nome in ragguardevoli impie-ghi; e nel solo an. 382 tre ve ne avea, uno prefettod'Egitto, un altro maestro degli ufficj, il terzo governato-re dell'Osroena (V. Tillem. Hist. des Emper. t. 5, not. 10sur Theodose). Sembra però, ch'ei fosse in qualche cari-ca militare, poichè abbiamo una lettera dello stesso Sim-maco, in cui gli raccomanda un cotal Benedetto ch'erastato privato del posto che avea nella milizia, acciocchèsia in esso ristabilito (l. 9, ep. 1). La memoria di Palla-dio mantennesi viva per lungo tempo, e Sidonio Apolli-nare ne fa menzione tra molti retori ed oratori illustri ene loda singolarmente la pompa: Pompam Palladii (l. 5,ep. 10).

VIII. Alcuni altri veggiam nominati daSimmaco, che celebri furono in Roma,mentre ei ci vivea, e che furono professoridi eloquenza, o almeno in essa si esercita-

rono. Egli scrive gran lodi ad Ausonio di un certo Giu-liano (l. 9, ep. 43) e il loda singolarmente perchè avea insè accoppiati due pregi che assai difficilmente, egli dice,ritrovansi congiunti insieme, cioè la modestia e l'elo-quenza. Più lettere abbiamo inoltre da lui scritte ad An-tonio (l. 1, ep. 89, 90, ec.) il quale pare che dall'impiegodi retore passato fosse a quel di oratore; perciocchè nel-la prima di esse con lui si rallegra perchè con un'orazio-

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Altri profes-sori di que'tempi.

Qual fosse la carica di cui fu onorato Palladio, non èpossibile determinarlo; poichè a questi tempi medesimitroviam molti di questo nome in ragguardevoli impie-ghi; e nel solo an. 382 tre ve ne avea, uno prefettod'Egitto, un altro maestro degli ufficj, il terzo governato-re dell'Osroena (V. Tillem. Hist. des Emper. t. 5, not. 10sur Theodose). Sembra però, ch'ei fosse in qualche cari-ca militare, poichè abbiamo una lettera dello stesso Sim-maco, in cui gli raccomanda un cotal Benedetto ch'erastato privato del posto che avea nella milizia, acciocchèsia in esso ristabilito (l. 9, ep. 1). La memoria di Palla-dio mantennesi viva per lungo tempo, e Sidonio Apolli-nare ne fa menzione tra molti retori ed oratori illustri ene loda singolarmente la pompa: Pompam Palladii (l. 5,ep. 10).

VIII. Alcuni altri veggiam nominati daSimmaco, che celebri furono in Roma,mentre ei ci vivea, e che furono professoridi eloquenza, o almeno in essa si esercita-

rono. Egli scrive gran lodi ad Ausonio di un certo Giu-liano (l. 9, ep. 43) e il loda singolarmente perchè avea insè accoppiati due pregi che assai difficilmente, egli dice,ritrovansi congiunti insieme, cioè la modestia e l'elo-quenza. Più lettere abbiamo inoltre da lui scritte ad An-tonio (l. 1, ep. 89, 90, ec.) il quale pare che dall'impiegodi retore passato fosse a quel di oratore; perciocchè nel-la prima di esse con lui si rallegra perchè con un'orazio-

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Altri profes-sori di que'tempi.

ne recitata poc'anzi in senato accresciuta si avea quellagloria, che col magistero si avea dinanzi acquistata, edesalta la grazia insieme e la maestà degna di quell'augu-sta assemblea, con cui egli avea favellato. Egli fa ancoramenzione di un cotal Gallo retore cui propone per mae-stro de' fìgliuoli di Nicomano Flaviano (l. 6, ep. 34).Tutti questi che veggiamo stretti in amicizia con Simma-co, dovean essere al par di lui idolatri. Idolatra ancoraera Paterio o Patera che prima nelle Gallie poi in Roma,fu prof. d'eloquenza, di cui s. Girolamo parla con moltalode, e dice che teneva la sua scuola in Roma primach'egli nascesse (Chron. ad an. 337, et ep. 120 ed. ve-ron.). E tale ancora è verisimile che fosse Olimpio grecodi nascita, ma passato ad essere sofista in Roma. Ab-biam tre lettere da Libanio a lui scritte (ep. 448, 453,481), nelle quali con lui si rallegra del sommo applausoche colla sua eloquenza riscuoteva in Roma; ma insiemeil prega a non lasciarsene adescare per modo che vi fissila sua dimora, ma anzi affretti il suo ritorno alla patria.Ma cristiano era certamente un certo Magno a cui lostesso Girolamo scrivendo (ep. 70 ed. veron.) il chiamaromano oratore e lo riprende perchè tutto occupato nellalettura di Tullio trasandasse lo studio della Sacra Scrittu-ra. A s. Girolamo pure dobbiam la notizia di un certoGennadio cui egli chiama (Chron. ad an. 357) oratoreinsigne in Roma ai tempi di Costanzo.

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ne recitata poc'anzi in senato accresciuta si avea quellagloria, che col magistero si avea dinanzi acquistata, edesalta la grazia insieme e la maestà degna di quell'augu-sta assemblea, con cui egli avea favellato. Egli fa ancoramenzione di un cotal Gallo retore cui propone per mae-stro de' fìgliuoli di Nicomano Flaviano (l. 6, ep. 34).Tutti questi che veggiamo stretti in amicizia con Simma-co, dovean essere al par di lui idolatri. Idolatra ancoraera Paterio o Patera che prima nelle Gallie poi in Roma,fu prof. d'eloquenza, di cui s. Girolamo parla con moltalode, e dice che teneva la sua scuola in Roma primach'egli nascesse (Chron. ad an. 337, et ep. 120 ed. ve-ron.). E tale ancora è verisimile che fosse Olimpio grecodi nascita, ma passato ad essere sofista in Roma. Ab-biam tre lettere da Libanio a lui scritte (ep. 448, 453,481), nelle quali con lui si rallegra del sommo applausoche colla sua eloquenza riscuoteva in Roma; ma insiemeil prega a non lasciarsene adescare per modo che vi fissila sua dimora, ma anzi affretti il suo ritorno alla patria.Ma cristiano era certamente un certo Magno a cui lostesso Girolamo scrivendo (ep. 70 ed. veron.) il chiamaromano oratore e lo riprende perchè tutto occupato nellalettura di Tullio trasandasse lo studio della Sacra Scrittu-ra. A s. Girolamo pure dobbiam la notizia di un certoGennadio cui egli chiama (Chron. ad an. 357) oratoreinsigne in Roma ai tempi di Costanzo.

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IX. Niuno de' retori e degli oratori che fino-ra abbiam nominati ci ha lasciato monu-mento alcuno della sua eloquenza, o se al-cuno ne avea tramandato a' posteri, esso nonci è pervenuto. Anzi ci convien confessare

sinceramente che in tutto questo spazio di presso a duesecoli che in queste epoca abbiam compreso, non vi èmonumento alcuno di profana eloquenza, di cui noi Ita-liani possiamo a buon diritto gloriarci. I panegirici anti-chi, che raccolti insieme sono stati più volte dati allaluce insieme con quel di Plinio, sono l'unico saggiodell'arte oratoria di questi tempi che ci sia rimasto. Manon vi ha alcuno de' loro autori, che si possa dire accer-tatamente italiano e la più parte d'essi furono fuor d'ognidubbio stranieri Galli certamente furono e Claudio Ma-mertino ed Eumenio, de' quali abbiamo alcuna cosa ac-cennata nel libro precedente. Nativo ancor delle Galliefu Nazario autore di un Panegirico a Costantino; comedal Panegirico stesso (n. 37) raccogliesi chiaramente. Ilp. de la Baune inclina a credere (V. Paneg. vet. ed. ven.1728, p. 182) che messinese fosse un altro Claudio Ma-mertino, di cui abbiamo un'Orazione all'imp. Giuliano inringraziamento del consolato a lui conferito. Ma la solapruova che se ne può arrecare, è la conghiettura trattadal nome di Mamertino, con cui di fatto si chiamano iMessinesi. Conghiettura però troppo debole per potervi-si bastantemente fondare; poichè se il primo Mamertinonon ostante un tal nome fu gallo, perchè nol potè essereanche il secondo? Non vi è però pruova alcuna ad accer-

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Scrittori di panegirici edi precetti rettorici.

IX. Niuno de' retori e degli oratori che fino-ra abbiam nominati ci ha lasciato monu-mento alcuno della sua eloquenza, o se al-cuno ne avea tramandato a' posteri, esso nonci è pervenuto. Anzi ci convien confessare

sinceramente che in tutto questo spazio di presso a duesecoli che in queste epoca abbiam compreso, non vi èmonumento alcuno di profana eloquenza, di cui noi Ita-liani possiamo a buon diritto gloriarci. I panegirici anti-chi, che raccolti insieme sono stati più volte dati allaluce insieme con quel di Plinio, sono l'unico saggiodell'arte oratoria di questi tempi che ci sia rimasto. Manon vi ha alcuno de' loro autori, che si possa dire accer-tatamente italiano e la più parte d'essi furono fuor d'ognidubbio stranieri Galli certamente furono e Claudio Ma-mertino ed Eumenio, de' quali abbiamo alcuna cosa ac-cennata nel libro precedente. Nativo ancor delle Galliefu Nazario autore di un Panegirico a Costantino; comedal Panegirico stesso (n. 37) raccogliesi chiaramente. Ilp. de la Baune inclina a credere (V. Paneg. vet. ed. ven.1728, p. 182) che messinese fosse un altro Claudio Ma-mertino, di cui abbiamo un'Orazione all'imp. Giuliano inringraziamento del consolato a lui conferito. Ma la solapruova che se ne può arrecare, è la conghiettura trattadal nome di Mamertino, con cui di fatto si chiamano iMessinesi. Conghiettura però troppo debole per potervi-si bastantemente fondare; poichè se il primo Mamertinonon ostante un tal nome fu gallo, perchè nol potè essereanche il secondo? Non vi è però pruova alcuna ad accer-

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Scrittori di panegirici edi precetti rettorici.

tare che il fosse e nondimeno i Maurini gli han dato luo-go tra' loro scrittori (Hist. litter. de la France t. 1, par. 2,p. 198). Io potrei per la stessa ragione annoverarlo tra'nostri, ma voglio attenermi al mio usato costume di nonattribuire all'Italia se non ciò che in niun modo non se lepuò contrastare. L'ultimo degli antichi panegiristi è Lati-no Pacato Drepanio, di cui abbiamo un Panegirico aTeodosio il grande. I due nomi di Latino e di Drepaniopotrebbero sembrare argomenti bastevoli a crederlo ita-liano e siciliano, come altri ha fatto. Ma egli troppochiaramente chiama sua la Gallia (n. 24) per non dover-nelo creder nativo, e dice ancora ch'egli era venuto aRoma dall'estremità della Gallia occidentale (n. 2). Fi-nalmente que' Panegirici ancora, che non han certo auto-re, come quello a Massimiano e a Costantino, e un altroal medesimo Costantino, non ci danno alcun indizio peraffermare con qualche probabile argomento che sieno diautori italiani. Alcuni frammenti e alcuni brevi trattatidell'arte rettorica abbiamo nella Raccolta de' Retori anti-chi di Francesco Piteo, cioè di Aquila romano, di GiulioRufiniano, di Curio Fortunaziano, di Sulpizio Vittore, diEmporio, di Giulio Severiano, e di altri, alcuni de' qualivissero probabilmente in questi tempi. Ma sì poco è ciòche ci è rimasto di essi, e questo ancora di sì poco valo-re, che non giova il cercarne più oltre. Si può vedere, ciòche di essi hanno scritto il Fabrizio (Bibl. lat. l. 4, c. 8) eil Gibert (Jug. des Maîtres d'Eloq.).

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tare che il fosse e nondimeno i Maurini gli han dato luo-go tra' loro scrittori (Hist. litter. de la France t. 1, par. 2,p. 198). Io potrei per la stessa ragione annoverarlo tra'nostri, ma voglio attenermi al mio usato costume di nonattribuire all'Italia se non ciò che in niun modo non se lepuò contrastare. L'ultimo degli antichi panegiristi è Lati-no Pacato Drepanio, di cui abbiamo un Panegirico aTeodosio il grande. I due nomi di Latino e di Drepaniopotrebbero sembrare argomenti bastevoli a crederlo ita-liano e siciliano, come altri ha fatto. Ma egli troppochiaramente chiama sua la Gallia (n. 24) per non dover-nelo creder nativo, e dice ancora ch'egli era venuto aRoma dall'estremità della Gallia occidentale (n. 2). Fi-nalmente que' Panegirici ancora, che non han certo auto-re, come quello a Massimiano e a Costantino, e un altroal medesimo Costantino, non ci danno alcun indizio peraffermare con qualche probabile argomento che sieno diautori italiani. Alcuni frammenti e alcuni brevi trattatidell'arte rettorica abbiamo nella Raccolta de' Retori anti-chi di Francesco Piteo, cioè di Aquila romano, di GiulioRufiniano, di Curio Fortunaziano, di Sulpizio Vittore, diEmporio, di Giulio Severiano, e di altri, alcuni de' qualivissero probabilmente in questi tempi. Ma sì poco è ciòche ci è rimasto di essi, e questo ancora di sì poco valo-re, che non giova il cercarne più oltre. Si può vedere, ciòche di essi hanno scritto il Fabrizio (Bibl. lat. l. 4, c. 8) eil Gibert (Jug. des Maîtres d'Eloq.).

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X. Il solo oratore italiano del cui stile e del-la cui eloquenza ci sian rimasti de' saggi,benchè niuna abbiam delle Orazioni da luicomposte, è il cel. Q. Aurelio Simmaco. Eraegli figlio di L. Aurelio Aviano Simmaco

che fu pref. di Roma l'an. 363. Nelle belle lettere fuistruito da uno ch'era nativo delle Gallie, come egli stes-so con sentimento di gratitudine si protesta (l. 9, ep. 86)."Io bramo, egli dice, di dissetarmi a' fonti della gallicaeloquenza; non già perchè l'eloquenza romana abbando-nati abbia i nostri sette colli, ma perchè l'arte rettoricami è stata nella mia fanciullezza insegnata da un vec-chio alunno della Garonna. Per mezzo di questo mioprecettore io sono in certa maniera congiunto alle vostrescuole. Qualunque sia il mio sapere, ch'io ben conoscoesser piccolo, tutto il debbo alla tua patria. Rallegromidunque ancora con quelle Muse che nelle belle arti midierono il primo latte. E se qualche cosa ti offenderà ne'miei componimenti, o col tuo silenzio cuopri e difendilo scolaro di un tuo concittadino, o tu di nuovo lo istrui-sci". Queste parole potrebbono di leggieri persuaderciche Simmaco avesse fatti nelle Gallie i suoi primi studj;ma non sembrami che ciò ne discenda necessariamente,ma solo che natio delle Gallie fu il suo maestro. JacopoLezzio pensa ch'ei fosse Ausonio (in not. ad h. l.). MaAusonio non era tanto maggiore di Simmaco, che in etàsenile potesse tenere scuola a lui fanciullo, e inoltre noiabbiam pure non poche Lettere di Simmaco ad Ausonio,e in niuna di esse benchè ne abbia quasi sempre oppor-

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Q. AurelioSimmaco;suoi mae-stri.

X. Il solo oratore italiano del cui stile e del-la cui eloquenza ci sian rimasti de' saggi,benchè niuna abbiam delle Orazioni da luicomposte, è il cel. Q. Aurelio Simmaco. Eraegli figlio di L. Aurelio Aviano Simmaco

che fu pref. di Roma l'an. 363. Nelle belle lettere fuistruito da uno ch'era nativo delle Gallie, come egli stes-so con sentimento di gratitudine si protesta (l. 9, ep. 86)."Io bramo, egli dice, di dissetarmi a' fonti della gallicaeloquenza; non già perchè l'eloquenza romana abbando-nati abbia i nostri sette colli, ma perchè l'arte rettoricami è stata nella mia fanciullezza insegnata da un vec-chio alunno della Garonna. Per mezzo di questo mioprecettore io sono in certa maniera congiunto alle vostrescuole. Qualunque sia il mio sapere, ch'io ben conoscoesser piccolo, tutto il debbo alla tua patria. Rallegromidunque ancora con quelle Muse che nelle belle arti midierono il primo latte. E se qualche cosa ti offenderà ne'miei componimenti, o col tuo silenzio cuopri e difendilo scolaro di un tuo concittadino, o tu di nuovo lo istrui-sci". Queste parole potrebbono di leggieri persuaderciche Simmaco avesse fatti nelle Gallie i suoi primi studj;ma non sembrami che ciò ne discenda necessariamente,ma solo che natio delle Gallie fu il suo maestro. JacopoLezzio pensa ch'ei fosse Ausonio (in not. ad h. l.). MaAusonio non era tanto maggiore di Simmaco, che in etàsenile potesse tenere scuola a lui fanciullo, e inoltre noiabbiam pure non poche Lettere di Simmaco ad Ausonio,e in niuna di esse benchè ne abbia quasi sempre oppor-

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Q. AurelioSimmaco;suoi mae-stri.

tunissima occasione, non gli fa mai cenno di averlo avu-to a maestro. Io crederei anzi che il maestro di Simmacofosse per avventura Minervio, gallo egli ancora, di cuiabbiam poc'anzi veduto che fu retore in Roma verso lametà del IV secolo, il che ottimamente conviene a' tem-pi di Simmaco che verso la fine del secolo stesso erauom maturo e provetto.

XI. Io non tratterrommi a esaminare minu-tamente tutto ciò che alla vita e alle vicen-de di Simmaco appartiene; di che si posson

vedere tutti gli storici di questi tempi. Egli ebbe la di-gnità di pontefice maggiore, e fu questore, pretore, ecorrettore nella Lucania e ne' Bruzj, proconsole d'Afri-ca, prefetto di Roma l'an. 384, e forse ancora ne' due se-guenti (V. Corsin. de Praef. Urb. p. 281), e console or-dinario l'anno 395 (V. Tillem. Hist. des Emper. in Theod.art. 91). Ma questi onori non andaron disgiunti da sini-stre vicende. Egli zelante pel culto de' pretesi suoi deirecossi l'anno 383 a Graziano in nome del senato roma-no per ottenere ch'ei rivocasse il comando che dato aveadi distruggere l'altare della Vittoria in Roma. Ma i sena-tori cristiani spedirono per mezzo di s. Damaso papauna solenne protesta a s. Ambrogio, dichiarandosich'essi non avevano in ciò parte alcuna, e che solo alcu-ni pochi idolatri eran gli autori di tal preghiera (S. Ambr.ep. contra Symm). Quindi Graziano, ricusò di ammetterSimmaco e i suoi colleghi all'udienza. Mentre egli era

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Epoche dellasua vita.

tunissima occasione, non gli fa mai cenno di averlo avu-to a maestro. Io crederei anzi che il maestro di Simmacofosse per avventura Minervio, gallo egli ancora, di cuiabbiam poc'anzi veduto che fu retore in Roma verso lametà del IV secolo, il che ottimamente conviene a' tem-pi di Simmaco che verso la fine del secolo stesso erauom maturo e provetto.

XI. Io non tratterrommi a esaminare minu-tamente tutto ciò che alla vita e alle vicen-de di Simmaco appartiene; di che si posson

vedere tutti gli storici di questi tempi. Egli ebbe la di-gnità di pontefice maggiore, e fu questore, pretore, ecorrettore nella Lucania e ne' Bruzj, proconsole d'Afri-ca, prefetto di Roma l'an. 384, e forse ancora ne' due se-guenti (V. Corsin. de Praef. Urb. p. 281), e console or-dinario l'anno 395 (V. Tillem. Hist. des Emper. in Theod.art. 91). Ma questi onori non andaron disgiunti da sini-stre vicende. Egli zelante pel culto de' pretesi suoi deirecossi l'anno 383 a Graziano in nome del senato roma-no per ottenere ch'ei rivocasse il comando che dato aveadi distruggere l'altare della Vittoria in Roma. Ma i sena-tori cristiani spedirono per mezzo di s. Damaso papauna solenne protesta a s. Ambrogio, dichiarandosich'essi non avevano in ciò parte alcuna, e che solo alcu-ni pochi idolatri eran gli autori di tal preghiera (S. Ambr.ep. contra Symm). Quindi Graziano, ricusò di ammetterSimmaco e i suoi colleghi all'udienza. Mentre egli era

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Epoche dellasua vita.

prefetto a Roma, fu accusato di molestare i Cristiani maegli ottenne, come dalle sue Lettere si raccoglie (l. 10,ep. 34), un attestato del sopraddetto pontefice, che niunCristiano avea da lui ricevuta molestia di sorte alcuna.Ma l'anno 388 avendo egli ardito di rinnovare a Teodo-sio la preghiera pel ristabilimento dell'altare della Vitto-ria, e avutane per opera di s. Ambrogio una nuova ripul-sa, perchè nondimeno in un panegirico che poco appres-so egli gli recitò, ebbe ancora ardire di farne motto, Teo-dosio sdegnatone comandò che posto subito su un coc-chio fosse condotto cento miglia lungi da Roma. Cosìnarra la cosa l'autore del libro De passionibus Dei, cheva unito coll'Opere di s. Prospero d'Aquitania. Ma Cas-siodoro attribuisce (Hist. Tripart. l. 9, c. 23) lo sdegnodi Teodosio contro di Simmaco a un panegirico che inlode del tiranno Massimo egli avea recitato, e aggiugneche l'infelice temendo la morte rifugiossi entro una chie-sa, e che poscia Teodosio alle preghiere d'alcuni gli con-cedette pietosamente il perdono. In quale anno egli mo-risse, non si può accertare; ma sembra che ciò accadesseal principio del V secolo.

XII. Niuna cosa ci fa meglio conoscerel'infelice gusto di questo secolo, quanto illeggere da una parte gli elogi che di Simma-co han fatto gli scrittori di questo tempo, e

dall'altra le Opere che di lui ci sono rimaste. Prudenzioche all'orazione di Simmaco per l'altare della Vittoria ri-

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Caratteredella suaeloquenza.

prefetto a Roma, fu accusato di molestare i Cristiani maegli ottenne, come dalle sue Lettere si raccoglie (l. 10,ep. 34), un attestato del sopraddetto pontefice, che niunCristiano avea da lui ricevuta molestia di sorte alcuna.Ma l'anno 388 avendo egli ardito di rinnovare a Teodo-sio la preghiera pel ristabilimento dell'altare della Vitto-ria, e avutane per opera di s. Ambrogio una nuova ripul-sa, perchè nondimeno in un panegirico che poco appres-so egli gli recitò, ebbe ancora ardire di farne motto, Teo-dosio sdegnatone comandò che posto subito su un coc-chio fosse condotto cento miglia lungi da Roma. Cosìnarra la cosa l'autore del libro De passionibus Dei, cheva unito coll'Opere di s. Prospero d'Aquitania. Ma Cas-siodoro attribuisce (Hist. Tripart. l. 9, c. 23) lo sdegnodi Teodosio contro di Simmaco a un panegirico che inlode del tiranno Massimo egli avea recitato, e aggiugneche l'infelice temendo la morte rifugiossi entro una chie-sa, e che poscia Teodosio alle preghiere d'alcuni gli con-cedette pietosamente il perdono. In quale anno egli mo-risse, non si può accertare; ma sembra che ciò accadesseal principio del V secolo.

XII. Niuna cosa ci fa meglio conoscerel'infelice gusto di questo secolo, quanto illeggere da una parte gli elogi che di Simma-co han fatto gli scrittori di questo tempo, e

dall'altra le Opere che di lui ci sono rimaste. Prudenzioche all'orazione di Simmaco per l'altare della Vittoria ri-

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Caratteredella suaeloquenza.

spose con due interi libri di versi, ne parla come di unuomo di prodigiosa eloquenza, e superiore allo stessoTullio. O linguam miro verborum fonte fluentem, Romani decus eloquii, cui cedat et ipse Tullius; has fundit dives facundia gemmas. Os dignum, aeterno tinctum quod fulgeat auro, Si mallet laudare Deum. (l. 1. in Symm.).

Macrobio il propone a modello di uno de' quattro generid'eloquenza, ch'egli distingue, cioè del fiorito, e dice chein esso ei non è inferiore ad alcun degli antichi: Pingueet floridum, in quo Plinius Secundus quondam, et nuncnullo veterum minor noster Symmachus luxuriatur (l. 5Saturn. c. 1). Ammiano Marcellino afferma ch'eglidebb'essere nominato tra' principali esempj di dottrinainsieme e di modestia (l. 27, c. 3). Cassiodoro ancora lochiama eloquentissimo (l. 11 Variar. ep. 1). Finalmenteabbiamo una lettera dei cel. sofista Libanio, in cui egliancora ne parla con sentimento di grandissima stima, esi vanta come di un solenne trionfo, perchè Simmaco gliavesse scritto chiedendogli la sua amicizia (ep. 923 edit.Amstel. 1758). Or se noi prendiam nelle mani i dieci li-bri delle Lettere di Simmaco, che sono l'unico saggiodel suo stile che ci sia pervenuto, noi non possiamo ameno di non maravigliarci come mai sia stato egli ono-rato di sì grandi elogj. Leggasi la sua parlata a Valenti-niano e a Teodosio pel ristabilimento del mentovato al-tare, che è inserita anch'essa tra le sue Lettere (l. 10, ep.

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spose con due interi libri di versi, ne parla come di unuomo di prodigiosa eloquenza, e superiore allo stessoTullio. O linguam miro verborum fonte fluentem, Romani decus eloquii, cui cedat et ipse Tullius; has fundit dives facundia gemmas. Os dignum, aeterno tinctum quod fulgeat auro, Si mallet laudare Deum. (l. 1. in Symm.).

Macrobio il propone a modello di uno de' quattro generid'eloquenza, ch'egli distingue, cioè del fiorito, e dice chein esso ei non è inferiore ad alcun degli antichi: Pingueet floridum, in quo Plinius Secundus quondam, et nuncnullo veterum minor noster Symmachus luxuriatur (l. 5Saturn. c. 1). Ammiano Marcellino afferma ch'eglidebb'essere nominato tra' principali esempj di dottrinainsieme e di modestia (l. 27, c. 3). Cassiodoro ancora lochiama eloquentissimo (l. 11 Variar. ep. 1). Finalmenteabbiamo una lettera dei cel. sofista Libanio, in cui egliancora ne parla con sentimento di grandissima stima, esi vanta come di un solenne trionfo, perchè Simmaco gliavesse scritto chiedendogli la sua amicizia (ep. 923 edit.Amstel. 1758). Or se noi prendiam nelle mani i dieci li-bri delle Lettere di Simmaco, che sono l'unico saggiodel suo stile che ci sia pervenuto, noi non possiamo ameno di non maravigliarci come mai sia stato egli ono-rato di sì grandi elogj. Leggasi la sua parlata a Valenti-niano e a Teodosio pel ristabilimento del mentovato al-tare, che è inserita anch'essa tra le sue Lettere (l. 10, ep.

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54), e che deesi credere certamente la miglior cosa ch'eicomponesse, e veggasi se possa ad uom saggio cadere inmente di paragonarlo con Cicerone. Ma tal era il pensa-re di questi tempi. Durava ancora in alcuni il gusto di unparlare concettoso e raffinato che erasi introdotto già datre secoli; e a ciò aggiugnendosi una cotale rozzezza e dipensare e di scrivere che dal conviver co' Barbari, de'quali era piena l'Italia necessariamente si contraeva, for-mavasi un certo stile di nuova foggia fiorito insieme edincolto, che da chi è avvezzo alla lettura de' buoni autorinon si può udir senza stomaco. Quindi ottimamente diceErasmo: Amino pure Simmaco quelli a cui piace di par-lare noiosamente anzichè bene (in Ciceron.). Avea Sim-maco composte e recitate ancora più orazioni come i Pa-negirici di Massimo e di Teodosio che di sopra abbiamrammentati. Di un'altra sua orazione ci parla in una sualettera ad Agorio Pretestato (l. 1, ep. 52); ed è verisimileche altre ancora in altre occasioni ne facesse. Il Tille-mont (l. cit.) dice che le sue orazioni non gli riuscirontroppo felicemente; ma a dir vero non parmi che siaquesto il senso delle parole di Simmaco, ch'egli cita inpruova della sua asserzione. Simmaco dice: Unum quip-pe hoc literarum genus (cioè di scriver lettere) superestpost amaros casus orationum mearum (l. 8, ep. 68). Maquesti avversi casi non furono già il poco applauso dallesue orazioni ottenuto, che anzi dalla maniera con cui neparlano gli antichi egli è palese che l'ottenner grandissi-mo, ma sì lo sdegno di Teodosio, e il pericolo a cui peresso si vide, come sopra abbiam dimostrato.

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54), e che deesi credere certamente la miglior cosa ch'eicomponesse, e veggasi se possa ad uom saggio cadere inmente di paragonarlo con Cicerone. Ma tal era il pensa-re di questi tempi. Durava ancora in alcuni il gusto di unparlare concettoso e raffinato che erasi introdotto già datre secoli; e a ciò aggiugnendosi una cotale rozzezza e dipensare e di scrivere che dal conviver co' Barbari, de'quali era piena l'Italia necessariamente si contraeva, for-mavasi un certo stile di nuova foggia fiorito insieme edincolto, che da chi è avvezzo alla lettura de' buoni autorinon si può udir senza stomaco. Quindi ottimamente diceErasmo: Amino pure Simmaco quelli a cui piace di par-lare noiosamente anzichè bene (in Ciceron.). Avea Sim-maco composte e recitate ancora più orazioni come i Pa-negirici di Massimo e di Teodosio che di sopra abbiamrammentati. Di un'altra sua orazione ci parla in una sualettera ad Agorio Pretestato (l. 1, ep. 52); ed è verisimileche altre ancora in altre occasioni ne facesse. Il Tille-mont (l. cit.) dice che le sue orazioni non gli riuscirontroppo felicemente; ma a dir vero non parmi che siaquesto il senso delle parole di Simmaco, ch'egli cita inpruova della sua asserzione. Simmaco dice: Unum quip-pe hoc literarum genus (cioè di scriver lettere) superestpost amaros casus orationum mearum (l. 8, ep. 68). Maquesti avversi casi non furono già il poco applauso dallesue orazioni ottenuto, che anzi dalla maniera con cui neparlano gli antichi egli è palese che l'ottenner grandissi-mo, ma sì lo sdegno di Teodosio, e il pericolo a cui peresso si vide, come sopra abbiam dimostrato.

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XIII. A Simmaco conviene aggiugner duealtri che troppo da vicino gli appartengonoper non sapararneli; uno che fu a lui stesso,l'altro, a cui fu egli modello e esempiod'indefessa applicazione agli suoi studj, dicosuo padre e suo figliuolo. Di suo padre ci halasciata Simmaco onorevol memoria nelle

sue Lettere, e in una singolarmente in cui a lui stessoscrivendo gli forma questo magnifico elogio che io quirecherò colle parole stesse di Simmaco per dare un sag-gio dello stile da lui usato: Unus aetate nostra monetamLatiaris eloquii tulliana incude finxisti: quidquid inpoetis lepidum apud oratores grave, in annalibus fidele,inter gramaticos eruditum fuit, solus hausisti justushaeres veterum literarum. Ne mihi verba dederis: noviego, qui valeat adagia: Sus Minervam. Adprime callesepicam disciplinam, non minus pedestrem lituum doctusinflare. Ain tandem? Orandi aeque magnus et canendimeae te opis indignum mentiare? Haud aequum facis,neque me juvat falsa jactatio (l. 1, ep. 4). Forse il figlia-le affetto fece esagerare alquanto a Simmaco le lodi pa-terne; ma da altre lettere è certo ch'egli assai dilettavasidegli studj d'eloquenza e di poesia, e che molto era sol-lecito che il suo figlio ancora in essi felicemente siavanzasse. Non meno sollecito di un tale avanzamentoera il nostro Simmaco pel suo proprio unico figlio Q.Flaviano Memmio Simmaco. Egli ne parla spesso nellesue Lettere, e in una singolarmente (l. 4, ep. 20) dice cheper istruirlo nella lingua greca facevasi egli stesso in

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Il padre e ilfiglio di Simmaco coltivatori essi ancora de' buoni studj.

XIII. A Simmaco conviene aggiugner duealtri che troppo da vicino gli appartengonoper non sapararneli; uno che fu a lui stesso,l'altro, a cui fu egli modello e esempiod'indefessa applicazione agli suoi studj, dicosuo padre e suo figliuolo. Di suo padre ci halasciata Simmaco onorevol memoria nelle

sue Lettere, e in una singolarmente in cui a lui stessoscrivendo gli forma questo magnifico elogio che io quirecherò colle parole stesse di Simmaco per dare un sag-gio dello stile da lui usato: Unus aetate nostra monetamLatiaris eloquii tulliana incude finxisti: quidquid inpoetis lepidum apud oratores grave, in annalibus fidele,inter gramaticos eruditum fuit, solus hausisti justushaeres veterum literarum. Ne mihi verba dederis: noviego, qui valeat adagia: Sus Minervam. Adprime callesepicam disciplinam, non minus pedestrem lituum doctusinflare. Ain tandem? Orandi aeque magnus et canendimeae te opis indignum mentiare? Haud aequum facis,neque me juvat falsa jactatio (l. 1, ep. 4). Forse il figlia-le affetto fece esagerare alquanto a Simmaco le lodi pa-terne; ma da altre lettere è certo ch'egli assai dilettavasidegli studj d'eloquenza e di poesia, e che molto era sol-lecito che il suo figlio ancora in essi felicemente siavanzasse. Non meno sollecito di un tale avanzamentoera il nostro Simmaco pel suo proprio unico figlio Q.Flaviano Memmio Simmaco. Egli ne parla spesso nellesue Lettere, e in una singolarmente (l. 4, ep. 20) dice cheper istruirlo nella lingua greca facevasi egli stesso in

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Il padre e ilfiglio di Simmaco coltivatori essi ancora de' buoni studj.

certo modo fanciullo, ripetendone insieme con lui i pri-mi elementi. Cercò ancora di sollevarlo alle cariche piùluminose ed in fatti a molte il vide innalzato, e a quellaancora ch'era allora singolarmente in pregio, e a cui erapur giunto il padre, cioè ad esser prefetto di Romal'anno 419 (V. Tillem, l. cit. et Corsin. p. 338).

XIV. Rimane a dir qualche cosa de' gramati-ci più illustri di questa età. Tra questi s. Gi-rolamo nomina con sentimento di ricono-scenza Elio Donato (in Chron. ad an. 358)

di cui dice di essere stato scolaro in Roma. Egli aveascritti de' Comenti sulle poesie di Terenzio e di Virgilioma que' che ora abbiamo sotto il suo nome, credesi co-munemente che siano di più recenti autori (V. Tillem.Hist. des Emper. in Constant. art. 65; Fabr. Bibl. lat. t.1, p. 33 edit. ven.). I libri da lui composti intorno all'artedi cui era maestro, ancor ci rimangono, almeno in parte,e veggonsi inseriti nelle Raccolte degli antichi Gramati-ci. Da lui è diverso Tiberio Donato autore, come si cre-de, di una Vita di Virgilio, di cui abbiamo parlato nelprimo Volume (p. 175). Nonio Marcello di Tivoli sem-bra, che vivesse a questo tempo medesimo (V. Fabr.Bibl. lat. t. 2, p. 412; Tillem. l. cit.); e forse ancora fu diquesta età Sesto Pompeo Festo, benchè di lui non vi ab-bia ragion bastevole ad affermarlo (ib.). Abbiam le Ope-re di amendue nelle mentovate Raccolte. Più celebre è ilnome di Servio, che fu contemporaneo di Macrobio e

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Gramatici di questi tempi.

certo modo fanciullo, ripetendone insieme con lui i pri-mi elementi. Cercò ancora di sollevarlo alle cariche piùluminose ed in fatti a molte il vide innalzato, e a quellaancora ch'era allora singolarmente in pregio, e a cui erapur giunto il padre, cioè ad esser prefetto di Romal'anno 419 (V. Tillem, l. cit. et Corsin. p. 338).

XIV. Rimane a dir qualche cosa de' gramati-ci più illustri di questa età. Tra questi s. Gi-rolamo nomina con sentimento di ricono-scenza Elio Donato (in Chron. ad an. 358)

di cui dice di essere stato scolaro in Roma. Egli aveascritti de' Comenti sulle poesie di Terenzio e di Virgilioma que' che ora abbiamo sotto il suo nome, credesi co-munemente che siano di più recenti autori (V. Tillem.Hist. des Emper. in Constant. art. 65; Fabr. Bibl. lat. t.1, p. 33 edit. ven.). I libri da lui composti intorno all'artedi cui era maestro, ancor ci rimangono, almeno in parte,e veggonsi inseriti nelle Raccolte degli antichi Gramati-ci. Da lui è diverso Tiberio Donato autore, come si cre-de, di una Vita di Virgilio, di cui abbiamo parlato nelprimo Volume (p. 175). Nonio Marcello di Tivoli sem-bra, che vivesse a questo tempo medesimo (V. Fabr.Bibl. lat. t. 2, p. 412; Tillem. l. cit.); e forse ancora fu diquesta età Sesto Pompeo Festo, benchè di lui non vi ab-bia ragion bastevole ad affermarlo (ib.). Abbiam le Ope-re di amendue nelle mentovate Raccolte. Più celebre è ilnome di Servio, che fu contemporaneo di Macrobio e

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Gramatici di questi tempi.

visse perciò a' tempi o di Teodosio, o di Onorio. Macro-bio lo introduce tra' personaggi de' suoi Dialogi intitolatiSaturnali; e dice ch'egli era uomo che a una singolaredottrina congiungeva una singolare e amabil modestia(l. 1 Saturn. c. 2) e gli dà il nome di massimo tra' Dotto-ri (l. 7, c. 7) e ne loda singolarmente i Comenti da luifatti sopra Virgilio. Essi esistono ancora, benchè alcunipensino che siano anzi una compilazione raccolta davarj autori. Di lui abbiamo ancora qualche libro grama-ticale, nelle Raccolte degli antichi Gramatici, se purenon è un altro Servio da lui diverso (V. Fabr. Bibl. lat. t.2, p. 468). Abbiamo ancora nelle stesse Raccolte i librigramaticali di Diomede e di Flavio Sosipatro Carisioche credonsi di questi tempi (V. Fabr. t. 2, p. 454, 456).Io passo leggermente su questi gramatici, e tralascio an-cora di nominare alcuni altri di minor nome e d'incertaetà. Le loro Opere ci giovan solo a intendere il sensopreciso di alcune voci latine, e a valerci di alcuni passidi antichi autori, che non troviamo altrove. Ma l'affati-carsi a ricercar di essi più distinta contezza sarebbe no-iosa al pari che inutil fatica. Si può vedere ciò che diessi dicono il Fabricio (Bibl lat. l. 4, c. 6. 7) e il Baillet(Jug. des Sav. t. 2). Di due altri gramatici illustri dirò solbrevemente. Un di essi fu Simplicio nativo di Emona,che dopo avere per alcun tempo esercitata la professionedi gramatico, passò ad essere consigliero di Massiminovicario di Roma, e poscia fu vicario egli ancora dellastessa città (Amm. Marcell. l. 28, c. 1). L'altro fu Citarionato in Siracusa nella Sicilia, e passato ad esser profes-

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visse perciò a' tempi o di Teodosio, o di Onorio. Macro-bio lo introduce tra' personaggi de' suoi Dialogi intitolatiSaturnali; e dice ch'egli era uomo che a una singolaredottrina congiungeva una singolare e amabil modestia(l. 1 Saturn. c. 2) e gli dà il nome di massimo tra' Dotto-ri (l. 7, c. 7) e ne loda singolarmente i Comenti da luifatti sopra Virgilio. Essi esistono ancora, benchè alcunipensino che siano anzi una compilazione raccolta davarj autori. Di lui abbiamo ancora qualche libro grama-ticale, nelle Raccolte degli antichi Gramatici, se purenon è un altro Servio da lui diverso (V. Fabr. Bibl. lat. t.2, p. 468). Abbiamo ancora nelle stesse Raccolte i librigramaticali di Diomede e di Flavio Sosipatro Carisioche credonsi di questi tempi (V. Fabr. t. 2, p. 454, 456).Io passo leggermente su questi gramatici, e tralascio an-cora di nominare alcuni altri di minor nome e d'incertaetà. Le loro Opere ci giovan solo a intendere il sensopreciso di alcune voci latine, e a valerci di alcuni passidi antichi autori, che non troviamo altrove. Ma l'affati-carsi a ricercar di essi più distinta contezza sarebbe no-iosa al pari che inutil fatica. Si può vedere ciò che diessi dicono il Fabricio (Bibl lat. l. 4, c. 6. 7) e il Baillet(Jug. des Sav. t. 2). Di due altri gramatici illustri dirò solbrevemente. Un di essi fu Simplicio nativo di Emona,che dopo avere per alcun tempo esercitata la professionedi gramatico, passò ad essere consigliero di Massiminovicario di Roma, e poscia fu vicario egli ancora dellastessa città (Amm. Marcell. l. 28, c. 1). L'altro fu Citarionato in Siracusa nella Sicilia, e passato ad esser profes-

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sore di gramatica in Bourdeaux, di cui Ausonio loda as-sai l'ingegno e lo studio, e le poesie singolarmente da luiin età giovanile composte. (Profess. Burdigal. ep. 13).

XV. Io mi vergognerei di dover qui favellaredi Fabio Fulgenzio Planciade autore di trelibri di Mitologia, di un libro sulla continen-za virgiliana, (nel quale da alcuni è stato ri-dicolosamente creduto che trattasse della

castità, di Virgilio mentre altro non si prefigge se non diparlare di ciò che si contiene in Virgilio), e di una sposi-zione del parlare antico. Egli è scrittor così barbaro, cosìrozzo, così insipido, ch'io mi compiaccio che non vi siaargomento alcuno a provare ch'ei fosse italiano. Basti ilrecarne un piccolo saggio preso dall'esordio del primolibro della Mitologia: Quamvis inefficax petat studiumres, quae caret effectu, et ubi emolumentum deest nego-tii, causa cesset inquiri, hoc videlicet pacto, quia nostritemporis aerumnosa miseria non dicendi petat studium,sed vivendi fleat ergastulum, nec adsistendum poeticae,sed fami sit consulendum domesticae. Ecco il primo pe-riodo di questo elegante scrittore, in cui io sfido il piùintendente gramatico a trovar senso. Oltre che egli,come osserva il Vossio (De Histor. lat. l. 1, c. 20), èuomo così erudito che cita autori e libri che non sonomai stati al mondo. Io l'ho nominato a quest'epoca, per-chè in essa si crede da alcuni ch'egli vivesse. Ma altri amio parere saggiamente il voglion vissuto dopo la guer-

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Notizie di Fabio Ful-genzio Planciade.

sore di gramatica in Bourdeaux, di cui Ausonio loda as-sai l'ingegno e lo studio, e le poesie singolarmente da luiin età giovanile composte. (Profess. Burdigal. ep. 13).

XV. Io mi vergognerei di dover qui favellaredi Fabio Fulgenzio Planciade autore di trelibri di Mitologia, di un libro sulla continen-za virgiliana, (nel quale da alcuni è stato ri-dicolosamente creduto che trattasse della

castità, di Virgilio mentre altro non si prefigge se non diparlare di ciò che si contiene in Virgilio), e di una sposi-zione del parlare antico. Egli è scrittor così barbaro, cosìrozzo, così insipido, ch'io mi compiaccio che non vi siaargomento alcuno a provare ch'ei fosse italiano. Basti ilrecarne un piccolo saggio preso dall'esordio del primolibro della Mitologia: Quamvis inefficax petat studiumres, quae caret effectu, et ubi emolumentum deest nego-tii, causa cesset inquiri, hoc videlicet pacto, quia nostritemporis aerumnosa miseria non dicendi petat studium,sed vivendi fleat ergastulum, nec adsistendum poeticae,sed fami sit consulendum domesticae. Ecco il primo pe-riodo di questo elegante scrittore, in cui io sfido il piùintendente gramatico a trovar senso. Oltre che egli,come osserva il Vossio (De Histor. lat. l. 1, c. 20), èuomo così erudito che cita autori e libri che non sonomai stati al mondo. Io l'ho nominato a quest'epoca, per-chè in essa si crede da alcuni ch'egli vivesse. Ma altri amio parere saggiamente il voglion vissuto dopo la guer-

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Notizie di Fabio Ful-genzio Planciade.

ra de' Goti, e io crederei di provvedere anche meglioalla riparazion di Fulgenzio, dicendo ch'egli vissenell'VIII, o nel IX secolo. Certo egli è tutt'altro da s.Fulgenzio vescovo con cui alcuni l'hanno incautamenteconfuso. Intorno a lui si può vedere, da chi il brami, laprefazione di Tommaso Munckero premessa all'azioneche ne ha fatta, più magnificamente ancora che non fa-cea bisogno, Agostino Van Steveren in Leyden l'anno1742 insieme col supposto Igino, e con un cotal Lattan-zio Placido autore di un compendio delle Metamorfosid'Ovidio.

XVI. Più onorevole sarà all'Italia la menzio-ne d'Aurelio Teodosio Macrobio ch'io pon-go qui tra' gramatici, non perchè egli tenes-se scuola, ma perchè scrisse di argomento

ch'era proprio de' gramatici, i quali singolarmente, comealtrove abbiam dimostrato, si esercitavano nel ricercaregli antichi costumi, nell'esaminare gli antichi autori, e intutto ciò in somma che noi or comprendiamo sotto ilnome di filologia. Nè voglio già io affermare che Ma-crobio fosse italiano (18). Egli stesso troppo apertamenteafferma il contrario, dicendo di esser nato sotto altrocielo, ove la lingua latina non era natìa (prooem. l. 1 Sa-turn). Ma ch'ei vivesse in Roma, apertamente raccoglie-18 Macrobio nei bassi secoli fu creduto di patria parmigiano; e in Parma esi-

ste tuttora il sepolcro in cui credevasi ch'ei fosse chiuso, e noi ne parlere-mo nelle giunte al t. 6 di questa Storia, ove cadrà di nuovo il discorso diBiagio Pelacani filosof. parmigiano.

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Di AurelioTeodosioMacrobio.

ra de' Goti, e io crederei di provvedere anche meglioalla riparazion di Fulgenzio, dicendo ch'egli vissenell'VIII, o nel IX secolo. Certo egli è tutt'altro da s.Fulgenzio vescovo con cui alcuni l'hanno incautamenteconfuso. Intorno a lui si può vedere, da chi il brami, laprefazione di Tommaso Munckero premessa all'azioneche ne ha fatta, più magnificamente ancora che non fa-cea bisogno, Agostino Van Steveren in Leyden l'anno1742 insieme col supposto Igino, e con un cotal Lattan-zio Placido autore di un compendio delle Metamorfosid'Ovidio.

XVI. Più onorevole sarà all'Italia la menzio-ne d'Aurelio Teodosio Macrobio ch'io pon-go qui tra' gramatici, non perchè egli tenes-se scuola, ma perchè scrisse di argomento

ch'era proprio de' gramatici, i quali singolarmente, comealtrove abbiam dimostrato, si esercitavano nel ricercaregli antichi costumi, nell'esaminare gli antichi autori, e intutto ciò in somma che noi or comprendiamo sotto ilnome di filologia. Nè voglio già io affermare che Ma-crobio fosse italiano (18). Egli stesso troppo apertamenteafferma il contrario, dicendo di esser nato sotto altrocielo, ove la lingua latina non era natìa (prooem. l. 1 Sa-turn). Ma ch'ei vivesse in Roma, apertamente raccoglie-18 Macrobio nei bassi secoli fu creduto di patria parmigiano; e in Parma esi-

ste tuttora il sepolcro in cui credevasi ch'ei fosse chiuso, e noi ne parlere-mo nelle giunte al t. 6 di questa Storia, ove cadrà di nuovo il discorso diBiagio Pelacani filosof. parmigiano.

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Di AurelioTeodosioMacrobio.

si da' personaggi ch'egli introduce a favellar ne' Dialogiintitolati De' Saturnali. I principali tra essi sono VezioPretestato, Aurelio Simmaco, Cecina Albino, Servio,Furio Albino, Flaviano Nicomaco, e Avieno. Di Simma-co e di Servio abbiam già favellato. Di Avieno ragione-rem tra' Poeti. Vezio Agorio Pretestato fu uno de' più ce-lebri uomini di questa età, e ornato di tutte le più rag-guardevoli cariche, fra le altre della prefettura di Roma,come si raccoglie da una iscrizione presso il Grutero, ri-portata ancora da Isacco Pontano (in not. ad Macrob. l.1 Saturn. c. 17). Abbiamo molte lettere a lui scritte daSimmaco che gli era amicissimo, e che ne loda l'amoreallo studio, e l'occuparsi ch'egli faceva ne' giorni che glirimanevano liberi, nella lettura degli ottimi autori (l. 1,ep. 44). Ma piene singolarmente di magnifici elogi peresso sono le lettere che Simmaco scrisse, agl'imperadoriTeodosio, Arcadio, e Valentiniano II quando egli morì,allora appunto ch'era per prender l'insegne del consolato(l. 10, ep. 23, 24, 25), il che accadde l'anno 384, comemostra il Tillemont (in Theod. art. 22, not. 20), presso ilquale si potranno vedere raccolte insieme le notizie cheappartengono a Pretestato. Cecina Decio Albino fu eglipure prefetto di Roma tra l'anno 395 e l'anno 408, comepruova il medesimo Tillemont (ib. in Honor. art. 68.not. 39). Di Furio Albino non abbiamo altra contezza, sepur ei non è lo stesso che Cesonio Rufio Albino perfettodi Roma l'an. 369. (V. Tillem. ib. art. 47; Corsin. p.288). Flaviano Nicomaco finalmente sembra quel dessoche morì combattendo nell'esercito di Eugenio contro di

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si da' personaggi ch'egli introduce a favellar ne' Dialogiintitolati De' Saturnali. I principali tra essi sono VezioPretestato, Aurelio Simmaco, Cecina Albino, Servio,Furio Albino, Flaviano Nicomaco, e Avieno. Di Simma-co e di Servio abbiam già favellato. Di Avieno ragione-rem tra' Poeti. Vezio Agorio Pretestato fu uno de' più ce-lebri uomini di questa età, e ornato di tutte le più rag-guardevoli cariche, fra le altre della prefettura di Roma,come si raccoglie da una iscrizione presso il Grutero, ri-portata ancora da Isacco Pontano (in not. ad Macrob. l.1 Saturn. c. 17). Abbiamo molte lettere a lui scritte daSimmaco che gli era amicissimo, e che ne loda l'amoreallo studio, e l'occuparsi ch'egli faceva ne' giorni che glirimanevano liberi, nella lettura degli ottimi autori (l. 1,ep. 44). Ma piene singolarmente di magnifici elogi peresso sono le lettere che Simmaco scrisse, agl'imperadoriTeodosio, Arcadio, e Valentiniano II quando egli morì,allora appunto ch'era per prender l'insegne del consolato(l. 10, ep. 23, 24, 25), il che accadde l'anno 384, comemostra il Tillemont (in Theod. art. 22, not. 20), presso ilquale si potranno vedere raccolte insieme le notizie cheappartengono a Pretestato. Cecina Decio Albino fu eglipure prefetto di Roma tra l'anno 395 e l'anno 408, comepruova il medesimo Tillemont (ib. in Honor. art. 68.not. 39). Di Furio Albino non abbiamo altra contezza, sepur ei non è lo stesso che Cesonio Rufio Albino perfettodi Roma l'an. 369. (V. Tillem. ib. art. 47; Corsin. p.288). Flaviano Nicomaco finalmente sembra quel dessoche morì combattendo nell'esercito di Eugenio contro di

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Teodosio l'anno 394; benchè potè essere ancora FlavioNicomaco di lui figlio prefetto di Roma l'an. 399. (ib.art. 78. et in Honor. art. 9). Da tutto ciò ricaviam chiara-mente il tempo a cui visse Macrobio, cioè sotto l'imperodi Teodosio, e probabilmente ancora sotto quello diOnorio. Quindi credesi da alcuni ch'ei sia quel Macrobiomedesimo che ai tempi di Onorio e di Teodosio II fugran ciambellano (Cod. theod. l. 6, tit. 8); ma non vi èragione ad affermarlo sicuramente. Io non so intenderecome ad alcuni sia caduto in mente di crederlo cristiano,mentre egli e i suoi interlocutori parlan sempre col lin-guaggio usato a' Pagani, e molto più mentre il veggiamoamicissimo di Simmaco, di Pretestato e di Flaviano,ch'eran nemici giurati della religione cristiana.

XVII. Di lui abbiamo, oltre qualche operet-ta gramaticale inserita nelle Raccolte degliantichi Gramatici (se pur non n'è autore un

altro Macrobio da lui diverso) due libri di Comenti suquella parte de' libri di Cicerone sulla Repubblica, checontiene il Sogno di Scipione, ne' quali egli siegue co-munemente le dottrine platoniche (V. Bruck. Hist. Phil.t. 2, p. 456), e mostra una sufficiente cognizione d'astro-nomia, benchè spesse volte ci narri cose che ci fannoconoscere il poco che allora se ne sapeva. Più utili sonoi sette libri da lui intitolati Conviti saturnali, perchè rife-risce gli eruditi discorsi che da' personaggi soprannoma-ti si eran tenuti all'occasione delle feste sagre a Saturno.

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Sue opere eloro stile.

Teodosio l'anno 394; benchè potè essere ancora FlavioNicomaco di lui figlio prefetto di Roma l'an. 399. (ib.art. 78. et in Honor. art. 9). Da tutto ciò ricaviam chiara-mente il tempo a cui visse Macrobio, cioè sotto l'imperodi Teodosio, e probabilmente ancora sotto quello diOnorio. Quindi credesi da alcuni ch'ei sia quel Macrobiomedesimo che ai tempi di Onorio e di Teodosio II fugran ciambellano (Cod. theod. l. 6, tit. 8); ma non vi èragione ad affermarlo sicuramente. Io non so intenderecome ad alcuni sia caduto in mente di crederlo cristiano,mentre egli e i suoi interlocutori parlan sempre col lin-guaggio usato a' Pagani, e molto più mentre il veggiamoamicissimo di Simmaco, di Pretestato e di Flaviano,ch'eran nemici giurati della religione cristiana.

XVII. Di lui abbiamo, oltre qualche operet-ta gramaticale inserita nelle Raccolte degliantichi Gramatici (se pur non n'è autore un

altro Macrobio da lui diverso) due libri di Comenti suquella parte de' libri di Cicerone sulla Repubblica, checontiene il Sogno di Scipione, ne' quali egli siegue co-munemente le dottrine platoniche (V. Bruck. Hist. Phil.t. 2, p. 456), e mostra una sufficiente cognizione d'astro-nomia, benchè spesse volte ci narri cose che ci fannoconoscere il poco che allora se ne sapeva. Più utili sonoi sette libri da lui intitolati Conviti saturnali, perchè rife-risce gli eruditi discorsi che da' personaggi soprannoma-ti si eran tenuti all'occasione delle feste sagre a Saturno.

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Sue opere eloro stile.

Molte quistioni vi si trattano su diversi argomenti d'anti-chità, di mitologia, di storia, di poesia; vi si rischiaranoed esaminano molti passi di antichi autori; vi si ram-mentano molte leggi e molte costumanze così de' Roma-ni, come di altri popoli antichi; ed è in somma una variaed erudita raccolta assai utile all'intelligenza de' buoniautori. Lo stile non è certo molto elegante, ma non è astupirne ed egli stesso ne chiede scusa, ricordando,come abbiam detto, che, la lingua latina non gli era na-tia. Alcuni il riprendono perchè sovente egli trascrivade' passi intieri di Seneca, di Gellio, di Valerio Massi-mo, senza mai nominarli, e il ripongon perciò nell'infa-me ruolo de' plagiarj. Ma parmi ch'essi potrebbono conlui usare di qualche pietà, se ponessero mente a ciò chedice egli stesso di questa sua opera: Nec mihi vitio ver-tas, dic'egli (Prooem. l. 1) si res quas ex lectione variamutuabor, ipsis saepe verbis, quibus ab ipsis auctoribusenarratae sunt, explicabo quia praesens opus non elo-quetiae ostentationem, sed noscendorum congeriempollicetur, et boni consulas oportet, si notitiam Vetusta-tis modo nostris non obscure, modo ipsis antiquorum fi-deliter verbis reconoscas, prout, quaeque se vel enar-randa, vel transferenda saggesserint. Poteva egli Ma-crobio parlare più chiaramente a rimuovere da sè la tac-cia di plagiario? Se, dunque egli non cita gli autori dacui trae alcuni passi, potrà esser ripreso di negligenzanell'indicare i fonti a cui attingeva, ma non di furto, nèdi essersi occultamente arricchito delle fatiche altrui.

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Molte quistioni vi si trattano su diversi argomenti d'anti-chità, di mitologia, di storia, di poesia; vi si rischiaranoed esaminano molti passi di antichi autori; vi si ram-mentano molte leggi e molte costumanze così de' Roma-ni, come di altri popoli antichi; ed è in somma una variaed erudita raccolta assai utile all'intelligenza de' buoniautori. Lo stile non è certo molto elegante, ma non è astupirne ed egli stesso ne chiede scusa, ricordando,come abbiam detto, che, la lingua latina non gli era na-tia. Alcuni il riprendono perchè sovente egli trascrivade' passi intieri di Seneca, di Gellio, di Valerio Massi-mo, senza mai nominarli, e il ripongon perciò nell'infa-me ruolo de' plagiarj. Ma parmi ch'essi potrebbono conlui usare di qualche pietà, se ponessero mente a ciò chedice egli stesso di questa sua opera: Nec mihi vitio ver-tas, dic'egli (Prooem. l. 1) si res quas ex lectione variamutuabor, ipsis saepe verbis, quibus ab ipsis auctoribusenarratae sunt, explicabo quia praesens opus non elo-quetiae ostentationem, sed noscendorum congeriempollicetur, et boni consulas oportet, si notitiam Vetusta-tis modo nostris non obscure, modo ipsis antiquorum fi-deliter verbis reconoscas, prout, quaeque se vel enar-randa, vel transferenda saggesserint. Poteva egli Ma-crobio parlare più chiaramente a rimuovere da sè la tac-cia di plagiario? Se, dunque egli non cita gli autori dacui trae alcuni passi, potrà esser ripreso di negligenzanell'indicare i fonti a cui attingeva, ma non di furto, nèdi essersi occultamente arricchito delle fatiche altrui.

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XVIII. Io farò qui finalmente menzione diMarziano Mineo Felice Capella, di cui ab-biam nove libri intitolati De Nuptiis Philo-logiae, et Mercurii, ne' quali all'occasione di

tali nozze da lui poeticamente ideate tratta di quasi tuttele scienze, e ne spiega i principj e l'indole con uno stilebarbaro al certo ed incolto, ma che pur ci offre molteutili cognizioni. Ei fu africano di patria, nel che non v'haluogo a dubbio (V. Voss. de Hist. lat. l. 3). Rafaello Vol-terrano citando l'autorità di non so quale Remigio dice(l. 17 Comment. urb.) ch'ei viveva in Roma; ma nonparmi che sia questa autorità bastevole ad accertarlo. Èincerto ancora a qual età egli vivesse. Il Grozio dice(ap. Fabr. Bibl. lat. l. 33 c. 15) che Cassiodoro ne famenzione; nel qual caso converrebbe crederlo vissutoalla epoca di cui scriviamo. Ma io non trovo in qual luo-go faccia Cassiodoro memoria alcuna di tale autore. Nèaltra ragione si arreca per fissarlo a quest'epoca: anzi al-cuni il vogliono vissuto più tardi assai (Voss. ib.). Baste-rà dunque l'averlo qui brevemente accennato, senza peròpretendere di porlo accertatamente nè tra gli scrittori chepel soggiorno in Italia si posson dire italiani, nè tra quel-li che fiorirono a questi tempi.

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Notizie diMarzianoCapella.

XVIII. Io farò qui finalmente menzione diMarziano Mineo Felice Capella, di cui ab-biam nove libri intitolati De Nuptiis Philo-logiae, et Mercurii, ne' quali all'occasione di

tali nozze da lui poeticamente ideate tratta di quasi tuttele scienze, e ne spiega i principj e l'indole con uno stilebarbaro al certo ed incolto, ma che pur ci offre molteutili cognizioni. Ei fu africano di patria, nel che non v'haluogo a dubbio (V. Voss. de Hist. lat. l. 3). Rafaello Vol-terrano citando l'autorità di non so quale Remigio dice(l. 17 Comment. urb.) ch'ei viveva in Roma; ma nonparmi che sia questa autorità bastevole ad accertarlo. Èincerto ancora a qual età egli vivesse. Il Grozio dice(ap. Fabr. Bibl. lat. l. 33 c. 15) che Cassiodoro ne famenzione; nel qual caso converrebbe crederlo vissutoalla epoca di cui scriviamo. Ma io non trovo in qual luo-go faccia Cassiodoro memoria alcuna di tale autore. Nèaltra ragione si arreca per fissarlo a quest'epoca: anzi al-cuni il vogliono vissuto più tardi assai (Voss. ib.). Baste-rà dunque l'averlo qui brevemente accennato, senza peròpretendere di porlo accertatamente nè tra gli scrittori chepel soggiorno in Italia si posson dire italiani, nè tra quel-li che fiorirono a questi tempi.

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Notizie diMarzianoCapella.

CAPO IV.Poesia.

I. Lo stato infelice in cui abbiam vedutogiacersi la latina eloquenza, ci fa credere fa-cilmente che ugual dovesse essere la sortedella latina poesia. E nondimeno avvennealtrimenti. I poeti di questa età non possoncerto in alcun modo paragonarsi cogli anti-

chi; ma essi meritano maggior lode che non gli oratori.Avieno e Claudiano sono assai migliori scrittori in versoche la più parte di quelli che a questo tempo scrissero inprosa. Anzi que' medesimi i quali, quando scrivono inprosa, hanno una insoffribil rozzezza, come Sidonio,Marziano Capella e lo stesso barbaro Fulgenzio Plancia-de, se si volgono alla poesia, si veggono assai meno in-colti, e appena sembran gli stessi. Onde crederem noiche ciò potesse avvenire? Io penso che altra ragione nonse ne possa recare, fuorchè la necessità del metro. Svol-giamo brevemente questo pensiero. Gli scrittori di que-sta età vivevano in mezzo a barbari ed a stranieri, de'quali era piena l'Italia. Quindi la lingua latina nel favel-lare ordinario venivasi ognor più corrompendo; sì per-chè i Barbari volendo in essa parlare, le aggiungevanomolte delle loro parole e delle loro espressioni, paghi didare ad esse una terminazione latina, sì perchè i nazio-

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Per qual ra-gione i poe-ti di questa età sian più eleganti de' prosatori.

CAPO IV.Poesia.

I. Lo stato infelice in cui abbiam vedutogiacersi la latina eloquenza, ci fa credere fa-cilmente che ugual dovesse essere la sortedella latina poesia. E nondimeno avvennealtrimenti. I poeti di questa età non possoncerto in alcun modo paragonarsi cogli anti-

chi; ma essi meritano maggior lode che non gli oratori.Avieno e Claudiano sono assai migliori scrittori in versoche la più parte di quelli che a questo tempo scrissero inprosa. Anzi que' medesimi i quali, quando scrivono inprosa, hanno una insoffribil rozzezza, come Sidonio,Marziano Capella e lo stesso barbaro Fulgenzio Plancia-de, se si volgono alla poesia, si veggono assai meno in-colti, e appena sembran gli stessi. Onde crederem noiche ciò potesse avvenire? Io penso che altra ragione nonse ne possa recare, fuorchè la necessità del metro. Svol-giamo brevemente questo pensiero. Gli scrittori di que-sta età vivevano in mezzo a barbari ed a stranieri, de'quali era piena l'Italia. Quindi la lingua latina nel favel-lare ordinario venivasi ognor più corrompendo; sì per-chè i Barbari volendo in essa parlare, le aggiungevanomolte delle loro parole e delle loro espressioni, paghi didare ad esse una terminazione latina, sì perchè i nazio-

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Per qual ra-gione i poe-ti di questa età sian più eleganti de' prosatori.

nali pel continuo conversare con essi, e anche pel desi-derio di essere da essi più facilmente intesi, contraevanomolto della rozzezza degli stranieri. Or questa barbariedel parlar famigliare assai agevolmente si comunica an-che allo scrivere, quando uno scrive in prosa, in cui puòsenza intoppo spiegare i suoi sentimenti, e quasi senzaavvedersene usa scrivendo di quelle espressioni medesi-me di cui suol usar conversando; di che abbiam lunga-mente parlato nella Dissertazione preliminare premessaa questo volume. Ma al contrario quando si scrivon ver-si, le leggi della quantità e del metro rattengon la pennae la mano dello scrittore e necessariamente il costringo-no a rifletter su ciò che scrive, a esaminare, a corregge-re, a cambiar l'espressioni e a cancellar sovente ciò cheavea già scritto. Quindi scrivendosi in versi con maggiorriflessione, non è maraviglia che scrivasi ancora più col-tamente e che minor rozzezza s'incontri ne' poeti che ne'prosatori. E questa parimenti io penso che sia la ragioneper cui i giovinetti che attendono agli studj della elo-quenza e della poesia, sono comunemente più colti inquesta che in quella, come molti per lunga esperienzahanno osservato; perchè quando scrivono in prosa, scri-vono comunemente ciò che lor vien prima alla penna;ma il verso li obbliga a pensar meglio alla scelta delleespressioni, e li rende quasi lor malgrado, più esatti (19).19 Oltre la maggior riflessione che dee fare necessariamente chi scrive in ver-

si, giova ancora non poco a fare che lo stil de' poeti sia meno incolto diquello degli altri oratori, la vivacità e l'estro proprio della poesia, per cui ilpoeta sollevandosi in certo modo sopra il volgo, sdegna di usare l'espres-sioni che ad esso son famigliari, e si sforza di parlare più nobilmente e più

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nali pel continuo conversare con essi, e anche pel desi-derio di essere da essi più facilmente intesi, contraevanomolto della rozzezza degli stranieri. Or questa barbariedel parlar famigliare assai agevolmente si comunica an-che allo scrivere, quando uno scrive in prosa, in cui puòsenza intoppo spiegare i suoi sentimenti, e quasi senzaavvedersene usa scrivendo di quelle espressioni medesi-me di cui suol usar conversando; di che abbiam lunga-mente parlato nella Dissertazione preliminare premessaa questo volume. Ma al contrario quando si scrivon ver-si, le leggi della quantità e del metro rattengon la pennae la mano dello scrittore e necessariamente il costringo-no a rifletter su ciò che scrive, a esaminare, a corregge-re, a cambiar l'espressioni e a cancellar sovente ciò cheavea già scritto. Quindi scrivendosi in versi con maggiorriflessione, non è maraviglia che scrivasi ancora più col-tamente e che minor rozzezza s'incontri ne' poeti che ne'prosatori. E questa parimenti io penso che sia la ragioneper cui i giovinetti che attendono agli studj della elo-quenza e della poesia, sono comunemente più colti inquesta che in quella, come molti per lunga esperienzahanno osservato; perchè quando scrivono in prosa, scri-vono comunemente ciò che lor vien prima alla penna;ma il verso li obbliga a pensar meglio alla scelta delleespressioni, e li rende quasi lor malgrado, più esatti (19).19 Oltre la maggior riflessione che dee fare necessariamente chi scrive in ver-

si, giova ancora non poco a fare che lo stil de' poeti sia meno incolto diquello degli altri oratori, la vivacità e l'estro proprio della poesia, per cui ilpoeta sollevandosi in certo modo sopra il volgo, sdegna di usare l'espres-sioni che ad esso son famigliari, e si sforza di parlare più nobilmente e più

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Così spiegata l'origine delle meno infelici vicendech'ebbe di questi tempi la poesia, passiamo a vedere chifosser que' pochi che in Italia la coltivarono.

II. Rufo Festo Avieno viveva circa il tempodi Teodosio. Ma se tutte ad un solo autore sidebbano attribuire le opere che vanno sottoun tal nome, non è facile a diffinire. S. Giro-

lamo fa menzione della traduzione in versi latini daAvieno fatta, dic'egli, di fresco (Comm. in ep. ad Tit. c.1), de' Fenomeni di Arato. Questa versione dunque, cheancor abbiamo, fu certamente fatta intorno a questotempo. Inoltre la traduzione ossia metafrasi in versieroici della descrizion della terra di Dionigi alessandri-no, insieme con un frammento di descrizione del mareda Cadice fino a Marsiglia in versi jambi, che ancoraabbiamo sotto il nome di Avieno, sembra opera di que-sto tempo, perciocchè ella è da lui indirizzata a un cotalProbo suo cognato, che sembra quel Probo uom conso-lare a cui Claudiano ancora dedicò alcune sue poesie. LeXLII Favole finalmente che vanno pur sotto nome diAvieno, benchè in alcuni codici con leggera mutazioneei sia detto Aviano o Anniano, sono da lui dedicate a unTeodosio che credesi probabilmente essere Aurelio Teo-dosio Macrobio, il quale di fatto fa onorevol menzionedi Avieno, e lo introduce tra gl'interlocutori de' suoi Dia-logi. Quindi par certo che tutte queste opere siano del

altamente.

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Notizie diRufo FestoAvieno.

Così spiegata l'origine delle meno infelici vicendech'ebbe di questi tempi la poesia, passiamo a vedere chifosser que' pochi che in Italia la coltivarono.

II. Rufo Festo Avieno viveva circa il tempodi Teodosio. Ma se tutte ad un solo autore sidebbano attribuire le opere che vanno sottoun tal nome, non è facile a diffinire. S. Giro-

lamo fa menzione della traduzione in versi latini daAvieno fatta, dic'egli, di fresco (Comm. in ep. ad Tit. c.1), de' Fenomeni di Arato. Questa versione dunque, cheancor abbiamo, fu certamente fatta intorno a questotempo. Inoltre la traduzione ossia metafrasi in versieroici della descrizion della terra di Dionigi alessandri-no, insieme con un frammento di descrizione del mareda Cadice fino a Marsiglia in versi jambi, che ancoraabbiamo sotto il nome di Avieno, sembra opera di que-sto tempo, perciocchè ella è da lui indirizzata a un cotalProbo suo cognato, che sembra quel Probo uom conso-lare a cui Claudiano ancora dedicò alcune sue poesie. LeXLII Favole finalmente che vanno pur sotto nome diAvieno, benchè in alcuni codici con leggera mutazioneei sia detto Aviano o Anniano, sono da lui dedicate a unTeodosio che credesi probabilmente essere Aurelio Teo-dosio Macrobio, il quale di fatto fa onorevol menzionedi Avieno, e lo introduce tra gl'interlocutori de' suoi Dia-logi. Quindi par certo che tutte queste opere siano del

altamente.

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Notizie diRufo FestoAvieno.

medesimo tempo e quindi si può ancora asserire confondamento che siano del medesimo autore. Un'altraquanto laboriosa altrettanto inutile opera avea Avienocomposta, come narra Servio (in l. 10 Aeneid. ad v.388), cioè la traduzione in versi jambi di tutta la Storiadi Livio. Di qualche altro breve componimento che daalcuni si attribuisce ad Avieno, veggasi il Fabricio (Bibl.lat. l. 3, c. 11). Ei non è certamente molto elegante poe-ta, e le sue favole son troppo lontane dall'aurea sempli-cità di quelle di Fedro. Ma nondimeno, come abbiam disopra accennato, in confronto cogli scrittori di prosa diquesto tempo medesimo ei può aver lode di colto e nondispregevol poeta.

III. Gli Spagnuoli pensano di aver diritto adannoverare Avieno tra' loro scrittori. Nicco-lò Antonio più modesto di alcuni altri chel'hanno francamente affermato, dice solo

che questa opinione è assai probabile (Bibl. hisp. vet. l.2, c. 9). Tutte però le ragioni ch'egli ne arreca, si riduco-no al lodar ch'egli fa gli Spagnuoli, chiamandoli magna-nimi, e alla minuta descrizione che fa de' luoghi intornoa Cadice, cui egli dice di aver veduti (in descr. Oraemarit.), e al citare ch'egli fa talvolta i libri Cartaginesi.Le quali ragioni se bastino a crederlo spagnuolo, lascioche ognuno il decida per se medesimo. Io penso che as-sai più forte ragione possiam noi arrecare a crederlo ita-liano. Lo Spon (Miscell. erud. Antiq. p. 99) e il Fabbretti

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S'ei fosse dipatria spa-gnolo.

medesimo tempo e quindi si può ancora asserire confondamento che siano del medesimo autore. Un'altraquanto laboriosa altrettanto inutile opera avea Avienocomposta, come narra Servio (in l. 10 Aeneid. ad v.388), cioè la traduzione in versi jambi di tutta la Storiadi Livio. Di qualche altro breve componimento che daalcuni si attribuisce ad Avieno, veggasi il Fabricio (Bibl.lat. l. 3, c. 11). Ei non è certamente molto elegante poe-ta, e le sue favole son troppo lontane dall'aurea sempli-cità di quelle di Fedro. Ma nondimeno, come abbiam disopra accennato, in confronto cogli scrittori di prosa diquesto tempo medesimo ei può aver lode di colto e nondispregevol poeta.

III. Gli Spagnuoli pensano di aver diritto adannoverare Avieno tra' loro scrittori. Nicco-lò Antonio più modesto di alcuni altri chel'hanno francamente affermato, dice solo

che questa opinione è assai probabile (Bibl. hisp. vet. l.2, c. 9). Tutte però le ragioni ch'egli ne arreca, si riduco-no al lodar ch'egli fa gli Spagnuoli, chiamandoli magna-nimi, e alla minuta descrizione che fa de' luoghi intornoa Cadice, cui egli dice di aver veduti (in descr. Oraemarit.), e al citare ch'egli fa talvolta i libri Cartaginesi.Le quali ragioni se bastino a crederlo spagnuolo, lascioche ognuno il decida per se medesimo. Io penso che as-sai più forte ragione possiam noi arrecare a crederlo ita-liano. Lo Spon (Miscell. erud. Antiq. p. 99) e il Fabbretti

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S'ei fosse dipatria spa-gnolo.

(Inscr. ant. p. 742), e dopo essi il Fabricio (l. c.), hannopubblicata un'iscrizione che sembra appartenere al no-stro Avieno, e che chiaramente il dice italiano. R. Festus V. C. de se ad Deam Nortiam. Festus Musoni soboles prolesque Avieni, Unde tui latices traxerunt Caesia nomen Nortia, te veneror lare cretus Vulsiniensi, Romam habitans gemino Proconsulis auctus honore, Carmina multa serens vitam insons, integer aevum, Conjugio laetus Placidae, numeroque frequenti Natorum exultans, vivax et spiritus illis; Cetera composita fatorum lege trahuntur ec.

Io non veggo qual cosa ci vieti di applicare questa iscri-zione al nostro poeta, di cui veggiamo che in fatto qui sirammentano le poesie; e quindi converrà dire ancorach'ei fosse idolatra. Un'iscrizione di Rufo Festo procons.della Grecia è stata pubblicata ancor dal Grutero (Thes.Inscr. p. 464). Ed egli pure non è forse diverso dal no-stro. Ma ancorchè non fosse certo ch'egli avesse l'Italiaper patria, il lungo soggiorno ch'egli vi fece, ci dà suffi-ciente ragione ad annoverarlo tra' nostri.

IV. Maggior diversità di opinioni havvi tragli scrittori intorno alla patria di ClaudioClaudiano. Pare impossibile che fra tantepruove che chiaramente ci mostrano che fu

egiziano, siansi potuti far tanti sogni sulla patria di que-sto poeta. Leggasi Niccolò Antonio che espone i diversi

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Notizie del poeta Clau-diano.

(Inscr. ant. p. 742), e dopo essi il Fabricio (l. c.), hannopubblicata un'iscrizione che sembra appartenere al no-stro Avieno, e che chiaramente il dice italiano. R. Festus V. C. de se ad Deam Nortiam. Festus Musoni soboles prolesque Avieni, Unde tui latices traxerunt Caesia nomen Nortia, te veneror lare cretus Vulsiniensi, Romam habitans gemino Proconsulis auctus honore, Carmina multa serens vitam insons, integer aevum, Conjugio laetus Placidae, numeroque frequenti Natorum exultans, vivax et spiritus illis; Cetera composita fatorum lege trahuntur ec.

Io non veggo qual cosa ci vieti di applicare questa iscri-zione al nostro poeta, di cui veggiamo che in fatto qui sirammentano le poesie; e quindi converrà dire ancorach'ei fosse idolatra. Un'iscrizione di Rufo Festo procons.della Grecia è stata pubblicata ancor dal Grutero (Thes.Inscr. p. 464). Ed egli pure non è forse diverso dal no-stro. Ma ancorchè non fosse certo ch'egli avesse l'Italiaper patria, il lungo soggiorno ch'egli vi fece, ci dà suffi-ciente ragione ad annoverarlo tra' nostri.

IV. Maggior diversità di opinioni havvi tragli scrittori intorno alla patria di ClaudioClaudiano. Pare impossibile che fra tantepruove che chiaramente ci mostrano che fu

egiziano, siansi potuti far tanti sogni sulla patria di que-sto poeta. Leggasi Niccolò Antonio che espone i diversi

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Notizie del poeta Clau-diano.

pareri degli eruditi (Bibl. hisp. vet. l. 3, c. 5) su questopunto. Alcuni l'han fatto spagnuolo, altri francese, altrifiorentino, mossi probabilmente dal dedicare che faClaudiano alcune sue poesie a un Fiorentino. Questa ul-tima opinione ha in suo favore l'autorità di molti recentiscrittori singolarmente fiorentini, citati dall'eruditiss. co.Giamm. Mazzucchelli nelle sue note alle vite degli Uo-mini illustri fiorentini di Filippo Villani (p. 11), e dalsig. Domenico Maria Manni (Dell'antich. delle letteregr. in Firenze p. 12). Ma non ve n'ha alcuno che sia piùantico del XIV sec. e niun di questi ci accenna pruova, omonumento alcuno a confermazione del suo parere. Eper altra parte, che Claudiano fosse egiziano, è così evi-dente che non vi ha luogo a un menomo dubbio. Oltrel'autorità di Suida (in Lex.), abbiamo quella assai piùpregevole di Sidonio Apollinare scrittore contempora-neo, il quale così di lui dice. Non Pelusiaco satus Canopo, Qui ferruginei thoros mariti Et musa canit inferos superna (carm. 9).

Ove vuolsi riflettere che il Volterrano parlando di questatestimonianza medesima dice (Comment. urb. l. 14),Possidonius, qui fuit Claudiani familiaris, forse per er-rore di stampa, dovendosi ivi leggere per avventuraPoeta Sidonius, errore però, che troppo facilmente è sta-to adottato dal Quadrio (Stor. della Poes. t. 6, p. 662.).Ma oltre ciò lo stesso Claudiano troppo apertamente sifa natìo di Egitto, e dove scrivendo ad Adriano, egiziano

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pareri degli eruditi (Bibl. hisp. vet. l. 3, c. 5) su questopunto. Alcuni l'han fatto spagnuolo, altri francese, altrifiorentino, mossi probabilmente dal dedicare che faClaudiano alcune sue poesie a un Fiorentino. Questa ul-tima opinione ha in suo favore l'autorità di molti recentiscrittori singolarmente fiorentini, citati dall'eruditiss. co.Giamm. Mazzucchelli nelle sue note alle vite degli Uo-mini illustri fiorentini di Filippo Villani (p. 11), e dalsig. Domenico Maria Manni (Dell'antich. delle letteregr. in Firenze p. 12). Ma non ve n'ha alcuno che sia piùantico del XIV sec. e niun di questi ci accenna pruova, omonumento alcuno a confermazione del suo parere. Eper altra parte, che Claudiano fosse egiziano, è così evi-dente che non vi ha luogo a un menomo dubbio. Oltrel'autorità di Suida (in Lex.), abbiamo quella assai piùpregevole di Sidonio Apollinare scrittore contempora-neo, il quale così di lui dice. Non Pelusiaco satus Canopo, Qui ferruginei thoros mariti Et musa canit inferos superna (carm. 9).

Ove vuolsi riflettere che il Volterrano parlando di questatestimonianza medesima dice (Comment. urb. l. 14),Possidonius, qui fuit Claudiani familiaris, forse per er-rore di stampa, dovendosi ivi leggere per avventuraPoeta Sidonius, errore però, che troppo facilmente è sta-to adottato dal Quadrio (Stor. della Poes. t. 6, p. 662.).Ma oltre ciò lo stesso Claudiano troppo apertamente sifa natìo di Egitto, e dove scrivendo ad Adriano, egiziano

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esso pure, così ragiona, Audiat haec commune solum, longequc carinis Nota Pharos, flentemque attollens gurgite vultum Nostra gemat Nilus numerosis funera ripis (ep. 1):

e dove scrivendo al procons. Gennadio così a lui si ri-volge, Grajorum populis, et nostro cognite Nilo (ep. 5).

L'opinione da alcuni immaginata a spiegare come ei fos-se italiano, benchè nato in Egitto, cioè ch'egli era figliodi un fiorentino colà recatosi, potrebbe ammettersi, seavesse qualche anche legger fondamento. Egli però vis-se comunemente in Italia e in Roma, come dalle suepoesie si raccoglie; e questo ci dee bastare, perchè glidiamo qui luogo. Stilicone fu il gran mecenate di Clau-diano; e questi perciò non solo ne celebrò le lodi in trelibri di versi e in più altri componimenti; ma per secon-darne i sentimenti e le passioni, scrisse ancora le amaris-sime invettive contro i due ministri rivali di Stilicone, eda lui perciò rovinati ed oppressi, Eutropio e Ruffino.Serena moglie di Stilicone procurò a Claudiano un van-taggioso e onorevole matrimonio, come egli stesso di-chiara, scrivendole in rendimento di grazie (ep. 2.); ed èprobabile che la protezione di Stilicone molti altri van-taggi arrecasse a questo poeta, de' quali però non abbia-mo particolare contezza.

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esso pure, così ragiona, Audiat haec commune solum, longequc carinis Nota Pharos, flentemque attollens gurgite vultum Nostra gemat Nilus numerosis funera ripis (ep. 1):

e dove scrivendo al procons. Gennadio così a lui si ri-volge, Grajorum populis, et nostro cognite Nilo (ep. 5).

L'opinione da alcuni immaginata a spiegare come ei fos-se italiano, benchè nato in Egitto, cioè ch'egli era figliodi un fiorentino colà recatosi, potrebbe ammettersi, seavesse qualche anche legger fondamento. Egli però vis-se comunemente in Italia e in Roma, come dalle suepoesie si raccoglie; e questo ci dee bastare, perchè glidiamo qui luogo. Stilicone fu il gran mecenate di Clau-diano; e questi perciò non solo ne celebrò le lodi in trelibri di versi e in più altri componimenti; ma per secon-darne i sentimenti e le passioni, scrisse ancora le amaris-sime invettive contro i due ministri rivali di Stilicone, eda lui perciò rovinati ed oppressi, Eutropio e Ruffino.Serena moglie di Stilicone procurò a Claudiano un van-taggioso e onorevole matrimonio, come egli stesso di-chiara, scrivendole in rendimento di grazie (ep. 2.); ed èprobabile che la protezione di Stilicone molti altri van-taggi arrecasse a questo poeta, de' quali però non abbia-mo particolare contezza.

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V. Oltre i libri contro di Ruffino e di Eutro-pio, e quelli in lode di Stilicone, abbiamo diClaudiano un poema in tre libri sul rapimen-

to di Proserpina, due poemetti, uno sulla guerra fattacontro Gildone, l'altro su quella di Stilicone contro Ala-rico, varj panegirici in lode di Onorio, di Olibrio e diProbino di Manlio Teodoro e di altri, alcune epistole edepigrammi, ed altri diversi componimenti, de' quali sipuò vedere il Fabricio (Bibl. lat. l. 3, c. 13) (20). Alcunidanno a Claudiano il primo luogo tra' poeti latini dopoquelli del secol d'Augusto (V. Baillet. Jug. des Sav. t. 3).Io penso che al più egli si possa dire uguale a' miglioriche vissero dopo quel tempo. In lui si vede ingegno vi-vace e fervida fantasia; ma raro è ch'ei si tenga ne' limitiche all'ingegno e alla fantasia prescrive la ragione. Eis'abbandona in maniera somigliante a Lucano ed a Sta-zio al suo fuoco, e se ne lascia trasportare più oltre chenon conviene. Leva ordinariamente al principio sì altivoli, che le nuvole sembrano troppo angusto confine alsuo corso; ma poscia gli si stancan le ali, ed egli cadutoa terra vi serpeggia umilmente. Ma intorno allo stile diClaudiano degnissima singolarmente d'esser letta è una

20 Tra i minori componimenti di Claudiano è il poemetto intitolato Giganto-machia, il qual però è imperfetto. Sapevasi ch'egli non solo avea su questoargomento fatto un poemetto latino, ma che aveane anche scritto un altroin greco, e alcuni pochi versi ne avea pubblicati al principio del sec. XVIArsenio arcivesc. di Monembasia. Al dottiss. sig. Giov. Iriarte siam debito-ri di un altro più copioso frammento di settantasette versi ch'ei ne ha feli-cemente trovato e dato in luce, e illustrato con erudite annotazioni. (R.matrit. Bibl. Codices gr. t. 1, p. 215, ec.).

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Sue opere, e loro stile.

V. Oltre i libri contro di Ruffino e di Eutro-pio, e quelli in lode di Stilicone, abbiamo diClaudiano un poema in tre libri sul rapimen-

to di Proserpina, due poemetti, uno sulla guerra fattacontro Gildone, l'altro su quella di Stilicone contro Ala-rico, varj panegirici in lode di Onorio, di Olibrio e diProbino di Manlio Teodoro e di altri, alcune epistole edepigrammi, ed altri diversi componimenti, de' quali sipuò vedere il Fabricio (Bibl. lat. l. 3, c. 13) (20). Alcunidanno a Claudiano il primo luogo tra' poeti latini dopoquelli del secol d'Augusto (V. Baillet. Jug. des Sav. t. 3).Io penso che al più egli si possa dire uguale a' miglioriche vissero dopo quel tempo. In lui si vede ingegno vi-vace e fervida fantasia; ma raro è ch'ei si tenga ne' limitiche all'ingegno e alla fantasia prescrive la ragione. Eis'abbandona in maniera somigliante a Lucano ed a Sta-zio al suo fuoco, e se ne lascia trasportare più oltre chenon conviene. Leva ordinariamente al principio sì altivoli, che le nuvole sembrano troppo angusto confine alsuo corso; ma poscia gli si stancan le ali, ed egli cadutoa terra vi serpeggia umilmente. Ma intorno allo stile diClaudiano degnissima singolarmente d'esser letta è una

20 Tra i minori componimenti di Claudiano è il poemetto intitolato Giganto-machia, il qual però è imperfetto. Sapevasi ch'egli non solo avea su questoargomento fatto un poemetto latino, ma che aveane anche scritto un altroin greco, e alcuni pochi versi ne avea pubblicati al principio del sec. XVIArsenio arcivesc. di Monembasia. Al dottiss. sig. Giov. Iriarte siam debito-ri di un altro più copioso frammento di settantasette versi ch'ei ne ha feli-cemente trovato e dato in luce, e illustrato con erudite annotazioni. (R.matrit. Bibl. Codices gr. t. 1, p. 215, ec.).

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Sue opere, e loro stile.

dissertazione di m. Merian negli Atti dell'Accad. di Ber-lino (t. 20, p. 437, ec.), in cui egli con bellissime filoso-fiche riflessioni esamina tutto ciò che a questo poeta ap-partiene, ne scuopre i pregi tutti e tutti i difetti, mostrain che sia egli superiore a Stazio, a Lucano, a Silio, inche sia inferiore; e insieme sulla poesia in generale fautilissime riflessioni. Avea egli ancora composte alcunepoesie in greca favella come egli stesso attesta (ep. 4), equalche frammento ancora ce ne rimane allegato da piùautori presso il Fabricio (l. c.).

VI. Alcuni credono che Claudiano fosse cri-stiano, e fondano l'opinion loro singolar-mente su alcuni componimenti, ne' qualiegli e invoca Cristo, e parla, come ad uomcristiano conviene, de' Sacri Misteri. Maegli è certo che in tutte le altre sue poesie ei

si mostra troppo chiaramente pagano, come da più passidi esse provano ad evidenza Guglielmo Pirrone (in VitaClaudiani ante ejus Op. ad usum Delph.) e il sopraccita-to m. Merian, oltrechè chiaramente lo attestano s. Ago-stino (de Civ. Dei l. 5, c. 26) e Paolo Orosio (Hist. l. 7,c. 35) il quale lo chiama poeta eccellente bensì, ma osti-natissimo idolatra; onde è da credere che o egli in que'componimenti per adulare i cristiani imperadori siasifinto cristiano, o, ciò che è più probabile, ch'essi nonsiano di lui, ma dell'altro Claudiano soprannomato Ma-merte prete della chiesa viennese nelle Gallie. Una iscri-

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S'ei fosse cristiano. Iscrizione fatta in onor di esso.

dissertazione di m. Merian negli Atti dell'Accad. di Ber-lino (t. 20, p. 437, ec.), in cui egli con bellissime filoso-fiche riflessioni esamina tutto ciò che a questo poeta ap-partiene, ne scuopre i pregi tutti e tutti i difetti, mostrain che sia egli superiore a Stazio, a Lucano, a Silio, inche sia inferiore; e insieme sulla poesia in generale fautilissime riflessioni. Avea egli ancora composte alcunepoesie in greca favella come egli stesso attesta (ep. 4), equalche frammento ancora ce ne rimane allegato da piùautori presso il Fabricio (l. c.).

VI. Alcuni credono che Claudiano fosse cri-stiano, e fondano l'opinion loro singolar-mente su alcuni componimenti, ne' qualiegli e invoca Cristo, e parla, come ad uomcristiano conviene, de' Sacri Misteri. Maegli è certo che in tutte le altre sue poesie ei

si mostra troppo chiaramente pagano, come da più passidi esse provano ad evidenza Guglielmo Pirrone (in VitaClaudiani ante ejus Op. ad usum Delph.) e il sopraccita-to m. Merian, oltrechè chiaramente lo attestano s. Ago-stino (de Civ. Dei l. 5, c. 26) e Paolo Orosio (Hist. l. 7,c. 35) il quale lo chiama poeta eccellente bensì, ma osti-natissimo idolatra; onde è da credere che o egli in que'componimenti per adulare i cristiani imperadori siasifinto cristiano, o, ciò che è più probabile, ch'essi nonsiano di lui, ma dell'altro Claudiano soprannomato Ma-merte prete della chiesa viennese nelle Gallie. Una iscri-

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S'ei fosse cristiano. Iscrizione fatta in onor di esso.

zione sommamente onorevole a Claudiano ha pubblica-to Jacopo Mazzocchi (Epigramm. antiq. urb. p. 8), edopo lui molti altri come ritrovata da Pomponio Letoche ha così: Cl. Claudiani, Cl. Claudiano V. C. Tribunoet Notario, inter ceteras vigentes artes praegloriosissi-mo Poetarum, licet ad memoriam, sempiternam carmi-na ab eodem scripta sufficiant, adtamen testimonii gra-tia, ob judicii sui fidem, DD. NN. Arcadius et Honoriusfelicissimi ac doctissimi Imperatores, Senatu petente,statuam in Foro Divi Trajani erigi collocarique jusse-runt. Quindi seguono due versi greci, ne' quali con unainsoffribile adulazione si dice che per testimonio diRoma e de' Cesari l'anima di Virgilio e la Musa di Ome-ro erano in Claudiano unite. Di quanti scrittori han ri-portata questa iscrizione non vi è, ch'io sappia, che il solApostolo Zeno il qual la creda supposta e finta a capric-cio dallo stesso Pomponio Leto (Diss. voss. t. 2, p. 250).E a dir vero inchino io pure a tale opinione, che non misembra questo lo stile usato nelle iscrizioni anche diquesti tempi. Nondimeno, che Claudiano avesse inRoma l'onor di una statua, egli stesso l'afferma. Sed prior effigiem tribuit successus ahenam,

Oraque Patricius nostra dicavit, honos. Annuit hic titulam Princeps poscente Senatu, ec.

(praef ad Bell. Get.)

E furono questi versi medesimi per avventura, che risve-gliarono in Pomponio Leto il pensiero di fingere la rife-rita iscrizione. Un epitafio di Claudiano si accenna dal

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zione sommamente onorevole a Claudiano ha pubblica-to Jacopo Mazzocchi (Epigramm. antiq. urb. p. 8), edopo lui molti altri come ritrovata da Pomponio Letoche ha così: Cl. Claudiani, Cl. Claudiano V. C. Tribunoet Notario, inter ceteras vigentes artes praegloriosissi-mo Poetarum, licet ad memoriam, sempiternam carmi-na ab eodem scripta sufficiant, adtamen testimonii gra-tia, ob judicii sui fidem, DD. NN. Arcadius et Honoriusfelicissimi ac doctissimi Imperatores, Senatu petente,statuam in Foro Divi Trajani erigi collocarique jusse-runt. Quindi seguono due versi greci, ne' quali con unainsoffribile adulazione si dice che per testimonio diRoma e de' Cesari l'anima di Virgilio e la Musa di Ome-ro erano in Claudiano unite. Di quanti scrittori han ri-portata questa iscrizione non vi è, ch'io sappia, che il solApostolo Zeno il qual la creda supposta e finta a capric-cio dallo stesso Pomponio Leto (Diss. voss. t. 2, p. 250).E a dir vero inchino io pure a tale opinione, che non misembra questo lo stile usato nelle iscrizioni anche diquesti tempi. Nondimeno, che Claudiano avesse inRoma l'onor di una statua, egli stesso l'afferma. Sed prior effigiem tribuit successus ahenam,

Oraque Patricius nostra dicavit, honos. Annuit hic titulam Princeps poscente Senatu, ec.

(praef ad Bell. Get.)

E furono questi versi medesimi per avventura, che risve-gliarono in Pomponio Leto il pensiero di fingere la rife-rita iscrizione. Un epitafio di Claudiano si accenna dal

306

mentovato Filippo Villani, e pare ch'ei l'avesse aggiuntoalla Vita di questo poeta. Ma, come osserva lo stesso co.Mazzucchelli, esso non vedesi in alcuno dei codici apenna di questo libro.

VII. Io non contrasterò a' Francesil'onore d'aver avuto tra' loro scrittoriClaudio Rutilio Numaziano. Eglichiaramente si dice natìo delle Gallie:

At mea dilectis fortuna repellitur orisIndigenamque suum gallica rura vocant (Itin. l. 1, v. 19,20).

Non so però, ove abbia trovato l'ab. Longchamps, che eifosse di Poitiers (Tabl. hist. t. 2, p. 35). La maniera concui Rutilio parla della città di Tolosa (ib. v. 493), ha fattocredere al Tillemont (Hist. des Emper. in Honor. art.67), che questa fosse per avventura la sua patria. Nondi-meno le onorevoli cariche che il padre di questo poetaed egli stesso sostennero in Italia, e il lungo soggiornoche vi fecero, ci dà diritto a dirne qui alcuna cosa. NarraRutilio che passando per Pisa (v. 573), vide la statua chei Pisani aveano innalzata a suo padre, e rammentach'egli era stato governator dell'Etruria, e che colle sin-golari sue virtù erasi meritato l'amore e la stima di tuttique' popoli. Sembra da' versi che Rutilio soggiunge, cheil nome di suo padre fosse Lacanio (v. 595) e questa èl'opinione fra gli altri del dottiss. p. Corsini, il quale ri-

307

Rutilio Numaziano francese, ma vissu-to lungamente in Italia.

mentovato Filippo Villani, e pare ch'ei l'avesse aggiuntoalla Vita di questo poeta. Ma, come osserva lo stesso co.Mazzucchelli, esso non vedesi in alcuno dei codici apenna di questo libro.

VII. Io non contrasterò a' Francesil'onore d'aver avuto tra' loro scrittoriClaudio Rutilio Numaziano. Eglichiaramente si dice natìo delle Gallie:

At mea dilectis fortuna repellitur orisIndigenamque suum gallica rura vocant (Itin. l. 1, v. 19,20).

Non so però, ove abbia trovato l'ab. Longchamps, che eifosse di Poitiers (Tabl. hist. t. 2, p. 35). La maniera concui Rutilio parla della città di Tolosa (ib. v. 493), ha fattocredere al Tillemont (Hist. des Emper. in Honor. art.67), che questa fosse per avventura la sua patria. Nondi-meno le onorevoli cariche che il padre di questo poetaed egli stesso sostennero in Italia, e il lungo soggiornoche vi fecero, ci dà diritto a dirne qui alcuna cosa. NarraRutilio che passando per Pisa (v. 573), vide la statua chei Pisani aveano innalzata a suo padre, e rammentach'egli era stato governator dell'Etruria, e che colle sin-golari sue virtù erasi meritato l'amore e la stima di tuttique' popoli. Sembra da' versi che Rutilio soggiunge, cheil nome di suo padre fosse Lacanio (v. 595) e questa èl'opinione fra gli altri del dottiss. p. Corsini, il quale ri-

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Rutilio Numaziano francese, ma vissu-to lungamente in Italia.

batte le difficoltà mosse da alcuni, e crede ancora proba-bile che il padre di Rutilio fosse pref. di Roma versol'an. 392 (De Praefect. urb. p. 292). Rutilio ancora ebbein Roma la stessa onorevole carica come egli accenna: Si non displicui, regerem quum jura Quirini, Si colui sanctos, consiluique Patres. Nam quod nulla meum strinxerunt crimina ferrum, Non sit Praefecti gloria, sed populi (v. 157).

E inoltre indica di essere stato soprastante agli ufficj dicorte, e prefetto del pretorio: Officiis regerem cum regia tecta magister, Armigerasque pii Principis exuvias (v. 563).

Veggasi il citato p. Corsini che di Rutilio ragiona conmolta esattezza (l. c. p. 327). Di lui abbiamo un poemaelegiaco in cui descrive il suo viaggio da Roma nelleGallie, di cui però si è smarrita una parte notabile, sep-pure egli nol lasciò imperfetto. Egli lo scrisse verso l'an.420, di che assai lungamente parla il Tillemont (note 43sur Honor.). Lo stile non è molto elegante; ma si puòdire di lui ancora ciò che in generale abbiam detto de'poeti di questa età, cioè che in confronto dei prosatoriessi posson sembrare eleganti e colti. Egli era idolatracome è manifesto singolarmente dall'aspra invettiva chefa contro de' monaci che nell'isola di Capraia menavanosolitaria ed austera vita (v. 439, ec.).

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batte le difficoltà mosse da alcuni, e crede ancora proba-bile che il padre di Rutilio fosse pref. di Roma versol'an. 392 (De Praefect. urb. p. 292). Rutilio ancora ebbein Roma la stessa onorevole carica come egli accenna: Si non displicui, regerem quum jura Quirini, Si colui sanctos, consiluique Patres. Nam quod nulla meum strinxerunt crimina ferrum, Non sit Praefecti gloria, sed populi (v. 157).

E inoltre indica di essere stato soprastante agli ufficj dicorte, e prefetto del pretorio: Officiis regerem cum regia tecta magister, Armigerasque pii Principis exuvias (v. 563).

Veggasi il citato p. Corsini che di Rutilio ragiona conmolta esattezza (l. c. p. 327). Di lui abbiamo un poemaelegiaco in cui descrive il suo viaggio da Roma nelleGallie, di cui però si è smarrita una parte notabile, sep-pure egli nol lasciò imperfetto. Egli lo scrisse verso l'an.420, di che assai lungamente parla il Tillemont (note 43sur Honor.). Lo stile non è molto elegante; ma si puòdire di lui ancora ciò che in generale abbiam detto de'poeti di questa età, cioè che in confronto dei prosatoriessi posson sembrare eleganti e colti. Egli era idolatracome è manifesto singolarmente dall'aspra invettiva chefa contro de' monaci che nell'isola di Capraia menavanosolitaria ed austera vita (v. 439, ec.).

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VIII. A questi poeti gentili aggiungiamoneora alcuni tra' cristiani. E il primo di essi èquel Publio Optaziano Porfirio di cui ab-biam fatta menzione nel primo capo di que-sto libro; del quale però non possiamo con-

getturare, non che accertare la patria. Di lui abbiamo uncapriccioso poema tutto composto di acrostichi e di let-tere incrocicchiate e di somiglianti bisticci che il mo-stran poeta laborioso anzichè elegante, e che è, s'io nonerro, il primo esempio di tali componimenti. Esso è inlode di Costantino da cui, non si sa per quali motivi, erastato esiliato; e il prega a volere usare con lui di sua cle-menza col richiamarlo. A questo poema precedono duelettere, una del medesimo Porfirio a Costantino, in cuigli rende grazie per la cortese lettera ch'esso aveagliscritta in riscontro di un altro poema a lui indirizzato eun altro pure gliene indirizza, amendue i quali poemiperò sono periti; l'altra di Costantino a Porfirio, in cui loringrazia di un di questi due poemi, e gli dà il nome disuo caro fratello. Porfirio per mezzo del poema che ci èrimasto, ottenne il perdono, come afferma s. Girolamo(in Chron.); e il Tillemont pensa (in Constantino art. 61)ch'ei sia quel Publio Optaziano che due volte fu prefettodi Roma gli anni 329 e 333. Alcuni hanno creduto ch'eifosse idolatra, benchè egli nel suo poema si finga cri-stiano, usando della croce, e parlando de' cristiani miste-ri, e di quello singolarmente della Trinità; ma par diffici-le che un idolatra portasse la finzione a tal segno. Lostesso Tillemont pruova diffusamente (note 52 sur Con-

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Poeti cri-stiani. Op-tazianoPorfirio.

VIII. A questi poeti gentili aggiungiamoneora alcuni tra' cristiani. E il primo di essi èquel Publio Optaziano Porfirio di cui ab-biam fatta menzione nel primo capo di que-sto libro; del quale però non possiamo con-

getturare, non che accertare la patria. Di lui abbiamo uncapriccioso poema tutto composto di acrostichi e di let-tere incrocicchiate e di somiglianti bisticci che il mo-stran poeta laborioso anzichè elegante, e che è, s'io nonerro, il primo esempio di tali componimenti. Esso è inlode di Costantino da cui, non si sa per quali motivi, erastato esiliato; e il prega a volere usare con lui di sua cle-menza col richiamarlo. A questo poema precedono duelettere, una del medesimo Porfirio a Costantino, in cuigli rende grazie per la cortese lettera ch'esso aveagliscritta in riscontro di un altro poema a lui indirizzato eun altro pure gliene indirizza, amendue i quali poemiperò sono periti; l'altra di Costantino a Porfirio, in cui loringrazia di un di questi due poemi, e gli dà il nome disuo caro fratello. Porfirio per mezzo del poema che ci èrimasto, ottenne il perdono, come afferma s. Girolamo(in Chron.); e il Tillemont pensa (in Constantino art. 61)ch'ei sia quel Publio Optaziano che due volte fu prefettodi Roma gli anni 329 e 333. Alcuni hanno creduto ch'eifosse idolatra, benchè egli nel suo poema si finga cri-stiano, usando della croce, e parlando de' cristiani miste-ri, e di quello singolarmente della Trinità; ma par diffici-le che un idolatra portasse la finzione a tal segno. Lostesso Tillemont pruova diffusamente (note 52 sur Con-

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Poeti cri-stiani. Op-tazianoPorfirio.

stantin) che questo poema fu composto l'anno 326. Essoprima di ogni altro è stato pubblicato da Marco Velsero,e poscia inserito nella Raccolta de' Poeti fatta dal Mait-taire, e in quella più recente pubblicata in Pesaro.

IX. "Benchè di patria spagnuolo, e nato inSaragozza l'an. 348 secondo la più comuneopinione non deesi però omettere il cel.

poeta Aurelio Clemente Prudenzio; perciocchè fatti iprimi studj in patria, sen venne a Roma ove esercitossinel trattare le cause, e salì poscia a cospicue dignità.Non si può dire ch'ei fosse il primo poeta cristiano; mafu certamente il primo che de' misteri cristiani trattassein versi ampiamente, e possiamo anche dire, elegante-mente riguardo a que' tempi. Le poesie di Prudenzio sirisenton del secolo a cui visse, ma vi s'incontran soventepensieri e immagini assai leggiadre e graziose; e il soloInno di cui tuttora usa la Chiesa, in lode degl'Innocenti,ci può mostrare quanto felice disposizione alla poesiaavesse egli sortito. Molte son le opere poetiche di Pru-denzio, che si posson vedere raccolte nelle due belleedizioni che ne abbiamo avuto, una per opera di NiccolòEinsio in Amsterdam nel 1667, l'altra per opera del p.Chamillard gesuita in Parigi nel 1687. E una assai piùmagnifica ne uscirà tra poco dagl'insigni torchi bodonia-ni (21)". Non così io debbo favellar di Giovenco, esso

21 Spero che l'ab. Lampillas non avrà più a dolersi, come ha fatto (Saggio ec.par. 1, t. 2, p. 104) perchè io abbia omesso Prudenzio di cui nella prima

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Altri poeti cristiani.

stantin) che questo poema fu composto l'anno 326. Essoprima di ogni altro è stato pubblicato da Marco Velsero,e poscia inserito nella Raccolta de' Poeti fatta dal Mait-taire, e in quella più recente pubblicata in Pesaro.

IX. "Benchè di patria spagnuolo, e nato inSaragozza l'an. 348 secondo la più comuneopinione non deesi però omettere il cel.

poeta Aurelio Clemente Prudenzio; perciocchè fatti iprimi studj in patria, sen venne a Roma ove esercitossinel trattare le cause, e salì poscia a cospicue dignità.Non si può dire ch'ei fosse il primo poeta cristiano; mafu certamente il primo che de' misteri cristiani trattassein versi ampiamente, e possiamo anche dire, elegante-mente riguardo a que' tempi. Le poesie di Prudenzio sirisenton del secolo a cui visse, ma vi s'incontran soventepensieri e immagini assai leggiadre e graziose; e il soloInno di cui tuttora usa la Chiesa, in lode degl'Innocenti,ci può mostrare quanto felice disposizione alla poesiaavesse egli sortito. Molte son le opere poetiche di Pru-denzio, che si posson vedere raccolte nelle due belleedizioni che ne abbiamo avuto, una per opera di NiccolòEinsio in Amsterdam nel 1667, l'altra per opera del p.Chamillard gesuita in Parigi nel 1687. E una assai piùmagnifica ne uscirà tra poco dagl'insigni torchi bodonia-ni (21)". Non così io debbo favellar di Giovenco, esso

21 Spero che l'ab. Lampillas non avrà più a dolersi, come ha fatto (Saggio ec.par. 1, t. 2, p. 104) perchè io abbia omesso Prudenzio di cui nella prima

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Altri poeti cristiani.

pure spagnuolo, nè di s. Ilario di Poitiers, nè di Ausonio(di cui per altro dubitano alcuni se fosse cristiano), nè dis. Prospero, nè di Sidonio Apollinare, che tutti furonodelle Gallie, nè fecero stabil dimora in Italia. Sedulioche da alcuni si crede vissuto a' tempi del giovane Teo-dosio, benchè altri pensino diversamente, non si sa diqual patria fosse. Alcuni l'han detto scozzese perchèl'hanno confuso con un altro Sedulio più giovane di al-cuni secoli. Secondo due antichi codici citati dal p. Lab-be che assai diligentemente ha trattato di ciò che a que-sto poeta appartiene (Diss. de Script. eccl.), egli studiòla filosofia in Roma, e poscia recatosi in Acaia ivi scris-se i suoi libri, cioè un poema intitolato Pasquale in cuiparla de' miracoli del Redentore la qual opera fu posciada lui medesimo recata in prosa e un'elegia intitolata Ve-teris et novi Testamenti Collatio, opere scritte in uno stilsomigliante a quello degli altri poeti di questo tempo. Cibasti perciò l'averlo accennato per quel qualunque dirit-to che noi possiamo avere di dargli luogo tra' nostriscrittori. Così parimente dobbiam qui far menzione didue poeti nati della Liguria, di cui fa grandi elogi Sido-nio Apollinare. Il primo di essi è Procolo, humo atqueterra, com'egli dice, cretus in Ligustide (l. 9, ep. 15). Sequi debba intendersi la vera Liguria, o anzi la Lombar-dia, non si può accertare; ma poichè da s. Ennodio rac-cogliesi che i nipoti di Procolo erano in Milano (l. 1,

edizione io non avea ragionato, per invidia, dic'egli, alle glorie spagnole,per incolpevole inavvertenza, dico io, cui ben volentieri ho voluto quiemendare.

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pure spagnuolo, nè di s. Ilario di Poitiers, nè di Ausonio(di cui per altro dubitano alcuni se fosse cristiano), nè dis. Prospero, nè di Sidonio Apollinare, che tutti furonodelle Gallie, nè fecero stabil dimora in Italia. Sedulioche da alcuni si crede vissuto a' tempi del giovane Teo-dosio, benchè altri pensino diversamente, non si sa diqual patria fosse. Alcuni l'han detto scozzese perchèl'hanno confuso con un altro Sedulio più giovane di al-cuni secoli. Secondo due antichi codici citati dal p. Lab-be che assai diligentemente ha trattato di ciò che a que-sto poeta appartiene (Diss. de Script. eccl.), egli studiòla filosofia in Roma, e poscia recatosi in Acaia ivi scris-se i suoi libri, cioè un poema intitolato Pasquale in cuiparla de' miracoli del Redentore la qual opera fu posciada lui medesimo recata in prosa e un'elegia intitolata Ve-teris et novi Testamenti Collatio, opere scritte in uno stilsomigliante a quello degli altri poeti di questo tempo. Cibasti perciò l'averlo accennato per quel qualunque dirit-to che noi possiamo avere di dargli luogo tra' nostriscrittori. Così parimente dobbiam qui far menzione didue poeti nati della Liguria, di cui fa grandi elogi Sido-nio Apollinare. Il primo di essi è Procolo, humo atqueterra, com'egli dice, cretus in Ligustide (l. 9, ep. 15). Sequi debba intendersi la vera Liguria, o anzi la Lombar-dia, non si può accertare; ma poichè da s. Ennodio rac-cogliesi che i nipoti di Procolo erano in Milano (l. 1,

edizione io non avea ragionato, per invidia, dic'egli, alle glorie spagnole,per incolpevole inavvertenza, dico io, cui ben volentieri ho voluto quiemendare.

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carm. 3), sembra probabile che in Milano fosse eglipure. Dall'Italia però pare ch'ei passasse ad abitar nelleGallie. Amendue i suddetti scrittori innalzano alle stelleil valore di Procolo in poetare, e Sidonio non teme dipareggiarlo con Omero e con Virgilio. Grandi encomj faparimenti Sidonio di Quinziano, di cui pur dice (carm.9, v. 287, ec.) ch'era natìo della Liguria, ma passato adabitar nelle Gallie. Ciò non ostante, noi potrem credere,senza tema di errore che essi non fosser poeti punto mi-gliori de' lor lodatori. Di amendue parlano più stesamen-te i Maurini nella Storia letteraria di Francia (t. 2, p.537, 574). Di s. Paolino e degli altri autori sacri chescrisser versi si è parlato nel secondo capo.

X. Di niun altro poeta dunque di cui ci sianrimaste le poesie, ci rimane ora a parlare,fuorchè di Faltonia Proba, di cui abbiamo iCentoni virgiliani sulla Vita di Cristo. Il pri-mo ad usare di questa sorte di capricciosi

componimenti col raccogliere quinci e quindi i versi dialcun poeta, ed adattarli a un determinato argomento,sembra che fosse per testimonio di Tertulliano (Depraesc. c. 39) Osidio Geta. Questi probabilmente fuquel Gneo Osidio Geta che l'anno di Roma 800, edell'era crist. 47 fu console surrogato insieme con L. Va-gelleio a' tempi di Claudio, come da una bellissima anti-ca tavola di bronzo pubblicata dal Reinesio si raccoglie(Inscr. antiq. p. 475); e quindi così veramente io penso

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Faltonia Proba, ed altri scrittordi Centoni.

carm. 3), sembra probabile che in Milano fosse eglipure. Dall'Italia però pare ch'ei passasse ad abitar nelleGallie. Amendue i suddetti scrittori innalzano alle stelleil valore di Procolo in poetare, e Sidonio non teme dipareggiarlo con Omero e con Virgilio. Grandi encomj faparimenti Sidonio di Quinziano, di cui pur dice (carm.9, v. 287, ec.) ch'era natìo della Liguria, ma passato adabitar nelle Gallie. Ciò non ostante, noi potrem credere,senza tema di errore che essi non fosser poeti punto mi-gliori de' lor lodatori. Di amendue parlano più stesamen-te i Maurini nella Storia letteraria di Francia (t. 2, p.537, 574). Di s. Paolino e degli altri autori sacri chescrisser versi si è parlato nel secondo capo.

X. Di niun altro poeta dunque di cui ci sianrimaste le poesie, ci rimane ora a parlare,fuorchè di Faltonia Proba, di cui abbiamo iCentoni virgiliani sulla Vita di Cristo. Il pri-mo ad usare di questa sorte di capricciosi

componimenti col raccogliere quinci e quindi i versi dialcun poeta, ed adattarli a un determinato argomento,sembra che fosse per testimonio di Tertulliano (Depraesc. c. 39) Osidio Geta. Questi probabilmente fuquel Gneo Osidio Geta che l'anno di Roma 800, edell'era crist. 47 fu console surrogato insieme con L. Va-gelleio a' tempi di Claudio, come da una bellissima anti-ca tavola di bronzo pubblicata dal Reinesio si raccoglie(Inscr. antiq. p. 475); e quindi così veramente io penso

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Faltonia Proba, ed altri scrittordi Centoni.

che debba leggersi, e non Ovidio, come vuole il Pame-lio. Or Osidio, dice Tertulliano, formò una tragedia inti-tolata Medea tessuta di versi di Virgilio. Di questa trage-dia ha pubblicato lo Scriverio qualche frammento (Col-lect. vet. tragic.). Aggiugne Tertulliano che un suo ami-co, di cui non esprime il nome, avea co' versi pur di Vir-gilio recata in latino la Tavola di Cebete. Ausonio anco-ra ne fece uno che ancor abbiamo tra le sue Opere(Edill. 13), ed ei rammenta, come abbiam detto che Va-lentiniano I aveane fatto uno egli pure. In questo genereadunque esercitossi ancora Faltonia. Io non tratterrommia disputare intorno ad essa diffusamente, anche perchèmi sembra che in una tal opera debbasi lodare la pietàanzi che ammirare l'ingegno. Il ch. monsig. Fontanini neha parlato assai lungamente (De Antiq. Hortae l. 2, c. 1,ec.), ed ha recate le ragioni, per le quali si crede ch'ellafosse natìa di Orta città della Campagna romana; le qua-li però non sembreran forse ad alcuno molto convincen-ti. Ma egli ha mostrato ad evidenza, ch'ella dee distin-guersi da quella celebre Anicia Faltonia Proba mogliedel cons. Anicio Probo accusata da alcuni di aver pertradimento introdotti i Goti in Roma; e che la poetessanon ebbe altri nomi che di Proba Faltonia, e che fu mo-glie del procons. Adelfio (22). Convien dire che il Fabri-

22 Prima di monsig. Fontanini avea provata la distinzione delle due Faltonieromane un erudito agostiniano con una assai rara dissertazione intitolata:Historica Dissertatio Romano-Ecclesiastica de tollenda penes gravissimosscriptores insolita ambiguitate et confusione inter duas antiquas RomanasMatronas professione Christiana celebres, videlicet Aniciam FaltoniamProbam Sex. Petronii Probi V. C. uxorem, Olybri, Probini, et Probi Consu-

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che debba leggersi, e non Ovidio, come vuole il Pame-lio. Or Osidio, dice Tertulliano, formò una tragedia inti-tolata Medea tessuta di versi di Virgilio. Di questa trage-dia ha pubblicato lo Scriverio qualche frammento (Col-lect. vet. tragic.). Aggiugne Tertulliano che un suo ami-co, di cui non esprime il nome, avea co' versi pur di Vir-gilio recata in latino la Tavola di Cebete. Ausonio anco-ra ne fece uno che ancor abbiamo tra le sue Opere(Edill. 13), ed ei rammenta, come abbiam detto che Va-lentiniano I aveane fatto uno egli pure. In questo genereadunque esercitossi ancora Faltonia. Io non tratterrommia disputare intorno ad essa diffusamente, anche perchèmi sembra che in una tal opera debbasi lodare la pietàanzi che ammirare l'ingegno. Il ch. monsig. Fontanini neha parlato assai lungamente (De Antiq. Hortae l. 2, c. 1,ec.), ed ha recate le ragioni, per le quali si crede ch'ellafosse natìa di Orta città della Campagna romana; le qua-li però non sembreran forse ad alcuno molto convincen-ti. Ma egli ha mostrato ad evidenza, ch'ella dee distin-guersi da quella celebre Anicia Faltonia Proba mogliedel cons. Anicio Probo accusata da alcuni di aver pertradimento introdotti i Goti in Roma; e che la poetessanon ebbe altri nomi che di Proba Faltonia, e che fu mo-glie del procons. Adelfio (22). Convien dire che il Fabri-

22 Prima di monsig. Fontanini avea provata la distinzione delle due Faltonieromane un erudito agostiniano con una assai rara dissertazione intitolata:Historica Dissertatio Romano-Ecclesiastica de tollenda penes gravissimosscriptores insolita ambiguitate et confusione inter duas antiquas RomanasMatronas professione Christiana celebres, videlicet Aniciam FaltoniamProbam Sex. Petronii Probi V. C. uxorem, Olybri, Probini, et Probi Consu-

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cio (Bibl lat. t. 1, p. 267), e dopo lui il p. Ceillier (Hist.des Ant. eccl. t. 8, c. 10), non abbiano attentamente lettala dissertazione di questo dotto scrittore; perchè essi di-cono negarsi da lui che la poetessa fosse moglie del sud-detto procons., il che anzi da lui espressamente si affer-ma. A qual tempo ella vivesse, raccogliesi dal dedicarch'ella fa il suo Centone all'imp. Onorio. Ella accenna diavere ancora scritto un poema su le guerre civili diRoma, il quale, se ci fosse rimasto, ci mostrerebbe quan-to valorosa ella fosse nel poetare, poichè il suo Centonece la mostra soltanto laboriosa accozzatrice degli altruiversi.

XI. Oltre questi poeti, le cui poesie ci sonoalmeno in parte rimaste, altri ve debbe aquesti tempi medesimi, de' quali nulla ci èpervenuto. La maggior parte però di essi fu-

rono stranieri, e io non so che di alcun poeta italiano diqualche nome si faccia menzione dagli scrittori di questitempi, di cui abbiamo a dolerci di avere smarrite le poe-sie. Convien confessarlo. Nell'epoca di cui scriviamo,maggior numero di retori, di poeti, e di altri in altrescienze eruditi ebber le Gallie che non l'Italia. La resi-denza che in esse tennero per lungo tempo Costante,

lum Matrem et Valeriam Faltoniam Probam Adelphii Proc. ConjugemPoetriam ingeniosissimam, quae centonem virgilianum de Christo confe-cit. Auctore Thoma de Simeonibus Vibo Valentini Augustiniano, vulgo aMonteleone nuncupato Sac. Theol. Mag. ac in Æmilia sui Ordinis Pr. Pro-vinciali. Bononiae apud Haeredes Antonii Pisarii MDCXCII, in 4.

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Altre poe-sie smarri-te.

cio (Bibl lat. t. 1, p. 267), e dopo lui il p. Ceillier (Hist.des Ant. eccl. t. 8, c. 10), non abbiano attentamente lettala dissertazione di questo dotto scrittore; perchè essi di-cono negarsi da lui che la poetessa fosse moglie del sud-detto procons., il che anzi da lui espressamente si affer-ma. A qual tempo ella vivesse, raccogliesi dal dedicarch'ella fa il suo Centone all'imp. Onorio. Ella accenna diavere ancora scritto un poema su le guerre civili diRoma, il quale, se ci fosse rimasto, ci mostrerebbe quan-to valorosa ella fosse nel poetare, poichè il suo Centonece la mostra soltanto laboriosa accozzatrice degli altruiversi.

XI. Oltre questi poeti, le cui poesie ci sonoalmeno in parte rimaste, altri ve debbe aquesti tempi medesimi, de' quali nulla ci èpervenuto. La maggior parte però di essi fu-

rono stranieri, e io non so che di alcun poeta italiano diqualche nome si faccia menzione dagli scrittori di questitempi, di cui abbiamo a dolerci di avere smarrite le poe-sie. Convien confessarlo. Nell'epoca di cui scriviamo,maggior numero di retori, di poeti, e di altri in altrescienze eruditi ebber le Gallie che non l'Italia. La resi-denza che in esse tennero per lungo tempo Costante,

lum Matrem et Valeriam Faltoniam Probam Adelphii Proc. ConjugemPoetriam ingeniosissimam, quae centonem virgilianum de Christo confe-cit. Auctore Thoma de Simeonibus Vibo Valentini Augustiniano, vulgo aMonteleone nuncupato Sac. Theol. Mag. ac in Æmilia sui Ordinis Pr. Pro-vinciali. Bononiae apud Haeredes Antonii Pisarii MDCXCII, in 4.

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Altre poe-sie smarri-te.

Giuliano e Graziano, giovò non poco ad avvivarvil'ardore nel coltivare gli studj. E innoltre meno frequentie assai meno funeste vi furono così le domestiche turbo-lenze, come le invasioni dei Barbari e non è perciò astupire che più felicemente fiorisser le lettere, ove erameno sconvolta la pubblica tranquillità. Io spero nondi-meno che i Francesi non si sdegneranno di confessareche di questo felice stato della loro letteratura essi allanostra Italia furono debitori. Egli è certo che innanzi aCesare conquistator delle Gallie, benchè grandi coseessi ci dicano de' loro Druidi, pure non ci posson mo-strare alcun monumento di eloquenza, di poesia, di sto-ria, che tra loro fiorisse. Il commercio co' Romani fuquello singolarmente che risvegliò in essi un nobile de-siderio di pareggiarli in sapere, non altrimenti che ilcommercio de' Romani coi Greci destò in quelli un ar-dente spirito di emulazione. E come fu qualche tempo incui gli studj più lietamente fiorirono in Roma che nonnella Grecia, così pure avvenne talvolta per le circostan-ze de' tempi, che maggior numero d'uomini dotti fossenelle Gallie che non nell'Italia.

XII. Di poesia teatrale nulla abbiamo aquest'epoca, trattane una commedia inprosa scritta a imitazione di quella chePlauto intitolò Aulularia, e che perciò fuintitolata essa pure L'Aulularia, ovvero il

Querulo di Plauto. Crede il Vossio (De Poetis lat. c. 4)

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Se fossero allo-ra in uso i com-ponimenti tea-trali.

Giuliano e Graziano, giovò non poco ad avvivarvil'ardore nel coltivare gli studj. E innoltre meno frequentie assai meno funeste vi furono così le domestiche turbo-lenze, come le invasioni dei Barbari e non è perciò astupire che più felicemente fiorisser le lettere, ove erameno sconvolta la pubblica tranquillità. Io spero nondi-meno che i Francesi non si sdegneranno di confessareche di questo felice stato della loro letteratura essi allanostra Italia furono debitori. Egli è certo che innanzi aCesare conquistator delle Gallie, benchè grandi coseessi ci dicano de' loro Druidi, pure non ci posson mo-strare alcun monumento di eloquenza, di poesia, di sto-ria, che tra loro fiorisse. Il commercio co' Romani fuquello singolarmente che risvegliò in essi un nobile de-siderio di pareggiarli in sapere, non altrimenti che ilcommercio de' Romani coi Greci destò in quelli un ar-dente spirito di emulazione. E come fu qualche tempo incui gli studj più lietamente fiorirono in Roma che nonnella Grecia, così pure avvenne talvolta per le circostan-ze de' tempi, che maggior numero d'uomini dotti fossenelle Gallie che non nell'Italia.

XII. Di poesia teatrale nulla abbiamo aquest'epoca, trattane una commedia inprosa scritta a imitazione di quella chePlauto intitolò Aulularia, e che perciò fuintitolata essa pure L'Aulularia, ovvero il

Querulo di Plauto. Crede il Vossio (De Poetis lat. c. 4)

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Se fossero allo-ra in uso i com-ponimenti tea-trali.

che a' tempi di Teodosio e di Onorio ne vivesse l'autore,il quale non merita per essa gran lode. Anzi alcuni pen-sano, ma senza bastevole fondamento, ch'ella sia operadi Gilda brittone, nel qual caso ella non dovrebbe averluogo in questa Storia. Essa vedesi inserita nelle Raccol-te degli antichi Poeti, come in quella del Maittaire, enella più recente di Pesaro. Io penso che le teatrali rap-presentazioni di questa età altro non fossero comune-mente che le mimiche buffonerie. Perciocchè io trovobensì nominati negli scrittori di questi tempi gli arteficidi scena, che talvolta si fecer venire a Roma dalla Sicilia(Symm. l. 6, ep. 33); ma non trovo menzione di tragediaalcuna, o di giusta e regolare commedia che si rappre-sentasse. Anzi le forti invettive che fanno i Santi Padridi questa età contro gli spettacoli teatrali, cui ci rappre-sentano come scuola di disonestà e di scelleraggini,sembra che più convengano alle mimiche azioni, nellequali facilmente introducesi un parlar libero e sfrontato,che alle tragedie, le quali per la lor serietà sogliono es-ser meno pericolose. E veramente in ciò che appartienea' licenziosi spettacoli, doveva essere a questi tempi ec-cessivo il lusso non meno che il libertinaggio in Roma,come raccogliesi da ciò che di sopra abbiamo vedutonarrarsi da Ammian Marcellino, che vi erano a suo tem-po in Roma fino a tremila saltatrici con altrettanti mae-stri; e che in occasione di carestia furono bensì cacciaticrudelmente da Roma tutti gli stranieri, ma ad esse nonsi recò molestia di sorte alcuna.

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che a' tempi di Teodosio e di Onorio ne vivesse l'autore,il quale non merita per essa gran lode. Anzi alcuni pen-sano, ma senza bastevole fondamento, ch'ella sia operadi Gilda brittone, nel qual caso ella non dovrebbe averluogo in questa Storia. Essa vedesi inserita nelle Raccol-te degli antichi Poeti, come in quella del Maittaire, enella più recente di Pesaro. Io penso che le teatrali rap-presentazioni di questa età altro non fossero comune-mente che le mimiche buffonerie. Perciocchè io trovobensì nominati negli scrittori di questi tempi gli arteficidi scena, che talvolta si fecer venire a Roma dalla Sicilia(Symm. l. 6, ep. 33); ma non trovo menzione di tragediaalcuna, o di giusta e regolare commedia che si rappre-sentasse. Anzi le forti invettive che fanno i Santi Padridi questa età contro gli spettacoli teatrali, cui ci rappre-sentano come scuola di disonestà e di scelleraggini,sembra che più convengano alle mimiche azioni, nellequali facilmente introducesi un parlar libero e sfrontato,che alle tragedie, le quali per la lor serietà sogliono es-ser meno pericolose. E veramente in ciò che appartienea' licenziosi spettacoli, doveva essere a questi tempi ec-cessivo il lusso non meno che il libertinaggio in Roma,come raccogliesi da ciò che di sopra abbiamo vedutonarrarsi da Ammian Marcellino, che vi erano a suo tem-po in Roma fino a tremila saltatrici con altrettanti mae-stri; e che in occasione di carestia furono bensì cacciaticrudelmente da Roma tutti gli stranieri, ma ad esse nonsi recò molestia di sorte alcuna.

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CAPO V. Storia.

I. Gl'imperadori che saliron sul trononell'epoca da noi in questo libro compresa, ele vicende che l'impero romano ebbe in essaa soffrire, meritavano di avere diligenti edesatti storici che non sol ci narrassero lecose avvenute, ma ne ricercassero ancor lecagioni, e ne sponessero i mezzi, e ne spie-

gasser gli effetti. Qual vantaggio e qual piacere insiemesarebbe il nostro, se avessimo uno storico di questi tem-pi, il quale esattamente ci descrivesse quali fossero i po-poli che da ogni parte inondarono or l'uno, or l'altro im-pero, e che or vincitori, or vinti si fecero finalmente pa-droni di quel di Occidente; che ci additasse precisamen-te da qual paese movessero essi, e quali fossero le loroleggi, i lor costumi che senza adulazione al pari e senzalivore ci tracciasse il carattere degl'imperadori e de' per-sonaggi più illustri di questi tempi! Un Polibio, un Cesa-re, un Sallustio, un Livio, qual ampio campo avrebbonqui avuto a spiegare i loro talenti! Ma il disordine e laconfusion dell'impero sembra che si comunicasse ancoraa que' che ne scrisser la storia; e noi non ne abbiamo unadi cui si possa dire con verità che sia chiara, diligente,ed esatta. Noi verrem nondimeno, com'è nostro costu-me, parlando di quelli che nati, o vissuti in Italia scrisse-ro alcuna cosa appartenente alla storia di questi, o di al-

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Origine della scar-sezza e del-la negligen-za degli scrittori di storia.

CAPO V. Storia.

I. Gl'imperadori che saliron sul trononell'epoca da noi in questo libro compresa, ele vicende che l'impero romano ebbe in essaa soffrire, meritavano di avere diligenti edesatti storici che non sol ci narrassero lecose avvenute, ma ne ricercassero ancor lecagioni, e ne sponessero i mezzi, e ne spie-

gasser gli effetti. Qual vantaggio e qual piacere insiemesarebbe il nostro, se avessimo uno storico di questi tem-pi, il quale esattamente ci descrivesse quali fossero i po-poli che da ogni parte inondarono or l'uno, or l'altro im-pero, e che or vincitori, or vinti si fecero finalmente pa-droni di quel di Occidente; che ci additasse precisamen-te da qual paese movessero essi, e quali fossero le loroleggi, i lor costumi che senza adulazione al pari e senzalivore ci tracciasse il carattere degl'imperadori e de' per-sonaggi più illustri di questi tempi! Un Polibio, un Cesa-re, un Sallustio, un Livio, qual ampio campo avrebbonqui avuto a spiegare i loro talenti! Ma il disordine e laconfusion dell'impero sembra che si comunicasse ancoraa que' che ne scrisser la storia; e noi non ne abbiamo unadi cui si possa dire con verità che sia chiara, diligente,ed esatta. Noi verrem nondimeno, com'è nostro costu-me, parlando di quelli che nati, o vissuti in Italia scrisse-ro alcuna cosa appartenente alla storia di questi, o di al-

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Origine della scar-sezza e del-la negligen-za degli scrittori di storia.

tri più antichi tempi. Non parleremo però, che di quelliche si dicono scrittori di storia profana, poichè de' sacrigià abbiamo parlato nel primo capo di questo libro me-desimo.

II. Sesto Aurelio Vittore ci ha lasciato unbreve Compendio delle Vite degl'imperadoriromani da Augusto fino all'anno 23dell'Impero di Costanzo, cui l'autore esalta

adulando con somme lodi. Egli stesso mostra chiara-mente di esser vissuto a questa età; perciocchè rammen-ta e il compimento dell'XI sec. di Roma, ch'egli avea ve-duto (c. 28), e che s'incontrò coll'an. 347, e la rovina diNicomedia avvenuta per tremuoto a' suoi giorni (c. 16),cioè l'an. 358. Il Vossio, congettura (De Histor. lat. l. 1,c. 8) ch'ei fosse africano, per le lodi ch'ei dà all'Africa.Ma un altro assai più evidente argomento ce ne sommi-nistra lo stesso Vittore; perciocchè parlando di se egliconfessa (c. 20) di esser nato in una picciola villa, e dipadre povero e rozzo; poscia soggiugne esser questo uncotal felice destino della sua nazione, che quelli tra loro,che son uomini saggi e pii, vengano sollevati a ragguar-devoli cariche, come, dic'egli avvenne a Settimio Seve-ro. Or come Severo fu certamente africano, così africa-no dee credersi lo stesso Vittore. Quali fossero gli onoria cui egli fu sollevato, lo abbiamo in Ammian Marcelli-no, il quale racconta (l. 21, c. 10) che Giuliano (e nongià Costanzo come scrive il Vossio) essendosi presso

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Notizie di Sesto Aure-lio Vittore.

tri più antichi tempi. Non parleremo però, che di quelliche si dicono scrittori di storia profana, poichè de' sacrigià abbiamo parlato nel primo capo di questo libro me-desimo.

II. Sesto Aurelio Vittore ci ha lasciato unbreve Compendio delle Vite degl'imperadoriromani da Augusto fino all'anno 23dell'Impero di Costanzo, cui l'autore esalta

adulando con somme lodi. Egli stesso mostra chiara-mente di esser vissuto a questa età; perciocchè rammen-ta e il compimento dell'XI sec. di Roma, ch'egli avea ve-duto (c. 28), e che s'incontrò coll'an. 347, e la rovina diNicomedia avvenuta per tremuoto a' suoi giorni (c. 16),cioè l'an. 358. Il Vossio, congettura (De Histor. lat. l. 1,c. 8) ch'ei fosse africano, per le lodi ch'ei dà all'Africa.Ma un altro assai più evidente argomento ce ne sommi-nistra lo stesso Vittore; perciocchè parlando di se egliconfessa (c. 20) di esser nato in una picciola villa, e dipadre povero e rozzo; poscia soggiugne esser questo uncotal felice destino della sua nazione, che quelli tra loro,che son uomini saggi e pii, vengano sollevati a ragguar-devoli cariche, come, dic'egli avvenne a Settimio Seve-ro. Or come Severo fu certamente africano, così africa-no dee credersi lo stesso Vittore. Quali fossero gli onoria cui egli fu sollevato, lo abbiamo in Ammian Marcelli-no, il quale racconta (l. 21, c. 10) che Giuliano (e nongià Costanzo come scrive il Vossio) essendosi presso

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Notizie di Sesto Aure-lio Vittore.

Sirmio avvenuto nello storico Vittore, chiamatolo a sè, ilpose al governo della seconda Pannonia, e onorollo diuna statua di bronzo "uomo, soggiugne Ammiano, diuna sobrietà degna di esser imitata, e che molto tempodopo fu prefetto di Roma". Queste ultime parole ci fanconoscere chiaramente che al nostro storico appartieneun'antica iscrizione pubblicata dopo altri dal Lindenbro-gio (in not. ad Amm. Marc. l. c.), benchè mancante delsuo principio, che ha così ...terum Principum Clemen-tiam... ectitudinem, Munificenti im supergresso D. N.Fl. Theodosio Pio Victori semper Augusto Sex. AureliusVictor V. C. Urbi praef. Judex Sacrarum CognitionumD.N. M. Q. E. Il Vossio pretende (l. 2, c. 15) ch'essadebba intendersi del giovane Aurelio Vittore, di cui oror parleremo; ma dicendo espressamente Ammiano, cheil nostro Vittore fu prefetto di Roma molto tempo dopoGiuliano, e veggendosi qui nominato un Vittore prefettodi Roma, a me par certo che debba di lui intendersi enon d'altri. Non abbiam però fondamento a credere chesia egli pur quel Vittore che fu console l'an. 369, ed èpiù verisimile che il console fosse quel Vittore generaldi Giuliano, di cui spesso ragiona lo stesso AmmianMarcellino, e di cui, dice ch'era natìo della Sarmazia (l.24, c. 1, 4, ec. l. 31, c. 12). Il nostro storico, era certa-mente idolatra, come dalle sue espressioni medesime siraccoglie.

III. Oltre le Vite de' Cesari abbiam sotto il

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Sue opere.

Sirmio avvenuto nello storico Vittore, chiamatolo a sè, ilpose al governo della seconda Pannonia, e onorollo diuna statua di bronzo "uomo, soggiugne Ammiano, diuna sobrietà degna di esser imitata, e che molto tempodopo fu prefetto di Roma". Queste ultime parole ci fanconoscere chiaramente che al nostro storico appartieneun'antica iscrizione pubblicata dopo altri dal Lindenbro-gio (in not. ad Amm. Marc. l. c.), benchè mancante delsuo principio, che ha così ...terum Principum Clemen-tiam... ectitudinem, Munificenti im supergresso D. N.Fl. Theodosio Pio Victori semper Augusto Sex. AureliusVictor V. C. Urbi praef. Judex Sacrarum CognitionumD.N. M. Q. E. Il Vossio pretende (l. 2, c. 15) ch'essadebba intendersi del giovane Aurelio Vittore, di cui oror parleremo; ma dicendo espressamente Ammiano, cheil nostro Vittore fu prefetto di Roma molto tempo dopoGiuliano, e veggendosi qui nominato un Vittore prefettodi Roma, a me par certo che debba di lui intendersi enon d'altri. Non abbiam però fondamento a credere chesia egli pur quel Vittore che fu console l'an. 369, ed èpiù verisimile che il console fosse quel Vittore generaldi Giuliano, di cui spesso ragiona lo stesso AmmianMarcellino, e di cui, dice ch'era natìo della Sarmazia (l.24, c. 1, 4, ec. l. 31, c. 12). Il nostro storico, era certa-mente idolatra, come dalle sue espressioni medesime siraccoglie.

III. Oltre le Vite de' Cesari abbiam sotto il

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Sue opere.

nome Sesto Aurelio Vittore un breve libro intitolato:Origo Gentis Romanae. Ma il titolo stesso del libro ci favedere ch'è d'altro autore; poichè nominando gli scritto-ri, di cui l'autore in esso si vale, nomina, tra gli altri, Vit-tor l'africano. Nè abbiamo altri lumi a conoscere a chidebbasi attribuir questo libro, e un altro ch'ei dice diavere scritto sull'Origini de' Padovani, ch'è smarrito.Minori difficoltà s'incontrano nell'attribuire a Sesto Au-relio Vittore le Vite degli Uomini illustri romani, che ab-biam pure sotto il nome di questo autore; e che sono sta-te più volte, ma senza alcun fondamento attribuite aCornelio Nipote, a Plinio il giovane, a Svetonio e adAsconio Pediano. Finalmente l'Epitome delle Vite deiCesari, che suole aggiugnersi alle Vite degl'imperadori,scritte da Sesto Aurelio Vittore, si crede opera di un al-tro Vittore più giovane vissuto a' tempi di Arcadio e diOnorio. Questi però da Paolo diacono, secondo alcuneantiche edizioni, è chiamato col nome di Vittorino (Degestis Langob. l. 2, c. 18). Alcuni autori seguiti dal Sab-batier (Dict. pour l'Intell. des Aut. t. 5, p. 479) pretendo-no che sia un solo Vittore l'autore di amendue le Storiede' Cesari. Ma se ciò fosse, converrebbe affermare cheegli assai spesso contradica a se stesso. Nella prima Sto-ria si dice che Tiberio visse 80 anni, nella seconda, 78 e4 mesi; il primo dice che Tito regnò 2 anni e quasi 9mesi, il secondi 2 anni, 2 mesi e 20 giorni; secondo ilprimo, Traiano fu natìo d'Italica città di Spagna, secon-do l'altro, di Todi; il primo dice che Lucio Vero morì inAltino, il secondo, che morì tra Altino e Concordia.

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nome Sesto Aurelio Vittore un breve libro intitolato:Origo Gentis Romanae. Ma il titolo stesso del libro ci favedere ch'è d'altro autore; poichè nominando gli scritto-ri, di cui l'autore in esso si vale, nomina, tra gli altri, Vit-tor l'africano. Nè abbiamo altri lumi a conoscere a chidebbasi attribuir questo libro, e un altro ch'ei dice diavere scritto sull'Origini de' Padovani, ch'è smarrito.Minori difficoltà s'incontrano nell'attribuire a Sesto Au-relio Vittore le Vite degli Uomini illustri romani, che ab-biam pure sotto il nome di questo autore; e che sono sta-te più volte, ma senza alcun fondamento attribuite aCornelio Nipote, a Plinio il giovane, a Svetonio e adAsconio Pediano. Finalmente l'Epitome delle Vite deiCesari, che suole aggiugnersi alle Vite degl'imperadori,scritte da Sesto Aurelio Vittore, si crede opera di un al-tro Vittore più giovane vissuto a' tempi di Arcadio e diOnorio. Questi però da Paolo diacono, secondo alcuneantiche edizioni, è chiamato col nome di Vittorino (Degestis Langob. l. 2, c. 18). Alcuni autori seguiti dal Sab-batier (Dict. pour l'Intell. des Aut. t. 5, p. 479) pretendo-no che sia un solo Vittore l'autore di amendue le Storiede' Cesari. Ma se ciò fosse, converrebbe affermare cheegli assai spesso contradica a se stesso. Nella prima Sto-ria si dice che Tiberio visse 80 anni, nella seconda, 78 e4 mesi; il primo dice che Tito regnò 2 anni e quasi 9mesi, il secondi 2 anni, 2 mesi e 20 giorni; secondo ilprimo, Traiano fu natìo d'Italica città di Spagna, secon-do l'altro, di Todi; il primo dice che Lucio Vero morì inAltino, il secondo, che morì tra Altino e Concordia.

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Così dicasi di altri passi che si potrebbono arrecare, eche ci mostrano ad evidenza che queste due Storie sonodi due diversi scrittori; benchè il secondo abbia spessousate le parole stesse del primo. Nè vedesi per qual mo-tivo uno stesso autore volesse scriver due Storie de' me-desimi Cesari; molto più che, benchè la seconda si chia-mi Epitome, essa è nondimeno uguale a un dipresso allaprima, e nella Vita di qualche imperadore ancor più dif-fusa.

IV. Contemporaneo a Vittore fu Eutropio, dicui abbiamo un Compendio della Storia ro-mana dalla fondazione di Roma fino a' tem-pi di Valente a cui egli lo dedica. Il che ba-sta a confutare l'errore di molti tra' moderni

scrittori, che lo han fatto discepolo di s. Agostino. Suidalo chiama Sofista italiano (in Lex.). E forse egli èquell'Eutropio medesimo a cui Simmaco scrisse più let-tere (l. 3, ep. 46, 53), e di cui parla come d'uomo datoagli studj, e ch'era degno di tramandare a' posteri le cosememorabili di que' tempi (ib. ep. 47). Egli è vero peròche l'Eutropio da Simmaco mentovato non par che fosseitaliano, perchè dalle stesse lettere raccogliamo ch'egliavea de' beni in Asia (ib. ep. 53). Quindi egli è ancor ve-risimile che dal nostro storico non sia diversoquell'Eutropio di cui parla Libanio nelle sue Lettere se-condo la bella edizione fattane da Gio. Cristof. Volfio, estampata in Amsterdam l'an. 1738. Perciocchè come lo

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Notizie di Eutropio e di altri scrittori.

Così dicasi di altri passi che si potrebbono arrecare, eche ci mostrano ad evidenza che queste due Storie sonodi due diversi scrittori; benchè il secondo abbia spessousate le parole stesse del primo. Nè vedesi per qual mo-tivo uno stesso autore volesse scriver due Storie de' me-desimi Cesari; molto più che, benchè la seconda si chia-mi Epitome, essa è nondimeno uguale a un dipresso allaprima, e nella Vita di qualche imperadore ancor più dif-fusa.

IV. Contemporaneo a Vittore fu Eutropio, dicui abbiamo un Compendio della Storia ro-mana dalla fondazione di Roma fino a' tem-pi di Valente a cui egli lo dedica. Il che ba-sta a confutare l'errore di molti tra' moderni

scrittori, che lo han fatto discepolo di s. Agostino. Suidalo chiama Sofista italiano (in Lex.). E forse egli èquell'Eutropio medesimo a cui Simmaco scrisse più let-tere (l. 3, ep. 46, 53), e di cui parla come d'uomo datoagli studj, e ch'era degno di tramandare a' posteri le cosememorabili di que' tempi (ib. ep. 47). Egli è vero peròche l'Eutropio da Simmaco mentovato non par che fosseitaliano, perchè dalle stesse lettere raccogliamo ch'egliavea de' beni in Asia (ib. ep. 53). Quindi egli è ancor ve-risimile che dal nostro storico non sia diversoquell'Eutropio di cui parla Libanio nelle sue Lettere se-condo la bella edizione fattane da Gio. Cristof. Volfio, estampata in Amsterdam l'an. 1738. Perciocchè come lo

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Notizie di Eutropio e di altri scrittori.

storico Eutropio da Suida si dice sofista, così l'Eutropiodi Libanio da lui chiamasi retore, benchè aggiunga ch'einon voleva tenere scuola: "Io godo, scrive egli ad Afro-nio (ep. 1202), che tu sii amato da Eutropio, e che tupure lo ami. Egli merita lode non solo per la sua elo-quenza, ma ancora per l'amor che porta ad Atene, e acoloro che lo hanno istituito nell'eloquenza. In una cosasola ei non è degno di scusa; poichè potendo cantare aun tempo medesimo con somma eleganza, e ammaestra-re il coro, ei nondimeno non ha mai voluto farlo". E al-trove più chiaramente (ep. 985): "Eutropio è nipote in-sieme e scolaro di Acacio, e non poco gli si assomiglianel volto, e molto più nell'eloquenza; ma non ne fa ilmedesimo uso. Perciocchè ei non vuole assoggettarsi adinsegnare, come uno schiavo, ma come uom libero trattale cause. Se le nozze non l'avessero richiamato a casa, eallontanato dal foro, ci sarebbe già ora tra' magistrati".In un'altra lettera dice (ep. 666) "ch'egli è buono natural-mente e nei costumi e nell'arte rettorica". Tutte le qualiespressioni sembrano indicarci ch'ei sia appunto il no-stro Eutropio; e che perciò o abbia errato Suida, chia-mandolo italiano, o abbia solo inteso di dire ch'ei visselungo tempo in Italia, e che scrisse in latino. Nondimenoil vedere che molti Eutropj vi furono a questo tempomedesimo (V. Fabr. Bibl. lat. l. 3, c. 9), non ci permettel'accertar cosa alcuna; e quindi è anche incerto s'ei fossequell'Eutropio medesimo, come crede il Valesio (in not.ad Amm. Mar. l. 29, c. 1), che fu procons. in Asia, e po-scia prefetto del pretorio l'an. 380. Egli di sè null'altro ci

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storico Eutropio da Suida si dice sofista, così l'Eutropiodi Libanio da lui chiamasi retore, benchè aggiunga ch'einon voleva tenere scuola: "Io godo, scrive egli ad Afro-nio (ep. 1202), che tu sii amato da Eutropio, e che tupure lo ami. Egli merita lode non solo per la sua elo-quenza, ma ancora per l'amor che porta ad Atene, e acoloro che lo hanno istituito nell'eloquenza. In una cosasola ei non è degno di scusa; poichè potendo cantare aun tempo medesimo con somma eleganza, e ammaestra-re il coro, ei nondimeno non ha mai voluto farlo". E al-trove più chiaramente (ep. 985): "Eutropio è nipote in-sieme e scolaro di Acacio, e non poco gli si assomiglianel volto, e molto più nell'eloquenza; ma non ne fa ilmedesimo uso. Perciocchè ei non vuole assoggettarsi adinsegnare, come uno schiavo, ma come uom libero trattale cause. Se le nozze non l'avessero richiamato a casa, eallontanato dal foro, ci sarebbe già ora tra' magistrati".In un'altra lettera dice (ep. 666) "ch'egli è buono natural-mente e nei costumi e nell'arte rettorica". Tutte le qualiespressioni sembrano indicarci ch'ei sia appunto il no-stro Eutropio; e che perciò o abbia errato Suida, chia-mandolo italiano, o abbia solo inteso di dire ch'ei visselungo tempo in Italia, e che scrisse in latino. Nondimenoil vedere che molti Eutropj vi furono a questo tempomedesimo (V. Fabr. Bibl. lat. l. 3, c. 9), non ci permettel'accertar cosa alcuna; e quindi è anche incerto s'ei fossequell'Eutropio medesimo, come crede il Valesio (in not.ad Amm. Mar. l. 29, c. 1), che fu procons. in Asia, e po-scia prefetto del pretorio l'an. 380. Egli di sè null'altro ci

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dice, se non che combattè nell'esercito di Giuliano con-tro dei Persiani. Lo stile di cui egli usa è poco colto,come negli altri scrittori di questa età. Esso nondimenofu avuto in tal pregio per la fedeltà della Storia, che duetraduzioni se ne fecero in lingua greca, come mostra ilVossio (l. 3 De Histor. lat. c. 8). Il Tillemont inclina apensare (in Valente art. 24) che ei fosse idolatra, e certoei non ci dà alcun indicio bastante a crederlo cristiano.Al Compendio di Eutropio aggiungiamo quello di SestoRufo, o, come altri dicono; Rufo Festo, ch'è intitolatodelle Vittorie e delle Provincie del popolo romano, e de-dicato a Valentiniano II. Alcuni hanno pensato ch'ei nonsia diverso da Sesto Rufo Avieno; ma il Fabricio dimo-stra che ciò ripugna all'ordin de' tempi (Bibl. lat. l. 3, c.2). A Sesto Rufo, ancora si attribuisce una Descrizionedelle XIV Regioni in cui era divisa Roma, pubblicatadal Panvinio e da altri a cui un'altra se ne aggiugne diPublio Vittore fatta a' medesimi tempi. Una terza per ul-timo, che credesi dell'età di Onorio, o di ValentinianoIII, è stata pubblicata dal Panciroli. Tutte sono state po-scia di bel nuovo date alla luce dal Grevio (Thes. Antiq.rom. t. 3), e della terza innoltre abbiamo avuta una piùcorretta edizione dal ch. Muratori (Nov. Thes. Inscr. t. 4,p. 2125). Un cenno vuolsi ancor dare della Tavola Peu-tingeriana, e dell'Itinerario detto di Antonino, che cre-donsi opere del tempo di Teodosio. Esse ci son vantag-giose a conoscere gli antichi nomi delle città e delle pro-vincie; ma non sono opere d'ingegno, poichè non altrocontengono che i puri nomi, nè io perciò mi debbo trat-

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dice, se non che combattè nell'esercito di Giuliano con-tro dei Persiani. Lo stile di cui egli usa è poco colto,come negli altri scrittori di questa età. Esso nondimenofu avuto in tal pregio per la fedeltà della Storia, che duetraduzioni se ne fecero in lingua greca, come mostra ilVossio (l. 3 De Histor. lat. c. 8). Il Tillemont inclina apensare (in Valente art. 24) che ei fosse idolatra, e certoei non ci dà alcun indicio bastante a crederlo cristiano.Al Compendio di Eutropio aggiungiamo quello di SestoRufo, o, come altri dicono; Rufo Festo, ch'è intitolatodelle Vittorie e delle Provincie del popolo romano, e de-dicato a Valentiniano II. Alcuni hanno pensato ch'ei nonsia diverso da Sesto Rufo Avieno; ma il Fabricio dimo-stra che ciò ripugna all'ordin de' tempi (Bibl. lat. l. 3, c.2). A Sesto Rufo, ancora si attribuisce una Descrizionedelle XIV Regioni in cui era divisa Roma, pubblicatadal Panvinio e da altri a cui un'altra se ne aggiugne diPublio Vittore fatta a' medesimi tempi. Una terza per ul-timo, che credesi dell'età di Onorio, o di ValentinianoIII, è stata pubblicata dal Panciroli. Tutte sono state po-scia di bel nuovo date alla luce dal Grevio (Thes. Antiq.rom. t. 3), e della terza innoltre abbiamo avuta una piùcorretta edizione dal ch. Muratori (Nov. Thes. Inscr. t. 4,p. 2125). Un cenno vuolsi ancor dare della Tavola Peu-tingeriana, e dell'Itinerario detto di Antonino, che cre-donsi opere del tempo di Teodosio. Esse ci son vantag-giose a conoscere gli antichi nomi delle città e delle pro-vincie; ma non sono opere d'ingegno, poichè non altrocontengono che i puri nomi, nè io perciò mi debbo trat-

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tener lungamente. La prima dicesi peutigeriana dalnome di Corrado Peutingero, presso cui ella era in Au-gusta. Marco Velsero fu il primo a pubblicarla l'an.1598. Essa poi dopo altre edizioni è stata pubblicata dinuovo perfettamente conforme all'originale che or con-servasi nell'imperial biblioteca di Vienna, da Franc. Cri-stof. de Scheyb l'an. 1753 con una eruditiss. Dissertazio-ne intorno ad essa. L'itinerario di Antonino insieme conalcuni altri Itinerarj antichi dopo le altre edizioni è statopubblicato da Pietro Wesselingio in Amsterdam l'an.1735, presso cui potrassi vedere ciò che ad essi appartie-ne.

V. Il migliore e il più celebre tra gli storicilatini di questo tempo è Ammian Marcelli-no. Noi non possiamo chiamarlo nostro senon pel soggiorno che per qualche tempofece fra noi. Egli era greco di nascita, e del-

la città di Antiochia come raccogliesi dalla lettera chefra poco recherem di Libanio, il quale era pur di Antio-chia. Egli ci parla più volte di se medesimo nella suaStoria, e rammenta come da Costanzo fu dato per aiu-tante ad Ursicino generale della cavalleria l'an. 313. (l.14, c. 9), e narra le imprese e le vicende diverse chenell'Oriente e nell'Occidente in varie guerre sostenne(ib. c. 11; l. 15, c. 5; l. 16, c. 11; l. 18, c. 6; l. 19, c. 8).Quindi o a' tempi di Valente, come vuole Adriano Vale-sio (in praef. ad Amm. Marc.), o a que' di Teodosio,

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Vita e ope-re di Am-miano Mar-cellino.

tener lungamente. La prima dicesi peutigeriana dalnome di Corrado Peutingero, presso cui ella era in Au-gusta. Marco Velsero fu il primo a pubblicarla l'an.1598. Essa poi dopo altre edizioni è stata pubblicata dinuovo perfettamente conforme all'originale che or con-servasi nell'imperial biblioteca di Vienna, da Franc. Cri-stof. de Scheyb l'an. 1753 con una eruditiss. Dissertazio-ne intorno ad essa. L'itinerario di Antonino insieme conalcuni altri Itinerarj antichi dopo le altre edizioni è statopubblicato da Pietro Wesselingio in Amsterdam l'an.1735, presso cui potrassi vedere ciò che ad essi appartie-ne.

V. Il migliore e il più celebre tra gli storicilatini di questo tempo è Ammian Marcelli-no. Noi non possiamo chiamarlo nostro senon pel soggiorno che per qualche tempofece fra noi. Egli era greco di nascita, e del-

la città di Antiochia come raccogliesi dalla lettera chefra poco recherem di Libanio, il quale era pur di Antio-chia. Egli ci parla più volte di se medesimo nella suaStoria, e rammenta come da Costanzo fu dato per aiu-tante ad Ursicino generale della cavalleria l'an. 313. (l.14, c. 9), e narra le imprese e le vicende diverse chenell'Oriente e nell'Occidente in varie guerre sostenne(ib. c. 11; l. 15, c. 5; l. 16, c. 11; l. 18, c. 6; l. 19, c. 8).Quindi o a' tempi di Valente, come vuole Adriano Vale-sio (in praef. ad Amm. Marc.), o a que' di Teodosio,

324

Vita e ope-re di Am-miano Mar-cellino.

come afferma Enrico di lui fratello (in praef. ad eumd.),sen venne a Roma, ed ivi scrisse la sua Storia. Avealaegli cominciata da Nerva, e condotta fino alla morte diValente, ed aveala divisa in 31 libri. Ma i primi 13 librisono interamente periti e non ci è rimasta che la Storiadall'anno 353 fino all'an. 378 in cui fu ucciso Valente.Alcuni, e fra gli altri Claudio Chiffiet (De Amm. Marc.Vita et Libris), hanno, creduto che ei fosse cristiano, ene recano in pruova alcuni tratti della sua storia, ne' qua-li egli usa di tali espressioni che solo sembrano propried'uom cristiano. Ma a me par più probabile l'opinione diAdriano Valesio (l. c.), ch'ei fosse idolatra, come questoscrittore dimostra da varj passi che certo non potevansiscrivere se non da un idolatra degno nondimeno di lode,perchè parlando de' Cristiani usa comunemente di unasaggia e imparziale moderazione.

VI. In quale stima ei fosse e in Roma e inAntiochia cel fa vedere la soprammentovatalettera di Libanio, di cui recherò qui qualcheparte: "Io mi congratulo, gli scrive egli (ep.

983), e teco, perchè sei in Roma, e con Roma, perchè tipossiede. Perciocchè e tu vivi in una città a cui il mondonon ha l'eguale ed ella non fa di te minor conto, che de'suoi cittadini i quali hanno avuti eroi per lor fondatori.Sarebbe cosa per te onorevole se anche costì te ne stessiin silenzio udendo recitare gli altri; perciocchè moltioratori ha Roma non dissimili da' loro antenati. Ma tu,

325

Di quanta stima go-desse.

come afferma Enrico di lui fratello (in praef. ad eumd.),sen venne a Roma, ed ivi scrisse la sua Storia. Avealaegli cominciata da Nerva, e condotta fino alla morte diValente, ed aveala divisa in 31 libri. Ma i primi 13 librisono interamente periti e non ci è rimasta che la Storiadall'anno 353 fino all'an. 378 in cui fu ucciso Valente.Alcuni, e fra gli altri Claudio Chiffiet (De Amm. Marc.Vita et Libris), hanno, creduto che ei fosse cristiano, ene recano in pruova alcuni tratti della sua storia, ne' qua-li egli usa di tali espressioni che solo sembrano propried'uom cristiano. Ma a me par più probabile l'opinione diAdriano Valesio (l. c.), ch'ei fosse idolatra, come questoscrittore dimostra da varj passi che certo non potevansiscrivere se non da un idolatra degno nondimeno di lode,perchè parlando de' Cristiani usa comunemente di unasaggia e imparziale moderazione.

VI. In quale stima ei fosse e in Roma e inAntiochia cel fa vedere la soprammentovatalettera di Libanio, di cui recherò qui qualcheparte: "Io mi congratulo, gli scrive egli (ep.

983), e teco, perchè sei in Roma, e con Roma, perchè tipossiede. Perciocchè e tu vivi in una città a cui il mondonon ha l'eguale ed ella non fa di te minor conto, che de'suoi cittadini i quali hanno avuti eroi per lor fondatori.Sarebbe cosa per te onorevole se anche costì te ne stessiin silenzio udendo recitare gli altri; perciocchè moltioratori ha Roma non dissimili da' loro antenati. Ma tu,

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Di quanta stima go-desse.

come udiamo da quelli che vengono di costà, in partehai già recitato, e in parte sei per recitare la tua Storiach'è divisa in più parti e gli elogi che si fanno a quellache già hai pubblicata, fan desiderare la pubblicazionedel rimanente. Ho saputo inoltre che Roma fa applausoal tuo lavoro, e ch'è comun sentimento della città, che tusei superiore di molto a questi nostri scrittori, e che aniuno degli scrittori loro sei inferiore. Il che non solotorna in onor di te stesso, ma di noi ancora, da' quali seidipartito. Prosiegui adunque a comporre di tal maniera,e a recitare pubblicamente, e a riscuotere ammirazione eplauso; nè cessa di accrescere nuovo ornamento a te e anoi: perciocchè la gloria di un tal cittadino ridonda an-cora in onor della patria". Questa lettera è sommamenteonorevole come ad Ammian Marcellino, così a Romanon meno ove veggiamo che non erano ancor decadutigli studj per modo tale, che gli uomini dotti non fosseroin pregio e che volontieri e con applauso non si udisseroi loro componimenti. Più altre lettere abbiamo di Liba-nio ad Ammiano (ep. 230, 1090, 1151, 1543), che sonopruove della stima di questo dotto sofista pel nostro sto-rico. E certo la Storia di Ammian Marcellino, per ciòch'è verità, esattezza, e giusto discernimento, è una dellemigliori che abbiamo. Ma lo stile n'è rozzo ed aspro, diche non è a stupire singolarmente in un uom greco e sol-dato e inoltre ci annoja spesso con inutili digressioni econ declamazioni importune.

326

come udiamo da quelli che vengono di costà, in partehai già recitato, e in parte sei per recitare la tua Storiach'è divisa in più parti e gli elogi che si fanno a quellache già hai pubblicata, fan desiderare la pubblicazionedel rimanente. Ho saputo inoltre che Roma fa applausoal tuo lavoro, e ch'è comun sentimento della città, che tusei superiore di molto a questi nostri scrittori, e che aniuno degli scrittori loro sei inferiore. Il che non solotorna in onor di te stesso, ma di noi ancora, da' quali seidipartito. Prosiegui adunque a comporre di tal maniera,e a recitare pubblicamente, e a riscuotere ammirazione eplauso; nè cessa di accrescere nuovo ornamento a te e anoi: perciocchè la gloria di un tal cittadino ridonda an-cora in onor della patria". Questa lettera è sommamenteonorevole come ad Ammian Marcellino, così a Romanon meno ove veggiamo che non erano ancor decadutigli studj per modo tale, che gli uomini dotti non fosseroin pregio e che volontieri e con applauso non si udisseroi loro componimenti. Più altre lettere abbiamo di Liba-nio ad Ammiano (ep. 230, 1090, 1151, 1543), che sonopruove della stima di questo dotto sofista pel nostro sto-rico. E certo la Storia di Ammian Marcellino, per ciòch'è verità, esattezza, e giusto discernimento, è una dellemigliori che abbiamo. Ma lo stile n'è rozzo ed aspro, diche non è a stupire singolarmente in un uom greco e sol-dato e inoltre ci annoja spesso con inutili digressioni econ declamazioni importune.

326

VII. "Flavio Destro spagnuolo e di patriabarcellonese ma vissuto quasi sempre in Ita-lia, e in Roma, ove fu anche prefetto del

pretorio, e grande amico di s. Girolamo, avea scritta,come questi afferma di aver udito nella sua opera sugliScrittori ecclesiastici, un'opera ch'egli intitola Omnimo-dam Historiam. Ma essa è perita; giacchè sanno troppobene gli eruditi che la Cronaca sotto il nome di FlavioDestro pubblicata è un'impostura" (23).

VIII. Questi soli sono, gli storici de' quali cisian pervenute le opere, e appena sappiamod'altri che in questo genere si esercitassero.Di uno storico dice gran lodi Simmaco in

due lettere che a lui scrive (l. 9 ep. 70, 105); ma chi eglifosse, nol possiamo conoscere, non sapendosi a chiquelle lettere siano indirizzate. Forse fu alcun dagli sto-rici de' quali abbiam finora parlato; e forse ancora fuquel Nicomaco Flaviano di cui abbiam favellato trattan-do di Macrobio; perciocchè in un'antica iscrizione pub-blicata dopo altri da Isacco Pontano (in not. ad Macrob.Saturn. l. 1, v. 17) fra gli onorevoli titoli di cui vedesi23 Ecco riparato il grave disordine rimproveratomi aspramente dal sig. ab.

Lampillas (Saggio, ec. par. 1, t. 2, p. 113) di avere nella prima edizione diquesta Storia omesso questo scrittore. Egli avrebbe voluto (ivi p. 98) ch'ioparlassi ancora di Osio vescovo di Cordova. Ma non parmi ch'ei soggior-nasse sì stabilmente in Italia, che ne ottenesse, per così dire, il diritto dellanazionalità.

327

Flavio De-stro.

Altri scrit-tori di sto-ria perduti.

VII. "Flavio Destro spagnuolo e di patriabarcellonese ma vissuto quasi sempre in Ita-lia, e in Roma, ove fu anche prefetto del

pretorio, e grande amico di s. Girolamo, avea scritta,come questi afferma di aver udito nella sua opera sugliScrittori ecclesiastici, un'opera ch'egli intitola Omnimo-dam Historiam. Ma essa è perita; giacchè sanno troppobene gli eruditi che la Cronaca sotto il nome di FlavioDestro pubblicata è un'impostura" (23).

VIII. Questi soli sono, gli storici de' quali cisian pervenute le opere, e appena sappiamod'altri che in questo genere si esercitassero.Di uno storico dice gran lodi Simmaco in

due lettere che a lui scrive (l. 9 ep. 70, 105); ma chi eglifosse, nol possiamo conoscere, non sapendosi a chiquelle lettere siano indirizzate. Forse fu alcun dagli sto-rici de' quali abbiam finora parlato; e forse ancora fuquel Nicomaco Flaviano di cui abbiam favellato trattan-do di Macrobio; perciocchè in un'antica iscrizione pub-blicata dopo altri da Isacco Pontano (in not. ad Macrob.Saturn. l. 1, v. 17) fra gli onorevoli titoli di cui vedesi23 Ecco riparato il grave disordine rimproveratomi aspramente dal sig. ab.

Lampillas (Saggio, ec. par. 1, t. 2, p. 113) di avere nella prima edizione diquesta Storia omesso questo scrittore. Egli avrebbe voluto (ivi p. 98) ch'ioparlassi ancora di Osio vescovo di Cordova. Ma non parmi ch'ei soggior-nasse sì stabilmente in Italia, che ne ottenesse, per così dire, il diritto dellanazionalità.

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Flavio De-stro.

Altri scrit-tori di sto-ria perduti.

ornato, evvi ancor questo: historico dissertissimo. Ma diche cosa scrivesse, non ci è restata memoria. Veggasi ilVossio, ove parla degli storici di questi tempi presso cuisi troverà menzione di alcuni altri che noi passiam sottosilenzio, sì perchè furono per la più parte stranieri, sìperchè, se di essi ci è rimasta qualche picciola operetta,non è essa tale che possa accrescere onore all'italianaletteratura.

CAPO VI.Filosofia e Matematica.

I. Non vi ebbe scienza alcuna a quest'epo-ca che avesse sì pochi coltivatori e segua-ci, come la filosofia. O fosse che il lusso eil libertinaggio di Roma distogliesse l'ani-mo da cotai gravi e seriosi studj, o fosse

che le funeste vicende della repubblica consigliasseroque' che pure erano amanti de' buoni studj, a cercar anziqualche sollievo nell'amena letteratura, che a rattristarsivie maggiormente su' libri de' severi filosofi, egli è certoche mentre i filosofici studj fiorivano in Alessandria e inAtene, illanguidivano ogni giorno più in Roma. Nè è giàche mancassero stimoli e premj, onde eccitare gli uomi-ni allo studio di questa scienza. I filosofi non men che iretori ed i gramatici avean dal pubblico erario i loro sti-pendj, e godevano essi pure de' privilegi agli altri pro-fessori conceduti. Oltre le pruove che ne abbiamo recate

328

La filosofia quasi del tuttoabbandonata in Roma, e perchè.

ornato, evvi ancor questo: historico dissertissimo. Ma diche cosa scrivesse, non ci è restata memoria. Veggasi ilVossio, ove parla degli storici di questi tempi presso cuisi troverà menzione di alcuni altri che noi passiam sottosilenzio, sì perchè furono per la più parte stranieri, sìperchè, se di essi ci è rimasta qualche picciola operetta,non è essa tale che possa accrescere onore all'italianaletteratura.

CAPO VI.Filosofia e Matematica.

I. Non vi ebbe scienza alcuna a quest'epo-ca che avesse sì pochi coltivatori e segua-ci, come la filosofia. O fosse che il lusso eil libertinaggio di Roma distogliesse l'ani-mo da cotai gravi e seriosi studj, o fosse

che le funeste vicende della repubblica consigliasseroque' che pure erano amanti de' buoni studj, a cercar anziqualche sollievo nell'amena letteratura, che a rattristarsivie maggiormente su' libri de' severi filosofi, egli è certoche mentre i filosofici studj fiorivano in Alessandria e inAtene, illanguidivano ogni giorno più in Roma. Nè è giàche mancassero stimoli e premj, onde eccitare gli uomi-ni allo studio di questa scienza. I filosofi non men che iretori ed i gramatici avean dal pubblico erario i loro sti-pendj, e godevano essi pure de' privilegi agli altri pro-fessori conceduti. Oltre le pruove che ne abbiamo recate

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La filosofia quasi del tuttoabbandonata in Roma, e perchè.

nel primo capo di questo libro, un'altra ne abbiamo inSimmaco, il quale fa menzione di un Prisciano filosofo,degno, dic'egli (l. 1, ep. 89), di esser posto tra' primiper sapere e per onestà, e a cui per ordine del senato èstato assegnato un giusto stipendio. Ma poco giovanocotali stimoli, quando le ree circostanze de' tempi con-giurano, per così dire, allo sterminio della letteratura. Emolto più dovette la filosofia decadere allor quando,come abbiamo già detto nel mentovato capo, furon toltia' professori gli usati loro stipendj; perciocchè uno stu-dio il quale avea sì pochi seguaci quando se ne speravaalcun premio, molto più dovette essere abbandonato,quando non recava seco allettamento di sorte alcuna.

II. Dello scarso numero de' filosofi de' suoigiorni si duole lo stesso Simmaco. Pochi fi-losofi, scriv'egli ad Ausonio (l. 1, ep. 29),questa nostra età ha prodotti, la cui sapien-za si rassomigliasse a quella degli antichi.

Tra questi pochi ei vuole che si annoveri un cotal Bara-co cui perciò ei raccomanda ad Ausonio. Abbiampoc'anzi vedute le lodi ch'egli dice del filosofo Priscia-no. Alcuni altri ne veggiam da lui nominati con ampjelogi come Massimo, cui chiama (l. 2, ep. 30) insigneugualmente per bontà di vita e per erudizione in tutte lescienze, e filosofo non inferiore ad alcuno de' più illu-stri; ed Ero pure filosofo, di cui parla con somigliantiespressioni (ib. ep. 39), e Nicia ch'egli dice degno di es-

329

Alcuni filo-sofi nomi-nati da Simmaco.

nel primo capo di questo libro, un'altra ne abbiamo inSimmaco, il quale fa menzione di un Prisciano filosofo,degno, dic'egli (l. 1, ep. 89), di esser posto tra' primiper sapere e per onestà, e a cui per ordine del senato èstato assegnato un giusto stipendio. Ma poco giovanocotali stimoli, quando le ree circostanze de' tempi con-giurano, per così dire, allo sterminio della letteratura. Emolto più dovette la filosofia decadere allor quando,come abbiamo già detto nel mentovato capo, furon toltia' professori gli usati loro stipendj; perciocchè uno stu-dio il quale avea sì pochi seguaci quando se ne speravaalcun premio, molto più dovette essere abbandonato,quando non recava seco allettamento di sorte alcuna.

II. Dello scarso numero de' filosofi de' suoigiorni si duole lo stesso Simmaco. Pochi fi-losofi, scriv'egli ad Ausonio (l. 1, ep. 29),questa nostra età ha prodotti, la cui sapien-za si rassomigliasse a quella degli antichi.

Tra questi pochi ei vuole che si annoveri un cotal Bara-co cui perciò ei raccomanda ad Ausonio. Abbiampoc'anzi vedute le lodi ch'egli dice del filosofo Priscia-no. Alcuni altri ne veggiam da lui nominati con ampjelogi come Massimo, cui chiama (l. 2, ep. 30) insigneugualmente per bontà di vita e per erudizione in tutte lescienze, e filosofo non inferiore ad alcuno de' più illu-stri; ed Ero pure filosofo, di cui parla con somigliantiespressioni (ib. ep. 39), e Nicia ch'egli dice degno di es-

329

Alcuni filo-sofi nomi-nati da Simmaco.

sere annoverato tra' primi filosofi (l. 9, ep. 38). Ma diniuno di questi noi non sappiamo che alcun monumentolasciasser a' posteri del lor ingegno, anzi non possiampure accertare se essi fossero romani, o almeno italiani.Ciò ch'è certo, si è che così difficilmente trovavasi aquesti tempi un dotto filosofo in Roma, che spesso, con-veniva chiamar dalla Grecia que' che doveano tenernescuola; come raccogliam da una lettera dello stesso Sim-maco all'imp. Teodosio (l. 10, ep. 18), in cui dopo averdetto appunto che spesso faceansi venir dalla Grecia iprecettori filosofi, aggiugne che un cotal Celso, di cui fagrandissimi elogi, offrivasi spontaneamente a venirsenea tal fine a Roma, e a tenervi gratuitamente scuola di fi-losofia.

III. Tutte queste cose ci mostrano che assaipochi amatori avea allora la buona filosofia.E io penso che i più profondi indagatori del-le quistioni filosofiche fossero i Santi Padri,e gli altri scrittori sacri che scrivevano in di-fesa della religion cristiana. La necessità, in

cui erano di ribattere gli argomenti che da' gentili filoso-fi lor si opponevano li conduceva allo studio di que' si-stemi che nelle più celebri scuole allor s'insegnavano, ead investigare ancora le opinioni de' più antichi filosofi,affine di scoprirne gli errori, le contradizioni, i sofismi,e di combattere le false massime da essi insegnate. Noiveggiamo in fatti che ne' loro libri essi si mostrano nelle

330

Studj filo-sofici de' Santi PP. Notizie di Mallio Teo-doro.

sere annoverato tra' primi filosofi (l. 9, ep. 38). Ma diniuno di questi noi non sappiamo che alcun monumentolasciasser a' posteri del lor ingegno, anzi non possiampure accertare se essi fossero romani, o almeno italiani.Ciò ch'è certo, si è che così difficilmente trovavasi aquesti tempi un dotto filosofo in Roma, che spesso, con-veniva chiamar dalla Grecia que' che doveano tenernescuola; come raccogliam da una lettera dello stesso Sim-maco all'imp. Teodosio (l. 10, ep. 18), in cui dopo averdetto appunto che spesso faceansi venir dalla Grecia iprecettori filosofi, aggiugne che un cotal Celso, di cui fagrandissimi elogi, offrivasi spontaneamente a venirsenea tal fine a Roma, e a tenervi gratuitamente scuola di fi-losofia.

III. Tutte queste cose ci mostrano che assaipochi amatori avea allora la buona filosofia.E io penso che i più profondi indagatori del-le quistioni filosofiche fossero i Santi Padri,e gli altri scrittori sacri che scrivevano in di-fesa della religion cristiana. La necessità, in

cui erano di ribattere gli argomenti che da' gentili filoso-fi lor si opponevano li conduceva allo studio di que' si-stemi che nelle più celebri scuole allor s'insegnavano, ead investigare ancora le opinioni de' più antichi filosofi,affine di scoprirne gli errori, le contradizioni, i sofismi,e di combattere le false massime da essi insegnate. Noiveggiamo in fatti che ne' loro libri essi si mostrano nelle

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Studj filo-sofici de' Santi PP. Notizie di Mallio Teo-doro.

dottrine degli antichi filosofi assai versati, e molti dog-mi delle varie filosofiche sette non altronde li sappiamo,che dalle opere degli scrittori ecclesiastici. Così, il pro-pagamento della religion cristiana non che esser danno-so, come alcuni ingiustamente affermano, a' progressinelle scienze, giovò anzi molto al loro coltivamento ealla lor perfezione, facendo palesi le tenebre e l'ignoran-za in cui sulle più importanti quistioni erano stati fino aquel tempo i più illustri filosofi. Noi abbiam già annove-rati quelli tra gli scrittori ecclesiastici, che con tali operesi renderon più illustri. Ma un altro filosofo cristianovuolsi qui nominare, di cui, benchè non abbiam alcun li-bro, sappiam nondimeno che negli studj filosofici eraforse più di qualunque altro a questi tempi versato. Que-sti è il cel. Mallio Teodoro. L'Argelati conghiettura enon senza probabile fondamento, ch'ei fosse milanese dipatria (Bibl. script. mediol. art. "Flagrius et in append.art. "Manlius). Egli afferma che in Milano vedesi anco-ra nella basilica di s. Ambrogio l'iscrizione posta al se-polcro di Mallia Dedalia da Teodoro suo fratello chenon pare diverso dal nostro: Martyris ad frontem, recubent quae membra sepulcro,

Ut Lector noscas, est operae pretium. Clara genus, censu pollens, et mater egentum,

Virgo sacrata Deo, Manlia Daedalia, Quae mortali nihil mortali in corpore volvens,

Quo peteret coelum semper amavit iter. Sexaginta annos vicino limite tangens

Rettulit ad Christum celsa per astra gradum.

331

dottrine degli antichi filosofi assai versati, e molti dog-mi delle varie filosofiche sette non altronde li sappiamo,che dalle opere degli scrittori ecclesiastici. Così, il pro-pagamento della religion cristiana non che esser danno-so, come alcuni ingiustamente affermano, a' progressinelle scienze, giovò anzi molto al loro coltivamento ealla lor perfezione, facendo palesi le tenebre e l'ignoran-za in cui sulle più importanti quistioni erano stati fino aquel tempo i più illustri filosofi. Noi abbiam già annove-rati quelli tra gli scrittori ecclesiastici, che con tali operesi renderon più illustri. Ma un altro filosofo cristianovuolsi qui nominare, di cui, benchè non abbiam alcun li-bro, sappiam nondimeno che negli studj filosofici eraforse più di qualunque altro a questi tempi versato. Que-sti è il cel. Mallio Teodoro. L'Argelati conghiettura enon senza probabile fondamento, ch'ei fosse milanese dipatria (Bibl. script. mediol. art. "Flagrius et in append.art. "Manlius). Egli afferma che in Milano vedesi anco-ra nella basilica di s. Ambrogio l'iscrizione posta al se-polcro di Mallia Dedalia da Teodoro suo fratello chenon pare diverso dal nostro: Martyris ad frontem, recubent quae membra sepulcro,

Ut Lector noscas, est operae pretium. Clara genus, censu pollens, et mater egentum,

Virgo sacrata Deo, Manlia Daedalia, Quae mortali nihil mortali in corpore volvens,

Quo peteret coelum semper amavit iter. Sexaginta annos vicino limite tangens

Rettulit ad Christum celsa per astra gradum.

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Haec Germana tibi Theodorus frater, et haeres Quae relegant olim saecla futura, dedi.

Aggiungasi che s. Agostino, come or ora vedremo, co-nobbe Mallio in Milano; e che Claudiano per ispiegareil soggiorno di Mallio dice Ligurum moenibus. Or Mila-no era di questi tempi come altrove dovrem mostrare, lacapitale della Liguria. Checchè sia di ciò, egli visse aitempi di Teodosio e di Onorio, e dopo aver sostenutecon lode altre onorevoli cariche, giunse a quelle ancorache fra tutte erano le più ragguardevoli, di prefetto delleGallie, poi dell'Italia, e finalmente di console l'an. 399(Tillem. in Hon. art. 9). Tra le lettere di Simmaco ne tro-viam molte a lui scritte (l. 5, ep. 4, 15) dalle quali veg-giamo in quanta stima ei l'avesse, e quanto singolarmen-te ne pregiasse l'eloquenza (ib. ep. 9). Ma Claudiano unintero panegirico in versi scrisse a lodarlo, quando eisalì all'onore del consolato (Paneg. de Consulatu MalliiTheod.). Ei rammenta dapprima gli studj giovanili diMallio, e l'eloquenza con cui più volte avea perorato nelforo:

Jam tunc canities animi, jam dulce loquendi Pondus, et attonitas sermo qui duceret aures. Mox undare foro victrix opulentia linguae Tutarique reos: ipsa haec amplissima sedes Orantem stupuit bis laudatura regentem.

Quindi dopo aver fatta menzione delle onorevoli carichea cui Mallio fu sollevato, così prosiegue:

Postquam parta quies et summum nacta cacumen,

332

Haec Germana tibi Theodorus frater, et haeres Quae relegant olim saecla futura, dedi.

Aggiungasi che s. Agostino, come or ora vedremo, co-nobbe Mallio in Milano; e che Claudiano per ispiegareil soggiorno di Mallio dice Ligurum moenibus. Or Mila-no era di questi tempi come altrove dovrem mostrare, lacapitale della Liguria. Checchè sia di ciò, egli visse aitempi di Teodosio e di Onorio, e dopo aver sostenutecon lode altre onorevoli cariche, giunse a quelle ancorache fra tutte erano le più ragguardevoli, di prefetto delleGallie, poi dell'Italia, e finalmente di console l'an. 399(Tillem. in Hon. art. 9). Tra le lettere di Simmaco ne tro-viam molte a lui scritte (l. 5, ep. 4, 15) dalle quali veg-giamo in quanta stima ei l'avesse, e quanto singolarmen-te ne pregiasse l'eloquenza (ib. ep. 9). Ma Claudiano unintero panegirico in versi scrisse a lodarlo, quando eisalì all'onore del consolato (Paneg. de Consulatu MalliiTheod.). Ei rammenta dapprima gli studj giovanili diMallio, e l'eloquenza con cui più volte avea perorato nelforo:

Jam tunc canities animi, jam dulce loquendi Pondus, et attonitas sermo qui duceret aures. Mox undare foro victrix opulentia linguae Tutarique reos: ipsa haec amplissima sedes Orantem stupuit bis laudatura regentem.

Quindi dopo aver fatta menzione delle onorevoli carichea cui Mallio fu sollevato, così prosiegue:

Postquam parta quies et summum nacta cacumen,

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Jam secura petit privatum gloria portum;Ingenii redeunt fructus, allique labores Et vitae pars nulla perit. Quodcumque receditLitibus, incumbit studiis, animusque vicissimAut curam imponit populis, aut otia Musis;Omnia Cecropiae relegis secreta senectae:Discutiens, quid quisque novam mandaverit aevo, Quantaque diversae producant agmina sectae.

In tal maniera continua Claudiano lodando i filosoficistudj di Mallio, e annoverando le molte e diverse sette icui dogmi egli attentamente esaminava. Anzi egli accen-na un'opera di filosofia morale che Mallio aveva o intra-presa o composta:

Ornantur veteres, et nobiliore magistro In Latium spretis Academia migrat Athenis, Ut tandem propius discat, quo fine beatumDirigitur, quae norma boni, quis limes honesti,Quaenam membra sui virtus divisa domandisObjectet vitiis, quae pars injusta recidat Quae vincat ratione metus, quae fraenet amores.

Questa probabilmente è quell'opera stessa di cui vedre-mo or ora che fa parimenti menzione s. Agostino. Nèsolo quella parte di filosofia, che appartiene al costume,sì coltivava da Mallio, ma quella ancora che rivolgesialla contemplazione della natura. Quindi Claudiano pro-siegue e dice che Mallio insegnava la natura e la pro-prietà degli elementi, per qual maniera fosse stato creatoil mondo, e con quai leggi venisse il medesimo regolato;

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Jam secura petit privatum gloria portum;Ingenii redeunt fructus, allique labores Et vitae pars nulla perit. Quodcumque receditLitibus, incumbit studiis, animusque vicissimAut curam imponit populis, aut otia Musis;Omnia Cecropiae relegis secreta senectae:Discutiens, quid quisque novam mandaverit aevo, Quantaque diversae producant agmina sectae.

In tal maniera continua Claudiano lodando i filosoficistudj di Mallio, e annoverando le molte e diverse sette icui dogmi egli attentamente esaminava. Anzi egli accen-na un'opera di filosofia morale che Mallio aveva o intra-presa o composta:

Ornantur veteres, et nobiliore magistro In Latium spretis Academia migrat Athenis, Ut tandem propius discat, quo fine beatumDirigitur, quae norma boni, quis limes honesti,Quaenam membra sui virtus divisa domandisObjectet vitiis, quae pars injusta recidat Quae vincat ratione metus, quae fraenet amores.

Questa probabilmente è quell'opera stessa di cui vedre-mo or ora che fa parimenti menzione s. Agostino. Nèsolo quella parte di filosofia, che appartiene al costume,sì coltivava da Mallio, ma quella ancora che rivolgesialla contemplazione della natura. Quindi Claudiano pro-siegue e dice che Mallio insegnava la natura e la pro-prietà degli elementi, per qual maniera fosse stato creatoil mondo, e con quai leggi venisse il medesimo regolato;

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il corso delle stelle e la natura della luce e dei colori, lecagioni del flusso e riflusso del mare, delle pioggie, del-la grandine, della neve, de' tuoni, de' fulmini e delle co-mete. Finge egli poscia con poetica immagine, che laGiustizia, volendo a comune vantaggio ricondurlo allaluce de' pubblici onori, discesa dal cielo il ritrova inten-to a disegnar sulla polvere i movimenti delle stelle e de'pianeti. Finalmente accenna di nuovo o la stessa operadi sopra indicata, o un'altra di non dissimile argomentola qual sembra che da Mallio si fosse già renduta pubbli-ca:

Qualem te legimus teneri primordia mundiScribentem aut partes animae, per singula talemCernimus, et similes agnoscit pagina mores.

IV. Sì magnifici elogi che veggiam darsi aMallio da questo poeta, ci fan conoscerequanto grand'uomo egli fosse, e quanto va-loroso coltivatore de' filosofici studj. Sem-

bra difficile il conciliare questo panegirico di Claudianocon un epigramma dello stesso poeta, in cui ci rappre-senta Mallio Teodoro come un indolente e sonnacchiosomagistrato. Esso è intitolato: De Theodoro et Hadriano(ep. 29), e così dice: Mallius indulget somno noctesque, diesque:

Insomnis Pharius sacra profana rapit. Omnibus hoc Italiae gentes exposcite votis,

334

Elogi ad esso fatti; sue opere.

il corso delle stelle e la natura della luce e dei colori, lecagioni del flusso e riflusso del mare, delle pioggie, del-la grandine, della neve, de' tuoni, de' fulmini e delle co-mete. Finge egli poscia con poetica immagine, che laGiustizia, volendo a comune vantaggio ricondurlo allaluce de' pubblici onori, discesa dal cielo il ritrova inten-to a disegnar sulla polvere i movimenti delle stelle e de'pianeti. Finalmente accenna di nuovo o la stessa operadi sopra indicata, o un'altra di non dissimile argomentola qual sembra che da Mallio si fosse già renduta pubbli-ca:

Qualem te legimus teneri primordia mundiScribentem aut partes animae, per singula talemCernimus, et similes agnoscit pagina mores.

IV. Sì magnifici elogi che veggiam darsi aMallio da questo poeta, ci fan conoscerequanto grand'uomo egli fosse, e quanto va-loroso coltivatore de' filosofici studj. Sem-

bra difficile il conciliare questo panegirico di Claudianocon un epigramma dello stesso poeta, in cui ci rappre-senta Mallio Teodoro come un indolente e sonnacchiosomagistrato. Esso è intitolato: De Theodoro et Hadriano(ep. 29), e così dice: Mallius indulget somno noctesque, diesque:

Insomnis Pharius sacra profana rapit. Omnibus hoc Italiae gentes exposcite votis,

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Elogi ad esso fatti; sue opere.

Mallius ut vigilet, dormiat ut Pharius.

Ma come sembra che Claudiano si lasciasse qui traspor-tare da qualche sua passione contro di Adriano egiziano,uomo per altro che fu sollevato alle più onorevoli cari-che, e di cui non sappiamo che fosse quell'uom malva-gio ch'ei ci descrive (V. Tillem. not. 4. sur Honor.), cosaè probabile che Claudiano si lasciasse qui ancora con-durre da qualche passione tropp'oltre nel parlare di Mal-lio. Il che rendesi ancor più evidente al legger le lodicon cui l'esalta lo stesso s. Agostino. Questi avealo co-nosciuto in Milano, e ne' libri ch'egli ivi scrisse, mentreritirato in villa aparecchiavasi al battesimo, ne fecemenzione e il disse "uomo che per ingegno, per elo-quenza, e pe' doni stessi della fortuna, e ciò che più im-porta per la grandezza dell'animo era ammirabile; e cheper lui non avrebbono potuto i posteri dolersi a ragionedella letteratura di quella età" (l. 1, de Ord. c. 11). Anzia lui dedicò il suo libro de Vita Beata scritto in queltempo medesimo, e a lui parlando accenna, come soprasi è detto, un'opera intorno alla morale filosofia e allaprovvidenza che Mallio stava scrivendo (praef. de VitaBeata). Aggiunge ancora che Mallio de' libri di Platoneprendeva singolarmente diletto; e dice di avere in lui ri-posta sì grande fiducia che, quando ottenga di essere dalui amato, si lusinga di arrivar felicemente a quella vitabeata a cui pensa ch'esso sia già pervenuto. Questeespressioni parvero poscia a s. Agostino esagerate ditroppo e quindi parlando di questo libro nelle sue Ritrat-

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Mallius ut vigilet, dormiat ut Pharius.

Ma come sembra che Claudiano si lasciasse qui traspor-tare da qualche sua passione contro di Adriano egiziano,uomo per altro che fu sollevato alle più onorevoli cari-che, e di cui non sappiamo che fosse quell'uom malva-gio ch'ei ci descrive (V. Tillem. not. 4. sur Honor.), cosaè probabile che Claudiano si lasciasse qui ancora con-durre da qualche passione tropp'oltre nel parlare di Mal-lio. Il che rendesi ancor più evidente al legger le lodicon cui l'esalta lo stesso s. Agostino. Questi avealo co-nosciuto in Milano, e ne' libri ch'egli ivi scrisse, mentreritirato in villa aparecchiavasi al battesimo, ne fecemenzione e il disse "uomo che per ingegno, per elo-quenza, e pe' doni stessi della fortuna, e ciò che più im-porta per la grandezza dell'animo era ammirabile; e cheper lui non avrebbono potuto i posteri dolersi a ragionedella letteratura di quella età" (l. 1, de Ord. c. 11). Anzia lui dedicò il suo libro de Vita Beata scritto in queltempo medesimo, e a lui parlando accenna, come soprasi è detto, un'opera intorno alla morale filosofia e allaprovvidenza che Mallio stava scrivendo (praef. de VitaBeata). Aggiunge ancora che Mallio de' libri di Platoneprendeva singolarmente diletto; e dice di avere in lui ri-posta sì grande fiducia che, quando ottenga di essere dalui amato, si lusinga di arrivar felicemente a quella vitabeata a cui pensa ch'esso sia già pervenuto. Questeespressioni parvero poscia a s. Agostino esagerate ditroppo e quindi parlando di questo libro nelle sue Ritrat-

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tazioni, dice (l. 1 Retract. c. 2): Displicet tamem illic,quod Manlio Theodoro, ad quem librum ipsum scripsi,quamvis docto et christiano viro, plus tribui quam debe-rem. Le quali parole son nondimeno un grande elogioper Mallio Teodoro, poichè sempre più ci assicurano, ech'egli era uom dotto, e insieme ch'egli era cristiano diche alcuni non riflettendo a questo passo, han dubitato.La menzione che fa Claudiano di un'opera filosofica daMallio composta, ha fatto credere, ad alcuni, ch'egli fos-se autore del poema di Astronomia, che va sotto nomedi Manilio. Ma già abbiamo altrove mostrato che essoappartien certamente al secolo d'Augusto. Il Salmasioafferma (in praef. ad Ampellium) che esiste ancor mano-scritto in alcune Biblioteche un libro del nostro Malliointitolato: De rerum natura, causisque naturalibus, deastris, ec. e il Fabricio aggiugne (Bibl. lat. t. 1, p. 30,nota a) che Filippo Jacopo Maussaco pensava a renderlopubblico. Ma nè il Salmasio dice in qual biblioteca sitrovi, nè io in alcuna biblioteca, di cui sia stampato ilcatalogo, ho trovata menzione di questo libro, ma solodi un'operetta su' metri poetici a lui attribuita (V. Cat.MSS. lat. Bibl. reg. Paris. cod. 4841, 7350). Forse potreirecarne più distinta contezza, se potessi aver tra le manila dissertazione che intorno a questo celebre uomo hapubblicata Alberto Rubenio; ma non mi è stato possibiledi rinvenirla.

V. Col parlare di Mallio Teodoro noi ab-

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Vicendedell'astrologiagiudiciaria.

tazioni, dice (l. 1 Retract. c. 2): Displicet tamem illic,quod Manlio Theodoro, ad quem librum ipsum scripsi,quamvis docto et christiano viro, plus tribui quam debe-rem. Le quali parole son nondimeno un grande elogioper Mallio Teodoro, poichè sempre più ci assicurano, ech'egli era uom dotto, e insieme ch'egli era cristiano diche alcuni non riflettendo a questo passo, han dubitato.La menzione che fa Claudiano di un'opera filosofica daMallio composta, ha fatto credere, ad alcuni, ch'egli fos-se autore del poema di Astronomia, che va sotto nomedi Manilio. Ma già abbiamo altrove mostrato che essoappartien certamente al secolo d'Augusto. Il Salmasioafferma (in praef. ad Ampellium) che esiste ancor mano-scritto in alcune Biblioteche un libro del nostro Malliointitolato: De rerum natura, causisque naturalibus, deastris, ec. e il Fabricio aggiugne (Bibl. lat. t. 1, p. 30,nota a) che Filippo Jacopo Maussaco pensava a renderlopubblico. Ma nè il Salmasio dice in qual biblioteca sitrovi, nè io in alcuna biblioteca, di cui sia stampato ilcatalogo, ho trovata menzione di questo libro, ma solodi un'operetta su' metri poetici a lui attribuita (V. Cat.MSS. lat. Bibl. reg. Paris. cod. 4841, 7350). Forse potreirecarne più distinta contezza, se potessi aver tra le manila dissertazione che intorno a questo celebre uomo hapubblicata Alberto Rubenio; ma non mi è stato possibiledi rinvenirla.

V. Col parlare di Mallio Teodoro noi ab-

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Vicendedell'astrologiagiudiciaria.

biam detto quanto ci è giunto a notizia degli studj astro-nomici e matematici di questi tempi. Macrobio e Mar-ziano Capella, de' quali già si è favellato mostran diaverne qualche tintura, ma assai superficiale e leggera, eavvolta tra molti errori, e tra quelli ancora dell'astrologiagiudiciaria. Questa era già stata dannata da Diocleziano,e da Massimiano con loro legge (Cod. Justin. l. 9, tit.18, lex 2) e perciò con maggior cautela si esercitava, esolo occultamente. Quindi Firmico Materno che nescrisse un trattato, come già abbiamo osservato, a' tempide' figliuoli di Costantino, prega istantemente Lolliano,a cui dedica i suoi libri, che non gli comunichi se non apoche e a ben fidate persone (praef. l. 7). Costanzo duealtre leggi pubblicò contro gli astrologi, la prima l'an.357, la seconda l'anno seguente, colle quali sotto pena dimorte vieta l'usare di arte così malvagia e il consultarnei maestri (ib. l. 5, 7). Nondimeno questa genìa d'impo-stori non potè così sradicarsi, che ancora non vi rima-nessero alcuni che o per semplicità, o per malizia neusassero come è manifesto dall'Opere de' Santi Padri diquesti e de' seguenti secoli. Ma noi lasceremo in avveni-re di favellarne, poichè la religion cristiana condannan-done espressamente le leggi non meno che l'uso, feceche per lo più di essa non si occupassero che uominiscellerati e vili; indegni perciò di aver luogo nella Storiadella Letteratura.

VI. A questo luogo per ultimo, come altre

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Palladioscrittored'agricoltura.

biam detto quanto ci è giunto a notizia degli studj astro-nomici e matematici di questi tempi. Macrobio e Mar-ziano Capella, de' quali già si è favellato mostran diaverne qualche tintura, ma assai superficiale e leggera, eavvolta tra molti errori, e tra quelli ancora dell'astrologiagiudiciaria. Questa era già stata dannata da Diocleziano,e da Massimiano con loro legge (Cod. Justin. l. 9, tit.18, lex 2) e perciò con maggior cautela si esercitava, esolo occultamente. Quindi Firmico Materno che nescrisse un trattato, come già abbiamo osservato, a' tempide' figliuoli di Costantino, prega istantemente Lolliano,a cui dedica i suoi libri, che non gli comunichi se non apoche e a ben fidate persone (praef. l. 7). Costanzo duealtre leggi pubblicò contro gli astrologi, la prima l'an.357, la seconda l'anno seguente, colle quali sotto pena dimorte vieta l'usare di arte così malvagia e il consultarnei maestri (ib. l. 5, 7). Nondimeno questa genìa d'impo-stori non potè così sradicarsi, che ancora non vi rima-nessero alcuni che o per semplicità, o per malizia neusassero come è manifesto dall'Opere de' Santi Padri diquesti e de' seguenti secoli. Ma noi lasceremo in avveni-re di favellarne, poichè la religion cristiana condannan-done espressamente le leggi non meno che l'uso, feceche per lo più di essa non si occupassero che uominiscellerati e vili; indegni perciò di aver luogo nella Storiadella Letteratura.

VI. A questo luogo per ultimo, come altre

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Palladioscrittored'agricoltura.

volte abbiam fatto, rammenteremo uno scrittore d'agri-coltura, cioè Palladio, di cui 14 libri abbiamo su tale ar-gomento, e l'ultimo di essi in versi elegiaci. Alcuni, e traessi i Maurini autori della Storia letteraria di Francia,credono (t. 2, p. 297) ch'ei sia quel Palladio medesimofigliuolo di Esuperanzio prefetto delle Gallie, e nativo diPoitiers, di cui parla Rutilio che gli era parente, nel suoItinerario. Egli dice (Itin. v. 211, ec.) che Palladio eravenuto a Roma per attendere agli studj legali, e ne parlacome di giovane a lui carissimo, e che dava non ordina-rie speranza di se medesimo. La ragione che rende pro-babile a questi autori, lui e non altri essere lo scrittored'agricoltura, si è l'osservare che in qualche codice diquest'opera egli è chiamato Palladio Rutilio Tauro Emi-liano, e perciò alla identità del nome di Palladio, chenon sarebbe sufficiente argomento a provare lui essereappunto il Palladio rammentato da Rutilio, aggiugnesiancora il nome di Rutilio, ch'è un contrassegno della pa-rentela ch'egli avea col detto poeta, e forse ancora, comealcuni sospettano, dell'adozione ch'esso ne avea fatta. Ame non pare che sia questo argomento di molta forza,ma non vi ha neppure ragione alcuna che gli si possaopporre. Certo è che lo stil di Palladio, comunque nonsia del tutto barbaro e rozzo, sembra nondimeno di que-sti tempi e almeno deesi necessariamente affermare ch'eivisse dopo Apuleio, di cui veggiamo ch'ei fa talvoltamenzione.

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volte abbiam fatto, rammenteremo uno scrittore d'agri-coltura, cioè Palladio, di cui 14 libri abbiamo su tale ar-gomento, e l'ultimo di essi in versi elegiaci. Alcuni, e traessi i Maurini autori della Storia letteraria di Francia,credono (t. 2, p. 297) ch'ei sia quel Palladio medesimofigliuolo di Esuperanzio prefetto delle Gallie, e nativo diPoitiers, di cui parla Rutilio che gli era parente, nel suoItinerario. Egli dice (Itin. v. 211, ec.) che Palladio eravenuto a Roma per attendere agli studj legali, e ne parlacome di giovane a lui carissimo, e che dava non ordina-rie speranza di se medesimo. La ragione che rende pro-babile a questi autori, lui e non altri essere lo scrittored'agricoltura, si è l'osservare che in qualche codice diquest'opera egli è chiamato Palladio Rutilio Tauro Emi-liano, e perciò alla identità del nome di Palladio, chenon sarebbe sufficiente argomento a provare lui essereappunto il Palladio rammentato da Rutilio, aggiugnesiancora il nome di Rutilio, ch'è un contrassegno della pa-rentela ch'egli avea col detto poeta, e forse ancora, comealcuni sospettano, dell'adozione ch'esso ne avea fatta. Ame non pare che sia questo argomento di molta forza,ma non vi ha neppure ragione alcuna che gli si possaopporre. Certo è che lo stil di Palladio, comunque nonsia del tutto barbaro e rozzo, sembra nondimeno di que-sti tempi e almeno deesi necessariamente affermare ch'eivisse dopo Apuleio, di cui veggiamo ch'ei fa talvoltamenzione.

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CAPO VII.Medicina.

I. Fra le scienze, del cui progresso fu-rono singolarmente solleciti gl'impe-radori cristiani, deesi annoverare lamedicina, a cui essi assai più saggia-mente provvidero che gl'imperadori

gentili de' secoli trapassati. Io non trovo che in addietrostabilito fosse per legge che niuno potesse esercitare lamedicina, se prima non dava pruove del suo sapere; anziabbiam udito Plinio il vecchio di ciò appunto dolersi,che a chiunque vantavasi di esser medico, si aveva fedesenz'altro. Valentiniano I promulgò intorno a questopunto alcune utilissime leggi l'anno 368, che veggonsine' Codici di Teodosio e di Giustiniano (Cod. theod. l.13, tit. 3, lex 8; Cod. iustin. l. 10, tit. 52, lex 9. 10). Inesse egli comanda che in ciascheduno de' 14 rioni diRoma vi abbia un medico che dal pubblico sia mantenu-to a servigio de' poveri; che quando un di essi venga amancare, sette almeno degli altri facciano diligente esa-me di chi gli debba essere sostituito; e a questa legge al-lude Simmaco in una sua lettera a Teodosio (l. 10, ep.40), in cui gli espone ciò che tutto il collegio de' mediciavea deciso in una controversia insorta per l'elezione diun nuovo medico; ordina inoltre che questi medici ricor-devoli dello stipendio loro assegnato, amino meglio di

339

Leggi degl'impera-dori cristiani in fa-vor della medicina.

CAPO VII.Medicina.

I. Fra le scienze, del cui progresso fu-rono singolarmente solleciti gl'impe-radori cristiani, deesi annoverare lamedicina, a cui essi assai più saggia-mente provvidero che gl'imperadori

gentili de' secoli trapassati. Io non trovo che in addietrostabilito fosse per legge che niuno potesse esercitare lamedicina, se prima non dava pruove del suo sapere; anziabbiam udito Plinio il vecchio di ciò appunto dolersi,che a chiunque vantavasi di esser medico, si aveva fedesenz'altro. Valentiniano I promulgò intorno a questopunto alcune utilissime leggi l'anno 368, che veggonsine' Codici di Teodosio e di Giustiniano (Cod. theod. l.13, tit. 3, lex 8; Cod. iustin. l. 10, tit. 52, lex 9. 10). Inesse egli comanda che in ciascheduno de' 14 rioni diRoma vi abbia un medico che dal pubblico sia mantenu-to a servigio de' poveri; che quando un di essi venga amancare, sette almeno degli altri facciano diligente esa-me di chi gli debba essere sostituito; e a questa legge al-lude Simmaco in una sua lettera a Teodosio (l. 10, ep.40), in cui gli espone ciò che tutto il collegio de' mediciavea deciso in una controversia insorta per l'elezione diun nuovo medico; ordina inoltre che questi medici ricor-devoli dello stipendio loro assegnato, amino meglio di

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Leggi degl'impera-dori cristiani in fa-vor della medicina.

servire a' più poveri, che di assistere, per vergognosa in-gordigia a' più ricchi; che finalmente essi possan riceve-re dagl'infermi ciò che questi essendo sani avran loro of-ferto, ma non ciò che nel pericolo della lor malattiaavranno loro promesso. Leggi degne veramente di uncristiano e prudentissimo imperadore. Inoltre moltidegl'imperadori medesimi confermarono loro que' privi-legi di esenzioni e di onori, che da' precedenti sovranierano stati lor conceduti (Cod. theod. ib. lex 10; Cod ju-stin. ib. lex 6, 9; Juliani Op. p. 398). Ma tutte le leggi etutti gli amplissimi privilegi non bastarono a formare inRoma un medico di cui rimanesse a' posteri illustrefama; che i privilegi e le leggi non sono abbastanza effi-caci a risvegliare l'amor delle scienze quand'esso già dalungo tempo si è estinto, e la condizione infelice de'tempi non permette sì facilmente di ravvivarlo.

II. Nè solo non troviam tra' Romani alcuncelebre medico, ma nemmeno tra gli stra-nieri, che di questi tempi furon famosi inquest'arte, non ne veggiamo alcuno fissarein Roma la sua dimora. Oribasio nativo di

Pergamo in Asia fu caro assai all'imp. Giuliano, e fu for-se il medico che avesse a quest'epoca maggior nome;ma non vi è argomento a provare ch'egli soggiornassemai in Italia. Anche tra quelli che scrissero latinamentedi medicina, non vi ha forse alcuno che si possa crederevivuto in Italia. Marcello soprannomato l'empirico nati-

340

Pochi non-dimeno fu-rono mediciillustri.

servire a' più poveri, che di assistere, per vergognosa in-gordigia a' più ricchi; che finalmente essi possan riceve-re dagl'infermi ciò che questi essendo sani avran loro of-ferto, ma non ciò che nel pericolo della lor malattiaavranno loro promesso. Leggi degne veramente di uncristiano e prudentissimo imperadore. Inoltre moltidegl'imperadori medesimi confermarono loro que' privi-legi di esenzioni e di onori, che da' precedenti sovranierano stati lor conceduti (Cod. theod. ib. lex 10; Cod ju-stin. ib. lex 6, 9; Juliani Op. p. 398). Ma tutte le leggi etutti gli amplissimi privilegi non bastarono a formare inRoma un medico di cui rimanesse a' posteri illustrefama; che i privilegi e le leggi non sono abbastanza effi-caci a risvegliare l'amor delle scienze quand'esso già dalungo tempo si è estinto, e la condizione infelice de'tempi non permette sì facilmente di ravvivarlo.

II. Nè solo non troviam tra' Romani alcuncelebre medico, ma nemmeno tra gli stra-nieri, che di questi tempi furon famosi inquest'arte, non ne veggiamo alcuno fissarein Roma la sua dimora. Oribasio nativo di

Pergamo in Asia fu caro assai all'imp. Giuliano, e fu for-se il medico che avesse a quest'epoca maggior nome;ma non vi è argomento a provare ch'egli soggiornassemai in Italia. Anche tra quelli che scrissero latinamentedi medicina, non vi ha forse alcuno che si possa crederevivuto in Italia. Marcello soprannomato l'empirico nati-

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Pochi non-dimeno fu-rono mediciillustri.

vo di Bourdeaux nelle Gallie visse in Oriente alla cortedi Teodosio il grande, di Arcadio e di Teodosio il giova-ne. Prima di lui fiorì Vindiciano medico di ValentinianoI. Ma egli era africano, e vivea in Africa, come racco-gliesi singolarmente da s. Agostino che ne dice gran lodi(Confess. l. 4, c. 3; l. 7, c. 6). Africano ancora fu proba-bilmente Teodoro Prisciano, poichè confessa di averavuto il suddetto Vindiciano a suo maestro. De' quali edi alcuni altri medici di questi tempi, e de' loro libri, ol-tre la Storia della Medicina di Daniello le Clerc (part. 2.l. 4, sect. 1, c. 23), veggasi il Fabricio (Bibl. lat. l. 4, c.12). S. Girolamo fa menzione di un certo Flavio che a'suoi tempi avea in versi latini scritti alcuni libri di medi-cina, ma non dice onde egli fosse natìo, e dove vivesse(l. contra Jovinian.)

III. I soli medici de' quali ci sia rimasta no-tizia che vivessero in Roma, sono alcunirammentati da Simmaco. Tra essi ei fa gran-di elogi di Disario, dicendo (l. 3, ep. 39)

ch'egli aveva a ragione il primo luogo tra tutti i medici.Era nato d'Aquitania, come dallo stesso Simmaco si rac-coglie il quale racconta (l. 9, ep. 43) quanto spiacevolefosse a tutti la risoluzion da lui presa di tornarsene allasua patria. Di Disario fa menzione onorevole anche Ma-crobio che lo introduce tra gl'interlocutori de' suoi Dia-logi, di cui dice con una smoderata, ma a questi tempinon insolita adulazione, che sapeva al pari della natura

341

Se ne anno-verano al-cuni.

vo di Bourdeaux nelle Gallie visse in Oriente alla cortedi Teodosio il grande, di Arcadio e di Teodosio il giova-ne. Prima di lui fiorì Vindiciano medico di ValentinianoI. Ma egli era africano, e vivea in Africa, come racco-gliesi singolarmente da s. Agostino che ne dice gran lodi(Confess. l. 4, c. 3; l. 7, c. 6). Africano ancora fu proba-bilmente Teodoro Prisciano, poichè confessa di averavuto il suddetto Vindiciano a suo maestro. De' quali edi alcuni altri medici di questi tempi, e de' loro libri, ol-tre la Storia della Medicina di Daniello le Clerc (part. 2.l. 4, sect. 1, c. 23), veggasi il Fabricio (Bibl. lat. l. 4, c.12). S. Girolamo fa menzione di un certo Flavio che a'suoi tempi avea in versi latini scritti alcuni libri di medi-cina, ma non dice onde egli fosse natìo, e dove vivesse(l. contra Jovinian.)

III. I soli medici de' quali ci sia rimasta no-tizia che vivessero in Roma, sono alcunirammentati da Simmaco. Tra essi ei fa gran-di elogi di Disario, dicendo (l. 3, ep. 39)

ch'egli aveva a ragione il primo luogo tra tutti i medici.Era nato d'Aquitania, come dallo stesso Simmaco si rac-coglie il quale racconta (l. 9, ep. 43) quanto spiacevolefosse a tutti la risoluzion da lui presa di tornarsene allasua patria. Di Disario fa menzione onorevole anche Ma-crobio che lo introduce tra gl'interlocutori de' suoi Dia-logi, di cui dice con una smoderata, ma a questi tempinon insolita adulazione, che sapeva al pari della natura

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Se ne anno-verano al-cuni.

medesima creatrice ciò che a' corpi umani meglio siconvenisse (l. 7 Saturn. c. 4). Simmaco rammenta anco-ra Eusebio valorosissimo tra' medici (l. 2, ep. 18), e Dio-nigi a cui egli scrive (l. 9, ep. 4) raccomandandogli alcu-ni giovani che da lui apprender doveano la medicina; edEpitteto finalmente e Giovanni da lui nominati nella so-praccennata lettera a Teodosio. Ma di niun di questi sap-piamo che cosa alcuna scrivesse appartenente alla suascienza. E generalmente parlando, ci convien confessareche niun medico ebbe a questi tempi Roma e l'Italia, dicui rimanesse a' posteri qualche onorevole monumento.

CAPO VIII.Giurisprudenza.

I. La giurisprudenza fu per avventura l'uni-co studio per cui Roma si mantenesse perqualche tempo anche in quest'epoca inquella fama medesima di cui goduto aveaper l'addietro. E io penso che gli stranieri, iquali abbiam pure veduto accorrervi in

gran numero per coltivarvi gli studj, talchè convenneche Valentiniano I saggiamente provvedesse alla lorocondotta, vi fossero tratti in gran parte dal concetto incui erano i legali studj di Roma. Così dalle Gallie senvenne a Roma Palladio per apprendervi la scienza del

342

Grande con-corso de' giu-reconsulti a Roma, e ori-gine di esso.

medesima creatrice ciò che a' corpi umani meglio siconvenisse (l. 7 Saturn. c. 4). Simmaco rammenta anco-ra Eusebio valorosissimo tra' medici (l. 2, ep. 18), e Dio-nigi a cui egli scrive (l. 9, ep. 4) raccomandandogli alcu-ni giovani che da lui apprender doveano la medicina; edEpitteto finalmente e Giovanni da lui nominati nella so-praccennata lettera a Teodosio. Ma di niun di questi sap-piamo che cosa alcuna scrivesse appartenente alla suascienza. E generalmente parlando, ci convien confessareche niun medico ebbe a questi tempi Roma e l'Italia, dicui rimanesse a' posteri qualche onorevole monumento.

CAPO VIII.Giurisprudenza.

I. La giurisprudenza fu per avventura l'uni-co studio per cui Roma si mantenesse perqualche tempo anche in quest'epoca inquella fama medesima di cui goduto aveaper l'addietro. E io penso che gli stranieri, iquali abbiam pure veduto accorrervi in

gran numero per coltivarvi gli studj, talchè convenneche Valentiniano I saggiamente provvedesse alla lorocondotta, vi fossero tratti in gran parte dal concetto incui erano i legali studj di Roma. Così dalle Gallie senvenne a Roma Palladio per apprendervi la scienza del

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Grande con-corso de' giu-reconsulti a Roma, e ori-gine di esso.

diritto, come afferma Claudio Rutilio Numaziano (Itin.l. 1, v. 208, ec.). Così Sidonio Apollinare scrive a uncerto Eutrovio (l. 1, ep. 6), esortandolo a venir seco aRoma, cui egli chiama domicilium legum, gymnasiumliterarum, curiam dignitatum. Così finalmente di Alipionarra s. Agostino (l. 6 Conf. c. 8), che venuto era peristudiare le leggi dall'Africa a Roma. Vero è nondimenoche a' questo numeroso concorso che a tal fine faceasida ogni parte a Roma, dovette singolarmente contribuireil divieto fatto dagl'imperadori, che altrove non si inse-gnasser le leggi fuorchè in Roma, in Costantinopoli, e inBerito nella Fenicia, pel qual divieto Roma veniva adessere in tutto l'occidentale impero l'unica sede di talestudio. Chi fosse il primo autore di questa legge, nolpossiamo accertare. Ma Giustiniano rinnovando questostesso divieto dichiara insieme che da' suoi predecessoriesso, era stato intimato. Haec autem tria volumina nobiscomposita tradi eis tam in regiis urbibus, quam in Bery-tiensium pulcherrima civitate... tantummodo volumus,quod jam et a retro Principibus constitutum est, et non,in aliis locis (De Juris docendi ratione). Egli è verisimi-le adunque che a' tempi di cui parliamo si facesse questodivieto, e meno perciò è a stupire che da ogni parte ve-nissero a Roma que' che voleano attendere agli studj le-gali.

II. E molto più erano allor necessarjcotali studj, poichè Costantino e gli

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Innovazioni fatte nella giurisprudenzadagl'imperatori cri-stiani.

diritto, come afferma Claudio Rutilio Numaziano (Itin.l. 1, v. 208, ec.). Così Sidonio Apollinare scrive a uncerto Eutrovio (l. 1, ep. 6), esortandolo a venir seco aRoma, cui egli chiama domicilium legum, gymnasiumliterarum, curiam dignitatum. Così finalmente di Alipionarra s. Agostino (l. 6 Conf. c. 8), che venuto era peristudiare le leggi dall'Africa a Roma. Vero è nondimenoche a' questo numeroso concorso che a tal fine faceasida ogni parte a Roma, dovette singolarmente contribuireil divieto fatto dagl'imperadori, che altrove non si inse-gnasser le leggi fuorchè in Roma, in Costantinopoli, e inBerito nella Fenicia, pel qual divieto Roma veniva adessere in tutto l'occidentale impero l'unica sede di talestudio. Chi fosse il primo autore di questa legge, nolpossiamo accertare. Ma Giustiniano rinnovando questostesso divieto dichiara insieme che da' suoi predecessoriesso, era stato intimato. Haec autem tria volumina nobiscomposita tradi eis tam in regiis urbibus, quam in Bery-tiensium pulcherrima civitate... tantummodo volumus,quod jam et a retro Principibus constitutum est, et non,in aliis locis (De Juris docendi ratione). Egli è verisimi-le adunque che a' tempi di cui parliamo si facesse questodivieto, e meno perciò è a stupire che da ogni parte ve-nissero a Roma que' che voleano attendere agli studj le-gali.

II. E molto più erano allor necessarjcotali studj, poichè Costantino e gli

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Innovazioni fatte nella giurisprudenzadagl'imperatori cri-stiani.

altri imperadori cristiani che vennero dopo, molte coseinnovarono nella giurisprudenza, in quella parte singo-larmente che apparteneva al culto sacro e alle sacre per-sone; e molte leggi inoltre da essi si aggiunsero che apromuovere e ad onorare la religion cristiana si credero-no opportune. Le nuove leggi fatte da Costantino a rego-lare i costumi, e a sterminare i vizj e le fallacie delle an-tiche leggi da lui tolte di mezzo si rammentano da Naza-rio nel Panegirico a lui recitato (n. 38), e somigliante è ilsentimento dell'incerto autore dell'altro Panegirico cheabbiamo delle lodi di Costantino (n. 4). Molte di questeleggi si posson vedere qua e là sparse ne' Codici di Teo-dosio e di Giustiniano, e unite insieme dall'Eineccio(Hist. jur. rom. l. 1, c. 5). Ma queste leggi promulgate,da Costantino in favore del cristianesimo destaron so-spetto ne' giureconsulti idolatri, ch'egli pensasse ad abo-lire tutte le leggi degl'imperadori gentili, e perciò alcunitra loro, secondo la congettura del Gotofredo (Proleg.ad Cod. teod. c. 1), pensarono a raccoglierle insieme,perchè più difficile riuscisse il toglierne ogni memoria,nella stessa maniera che abbiamo altrove veduto che Pa-pirio raccolse le leggi che dagli antichi re di Roma eranostate promulgate, per opporsi al disegno di Tarquinio ilsuperbo che tutte volea distruggerle, affine di non cono-scerne altra che il suo capriccio.

III. Questa secondo il parere del Goto-fredo, e dell'Eineccio (l. c.) fu l'origine

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Del Codice gre-goriano e dell'ermogeniano.

altri imperadori cristiani che vennero dopo, molte coseinnovarono nella giurisprudenza, in quella parte singo-larmente che apparteneva al culto sacro e alle sacre per-sone; e molte leggi inoltre da essi si aggiunsero che apromuovere e ad onorare la religion cristiana si credero-no opportune. Le nuove leggi fatte da Costantino a rego-lare i costumi, e a sterminare i vizj e le fallacie delle an-tiche leggi da lui tolte di mezzo si rammentano da Naza-rio nel Panegirico a lui recitato (n. 38), e somigliante è ilsentimento dell'incerto autore dell'altro Panegirico cheabbiamo delle lodi di Costantino (n. 4). Molte di questeleggi si posson vedere qua e là sparse ne' Codici di Teo-dosio e di Giustiniano, e unite insieme dall'Eineccio(Hist. jur. rom. l. 1, c. 5). Ma queste leggi promulgate,da Costantino in favore del cristianesimo destaron so-spetto ne' giureconsulti idolatri, ch'egli pensasse ad abo-lire tutte le leggi degl'imperadori gentili, e perciò alcunitra loro, secondo la congettura del Gotofredo (Proleg.ad Cod. teod. c. 1), pensarono a raccoglierle insieme,perchè più difficile riuscisse il toglierne ogni memoria,nella stessa maniera che abbiamo altrove veduto che Pa-pirio raccolse le leggi che dagli antichi re di Roma eranostate promulgate, per opporsi al disegno di Tarquinio ilsuperbo che tutte volea distruggerle, affine di non cono-scerne altra che il suo capriccio.

III. Questa secondo il parere del Goto-fredo, e dell'Eineccio (l. c.) fu l'origine

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Del Codice gre-goriano e dell'ermogeniano.

dei due Codici, l'uno detto gregoriano, l'altro ermoge-niano, che credonsi di questo tempo, ne' quali si raccol-ser le leggi degli imperadori cominciando da Adrianofino a Costantino. I frammenti di questi Codici sono sta-ti diligentemente raccolti e illustrati da Antonio Schul-tingio (V. Jurispr. vetus... ante Justinian.). De' loro auto-ri non abbiam certa contezza. Solo si congettura che ilprimo Codice fosse opera di Gregorio che fu prefettodel pretorio l'anno 336 (V. Tillem. in Costant. art. 76), ilsecondo di Ermogeniano che a' tempi di Costantinocome prova l'Eineccio (l. c. §. 358), fu celebre giurecon-sulto; e questi occupossi singolarmente nel raccoglier leleggi di Diocleziano, quasi appendice al primo Codicedi Gregorio. Questi due Codici, benchè non fatti perpubblica autorità, ebbero nondimeno forza e valor ne'giudizj, finchè Giustiniano insieme col Codice di Teo-dosio abolì ancora i due Codici mentovati, e volle chenon avessero più uso alcuno nel foro (Constit. de Justin.Cod. confirm.).

IV. Oltre i due autori de' Codici soprad-detti, due altri famosi giureconsulti sem-bra che a questi tempi vivessero, benchè

alcuni gli pongano sotto gl'imperadori idolatri, cioè Au-relio Arcadio Carisio, e Giulio Aquila. Amendue aveanoscritte alcune opere appartenenti al diritto, e qualcheframmento se ne ritrova ancor nei Digesti (V. Hein. l. c.359, 360). Non sappiamo però, se essi fossero italiani, o

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Altri famosi giu-reconsulti.

dei due Codici, l'uno detto gregoriano, l'altro ermoge-niano, che credonsi di questo tempo, ne' quali si raccol-ser le leggi degli imperadori cominciando da Adrianofino a Costantino. I frammenti di questi Codici sono sta-ti diligentemente raccolti e illustrati da Antonio Schul-tingio (V. Jurispr. vetus... ante Justinian.). De' loro auto-ri non abbiam certa contezza. Solo si congettura che ilprimo Codice fosse opera di Gregorio che fu prefettodel pretorio l'anno 336 (V. Tillem. in Costant. art. 76), ilsecondo di Ermogeniano che a' tempi di Costantinocome prova l'Eineccio (l. c. §. 358), fu celebre giurecon-sulto; e questi occupossi singolarmente nel raccoglier leleggi di Diocleziano, quasi appendice al primo Codicedi Gregorio. Questi due Codici, benchè non fatti perpubblica autorità, ebbero nondimeno forza e valor ne'giudizj, finchè Giustiniano insieme col Codice di Teo-dosio abolì ancora i due Codici mentovati, e volle chenon avessero più uso alcuno nel foro (Constit. de Justin.Cod. confirm.).

IV. Oltre i due autori de' Codici soprad-detti, due altri famosi giureconsulti sem-bra che a questi tempi vivessero, benchè

alcuni gli pongano sotto gl'imperadori idolatri, cioè Au-relio Arcadio Carisio, e Giulio Aquila. Amendue aveanoscritte alcune opere appartenenti al diritto, e qualcheframmento se ne ritrova ancor nei Digesti (V. Hein. l. c.359, 360). Non sappiamo però, se essi fossero italiani, o

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Altri famosi giu-reconsulti.

stranieri. E veramente per quanto grande fosse la famadella scuola legale di Roma, sembra che ancor più gran-de fosse quella di Berito; come da varj passi di antichiautori dimostra l'Eineccio (l. c. §. 362, 363).

V. Gl'imperadori che venner dopo fino aTeodosio il giovane, non fecero nellagiurisprudenza innovazione di sorta alcu-na, trattane la pubblicazione di nuoveleggi secondo il bisogno e le circostanze

de' tempi. Anzi, se dobbiam credere a Mamertino pane-girista di Giuliano l'apostata, gli studj legali erano avvi-liti per modo, che dicevansi proprj sol de' liberti (Gra-tiar. actio Jul. n. 20). Possiamo non senza ragion sospet-tare che Mamertino seguisse qui il costume di altri cheper lodare i principi ai quali favellano, abbassano e de-primon le lodi de' loro predecessori. Certo è nondimenoche non troviamo a questi tempi alcun celebre giurecon-sulto di cui ci sia rimasta opera, o frammento di sorte al-cuna. Ausonio fa menzione di un cotal Vittorio (Profess.Burdig. 22) che dopo aver tenuta per qualche temposcuola di gramatica in Bourdeaux morì in Roma, ove,dice, egli era passato dalla Sicilia; colle quali parolesembra accennare ch'egli era di nascita siciliano. Auso-nio ne loda l'infaticabile studio della giurisprudenza manon sappiamo ch'egli o la insegnasse nelle cattedre, o laesercitasse nel foro, o ne lasciasse alcun monumento.Nè solo in Roma, ma ancora in Oriente era la giurispru-

346

La disordinatamoltitudine del-le leggi fa deca-dere la giuri-sprudenza.

stranieri. E veramente per quanto grande fosse la famadella scuola legale di Roma, sembra che ancor più gran-de fosse quella di Berito; come da varj passi di antichiautori dimostra l'Eineccio (l. c. §. 362, 363).

V. Gl'imperadori che venner dopo fino aTeodosio il giovane, non fecero nellagiurisprudenza innovazione di sorta alcu-na, trattane la pubblicazione di nuoveleggi secondo il bisogno e le circostanze

de' tempi. Anzi, se dobbiam credere a Mamertino pane-girista di Giuliano l'apostata, gli studj legali erano avvi-liti per modo, che dicevansi proprj sol de' liberti (Gra-tiar. actio Jul. n. 20). Possiamo non senza ragion sospet-tare che Mamertino seguisse qui il costume di altri cheper lodare i principi ai quali favellano, abbassano e de-primon le lodi de' loro predecessori. Certo è nondimenoche non troviamo a questi tempi alcun celebre giurecon-sulto di cui ci sia rimasta opera, o frammento di sorte al-cuna. Ausonio fa menzione di un cotal Vittorio (Profess.Burdig. 22) che dopo aver tenuta per qualche temposcuola di gramatica in Bourdeaux morì in Roma, ove,dice, egli era passato dalla Sicilia; colle quali parolesembra accennare ch'egli era di nascita siciliano. Auso-nio ne loda l'infaticabile studio della giurisprudenza manon sappiamo ch'egli o la insegnasse nelle cattedre, o laesercitasse nel foro, o ne lasciasse alcun monumento.Nè solo in Roma, ma ancora in Oriente era la giurispru-

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La disordinatamoltitudine del-le leggi fa deca-dere la giuri-sprudenza.

denza infelicemente avvilita, ed ella era anzi un'arte ri-volta ad arricchirsi con frode, che a porger soccorso aglialtri, come veggiamo dalla eloquente e patetica descri-zione che de' vizj de' giureconsulti orientali ci ha lascia-ta Ammian Marcellino (l. 30, c. 4). Di questo abbando-no in cui giaceasi un sì nobile studio, dovea essere ingran parte cagione l'immensa e disordinata moltitudin dileggi che venivano ogni giorno più moltiplicandosi pertal maniera, che Eunapio scherzevolmente chiamò leleggi carico di molti cammelli (in Vita Ædesii). Quindiessendo il loro studio di una intollerabil fatica appenaeravi uomo di onesta condizione, che avesse animod'intraprenderlo, ed esso rimanea tra le mani d'uominivili e famelici che non volgendosi alla giurisprudenza senon per sordido interesse, cercavan di essere astuti rag-giratori anzichè dotti giureconsulti.

VI. Questo disordine in cui eran le leggi, in-dusse Teodosio il giovane a formare il Codi-ce che perciò dicesi teodosiano, che fu pub-

blicato l'an. 438, in cui, scelte le più necessarie e le piùutili leggi pubblicate dagl'imperadori, furon ridotte e aminor numero e ad ordin migliore. Questa fu tutta operade' giureconsulti ch'erano alla corte di Costantinopoli; ea me perciò non appartiene il parlarne più lungamente. Idotti prolegomeni di Jacopo Gotofredo che ha illustratocon somma erudizione il Codice teodosiano, potrannodare a chi le brami ampie e belle notizie su questo argo-

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Del Codiceteodosiano.

denza infelicemente avvilita, ed ella era anzi un'arte ri-volta ad arricchirsi con frode, che a porger soccorso aglialtri, come veggiamo dalla eloquente e patetica descri-zione che de' vizj de' giureconsulti orientali ci ha lascia-ta Ammian Marcellino (l. 30, c. 4). Di questo abbando-no in cui giaceasi un sì nobile studio, dovea essere ingran parte cagione l'immensa e disordinata moltitudin dileggi che venivano ogni giorno più moltiplicandosi pertal maniera, che Eunapio scherzevolmente chiamò leleggi carico di molti cammelli (in Vita Ædesii). Quindiessendo il loro studio di una intollerabil fatica appenaeravi uomo di onesta condizione, che avesse animod'intraprenderlo, ed esso rimanea tra le mani d'uominivili e famelici che non volgendosi alla giurisprudenza senon per sordido interesse, cercavan di essere astuti rag-giratori anzichè dotti giureconsulti.

VI. Questo disordine in cui eran le leggi, in-dusse Teodosio il giovane a formare il Codi-ce che perciò dicesi teodosiano, che fu pub-

blicato l'an. 438, in cui, scelte le più necessarie e le piùutili leggi pubblicate dagl'imperadori, furon ridotte e aminor numero e ad ordin migliore. Questa fu tutta operade' giureconsulti ch'erano alla corte di Costantinopoli; ea me perciò non appartiene il parlarne più lungamente. Idotti prolegomeni di Jacopo Gotofredo che ha illustratocon somma erudizione il Codice teodosiano, potrannodare a chi le brami ampie e belle notizie su questo argo-

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Del Codiceteodosiano.

mento. Io debbo qui aggiugnere solamente che questoCodice ebbe forza anche nell'impero di Occidente finoalla pubblicazione di quello di Giustiniano, come conmolti argomenti dimostra il sopraccitato Gotofredo(proleg. ad Cod. theod. c. 3). Ad esso poi si aggiunserole Novelle, cioè le leggi che dopo la pubblicazione delCodice di Teodosio dallo stesso imperadore e da altriche vennero dopo, fino a Giustiniano, furono pubblicatecosì nell'orientale come nell'occidentale impero. Essevanno aggiunte allo stesso Codice teodosiano. Alcunealtre Novelle di Teodosio e di Valentiniano III sono statepubblicate in Faenza l'anno 1766 dal sig. dottor AntoninZirardini giurec. di Ravenna, che vi ha aggiunte eruditeannotazioni. L'anno seguente furono le medesime pub-blicate con altre erudite note in Roma dal sig. ab. Gio.Cristofano Amaduzzi prof. di lingua greca nella Sapien-za di Roma. Delle contese nate per questa doppia edi-zione tra' due editori, e degli estratti e de' libri perciòusciti da una parte e dall'altra, io lascerò che parli chi silusinga di poterlo fare in maniera da accordare insieme idue contrarj partiti.

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mento. Io debbo qui aggiugnere solamente che questoCodice ebbe forza anche nell'impero di Occidente finoalla pubblicazione di quello di Giustiniano, come conmolti argomenti dimostra il sopraccitato Gotofredo(proleg. ad Cod. theod. c. 3). Ad esso poi si aggiunserole Novelle, cioè le leggi che dopo la pubblicazione delCodice di Teodosio dallo stesso imperadore e da altriche vennero dopo, fino a Giustiniano, furono pubblicatecosì nell'orientale come nell'occidentale impero. Essevanno aggiunte allo stesso Codice teodosiano. Alcunealtre Novelle di Teodosio e di Valentiniano III sono statepubblicate in Faenza l'anno 1766 dal sig. dottor AntoninZirardini giurec. di Ravenna, che vi ha aggiunte eruditeannotazioni. L'anno seguente furono le medesime pub-blicate con altre erudite note in Roma dal sig. ab. Gio.Cristofano Amaduzzi prof. di lingua greca nella Sapien-za di Roma. Delle contese nate per questa doppia edi-zione tra' due editori, e degli estratti e de' libri perciòusciti da una parte e dall'altra, io lascerò che parli chi silusinga di poterlo fare in maniera da accordare insieme idue contrarj partiti.

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CAPO IX.Biblioteche.

I. Il deplorabile stato in cui erano comune-mente gli studj in Italia a' tempi di cui par-liamo ci persuaderebbe assai facilmente chescarso vi fosse stato il numero delle biblio-teche e de' libri. E nondimeno, se noi cre-

diamo alla descrizione di Roma pubblicata dal Panciroli,e poscia dal Muratori, e che credesi fatta a' tempi o diOnorio, o di Valentiniano III (V. Murat. Thes. Inscr. t. 4,p. 2135), erano in Roma ventinove biblioteche: Biblio-tecae XXIX. Ex his praecipuae duae palatina et ulpia(ib. p. 2132), e lo stesso affermasi nell'altra alquanto piùantica di Publio Vittore. Io confesso che non so indurmia pensare che ve ne avesse di questi tempi in Roma unnumero così grande. Dopo Adriano non veggo che alcunimperadore pensasse ad aprire alcuna biblioteca e al piùpotrebbesi credere che Gordiano rendesse pubblicaquella che da Sereno Samonico avea ricevuta in dono.Che vi fosser privati verso il pubblico così liberali, che acomun vantaggio le aprissero, non ne abbiamo alcuncenno negli antichi scrittori; e l'infelice condizion de'tempi non ci permette di crederlo così di leggeri. Comedunque in Roma sì gran numero di pubbliche bibliote-che? giacchè delle pubbliche ivi certamente ragionasi,non delle private. Non potrebbesi per avventura temeredi qualche errore ne' codici? Comunque sia veggiamo

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Se Roma avesse a questo tem-po molte biblioteche.

CAPO IX.Biblioteche.

I. Il deplorabile stato in cui erano comune-mente gli studj in Italia a' tempi di cui par-liamo ci persuaderebbe assai facilmente chescarso vi fosse stato il numero delle biblio-teche e de' libri. E nondimeno, se noi cre-

diamo alla descrizione di Roma pubblicata dal Panciroli,e poscia dal Muratori, e che credesi fatta a' tempi o diOnorio, o di Valentiniano III (V. Murat. Thes. Inscr. t. 4,p. 2135), erano in Roma ventinove biblioteche: Biblio-tecae XXIX. Ex his praecipuae duae palatina et ulpia(ib. p. 2132), e lo stesso affermasi nell'altra alquanto piùantica di Publio Vittore. Io confesso che non so indurmia pensare che ve ne avesse di questi tempi in Roma unnumero così grande. Dopo Adriano non veggo che alcunimperadore pensasse ad aprire alcuna biblioteca e al piùpotrebbesi credere che Gordiano rendesse pubblicaquella che da Sereno Samonico avea ricevuta in dono.Che vi fosser privati verso il pubblico così liberali, che acomun vantaggio le aprissero, non ne abbiamo alcuncenno negli antichi scrittori; e l'infelice condizion de'tempi non ci permette di crederlo così di leggeri. Comedunque in Roma sì gran numero di pubbliche bibliote-che? giacchè delle pubbliche ivi certamente ragionasi,non delle private. Non potrebbesi per avventura temeredi qualche errore ne' codici? Comunque sia veggiamo

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Se Roma avesse a questo tem-po molte biblioteche.

che le più celebri tra esse erano la palatina e la ulpia,quella aperta da Augusto, questa da Traiano di cui porta-va il nome. Ma i disastri, i saccheggiamenti, gl'incendj acui fu Roma soggetta dopo la morte di Teodosio, dovet-tero esser fatali alle biblioteche romane, come da ciòche vedremo nell'epoche susseguenti sarà manifesto.

II. A questo tempo ancora appartiene l'usopiù ampiamente introdotto delle bibliote-che ecclesiastiche ad uso singolarmentedegli studj sacri. Sembra che il primo au-

tore ed esecutore di un tal pensiero fosse s. Alessandrovescovo di Gerusalemme verso la metà del III sec. (Eu-seb. Hist. eccl. l. 6. c. 20), della biblioteca del quale diceEusebio di essersi giovato assai nel compilar la sua Sto-ria. Finchè però la Chiesa non ebbe una stabile pace, do-vette riuscir difficile il formare biblioteche di tal natura.Ma poichè le persecuzioni ebbero fine, abbiamo argo-menti a credere che come altrove, così in Italia ancora,ciò fosse in uso. Le Opere di s. Ambrogio, di s. Fila-strio, e di altri scrittori sacri italiani di questo tempo nonpotevan certamente comporsi senza l'aiuto di molti libri.Quindi ciò che di s. Ambrogio conghiettura con assaiforti ragioni il ch. dott. Sassi (De studiis mediol. c. 2),adducendo il sentimento ancora di altri scrittori, cioèch'egli avesse nella sua chiesa una copiosa biblioteca,deesi credere ugualmente degli altri vescovi ancora edelle altre chiese, o almeno di quelle che tra le altre era-

350

Origine dellebibliotecheecclesiastiche.

che le più celebri tra esse erano la palatina e la ulpia,quella aperta da Augusto, questa da Traiano di cui porta-va il nome. Ma i disastri, i saccheggiamenti, gl'incendj acui fu Roma soggetta dopo la morte di Teodosio, dovet-tero esser fatali alle biblioteche romane, come da ciòche vedremo nell'epoche susseguenti sarà manifesto.

II. A questo tempo ancora appartiene l'usopiù ampiamente introdotto delle bibliote-che ecclesiastiche ad uso singolarmentedegli studj sacri. Sembra che il primo au-

tore ed esecutore di un tal pensiero fosse s. Alessandrovescovo di Gerusalemme verso la metà del III sec. (Eu-seb. Hist. eccl. l. 6. c. 20), della biblioteca del quale diceEusebio di essersi giovato assai nel compilar la sua Sto-ria. Finchè però la Chiesa non ebbe una stabile pace, do-vette riuscir difficile il formare biblioteche di tal natura.Ma poichè le persecuzioni ebbero fine, abbiamo argo-menti a credere che come altrove, così in Italia ancora,ciò fosse in uso. Le Opere di s. Ambrogio, di s. Fila-strio, e di altri scrittori sacri italiani di questo tempo nonpotevan certamente comporsi senza l'aiuto di molti libri.Quindi ciò che di s. Ambrogio conghiettura con assaiforti ragioni il ch. dott. Sassi (De studiis mediol. c. 2),adducendo il sentimento ancora di altri scrittori, cioèch'egli avesse nella sua chiesa una copiosa biblioteca,deesi credere ugualmente degli altri vescovi ancora edelle altre chiese, o almeno di quelle che tra le altre era-

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Origine dellebibliotecheecclesiastiche.

no per autorità e per fama più ragguardevoli. E comeleggiamo di s. Agostino (Posid. in Vita c. 31) che vicinoa morte raccomandò singolarmente a' suoi successori lacura della biblioteca e di tutti i codici della sua chiesad'Ippona, così non è a dubitare che uguale non fosse lasollecitudine degli altri vescovi intorno alle bibliotechedella chiese lor proprie. Ma di ciò già si è accennataqualche cosa nel primo capo di questo libro.

III. La chiesa romana dovette in ciò anco-ra precedere coll'esempio alle altre. Noi adir vero non troviam memoria di bibliote-ca sacra in Roma prima de' tempi d'Ilario

che fu eletto pontefice l'an. 461, perciocchè di lui narraAnastasio bibliotecario (in ejus Vita), che due bibliote-che ei pose nella basilica di Laterano. Ma parmi proba-bile che non aspettassero fin a quel tempo i romani pon-tefici a procurare alla lor chiesa questo vantaggio; moltopiù che alcuni ve n'ebbe tra essi, come s. Damaso e s.Leone, che per letteratura non meno che per santità sirenderono illustri.

IV. Per ciò che appartiene alle private bi-blioteche, come non furon molti coloroche in questi tempi attendessero agli studj,

così pochi ancora dovettero esser solleciti di raccoglierelibri. E nondimeno egli è verisimile che tutti gli uomini

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Origine dellebiblioteche ec-clesiastiche.

Bibliotecheprivate.

no per autorità e per fama più ragguardevoli. E comeleggiamo di s. Agostino (Posid. in Vita c. 31) che vicinoa morte raccomandò singolarmente a' suoi successori lacura della biblioteca e di tutti i codici della sua chiesad'Ippona, così non è a dubitare che uguale non fosse lasollecitudine degli altri vescovi intorno alle bibliotechedella chiese lor proprie. Ma di ciò già si è accennataqualche cosa nel primo capo di questo libro.

III. La chiesa romana dovette in ciò anco-ra precedere coll'esempio alle altre. Noi adir vero non troviam memoria di bibliote-ca sacra in Roma prima de' tempi d'Ilario

che fu eletto pontefice l'an. 461, perciocchè di lui narraAnastasio bibliotecario (in ejus Vita), che due bibliote-che ei pose nella basilica di Laterano. Ma parmi proba-bile che non aspettassero fin a quel tempo i romani pon-tefici a procurare alla lor chiesa questo vantaggio; moltopiù che alcuni ve n'ebbe tra essi, come s. Damaso e s.Leone, che per letteratura non meno che per santità sirenderono illustri.

IV. Per ciò che appartiene alle private bi-blioteche, come non furon molti coloroche in questi tempi attendessero agli studj,

così pochi ancora dovettero esser solleciti di raccoglierelibri. E nondimeno egli è verisimile che tutti gli uomini

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Origine dellebiblioteche ec-clesiastiche.

Bibliotecheprivate.

dotti anche a questa età avessero la loro propria bibliote-ca. Simmaco avea certamente la sua, di cui egli stesso ciha lasciata memoria nelle sue Lettere (l. 8, ep. 12). Anzia questi tempi ancora aveano alcuni il costume di radu-nar gran copia di libri, lusingandosi che ciò bastasse adivenire, o almeno ad esser creduti uomini dotti. Quindischerza leggiadramente Ausonio su un cotal Filomusogramatico che per aver comprati gran libri credevasi ungran baccalare. Emptis quod libris tibi bibliotheca referta est, Doctum et gramaticum te, Philomuse, putas? Hoc genere et chordas, et plectra, et barbita conde: Omnia mercatus, eras citharaedas eris (epig. 44).

Ma queste private biblioteche ancora dovettero sofferiregran danno nelle invasioni de' Barbari, e nei frequentiincendj che dal loro furore si accesero. In fatti vedremone' secoli susseguenti quanto grande fosse la scarsezzade' libri, e come perite fossero fin d'allora molte dellepiù pregevoli opere degli antichi scrittori, della cui per-dita non potrem mai consolarci abbastanza.

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dotti anche a questa età avessero la loro propria bibliote-ca. Simmaco avea certamente la sua, di cui egli stesso ciha lasciata memoria nelle sue Lettere (l. 8, ep. 12). Anzia questi tempi ancora aveano alcuni il costume di radu-nar gran copia di libri, lusingandosi che ciò bastasse adivenire, o almeno ad esser creduti uomini dotti. Quindischerza leggiadramente Ausonio su un cotal Filomusogramatico che per aver comprati gran libri credevasi ungran baccalare. Emptis quod libris tibi bibliotheca referta est, Doctum et gramaticum te, Philomuse, putas? Hoc genere et chordas, et plectra, et barbita conde: Omnia mercatus, eras citharaedas eris (epig. 44).

Ma queste private biblioteche ancora dovettero sofferiregran danno nelle invasioni de' Barbari, e nei frequentiincendj che dal loro furore si accesero. In fatti vedremone' secoli susseguenti quanto grande fosse la scarsezzade' libri, e come perite fossero fin d'allora molte dellepiù pregevoli opere degli antichi scrittori, della cui per-dita non potrem mai consolarci abbastanza.

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CAPO X. Arti liberali.

I. Come nell'epoche precedenti le arti eranvenute decadendo insiem colle scienze, cosìin questa, di cui ora parliamo, le une e le al-tre si accostarono ad ugual passo versol'estrema loro rovina. Io penso nondimenoche l'eruditissimo Winckelmann abbia esa-gerato di troppo, quando ha scritto (Hist. de

l'Art, t. 2, p. 335) che dopo i tempi di Costantino nontrovasi quasi più alcun vestigio dell'arte (24). Egli ne recaper pruova alcuni monumenti antichi che da mano piùmoderna si veggono contraffatti per rivolgerli ad altrouso: indizio chiarissimo, dic'egli, che essendosi ormai

24 Il sig. ab. Fea mi riprende (Winck. Storia dell'Arti t. 2, pag. 415 ed. Rom.)perchè senza ragione ho accusato di esagerazione il Winckelmann. Che èciò ch'io attribuisco al Winckelmann? e in che cosa dico io ch'egli ha esa-gerato? Quando ha scritto che dopo i tempi di Costantino non trovasi qua-si alcun vestigio dell'arte. Che è ciò che dice il Winckelmann anche secon-do la traduzione dell'ab. Fea? Non si trova che di rado fatta menzionedell'arte dopo i tempi di Costantino. Or che questa proposizione sia esage-rata parmi d'aver mostrato, e se il Winckelmann reca i fatti medesimi chesi recan da me per provare l'esagerazione, ciò mostrerà che il Winckel-mann contradice a se stesso. Egli è vero ch'io non sono stato abbastanzaesatto, dove attribuisco al Winckelmann ciò che segue: indicio chiarissi-mo, dic'egli, ec. giacchè queste precise parole realmente nel Winkelmannnon si trovano; ma quando egli dice: In Roma la scultura fu ridotta a taleche gli artefici per ignoranza e per mancanza di genio o quando doveanoergere statue, e scolpire busti, adoperavano a tal uopo le antiche opere ec.non è egli lo stesso che se dicesse precisamente ciò ch'io gli ho fatto dire,cioè che l'arte era omai smarrita, e che quel mezzo solo rimaneva ad ono-rar la memoria degli uomini più illustri?

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Non si la-sciò in que-sto tempo di avere in pregio gli antichi mo-numenti.

CAPO X. Arti liberali.

I. Come nell'epoche precedenti le arti eranvenute decadendo insiem colle scienze, cosìin questa, di cui ora parliamo, le une e le al-tre si accostarono ad ugual passo versol'estrema loro rovina. Io penso nondimenoche l'eruditissimo Winckelmann abbia esa-gerato di troppo, quando ha scritto (Hist. de

l'Art, t. 2, p. 335) che dopo i tempi di Costantino nontrovasi quasi più alcun vestigio dell'arte (24). Egli ne recaper pruova alcuni monumenti antichi che da mano piùmoderna si veggono contraffatti per rivolgerli ad altrouso: indizio chiarissimo, dic'egli, che essendosi ormai

24 Il sig. ab. Fea mi riprende (Winck. Storia dell'Arti t. 2, pag. 415 ed. Rom.)perchè senza ragione ho accusato di esagerazione il Winckelmann. Che èciò ch'io attribuisco al Winckelmann? e in che cosa dico io ch'egli ha esa-gerato? Quando ha scritto che dopo i tempi di Costantino non trovasi qua-si alcun vestigio dell'arte. Che è ciò che dice il Winckelmann anche secon-do la traduzione dell'ab. Fea? Non si trova che di rado fatta menzionedell'arte dopo i tempi di Costantino. Or che questa proposizione sia esage-rata parmi d'aver mostrato, e se il Winckelmann reca i fatti medesimi chesi recan da me per provare l'esagerazione, ciò mostrerà che il Winckel-mann contradice a se stesso. Egli è vero ch'io non sono stato abbastanzaesatto, dove attribuisco al Winckelmann ciò che segue: indicio chiarissi-mo, dic'egli, ec. giacchè queste precise parole realmente nel Winkelmannnon si trovano; ma quando egli dice: In Roma la scultura fu ridotta a taleche gli artefici per ignoranza e per mancanza di genio o quando doveanoergere statue, e scolpire busti, adoperavano a tal uopo le antiche opere ec.non è egli lo stesso che se dicesse precisamente ciò ch'io gli ho fatto dire,cioè che l'arte era omai smarrita, e che quel mezzo solo rimaneva ad ono-rar la memoria degli uomini più illustri?

353

Non si la-sciò in que-sto tempo di avere in pregio gli antichi mo-numenti.

smarrita l'arte, questo mezzo sol rimaneva ad onorar lamemoria degli uomini più illustri. Ma non parmi ch'eiprovi abbastanza che ciò accadesse sin dal tempo di cuiscriviamo anzi io mi lusingo di provare nel seguente vo-lume che le arti in Italia non mancarono mai totalmente.Noi veggiamo in fatti che l'uso d'innalzare statue a' per-sonaggi famosi era frequentissimo a questa età; e ab-biam veduto in questo libro medesimo, che un tal onorefu conceduto ad Apollinare Sidonio, a Mario Vittorino,a Proeresio, a Claudiano; e più altri ancora se ne potreb-bero nominare. Or questo ci fa veder chiaramente chel'arte aveasi ancora in pregio, poichè aveansi in pregio lestatue, e credevasi di onorare coloro alla cui memoria siergessero. Nè io penserò certo giammai che altra manie-ra non vi avesse allora di lavorare statue, che il troncareun capo a un busto antico, e sostituirne un nuovo.Un'altra pruova del conto che ancor facevasi de' monu-menti antichi, si è l'istituzione di un magistrato cheavesse cura della loro conservazione. Quando si comin-ciasse ciò ad usare, nol sappiamo precisamente, ma tro-vandone la prima memoria in Ammian Marcellino (l.16. c. 6) egli è verisimile che ciò avvenisse a questi tem-pi (25). Questo magistrato chiamasi da Ammiano centu-rio nitentium rerum. Il nome di centurione fu poi cam-biato in quel di tribuno, e poscia in quello di conte,

25 Ha osservato giustamente il suddetto sig. ab. Fea (Winck. Storia delle Artit. 2, p. 416) che assai più antica è l'istituzione del magistrato che dovea ve-gliare alla conservazione de' monumenti antichi, e, secondo l'ab. Guasco(De l'usage des statues p. 384) essa deesi riferire a' tempi d'Augusto.

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smarrita l'arte, questo mezzo sol rimaneva ad onorar lamemoria degli uomini più illustri. Ma non parmi ch'eiprovi abbastanza che ciò accadesse sin dal tempo di cuiscriviamo anzi io mi lusingo di provare nel seguente vo-lume che le arti in Italia non mancarono mai totalmente.Noi veggiamo in fatti che l'uso d'innalzare statue a' per-sonaggi famosi era frequentissimo a questa età; e ab-biam veduto in questo libro medesimo, che un tal onorefu conceduto ad Apollinare Sidonio, a Mario Vittorino,a Proeresio, a Claudiano; e più altri ancora se ne potreb-bero nominare. Or questo ci fa veder chiaramente chel'arte aveasi ancora in pregio, poichè aveansi in pregio lestatue, e credevasi di onorare coloro alla cui memoria siergessero. Nè io penserò certo giammai che altra manie-ra non vi avesse allora di lavorare statue, che il troncareun capo a un busto antico, e sostituirne un nuovo.Un'altra pruova del conto che ancor facevasi de' monu-menti antichi, si è l'istituzione di un magistrato cheavesse cura della loro conservazione. Quando si comin-ciasse ciò ad usare, nol sappiamo precisamente, ma tro-vandone la prima memoria in Ammian Marcellino (l.16. c. 6) egli è verisimile che ciò avvenisse a questi tem-pi (25). Questo magistrato chiamasi da Ammiano centu-rio nitentium rerum. Il nome di centurione fu poi cam-biato in quel di tribuno, e poscia in quello di conte,

25 Ha osservato giustamente il suddetto sig. ab. Fea (Winck. Storia delle Artit. 2, p. 416) che assai più antica è l'istituzione del magistrato che dovea ve-gliare alla conservazione de' monumenti antichi, e, secondo l'ab. Guasco(De l'usage des statues p. 384) essa deesi riferire a' tempi d'Augusto.

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come vedremo nell'epoca susseguente. Doveva egli dinotte tempo aggirarsi per la città con alcuni soldati, e in-vigilare che niuno ardisse di atterrare, o di rovinare inqual si fosse maniera le statue che in ogni parte l'ornava-no, (V. Valesii not. ad Amm. l. c.).

II. L'istituzione però di questo magistrato cimostra che cominciava allora a insinuarsinell'animo di alcuni quel barbaro entusia-smo di spezzare ed infrangere gli antichipregevoli monumenti (26). A questo furoredovette dare singolarmente occasione

l'ingordigia di alcuni dei più potenti cortigiani, i quali,come raccogliesi da Ammiano Marcellino (l. 22, c. 4) eda Libanio (ap. Vales. in not. ad Amm. l. c.), spogliava-no i tempi de' più ricchi e più preziosi ornamenti per ar-ricchirne i loro palagi. Perciocchè è verisimile che alcu-ni della più rozza plebe amasser meglio di veder le sta-tue atterrate ed infrante, che di vederle fatte preda diavidi usurpatori. Molto più che essendo allor grande inRoma il numero degli stranieri, questi che non sentivanoin cuore l'amor della patria, doveano essere indifferentio insensibili alla perdita e al guasto di sì preziosi tesori.Il soverchio e non ben regolato zelo di alcuni Cristiani

26 L'abuso di spezzare gli antichi monumenti romani non cominciò ad intro-dursi soltanto quando cominciò a corrompersi il buon gusto, ma anche a'più lieti tempi della repubblica ne troviam qualche esempio; e Cicerone famenzione di un certo Tizio qui signa sacra noctu frangere putaretur (DeOrat. l. 2, c. 62).

355

Essi nondi-meno sof-frirono gra-vi danni, e per qual ra-gione.

come vedremo nell'epoca susseguente. Doveva egli dinotte tempo aggirarsi per la città con alcuni soldati, e in-vigilare che niuno ardisse di atterrare, o di rovinare inqual si fosse maniera le statue che in ogni parte l'ornava-no, (V. Valesii not. ad Amm. l. c.).

II. L'istituzione però di questo magistrato cimostra che cominciava allora a insinuarsinell'animo di alcuni quel barbaro entusia-smo di spezzare ed infrangere gli antichipregevoli monumenti (26). A questo furoredovette dare singolarmente occasione

l'ingordigia di alcuni dei più potenti cortigiani, i quali,come raccogliesi da Ammiano Marcellino (l. 22, c. 4) eda Libanio (ap. Vales. in not. ad Amm. l. c.), spogliava-no i tempi de' più ricchi e più preziosi ornamenti per ar-ricchirne i loro palagi. Perciocchè è verisimile che alcu-ni della più rozza plebe amasser meglio di veder le sta-tue atterrate ed infrante, che di vederle fatte preda diavidi usurpatori. Molto più che essendo allor grande inRoma il numero degli stranieri, questi che non sentivanoin cuore l'amor della patria, doveano essere indifferentio insensibili alla perdita e al guasto di sì preziosi tesori.Il soverchio e non ben regolato zelo di alcuni Cristiani

26 L'abuso di spezzare gli antichi monumenti romani non cominciò ad intro-dursi soltanto quando cominciò a corrompersi il buon gusto, ma anche a'più lieti tempi della repubblica ne troviam qualche esempio; e Cicerone famenzione di un certo Tizio qui signa sacra noctu frangere putaretur (DeOrat. l. 2, c. 62).

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Essi nondi-meno sof-frirono gra-vi danni, e per qual ra-gione.

concorse ancora probabilmente al danno di Roma poi-chè poteva da alcun credersi facilmente o utile, o forseancor necessario il togliere ogni monumento di profanaantichità, senza ben distinguere ciò ch'era contro la reli-gione, da ciò che le era indifferente. Quindi Onorio do-vette pubblicare una legge (Cod. theod. l. 16, t. 10, lex15), con cui vietava che sotto pretesto di atterrare gl'ido-li e i tempj non si atterrassero ancora le statue, che ser-vivano di ornamento a pubblici edifizj. A' tempi però diCostanzo era ancor Roma un oggetto tanto meraviglio-so, che Ammian Marcellino racconta (l. 16, c. 10), cheallor quando questo imperadore vi pose per la primavolta il piede, rimase attonito e sopraffatto per modo,che disse che la fama solita comunemente ad accresceree ad ingrandire gli oggetti era per riguardo a Roma trop-po scarsa di lodi.

III. E allora fu che in Costanzo si risvegliòil pensiero di gareggiare nella magnificenzacogli antichi imperadori, e di rendere conqualche nuovo ornamento il suo nome im-mortale. Era in Alessandria d'Egitto, comeracconta Ammian Marcellino (l. 17, c. 4),un obelisco colà trasportato per ordine di

Costantino magno che volea abbellirne la sua Costanti-nopoli; ma essendo ei morto prima di compiere il suodisegno, erasi quivi rimasto quasi in abbandono. Co-stanzo dunque risolvette di farlo trasportare a Roma, e

356

Trasporto di un obeli-sco dall'Egitto a Roma perordine di Costanzo.

concorse ancora probabilmente al danno di Roma poi-chè poteva da alcun credersi facilmente o utile, o forseancor necessario il togliere ogni monumento di profanaantichità, senza ben distinguere ciò ch'era contro la reli-gione, da ciò che le era indifferente. Quindi Onorio do-vette pubblicare una legge (Cod. theod. l. 16, t. 10, lex15), con cui vietava che sotto pretesto di atterrare gl'ido-li e i tempj non si atterrassero ancora le statue, che ser-vivano di ornamento a pubblici edifizj. A' tempi però diCostanzo era ancor Roma un oggetto tanto meraviglio-so, che Ammian Marcellino racconta (l. 16, c. 10), cheallor quando questo imperadore vi pose per la primavolta il piede, rimase attonito e sopraffatto per modo,che disse che la fama solita comunemente ad accresceree ad ingrandire gli oggetti era per riguardo a Roma trop-po scarsa di lodi.

III. E allora fu che in Costanzo si risvegliòil pensiero di gareggiare nella magnificenzacogli antichi imperadori, e di rendere conqualche nuovo ornamento il suo nome im-mortale. Era in Alessandria d'Egitto, comeracconta Ammian Marcellino (l. 17, c. 4),un obelisco colà trasportato per ordine di

Costantino magno che volea abbellirne la sua Costanti-nopoli; ma essendo ei morto prima di compiere il suodisegno, erasi quivi rimasto quasi in abbandono. Co-stanzo dunque risolvette di farlo trasportare a Roma, e

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Trasporto di un obeli-sco dall'Egitto a Roma perordine di Costanzo.

riuscitovi felicemente, il fece collocare nel Circo Massi-mo nella maniera che si può vedere ampiamente descrit-ta dal mentovato scrittore. Ed è questo quell'obeliscomedesimo che fu poscia da Sisto V di nuovo innalzato.Mi si permetta qui di rilevare un abbaglio dal ch. Mura-tori commesso nel correggere il preteso abbaglio diun'altro scrittore. "Il Lindebrogio, dic'egli (Ann. d'Ital.all'an. 357), che suppone trasportato non a Roma antica,ma alla nuova, cioè a Costantinopoli, questo stupendoobelisco, citando l'iscrizione che si trova in un altro esi-stente in essa città di Costantinopoli, prese un granchio,chiaramente parlando Ammiano, che il suddetto soprauna smisurata nave fu pel Tevere introdotto in Roma".L'eruditissimo annalista non ha ben osservate le paroledel Lindebrogio. Egli non dice (in not. ad Amm. Mar-cell. l. c.) che questo obelisco fosse trasportato a Co-stantinopoli, ma che Costantino avea pensiero di farvelotrasportare e che poscia Costanzo ne ordinò il trasportoa Roma. L'iscrizione poi, che il Lindebrogio arreca, nonè mai stata in Costantinopoli; ma è anche al presente inRoma benchè in parte guasta e consunta ed ella è riferi-ta, oltre altri scrittori, ancor dal Grutero (Thes. Inscr. p.186) che ha conghietturando supplito a ciò che più nonsi vede e dalla iscrizione medesima raccogliesi chiara-mente ciò che abbiam di sopra asserito; cioè che questoobelisco era destinato a Costantinopoli ma che cambiatopensiero fu pel mare e pel Tevere condotto a Roma.

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riuscitovi felicemente, il fece collocare nel Circo Massi-mo nella maniera che si può vedere ampiamente descrit-ta dal mentovato scrittore. Ed è questo quell'obeliscomedesimo che fu poscia da Sisto V di nuovo innalzato.Mi si permetta qui di rilevare un abbaglio dal ch. Mura-tori commesso nel correggere il preteso abbaglio diun'altro scrittore. "Il Lindebrogio, dic'egli (Ann. d'Ital.all'an. 357), che suppone trasportato non a Roma antica,ma alla nuova, cioè a Costantinopoli, questo stupendoobelisco, citando l'iscrizione che si trova in un altro esi-stente in essa città di Costantinopoli, prese un granchio,chiaramente parlando Ammiano, che il suddetto soprauna smisurata nave fu pel Tevere introdotto in Roma".L'eruditissimo annalista non ha ben osservate le paroledel Lindebrogio. Egli non dice (in not. ad Amm. Mar-cell. l. c.) che questo obelisco fosse trasportato a Co-stantinopoli, ma che Costantino avea pensiero di farvelotrasportare e che poscia Costanzo ne ordinò il trasportoa Roma. L'iscrizione poi, che il Lindebrogio arreca, nonè mai stata in Costantinopoli; ma è anche al presente inRoma benchè in parte guasta e consunta ed ella è riferi-ta, oltre altri scrittori, ancor dal Grutero (Thes. Inscr. p.186) che ha conghietturando supplito a ciò che più nonsi vede e dalla iscrizione medesima raccogliesi chiara-mente ciò che abbiam di sopra asserito; cioè che questoobelisco era destinato a Costantinopoli ma che cambiatopensiero fu pel mare e pel Tevere condotto a Roma.

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IV. Furon dunque anche a quest'epoca inpregio le arti; ma ciò non ostante non furo-no esse coltivate felicemente. I monumentiche ancor ce ne restano, sono, come affermail Winckelmann (l. cit. p. 330), alcune statue

di Costantino, che non fanno molto onore a' loro artefi-ci, e l'arco in onor di lui innalzato, i cui migliori lavorison presi da un altr'arco dell'imp. Traiano. Per ciò cheappartiene all'architettura, lo stesso Winckelmann dice(p. 332) ch'ella in qualche modo fioriva ancora. Gliesempj ch'egli reca, di magnificenza e di buon gusto nelfabbricare, sono tutti anteriori a' tempi di Costantino; eil solo ch'egli accenna creduto di questa età, si è un tem-pio che dicesi ristorato dal medesimo Costantino, in cuiegli osserva che due colonne furono collocate a rove-scio, ponendo la parte inferiore sopra la superiore (27).

V. Ma ciò che alla scultura e all'architetturariuscì più funesto furono le invasioni de'Barbari, e i saccheggiamenti a cui Romasoggiacque (28). Io crederò bensì che esage-

27 Qui ancora il sig. ab. Fea mi riprende (Winck. Stor. dell'Arti t. 2, p. 413 ed.rom.) perchè io non ho avvertito che il Winckelmann non intende nel passoda me citato di fissare l'età, in cui quel tempio sì barbaramente fu ristorato.Ma poichè il Winckelmann istesso confessa che ciò dovrebb'essere statofatto intorno ai tempi di Costantino, e poichè io ne ho parlato come di cosanon certa, scrivendo creduto di questa età, e dicesi ristorato da Costanti-no, così non parmi di dover cambiare cosa alcuna in ciò che ho scritto.

28 Avvertasi ch'io qui parlo di saccheggiamenti non di rovine; e che di essiperciò dee intendersi ciò ch'io dico narrarsi da Procopio, che nel sacco

358

Il gusto delle arti vasempre più depravando

Invasioni de' Barbari quanto ad esse danno-se.

IV. Furon dunque anche a quest'epoca inpregio le arti; ma ciò non ostante non furo-no esse coltivate felicemente. I monumentiche ancor ce ne restano, sono, come affermail Winckelmann (l. cit. p. 330), alcune statue

di Costantino, che non fanno molto onore a' loro artefi-ci, e l'arco in onor di lui innalzato, i cui migliori lavorison presi da un altr'arco dell'imp. Traiano. Per ciò cheappartiene all'architettura, lo stesso Winckelmann dice(p. 332) ch'ella in qualche modo fioriva ancora. Gliesempj ch'egli reca, di magnificenza e di buon gusto nelfabbricare, sono tutti anteriori a' tempi di Costantino; eil solo ch'egli accenna creduto di questa età, si è un tem-pio che dicesi ristorato dal medesimo Costantino, in cuiegli osserva che due colonne furono collocate a rove-scio, ponendo la parte inferiore sopra la superiore (27).

V. Ma ciò che alla scultura e all'architetturariuscì più funesto furono le invasioni de'Barbari, e i saccheggiamenti a cui Romasoggiacque (28). Io crederò bensì che esage-

27 Qui ancora il sig. ab. Fea mi riprende (Winck. Stor. dell'Arti t. 2, p. 413 ed.rom.) perchè io non ho avvertito che il Winckelmann non intende nel passoda me citato di fissare l'età, in cui quel tempio sì barbaramente fu ristorato.Ma poichè il Winckelmann istesso confessa che ciò dovrebb'essere statofatto intorno ai tempi di Costantino, e poichè io ne ho parlato come di cosanon certa, scrivendo creduto di questa età, e dicesi ristorato da Costanti-no, così non parmi di dover cambiare cosa alcuna in ciò che ho scritto.

28 Avvertasi ch'io qui parlo di saccheggiamenti non di rovine; e che di essiperciò dee intendersi ciò ch'io dico narrarsi da Procopio, che nel sacco

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Il gusto delle arti vasempre più depravando

Invasioni de' Barbari quanto ad esse danno-se.

rasse troppo Procopio, quando scrisse (De Bello Vandal.l. 1) che nel sacco datole da Alarico niuno de' pubblici ede' privati edifizj rimanesse intatto; ma egli è ben verisi-mile ciò che concordemente narrano gli scrittori, ch'eglico' suoi Goti seco ne portasse quanto vi potè raccoglierdi meglio. Un somigliante guasto le diè Genserico; anzinarra Procopio (ib.), che una nave ch'egli avea caricatadi statue, nel ritorno in Africa perì di naufragio. Egli èprobabile ancora, che in queste occasioni medesime at-terrati fossero obelischi ed archi, ed altri monumentidella romana magnificenza, alcuni de' quali poi di nuo-vo scoperti in questi ultimi secoli sono stati con egualemagnificenza innalzati.

VI. La pittura per ultimo non fu a quest'epo-ca trascurata; e i lavori a musaico ancora fu-rono assai frequenti. Simmaco ne fa men-zione (l. 6. ep. 49); e approva, che i bagnisieno ornati a musaico più che non a pittura

anzi egli scrivendo a un certo Antioco il loda (l. 8, ep.41) per un nuovo genere di musaico finallora non cono-sciuto, che da lui erasi ritrovato. Anastasio bibliotecariorammenta i musaici e le pitture di cui ornarono più chie-

dato a Roma da Alarico niuno dei pubblici e de' privati edifizj rimase in-tatto, cioè che tutti furono esposti alla ingordigia e alla preda degl'invasori.Io non veggo perciò, perchè mi abbia corretto il sig. ab. Fea (Winck. Stor.delle Arti t. 3, p. 269), come se io avessi fatto dire a Procopio che Alaricobruciasse tutta Roma, ciò ch'io non ho mai detto, nè mai ho fatto dire aProcopio.

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Pitture e musaici di questi tem-pi.

rasse troppo Procopio, quando scrisse (De Bello Vandal.l. 1) che nel sacco datole da Alarico niuno de' pubblici ede' privati edifizj rimanesse intatto; ma egli è ben verisi-mile ciò che concordemente narrano gli scrittori, ch'eglico' suoi Goti seco ne portasse quanto vi potè raccoglierdi meglio. Un somigliante guasto le diè Genserico; anzinarra Procopio (ib.), che una nave ch'egli avea caricatadi statue, nel ritorno in Africa perì di naufragio. Egli èprobabile ancora, che in queste occasioni medesime at-terrati fossero obelischi ed archi, ed altri monumentidella romana magnificenza, alcuni de' quali poi di nuo-vo scoperti in questi ultimi secoli sono stati con egualemagnificenza innalzati.

VI. La pittura per ultimo non fu a quest'epo-ca trascurata; e i lavori a musaico ancora fu-rono assai frequenti. Simmaco ne fa men-zione (l. 6. ep. 49); e approva, che i bagnisieno ornati a musaico più che non a pittura

anzi egli scrivendo a un certo Antioco il loda (l. 8, ep.41) per un nuovo genere di musaico finallora non cono-sciuto, che da lui erasi ritrovato. Anastasio bibliotecariorammenta i musaici e le pitture di cui ornarono più chie-

dato a Roma da Alarico niuno dei pubblici e de' privati edifizj rimase in-tatto, cioè che tutti furono esposti alla ingordigia e alla preda degl'invasori.Io non veggo perciò, perchè mi abbia corretto il sig. ab. Fea (Winck. Stor.delle Arti t. 3, p. 269), come se io avessi fatto dire a Procopio che Alaricobruciasse tutta Roma, ciò ch'io non ho mai detto, nè mai ho fatto dire aProcopio.

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Pitture e musaici di questi tem-pi.

se i pontefici s. Silvestro, Giulio I, Liberio, s. Leone, edaltri. "S. Paolino vescovo di Nola descrive a lungo lepitture di cui egli avea ornato il suo tempio (in Nat. S.Fel. carm.)". De' nomi di quelli che in somiglianti lavorivennero adoperati, non ci è rimasta memoria. Solo iotrovo nominato con lode da Simmaco un pittore dettoLucillo (l. 9, ep. 49). Alcuni pensano che le pitturedell'antichissimo codice vaticano di Virgilio, che sonostate disegnate da Sante Bartoli, e aggiunte ancora allamagnifica edizione che del suo Virgilio ci ha data inRoma l'an. 1763 il p. Ambrogio della Comp. di Gesù, ecosì pur le pitture del codice di Terenzio della stessa bi-blioteca, che veggonsi delineate nella bella edizione fat-tane in Urbino l'an. 1735, e quelle ancora di un altro co-dice di Terenzio mentovato dal Peirescio, appartenganoall'età di Costantino (V. Winck. l. c. p. 331), e questa èancora l'opinione del Winckelmann, il quale riflette chele pitture del codice vaticano di Virgilio sono state deli-neate da Sante Bartoli in modo, che appaiono miglioriassai che non sieno nel loro originale. Egli aggiugne cheuna relazione inserita nel medesimo codice e scritta nelmedesimo tempo ci dà motivo a credere ch'esso fossescritto a' tempi di Costantino. Ma qual sia questa rela-zione, egli nol dice, nè io ho potuto vedere le lettere delBurmanno, ch'egli ne arreca in testimonio (29). Di altre29 Il Burmanno, come si avverte dal sopraccitato ab. Fea (l. c. p. 419) non fa

che produrre il giudizio dell'Einsio intorno all'antichità del codice lauren-ziano di Virgilio, di cui si parla nel tomo seguente, e del vaticano qui ricor-dato; le cui pitture però da lui non credonsi tanto antiche, quanto sembravaal Winckelmann.

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se i pontefici s. Silvestro, Giulio I, Liberio, s. Leone, edaltri. "S. Paolino vescovo di Nola descrive a lungo lepitture di cui egli avea ornato il suo tempio (in Nat. S.Fel. carm.)". De' nomi di quelli che in somiglianti lavorivennero adoperati, non ci è rimasta memoria. Solo iotrovo nominato con lode da Simmaco un pittore dettoLucillo (l. 9, ep. 49). Alcuni pensano che le pitturedell'antichissimo codice vaticano di Virgilio, che sonostate disegnate da Sante Bartoli, e aggiunte ancora allamagnifica edizione che del suo Virgilio ci ha data inRoma l'an. 1763 il p. Ambrogio della Comp. di Gesù, ecosì pur le pitture del codice di Terenzio della stessa bi-blioteca, che veggonsi delineate nella bella edizione fat-tane in Urbino l'an. 1735, e quelle ancora di un altro co-dice di Terenzio mentovato dal Peirescio, appartenganoall'età di Costantino (V. Winck. l. c. p. 331), e questa èancora l'opinione del Winckelmann, il quale riflette chele pitture del codice vaticano di Virgilio sono state deli-neate da Sante Bartoli in modo, che appaiono miglioriassai che non sieno nel loro originale. Egli aggiugne cheuna relazione inserita nel medesimo codice e scritta nelmedesimo tempo ci dà motivo a credere ch'esso fossescritto a' tempi di Costantino. Ma qual sia questa rela-zione, egli nol dice, nè io ho potuto vedere le lettere delBurmanno, ch'egli ne arreca in testimonio (29). Di altre29 Il Burmanno, come si avverte dal sopraccitato ab. Fea (l. c. p. 419) non fa

che produrre il giudizio dell'Einsio intorno all'antichità del codice lauren-ziano di Virgilio, di cui si parla nel tomo seguente, e del vaticano qui ricor-dato; le cui pitture però da lui non credonsi tanto antiche, quanto sembravaal Winckelmann.

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pitture che ci rimangono di questi tempi, non trovo men-zione; ma ciò che si è detto, basta a mostrarci che anchequest'arte andava ogni giorno più decadendo misera-mente.

Fine del Tom. II. Par. II.

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pitture che ci rimangono di questi tempi, non trovo men-zione; ma ciò che si è detto, basta a mostrarci che anchequest'arte andava ogni giorno più decadendo misera-mente.

Fine del Tom. II. Par. II.

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Catalogo.

Di alcune delle migliori edizioni degli autori italiani, de' qualisi è ragionato in questo volume.

Come abbiamo fatto al fine del primo tomo, così qui pure aggiu-gniamo la nota di alcune delle migliori edizioni di quegli autoride' quali in questo si è ragionato. Ma perciocchè nell'avanzarcinella Storia ci avviene spesso d'incontrar tali scrittori che nonhanno avuto gran nome nella repubblica delle lettere, questi sof-friranno in pace, io spero, che di essi appena si accenni qualcheedizione, o che anche se ne taccia del tutto, per non ingombrarquesto catalogo di tali nomi che non son troppo meritevoli di an-dar del pari cogli altri tanto più celebri, o di tali operette di cuinon giova il far più distinta menzione.

Raccolte d'autori latini oltre le indicate nel primo tomo.

Auctores latinae linguae cum notis Dionysii Gothofredi.Genevae 1603, 4.

Iidem editi ab Elia Putschio. Hannoviae, 1605, 4.

Antiqui Rhetores latini editi a Francisco Pitheo. Parisiis,1599, 4.

Panegyrici veteres. 1482, fol.

Iidem cum not. Christoph. Cellarii. Halae, 1703,8.

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Catalogo.

Di alcune delle migliori edizioni degli autori italiani, de' qualisi è ragionato in questo volume.

Come abbiamo fatto al fine del primo tomo, così qui pure aggiu-gniamo la nota di alcune delle migliori edizioni di quegli autoride' quali in questo si è ragionato. Ma perciocchè nell'avanzarcinella Storia ci avviene spesso d'incontrar tali scrittori che nonhanno avuto gran nome nella repubblica delle lettere, questi sof-friranno in pace, io spero, che di essi appena si accenni qualcheedizione, o che anche se ne taccia del tutto, per non ingombrarquesto catalogo di tali nomi che non son troppo meritevoli di an-dar del pari cogli altri tanto più celebri, o di tali operette di cuinon giova il far più distinta menzione.

Raccolte d'autori latini oltre le indicate nel primo tomo.

Auctores latinae linguae cum notis Dionysii Gothofredi.Genevae 1603, 4.

Iidem editi ab Elia Putschio. Hannoviae, 1605, 4.

Antiqui Rhetores latini editi a Francisco Pitheo. Parisiis,1599, 4.

Panegyrici veteres. 1482, fol.

Iidem cum not. Christoph. Cellarii. Halae, 1703,8.

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Iidem additis Numsimatibus, ac notis et interpre-tatione italica Laurentii Patarol. Venetiis, 1708,8. Iidem cum interpretatione ac notia Jacobi de laBaune ad usum Delphini. Parisiis, 1674, 4.

Medicae Artis principes. Parisiis, Henr. Stephanus, 1567, fol.

Veteres de re militari Scriptores quotquot extant, cumvar. notis. Vesaliae Cliviorum, 1670, 8.

Auctores Finium regundorum, cum Nicol. Rigaltii ob-servationibus. Parisiis, 1614, 4.

Dionysii Alexandrini, et Pomponii Melae situs Orbis de-scriptio, Aetici Cosmographia, Solini Polystor, etc.cum variorum notis. Henr. Stephanus, 1611.

Vetera Romanorum Itineraria cum variorum notis, edito-re Petro Wesselingio. Amstel. 1735, 4.

Historiae romanae Scriptores latini et graeci a Fedr. Syl-burgio editi. Francofurti, 1588, fol. 3 vol.

Ejusdem Scriptores varii notis illustrati a Carolo Henri-co de Klettemberg. Heidelbergae, 1743, fol. 3 vol.

Historiae Augustae Scriptores sex, Spartianus, Capitoli-nus, Lampridins, Vulcatius, Trebellius, Vopiscus. Me-diolani, Lavagna, 1475, fol.

Iidem. Aldus, 1517, 8.Iidem cum notis Claudii Salmasii et Js. Casauboni.

Paris. 1620, fol.

363

Iidem additis Numsimatibus, ac notis et interpre-tatione italica Laurentii Patarol. Venetiis, 1708,8. Iidem cum interpretatione ac notia Jacobi de laBaune ad usum Delphini. Parisiis, 1674, 4.

Medicae Artis principes. Parisiis, Henr. Stephanus, 1567, fol.

Veteres de re militari Scriptores quotquot extant, cumvar. notis. Vesaliae Cliviorum, 1670, 8.

Auctores Finium regundorum, cum Nicol. Rigaltii ob-servationibus. Parisiis, 1614, 4.

Dionysii Alexandrini, et Pomponii Melae situs Orbis de-scriptio, Aetici Cosmographia, Solini Polystor, etc.cum variorum notis. Henr. Stephanus, 1611.

Vetera Romanorum Itineraria cum variorum notis, edito-re Petro Wesselingio. Amstel. 1735, 4.

Historiae romanae Scriptores latini et graeci a Fedr. Syl-burgio editi. Francofurti, 1588, fol. 3 vol.

Ejusdem Scriptores varii notis illustrati a Carolo Henri-co de Klettemberg. Heidelbergae, 1743, fol. 3 vol.

Historiae Augustae Scriptores sex, Spartianus, Capitoli-nus, Lampridins, Vulcatius, Trebellius, Vopiscus. Me-diolani, Lavagna, 1475, fol.

Iidem. Aldus, 1517, 8.Iidem cum notis Claudii Salmasii et Js. Casauboni.

Paris. 1620, fol.

363

Iidem cum Salmasii, Casauboni, et Jani Grutierinotis. Lugduni Batavorum, 1671, 8, vol. 2.

Edizioni particolari.

Aelian de Natura Animalium libri XVII. graece et latinecum animadv. Conr. Gesneri, etc. Lond. 1744, 2 vol.

Historiae variae grecae et lat. cum notis variorum. Lug-duni Batav., 1705, 8.

Eaedem cum notis variorum edit. Abrahamo Gro-novio. Amstelodami 1731, 4, 2 vol.

S. Ambrosii Episcopi mediolan. Opera. Mediolani,1488, 4.

Eadem a Joanne Amerbachio edita. Basileae, 1492,fol. 3 vol.

Eadem primum per Desiderium Erasmum, deindeper Sigismundum Gelenium aliosque, deinde perJoannem Cesterium emendata. Basileae Offic.froben., 1555, fol., 3 vol.

Eadem a Felice Peretto de Monte alto (postea SixtoV) edita. Romae, 1580, fol. 5 vol.

Eadem cura Monach. etc. Congr. S. Mauri edita.Parisiis, Coignard, 1686, etc., fol. 2 vol.

Ammiani Marcellini Historia a l. XIV ad l. XXVI. Ro-mae 1474, fol.

364

Iidem cum Salmasii, Casauboni, et Jani Grutierinotis. Lugduni Batavorum, 1671, 8, vol. 2.

Edizioni particolari.

Aelian de Natura Animalium libri XVII. graece et latinecum animadv. Conr. Gesneri, etc. Lond. 1744, 2 vol.

Historiae variae grecae et lat. cum notis variorum. Lug-duni Batav., 1705, 8.

Eaedem cum notis variorum edit. Abrahamo Gro-novio. Amstelodami 1731, 4, 2 vol.

S. Ambrosii Episcopi mediolan. Opera. Mediolani,1488, 4.

Eadem a Joanne Amerbachio edita. Basileae, 1492,fol. 3 vol.

Eadem primum per Desiderium Erasmum, deindeper Sigismundum Gelenium aliosque, deinde perJoannem Cesterium emendata. Basileae Offic.froben., 1555, fol., 3 vol.

Eadem a Felice Peretto de Monte alto (postea SixtoV) edita. Romae, 1580, fol. 5 vol.

Eadem cura Monach. etc. Congr. S. Mauri edita.Parisiis, Coignard, 1686, etc., fol. 2 vol.

Ammiani Marcellini Historia a l. XIV ad l. XXVI. Ro-mae 1474, fol.

364

Eadem additis l. XXVII-XXXI, edita a MariangeloAccursio. Augustae, 1533, fol.

Eadem cum notis Henrici Valesii, etc. Parisiis,1681, fol.

Eadem cum Feder. Lindenbrogii et Valesiorum an-notationibus, recognita a Jacobo Gronovio. Lug-duni Batav., 1693, fol.

La stessa tradotta da Remigio Fiorentino. Ven.,Giolito, 1550, 8.

Arnobii Afri Disputationum adversus Gentes libri VII,editi a Fausto Sabaco. Romae, 1542, fol.

Iidem recogniti et aucti ex bibliotheca TheodoriCanteri cum ejusdem notis. Antuerpiae, Planti-nus, 1582, 8.

Iidem cum notis variorum. Lugduni Batav., Maire,1651, 4.

Asconii Pediani Expositio in Orationes Ciceronis. Veu.,Aldus, 1522,8. V. etiam Ciceronis Opera.

Avieni Rufi Festi Opera quae extant edita a Petro Me-lian. Matriti, 1634, 4.

Aviani Flavii Fabulae, cum notis Neveleti et Barthii, etCannegieteri Dissertatione de aetate et stylo Aviani.Amstel., 1721, 8.

Le stesse tradotte da d. Giangrisost. Trombelli can.reg. del Salvatore. Venezia, 1735, 8.

365

Eadem additis l. XXVII-XXXI, edita a MariangeloAccursio. Augustae, 1533, fol.

Eadem cum notis Henrici Valesii, etc. Parisiis,1681, fol.

Eadem cum Feder. Lindenbrogii et Valesiorum an-notationibus, recognita a Jacobo Gronovio. Lug-duni Batav., 1693, fol.

La stessa tradotta da Remigio Fiorentino. Ven.,Giolito, 1550, 8.

Arnobii Afri Disputationum adversus Gentes libri VII,editi a Fausto Sabaco. Romae, 1542, fol.

Iidem recogniti et aucti ex bibliotheca TheodoriCanteri cum ejusdem notis. Antuerpiae, Planti-nus, 1582, 8.

Iidem cum notis variorum. Lugduni Batav., Maire,1651, 4.

Asconii Pediani Expositio in Orationes Ciceronis. Veu.,Aldus, 1522,8. V. etiam Ciceronis Opera.

Avieni Rufi Festi Opera quae extant edita a Petro Me-lian. Matriti, 1634, 4.

Aviani Flavii Fabulae, cum notis Neveleti et Barthii, etCannegieteri Dissertatione de aetate et stylo Aviani.Amstel., 1721, 8.

Le stesse tradotte da d. Giangrisost. Trombelli can.reg. del Salvatore. Venezia, 1735, 8.

365

Le stesse tradotte da Angelo Maria Ricci. Firenze,1736, 8.

V. etiam Phaedri fabulae, cum quibus interdumeditae sunt.

Aurelii Marci Imp. de Rebus suis libri XII, gr., et lat.cum Comment. Gatakeri. Acedunt Andreae Daceriiannotatones, ec. Londini, 1707, 4.

Gli stessi tradotti lit italiano dal card. FrancescoBarberini. Roma, 1665, 8.

Calpurnii Titi Siculi, et Numeriani M. Aurelii OlympiiCarmina. V. Poetae minores, et Rei Venaticae Scrip-tores.

Capitolinus. V. Hist. Augustae Scriptores.

Celsi A. Cornelii de Re Medica libri VIII. Florentiae,1478, fol.

Iidem. Venetiis, Aldus, 1528, 8.Iidem cum Comment. Guillelmi Pantini. Basileae,

Oporinus, 1552, fol. Iidem ex editione Joannis Antonidae Vander-Lin-

den. Lugd. Bat., 1657. 12. Iidem cum notis Rob. Constantini, Isaaci Casaubo-

ni, ec. cura et studio Theodori Jansonii ab Alme-loveen. Amstel. Wolters, 1713, 8.

Iidem cum Sereni Sammonici Libro de Medicina,et Epistolis Jo. Baptistae Morgagni. Patavii, Co-

366

Le stesse tradotte da Angelo Maria Ricci. Firenze,1736, 8.

V. etiam Phaedri fabulae, cum quibus interdumeditae sunt.

Aurelii Marci Imp. de Rebus suis libri XII, gr., et lat.cum Comment. Gatakeri. Acedunt Andreae Daceriiannotatones, ec. Londini, 1707, 4.

Gli stessi tradotti lit italiano dal card. FrancescoBarberini. Roma, 1665, 8.

Calpurnii Titi Siculi, et Numeriani M. Aurelii OlympiiCarmina. V. Poetae minores, et Rei Venaticae Scrip-tores.

Capitolinus. V. Hist. Augustae Scriptores.

Celsi A. Cornelii de Re Medica libri VIII. Florentiae,1478, fol.

Iidem. Venetiis, Aldus, 1528, 8.Iidem cum Comment. Guillelmi Pantini. Basileae,

Oporinus, 1552, fol. Iidem ex editione Joannis Antonidae Vander-Lin-

den. Lugd. Bat., 1657. 12. Iidem cum notis Rob. Constantini, Isaaci Casaubo-

ni, ec. cura et studio Theodori Jansonii ab Alme-loveen. Amstel. Wolters, 1713, 8.

Iidem cum Sereni Sammonici Libro de Medicina,et Epistolis Jo. Baptistae Morgagni. Patavii, Co-

366

minus, 1750, 8. 2 vol.Gli stessi tradotti dall'abate Chiari. Venezia, 1747,

8. 2 vol.Censorini de Die Natali Liber. Venetiis, Aldus, 1528, 8.

Idem cum Henr. Lindenbrogii notis. Lugduni Ba-tav., 1542, 8.

Idem cum ejusdem et aliorum not. ex recens. Si-geb. Harercampi. Lugd. Bat. 1743, 8.

Claudiani Cl. Carmina. Vicentiae, 1482, fol.Eadem. Venetiis, Aldus, 1523, 8.Eadem cum Nic. Heinsii notis. Lugduni Batav.,

1641, 12.Eadem cum notis variorum, Amstelodami, 1659, 8.Eadem cum Comment. Guillelmi Pyrrhonis ad

usum delph. Parisiis, 1677,4.Le Poesie di Claudiano tradotte da Nicc. Beregani,

Ven., 1716,8, 2 vol.Columella, V. Scriptores rei rusticae.

Lo Stesso tradotto da Pietro Lauro modenese. Ve-nezia, 1554. 8.

Curtii Q. Rufi de Rebus gestis Alexandri M. Libri no-vem. Venetiis, Vendelinus de Spira, sine anno, fol.

Iidem. Florentiae, Junta, 1517, 8.

367

minus, 1750, 8. 2 vol.Gli stessi tradotti dall'abate Chiari. Venezia, 1747,

8. 2 vol.Censorini de Die Natali Liber. Venetiis, Aldus, 1528, 8.

Idem cum Henr. Lindenbrogii notis. Lugduni Ba-tav., 1542, 8.

Idem cum ejusdem et aliorum not. ex recens. Si-geb. Harercampi. Lugd. Bat. 1743, 8.

Claudiani Cl. Carmina. Vicentiae, 1482, fol.Eadem. Venetiis, Aldus, 1523, 8.Eadem cum Nic. Heinsii notis. Lugduni Batav.,

1641, 12.Eadem cum notis variorum, Amstelodami, 1659, 8.Eadem cum Comment. Guillelmi Pyrrhonis ad

usum delph. Parisiis, 1677,4.Le Poesie di Claudiano tradotte da Nicc. Beregani,

Ven., 1716,8, 2 vol.Columella, V. Scriptores rei rusticae.

Lo Stesso tradotto da Pietro Lauro modenese. Ve-nezia, 1554. 8.

Curtii Q. Rufi de Rebus gestis Alexandri M. Libri no-vem. Venetiis, Vendelinus de Spira, sine anno, fol.

Iidem. Florentiae, Junta, 1517, 8.

367

Iidem. Venetiis, Aldus, 1520, 8.Iidem cum Matthaei Raderi S. J. Comment. Colon.,

1628, fol.Iidem cum Mich. Tellerii S. J. Comment. in usum

delph. Parisiis, 1678, 4.Iidem cum Comm. Samuelis Pitisci, Freinshemii

Supplemento, ec. Ultrajecti, 1685, 8.Iidem cum eruditorum virorum notis, dissertationi-

bus, ec., editore Henr. Snakemburg. Delphis Lu-chtmans, 1724, 4.

Gli stessi tradotti da Pietro Candido Decembrio.Firenze, 1488, fol.

Gli stessi tradotti da Tommaso Porcacchi. Ven.,Giolito, 1588, 4.

S. Damasi Opera omnia cum notis, diss., ex. Romae,1754. fol.

Donati, V. Auctores, lat. linguae.Eutropii Breviari uni romanae Historiae, 1475, fol.

Idem. Basileae, Frobenius, 1532, fol.Idem cum notis Tanaquilli Fabri. Salmurii, 1667, 8.Idem cum notis Annae Tanaquilli Fabri filiae, in

usum delph. Parisiis, 1683, 4.Idem cum var. not., edit. Sigeb. Havercampo.

Lugd. Bat., 1739, 8.

368

Iidem. Venetiis, Aldus, 1520, 8.Iidem cum Matthaei Raderi S. J. Comment. Colon.,

1628, fol.Iidem cum Mich. Tellerii S. J. Comment. in usum

delph. Parisiis, 1678, 4.Iidem cum Comm. Samuelis Pitisci, Freinshemii

Supplemento, ec. Ultrajecti, 1685, 8.Iidem cum eruditorum virorum notis, dissertationi-

bus, ec., editore Henr. Snakemburg. Delphis Lu-chtmans, 1724, 4.

Gli stessi tradotti da Pietro Candido Decembrio.Firenze, 1488, fol.

Gli stessi tradotti da Tommaso Porcacchi. Ven.,Giolito, 1588, 4.

S. Damasi Opera omnia cum notis, diss., ex. Romae,1754. fol.

Donati, V. Auctores, lat. linguae.Eutropii Breviari uni romanae Historiae, 1475, fol.

Idem. Basileae, Frobenius, 1532, fol.Idem cum notis Tanaquilli Fabri. Salmurii, 1667, 8.Idem cum notis Annae Tanaquilli Fabri filiae, in

usum delph. Parisiis, 1683, 4.Idem cum var. not., edit. Sigeb. Havercampo.

Lugd. Bat., 1739, 8.

368

Idem cum var. not., editore Henrico Verhevk. Ibid.,1762, 8.

Lo stesso tradotto in italiano. 1644, 8.Festi, V. Auctores. lat. linguae.Firmici Julii Materni Matheseos, seu Astronomicorum Libri VIII.

Venetiis, Bevilaqua, 1497, fol.

Iidem. Basileae, Hervagius, 1551, fol.Liber de Errore Prophanarum Religionum. Argen-

torati, 1580, 8.Idem. Basileae, Frobenius, 1603, 8.

Flori L. Annaei Epitome de Gestis Romanorum. Parisiis, circa il1470, 8.

Eadem. Romae, Sweynheim et Pannartz, 1472, fol.Eadem. Venetiis, Aldus, 1521, 8.Eadem cum notis Is. Pontani. Amstelodami, 1627,

16.Eadem cum var. notis. Franequerae, 1690, 4.Eadem cum not. Annae Tanaquilli Fabri filiae, ad

usum delph. Parisiis, 1674, 4.Eadem cum variorum notis, editore Laurentio Fe-

gero, ad usum Principis Brandemburgici. Colo-niae Marchiae, 1704, fol.

Eadem cum var. not, edit. Andrea Dukero. Lugd.Bat., 1744, 8.

369

Idem cum var. not., editore Henrico Verhevk. Ibid.,1762, 8.

Lo stesso tradotto in italiano. 1644, 8.Festi, V. Auctores. lat. linguae.Firmici Julii Materni Matheseos, seu Astronomicorum Libri VIII.

Venetiis, Bevilaqua, 1497, fol.

Iidem. Basileae, Hervagius, 1551, fol.Liber de Errore Prophanarum Religionum. Argen-

torati, 1580, 8.Idem. Basileae, Frobenius, 1603, 8.

Flori L. Annaei Epitome de Gestis Romanorum. Parisiis, circa il1470, 8.

Eadem. Romae, Sweynheim et Pannartz, 1472, fol.Eadem. Venetiis, Aldus, 1521, 8.Eadem cum notis Is. Pontani. Amstelodami, 1627,

16.Eadem cum var. notis. Franequerae, 1690, 4.Eadem cum not. Annae Tanaquilli Fabri filiae, ad

usum delph. Parisiis, 1674, 4.Eadem cum variorum notis, editore Laurentio Fe-

gero, ad usum Principis Brandemburgici. Colo-niae Marchiae, 1704, fol.

Eadem cum var. not, edit. Andrea Dukero. Lugd.Bat., 1744, 8.

369

La stessa tradotta da Gio. Domenico Tarsia. Vene-zia, 1547, 8.

La stessa tradotta da Santi Conti. Roma, 1634, 12.Frontini Sex. Julii de Aquaeductibus urbis Romae Libri duo.

Florentiae, 1513, 8.

Iidem cum adnotationibus Joannis Poleni. Patavii,Manfrè, 1722, 4.

Stratagematicon libri IV cum not. Sam. Tennullii.Lugd. Bat., 1675, 12.

Iidem cum var. not., edit. Franc. Oudendorpio. ib.,Luchtmans, 1735, 9.

Gli Stratagemmi militari. Venezia, 1574, 4.De limitibus Agrorum, V. Scriptores rei agrariae.

Gellii Auli Noctes Atticae. Romae, Sweynheim et Pannartz,1499, fol.

Eaedem. Venetiis, Jenson. 1471, fol.Eaedam. Florentiae, Junta, 1513. 8.Eaedem. Venetiis, Aldus, 1515, 8.Eaedem cum notis variorum. Lugduni Batav.,

1666, 8.Eaedem cum not. Jacobi Proust ad usum delph. Pa-

risiis, 1681, 4.Eaedem cum not. Joannis Frider. et Jacobi Grono-

vii et aliorum. Lugd. Bat. 1706, 4.

370

La stessa tradotta da Gio. Domenico Tarsia. Vene-zia, 1547, 8.

La stessa tradotta da Santi Conti. Roma, 1634, 12.Frontini Sex. Julii de Aquaeductibus urbis Romae Libri duo.

Florentiae, 1513, 8.

Iidem cum adnotationibus Joannis Poleni. Patavii,Manfrè, 1722, 4.

Stratagematicon libri IV cum not. Sam. Tennullii.Lugd. Bat., 1675, 12.

Iidem cum var. not., edit. Franc. Oudendorpio. ib.,Luchtmans, 1735, 9.

Gli Stratagemmi militari. Venezia, 1574, 4.De limitibus Agrorum, V. Scriptores rei agrariae.

Gellii Auli Noctes Atticae. Romae, Sweynheim et Pannartz,1499, fol.

Eaedem. Venetiis, Jenson. 1471, fol.Eaedam. Florentiae, Junta, 1513. 8.Eaedem. Venetiis, Aldus, 1515, 8.Eaedem cum notis variorum. Lugduni Batav.,

1666, 8.Eaedem cum not. Jacobi Proust ad usum delph. Pa-

risiis, 1681, 4.Eaedem cum not. Joannis Frider. et Jacobi Grono-

vii et aliorum. Lugd. Bat. 1706, 4.

370

Germanici Caesaris Opera quae extant graeca et latina eum var.not., editore Joanne Conrado Schwartz. Coburgii, 1715, 8.

Justini ex Trogo Pompejo Historiae. Venetiis, Jenson, 1470, fol.

Eaedem. Romae, Udalr. Gallus, circa il 1470, fol.Eaedem. Ibid., Sweynh. et Pannartz, 1472, fol.Eaedem. Venetiis, Aldus, 1522, 8.Eaedem cum not. Jos. Cantelli S. J. ad usum delph.

Paris., 177, 4.Eaedem cum notis variorum. Londini, Horton,

1686, 8.Eaedem. Oxonii, Thaatr. Sheldon., 1705, 8.Eaedem cum var. not., edit. Thoma Hearne, Ludg.

Bat., 1719, 8.Le stesse tradotte da Tommaso Porcacchi. Ven.,

Giolito, 1545, 4.Les mêmes traduites par l'Abbé Favier. Paris, 1737,

12, 2 vol.Juvenalis D. et Persii A. Satyrae. Romae, Udalr. Gallus, sine

anno, 4.

Eaedem. Venetiis, Aldus, 1501, 8.Eaedem. Florentiae, Junta, 1513.Eaedem cum Th. Farnabii annotationibus. Amst.,

Jansonius, 1642, 12.Eaedem. Parisiis, Typ. regia, 1644, fol.

371

Germanici Caesaris Opera quae extant graeca et latina eum var.not., editore Joanne Conrado Schwartz. Coburgii, 1715, 8.

Justini ex Trogo Pompejo Historiae. Venetiis, Jenson, 1470, fol.

Eaedem. Romae, Udalr. Gallus, circa il 1470, fol.Eaedem. Ibid., Sweynh. et Pannartz, 1472, fol.Eaedem. Venetiis, Aldus, 1522, 8.Eaedem cum not. Jos. Cantelli S. J. ad usum delph.

Paris., 177, 4.Eaedem cum notis variorum. Londini, Horton,

1686, 8.Eaedem. Oxonii, Thaatr. Sheldon., 1705, 8.Eaedem cum var. not., edit. Thoma Hearne, Ludg.

Bat., 1719, 8.Le stesse tradotte da Tommaso Porcacchi. Ven.,

Giolito, 1545, 4.Les mêmes traduites par l'Abbé Favier. Paris, 1737,

12, 2 vol.Juvenalis D. et Persii A. Satyrae. Romae, Udalr. Gallus, sine

anno, 4.

Eaedem. Venetiis, Aldus, 1501, 8.Eaedem. Florentiae, Junta, 1513.Eaedem cum Th. Farnabii annotationibus. Amst.,

Jansonius, 1642, 12.Eaedem. Parisiis, Typ. regia, 1644, fol.

371

Eaedem cum interpr., et not. Ludov. Orataei adusum delph. Paris, 1684, 4.

Eaedem cum notis variorum. Amstelodami, 1684,8.

Eaedem cum not. var., edit. Merico Casaubono.Lugd. Bat., 1691, 4.

Eaedem cum interpr. et notis Jos. Juvencii S. J. Ro-thomagi, 1697. 12.

Eaedem. Parisiis, 1747, 12.Eaedem. Birminghamiae, 1761, 4.Le Satire di Giovenale trad. da Giorgio Sommari-

va. Trevigi, 1480, fol.Le Satire di Giovenale e di Persio trad. dal co.

Cammillo Silvestri. Padova, 1755, 4,Les mêmes traduites par le P. Tarteron Jesuite. Pa-

ris, 1729, 8.Lactantii L. Coelii Institutionum divinarum libri. In Monast.

sublacensi, 1465, fol.

Iidem. Romae, Sweynheim et Pannartz, 1468, fol.Iidem. Florentiae, Junta, 1513, 8.Iidem. Venetiis, Aldus, 1515, 8.Opera quae extant, cum not. var. Lugd. Batav.

1560, 8.Eadem cum Comment. Th. Sparck. Oxonii, Theatr.

372

Eaedem cum interpr., et not. Ludov. Orataei adusum delph. Paris, 1684, 4.

Eaedem cum notis variorum. Amstelodami, 1684,8.

Eaedem cum not. var., edit. Merico Casaubono.Lugd. Bat., 1691, 4.

Eaedem cum interpr. et notis Jos. Juvencii S. J. Ro-thomagi, 1697. 12.

Eaedem. Parisiis, 1747, 12.Eaedem. Birminghamiae, 1761, 4.Le Satire di Giovenale trad. da Giorgio Sommari-

va. Trevigi, 1480, fol.Le Satire di Giovenale e di Persio trad. dal co.

Cammillo Silvestri. Padova, 1755, 4,Les mêmes traduites par le P. Tarteron Jesuite. Pa-

ris, 1729, 8.Lactantii L. Coelii Institutionum divinarum libri. In Monast.

sublacensi, 1465, fol.

Iidem. Romae, Sweynheim et Pannartz, 1468, fol.Iidem. Florentiae, Junta, 1513, 8.Iidem. Venetiis, Aldus, 1515, 8.Opera quae extant, cum not. var. Lugd. Batav.

1560, 8.Eadem cum Comment. Th. Sparck. Oxonii, Theatr.

372

Sheldon., 1684, 8. Eadem cum var. not., edit. Joan. Lodulpho Bune-

mann. Lipsiae, 1739. Eadem cum notis, ec. Jou Bapt. Le Prun et Nicolai

Lenglet de Fresnov. Parisiis, De Bure, 1748, 4, 2vol.

Eadem cum notis et dissertationibus praeviisEduardi a S. Xaverio. Romae, 1754, 8, 14 vol.

S. Leonis Magni Pont. Rom. Sermones. Romae, Sweynheim etPannartz, 1470, fol.

Opera. Parisiis, Morellus, 1613, fol.Eadem a Canonicis reg. S. Martini lovaniens.

emendata. Lovanii, 1575, 8. Eadem cum notis et dissertationibns Paschasii

Quesnelli. Lugduni, Certe, 1700, fol., 2 vol.Eadem cum dissertationibus, ec. edita a Hieronymo

et Petro fratribus Balleriniis. Venetiis, Occhi,1752, fol. 3 vol.

Eadem cum not. Th. Cacciari Carmelitae. Romae,1753, fol., 2 vol.

Lucani M. Annaei Pharsalia. Romae, Sweynheim et Pannactz,1469, fol.

Eadem. Venetiis, Aldus, 1502, 8.Eadem cum notis Hugonis Grotii, ec. Offic. plan-

tin., 1614, 8.

373

Sheldon., 1684, 8. Eadem cum var. not., edit. Joan. Lodulpho Bune-

mann. Lipsiae, 1739. Eadem cum notis, ec. Jou Bapt. Le Prun et Nicolai

Lenglet de Fresnov. Parisiis, De Bure, 1748, 4, 2vol.

Eadem cum notis et dissertationibus praeviisEduardi a S. Xaverio. Romae, 1754, 8, 14 vol.

S. Leonis Magni Pont. Rom. Sermones. Romae, Sweynheim etPannartz, 1470, fol.

Opera. Parisiis, Morellus, 1613, fol.Eadem a Canonicis reg. S. Martini lovaniens.

emendata. Lovanii, 1575, 8. Eadem cum notis et dissertationibns Paschasii

Quesnelli. Lugduni, Certe, 1700, fol., 2 vol.Eadem cum dissertationibus, ec. edita a Hieronymo

et Petro fratribus Balleriniis. Venetiis, Occhi,1752, fol. 3 vol.

Eadem cum not. Th. Cacciari Carmelitae. Romae,1753, fol., 2 vol.

Lucani M. Annaei Pharsalia. Romae, Sweynheim et Pannactz,1469, fol.

Eadem. Venetiis, Aldus, 1502, 8.Eadem cum notis Hugonis Grotii, ec. Offic. plan-

tin., 1614, 8.

373

Eadem cum not. var., edit. Corn. Schrevelio. Lugd.Bat. 1669, 8.

Eadem cum var. not., edit. Franc. Oudendorpio.Lugd. Batavorum, 1738, 4.

Eadem cum Comment. Petr. Bulinarmi. Leydae,1740, 4.

Eadem cum not. Hug. Grotii, et Rich. Bentleii.Strawberry. Hill, 1760, 4.

La stessa tradotta in ital. dal card. L. di Montichiel-lo. Milano, 1492, 4.

La stessa tradotta in ottava rima da Gabrielle MariaMelonceIli barnabita, Roma, 1707, 4.

La même traduite par M. Marmontel. Paris, 1766,8, 2 vol.

Macrobii Aurelii Theodosii de Somnio Scipionis, et Saturnaliumlibri. Venetiis, Jenson, 1473, fol.

Iidem. Florentiae, Juncta, 1515, 8.Iidem cum not. Jo. Isaaci Pontani et Jo. Meursii

Lugd. Bat., Plantinus, 1597, 8.Iidem cum Pontani, Meursii, et Jac. Gronovii notis.

Londini. 1694, 8. Martiani Capellae Opus de nuptiis Philologiae et Mercurii.

Mutinae, Berthocus, 1500, fol.

Idem cum notis Hug. Grotii, Lugd. Bat., Offic.plantin., 1590,8,

374

Eadem cum not. var., edit. Corn. Schrevelio. Lugd.Bat. 1669, 8.

Eadem cum var. not., edit. Franc. Oudendorpio.Lugd. Batavorum, 1738, 4.

Eadem cum Comment. Petr. Bulinarmi. Leydae,1740, 4.

Eadem cum not. Hug. Grotii, et Rich. Bentleii.Strawberry. Hill, 1760, 4.

La stessa tradotta in ital. dal card. L. di Montichiel-lo. Milano, 1492, 4.

La stessa tradotta in ottava rima da Gabrielle MariaMelonceIli barnabita, Roma, 1707, 4.

La même traduite par M. Marmontel. Paris, 1766,8, 2 vol.

Macrobii Aurelii Theodosii de Somnio Scipionis, et Saturnaliumlibri. Venetiis, Jenson, 1473, fol.

Iidem. Florentiae, Juncta, 1515, 8.Iidem cum not. Jo. Isaaci Pontani et Jo. Meursii

Lugd. Bat., Plantinus, 1597, 8.Iidem cum Pontani, Meursii, et Jac. Gronovii notis.

Londini. 1694, 8. Martiani Capellae Opus de nuptiis Philologiae et Mercurii.

Mutinae, Berthocus, 1500, fol.

Idem cum notis Hug. Grotii, Lugd. Bat., Offic.plantin., 1590,8,

374

Lo stesso trad. da Alfonso Buonacciuoli. Mantova,Osanna, 1578, 8.

Martialis M. Valerii Epigrammata. Ven., Vendelinus de Spira,sine anni nota, 4.

Eadem. Romae, Sweynheim et Pannartz, 1473, fol.Eadem. Venetiis, Aldus, 1501, 8.Eadem cum Comment. Laurentii Ramirez de Pra-

do. Parisiis, Morellus, 1607, fol.Eadem cum Comment. Matthei Raderi S. J. Ingol-

stadii, 1602, fol.Eadem cum Comment. doctor. virorum. Parisiis,

Sonnius, fol.Eadem cum notis Farnabii et variorum. Lugd. Ba-

tav., 1670, 8.Eadem cum paraphrasi et notis Vincentii Colesso-

nis ad usum delph. Parisiis, 1680, 4.Eadem cum ejusdem notis, additis numismatibus,

ec. per Ludovicum Smids, Amstelodami, Gallet,1701, 8.

Eadem. Parisiis, Barbou, 1754, 12, 2 vol.Melae Pomponii de sito Orbis libri tres. Mediolani, 1471, 4.

Iidem cum Solino, ec. Venetiis, Aldus, 1518, 8.Iidem cum Comment. Joach. Vadiani, ec. Basileae,

Cratander, 1522, fol.

375

Lo stesso trad. da Alfonso Buonacciuoli. Mantova,Osanna, 1578, 8.

Martialis M. Valerii Epigrammata. Ven., Vendelinus de Spira,sine anni nota, 4.

Eadem. Romae, Sweynheim et Pannartz, 1473, fol.Eadem. Venetiis, Aldus, 1501, 8.Eadem cum Comment. Laurentii Ramirez de Pra-

do. Parisiis, Morellus, 1607, fol.Eadem cum Comment. Matthei Raderi S. J. Ingol-

stadii, 1602, fol.Eadem cum Comment. doctor. virorum. Parisiis,

Sonnius, fol.Eadem cum notis Farnabii et variorum. Lugd. Ba-

tav., 1670, 8.Eadem cum paraphrasi et notis Vincentii Colesso-

nis ad usum delph. Parisiis, 1680, 4.Eadem cum ejusdem notis, additis numismatibus,

ec. per Ludovicum Smids, Amstelodami, Gallet,1701, 8.

Eadem. Parisiis, Barbou, 1754, 12, 2 vol.Melae Pomponii de sito Orbis libri tres. Mediolani, 1471, 4.

Iidem cum Solino, ec. Venetiis, Aldus, 1518, 8.Iidem cum Comment. Joach. Vadiani, ec. Basileae,

Cratander, 1522, fol.

375

Iidem cum not. var., edit. Abr. Gronovio. Lugd.Bat., 1722, 8.

Gli stessi tradotti da Tommaso Porcacchi. Ven.,Giolito, 1557, 8.

Minucii Felicis Octavius cum notis variorum. Accedit JuliusFirmicus de errore prophan. Religionum. Lugd. Batav. 1672, 8.

Idem cum notis Joannis Davisii. Cantabrigiae.Owenus, 1708.

Idem cum not. var., edit. Jacobo Gronovio. Lugd.Bat., 1709, 8.

Lo stesso tradotto e con annotazioni illustrato da D.Marco Poleti C. R. S. Venezia, 1756, 8.

Nemesiani, V. Calpurnii.Nonii Marcelli, V. Auctores lat. linguae.Obsequentis Julii de Prodigiis libri tres cum not. Joan. Schefferi,

et supplementis Conr. Licosthenis, edit. Frane. Oudendorpio.Lugd. Bat., Luchtmans, 1720, 8.

Gli stessi tradotti da Domenico Maraffi. Lione,Tournes, 1554, 8.

Palladii, V. Scriptores rei rusticae.

Lo stesso tradotto da Francesco Sansovino. Vene-zia, 1565, 4.

Paterculi C. Velleii Historia romana. Venetiis, Manutius, 1511, 8.

Eadem cum not. Gerardi Vossii. Lugd. Bat. Offic.elzevir., 1639, 12.

376

Iidem cum not. var., edit. Abr. Gronovio. Lugd.Bat., 1722, 8.

Gli stessi tradotti da Tommaso Porcacchi. Ven.,Giolito, 1557, 8.

Minucii Felicis Octavius cum notis variorum. Accedit JuliusFirmicus de errore prophan. Religionum. Lugd. Batav. 1672, 8.

Idem cum notis Joannis Davisii. Cantabrigiae.Owenus, 1708.

Idem cum not. var., edit. Jacobo Gronovio. Lugd.Bat., 1709, 8.

Lo stesso tradotto e con annotazioni illustrato da D.Marco Poleti C. R. S. Venezia, 1756, 8.

Nemesiani, V. Calpurnii.Nonii Marcelli, V. Auctores lat. linguae.Obsequentis Julii de Prodigiis libri tres cum not. Joan. Schefferi,

et supplementis Conr. Licosthenis, edit. Frane. Oudendorpio.Lugd. Bat., Luchtmans, 1720, 8.

Gli stessi tradotti da Domenico Maraffi. Lione,Tournes, 1554, 8.

Palladii, V. Scriptores rei rusticae.

Lo stesso tradotto da Francesco Sansovino. Vene-zia, 1565, 4.

Paterculi C. Velleii Historia romana. Venetiis, Manutius, 1511, 8.

Eadem cum not. Gerardi Vossii. Lugd. Bat. Offic.elzevir., 1639, 12.

376

Eadem cum interpr. et not. Rob. Riguez ad usumdelph. Parisiis, 1675, 4.

Eadem cum not, var., edit. Petro Burmanno. Lugd.Bat., 1744, 8.

S. Paullini Pontii Meropii Nolani Episcopi Epistolae et Poemata.Parisiis, Ascensius, 1516, 8.

Eadem emendata et aucta cum not. var. Parisiis,1685, 4.

Eadem auctiora, ec. Veronae, 1702, fol.Le stesse tradotte dal p. d. Gianstefano Remondini

somasco (Nel II tomo della Storia Ecclesiast. diNola.)

Persii, V. Juvenalis.Petronii T. Arbitri Satyricon. Venetiis, de Vitalibus, 1499, 4.

Idem cum not. var., edit. Jo. Petro Lotichio. Fran-cof., 1629, 4.

Idem cum var. not., edit. Petro Burmanno. Trajectiad Rhenum, 1709, 4.

Idem cum var. not., curis secundis ejusdem. Amst.1743, 4, 2 vol.

Le même latin et françois, suivant le manuscrittrouvé à Belgrado en 1688. 1713, 8, 2 vol.

S. Philastrii Opera (in Collect. PP. Brixiens. Eccl. ed. brixiens.)Plinii C. Secundi Historiae naturalis libri XXXVI. Ven. Jo. de

Spira, 1469, fol.

377

Eadem cum interpr. et not. Rob. Riguez ad usumdelph. Parisiis, 1675, 4.

Eadem cum not, var., edit. Petro Burmanno. Lugd.Bat., 1744, 8.

S. Paullini Pontii Meropii Nolani Episcopi Epistolae et Poemata.Parisiis, Ascensius, 1516, 8.

Eadem emendata et aucta cum not. var. Parisiis,1685, 4.

Eadem auctiora, ec. Veronae, 1702, fol.Le stesse tradotte dal p. d. Gianstefano Remondini

somasco (Nel II tomo della Storia Ecclesiast. diNola.)

Persii, V. Juvenalis.Petronii T. Arbitri Satyricon. Venetiis, de Vitalibus, 1499, 4.

Idem cum not. var., edit. Jo. Petro Lotichio. Fran-cof., 1629, 4.

Idem cum var. not., edit. Petro Burmanno. Trajectiad Rhenum, 1709, 4.

Idem cum var. not., curis secundis ejusdem. Amst.1743, 4, 2 vol.

Le même latin et françois, suivant le manuscrittrouvé à Belgrado en 1688. 1713, 8, 2 vol.

S. Philastrii Opera (in Collect. PP. Brixiens. Eccl. ed. brixiens.)Plinii C. Secundi Historiae naturalis libri XXXVI. Ven. Jo. de

Spira, 1469, fol.

377

Iidem, Romae, Sweynheim et Pannartz, 1470, fol.Iidem. Corallus, 1470, fol.Iidem. Venetiis, Jenson, 1472, fol.Iidem. Cum Hermolai Barbari annotationibus. Pa-

ris., de Pratis, 1514, fol.Iidem cum Sigism. Gelenii annotationibus. Basi-

leae, Frobenius. 1535, fol.Iidem. Venetiis, Aldus, 1536, 8, 3 vol.Iidem. Lugduni, Juntae, 1651, 16, 4 vol.Iidem. Lugduni Batav., Elzevirius, 1635, 12, 3 vol.Iidem cum not. Var., edit. Jo Frider. Gronovio. Ib.,

Hackius, 1669, 8, 3 vol.Iidem cum interpr. et not. Jo. Harduini S. J. ad

usum delph. Parisiis, 1685, 4, 5 vol.Editio altera. Ibid. 1723, fol., 3 vol.Rezzonici a Turre Antonii Josephi Disquisitiones

plinianae. Parmae; 1769, etc., fol., 3 vol.La Storia naturale di Plinio trad. da Cristof. Landi-

no, Venezia, Jenson, 1476, fol.La stessa tradotta da Antonio Braccioli. Venezia,

1534, 4.La stessa trad. da Lodov. Domenichi. Ven. Giolito,

1561, 4.

378

Iidem, Romae, Sweynheim et Pannartz, 1470, fol.Iidem. Corallus, 1470, fol.Iidem. Venetiis, Jenson, 1472, fol.Iidem. Cum Hermolai Barbari annotationibus. Pa-

ris., de Pratis, 1514, fol.Iidem cum Sigism. Gelenii annotationibus. Basi-

leae, Frobenius. 1535, fol.Iidem. Venetiis, Aldus, 1536, 8, 3 vol.Iidem. Lugduni, Juntae, 1651, 16, 4 vol.Iidem. Lugduni Batav., Elzevirius, 1635, 12, 3 vol.Iidem cum not. Var., edit. Jo Frider. Gronovio. Ib.,

Hackius, 1669, 8, 3 vol.Iidem cum interpr. et not. Jo. Harduini S. J. ad

usum delph. Parisiis, 1685, 4, 5 vol.Editio altera. Ibid. 1723, fol., 3 vol.Rezzonici a Turre Antonii Josephi Disquisitiones

plinianae. Parmae; 1769, etc., fol., 3 vol.La Storia naturale di Plinio trad. da Cristof. Landi-

no, Venezia, Jenson, 1476, fol.La stessa tradotta da Antonio Braccioli. Venezia,

1534, 4.La stessa trad. da Lodov. Domenichi. Ven. Giolito,

1561, 4.

378

L'Histoire naturelle traduite en François avec desremarques, etc. Paris, 1770, etc. 4, vol. 12.

Plinii G. Caecilii Secundi Epistolae, 1471, fol.

Eaedem cum Panegyrico Trajano Imp. Dicto, etc.Venetiis, Aldus, 1508, 8.

Eaedem cum Var. not., edit. Jo. Veenhusio. Lugd.Bat. 1669, 8.

Eaedem et Panegyricus cum rariis lectionibus etannotat., et Plinii. Vita per Jo. Masson. Oxonii,Theatr. Sheldon., 1703, 8.

Eaedem cum Var. not., editae a Gottlieb Cortio, etPaullo Daniele Longolio, Amstelodami, Jansso-nio-Vaesbergii, 1734, 4.

Panegyricus cum variorum notis. Ibid., 1738, 4.Le Lettere di Plinio trad. dal can. Gio. Antonio Te-

deschi. Roma Salvioni, 1717, 4.Les Lettres de Pline traduites par m. de Sacy. Paris,

1721, 12, 3 vol.Le Panégyrique à Trajan en latin et en François

avec des remarques par le comte Soardi deQuart. A' la Haye, 1726, fol.

Pompeii Festi et Verri Flacci de Verborum significatione libri XXcum interpr. et not. Andreae Dacerii ad usum delph. Parisiis,Roulland, 1681, 4.

Prisciani, V. Auctores lat. linguae.

379

L'Histoire naturelle traduite en François avec desremarques, etc. Paris, 1770, etc. 4, vol. 12.

Plinii G. Caecilii Secundi Epistolae, 1471, fol.

Eaedem cum Panegyrico Trajano Imp. Dicto, etc.Venetiis, Aldus, 1508, 8.

Eaedem cum Var. not., edit. Jo. Veenhusio. Lugd.Bat. 1669, 8.

Eaedem et Panegyricus cum rariis lectionibus etannotat., et Plinii. Vita per Jo. Masson. Oxonii,Theatr. Sheldon., 1703, 8.

Eaedem cum Var. not., editae a Gottlieb Cortio, etPaullo Daniele Longolio, Amstelodami, Jansso-nio-Vaesbergii, 1734, 4.

Panegyricus cum variorum notis. Ibid., 1738, 4.Le Lettere di Plinio trad. dal can. Gio. Antonio Te-

deschi. Roma Salvioni, 1717, 4.Les Lettres de Pline traduites par m. de Sacy. Paris,

1721, 12, 3 vol.Le Panégyrique à Trajan en latin et en François

avec des remarques par le comte Soardi deQuart. A' la Haye, 1726, fol.

Pompeii Festi et Verri Flacci de Verborum significatione libri XXcum interpr. et not. Andreae Dacerii ad usum delph. Parisiis,Roulland, 1681, 4.

Prisciani, V. Auctores lat. linguae.

379

Probi M. Valerii, V. Auctores lat. linguae.Quintiliani M. Fabii Institutiones oratoriae. Romae, in via Papae,

1470.

Eaedem. Ib., Sweynheim et Pannarti, fol.Eaedem. Venetiis, Jenson, 1471, fol.Eaedem. Venetiis, Aldus, 1714, 8.Eaedem et Declamationes, cum not. var. Lugd.

Bat., 1665, 8, 1 vol. Declamationes cum Dial. de causis corruptae Elo-

quentiae. Oxonii, Theatr. Sheldon., 1693, 8.Institutiones oratoriae cum variant. lectionibus, etc.

Ib., 1693, 4. Institutiones et Declamationes cum not. doctorum

virorum, edit. Petro Burmanno. Lugduni Batav.,1720. 4, 3 vol.

Institutiones oratoriae cum not. var. v edit. ClaudioCapperonerio. Parisiis, 1725. fol.

Eaedem cum Comment. Jo. Matthiae Gesneri. Got-tingae, 1738, 4.

Le stesse tradotte da Orazio Toscanella. Venezia,Giolito, 1556, 4.

Quintilien, de l'Institution de l'Orateur traduit parm. V ab. Gedoyn, Paris, 1718, 4.

Rufini Aquilejensis Presbyteri opera omnia edita a RenatoLaurentio de la Barre. Parisiis, Sonnius, 1580, fol.

380

Probi M. Valerii, V. Auctores lat. linguae.Quintiliani M. Fabii Institutiones oratoriae. Romae, in via Papae,

1470.

Eaedem. Ib., Sweynheim et Pannarti, fol.Eaedem. Venetiis, Jenson, 1471, fol.Eaedem. Venetiis, Aldus, 1714, 8.Eaedem et Declamationes, cum not. var. Lugd.

Bat., 1665, 8, 1 vol. Declamationes cum Dial. de causis corruptae Elo-

quentiae. Oxonii, Theatr. Sheldon., 1693, 8.Institutiones oratoriae cum variant. lectionibus, etc.

Ib., 1693, 4. Institutiones et Declamationes cum not. doctorum

virorum, edit. Petro Burmanno. Lugduni Batav.,1720. 4, 3 vol.

Institutiones oratoriae cum not. var. v edit. ClaudioCapperonerio. Parisiis, 1725. fol.

Eaedem cum Comment. Jo. Matthiae Gesneri. Got-tingae, 1738, 4.

Le stesse tradotte da Orazio Toscanella. Venezia,Giolito, 1556, 4.

Quintilien, de l'Institution de l'Orateur traduit parm. V ab. Gedoyn, Paris, 1718, 4.

Rufini Aquilejensis Presbyteri opera omnia edita a RenatoLaurentio de la Barre. Parisiis, Sonnius, 1580, fol.

380

Eadem a Dominico Vallarsio edita. Veronae, 1745,fol.

Rutilii Numatiani Itinerarium cum var. notis. Amstelodami, 1687,12,

V. etiam Poetae latini minores.Sammonici Q. Sereni de Medicina, V. Poetae latini minores.Senecae M. Annaei rhetoris Opera, quae extant, cum var. not.

Amst. Elzevirius, 1672, 8. V. etiam Senecae L. Annaei Opera.Senecae L. Annaei Opera. Neapoli, 1475, fol.

Eadem a Des. Erasmo emendata. Basileae, Frobe-nius, 1529. fol.

Eadem cum Gruteri, Jureti, etc. notis. Parisiis,Orry, 1598, fol.

Eadem a Justo Lipsio emendata et scholiis illustra-ta, cum Liberti Fromondi scholiis Antuerpiae,Offic. plantin., 1652, fol.

Eadem cura Jo. Frider. Gronovii et aliorum notis.Amst., Elzevirius, 1717, 8, 2 vol.

Volgarizzamento delle Pistole di Seneca ed il Trat-tato della Providenza di Dio. Firenze, 1717, 4.

De' Benefici, tradotto da Bened. Varchi. Firenze,1554, 4.

Dell'Ira libri tre, tradotti da Franc. Serdonati. Pado-va, 1569, 4.

Tragoediae cum Comment. Danielis Cajetani et

381

Eadem a Dominico Vallarsio edita. Veronae, 1745,fol.

Rutilii Numatiani Itinerarium cum var. notis. Amstelodami, 1687,12,

V. etiam Poetae latini minores.Sammonici Q. Sereni de Medicina, V. Poetae latini minores.Senecae M. Annaei rhetoris Opera, quae extant, cum var. not.

Amst. Elzevirius, 1672, 8. V. etiam Senecae L. Annaei Opera.Senecae L. Annaei Opera. Neapoli, 1475, fol.

Eadem a Des. Erasmo emendata. Basileae, Frobe-nius, 1529. fol.

Eadem cum Gruteri, Jureti, etc. notis. Parisiis,Orry, 1598, fol.

Eadem a Justo Lipsio emendata et scholiis illustra-ta, cum Liberti Fromondi scholiis Antuerpiae,Offic. plantin., 1652, fol.

Eadem cura Jo. Frider. Gronovii et aliorum notis.Amst., Elzevirius, 1717, 8, 2 vol.

Volgarizzamento delle Pistole di Seneca ed il Trat-tato della Providenza di Dio. Firenze, 1717, 4.

De' Benefici, tradotto da Bened. Varchi. Firenze,1554, 4.

Dell'Ira libri tre, tradotti da Franc. Serdonati. Pado-va, 1569, 4.

Tragoediae cum Comment. Danielis Cajetani et

381

Gellii Bernardini Marmitae. Venetiis, 1492, fol.Eaedem. Venetiis, Aldus, 1517, 8.Eaedem cum Jo. Frider. Gronovii et allorum notis.

Amst., 1682, 8. Eaedem cum var. not., edit. Jo. Casp. Schroedero.

Delphis, 1728, 4.Le stesse tradotte da Lodovico Dolce. Venezia,

Sessa, 1560, 4.Silii C. Italici de bello punico secundo libri XVII. Romae,

Sweynheim et Pannartz, 1471, fol.

Iidem. Venetiis, Aldus, 1523, 8.Iidem cum var. not., edit. Arnoldo Drakenborch.

Trajecti ad Rhenum, l7l7, 4.Iidem anglice redditi per Thomam Ross. Londini,

1665, fol.Gli stessi tradotti dal p. d. Massimiliano Buzzi bar-

nabita. (in Collect. Poetar. latin. Mediol. t. XX-XIV, XXXV, XXXVI.)

Solini C. Julii de Mirabilibus Mundi, Venetiis, Jenson, 1473, fol.

Idem emendatus ab Elia Vineto. Pictavii 1554, 4.Idem cum Cl. Salmasii exercitationibus plinianis in

eumdem. Travedi ad Rhenum, 1689, fol., 2 vol.Lo stesso tradotto in italiano dal co. Gianvinc. Bel-

prato. Venezia Giolito, 1557, 8.

382

Gellii Bernardini Marmitae. Venetiis, 1492, fol.Eaedem. Venetiis, Aldus, 1517, 8.Eaedem cum Jo. Frider. Gronovii et allorum notis.

Amst., 1682, 8. Eaedem cum var. not., edit. Jo. Casp. Schroedero.

Delphis, 1728, 4.Le stesse tradotte da Lodovico Dolce. Venezia,

Sessa, 1560, 4.Silii C. Italici de bello punico secundo libri XVII. Romae,

Sweynheim et Pannartz, 1471, fol.

Iidem. Venetiis, Aldus, 1523, 8.Iidem cum var. not., edit. Arnoldo Drakenborch.

Trajecti ad Rhenum, l7l7, 4.Iidem anglice redditi per Thomam Ross. Londini,

1665, fol.Gli stessi tradotti dal p. d. Massimiliano Buzzi bar-

nabita. (in Collect. Poetar. latin. Mediol. t. XX-XIV, XXXV, XXXVI.)

Solini C. Julii de Mirabilibus Mundi, Venetiis, Jenson, 1473, fol.

Idem emendatus ab Elia Vineto. Pictavii 1554, 4.Idem cum Cl. Salmasii exercitationibus plinianis in

eumdem. Travedi ad Rhenum, 1689, fol., 2 vol.Lo stesso tradotto in italiano dal co. Gianvinc. Bel-

prato. Venezia Giolito, 1557, 8.

382

Spartiani, V. Historiae Augustae Script.Statii P. Papinii Opera. Romae, 1475, fol.

Eadem. Venetiis, Aldus, 1502, 8.Eadem cum var. not., edit. Joanne a Veenhusen.

Lugd. Bat. 1671, 8.Eadem cum paraphrasi et notis Claudii Beraldi ad

usum delph. Parisiis, 1685, 4.La Tebaide in versi sciolti da Selvaggio Porpora.

Roma, Salvioni, 1729, 4. Svetonii C. Tranquilli XII Caesares. Romae, Sweynheim et

Pannartz, 1470, fol.

Iidem. Venetiis, Jenson, 1471, fol.Iidem. Florentiae, Junta, 1519, 8.Opera omnia. Parisiis, Typ. regia, 1644, fol.Eadem cum interpr. et not. August. Babelonii ad

usum delph. Parisiis, 1684, 4.Eadem cum Caroli Patini et aliorum notis. Trajecti

ad Rhenum, 1703, 4 Eadem cum Sam. Pitisci Commentario. Leovar-

diae, 1714, 4, 2 vol. Eadem cum var. not., editore Petro Burmanno.

Amstelodami, Janssonio Waesbergii, 1736, 4, 2vol.

Eadem cum var. not. ex recens. Franc. Oudendor-

383

Spartiani, V. Historiae Augustae Script.Statii P. Papinii Opera. Romae, 1475, fol.

Eadem. Venetiis, Aldus, 1502, 8.Eadem cum var. not., edit. Joanne a Veenhusen.

Lugd. Bat. 1671, 8.Eadem cum paraphrasi et notis Claudii Beraldi ad

usum delph. Parisiis, 1685, 4.La Tebaide in versi sciolti da Selvaggio Porpora.

Roma, Salvioni, 1729, 4. Svetonii C. Tranquilli XII Caesares. Romae, Sweynheim et

Pannartz, 1470, fol.

Iidem. Venetiis, Jenson, 1471, fol.Iidem. Florentiae, Junta, 1519, 8.Opera omnia. Parisiis, Typ. regia, 1644, fol.Eadem cum interpr. et not. August. Babelonii ad

usum delph. Parisiis, 1684, 4.Eadem cum Caroli Patini et aliorum notis. Trajecti

ad Rhenum, 1703, 4 Eadem cum Sam. Pitisci Commentario. Leovar-

diae, 1714, 4, 2 vol. Eadem cum var. not., editore Petro Burmanno.

Amstelodami, Janssonio Waesbergii, 1736, 4, 2vol.

Eadem cum var. not. ex recens. Franc. Oudendor-

383

pii. Lugd. Bat., 1751, 8. 2 vol.Le vite de' Cesari tradotte da Paolo del Rosso.

Roma, 1544, 8.Symmachi Q. Aurelii Epistolae cum Jac. Lectii et Frane. Jureti

notis. Apud Vignon, 1597, 8.

Eaedem cum notis Gasp. Scioppii. Moguntiae, Al-binus, 1608, 4.

Eaedem. Lugduni Batav., 1653, 12.Le stesse tradotte dal can. Gio. Antonio Tedeschi.

Roma, 1724, 4.Taciti C. Cornelii Annales, Venetiis, Jo. de Spira, 1468. fol.

Historiae. Romae, 1495, fol.Eadem. Venetiis, Aldus, 1524, 4.Eadem. Basileae, Frobenius, 1533, fol.Eadem cum Justi Lipsii commentario. Antuerp.,

Offic. plantin.. 1607, fol.Eadem cum notis doctorum virorum. Parisiis, Che-

valier, 1608, fol.Eadem cum not. var., edit. Jo. Freder. Gronovio,

Amstelodami, 1672, 8, 2 vol.Eadem cum interpr. et notis Juliani Pichon in usum

delph. Parisiis, 1682, etc., 4, 4 vol.Eadem cum var. not., edit. Jac. Gronovio. Trajecti,

1725, 4, 2 vol.

384

pii. Lugd. Bat., 1751, 8. 2 vol.Le vite de' Cesari tradotte da Paolo del Rosso.

Roma, 1544, 8.Symmachi Q. Aurelii Epistolae cum Jac. Lectii et Frane. Jureti

notis. Apud Vignon, 1597, 8.

Eaedem cum notis Gasp. Scioppii. Moguntiae, Al-binus, 1608, 4.

Eaedem. Lugduni Batav., 1653, 12.Le stesse tradotte dal can. Gio. Antonio Tedeschi.

Roma, 1724, 4.Taciti C. Cornelii Annales, Venetiis, Jo. de Spira, 1468. fol.

Historiae. Romae, 1495, fol.Eadem. Venetiis, Aldus, 1524, 4.Eadem. Basileae, Frobenius, 1533, fol.Eadem cum Justi Lipsii commentario. Antuerp.,

Offic. plantin.. 1607, fol.Eadem cum notis doctorum virorum. Parisiis, Che-

valier, 1608, fol.Eadem cum not. var., edit. Jo. Freder. Gronovio,

Amstelodami, 1672, 8, 2 vol.Eadem cum interpr. et notis Juliani Pichon in usum

delph. Parisiis, 1682, etc., 4, 4 vol.Eadem cum var. not., edit. Jac. Gronovio. Trajecti,

1725, 4, 2 vol.

384

Eadem. Glasguae, 1743, 8, 2 vol.Eadem recognovit, emendavit, supplementis exple-

vit, notis, dissertationibus, et tabulis geographi-cis illustravit Gab. Brotier. Parisiis, 177I, 4, 4vol.

Le stesse tradotte da Bernardo Bostichi Davanzati.Firenze, 1637, fol.

Le stesse. Padova, Comino, 1755, 4, 2 vol.Le stesse. Parigi, 1760, 12, 2 vol.Tacite avec des notes politiques et historiques par

Amelot de la Houssaye. A' la Haye, 1716, 12, 4vol.

Valerii C. Flacci Argonauticon libri VIII. Bononiae, 1478, fol.

Iidem cum additionibus Pii Bononiensis. Bononiae,1529, fol.

Iidem. Venetiis, Aldus, 1513, 8.Iidem cum var. not., edit. Petro Burmanno. Leidae.

1724, 4.Gli stessi trad. dal p. d. Massimil. Buzzi barnabita.

Milano, 1746, 4, 2 vol.Valerii Maximi Dictorum et Factorum Memorabilium libri IX.

Moguntiae, Schoiffer, 1471, fol.

Iidem. Venetiis, Vendelinus de Spira, 1471, fol.Iidem. Ibid., Aldus, 1514.

385

Eadem. Glasguae, 1743, 8, 2 vol.Eadem recognovit, emendavit, supplementis exple-

vit, notis, dissertationibus, et tabulis geographi-cis illustravit Gab. Brotier. Parisiis, 177I, 4, 4vol.

Le stesse tradotte da Bernardo Bostichi Davanzati.Firenze, 1637, fol.

Le stesse. Padova, Comino, 1755, 4, 2 vol.Le stesse. Parigi, 1760, 12, 2 vol.Tacite avec des notes politiques et historiques par

Amelot de la Houssaye. A' la Haye, 1716, 12, 4vol.

Valerii C. Flacci Argonauticon libri VIII. Bononiae, 1478, fol.

Iidem cum additionibus Pii Bononiensis. Bononiae,1529, fol.

Iidem. Venetiis, Aldus, 1513, 8.Iidem cum var. not., edit. Petro Burmanno. Leidae.

1724, 4.Gli stessi trad. dal p. d. Massimil. Buzzi barnabita.

Milano, 1746, 4, 2 vol.Valerii Maximi Dictorum et Factorum Memorabilium libri IX.

Moguntiae, Schoiffer, 1471, fol.

Iidem. Venetiis, Vendelinus de Spira, 1471, fol.Iidem. Ibid., Aldus, 1514.

385

Iidem. Parisiis, Rob. Stephanus, 1545, 8.Iidem cum not. Petri Josephi Cantelli S. J. ad usum

delph. Paris., 1679, 4. Iidem cum var. not., editore Ant. Thysio. Lugd.

Bat., 1670, 8.Iidem cum var. not., edit. Abr. Torrentio. Leidae,

Luchtmans, 1726, 4. Gli stessi tradotti da Giorgio Dati. Roma, 1539,

Vegetii Flavii Renati de Re Militari libri IV. Romae, 1478, 4. V.Veteres de re militari Script.

Velleii C. Paterculi, V. Parterculi.Victoris Sexti Aurelii Breviarium Historiae romanae, de

Caesaribus, etc. cum not. Eliae Vineti et Andreae Schotti.Antuerpiae, Offic. plantin., 1579, 8.

Idem cum interpr. et not. Annae Tanaquilli Fabri fi-liae ad usum delph. Parisiis, 1684, 4

Idem cum not. var., edit. Samuele Pitisico. Trajectiad Rhenum, 1696, 8.

Idem cum not. var., edit. Jo. Aratzenio. Amsteloda-mi, Janssonio-Waes-bergi, 1733, 4.

S. Zenonis Episcopi veronensis Sermones. Veronae, Discipulus,1586, 4.

Iidem a Petro et Hieronymo fratribus Balleriniisediti. Veronae, 1739, fol.

386

Iidem. Parisiis, Rob. Stephanus, 1545, 8.Iidem cum not. Petri Josephi Cantelli S. J. ad usum

delph. Paris., 1679, 4. Iidem cum var. not., editore Ant. Thysio. Lugd.

Bat., 1670, 8.Iidem cum var. not., edit. Abr. Torrentio. Leidae,

Luchtmans, 1726, 4. Gli stessi tradotti da Giorgio Dati. Roma, 1539,

Vegetii Flavii Renati de Re Militari libri IV. Romae, 1478, 4. V.Veteres de re militari Script.

Velleii C. Paterculi, V. Parterculi.Victoris Sexti Aurelii Breviarium Historiae romanae, de

Caesaribus, etc. cum not. Eliae Vineti et Andreae Schotti.Antuerpiae, Offic. plantin., 1579, 8.

Idem cum interpr. et not. Annae Tanaquilli Fabri fi-liae ad usum delph. Parisiis, 1684, 4

Idem cum not. var., edit. Samuele Pitisico. Trajectiad Rhenum, 1696, 8.

Idem cum not. var., edit. Jo. Aratzenio. Amsteloda-mi, Janssonio-Waes-bergi, 1733, 4.

S. Zenonis Episcopi veronensis Sermones. Veronae, Discipulus,1586, 4.

Iidem a Petro et Hieronymo fratribus Balleriniisediti. Veronae, 1739, fol.

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