Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai...

72
1

Transcript of Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai...

Page 1: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

1

Page 2: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

East Journal è una testata registrata presso il Tribunale di Torino, n° 4351/11, del 27 giugno 2011. Direttore responsabile Matteo Zola. Caporedattori centrali Gabriele Merlini (Firenze), Filip Stefanovi (Milano), Gaetano Veninata (Roma). ć Redazione Silvia Biasutti (Udine), Davide Denti (Bruxelles), Massimiliano Ferraro (Torino), Claudia Leporatti, (Budapest), Silvia Padrini (Torino), Pietro Acquistapace (Londra). Collaboratori: Aron Coceancig (Budapest), Giorgio Fruscione, (Jajce) Alessandro Mazzaro (Salerno), Valentina Di Cesare (Pescara), Gabriella Cioce (Siena), Murat Cinar (Torino), Clara Mitola (Bucarest), Damiano Benzoni (Bucarest), Eitan Yao (Firenze), Geri Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca), Jasmina Tesanovic (Los Angeles), Christian Eccher (Novi Sad), Vittorio Filippi (Venezia), Giovanni Catelli (Praga), Giuseppe Mancini(Istanbul) Nume tutelare Petrica Kerempuh con le sue ballate Indirizzo [email protected] i contenuti sono concessi con licenza creative commons, citando autore e fonte.

Foto di copertina: Bolucevschi

EaST Journal - Magazine

chiuso in redazione il 15 marzo 2012

2

Page 3: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

INDICE

#1 – Studies

«Hier ist kein warum» Quando il mito della guerra è un elogio allo sterminio pag. 4

di Emanuela Mercuri

#2 – Bosnia

Identità in guerra: sedici anni fa in Bosnia pag. 14

di Emanuela Mercuri

Un referendum per la secessione dei serbi di Bosnia pag. 17

di Valentina Di Cesare

Architettura, memoria e identità. Il caso bosniaco pag. 19

di Matteo Zola

#3 – Energia

Gazpromenade, ovvero come si conquista l'Europa pag. 23

di Matteo Zola

Ex Urss, il regno dei mercanti dell’apocalisse pag. 27

di Massimiliano Ferraro

Cipro, va in scena la guerra del gas pag. 33

di Matteo Zola

Mafia atomica, cosa c'è dietro la costruzione della centrale di Belene pag. 36

di Matteo Zola

#4 – Elezioni in Russia

L’arrocco di Putin, tra modernizastya e restaurazione pag. 41

di Matteo Zola

Le “confidenze” di Putin dopo la vittoria elettorale pag. 45

di Giovanni Bensi

3

Page 4: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

#5 – Dossier Romania

La Romania di Ceausescu e i giorni della rivoluzione romena pag. 50

di Mauro Proni

Mineriada: 13-15 giugno 1990. Realtà di un potere neocomunista pag.58

di Mihnea Berindei, Ariadna Combes, Anne Planche

Traduzione di Clara Mitola

Pia a Universit ii, dove la Romania si specchia.ț ăț pag. 63Dalla rivoluzione del 1989 alla rivolta degli indignati del 2012

di Damiano Benzoni

A est di Bucarest, un'esegesi tragicomica della rivoluzione romena pag. 70

di Silvia Biasutti

4

Page 5: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

5

Page 6: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

«Hier ist kein warum1» Quando il mito della guerra è un elogio allo sterminiodi Emanuela Mercuri

La guerra non è solo un evento infausto che deterge la normalità dell’uomo, sostituendola con l’abisso della paura ma è anche uno degli elementi costituenti delle Istituzioni. Da Hegel si apprende che come «Il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole2», cosi la guerra preserva i popoli dalla stagnazione di una pace perenne. Al contrario del connazionale Immanuel Kant che in Zum ewigen Frieden suggeriva alcuni articoli preliminari e definitivi al fine della costruzione e del mantenimento della pace perpetua, Hegel dichiara che non esiste alcun organismo superiore capace di regolare né i rapporti tra stati, né di risolvere i conflitti. L’unico giudice è Madama Storia e questa ci ha insegnato che un secolo dopo, non solo gli stati hanno eletto loro arbitro un organismo sovranazionale, ma che tuttavia hanno tentato di interdire la guerra tra le mura del Tribunale Militare Internazionale di Norimberga. Tralasciando le giuste critiche al paradigma giuridico e politico di Norimberga, sorge spontaneo esclamare «Eureka» e sostenere la virtù di Kant piuttosto che le osservazioni di Hegel. È vero che è stato creato un sistema sovranazionale, tuttavia è pur vero, che quando Kant sostiene:«Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo del tutto cessare» e «Nessuno stato deve interferire con la forza nella costituzione e nel governo di un altro stato3», lascia il monopolio della ragione alla Storia di Hegel, un divenire storico razionale nel quale i protagonisti sono i popoli stessi come espressione reale di uno Spirito che si oggettivizza e di uno stato che è plasmato dalla guerra. È doveroso contestualizzare le opere dei grandi filosofi e comprendere i sentimenti che in particolari situazioni hanno spinto gli occhi degli uomini dotti a guardare oltre, specialmente quando parliamo di guerra. Ebbene, Kant scrive Per la pace perpetua nel 1795, l’opera di Hegel è stata pubblicata nel 1831, postuma. Ambedue hanno osservato gli sconvolgimenti della vicina Francia4 e la guerra della Prima Coalizione contro la stessa tra il 1792 e il 17975. Il 1795 è caratterizzato dal Trattato di pace di Basel, tra Prussia e Francia, seguiti, poi, dalla Spagna, ma anche dall’assedio francese di Magonza (Palatinato) e della conquista di Mannheim (Baden). Hegel, dal canto suo considerava la Rivoluzione Francese come l’introduzione della libertà politica individuale e solo dopo la recrudescenza della violenza, si può ipotizzare, alla luce del progresso della storia, uno Stato Costituzionale di liberi cittadini. La necessità di comprendere quel particolare periodo storico, al fine dell’analisi, ruota intorno a quello che lo storico britannico John Horne6 (2002) ha definito il modello del popolo in armi che ha concepito una politicizzazione della guerra: la dottrina della Sovranità nazionale recluta ogni cittadino in una leva di massa che sconvolge la propria identità e persino quella del nemico. La guerra è un evento sociale, politico e religioso

1 «Qui non c’è un perché» in Levi Primo,(1958), Se questo è un uomo, Torino, Einaudi.2 Friedrich Hegel, (2010), Lezioni sulla filosofia della storia, Bari – Roma, Laterza. 3 Immanuel Kant, (2005), Per la pace perpetua, Roma, Editori Riuniti. 4 La Rivoluzione Francese o Prima Rivoluzione Francese, distinguendola dalla Rivoluzione Francese del 1848, fu un periodo di grande sconvolgimento politico e sociale intercorso tra il 1789 e il 1799. 5 La Prima Coalizione vedeva i seguenti schieramenti: Sacro Romano Impero Germanico, Prussia, Impero Ottomano, Repubblica Batava, Gran Bretagna, Regno di Napoli, Regno di Sardegna, Regno di Spagna, Regno del Portogallo, Monarchia e Realisti Francesi contro la Francia Rivoluzionaria.

6 John Horne, (2002) Populations civile set violences de guerre, in Revue internationale des sciences sociales, n.174.

6

Page 7: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

vissuto dagli uomini per gli uomini e il fine della Pace perpetua di Kant cosi come l’oggettivizzazione dello Spirito in Hegel non fa altro che delineare un nuovo orizzonte di convivenza umana. Un’utopia se lasciando il mondo delle lettere, si guarda al complesso d’immagini reali dei conflitti dopo la Seconda Guerra Mondiale. Immagini, perché prima che la dinamica bellica abbia inizio, oltre a una preparazione economica e strategica, l’immaginario ha un’evoluzione spesso paranoide (la Prima Coalizione temeva l’evento Rivoluzione, in quanto la presa di coscienza del popolo francese poteva giungere a fondarsi come modello per i popoli europei, una reazione a catena che poteva minare il potere delle Monarchie. Lo stato minacciato deve tener stretto il monopolio della violenza e difendere il potere legittimo. Molti sono gli studi di carattere antropologico, sociologico e politologico che occupandosi di conflitti hanno evidenziato la naturalezza della guerra in “zone di confine” tra quelle che furono province dei grandi imperi europei e a seguito del disfacimento di questi ultimi, il loro divenire Stati-Nazione. Un civilizzarsi che va di pari passo con la decivilizzazione? Secondo Norbert Elias è cosi). Reale, perché il passaggio all’atto bellico si fonda su una struttura razionale/irrazionale (Ideologia/Propaganda), mobilitazione degli organi di difesa statali e parastatali (esercito/polizia/milizie popolari), controllo dei Media, incremento della produzione dell’industria pesante. Chiunque viva in una nazione in pace non può comprendere fino in fondo cosa vuol dire guerra, né forse leggere i primi segni di disfatta della pacifica convivenza. Guerra, dall’alto tedesco antico7

gwarra , mischia, è un evento che potrebbe essere identificato con una spirale. Parte da un nucleo centrale e si snoda nel suo divenire fino all’estremo atto di forza. Che cosa è questo nucleo centrale? Contrariamente alla visione comune che vede solo due o più contendenti in lotta, il conflitto si sviluppa inizialmente nella struttura sociale. Come accennato in precedenza, la Rivoluzione Francese ha mostrato una nuova prospettiva delle ostilità, che vede parimenti allo sviluppo dello Stato-Nazione, il nascere di un nuovo “esercito”, il popolo. Prima di arrivare ad approfondire questo nucleo, è importante definire almeno quattro stadi del fenomeno guerra:

- Stadio preistorico: la guerra è condotta per riequilibrare le risorse e tra i gruppi di cacciatori – raccoglitori è intesa come simbolo di virilità. La “mischia” è caratterizzata da scorrerie contro i gruppi vicini ed è raro l’omicidio. Fra le società violente, la guerra assume il carattere del rito, con usi e costumi che tendevano a limitare la perdita di esseri umani. Gli studi sui Boscimani, nei quali per esempio, la guerra è ignorata, hanno condotto gli antropologi a non comprendere esattamente quale modello prevalesse nella società preistorica8.

- Stadio antico: le guerre storiche iniziano con il costituirsi di eserciti permanenti nell’età del bronzo (Mesopotamia). La guerra è legata allo sviluppo delle prime città stato e in seguito degli imperi. Lo sviluppo e la specializzazione agricola concessero ai guerrieri di emergere e costituirsi in vere e proprie élite. Dalle testimonianze storiche greche e romane, (si veda l’opera, la Guerra del Peloponneso di Tucidide e l’Agricola di Tacito) notiamo che la differenza della guerra antica rispetto a quella preistorica, non è sola tecnica, ma soprattutto organizzativa e ideologica. Gli eserciti non erano solo dei difensori della terra considerata legittima, ma avevano il compito di espandere i propri confini. Quanto allo sviluppo tecnico/tattico si potrebbe fare un esempio. I carri da guerra rappresentavano un problema economico, giacché il loro mantenimento costava ai guerrieri il necessario ausilio di esperti artigiani. Perciò, spesso, i carri erano di proprietà privata. Questo implica che i

7 Althochdeutsch. L’alto tedesco antico è la più antica forma scritta di tedesco a noi giunta, sviluppatasi nella Germania Meridionale. 8 Jean Guilaine, Jean Zammit, 2005, The Origins of War: Violence in Prehistory, Hoboken, Wiley-Blackwell.

7

Page 8: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

guerrieri muniti di carro, non solo appartenevano alla classe più ricca della popolazione, ma anche che all’interno della società vi era una vera e propria forma di feudalesimo. - Stadio medievale: la società è divisa in bellantores, oratores e laborantes. L’esercito è caratterizzato dalla cavalleria pesante e i bellantores hanno l’obbligo di seguire i mores belli, giacché la guerra è moderata e cortese. Si afferma il carattere eroico del milite.

- Stadio moderno: dalla Rivoluzione Francese si afferma il “popolo in armi” e ciò ha supposto lo spostamento del conflitto dalle divise dei soldati ai cittadini, minando il tessuto economico e politico. Questo tipo di guerra mobilita la nazione e disumanizza e il combattente e il nemico che diventa un semplice bersaglio contro il quale tendere la propria arma. L’apice e l’evoluzione di quest’archetipo di guerra sono rappresentati dalle due guerre mondiali. La Prima Guerra Mondiale disegna una guerra che può essere definita semi-totale, poiché ancora distingue il fronte dalla società civile. La Seconda Guerra Mondiale, al contrario, è una guerra totale e assoluta. Essa coinvolge tutti gli aspetti dello stato e della nazione9.

Il guerriero acquista due identità che si contrappongono. Il termine militarismo diventa spregiativo e questo poiché le macchine sostituiscono in parte l’azione dell’uomo nella forza esplosiva e gli impediscono quegli atti di eroismo tipici delle guerre antiche, eliminando gran parte del protagonismo dell’uomo. I reduci si riconoscono felici, in quanto, da una parte essi rivedono la casa natia e ritornano alla famiglia d’origine e dall’altra hanno combattuto per una causa comune che li ha resi accettati e legittimati da un potere superiore. La seconda identità: l’uomo che diviene macchina per uccidere indiscriminatamente e non solo sui campi di battaglia e per farlo ha bisogno che “qualcuno” lo legittimi. L’uomo perde il suo eroismo, un eroismo che lo rendeva un tutt’uno con l’arma che imbracciava e che rispettava. Per fare un esempio, la spada aveva un valore anche sacro. Essa era utilizzata per investire l’individuo di un particolare titolo o come oggetto religioso in particolari momenti di sconforto o ispirazione divina. La spada nella roccia di San Galgano ne è un esempio, o ancora, per citare un’investitura seppur voluta dal Caso/Dio, l’epica incentrata sulla figura di Re Artù. L’altra identità è un uomo qualunque, un individuo moderno che assiste ai mutamenti del mondo a volte inerme a volte con manie di protagonismo che lo spingono alla sublimazione dell’aggressività in nuovi idoli, quali gli sport violenti o tendenti a imitare l’evento bellico (softair, per citarne qualcuno). Partendo dalla figura dei reduci, è fondamentale l’analisi di George Lachmann Mosse10 (2005). Lo storico chiama brutalizzazione dei rapporti sociali il diffondersi senza limiti della violenza tra le masse, come conseguenza della Grande Guerra. Di quale brutalizzazione stava parlando? Il risentimento che si è esteso sino al più piccolo nucleo della società tedesca a seguito del Trattato di Versailles interpretato come una sconfitta. Adolf Hitler ha saputo ben cogliere la palla al balzo, e il “noi” del popolo salvatore, dell’onnipotenza tedesca che si erano macchiati di sconfitta, ha subito una trasmutazione di valori incarnata nella potenza esistenziale della razza ariana. Esistenziale è un concetto opposto alla semplice teoria. Esistenziale oppone un carattere oggettivo a ciò che è puramente astratto. Siegfried ha lasciato i miti norreni e le sinfonie di Wagner e ha scelto

9 Il Distinguo tra Stato e Nazione in questo frangente è doveroso, giacché oltre a seguire il pensiero di Ernest Gellner, secondo il quale “la nazione è un’invenzione dei nazionalismi”, nella IIWW, la Nazione diventa il baluardo della razza e la giustificazione per i grandi massacri del Novecento. È giusto un rimando al “diritto di autoaffermazione dei popoli” di Woodrow Wilson. Secondo tale principio i confini degli stati dovevano essere tracciati per etnia. È utile tener presente questo concetto cosi da comprendere sin dove la politica e il diritto possono spingersi e dove si fermano: l’uomo. 10 George Mosse L., (2005) Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Bari – Roma, Laterza.

8

Page 9: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

come sua casa la cancelleria di Berlino. La comunità degli ariani era chiamata a governare l’Europa. Il secondo paradigma si snoda tra vittime e carnefici e nel nuovo paradigma dei guerrieri ideologici11. Nella Seconda Guerra Mondiale la porpora degli eroi si rimanifesta immanente, nonostante lo sviluppo tecnologico ma insieme con essa, l’aggressione maligna12in ingegnose elaborazioni di uccisione, tortura e purificazione. In questo frangente, l’abilità degli intelletti nel trasformare l’angoscia in paura si dimostra essere un terreno fertile per l’elaborazione e la catarsi dei miti. L’angoscia è un sentimento non diretto verso un qualcosa in particolare. Il termine angoscia è stato utilizzato per la prima volta in termini filosofici da Søren Kierkegaard13 (1844) con il quale il pensatore danese identificò la condizione che emergeva quando l'uomo si poneva davanti a una scelta. Non a caso diciamo: “sono angosciato per”. L’uomo è conscio che una scelta positiva significhi milioni di scelte negative. L'angoscia è definitiva come il sentimento della possibilità. La paura, invece, è indirizzata verso qualcosa di reale o supposto e a differenza dell’angoscia, l’uomo agisce attivamente o passivamente. La scelta si presenta possibile, ignorando anche le proprie responsabilità. Esempio, “ho paura dei cani, evito di prendere un cane, o fuggo alla vista dei cani”. Nuovi eroi e paura. Fromm viene in aiuto per comprendere l’aggressività umana e il suo slittamento al massacro. E allora, l’uomo ha bisogno di avere uno schema di orientamento e un oggetto di devozione; bisogno di mettere radici attraverso dei legami con gli altri; bisogno di essere efficace; bisogno di stimolazione ed eccitazione; bisogno di creare unità con il mondo esterno e soprattutto con se stesso; bisogno di esistere. Questi parametri e la volontà o necessità di esistenza devono volgere esclusivamente al massacro? Perché la guerra può essere sentita nel o dal tessuto sociale come propria? Pessimum facinus auderent pauci, plures vellent, omnes paterentur,(il peggior crimine fu osato da pochi, molti lo vogliono, tutti lasceranno che avvenga), tuonava Tacito14. Pochi, i leader stessi possono definire e far esplodere il conflitto. Molti, i leader hanno bisogno di mitopoiesi e della propagazione dei miti scientifici tra le masse, ergo, il sostegno delle religioni e degli intellettuali sembra di vitale importanza. Tutti, il popolo assimila, grazie all’ausilio della propaganda, il conflitto. Come? Il “noi” si differenzia dal “loro”, l’ego dall’alter. Semplici e pure differenze. È normale allora chiedersi: i tedeschi volevano eliminare gli ebrei? L’argomento appare scontrarsi sul piano della coscienza e l’ideologia mescolata alle difficoltà in cui versavano i tedeschi dopo la crisi del 1929 paiono essere molto più plausibili, di un semplice delirio orgiastico. L’incarnarsi della violenza segue uno sviluppo di abitudine e anche, quindi, di socializzazione con la violenza, come se la medesima fosse una pratica normale, oltre che un dovere o un diritto. Come riferimento al primo, si ritorna all’importanza della legittimazione da parte di chi è ritenuto il detentore di un potere superiore che incarna il sacro. Il 12 ottobre 1941, non avendo potuto uccidere il numero predestinato di ebrei, Friedrich Wilhelm Krüger, Comandante superiore delle SS e della Polizia per il Governatorato Generale, disse: «Chi è ancora vivo può tornare a casa, il Führer vi ha fatto dono della vostra vita»15. Questa frase spingerebbe chiunque abbia un minimo di senno a sostenere che il carnefice si concepisca come un Dio e nella logica del partito nazista, il Führer era lo stato e lo spirito del partito. In quest’ottica messianica, dove il fanatismo vestiva ambiguamente di un’aura di setta il gruppo e

11 Si vedano per approfondimenti, i lavori di Dieter Pohl. Consiglio alcuni siti: http://www.ifz-muenchen.de; https://portal.d-nb.de.

12 Erich Fromm, (1983), Anatomia della distruttività umana, Milano, Mondadori. 13 Sören Kierkegaard, (2007), Il concetto dell’angoscia, Milano, SE. 14 Tacito Publio Cornelio, (2005), Le storie, Milano, Garzanti. 15 Dominique Vidal, (2002), Les historiens allemands relisent la Shoah, Paris, Éditions Complexe.

9

Page 10: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

vampirizzava lo stato nella soluzione finale, la frase: «Ho obbedito agli ordini!» non solo evidenzia un individuo rispettoso della gerarchia, ma nel caso di specie, la guerra, vi è una manipolazione della personalità. Di là di ogni giudizio personale e morale, si deve riflettere sul ruolo di un soldato qualunque. Il suo ruolo è obbedire agli ordini dei superiori, garantire la difesa e portare avanti il programma prefissato. Si può semplificare per comodità il tutto. Si noti come egli stia facendo il suo lavoro, cosi come un qualsiasi sottoposto in un ufficio amministrativo, oppure in un supermarket. S’immagini che in uno dei peggiori mondi possibili, all’interno di una catena di supermarket, un uomo d’affari qualunque decida di vendere armi e che a causa del prezzo elevato o per via di un cliente che ha differenti principi etici si manifesti disordine, con malcontento iniziale caratterizzato da lamentele, manifestazioni prima pacifiche e poi violente. Tra i sottoposti vi sono tre soggetti: A favorevole alla vendita, B che risponde negativamente, ma che tiene al suo posto o che non ha semplicemente fegato per ribellarsi e infine il soggetto C che insorge, qualsiasi sia il prezzo da pagare. In questo gioco, moltiplicato per il totale degli impiegati, vediamo A e B mantenere il proprio posto di lavoro. C sarà licenziato. A e B mostrano un carattere comune: giustificano le loro azioni con la “propaganda” del fare il proprio mestiere, attribuendo alla vendita una scelta personale, giustificata e dall’abitudine a quel mestiere (si socializza con il clima lavorativo sul versante orizzontale, tra colleghi e tra impiegati e clienti) e dal rispetto verso chi remunera il loro lavoro (interiorizzazione dell’ordine impartito dall’alto. Il sistema regola i rapporti tra se stesso e i suoi membri). Che cosa accade dal momento in cui acconsentono a vendere, nonostante il gran disordine che si crea nella clientela (massa)? Non c’è solamente un tempo antecedente alla decisione e un dopo che è la pratica della vendita, ma il tutto si trasforma e muta la psiche stessa del venditore. In che modo? Razionalizzando ciò che il superiore ordina poiché è giustificato o dal credere realmente in quello che si sta facendo (soggetto A) o dalla volontà di mantenere il proprio posto di lavoro (soggetto B). Insieme essi sono portati a lavorare per la causa finale, la vendita, non importa cosa pensano, (smettono di pensare?) e la retribuzione (premio), altra faccia della vendita, è la legittimazione al loro lavoro. È possibile? Hannah Arendt, nel testo Le origini del Totalitarismo ci dice di si e nella Banalità del male ci invita a riflettere sul caso Eichmann come una inability to think. Sconvolti da ciò che succede, i clienti possono adeguarsi o “abbandonare il gioco”. In questi tre casi, A, B e clienti si manifesta un annientamento della propria coscienza. Come? Attraverso la zona grigia. Il termine è stato introdotto da Primo Levi per definire quel dispositivo che spinge tutti quelli che in differenti modi collaborano al funzionamento dell’industria del potere. «È una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.»16 Con una nota di amarezza, gli occhi umani vedono che in tale sistema, vittima e carnefice, secondo il grado di responsabilità dell’ultimo, tendono a identificarsi nell’ispido terreno dello schema proposto. Il soggetto C, colui che insorge, può rappresentare da un lato colui che facente parte del sistema decide di tirarsene fuori agendo all’interno di esso e giudicandolo come negativo per sé e per la collettività. Il prezzo da pagare è uscire dal gioco con una punizione (la perdita del lavoro), giacché egli non gioca secondo le regole e incrina l’ordine precostituito, divenendo, forse, istigazione per chi cova la ribellione. Dall’altro egli può rappresentare l’opinione pubblica esterna al supermarket, osservatori che possono decidere di ignorare, ritenendo assurdo e irreale ciò che accade in quel dato sistema, oppure prendere coscienza e realizzare attraverso prove tangibili ciò che accade, giudicando e muovendosi con i mezzi a loro disposizione. Ora, questo gioco può essere di riflesso sul campo di battaglia, immaginando

16 Primo Levi, (2007), I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi.

10

Page 11: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

il soldato e le masse che vivono il conflitto, visualizzando vittime e carnefici. Gli esecutori degli ordini superiori si sbizzarriranno nel ristrutturare le rappresentazioni della realtà per trovare una condotta idonea che possa da un lato mostrare eccellenza e quindi, rendere il superiore fiero e dall’altro giustificare le loro azioni. Tornando al mondo delle streghe dei soldati e della società nazista, gli individui si trovavano dapprima in uno stadio di fantasiosa improvvisazione per far contento il Führer, agendo dunque di propria iniziativa. Dopo l’invasione della Polonia nel 1939, i soldati tedeschi erano dediti a continue scorrerie che lasciavano dietro oltre che vittime, un’onta sulla Wehrmacht. Il Maresciallo Georg von Küchler comunicò questa condotta a Hitler, ma egli amnistiò tutti, tanto da estendere “legalmente” un clima d’impunità per tutti quelli che purificavano il popolo dal virus giudeo-bolscevico, permettendo automaticamente la creazione e l’espansione dello spazio vitale. Allora, ritroviamo qui alcuni caratteri:

- L’ideologia è stata interiorizzata e resa idea personale (i soldati sono convinti di servire una giusta causa e la causa è esplicata nella propaganda);

- A seguito della comprensione dell’idea alla quale sono chiamati, improvvisano gli ordini del superiore, cercando egoisticamente i suoi favori;

- Eseguire gli ordini deresponsabilizza;

- Il superiore legittima i loro atti, estendendo il campo ideologico con l’impunità. Ergo, i soldati comprendono che ciò che stanno facendo è moralmente giusto.

- Si specializzano nell’azione psicologicamente. Nell’evoluzione del conflitto, le ragioni date prima (il prima dei sottoposti del supermarket) non valgono più nell’estensione dell’atto. C’è differenza tra il pensare di uccidere e farlo realmente. Dapprima ci sono disgusto e disprezzo, sensi di colpa forse. Poi, l’incontro con l’altro, umanizza il carnefice e disumanizza la vittima. A non considera B un essere umano (l’ausilio di termini spregiativi nei conflitti è conosciuto, nel caso nazista, ratti, pulci) e sente con mano la vita dell’altro che scorre attraverso l’arma. L’aggressore è onnipotente perché può decidere di dare e prendere la vita altrui e nello stesso tempo egli è un essere animato, rispetto alla vittima che poiché inferiore, attraverso la tortura diviene sostanza inanimata.

- Si specializzano nell’azione tecnicamente. Possono ricorrere all’ausilio di droghe o sostanze alcoliche per sopportare e supportare l’atto. Il modus operandi si sviluppa per errori e via via diviene sempre più preciso. Nelle fucilazioni è imposto alla vittima di voltarsi oppure ricoprono il capo con un cappuccio, o semplicemente gli occhi con una benda, cosi che il carnefice non possa intravedere un barlume di umanità nei loro occhi. Le vittime sono raccolte in massa, come bestiame, cosi da annullare la loro individualità, divenendo numeri e quantità indefinite (gli ebrei destinati ai campi di sterminio erano definiti “unità” e/o “carico”). I carnefici possono scaricare su altri i loro compiti. Un esempio sono i Sonderkommandos, unità speciali, costituite da deportati ebrei e non, obbligati a lavorare fianco a fianco con le unità delle SS nei campi di sterminio. I detenuti distruggevano loro stessi17. La struttura industriale creata per lo sterminio mostra una dinamica interessante che si ricollega improvvisamente con la responsabilità dei carnefici. L’individuo che compie la strage passa dal premere il grilletto al gas e alla gestione dei

17 Per un approfondimento, non solo didattico, ma anche umano, vorrei citare il film di Tim Blake Nelson, (2001) La zona grigia, basato sulle memorie di Miklos Nyiszli, "Auschwitz: A doctor's eyewitness account". Per le versioni in lingua italiana, Miklos Nyiszli, (2008) Sono stato l’assistente del dottor Mengele, Lecce, Zane.

11

Page 12: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

mezzi di trasporto e dei campi. Questi ultimi rappresentavano un vero e proprio organismo industriale, dove i deportati lavoravano (in condizioni disumane) e trattati come scarti (i campi di concentramento, contrariamente a quanto si pensi, non erano tutti dedicati allo sterminio di massa, in altre parole, si rileva, per non incorrere in maldestre definizioni e incomprensioni, i lager erano specializzati per detenuti e per funzione economica. Si consideri, per semplicità, i Krankenlager, campi dove erano rinchiusi i malati e lasciati morire di fame e freddo. Bergen-Belsen, per esempio. Il tristemente famoso Auschwitz era un campo dedicato alla distruzione degli internati. Nella maggior parte dei campi, i detenuti politici, individui considerati deviati, quali omosessuali, artisti, zingari etc. erano obbligati a lavori degradanti e inutili, spesso ripetuti più volte al giorno col fine di piegare lo stato psichico. Le condizioni climatiche, igienico - sanitarie e la fame facevano il resto. Gli individui considerati forti e abili al lavoro erano impiegati nell’industria pesante e/o nell’industria di lavorazione e trasformazione dei prodotti di attività primarie o ancora sulle navi. Il processo a Doenitz a Norimberga è illuminante.) Lo stato e la sua ideologia divengono un’impresa dedita alla distruzione. Questa descrizione spinge a riflettere sulle responsabilità dei carnefici. Come in precedenza, il guerriero si riconosce nella propria arma che gli permette di difendersi ma anche di compiere gesta eroiche. Con l’evoluzione degli armamenti si assiste a un’esecuzione seriale che provoca l’astrazione dell’atto. Chi accoltella, utilizza il proprio corpo nello sferrare il colpo fatale e più spinge, più sente la vita dell’altro scorrere. In termini di responsabilità, questa procedura può causare una vera e propria dissociazione mentale, giacché, dai pentimenti, che si possono ricercare nei manuali o nelle testimonianze delle procedure penali, da parte di assassini seriali, o dei “boia”dei tribunali ad hoc per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda, si leggono segni di confusione tra la prima identità (uomo comune, per esempio un padre di famiglia), la seconda (assassino, ed è pronunciata la domanda: che cosa ho dovuto fare? Interessante nel definire l’atto come obbligo, solo se vi è un ordine legittimo) e la terza (detenuto, impossibilitato nel comprendere il perché). Tuttavia, non tutti gli assassini vivono questo sconvolgimento psichico. Il progresso tecnico in ambito bellico (e non solo) è partito dalla polvere da sparo ed è terminato con le guerre tecnologiche del ‘900 e la Pax atomica. La paura di conflitti atomici ha limitato le guerre e gli stermini? No, si è semplicemente passati a una nuova forma di conflitto, definita umanitaria. Madama Storia ha insegnato che gli uomini sono capaci di atti di grande bontà commisti ad azioni di estrema violenza. Ingenti quantità di papiri e carta si sono dedicate al tema della guerra, descrivendola tatticamente e umanamente, quando esaltandola, quando deplorandola. La guerra colpisce ogni aspetto della vita e dell’immaginario collettivo. Le guerre del ‘900 hanno invece mostrato come la prosecuzione della politica18 abbia abbandonato i campi di battaglia e sia divenuta realmente una guerra di tutti contro tutti. Generalmente le guerre erano precedute da una Dichiarazione. Le alleanze militari fra Stati obbligavano i firmatari a entrare nel conflitto e se una nazione violava la neutralità e l'integrità territoriale, i patti di mutua assistenza militare propagavano rapidamente le dimensioni dei conflitti. Il conflitto doveva partire da uno specifico evento, il casus belli ma periodi di tensione e crisi nella struttura sociale e nell’incompatibilità di obiettivi non risolvibili con la diplomazia tra i contendenti, ne costituivano le fondamenta. Un esempio, l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, che giustificò la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia,

18 Karl von Clausewitz, (2007) Della guerra, Torino, Einaudi. Il teorico militare sostiene nella sua opera: «La guerra non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi».

12

Page 13: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

scatenò la Grande Guerra. La IIWW ha annunciato la possibilità di uno Stato che possedendo il monopolio della violenza può scegliere il democidio e lo sterminio dei gruppi considerati nemici. La guerra cortese combattuta e decantata nei poemi dell’antichità ha assunto il volto del massacro e della disumanizzazione, procedendo nell’impossibilità di concepire una generale responsabilità di fronte alle vittime. La guerra mitica è stata sostituita dalla lotta dei sopravvissuti ai grandi massacri ai quali rimane solo la memoria e la necessità di ricostruzione si mescola inevitabilmente con gli orchi della zona grigia. I Tribunali Internazionali elaborano nuovi dati al pari degli intellettuali ai quali spetta l’ardire di comprendere “perché” scavando nella mente dei protagonisti. Si può tentare di disegnare sotto molti profili una risposta, passando dallo strategico, scientifico e tecnologico a quello religioso, mistico-sacrale. Vi può essere una risposta univoca e soprattutto umana che dia una regola di debellatio a quell’infido gioco che è lo sterminio? Ne sono la prova, la paranoia crescente dopo l’attentato alle Twin Towers e le difficoltà in cui tuttora versano la Bosnia Erzegovina, il Kosovo, il Ruanda e molti altri Stati. Menzionarli tutti ha solo importanza al fine dell’elencazione, poiché è doveroso che gli esseri umani conoscano le condizioni in cui versa parte di loro. I signori della guerra hanno imbastito bene delle idee che ciclicamente si ripresentano, una cancrena che forse, neanche l’auspicata pace perpetua del filosofo di Königsberg può guarire. E allora, se la volontà di prevenire è svanita nel nulla, che cosa possiamo fare? Proteggere? La volontà di proteggere le masse inermi è forse finita prima di partire, con la nuova concezione di guerra umanitaria. La pace non è compresa e non è attuabile solo con un trattato. La differenza tra pace e guerra, intese in senso lato, vige proprio nella regolazione e nel piacere della seconda rispetto alla prima. La pace è solamente una mancanza di ostilità. Claude Levi-Strauss19 (1997) sosteneva che «il barbaro è colui che ama la barbarie» e allora forse Eros non è altro che un’altra faccia di Thanatos e viceversa e il bisogno dell’uomo di essere efficace ed esistere sulle altre creature animate vince sull’Io. Nikolaas Tinbergen, Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina, disse dell’uomo: «Da un lato, l’uomo è affine a diverse specie animali, poiché combatte i propri simili. Ma dall’altro, egli, fra le migliaia di specie in lotta, è l’unico che combatta per distruggere. La specie umana è l’unica che pratichi l’omicidio di massa, pesce fuor d’acqua all’interno della propria società»20. In questo quadro “naturale” si specchia l’esperienza storica dei massacri. In natura sussiste e persiste la legge del più forte, a fronte della necessità dell’autoconservazione della specie. Si manifesta un interrogativo pedagogico e filosofico: l’uomo deve imparare adesso a “disobbedire”? Un uomo italiano, proveniente da Torino, il cui cognome richiamava le origini ebraiche, è deportato e inviato in un lager. Giunto a destinazione, nell’osservare le sfortunate condizioni nelle quali versavano i suoi colleghi, chiede quale senso abbia sfruttarli, considerando che il fine era l’epurazione. Lucido nella domanda, in una fredda e abissale razionalità, nell’attesa del suo turno, chiedeva una spiegazione. La risposta sarebbe potuta essere un richiamo frettoloso all’ideologia? Un ordine superiore? Semplice odio? Un soldato tedesco, senza remore, rispose: «Hier ist kein warum!», qui non c’è un perché.–Emanuela Mercuri ha conseguito la Laurea in Studi Internazionali, Facoltà di Scienze Politiche con la tesi “Norimberga: coscienza storico internazionale dei crimini di guerra, contro la pace e contro l’umanità”. Ha proseguito la formazione indirizzata agli studi classici e politici, con particolare interesse verso l'analisi storico - sociale delle guerre e dei crimini. Tra le varie esperienze lavorative, ha gestito le relazioni esterne dell'Associazione Italia - Bosnia Erzegovina. è prossima alla Laurea Magistrale in Scienze del Governo e dell'Amministrazione.

19 Claude Levi-Strauss (1997), Razza e storia e altri studi di antropologia, Torino, Einaudi. 20 Erich Fromm, (1983), Anatomia della distruttività umana, Milano, Mondadori.

13

Page 14: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

14

Page 15: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Identità in guerra: sedici anni fa in Bosnia di Emanuela Mercuri

Il ventesimo secolo è stato un tempo in cui l’immaginario di distruttività ha trovato un terreno fertile dove far germogliare gli effetti devastanti di alcune ideologie. A tale proposito, vorrei citare il pensatore britannico Eric J. Hobsbawm: «Il Secolo breve è stato un'epoca di guerre religiose, anche se le religioni più militanti e assetate di sangue sono state le ideologie laiche affermatesi nell'Ottocento, cioè il socialismo e il nazionalismo, i cui idoli erano astrazioni oppure uomini politici venerati come divinità.» Hobsbawn utilizza il concetto di Secolo Breve per definire il Novecento come un “momento” di enormi cambiamenti e nelle Scienze e nella condizione del genere umano. È da questi profondi cambiamenti, che paiono regolati paradossalmente dal disordine scaturito dall’impotenza della ragione che parte la mia riflessione. Memore delle immagini onnipotenti dello scenario bellico che le tv nazionali e internazionali mostravano dei Balcani e delle testimonianze della gente comune, l’identità sembra essere legata misticamente al sacrificio. Massacro, genocidio e pulizia etnica, i termini usati per attribuire un nome a una lezione cruenta che abbiamo lasciato ai libri di Storia Contemporanea e di Diritto Internazionale. La storia della Bosnia non finisce, tuttavia, riponendo un libro nel cassetto.

Il 26 marzo 2010, l’International Commission on Missing Persons (ICMP) ha comunicato l’identificazione di 6414 vittime in un range di 13.000 Dna del solo massacro di Srebrenica. Altre salme esumate attendono di essere identificate. Nel 1995, le forze serbo-bosniache guidate dal Generale Ratko Mladic uccisero migliaia di uomini e ragazzi musulmani bosniaci (bosgnacchi). Il 31 marzo 2010 la Serbia chiede perdono per non aver fatto abbastanza nel prevenire il massacro.

Jacques Semelin ci ricorda che nel Medioevo il termine era usato per definire la messa a morte di animali destinati a divenire cibo e il termine Olocausto definisce il sacrificio di animali caro agli dei nell’antica religione greca ed ebraica. Che cosa continuano a mostrare le salme senza nome, le informazioni che ci giungono? Che cosa possono spiegarci gli occhi dei Balcani sui conflitti che negli ultimi mesi osserviamo impotenti? L’anima di un popolo è sconvolta, offesa, disorientata nella propria identità.

Il concetto d’identità pare essere definito dall’esistenza di un altro termine con il quale l’uno si pone in relazione con l’altro e dal quale percepiamo ciò che ci rende unici e puri: le differenze. Non è dunque percepibile in termini generali come nome, cognome, età. Non solo. Dagli antichi culti misterici, sino ad arrivare alle analisi svolte da alcuni antropologi, dei quali cito il lavoro eminente di Mary Douglas, Purity and Danger, la contaminazione del corpo individuale è la metafora dell’inquinamento della struttura sociale. Tornano subito in mente, allora, le leggi razziali del Terzo Reich. Tuttavia, se per i nazisti la concezione della purezza della propria identità d’Ariani era incarnata dalla perfezione organica e dalla conformità ideologica, le quali non concedevano via di scampo a tutti quelli che erano corrotti nella salute e deviati psicologicamente o intellettualmente, nell’ex - Iugoslavia s’intravede qualcosa di mitico: la purezza dell’Ethnos. L’etnologo Ivan olovi rilevaČ ć che i miti politici serbi invitano a tornare “all’identico sangue eterno” la cui culla si troverebbe nella terra sacra del Kosovo, ove il 15 giugno 1389 del calendario giuliano (28 giugno calendario gregoriano) la battaglia della Piana dei Merli decretò la fine della libertà del Regno di Serbia, con l’asservimento degli apparati militari e

15

Page 16: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

l’annessione, infine, all’Impero Ottomano cento anni dopo.

Questo risentimento per una comune identità, proiettata sulla paura e l’angoscia delle masse, è diventata politica? Il secolo breve ci insegna che lo è stato. Per costruire l’impalcatura del discorso politico non occorrono solo uomini dei quali il grande carisma li ha resi profeti agli occhi del popolo, occorrono in particolar modo le bocche della conoscenza, in altre parole gli intellettuali. In quale modo menti raffinate dalla cultura possono supportare il fanatismo ideologico? Sono forse delle menti disturbate? Quante volte, abbiamo sentito dalla voce dei nostri nonni che ribellarsi al dittatore significava morte certa? Quante volte, guardando la televisione, leggendo i giornali, sbirciando notizie qui e là, dai Balcani al Medio – Oriente, dalle dichiarazioni di alcuni nostri stessi politici, pronunciamo con sconcerto: “è paranoico!” certo, un Freud avrebbe annuito. Gli stati sono governati da pazzi? Il popolo è un gregge che accetta pacificamente il macello? Il processo d’innesto di un’identità attraverso l’ideologia è molto complesso. In Iugoslavia, un ruolo chiave è svolto dal “Tolstoj serbo”, Dobrica osi . Ć ć

Nei romanzi che l’hanno reso celebre, racconta le tribolazioni dei serbi durante le due guerre mondiali. E ancora, creatore del Comitato per la libertà di pensiero e di espressione, si batté per difendere tutti quelli che fossero perseguiti per delitti di opinione. Lo scrittore sembra essere una figura tanto espressiva quanto complicata della lotta al totalitarismo. Al suo ingresso all’Accademia delle Scienze e delle Arti di Belgrado, si pronunciò a difesa del popolo serbo, con le celebri parole: “I Serbi hanno sempre vinto la guerra e perduto la pace.” Dall’Accademia delle Scienze partì il triste Memorandum che divenne guida d’orientamento per Slobodan Milošević e Radovan Karad i Nel 1993, comež ć Presidente della Repubblica Federale

Iugoslava, Dobrica apparve sulle tv serbe, comunicando la richiesta da parte dei governi occidentali di porre fine al conflitto. La sua posizione, così come cita il Time Magazine dell’epoca (25 gennaio 1993) fu: “Se non accettiamo, saremo messi in campi di concentramento e attaccati dagli eserciti più forti del mondo. Queste forze esterne sono determinate a subordinare il popolo serbo all’egemonia musulmana”. Milošević dal canto suo, dopo aver sostenuto militarmente i serbi di Bosnia nella sanguinosa guerra civile, trovatosi sempre più isolato dalla comunità internazionale, decise di negoziare le trattative di pace per mantenere le conquiste territoriali acquisite negli anni della guerra. Con il mandato del Governo Iugoslavo, fu protagonista delle trattative di pace di Dayton che decretarono la fine delle ostilità in Bosnia Erzegovina, per poi essere, nel 2001, arrestato a Belgrado. Nel 2000, il mentore della Serbia celeste, si unì all’Otpor, un’organizzazione anti – Miloševi e ancora nel 2010 le sueć dichiarazioni erano inclini a supportare le azioni dei serbo-bosniaci guidati da Mladic.

Come osserva Jean Hatzfeld, l’istruzione non rende l’uomo migliore, lo rende semplicemente efficace. Chi vuole ispirare il male o il bene sarà avvantaggiato perché conosce le manie dell’uomo, la sua morale e se il suo cuore è pieno di odio o risentimento, allora diverrà pericoloso. Forse, non dovremmo meravigliarci se la barbarie del genocidio sia potuta scaturire come un fiume in piena, ma ben organizzato nel proprio letto, in Germania o nei Balcani. A sedici anni da Srebrenica, ritornano gli stessi interrogativi, che a mio parere sono assimilabili agli eventi, dei quali siamo spettatori spesso incoscienti, sulla Striscia di Gaza: Chi siamo? Chi è l’altro? I sentimenti di diffidenza si mescolano troppo spesso al desiderio di dominazione e d’insicurezza. I miti e le favole ci insegnano che tali sentimenti spesso sono avvisaglie di eventi futuri che sono guidati, oltre che da risentimenti e dalla fedeltà agli antenati e alla propria

16

Page 17: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

storia, da menti lucide che coordinano l’angoscia dei popoli. In questo frangente entra in gioco il “nostro” essere spettatori, terzo termine più necessario di quello che pensiamo. Alcuni giornalisti e militanti denunciarono le strutture per i detenuti in Bosnia, definendoli campi di concentramento. Molti giornalisti e attivisti per i diritti dell’uomo nel profondo Est dell’Europa (non occorre una lista e non occorre espandere l’analisi di quei fatti, che magari saranno trattati più in là) a seguito delle loro analisi e denunce, sparirono nell’ombra oppure morirono e solo poche volte e sempre da parte dei loro colleghi, si è parlato di omicidio. Un mese fa, è stato assassinato l’attivista Vittorio Arrigoni. Alcuni testimoni al processo di Norimberga sostennero di aver saputo dell’esistenza e dello scopo reale dei lager nazisti. Il ruolo del terzo è importante nella relazione carnefice/vittima. Come? Il terzo,

mostrandosi solidale, diventa ambasciatore di fratellanza e di coscienza, nella costruzione di una nuova opinione pubblica e questa può divenire il freno allo sviluppo della violenza. L’identità dell’uomo in guerra è un processo complesso che non riguarda solo la legge, bensì il diritto umano all’obiezione di coscienza e alla resistenza. E dal secolo breve, il Novecento, si trae la conclusione che l’uomo è passato da uno stato di obbedienza assoluta a un risveglio necessario della propria responsabilità. E questa responsabilità, incline a voler difendere i diritti dei nostri vicini, sarà più forte del nostro istinto di morte? Sarà più forte dell’insicurezza politica, economica, spirituale? Rimando all’anima del pensiero di Don Luigi Sturzo: l’individuo deve scegliere da sé se seguire la propria coscienza da cittadino o da credente.

17

Page 18: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Un referendum per la secessione dei serbi di Bosnia

di Valentina Di CesareAlla metà di febbraio le autorità della Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina, hanno approvato una controversa legge che potrebbe aprire la strada ad un referendum sulla secessione dal resto dello stato. La Repubblica serba di Bosnia insieme alla Federazione di Bosnia Erzegovina e al distretto di Brcko sono parte dello stato federale bosniaco, ma le tre unità presentano alcune differenze di carattere amministrativo, e sono inoltre almeno nei primi due casi l'espressione delle etnie maggioritarie: quella bosgnacca e quella serba. L'annuncio del possibile referendum ha allarmato la Comunità Internazionale. Per molti anni il Presidente della Repubblica Srpska, Milorad Dodik, non ha nascosto l'intenzione di iniziare un processo di separazione dalla Federazione Bosniaca e secondo molti gli alti Rappresentanti per l'Unione Europea succedutisi in Bosnia dopo il conflitto avrebbero assunto un atteggiamento troppo distante e quasi indifferente rispetto alle mire di Dodik. Il primo ministro ha sostenuto di aver promosso un referendum legittimo, trattandosi di un argomento molto importante per i serbi di Bosnia e aggiungendo inoltre che molte consultazioni elettorali europee vengono promosse per motivi anche meno importanti, riferendosi ad esempio al referendum sui minareti in Svizzera. Prima della guerra del '92-'95 la Bosnia Erzegovina era uno piccolo stato unitario, con un solo accesso sul mare nella città di Neum. Gli era riconosciuto dall'allora Federazione Jugoslava il merito di accogliere al suo interno una grande varietà di etnie con consistente maggioranza di bosgnacchi, i musulmani bosniaci riconosciuti dallo stato come etnia maggioritaria nel 1961. L'islamismo, d'altronde, per note motivazioni storiche (la conversione della setta cristiana dei Bogomili all'Islam durante l'invasione turca

del 1500) è da considerarsi un elemento imprescindibile della cultura bosniaca, da non tenere a mente soltanto in un'ottica religiosa.

Numericamente ai bosgnacchi seguivano i serbi (ortodossi), dunque i croati (cattolici), seguiti a loro volta da piccole minoranze come quelle italiana, austriaca ed ebraica. Le opinioni sulla convivenza delle varie componenti etnico-religiose prima dello scoppio del conflitto sono molto controverse. Taluni descrivono quella longeva convivenza quasi come fosse stata l'archetipo di uno stato ideale e multietnico; nonostante i musulmani bosniaci fossero la maggioranza, il numero dei matrimoni misti era assai elevato (si stima circa al 25 %) e i maggiori gruppi etnici convivevano senza grosse difficoltà. Altri invece sostengono che specialmente dai tempi di Tito, nonostante l'ideologia avesse portato ad un progressivo indebolimento delle componenti religiose, gli attriti tra le diverse etnie fossero sempre allerta, sopiti sì ma mai davvero superati. La convivenza però c'è stata, e seppure a detta di molti non fosse così pacifica, era un dato di fatto. Certo è che la Bosnia di oggi incarna perfettamente l'etimologia della parola Balcani (terra del miele e del sangue) specie alla luce degli scenari di guerra accanitisi sui territori che ne fanno parte.

L'area dell'attuale Repubblica Srpska durante la guerra del 92-95, fu gestita interamente dalle milizie serbe colpevoli per l'Aja di aver effettuato la nota pulizia etnica materializzatasi simbolicamente con la strage di Srebrenica, che per l'appunto è oggi una città della Repubblica Serba di Bosnia. Se davvero la Repubblica Srpska anche grazie all'appoggio di Belgrado riuscisse nell'intento divisorio la questione Srebrenica non sarebbe facile da risolvere. E' vero anche però, che Srebrenica è punto

18

Page 19: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

cruciale della storia jugoslava e come tale non può essere liquidata nell'assoluto male serbo, essendo stata la Bosnia già teatro di grosse atrocità in precedenza, come ad esempio la pulizia etnica ad opera dei croati contro serbi e musulmani nella Bosnia occidentale e pressoché ignorata dai media occidentali. Questa puntualizzazione non intende giustificare nessun genocidio, nè da una parte nè dall'altra, bensì vuole fornire nuovi spunti per una conoscenza più accurata dei fatti. La decisione del presidente Dodik di procedere ad un referendum per la separazione della repubblica Srpska è stata silentemente appoggiata dal governo di Belgrado, questo secondo la federazione di Bosnia Herzegovina. L'opinione pubblica bosniaca in maggioranza musulmana, teme fortemente la ripresa di mire nazionaliste ad opera di serbi e croati. Seppure la Bosnia Erzegovina abbia una struttura complessa e un'amministrazione spesso farraginosa e piena di problematiche interne, gli osservatori internazionali, secondo i bosniaci, non dovrebbero rimanere inermi ad osservare la legittimazione di certi tentativi, sull'onda di un'Europa in piena febbre da referendum.

Valentina Di Cesare, nata nel 1982 a Sulmona, nel 2007 si laurea in Lettere e Filosofia all’Università di Chieti con una tesi sul poeta livornese Giorgio Caproni. Collaboratrice sin dagli anni universitari per testate locali on line su cultura e attualità, da sempre appassionata di culture balcaniche e caucasiche, trascorre il 2009 a Siena dove frequenta il Master Universitario in Didattica dell’Italiano a Stranieri con una tesi sulla metafora e la similitudine negli immaginari degli apprendenti. Si iscrive al Master in Management della Cooperazione Internazionale allo Sviluppo all’Università di Pescara e svolge uno stage formativo presso una ONG che si occupa di diritti delle donne, concludendo il corso di studi con una tesi sugli approvvigionamenti idrici nelle zone desertiche dell’Africa Settentrionale. Sin dal 2003 si interessa al Movimento delle Donne Democratiche Iraniane e collabora nella diffusione delle attività dell’Associazione Donne Iraniane. Nel 2010 intraprende il progetto giornalistico di “Ministerici Italiani” un blog di attualità, cultura, politica e ambiente sull’onda del giornalismo partecipativo. Lavora come mediatrice culturale per una Cooperativa sociale abruzzese e copre interventi di carattere educativo e sociale, per l’integrazione degli immigrati nelle scuole, negli Enti, e nel mondo del lavoro. Nel 2011 partecipa come operatrice a progetti europei di mediazione culturale lavorando a stretto contatto con immigrati provenienti dall’est Europa; nello stesso anno frequenta il Corso di Perfezionamento in mediazione con l’Area Balcanico – Danubiana organizzato dalla Facoltà di Lingue dell’Università di Pescara.

19

Page 20: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Architettura, memoria e identità. Il caso bosniaco

di Matteo Zola

Il 23 ottobre 1992 le truppe croate entrarono a Prozor, segnando l'intensificarsi del conflitto bosniaco. Prozor, “la finestra” in serbo-croato, è stata fatta in macerie, seppellendo tra le rovine le grida dello stupro etnico e il passato multiculturale della Bosnia Erzegovina. Peter Handke, drammaturgo tedesco noto per aver scritto con Wim Wenders la sceneggiatura de "Il cielo sopra Berlino", tra il 1995 e il '96 viaggiò per Slovenia, Croazia, Bosnia e Serbia. Le guerre jugoslave avevano appena lasciato lo scenario bosniaco in direzione di quello kosovaro. Le macerie testimoniavano il passaggio della tragedia ed Handke annotò sul suo diario: "prima località dopo il confine: Dobrun. Ma del villaggio, oltre al nome, esistevano ancora quasi solo muri di case privi di tetti, porte e davanzali. Case saccheggiate? Le case in quanto case, le case come tali davano l'impressione del saccheggio, e questo sembrava qualcosa di ancor peggio di una distruzione pur così totale; come se tramite un simile metodo di saccheggio non fosse stata annientata di volta in volta semplicemente una singola casa, quella determinata casa, ma per così dire la casa in sè, la casa "casa", l'essenza della casa, essenza che diventava tangibile proprio in quella specifica forma di distruzione."1

La distruzione, le rovine, sono il segno della memoria viva che nei Balcani occidentali si uniscono alla ricostruzione che, in quanto tale, è rimozione delle macerie e del ricordo, rimozione della cultura che sotto le macerie giace a favore di una ri-strutturazione del paesaggio, della memoria e non da ultimo dell'identità. Il caso bosniaco è, in questo senso, esemplare. Analizzando le due città simbolo del Paese, Sarajevo e Mostar, si comprende anzitutto come la memoria viva di una città non vada cercata nei

1 Tratto dal sito di Francesco Mazzucchelli, Balkan Scapes

monumenti, nei musei, o nei posti progettati con l'intento esplicito di conservare una memoria, ma nelle zone e nelle parti di essa dove essa "si produce" autonomamente, in maniera incontrollabile, spontanea. Le rovine sono i luoghi di produzione di una memoria che non perde il rapporto con il passato. La ricostruzione dell'identità si associa invece con una ricostruzione edilizia e una architettura che hanno lo scopo preciso di produrre una nuova memoria, funzionale al presente e utile al futuro.

Come ricorda Francesco Mazzucchelli, autore del libro Urbicidio, attualmente ricercatore presso l'Università di Bologna, per chi atterra a Sarajevo all'areoporto di Butmir, uno dei simboli del conflitto, il paesaggio della città è una distesa di palazzoni in stile socialista crivellati dai colpi di kalashnikov e poi, d'un tratto, nel mezzo di Novo Sarajevo, ecco svettare la moderna e maestosa moschea di Re Fahd, costruita nel 1997 con soldi provenienti dall'Arabia Saudita. Proseguendo verso il centro altre enormi moschee post-belliche affermano l'identità eminentemente e radicalmente musulmana della città. Solo raggiungendo la città vecchia, nella baš aršia d'epoca ottomana, il dedalo delleč piccole strade svela il racconto antico della città: le antiche moschee Ferhadjia e Gazi Husrev, la madrasa, si inseriscono mimetizzandosi tra le eterogenee architetture religiose della città (cattedrali cattoliche, chiese ortodosse, templi giudaici, chiese evangeliste). Come acutamente sottolinea Mazzucchelli, tutto è privo di sfarzo, funzionale, misurato, discreto, persino nascosto nell'omogeneo tessuto architettonico di una città senza strappi, senza muri culturali, specchio della mentalità cosmopolita e lontana dai fanatismi. Il centro città, di segno musulmano, è il luogo in cui meno si

20

Page 21: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

afferma l'identità islamica. Un'identità risorta durante il conflitto e radicalizzatasi quando nell'ottobre del 1992 comincia l'offensiva croata su larga scala. L'offensiva spezza definitivamente i già logori fili che tenevano insieme le rappresentanze politiche delle varie comunità. In quel contesto il partito musulmano di Izetbegovic si radicalizza, estromettendo le opposizioni serbo-croate, e sancendo la svolta “nazionalista islamica” della leadership bosniaca.

Oggi, oltre alle monumentali moschee della periferia, si possono vedere numerosi cartelli pubblicitari che inneggiano alle radici ottomane, con tanto di stendardi e bandiere della Sublime Porta appese ai minareti. Accanto crescono grattacieli, come l'Avaz, costruito tra il 2006 e il 2008 è il più alto dei Balcani, simbolo della nuova identità consumistico-mediatica della Bosnia, sede del quotidiano Dveni Avaz di proprietà del tycoon Fahrudin Radon i , unč ć magnate dell'editoria recentemente “sceso in campo” nella politica bosniaca. Il contrasto architettonico evidente tra l'antichità ottomana, il razionalismo socialista e le turrite megastrutture moderne è il segno di un'identità frantumata e ricostruita sotto il segno dell'oblio: il grattacielo Avaz, che si staglia verso il cielo, è il simbolo del futuro, della modernità e del benessere promessi dall'indipendenza. Una promessa costata quasi centomila morti solo tra i bosniaci musulmani.

L'identità, nel contesto dei nazionalismi balcanici, è l'oggetto di ricostruzione più diffuso. Il nazionalismo stesso, realizzato concretamente con gli accordi di Dayton, è la costruzione di una frontiera intrabosniaca che non si cura del territorio. «L'idea della suddivisione di un territorio su base etnica sorvola disinvoltamente sull'identificazione che una popolazione puà avere con il territorio stesso» scrive Luca Rastello in La guerra in casa (Einaudi 1998). I costruttori della frontiera hanno infatti tracciato una linea che divide in parti

etnicamente omogenee le comunità dimenticando le economie reali e i rapporti sociali concreti. Ronakd Wixman, citando ancora il libro di Rastello, si chiede sulle colonne di Internazionale del 5 settembre 1997: «quali sarebbero state le linee della mappa bosniaca se questa gente fosse stata autorizzata a dire “noi siamo bosniaci?”» invece che musulmani, ortodossi o cattolici. L'architettura sociale preesistente viene così rasa al suolo dai bulldozer della diplomazia internazionale e un muro invisibile taglia davvero in due le stanze delle case bosniache in cui, fino al 1991, il 40% dei bambini nati aveva almeno un genitore di etnia serba o croata.

Mostar, col suo celebre ponte Stari Most, è l'altro simbolo (citando ancora Mazzucchelli) dell'urbicidio che la guerra ha prodotto. La distruzione di questo ponte fu un gravissimo colpo per il morale dei bosniaci musulmani, più dell'eccidio che pochi giorni prima le truppe croate dell'Hvo perpetrarono nella vicina Stupni Do. Ciò conferma, ancora una volta, come archiettettura, vita, memoria e identità siano strettamente legate: “là [a Stupni Do] sono stati uccisi alcuni dei nostri. Qui [a Mostar] siano stati uccisi tutti” scrisse Hasan Nuhanovi , traduttore bosniacoć sopravvissuto a Srebrenica, autore di Under the UN Flag. La distruzione del ponte di Mostar, come la casa descritta da Handke, sono un interludio muto tra la precedente narrazione collettiva e le cicatrici di un nuovo racconto, il racconto tangibile di una società violata. Uno stupro che, nella ricostruzione, si palesa. Il ponte di Mostar è infatti stato ricostruito identico a com'era, utilizzando addirittura (per quanto possibile) le stesse pietre, ma quel ponte, che per secoli ha unito i quartieri croati a quelli musulmani della città, che per secoli è stato luogo di transito, di passaggio, di comunicazione, sembra aver incorporato un'invisibile barriera. Da soglia tra due anime della stessa città, il nuovo Stari Most diventa un limite invalicabile, e mentre prima si transitava senza nessun problema

21

Page 22: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

da un quartiere all'altro, negli anni successivi alla guerra ognuno resta rintanato nel suo quartiere. Una cesura che si respira ancora oggi a Mostar grattando appena dietro la superficie di ristorantini e negozietti per turisti.

Anche di fronte ad un ripristino integrale e filologicamente fedele, la memoria condivisa, il "senso comune" di quel luogo è definitivamente mutato. Il risultato è un bel manufatto, espressione dei finanziatori della Banca Mondiale, delle potenze straniere per le quali la Bosnia è un mercato dove ritagliarsi uno spazio di ricostruzione. Lo ha spiegato bene Gilles Péqueux, che ne avviò i lavori per poi dimettersi perché "l'etica" del ponte non era garantita. L'etica del ponte, opera che non nasce dalla collettività locale ma da una squadra di tagliapietre turchi preferiti a quelli bosniaci per ragioni di costi. Non è il simbolo di una riconciliazione ma di una pacificazione coercita, calata dall'alto su un lutto non elaborato. Come ebbe a spiegare bene Paolo Rumiz, "oggi il ponte è un innesto incompatibile, a forte rischio di crisi di rigetto".

Matteo Zola nato a Casale Monferrato il 18 luglio 1981. E’ giornalista professionista da marzo 2011, lavora a Narcomafie, mensile legato a Libera e Gruppo Abele, che si occupa di criminalità organizzata e narcotraffico internazionale. Per Narcomafie ha pubblicato nel settembre 2011 l'inchiesta su mafia e banche “La cupola nel caveau” e nel novembre 2011, per Flare, “Atomic mafia”. Collabora con Glob 011, mensile d’informazione migrante. Ha collaborato con Mixa, magazine dell’Italia multietnica, Peacereporter, Cafébabel, e con Cronaca Qui, quotidiano locale torinese. Nel marzo 2010 fonda il blog partecipativo EaST Journal, oggi testata on-line d’informazione sui Paesi dell’Europa orientale.

Scrive di critica letteraria su alcune riviste di settore: Italian Review of Poetry, rivista del Dipartimento di italianistica della Columbia University. Palazzo Sanvitale, quadrimestrale di letteratura» della Monte Università di Parma, L’immaginazione, La Mosca di Milano, La Clessidra. Nel 2008 ha partecipato al Convegno: “Poesia e Scienza: un dialogo?” in seno alla Fiera dell’Editoria di Poesia tenutasi a Pozzolo Formigaro (AL) presentando un intervento dal titolo: «Pier Luigi Bacchini: poesia della natura, poesia della morte». Poi in «Atti del Convegno», Puntoacapo Editore, Novi Ligure, 2008. Fino al novembre 2008 è stato professore di Italiano e Storia.

22

Page 23: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

23

Page 24: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Gazpromenade, ovvero come si conquista l'Europa

di Matteo Zola

Introduzione. L’esportazione di idrocarburi è il settore chiave della geopolitica russa ma ancora molti sono i problemi, il pragmatismo dell’attuale amministrazione del Cremlino intende risolverli senza troppo badare al sottile, puntando al controllo delle repubbliche ex-sovietiche anche con malcelati ricatti energetici limitando l’espansione della Nato in un’area che è ritenuta esclusiva sfera d’influenza di Mosca.Le metà delle entrate complessive del bilancio statale russo deriva dal comparto delpetrolio e del gas. Le forniture di idrocarburi all’estero rappresentano da sole ben il 60% delle esportazioni. La Russia è dunque il soggetto geopolitico più dinamico e rilevante nella sfera delle forniture energetiche ed è evidente che non può rinunciare ad assicurarsi le migliori condizioni e le rotte più vantaggiose per il trasporto di idrocarburi. La ridefinizione geopolitica dell’area ex-sovietica è tanto più importante poichè buona parte dei giacimenti e delle condutture principali è sita al di fuori dei confini russi, occorre dunque controllare più o meno direttamente i Paesi limitrofi.Vediamo dunque quali sono le rotte di idrocarburi principali russe, quali quelle antagoniste e quali le alternative, e che Paesi sono coinvolti e in che modo.Anzitutto le repubbliche ex-sovietiche hanno ereditato una rete di condotte inadeguata a sostenere grandi volumi di esportazione. La Russia si è dunque vista costretta a finanziare l’ammodernamento delle pipelines, di sua proprietà, in Ucraina, in Bielorussia, nel Baltico, rifornendo quegli stessi Paesi a prezzi molto bassi. Il potere contrattuale più forte era dunque nelle mani di quegli Stati che, pur grandemente impoveriti, potevano controllare il transito del gas e del petrolio russo facendo pagare a Mosca pesanti tasse di transito.Allo stesso tempo però le ex-repubbliche sovietiche si sono trovate a dipendere dalle condotte russe e ciò ha reso difficile un loro affrancamento dalla tutela russa. A caro prezzo infatti la Georgia ha tentato di entrare nella Nato per liberarsi dalla soffocante influenza russa (una guerra, la cui origine è ancora controversa) e una situazione di conflitto è stata prossima a verificarsi anche in Ucraina, mentre il Kirghizistan ha deciso, nel febbraio 2009, di chiudere la base americana presente sul suo territorio in cambio di molti milioni di dollari utili a saldare il debito estero del Paese, invero quasi tutto nei confronti della Russia. Una situazione che ha portato il Kirghizistan pericolosamente vicino al Cremlino scatenando una rivolta culminata nel 2010 con la cacciata dell'autocrate Kurmanbek Salievi Bakiev nella cosiddetta Rivoluzione dei tulipani. čLa Russia, dunque, deve quasi il 50% delle sue entrate annuali complessive al gas. Questo la rende un soggetto forte e debole allo stesso tempo, poiché invece di imporre la sua politica energetica all’Europa (come di fatto avviene) potrebbe subirla. Ma l’Europa è divisa e Italia, Germania e Francia fanno affari con Gazprom, il colosso energetico statale russo. I Paesi che si mettono di mezzo vengono aggirati o presi “per freddo”. La Polonia, ad esempio, è stata tagliata fuori dalle rotte delle nuovepipelines poiché politicamente (e storicamente) avversa al Cremlino. Il gasdotto North Stream aggira paesi baltici e Polonia per arrivare in Germania. Questa condizione di isolamento energetico è durata per tutto il ventennio succesivo alla caduta del Muro e si è acuita con la politica antirussa dei gemelli Kaczynski. Solo la morte, in un incidente aereo a Smolensk, del presidente della repubblica Kaczynski ha inaugurato un nuovo corso di relazioni, anche energetiche, tra Polonia e Russia. L’Ucraina, che con la rivoluzione arancione ha cercato di affrancarsi dall’influenza russa tentando la via dell’Unione Europea e della Nato, è stata accerchiata in una crisi economica prodotta dalla Russia, principale partner commerciale di Kiev, che ha

24

Page 25: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

chiuso i suoi mercati alle merci ucraine. Inoltre sono stati chiusi i rubinetti del gas verso l’Ucraina e si è cercato di destabilizzare il Paese con la rivendicazione russa dellaCrimea. Il governo arancione, chiuso nella morsa russa, non ha retto e una “restaurazione” filorussa è in corso nel Paese.Polonia, Ucraina, Georgia, paesi baltici. Ma non solo: anche Francia, Germania e soprattutto Italia. La strategia energetica russa punta sul divide et impera blandendo i governi degli Stati europei più forti in modo da spaccare, di fatto, la fragilissima unità europea e rendere il vecchio continente un suo “vassallo” energetico.

Aggirare gli ostacoli. Il problema principale per la geopolitica della Russia uscita dal tracollo del socialismo reale è stato quello d creare rotte alternative per il trasporto di idrocarburi. Ai tempi dell’Unione Sovietica la rete di condotte era diretta ai soli stati satelliti, non rivolta al commercio con l’Occidente. Ora quei Paesi non sono inclini a favorire gli interessi russi e alcuni di essi, come la Polonia, sono animati da un profondo sentimento di rivalsa. I Paesi dell’Europa orientale hanno elevato le tariffe di transito degli idrocarburi sfruttando la rendita derivante dalla loro mutata posizione cercando in tal modo di risolvere i loro problemi economici. Particolarmenteintransigente in tal senso è stato il governo di Varsavia.C’è poi l’Ucraina che controlla da sola i tre quarti del transito di idrocarburi ed è stata più volte accusata di praticare il furto di gas. Nell’inverno 2008 la crisi tra Mosca e Kiev si è acuita al punto che la Russia ha chiuso i rubinetti lasciando al freddo non solo l’Ucraina ma buona parte dell’Europa orientale. Malgrado l’ambiguità tenuta dai media occidentali, specialmente italiani, divisi tra il sostegno al partner energetico russo e quello a un possibile futuro membro Nato (appoggiato dagli USA all’epoca di Bush Jr. e Yushenko) la responsabilità della crisi è da ricondursi alla cattiva gestione economica del governo ucraino (vedi il dossier: L’Ucraina e la crisi del gas, nella categoria Ucraina). La situazione si è infatti fatta più complessa col progressivo avvicinamento di Kiev alla Nato e all’Unione Europea. Così Washington, abbandonati progetti di scudi spaziali e allargamento a est della Nato, è tornata a una politica delle sfere d’influenza che ha di fatto consegnato l’Ucraina alla Russia.La Russia -che da sempre soffre della sindrome di accerchiamento- ha in ogni caso deciso di creare rotte alternative attenendosi a due fondamentali principi: 1) anzitutto le rotte devono concludersi nei porti russi oppure, aggirando gli intermediari ritenuti inaffidabili, garantire lo sbocco ai Paesi solvibili. 2) Se ciò è impossibile le condotte devono attraversare Paesi tradizionalmente amici della Russia, quali ad esempio la Serbia, la Bulgaria, la Grecia evitando gli stati baltici e l’ostile Polonia.Nel 2000 Gazprom ha inaugurato il gasdotto Blue Stream (Goluboj Potok) in cooperazione con la Turchia. A nord invece è previsto che il gas arrivi al porto baltico di Vyborg e da lì attraverso il mare fino in Germania, aggirando così Polonia e Paesi baltici. Quest’ultima pipeline, detta North Stream (Severnyj Potok), è in fase di costruzione ed è previsto anche un braccio diretto verso la Svezia. I lavori sarevvero dovuti terminare nel 2010. Gli idrocarburi russi non possono però superare gli stretti fra Danimarca e Norvegia, il flusso di petroliere è limitato dai fondali bassi. Allo stesso modo il petrolio russo incontra ostacoli nell’uscita del Mar Nero presso i giàcongestionati stretti del Bosforo e Dardanelli, qui le compagnie russe lamentano tempi d’attesa per ottenere il permesso di transito che fanno loro perdere enormi somme di denaro.Anche a sud si è trovato il modo di aggirare i Paesi intermediari, Ucraina in testa, con la costruzione del South Stream (gasdotto) e dell’oleodotto Burgas-Alexandroupolis dopo un accordo nel 2007 con Grecia e Bulgaria. L’oleodotto sarà controllato dalla Russia, benchè

25

Page 26: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

in territorio estero, e permetterà di aggirare gli stretti turchi: le petroliere partiranno infatti da Novorossijsk, sul Mar Nero, per attraccare a Burgas in Bulgaria.

Giacimenti di oro azzurro. L’esportazione di gas russo può contare su immensi giacimenti di metano. Nella Siberia occidentale, soprattutto, ma anche in quella centrale e orientale così come nel mar Bianco. Alcuni giacimenti sono anche nel Caucaso e nel Caspio della regione di Astrakan. Fuori dai confini russi sono pochi gli attori energetici di rilievo e tutti dipendono dalle infrastrutture russe.I principali giacimenti di gas naturale fuori dalla Russia sono in Kazakistan, nella regione di Astrakan, presso la città di Atyrau, sul Mar Caspio, e nella regione di Karachaganak, al confine settentrionale con la Russia. In Uzbekistan nella regione di Gazli. Ancora in Kazakistan nella regione di Zhetybay, sul Mar Caspio, al confine col Turkmenistan. Proprio il Turkmenistan ha giacimenti importantissimi, tutta la regione del Khorog Majsk e quella del Dauletabad, al confine con l’Iran, sono ricche di gas naturale. Solo recentemente il Turkmenistan ha aperto i suoi giacimenti all’estrazione di partner anche occidentali: in prima fila per il gas turkmeno c’è Eni, ma è determinante la presenza di Gazprom. Dal Turkmenistan muove anche il Tapi, il gasdotto transafgano che porta il gas verso l’India passando dalla provincia afgana di Herat, sotto controllo delle forze armate italiane del contingente Nato.Anche l’Iran presenta numerosi giacimenti ma il paese di Theran è tagliato fuori dalle rotte di rifornimento verso l’Occidente a causa del divieto americano, gli Stati Uniti infatti vorrebbero quale partner energetico europeo l’Iraq, la cui stabilità politica tarda però ad avverarsi.Le vie per sottrarre l’Europa alle forniture russe, in nome di quell’autonomia energetica che Washington persegue per i suoi alleati Nato, partono per ora dal solo Azerbaijan,con tutti i problemi del caso. Le risorse azere infatti non sono destinate a durare poco più di dieci anni, ciò ha messo al riparo il governo di Baku dalla pressione russa ma non risolve le necessità europee di aggirare le rotte di Mosca. Il Nabucco è il gasdotto europeo in via di realizzazione che dovrebbe sottrarre il vecchio continente al monopolio russo. Per raggiungere questo obiettivo l’Unione Europea è andata ben oltre il patrocinio americano acquisendo la proprietà totale del progetto. Non solo: i soldi per la realizzazione sono stati stanziati da Bruxelles e le compagnie coinvolte sono tutte europee.

Le vie del gas. Senza un’adeguata rete di infrastrutture i giacimenti russi resterebbero inerti. La Russia può contare su una serie dii rotte energetiche capaci di esportare all’estero grandi volumi di metano. Alternativa alle pipelines russe, al momento, non ce n’è. Il progetto Nabucco, fortemente voluto dall’Unione Europea per garantirsi l’autonomia incontra molti problemi. Principalmente politici. Ecco le principali rotte del gas, russe e non solo.

1) Proprio da Baku parte il ramo Baku-Erzurum (Bte) del gasdotto Nabucco. Attraverso il territorio dell’Azerbaigian arriva fino in Georgia, passando da Tblisi, svolta verso sud, in Turchia, dove si collega al Nabucco a Erzurum. Un braccio del Baku-Erzurum arriva a un terminal sul Mar Nero, in Georgia, presso la città di Supsa a sud dell’Abkazia.

2) Ad Erzurum arriva anche il ramo Tabriz-Erzurum che porta il gas iraniano fino al Nabucco, tale fornitura non piace però a Washinton.

3) Il Nabucco vero e proprio parte da Erzurum, passa da Ankara diretto a Istambul e da lì all’Europa. La parte europea è ancora in fase di realizzazione, il progetto prevede che passi dalla Bulgaria, dalla Romania, dall’Ungheria fino a Vienna. Un

26

Page 27: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

secondo ramo del Nabucco parte da Bursa, in Anatolia, e passa dalla Grecia, attraversando l’Adriatico, fino all’Italia.

4) Dal Turkmenistan, regione di Dauletabad, parte il gasdotto che attraversa l’Iran fino a Tabriz. Dallo stesso luogo s’avvia il gasdotto russo-turkmeno che porta il gas fin nel cuore della Russia, attraverso il Kazakistan, e -con un secondo ramo- fino agli Urali.

5) Dall’Azerbaigian parte il gasdotto Transcaspico che arriva fino al porto sul Mar Nero di Novorossiijsk attraversando il Daghestan, la Cecenia, il territorio di Stavropol. Tutte queste regioni appartengono alla Federazione Russa e dipendono direttamente da Mosca.

6) Il principale vettore russo è il Sojuz, che porta il gas da Samara, negli Urali meridionali, fino all’Ucraina. Qui si congiunge con il gas proveniente da Jamalo-Nenec, circoscrizione autonoma della Siberia occidentale.

7) Dalla stessa regione, e dalla Pe ora, proviene il gas diretto al Mar Baltico. Qui, perč sottrarsi al ricatto delle repubbliche baltiche, è in progetto il gasdotto North Stream, che le aggira e attraverso il mare arriva fino alla Germania (è previsto un ramo verso la Svezia).

8) Dal porto di Novorossijsk, ove si congiungono il Transcaspico e il Sojuz, è in progetto la rotta che permette l’aggiramento dell’Ucraina, attraverso il Mar Nero: si tratta del gasdotto South Stream che prevede il passaggio (e quindi la fornitura) nei paesi tradizionalmente amici di Bulgaria, Serbia, Ungheria fino a Vienna e addirittura all’Italia.

L’81,6% del gas russo è venduto all’Europa. Ad oggi la gran parte della rete di gasdotti verso l’Europa passa da Ucraina e Bielorussia. Dall’Ucraina viene poi rifornita la Slovacchia la Repubblica Ceca, la Germania, la Slovenia, l’Austria, l’Italia, e in misura minore l’Olanda e la Francia. Questo spiega come la recente crisi del gas tra Kiev e Mosca abbia coinvolto buona parte d’Europa. Infatti dall’Ucraina, attraverso Moldavia (e Transdniestria) viene rifornita, la Romania, la Bulgaria, la Grecia, la Macedonia. Dalla Bielorussia, paese che come l’Ucraina è accusata da Mosca di rubare gas russo, viene rifornita la sola Polonia. approvvigiona direttamente La Russia la Finlandia e le tre repubbliche baltiche.

Il nodo del Caspio. Il nodo geopolitico della questione energetica si stringe sul Caspio. L’Azerbaigian, si è detto, ha risorse per al massimo dieci anni ancora. Se si è investito nel doppio progetto Nabucco (gas) e Baku-Cheyan (petrolio) è perché ci si attende una collaborazione da parte del Kazakistan, in tal senso va interpretata la costruzione dell’oleodotto Transcaspico che collega Baku ad Aktau, in Kazakistan.Gli equilibri geopolitici sono destinati a spostarsi verso oriente nei prossimi dieci anni, con il progressivo esaurirsi del petrolio azero. Il Kazakistan è lo snodo centrale delle strategie geopolitiche del domani, e già la Cina ha realizzato un progetto per un oleodotto che dovrebbe partire proprio da Aktau.La Russia conserva però il transito del petrolio kazako tramite il Cpc pareggiando di fatto i conti con l’Occidente. Un vantaggio l’Europa lo ottenne il 3 aprile 2007 quando fu firmato l’accordo per il Costanza-Trieste. Nel maggio dello stesso anno si raggiunse un accordo europeo con il Kazakistan. Ma la Russia pareggiò nuovamente i conti accordandosi con Bulgaria e Grecia per la costruzione dell’oleodotto Burgas-Alexandroupolis. Controllare il Caspio significa dunque ottenere il monopolio delle forniture energetiche spostando gli equilibri geopolitici euroasiatici. La guerra energetica, oltre che posando tubi, si combatte nelle montagne del Caucaso. E quali poi saranno i destini dell’Ucraina, della Moldavia, del Turkmenistan e del Kirghikistan?

27

Page 28: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Ex Urss, il regno dei mercanti dell’apocalissedi Massimiliano Ferraro

Dodicimila testate nucleari, millecinquecento tonnellate di uranio arricchito e centocinquanta tonnellate di plutonio: è la pesante eredità lasciata dall'Unione Sovietica dopo la fine della Guerra Fredda. Un immenso arsenale capace di trasformare l’intero pianeta in un deserto che rischia ancora di finire nelle mani di terroristi e organizzazioni criminali. Il traffico di materiale radioattivo proveniente dalla Russia e dalle ex repubbliche socialiste è una minaccia reale. Non si tratta della trama di un film in cui il destino del mondo viene messo in pericolo da missili balistici e sommergibili atomici, ma piuttosto della possibilità concreta di una contaminazione diffusa tramite la detonazione di una “bomba sporca”: un micidiale mix tra sostanze nucleari ed esplosivo tradizionale. Un attacco «praticamente certo» secondo Warren Buffet, il miliardario americano che da anni si dedica alla lotta contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa, al punto che il vero interrogativo «non è più se, ma quando verrà messo in atto». L’affermazione, basata sull’analisi delle centinaia di casi di furto o circolazione illegale di sostanze radioattive, è stata confermata recentemente anche da alcuni cablogrammi diffusi da Wikileaks da cui emergono stralci di intercettazioni telefoniche e trattative sottobanco tra agenti segreti, trafficanti ed intermediari. Un commercio fuori controllo le cui proporzioni preoccupano soprattutto la Casa Bianca.«Non abbiamo idea dell’entità globale del traffico di armi nucleari o di materiale radioattivo» ha affermato lo scorso anno il sottosegretario di Stato Usa per le armi e il controllo sulla sicurezza internazionale, Robert Joseph, «ma sappiamo, grazie all’intelligence, che recentemente è aumentata la richiesta da parte di gruppi terroristici».In stati come la Russia dove la sicurezza degli arsenali militari rimane ancora approssimativa, più dei muri spessi e dei soldati di guardia, il pericolo di attentati è stato scongiurato soltanto dall’abilità dei servizi di sicurezza e, fattore non secondario, dalla «scarsa determinazione» dei terroristi. A vent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica l’incubo atomico non ha smesso di far paura.

Trafficanti e corruzione nella Russia post-sovieticaFin da primissimi anni ’90 il caos e la crisi economica seguita al crollo del Muro di Berlino ha trasformato gli ex paesi socialisti, in particolare la Russia, in un grande discount di materiale radioattivo. Un business straordinariamente redditizio che ha rappresentato da allora una nuova fonte di guadagno per la criminalità organizzata, infiltrata nei più alti livelli del potere grazie all’ossequioso silenzio della decaduta nomeklatura comunista, una numerosa schiera di ufficiali e agenti del Kgb che si aggirava tra le macerie dell’era di Boris Eltsin, pronta a riciclarsi come mercanti della morte atomica.

Voci circa il furto e la vendita di armi nucleari nella Federazione russa hanno cominciato a circolare sempre con maggiore insistenza dal 1992, quando uno scienziato russo è stato fermato a Mosca in possesso di un chilo e mezzo di uranio arricchito, utilizzabile per la fabbricazione di una bomba atomica. Un anno più tardi nella gelida Murmansk, quasi due chili della stessa sostanza sono stati intercettati dalla polizia dopo essere stati rubati da due delinquenti comuni. Ma l’episodio più impressionante rimane il sequestro nel porto di Kaliningrad del mercantile russo “Compositore Mussorgski”, avvenuto il 12 dicembre 1993. Stando all’agenzia di stampa Interfax la nave trasportava verso occidente ben 200 tonnellate di uranio.

28

Page 29: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Nel 1995 un ordigno contenente cesio-137 è stato trovato in un parco della capitale non distante dalla piazza Rossa. Ma nemmeno il ripetersi di episodi come questi ha dissuaso il Cremlino dall’interrompere, nel novembre dello stesso anno, gli accordi con gli Stati Uniti sulla trasparenza dei depositi militari. Proprio la sicurezza nell’alloggiamento del materiale nucleare nelle ex repubbliche sovietiche è tuttora motivo di preoccupazione per la comunità internazionale. Buchi nelle recinzioni, allarmi fuori uso e guardie poco addestrate, sono solo alcune delle criticità evidenziate nel corso dalle ispezioni effettuate in strutture che versano spesso in condizioni di degrado o abbandono. Come nel caso della centrale di Siewiersku, uno dei più importanti impianti per l'arricchimento dell'uranio e il trattamento del plutonio della Federazione Russa, che ancora nel 2009 era vigilata da soldati armati di pistole senza munizioni.Ma il pericolo numero uno per la sicurezza continua ad essere la condotta del personale interno alle strutture nucleari. Scienziati e ingegneri con salari troppo bassi e quindi facilmente corruttibili. A favorire i traffici illeciti dall’ex Urss c’è poi l'incredibile mancanza di inventari precisi delle sostanze pericolose possedute. Quantità sufficienti a produrre 85.500 nuove testate nucleari secondo l’istituto Sipri di Stoccolma; “solo” 40.000 a parere del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Si tratta comunque di stime approssimative, perché al contrario di quanto succede negli inventari dei comuni magazzini civili, i materiali radioattivi sono spesso catalogati in modo errato o addirittura non catalogati. In condizioni del genere la sottrazione di pochi chilogrammi di uranio o plutonio potrebbe passare addirittura inosservata. Un'eventualità che mette i brividi, ma che potrebbe essersi già concretizzata. I dati forniti dal ministero degli Interni russo parlano di oltre 300 episodi di commercio di sostanze radioattive negli anni compresi tra il 1993 e il 2005. Il 30%

di essi riguarda il periodo 1993-1995, il momento più critico della storia della nuova Russia in cui sarebbero stati contrabbandati armamenti di tutti i generi. A questo proposito nel 1997 il generale Alexander Lebed, uno degli uomini simbolo dell'Armata Rossa, confidò al mensile Sixty Minutes che la Russia avrebbe «perso dai suoi arsenali alcune armi nucleari miniaturizzate». Una circostanza seccamente smentita dal Cremlino che in quell'occasione era arrivato ad affermare di non aver mai prodotto armi del genere.In compenso nel 2008 arrivarono a Washington delle foto sconcertanti sulla vendita di lastre di uranio da 25 chili. Degli ex generali russi le stavano tranquillamente commerciando, non è dato sapere a chi, tramite un anonimo mediatore di nome Orlando.

Storie di contaminazioni letaliLa circolazione illegale di materiale nucleare riguarda non soltanto ciò che serve a produrre ordigni, ma anche sostanze scarsamente radioattive che possono essere utilizzate come implacabili strumenti di morte. Nel 1993 la mafia russa decise di utilizzare un congegno capace di diffondere raggi gamma per giustiziare un uomo d’affari moscovita. La contaminazione avvenne nell’ufficio dell’uomo a sua insaputa provocandone il decesso in pochi mesi.In modo simile morì nel 2004 Roman Cepov, responsabile della sicurezza del presidente russo Vladimir Putin. I medici gli diagnosticarono una malattia causata da una sostanza radioattiva ingerita durante l’alimentazione. Anche Lece Islamov, guerrigliero ceceno, si ammalò dopo una merenda con tè e tartine offertagli in carcere dai servizi segreti russi. Subito cominciò a sentirsi male: gli salì la febbre, la pelle gli si infiammò e cominciarono a cadergli i capelli. Morì in pochi giorni.Infine nel 2006 l’opinione pubblica mondiale venne sconvolta dalla morte di Aleksandr Litvinenko, ex agente del servizio

29

Page 30: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

segreto russo e dissidente. L’uomo venne contaminato in un sushi-bar di Londra con una piccola dose di un pericoloso isotopo radioattivo, il polonio-210. Tracce della sostanza sono state trovate nei giorni seguenti anche su un aereo della British Airways e hanno reso necessario il controllo di circa 33000 passeggeri. Anche se in mancanza di una verità giudiziaria certa, è opinione diffusa che Litvinenko sia stato ucciso a causa della sua attività di dissenso al governo russo. Prima di morire lo stesso ex agente del Kgb accusò pubblicamente il presidente Vladimir Putin di averlo condannato a morte: «Avete mostrato di essere barbaro e spietato come hanno sostenuto i vostri critici più ostili».

Caucaso: la rotta privilegiata della spazzatura nucleareIl contrabbando atomico segue spesso le vie già tracciate dal traffico di droga e di armi. È il Caucaso la rotta privilegiata verso l’Europa e il resto del mondo: ventuno episodi di traffico illegale di materiale radioattivo registrati dal 1991 ad oggi.Negli ultimi dieci anni l’attenzione è salita oltre i livelli di allarme soprattutto in Georgia dove esistono territori fuori controllo. I trafficanti possono facilmente eludere i controlli facendo passare le sostanze pericolose attraverso le province separatiste dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, o attraverso la frontiera con la repubblica autonoma russa dell’Ossezia del Nord. Nel 2003 a Tbilisi è stato fermato un contrabbandiere in possesso di 173 grammi di uranio arricchito nascosto in una scatola di tè. La merce era attesa da un intermediario turco per poi essere rivenduta ad un acquirente musulmano mai identificato. Tre anni dopo è stato sventato un altro tentativo di un cittadino dell’Ossezia del Nord di vendere 100 grammi di uranio per un milione di euro. Il materiale sarebbe presumibilmente stato trafugato dall'impianto di trasformazione di Novosibirsk, in Russia, senza che nessuno ne avesse denunciato la scomparsa.

Il materiale nucleare va e viene dal confine georgiano anche nel 2008. Un'auto con a bordo tre armeni riesce a varcare la frontiera al valico di Sadakhlo, nonostante sia scattato l’allarme radiazioni. L'auto viene fermata anche il giorno dopo, durante il ritorno in Armenia, ma i tre uomini vengono subito rilasciati. Il motivo: «nonostante il veicolo sia contaminato da cesio-137, ormai a bordo non c’è più nulla». Nel 2009 il governo degli Stati Uniti decide di fornire alla polizia georgiana decine di misuratori di radioattività portatili e subito viene scoperto altro cesio-137 nascosto sottoterra in una zona poco distante dall’aeroporto di Kutaisi. Laconica la reazione del segretario di stato Usa, Hillary Clinton, informata dell’accaduto: «Non erano preparati ad un intervento tempestivo e non hanno condotto indagini per capire a chi appartenesse quella sostanza».La conferma che il Caucaso sia nel mirino del terrorismo internazionale arriva nell’aprile del 2010, quando il presidente georgiano Saakashvili in persona ha annunciato nel corso di un vertice tenuto a Washington di aver sventato un piano per armare una testata nucleare. L’emissario di un gruppo islamico si sarebbe mostrato interessato all’acquisto di una grande quantità di uranio.

Transnistria, una Tortuga alle porte d’EuropaL’allarme per l’esistenza di una regione separatista utilizzata come base dai trafficanti di materiale nucleare interessa anche la Moldavia. Sul banco degli imputati c’è la Transnistria, piccola striscia di terra moldava, già sede di uno dei più importanti arsenali dell’Unione Sovietica. Una repubblica fantasma di stampo comunista non riconosciuta da nessuno stato del mondo, ma che da oltre vent’anni è di fatto indipendente dal governo di Chisinau. La Transnistria è una specie di Tortuga a due passi dai confini europei in cui si commercia di tutto. Da qui sarebbero sparite nel 2009 alcune batterie di razzi

30

Page 31: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Alazan con testate ad isotopi radioattivi schierate per anni a difesa dell’aeroporto della città di Tiraspol. Missili progettati per spargere prodotti chimici nell’aria, riconvertiti dopo la fine della Guerra Fredda in imprecisi e pericolosissimi proiettili radioattivi. La loro esistenza in Transnistria era stata resa nota dal Times nel 2005 ed aveva spinto il Pentagono a monitorarne la posizione via satellite. In questo modo si scoprì che quattro anni dopo ce n’erano dieci in meno.Dove sia finito l’uranio e il cesio contenuto nelle testate di quei missili è ancora un mistero, ma secondo il giornalista inglese Robert Boyes le voci che da sempre associano la piccola repubblica separatista ai più loschi traffici di materiale radioattivo potrebbero essere fondate. A confermarlo ci sarebbero i quasi due chili di uranio-238 trovati in un garage alla periferia della capitale moldava nel 2010. Boyes non ha dubbi sulla loro provenienza: la Tortuga dei pirati nucleari. Circa nove milioni di euro il ricavato stimato dalla vendita della sostanza sul mercato nero, con il forte sospetto che l’affare fosse finalizzato alla fabbricazione di una bomba sporca per scopi terroristici.Ad agosto del 2011 si ripete un episodio molto simile. Un’operazione della polizia moldava svolta sotto copertura smaschera un’altra banda di contrabbandieri nucleari. Questa volta il buon fine della compravendita con un anonimo paese africano musulmano viene sfiorata per un soffio.

Italia: crocevia della mafia dell’atomoIn Italia le tracce dei mercanti dell’apocalisse compaiono poco dopo l’ultima discesa della bandiera rossa dal pennone del Cremlino. Alcuni fatti, mai del tutto chiariti, hanno visto come protagonisti degli insospettabili intermediari e delle frange deviate dei servizi segreti dell’Est. A causa della posizione strategica del nostro Paese, anche la mafia si è interessata fin da subito al business dell’atomo. Un mercato molto redditizio e relativamente semplice,

utilizzato per pulire il denaro sporco con operazioni estero su estero in valuta, oro e diamanti. Proprio come negli anni ’50, quando Cosa Nostra passò dal contrabbando di sigarette al traffico della droga, anche il commercio di materiale nucleare è stato per gli uomini d’onore una vera svolta epocale. Una trasformazione velocissima iniziata nel 1991 con le prime voci sulla presenza nel territorio italiano di testate tattiche con un raggio compreso tra i trenta e i sessanta chilometri, in vendita al prezzo di venti milioni di dollari. L’attenzione dei servizi segreti si concentrò da allora sulla rapacità della criminalità organizzata e sulla presunta esistenza di una misteriosa internazionale in contatto con le nazioni interessate alla spazzatura atomica sovietica: Libia, Paesi del Medio Oriente e Iraq.Il confine tra la fantasiosa trama di una spy-story e la realtà venne definitivamente varcato nell’ottobre del 1991 quando nell’ufficio di Romano Dolce, giudice di Como, si presentarono due uomini in possesso di quattro grammi di plutonio. Erano Karl Friederich Federer, cittadino svizzero, e l’agente dei servizi segreti italiani che lo convinse a costituirsi prima di consegnare la sostanza ad un fantomatico dottor Montini. Era solo un assaggio dei 30 chili di uranio e dei 10 di plutonio che Federer rivelò essere custoditi in un nascondiglio in Svizzera, pronti per essere commerciati tramite un intreccio di oltre 200 società fantasma.Fu l’inizio di un’operazione chiamata «Uranio proletario» che il 1 novembre 1991 portò all’arresto di sei persone e al sequestro a Zurigo dell’intera partita di uranio.«È stato quello il passaggio fondamentale», raccontò Dolce a La Stampa, «fino a quel momento avevamo fatto solo delle supposizioni. Ma il sequestro di Zurigo dimostrò che il traffico era reale». Gli inquirenti elvetici invece si mostrarono scettici e valutarono il caso come controverso, vista la bassa radioattività dell’uranio ritrovato che lo rendeva

31

Page 32: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

inutilizzabile per fini militari. Successivamente le indagini del giudice Dolce sui traffici nucleari dall’ex Urss subirono uno stop improvviso, quando il pm comasco finì sotto inchiesta con l’accusa di aver finto alcuni ritrovamenti di esplosivo e armi allo scopo di procurarsi pubblicità; condannato in primo grado a tre anni e otto mesi di reclusione, Romano Dolce venne poi assolto in appello nel 2004 e infine reintegrato dal Consiglio Superiore della Magistratura.Nel gennaio 1993 un’altra città lombarda si scopre improvvisamente al centro di un traffico di sostanze nucleari. Dopo sette mesi di indagini a Brescia scoppia il “plutonio connection”. Vengono arrestati due cittadini bresciani al di sopra di ogni sospetto e un ex agente del controspionaggio bulgaro. Gli inquirenti ipotizzano l’esistenza di un asse Russia-Bulgaria-Italia e la possibilità che dietro il contrabbando ci sia Cosa Nostra. Scatta la ricerca di 3,2 grammi di plutonio destinato al Medio Oriente che sarebbe stato contenuto in una scatoletta color senape «grande come una confezione di Alka Seltzer». All’interno una specie di vite metallica di circa 4 cm sormontata da un dischetto ricoperto di smalto sarebbe servita ad impedire la contaminazione dei corrieri, ma che non è mai stata trovata.Nel 1994 una dichiarazione shock del Sottosegretario agli Esteri, Enzo Trantino ipotizzò che i voli umanitari partiti da Chernobyl per portare in Italia i bambini malati di radiazioni potessero essere serviti a contrabbandare spazzatura atomica, valuta e narcotici. In seguito, l’operazione “Cheque to Cheque” condotta dalla procura di Torre Annunziata svelò l’esistenza di un traffico di armi, materiale radioattivo, oro e titoli di credito. Tra gli indagati anche il leader dei nazionalisti russi Vladimir Zhirinovski, accusato di aver contrabbandato mercurio rosso, osmio e plutonio proveniente dalla Bielorussia. Nel 2005 Mario Scaramella, consulente della commissione parlamentare Mitrokin, denunciò la presenza a Rimini di una

valigetta con dieci chili di uranio. Vennero arrestate quattro persone ma nel procedere delle indagini emersero elementi discordanti che non convinsero i giudici. Scaramella è attualmente sotto processo con l’accusa di aver montato volontariamente il caso per accreditarsi come persona informata sui fatti relativi a traffici illeciti dall'ex Unione Sovietica. Una storia ancora tutta da chiarire.

E il rampollo disse: «Fermi, o sarà la fine per tutti»Rimini, agosto 1992. I carabinieri effettuano una perquisizione in un hotel extralusso: quello che doveva essere un normale controllo antidroga nasconde una sorpresa impensabile. Nella camera di Luigi Baratiri, agente di commercio abruzzese di buona famiglia, c’è una valigetta ventiquattrore che attira l’attenzione degli uomini dell’Arma. Appena un carabiniere prova ad aprirla, il ragazzo, visibilmente preoccupato, gli intima di non farlo: «Fermi, o sarà la fine per tutti», urla. Dentro la valigetta, protetti da un contenitore di piombo, ci sono circa venti grammi di uranio-235. Ma ancora più sorprendente della scoperta è la linea difensiva del giovane. «Sono un agente provocatore del Servizio Segreto Militare Italiano», dichiara agli inquirenti, affermando inoltre di essere impegnato in una missione per smascherare trafficanti internazionali di materiale fossile. Si pensa a compratori libici, mediorientali o iracheni, ma in realtà quell’uranio proveniente dall’Est sarebbe dovuto essere consegnato ad un tale dottor Campari, che si scopre essere il falso nome di Aldo Anghessa: noto personaggio coinvolto in molteplici vicende legate al traffico di armi, che si era definito a sua volta un agente provocatore. Sarebbe stato proprio lui ad avvertire la procura di Rimini del pericolo, credendo di aver a che fare con un mercante di sostanze radioattive. Il risultato è un pasticcio degno di una commedia comica in cui gli unici ad essere smascherati sono i veri o presunti agenti segreti.

32

Page 33: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Il caso dell’«uranio delle bombe atomiche a qualche metro dalla spiaggia più affollata d’Europa» finisce in questo modo sui giornali. «Ma davvero» si domanda Pier Luigi Martelli sul Corriere della Sera «si possono mettere assieme un agente di commercio di Giulianova, sedicente agente segreto, la spiaggia di Rimini, il Kgb e la bomba atomica?» Intanto arrivano a Rimini i massimi vertici dell’intelligence e Baratiri, dopo aver passato una sola notte in carcere, viene scarcerato. A marzo del 1994 sarà condannato a 300.000 lire di multa per aver omesso di registrare il possesso dell’uranio negli appositi registri.

Misure di contrasto ai traffici nucleariAttualmente il più ampio strumento usato per contrastate la mafia dell’atomo è il Trattato di non proliferazione della Armi Nucleari (Treaty on the No-Proliferarion of Nuclear Weapon). Un accordo internazionale che prevede l’obbligo di non ricevere o trasferire armi e altro materiale radioattivo. L’hanno sottoscritto tutti gli stati membri dell’Onu ad eccezione di Israele, India e Pakistan. Altri accordi bilaterali per limitare questo genere di contrabbando sono stati firmati tra Stati Uniti ed altri paesi. Va in questa direzione anche il progetto Megaports, studiato dal Dipartimento per l’Energia Usa, che prevede l’installazione di maxi-rilevatori di radioattività in 100 porti nel mondo, tra cui 4 italiani.

Massimiliano Ferraro è nato a Torino nel 1979. Ha vissuto per brevi e lunghi periodi in Europa dell’Est, Scandinavia, Sud America e nell’italica Roma caput mundi.Ha collaborato con Limes, Narcomafie, Il Giornale del Friuli, Playboy Magazine e con il quotidiano torinese Pagina. E’ autore del thriller Black Russian (Sogno ed., Genova 2010) e del saggio L’ultimo assalto all’aurora, dedicato al ribelle spezzino Renzo Novatore (Arduino Sacco ed., Roma 2011). Per EaST Journal scrive di Russia e delle russieperiferiche: Bielorussia, Cecenia, Transnistria e Asia Centrale.

33

Page 34: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Cipro, va in scena la guerra del gas

di Matteo Zola

Caccia israeliani pattugliano i cieli di Cipro, una corvetta francese controlla le acque intorno all’isola dove già sarebbe presente un sottomarino russo al quale, fra qualche settimana, dovrebbe unirsi nientemeno che una portaerei inviata da Mosca. E poi navi greche e turche al largo di piattaforme americane che trivellano i fondali. Cosa succede nel Mediterraneo orientale? Sotto i fondali marini si sono scoperti 122 trilioni di piedi cubi di gas naturale. Una quantità - secondo il report 2011 'World Energy' della British Petroleum - di molto superiore agli 86.2 trilioni di piedi cubi che costituiscono oggi le riserve di tutti Paesi dell'Ue messi insieme. Ecco cosa succede.

Nell’occhio del ciclone è il quadrante 12 (detto ‘Afrodite’) nella Zona Economica Esclusiva (Zee) della Repubblica di Cipro dove si trova la piattaforma 'Homer Ferrington', della compagnia texana Energy Noble, la quale ha avviato prospezioni di idrocarburi nelle acque cipriote su mandato di Nicosia. L’escalation di tensione nel Mediterraneo orientale, che vede protagoniste Israele, Cipro e Turchia, si deve dunque a questioni energetiche destinate a mutare gli assetti geopolitici del Medio Oriente, incrinando i rapporti tra Ankara e Atene e destando la viva preoccupazione di Bruxelles che, nella questione, parteggia per Nicosia. Per capire meglio la questione occorre fare un passo indietro.

A fine dicembre 2010 la texana Noble Energy, in partnership con le israeliane Delek Energy e Avner Oil Exploration, avevano confermato l’esistenza di almeno due enormi giacimenti di gas naturale nelle acque del Mediterraneo orientale. Una notizia destinata a far fibrillare le cancellerie mediorientali che già da tempo stavano con l’orecchio teso. E’ infatti dal 1998 che la Noble Energy trivella i fondali al largo di Israele ed è proprio nelle acque israeliane che, in quell’anno, scoprì il giacimento detto Mary-B. I lavori di analisi e trivellazione sono durati per anni nella convinzione che un grande giacimento di idrocarburi si estendesse da Israele alla Grecia. Nel gennaio 2009, la società Noble Energy e suoi partner, Delek Drilling, Avner Oil & Gas Ltd, Isramco, e Gas Dor Exploration, hanno segnalato la presenza di gas naturale nel giacimento denominato Tamar-1 situato a nord della costa di Haifa, in Israele. Da quel momento in poi si sono susseguite le scoperte: dopo Tamar-1, le società hanno portato alla luce il giacimento Dalit e, lo scorso 3 giugno, quello di Leviathan. La Noble ha annunciato la presenza di 453 miliardi di metri cubi di gas nelle riserve del giacimento di Leviathan e 228 miliardi in quelle di Tamar-1. I giacimenti di Leviathan e Tamar si estendono tra le acque tra Cipro, le coste siriane, libanesi ed ovviamente israeliane. Dal momento della scoperta la tensione è salita alle stelle.

Israele ha dovuto muoversi con rapidità per mettere le mani su giacimenti che potrebbero non solo garantirle l’autonomia energetica ma farne persino un esportatore di combustibili di livello regionale. Una regione turbolenta, però. Con Cipro è stato facile: a metà dicembre 2010 è stata concordata la demarcazione del confine marittimo tra i due Paesi e soprattutto le zone di esplorazione ed estrazione e le zone economiche esclusive. Secondo la Carta che regola il diritto marittimo (Unclos) ogni Stato può sfruttare le risorse delle acque internazionali fino a 200 miglia nautiche dalla propria costa. Quindi molto oltre le acque territoriali. Israele e Cipro però sono distanti tra loro appena 260 miglia. In

34

Page 35: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

ottemperanza alle regole internazionali si è reso necessario definire una linea mediana tra le acque di pertinenza dei due Paesi.

Cipro e Israele hanno presto provveduto a ratificare analoghi accordi con l’Egitto e la Giordania mentre il governo di Tel Aviv ha fissato unilateralmente una linea con la striscia di Gaza. Il Libano ha avvertito Israele di non azzardarsi a toccare nemmeno un centimetro delle acque territoriali libanesi interessate, in misura minore, dalla presenza di giacimenti. L’osso più duro è stato la Turchia.

Il governo di Ankara sta giocando in politica estera, sotto la guida del ministro Davuto luğ , una partita su più livelli che ha visto la Turchia recentemente protagonista dell’espulsione dell’ambasciatore israeliano ad Ankara a seguito dei fatti della Mavi Marmara, del trionfale tour di Erdogan nei paesi delle “primavere arabe”, nonché della forte campagna diplomatica per il riconoscimento dello stato palestinese in sede Onu che, al momento, ha portato all’ingresso nell’Unesco. A questo si devono aggiungere le tensioni con la Siria, l’invasione dell’Iraq del nord (a caccia delle basi del Pkk curdo) e non da ultimo la questione cipriota che ha portato alla minaccia di congelamento delle relazioni con l’Ue nel caso il governo di Nicosia assumesse la guida di turno dell’Unione nel secondo semestre 2012.

La questione cipriota affonda le radici nell’invasione turca del 1974 a seguito del colpo di Stato ordito dalla Grecia dei Colonnelli. Da allora l’isola è divisa in due parti: quella greco-cipriota, oggi membro dell’Unione Europea, e quella turco-cipriota riconosciuta solo da Ankara. In questo contesto l’avvio delle trivellazioni da parte di Cipro Sud non potevano che scatenare la reazione turca: Ankara teme l’evidente rischio che Turchia e Cipro Nord vengano tagliate fuori dai benefici e dai proventi della torta energetica. Una torta che Israele, Cipro, Grecia ed Egitto hanno già provveduto a spartirsi. La reazione del ministro Davuto lu non si è fatta attendere. Il 21 settembre scorso un comunicato del ministeroğ degli Esteri turco anticipava la sigla di un accordo di delimitazione delle piattaforme territoriali tra la Turchia e la repubblica di Cipro Nord, stipulato tra Erdo an ed ilğ presidente della repubblica di Cipro Nord, Dervi Ero lu Un atto dovuto “ş ğ dal momento che l'Amministrazione greco-cipriota ha iniziato l'attività di perforazione il 19 settembre” recita il comunicato che conclude: “[l’amministrazione greco-cipriota, ndr] occorre che sospenda l’attività di perforazione in nome della pace e della riconciliazione invece di sprecare le proprie energie nel creare tensioni. Sarà così possibile giungere a una soluzione duratura che possa fare del Mediterraneo orientale uno spazio di cooperazione assicurando che le risorse naturali di Cipro siano equamente condivise dai due popoli dell’isola”.

Le rivendicazioni turche sono ritenute pretestuose dal governo di Nicosia – ma anche dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti – poiché Ankara non ha mai voluto ratificare l’Unclos, la carta che regola il diritto marittimo. Malgrado ciò il presidente greco-ciprota, Dimistris Christofias, il 22 settembre scorso, si disse pronto a condividere con i turco-ciprioti i proventi delle attività energetiche. Una posizione che ha suscitato l’apprezzamento dei turco-ciprioti e che ha valso la promessa della ripresa dei negoziati bilaterali per la riunificazione dell’isola.

Solo il giorno successivo, come riportato dal quotidiano Hürriet, il primo ministro Erdogan, partecipando alla cerimonia di consegna della prima nave da guerra integralmente turca, ha riaffermato con forza il diritto turco a difendere i propri interessi marittimi, ivi compresi quelli energetici, mentre la motonave esplorativa Piri Reis entrava

35

Page 36: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

nelle acque del quadrante 12 a sud di Cipro, ad una sessantina di km da dove i partner israeliani ed americani dei greco ciprioti stanno trivellando. Non solo, ad accompagnarla tre sottomarini e tre fregate (la 'Salih Reis', la 'Sokullu Mehmet Pasa' e la 'Oncu') una delle quali si àncora pochi giorni dopo a sei miglia al largo della costa sud-occidentale di Cipro. Segno che quello che preme ad Ankara non è tanto la riunificazione di Cipro o i diritti della popolazione turca dell’isola (che paiono più che altro strumentali), quanto la possibilità di mettere le mani sui giacimenti. In caso contrario i sogni di Ankara di affermarsi quale potenza regionale rischierebbero di svanire in un brusco risveglio.

Il gas naturale del Mediterraneo orientale ha ridestato gli appetiti dell’orso. Il gigante russo dell'energia Gazprom sarebbe interessato ad ottenere i diritti per la ricerca di riserve sottomarine di gas naturale della zona economica esclusiva di Cipro, al largo della costa meridionale dell'isola. Secondo quanto reso noto dalla Famagusta Gazette, Gazprom sarebbe già pronta ad avviare prospezioni in due zone off-shore nei pressi del lotto 12 'Afrodite' mentre il prossimo 19 novembre la portaerei russa 'Ammiraglio Kuznetsov' salperà le ancore dalla sua base nel mare di Barents insieme con diverse altre unità navali diretta a Cipro. Secondo il quotidiano, la portaerei trasporta ventiquattro caccia ad ala fissa e diversi elicotteri.

Il traffico nel Mediterraneo orientale si sta facendo intenso e il numero di mezzi aerei e navali dispiegati fa salire la tensione per quella che alcuni analisti hanno già ribattezzato la “guerra fredda di Cipro”. Non a caso Afrodite era amante di Ares, il dio della guerra, che sulle millenarie acque greche ancora sembra pronto a soffiare il vento della battaglia.

36

Page 37: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Mafia atomica. Cosa c'è dietro la costruzione della centrale di Belenedi Matteo Zola

Una nuova centrale nucleare in Bulgaria proprio mentre l’Unione Europea sembra guardare a un futuro senza energia atomica, dalle parti di Sofia progettano un impianto da realizzarsi nella cittadina di Belene, sul Danubio, al confine con la Romania. Fin qui, si potrebbe dire, niente di male. Non fosse che dietro alla realizzazione della nuova centrale c’è l’ombra del crimine organizzato. Da anni la Bulgaria è bombardata da una campagna mediatica che grida all’allarme energetico eppure il Paese è autosufficente, anzi è leader nell’esportazione di elettricità. A volere la centrale è però una lobby di magnati dal torbido passato, legati a doppio filo con la mafia, e che trovano nell’attuale governo, guidato da Boyko Borisov, un’utile sponda. La nuova centrale di Belene è una gallina dalle uova d’oro per le loro aziende che già si sono spartite la torta di appalti e subappalti. L’Unione europea, però, non ci sta e i partner occidentali (le banche come Unicredit e Deutsche Bank, o aziende come la Rwe) si sono ritirate dal progetto che, però, resta in piedi grazie al supporto russo, facendo della Bulgaria il cavallo di Troia del Cremlino nelle strategie energetiche europee.

Kozloduj e l’allarme energetico. Una centrale nucleare in Bulgaria c’è già e si trova a Kozloduj, piccola località sul Danubio, a ridosso del confine con la Romania, poco distante da Craiova e Vidin. La sua costruzione risale al 1970, in piena epoca comunista, ed è dotata di sei reattori. I primi due, costruiti all’inizio degli anni Settanta, sono stati dismessi nel 2004 a seguito di un accordo tra il governo bulgaro e l’Unione Europea, ma già dal 1993 esisteva un’intesa con Bruxelles per la dismissione dei due reattori più vecchi. Altri due reattori furono invece costruiti all’inizio degli anni Ottanta e dismessi nel 2007 con l’ingresso della Bulgaria nell’Unione Europea poiché ritenuti non a norma con gli standard comunitari. Gli ultimi due reattori sono invece del 1987 e del 1991 e, a seguito di rigorosi controlli compiuti dall’Iaea (l’agenzia dell’Onu per l’energia atomica), sono stati dichiarati sicuri. Oggi producono 2000 MWe.

Secondo i dati del ministero italiano allo Sviluppo economico, aggiornati al 2010, e realizzati congiuntamente alla Camera italiana di Commercio di Sofia, il carbone e il combustibile nucleare costituiscono le fonti predominanti per la produzione di energia elettrica necessaria al fabbisogno

energetico del Paese. Fino alla vigilia dell’ingresso nella Ue il 1° gennaio 2007, la Bulgaria era il Paese leader nel sudest Europa nella produzione e nell’ esportazione di energia elettrica. Con la chiusura dei reattori 3 e 4 della centrale nucleare di Kozloduj, il 31 dicembre 2006, le esportazioni di energia elettrica si sono ridotte. La produzione nel 2008 è stata di 45 TWh (meno 4,2% rispetto al 2007), per il 43,6% da centrali termoelettriche. I consumi sono stati di 29,9 TWh (+1,9%). L’11,9% della produzione, pari a 5,4 TWh, è stato esportato. Questi dati significano una cosa sola, che malgrado la chiusura dei reattori di Kozloduj, la Bulgaria è autosufficiente dal punto di vista energetico tanto che quasi il 12% dell’energia prodotta è destinata all’export. Allora perché dal 2003 i cittadini bulgari sono bombardati da una campagna mediatica che gridava all’allarme energetico?

«Una vera e propria mafia dell’energia ha tenuto in apprensione i cittadini bulgari con lo spettro della crisi energetica» ebbe a dichiarare nel 2006 Guergui Kaschiev, fisico nucleare ed ex direttore dell’Agenzia per la Sicurezza Nucleare in Bulgaria, oggi ricercatore all’Istitute of Risk Research di

37

Page 38: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Vienna. Una “mafia dell’energia” composta da nomi illustri che si raccolgono attorno al Bulatom, un’organizzazione non governativa per l’energia atomica, vera e propria lobby del nucleare.

L’affaire Atomenergoremont. Facciamo un passo indietro, quando nel 2003 è stataprivatizzata la Atomenergoremont, società bulgara fino ad allora di proprietà dello Stato (l’unica) che si occupava (e si occupa) del mantenimento della centrale nucleare di Kozloduj. Nel giugno di quell’anno il settimanale bulgaro Kapital pubblicava un articolo dal titolo suggestivo di “radiazioni criminali”, e faceva i nomi dei principali interessati ad accaparrarsi la Atomenergoremont: Konstantin Dimitrov“Samokovetza”, Vasil Bozhkov, Hristo Kovachki, Bogumil Manchev.

Konstantin Dimitrov “Samokovetza” era un miliardario e leader del traffico internazionale di stupefacenti, ritenuto vicino al Vis, compagnia di security e di assicurazioni bulgara, relegata ad associazione criminale dalle autorità perché sospettata di far parte di un gruppo dedito a estrosioni, traffico di auto rubate, narcotraffico. Nel dicembre 2003 Konstantin Dimitrov fu però ucciso ad Amsterdam da un killer professionista, tutti suoi beni furono poi sequestrati nel 2008 su richiesta della Commissione parlamentare per le proprietà acquisite attraverso il crimine organizzato. Secondo Kapital era proprio Dimitrov il favorito per l’acquisizione di Atomenergoremont.

Vasil Bozhkov, detto “il teschio”, controverso uomo d’affari, si candidò all’acquisto della Atomenergoremont prima come attore in proprio, poi insieme a Bogumil Manchev, capo di Risk Engeneering, azienda chiave nel settore dell’energia atomica bulgara. A spuntarla fu però Hristo Kovachki, un altro uomo d’affari dal torbido passato, attualmente in libertà provvisoria con l’accusa di evasione

fiscale. L’acquisto di Atomernegoremont da parte di Kovachki si concretizzò tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004, in concomitanza con la morte di Dimitrov.

Bozhkov, criminale organizzato. Vasil Bozhkov, “il teschio”, è oggi titolare dellaNove Holding, operante nel settore delle assicurazioni e del gioco d’azzardo, si è fatto i soldi con le costruzioni di infrastrutture, vincendo facili appalti e stornando i fondi europei per lo sviluppo, dati da Bruxelles proprio per l’ammodernamento delle reti stradali e ferroviarie. Già presidente della squadra di calcio della capitale, il Cska Sofia, e collezionista d’arte antica (su di lui pende l’accusa di traffico d’arte e scavi clandestini).

Il cablogramma 08SOFIA631, datato 25 settembre 2008, reso noto nel gennaio 2011 da Wikileaks, proveniente dall’ambasciata americana a Sofia e firmato dall’ambasciatore McEldowney, recita: «L’ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) è determinato a mantenere la sua linea dura contro la Bulgaria. Quello nei confronti di Sofia è un impegno a lungo termine. Lo scopo dell’Olaf in Bulgaria si sviluppa in due direzioni: 1) recuperare i fondi comunitari indebitamente spesi in frodi varie 2) perseguire e, se possibile, condannare i responsabili di atti criminali associati con l’uso improprio dei fondi comunitari. L’intenzione dell’Olaf è puntare in alto, le indagini portano a un solo uomo: Vasil Bozhkov, un uomo d’affari molto ricco e influente con noti legami con il crimine organizzato e collegamenti a molti politici di alto livello». Il cablogramma si conclude dicendo: «Se la Bulgaria abbattesse Bozhkov, sarebbe un grande progresso».

Mantchev e il Bulatom. Nell’affare Atomenergoremont, Vasil Bozhkov entra dapprima come attore in proprio per poi affiliarsi a Bogumil Mantchev, direttore di Risk Engineering ma anche presidente del Bulatom, organizzazione non

38

Page 39: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

governativa per l’energia atomica di cui fanno parte la Egemona, la Glavbolgarstroy, la Zavodski stroezhi, la Tita Consult e la stessa Atomenergoremont, nel frattempo venduta dallo stato a Hristo Kovachki. Queste ditte si batterono per la riapertura dei reattori tre e quattro a Kozloduj quando nel 2006, alla vigilia dell’arrivo di Putin a Sofia, il premier bulgaro di allora, Sergey Stanishev, annunciò che la Bulgaria era in trattativa con compagnie inglesi e canadesi per la cessione in leasing dei reattori 3 e 4 della centrale di Kozloduj, in cambio di una loro operazione di lobbying nei riguardi dei paesi Ue, che avrebbe dovuto rendere possibile la riapertura dei reattori stessi. Stanishev aggiunse che si trattava di un’operazione complicata, visto che sarebbe necessaria una rivisitazione degli accordi di ingresso della Bulgaria da parte degli altri 26 Paesi dell’Unione, dato che la chiusura dei reattori era parte integrante degli accordi stessi.

Nonostante l’immediata reazione della Commissione Europea, che fece subito sapere di considerare il caso “Kozloduj” chiuso e non rinegoziabile, il 21 gennaio 2006Stanishev prese parte attiva nel lancio della nuova campagna, intitolata “Voglio la luce”, organizzata non solo dal governo, ma dalle grandi aziende attive nel campo energetico che si radunano attorno al Bulatom. La campagna mediatica a favore dell’energia atomica, costruita sull’allarmismo del deficit energetico, trovò in “Voglio la luce” il suo punto più alto. Un allarmismo giustificato solo dagli interessi particulari dei magnati dell’energia poiché – si è visto – fino al 2007 la Bulgaria era leader nell’esportazione di elettricità.

Belene, il vero affare. Secondo il settimanale Kapital la campagna “Voglio la luce”, finalizzata alla riapertura dei reattori 3 e 4 di Kozloduj, era solo un diversivo utile acondizionare gli umori dell’opinione pubblica. Vero obiettivo era la costruzione di unanuova centrale a Belene. Non a caso le aziende che si raccolgono attorno al

Bulatom figurano tutte nelle opere di subappalto per la costruzione della nuova centrale. I piani per dotare la Bulgaria di una seconda centrale si trascinano da decenni, e affondano le radici negli anni del regime. Nel 2008 l’Unione Europea ha dato il via libera di principio al progetto Belene, la decisione prevede però ulteriori studi in caso di reale inizio dei lavori, anche e soprattutto sulla pericolosità sismica dell’area. Il progetto della centrale nucleare di Belene, inoltre, non versa in buone condizioni economiche.

Nel 2006 infatti il gruppo Unicredit, insieme alla Deutsche Bank, ha annunciato il suo ritiro dal progetto Belene. Anche la compagnia energetica tedesca RWE, nell’ottobre 2009, si è ritirata dalla partecipazione al progetto quando Standars & Poor’s ridusse il giudizio sulla Nek – la seconda società elettrica bulgara, impegnata al 51% nel progetto Belene – proprio a causa della partecipazione alla costruzione della nuova centrale.

Scorie bulgare. Secondo Ivan Ivanov, deputato dei Democratici per una Forte Bulgaria, partito d’opposizione di destra, la Bulgaria sarà ridotta a cavallo di Troia nell’invasione russa del mercato energetico europeo. Ivanov ha ricordato che la Duma ha approvato una legge che proibisce lo smaltimento di rifiuti radioattivi provenienti da altri paesi in Russia dopo il 2020, così che i rifiuti prodotti dalle centrali di Kozloduj e Belene dovranno restare in Bulgaria, che non ha nessuno stabilimento per lo smaltimento delle scorie.

Dalla Russia con calore. Se l’Europa dice no alla centrale, Sofia guarda alla Russia. Per ovviare alla perdita di RWE è stato necessario cercare nuovi partner, così la Nek ha siglato nel 2010 tre accordi che prevedono una rimodulazione della partecipazione della russa Atomstroyexport e stabiliscono l’ingresso della finlandese Fortum Corp, e della francese Altran Techonolgies. Queste

39

Page 40: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

ultime due aziende, la finlandese e la francese, servirebbero ad ammorbidire la resistenza di Bruxelles ma si tratta di partecipazioni simboliche pari all’1% circa. il protocollo siglato prevede la costituzione di una joint venture per i lavori di costruzione di una centrale da due reattori da 1050 il cui partner principale è Rosatom, l’ente nazionale russo dell’energia atomica, che entrerebbe con il 47%. Il condizionale è d’obbligo poiché il protocollo non è vincolante e già molte resistenze si sollevano, anzitutto da Bruxelles.

I colloqui con Rosatom (l’ente nazionale russo dell’energia atomica) hanno avuto luogo a Mosca nel febbraio 2011. Il viceministro bulgaro all’energia, Mariy Kosev, ha dichiarato alla stampa che l’uomo conosciuto come “l’oligarca bulgaro del petrolio,” Valentin Zlatev, ha partecipato a questi colloqui. Zlatev è il proprietario della “Lukoil Bulgaria” (il braccio bulgaro della Lukoil, la più grande compagnia petrolifera russa). Non rappresentava i funzionari bulgari – ha precisato Kosev – ma il motivo della sua presenza ai colloqui, d’altro canto molto riservati, rimane poco chiaro. Valentin Zlatev è noto anche per essere vicino al primo ministro Boyko Borisov. Alla fine degli anni ‘90 la società Ipon, di proprietà di Borissov, è stata designata a provvedere alla sicurezza di tutte le pompe Lukoil in Bulgaria, un importante traguardo e una fonte di reddito per gli anni a venire. Per Borissov è forse venuto il tempo di restituire il favore.

Il cavallo di Troia del Cremlino. L’ansia di trovare partner da parte della Nek si può ben spiegare se ne guardiamo la proprietà: Nek è infatti una controllata della Società Energia bulgara (Bulgarian Energy Holding), quella di Hristo Kovachki, la stessa che acquistò la Atomenergoremont. La Società Energia bulgara tra le sue sussidiarie annovera colossi come la Bulgartransgas e la Bulgargaz. Quest’ultima società è partner del progetto Nabucco (con una

partecipazione del 16,7%) il gasdotto europeo pensato come alternativa a South Stream, il progetto del Cremlino. La Bulgaria, attualmente, riceve gas dalla Russia e con la visita a Sofia del vice premier russo, Viktor Zubkov, nel luglio 2010, si è giunti ad un accordo tra Bulgartransgas e Gazprom in virtù del quale la società bulgara è entrata nel progetto South Stream. Così la Bulgaria tiene il piede in due scarpe, costruendo sia Nabucco che South Stream grazie all’intraprendenza del magnate Hristo Kovachki, che controlla le due agenzie nazionali del gas, oltre che quella dell’energia atomica.

L’avvicinamento di Sofia a Mosca corre lungo tutte le rotte energetiche possibili: dall’oro azzurro (Gazprom e Bulgartransgas), all’oro nero (il ruolo di Lukoil resta da definire ma è quantomeno sospetto), all’atomo (Nek e Rosatom). Ma quali sono i vantaggi di queste relazioni privilegiate con il Cremlino? E soprattutto, perché il governo non pone un freno alle speculazioni della lobby dell’energia, che non risponde agli interessi nazionali? Forse la risposta viene da una nota del U.S. Congressional Quarterly (CQ), edito dall’Economist Group, prestigioso bollettino per il Congresso degli Stati Uniti, che nel 2007 indicò Borisov come “un partner d’affari nonché ex-socio di alcuni dei più grandi mafiosi bulgari”.

La Bulgaria degli oligarchi dell’energia sta spianando la strada agli interessi energetici russi in Europa: un cavallo di Troia che potrebbe minare i piani di autonomia energetica portati avanti da un’ Unione Europea sempre meno unita.

40

Page 41: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

41

Page 42: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

L’arrocco di Putin, tra modernizastya e restaurazione

di Matteo Zola

Il 23 settembre 2010, durante il Congresso del partito di governo, Russia Unita, diecimila persone hanno applaudito allo scambio di ruoli tra Vladimir e Dimitri. Il presidente russo Medvedev ha infatti “rinunciato” alla carica chiedendo a Putin di ritornare alla poltrona del Cremlino. Un “onore”, ha commentato Putin. L’inversione delle cariche dimostra quindi un accordo di ferro tra i due, come ha ammesso lo stesso Vladimir. Uno scambio che però fa comodo soprattutto al vecchio Putin che una volta “eletto” presidente, potrà contare su un mandato allungato da quattro a sei anni e si potrà ricandidare anche nel 2018, arrivando così al 2024. La notizia ha causato non poche turbolenze dentro e fuori il partito. Il ministro delle Finanze, Aleksei Kudrin, è stato costretto alle dimissioni dopo aver criticato la diarchia del Cremlino durante il G2 di novembre. L’oligarca, e leader dell’opposizione fantoccia, Michail Prokhorov, è stato silurato dal suo stesso partito, Giusta Causa, per poi indossare le vesti del candidato sfidante di Putin: vesti cucite su misura dal Cremlino. Serghei Mironov, leader del partito d’opposizione Russia Giusta è stato esautorato dalla carica di presidente del Senato. Parte della stampa, con in testa la Novaia Gazeta del focoso oligarca Alexander Lebedev, ha gridato alla restaurazione autoritaria. Ma “Putin l’eterno” segnerà davvero, come molti paventano, un destino totalitario e cupo per la Russia? E quali saranno le ripercussioni diplomatiche del suo ritorno al Cremlino, specie nei confronti della vecchia Europa?

E’ con l’arrivo di Putin che, nel 2000, la Russia si è ripresa dal default del 1998 anche grazie allo sfruttamento delle risorse energetiche (petrolio e gas) che hanno ridato fiato all’economia. Lo Stato nell’era Putin si è consolidato, ha ricominciato a pagare stipendi e pensioni, ritrovando una centralità nel panorama internazionale attraverso una politica estera muscolare e ad accordi commerciali rilevantissimi, in particolare con l’Europa.

L’attività politica ed economica del new deal putiniano ha portato alla formazione di una middle class sconosciuta in Russia negli anni Novanta e che sotto l’imperio di Vladimir Vladimorovic è cresciuta e si è allargata in modo esponenziale raggiungendo oggi, nelle aree metropolitane occidentali (Mosca e Pietroburgo in testa), punte del 30% destinate a salire nel prossimo decennio.

Accanto allo sviluppo economico c’è stato però un rafforzamento in senso verticale

del potere di cui “l’arrocco” con Medevedev è solo l’ultimo atto.

Il rafforzamento verticale del potere russo si deve alla mente di Vladislav Sukrov. Vladislav è uno degli uomini più vicini a Putin, l’ideologo di Russia Unita e della “democrazia sovrana”. Lui è la mente dell’ingegneria politica russa: un sistema di democrazia controllata, un simulacro di libertà individuale stretto in lacci autoritari, dove le libere elezioni non sono altro che un plebiscito al leader e al suo grande partito, Russia Unita, contro cui vengono messe in scena una serie di opposizioni imbelli e macchiettistiche: da un lato i veterocomunisti di Ghennadi Zjuganov con falci, martelli e sosia di Lenin, e dall’altra gli ultranazionalisti di Vladimir Zhirinovski che strizzano l’occhio al clero ortodosso e menano cazzotti agli immigrati caucasici. E’ Sukrov che, comprendendo le esigenze della nuova middle class, immagina un sistema bipolare, pur fittizio. Il primo passo in questa direzione si può

42

Page 43: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

individuare nella comparsa, nel 2008, sulla scena politica di Dimitri Medvedev. E’ lui a canalizzare le aspettative della nuova classe media liberale ed europeista (ma con juicio) pur sensibile al nazionalismo ma allergica alla burocrazia soviet-style e ancor di più alla corruzione. Era Medvedev, insomma, a incarnare la modernizzazione della Russia. Con la sua abdicazione forzata è dunque tutto finito?

Come ricordato da Serena Giusti, in Russia’s modernising alliance with the Eu (Ispi studies, settembre 2011), malgrado la crisi globale, il Pil si attesterà al 4% nel biennio 2010-2011: un risultato incoraggiante ma insufficiente a sostenere il processo di modernizzazione russo. La crescita sociale ed economica hanno intanto prodotto una trasformazione nella società e quindi nelle aspettative dell’elettorato. Aspettative che s’incarnano oggi nel dissenso di Aleksei Kudrin, il dimissionato ministro delle Finanze che ha guidato il miracolo russo, ma anche di molta stampa (semi) libera e di quella middle class che ringrazia Putin del lavoro svolto ma al Cremlino preferiva vederci Medvedev. La modernizastya resta però un imperativo per la Russia.

L’idea di modernizzazione attraversa come un fil-rouge la storia russa, e si è evoluta nella contrapposizione tra “occidentalisti” e “slavofili”. La stessa Unione Sovietica è una sintesi del pensiero politico occidentale declinato al mondo rurale e conservatore russo.Come scrive ancora la Giusti, dopo gli anni di El’cin il ritorno a una Russia quale polo di potere nel sistema internazionale è stato possibile grazie a una crescita economica - di molto superiore a quella europea ed americana - fondata sui dogmi del mercato, del liberismo, della concorrenza. La strategia economica russa ha molto puntato sulla partnership europea: essere presentabili agli occhi del vecchio continente, attrarre investimenti, è stato possibile solo con un’apertura al sistema

valoriale europeo. E il valore fondamentale della vecchia Europa è, senza retoriche, la democrazia. Nel gennaio 2011, al World economic forum di Davos, l’allora presidente Dimitri Medvedev fece un discorso memorabile: «La Russia è spesso criticata, talvolta meritatamente, per la corruzione del sistema giudiziario, per la difficoltà nel costruire uno Stato di diritto, per la lenta modernizzazione dell’economia. Noi siamo impegnati su questi fronti e li vogliamo coniugare alla crescita della qualità della vita in Russia. […] Sono convinto che la crescita della democrazia possa contribuire alla modernizzazione economica». La possibilità di partecipazione dell’Europa nel processo di democratizzazione russo è tutto qui. Serghei Lavrov, ministro degli Esteri, sul Russian Newsweek del 10 febbraio 2010 ha dichiarato: «[con L’Europa] vogliamo costruire un rapporto di interdipendenza e reciproca penetrazione economica e culturale». Tradotto in soldoni si tratta di 87 mld di euro di esportazioni dall’Europa (6,5% del totale) e 155 mld di importazioni (10,4% del totale). In questo contesto, nel maggio 2010 a Rostov sul Don, Russia ed Unione Europea lanciano una “partnership di modernizzazione”. Il patto è semplice: energia (russa) in cambio di tecnologia (europea). Con l’obiettivo malcelato di Bruxelles di influenzare il percorso democratico russo. Un percorso su cui la Russia sembra intenzionata a procedere pur con gradualità e controllo. Una democrazia dall’alto, insomma. Una democrazia “controllata”.

La “crescita della democrazia” auspicata da Medvedev si scontra oggi con le poco incoraggianti previsioni sullo sviluppo economico russo nel prossimo decennio. Le prospettive di crescita economica sono infatti meno rosee del previsto: il Pil russo è sceso del 7,9% tra il 2008 e il 2009 (il dato peggiore del G20). Un dato che, come ricorda Philip Hanson in The

43

Page 44: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

economic development of Russia: between state control and liberalisation (ricerca del 2010 finanziata dal Ministero degli Esteri italiano) non si deve alla crisi del petrolio poiché altri Paesi che sono importanti esportatori di oro nero hanno subito un declino molto modesto. La ripresa è stata finora timida, solo un 4% di crescita del Pil nel 2010 con un outlook del Fmi che prevede il 3,2% medio annuo fino al 2020. In questo contesto “l’arrocco” sembra essere l’estremo tentativo di riportare il timone a barra: ma se sviluppo economico e concessioni democratiche andavano di pari passo, al contrario la crisi sembra andare a braccetto con la “restaurazione”putiniana.

La stretta di Putin sui “dissidenti” (Kudrin, Prokhorov, Mironov) testimonia come le possibilità di sviluppo di una società realmente plurale siano minime considerando anche la sclerosi cui i regimi autoritari vanno incontro durante la parabola discendente del loro potere. Una parabola discendente che, conti alla mano, durerà almeno dieci anni, e che s’avvia proprio nell’arrocco del 23 settembre mettendo altresì in discussione l’impianto bipolare della politica interna russa progettato da Sukrov. Il partito Giusta Causa, guidato dall’oligarca Michail Prokhorov, sembrava destinato ad assolvere l’arduo compito dell’oppositore fittizio ma è stato il primo a cadere sotto la scure di Vladimir.

Prokhorov è il secondo uomo più ricco della Russia con una fortuna stimata da Forbes nel 2010 in 17,4 miliardi di dollari. Quando nel 2011 gli viene affidata la guida di Giusta Causa, Prokhorov dichiara di volerne fare “il secondo partito russo”. Non il primo, ciò significherebbe attentare alla leadership del Cremlino. La “discesa in campo” di un oligarca non è cosa di tutti i giorni. Dopo i tempi di El’cin non tira buona aria per i tycoon russi e l’ultimo che si oppose a Putin fu nientemeno che Mikhail Khodorkovsky.

Visti i precedenti l’engagement di Prokhorov ha stupito: un coraggioso campione della democrazia? un oligarca che vede minacciati i suoi interessi? una creatura del Cremlino? Quest’ultima sembra l’ipotesi più verosimile. Così. Dopo che l'8 settembr 2011 viene silurato dagli iscritti del suo stesso partito durante un convegno in vista delle elezioni parlamentari, Prokhorov stizzito definisce Giusta Causa un «partito fantoccio nelle mani del Cremlino gestito da un burattinaio che risponde al nome di Vladislav Surkov». Un partito fantoccio di cui lui è stato alla guida da consapevole marionetta. Tanto più consapevole dopo che le elezioni parlamentari, confermando la vittoria di Putin, aprivano a quest'ultimo la via della presidenza. Ma chi poteva sfidare (e quindi legittimare) Putin?

E' il Cremlino, si è detto, che decide contro cui concorrere. L'esistenza di un'opposizione legittima la vittoria – scontata – del candidato prescelto (cioè Putin) mentre i leader avversari vengono ricompensati con incarichi istituzionali di alto livello. Prokhorov torna così utile alle intenzioni del Cremlino che ne fa, in sostanza, l'unico avversario: l'homo novus da vendere alla middle class stanca delle cariatidi Zjuganov e Zhirinovski.

L’atto di forza che segna il ritorno di Putin al Cremlino è il segno di una debolezza: la recessione potrebbe causare contraccolpi sociali e politici che richiederebbero risposte autoritarie, e una Russia indebolita all’interno si troverebbe poi a retrocedere in politica estera. Le proteste che hanno scaldato il gelido inverno russo, portando in piazza centinaia di migliaia di persone a contestare il risultato (evidentemente truccato) delle elezioni parlamentari, è stato interpretato da alcuni osservatori come una crepa profonda nel potere di Putin.

44

Page 45: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Le manifestazioni che hanno portato in piazza, a Mosca, Pietroburgo, e altre grandi città russe (russe, si badi, niente che vada al di là degli Urali) centinaia di migliaia di persone sono state rese possibili proprio dalla debolezza “interna” di Putin, attaccato politicamente su più fronti e costretto a “dimissionare” persino il fedelissimo ministro delle Finanze, Aleksei Kudrin, troppo critico verso il putinismo. Le manifestazioni del 10 e del 24 dicembre hanno portato sulla piazza Rossa di Mosca più di centomila manifestanti. Non una grande cifra, in verità, per una città di sette milioni di abitanti. Giovanni Bensi, corrispondente a Mosca per Avvenire, spiega come sia «sempre difficile portare i russi in piazza, se si riescono a mobilitare cento persone in Russia è già un grande successo. Ciò si spiega con una sopravvivenza della mentalità sovietica. Nell'Urss di dimostrazioni se ne facevano molte ma si trattava sempre di dimostrazioni di regime. La gente ha sviluppato una sorta di idiosincrasia verso le manifestazioni, dietro le quali viene sempre visto lo zampino del potere e della cui inutilità sono tutti convinti».

Le recenti manifestazioni sono quindi il segno di qualcosa che sta cambiando: «dice un proverbio russo “i pulcini si contano in autunno”: tireremo le somme far un anno» conclude Bensi.

Vladimir Putin, ansioso di rifarsi il make-up in vista delle presidenziali, ha persino abbandonato Russia Unita, partito di cui è sempre stato candidato senza però farne mai ufficialmente parte, per resuscitare il Fronte Popolare Pan-russo, movimento politico “vergine” dal cui scranno potrà accusare l'establishment di Russia Unita delle mancanze di cui è lui solo responsabile. Un buon modo per fare pulizia degli oppositori interni. E Medvedev? Forse diverrà, come d'accordo, primo ministro mantenendo in vita un'alleanza che, allora, sarebbe davvero di ferro.

Al momento quel che appare evidente è che il processo di modernizzazione andrà avanti comunque in quanto essenza stessa del putinismo. Esso sarà però maggiormente esposto al fallimento e non porterà con sé mutamenti socio-politici di stampo democratico poiché, malgrado quanto sostenuto da Medvedev a Davos, non sempre liberismo è sinonimo di libertà.

Una storia che si ripete. La Russia, infatti, insegue la “modernizzazione” da secoli: Pietro il Grande, il conte Witte, persino Josip Stalin l’hanno perseguita senza successo. La Russia è cambiata ma la sua economia non è mai stata al passo con la modernità. Quella di Putin è dunque anche una sfida con la Storia che, ancora una volta, sembra lungi dall’esser vinta.

45

Page 46: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Le “confidenze” di Putin dopo la vittoria elettorale

di Giovanni BensiIl primo ministro Vladimir Putin, che ha vinto le elezioni presidenziali del 4 marzo in Russia, alcuni giorni dopo ha risposto ad una serie di domande dei giornalisti del suo pool, convocati nella residenza di Krasnaja Poljana. presso Soci. Per prima cosa, naturalmente, sono stati toccati i temi relativi alle nuove nomine. Putin ha dichiarato che avrebbe discusso con il presidente uscente Dmitrij Medvedev questi problemi entro pochi giorni. „Quali saranno i cambiamenti per ora non lo rivelerò, io e Dmitrij Anatoljevich dobbiamo prima esaminare tutto ciò in due, vi sono determinate idee, ma perché parlarne prima del tempo? È necessario che prima tutto ciò venga fissato su carta”, ha detto il capo del governo. Egli ritenne che fosse scorretto parlarne in anticipo, ma qualche nome è stato fatto.

I giornalisti hanno saputo che Sergej Ivanov, con ogni probabilità, continuerà a dirigere l’amministrazione del presidente della Federazione Russa. “Credo che sarà così. si tratta di un uomo molto efficiente. Lo conosco da molto tempo”, ha detto Putin rispondendo a una domanda. Il posto di consigliere del presidente per il lavoro con il governo e le sue dipendenze verrà abolito, ha poi fatto sapere Putin. Inoltre egli ha osservato che nel nuovo governo potrebbe essere richiesto Mikhail Prokhorov, che, sorprendentemente per molti, ha ottenuto l’8% alle votazioni e si è attestato al terzo posto.

“Mikhail Dmitievich (Prokhorov) è una persona seria, un buon imprenditore, in linea di principio potrebbe essere utile nel governo, se lo desidererà”, ha detto Putin. Osserviamo però che, parlando al Primo canale, Prokhorov aveva dichiarato che non avrebbe accettato un posto di funzionario dello stato. “In tutti i casi non accetterò nessuna carica, ma costruirò un mio partito che lotterà per il potere”, aveva detto il businessman. Egli dichiarò anche di avere opinioni diverse da quelle di Putin sullo sviluppo del paese. “È necessario cambiare il potere, non c’è nulla da stabilizzare nel nostro paese, tranne la povertà e l’arretratezza”, ha detto con decisione Prokhorov Egli ha sottolineato che fra alcuni mesi fonderà un partito „molto interessante” al quale dovrebbero

iscriversi le persone attive e pensanti del paese. Prokhorov ha poi aggiunto che, secondo la sua opinione, lo appoggerebbe oltre la metà di coloro che hanno preso parte alle dimostrazioni di protesta organizzate dalle opposizioni nelle maggiori città della Russia. Putin stesso, fino all’”inaugurazione in maggio continuerà a svolgere le funzioni di premier. Putin ha anche affermato che, nonostante le tensioni della gara presidenziale, egli non intende andare in ferie. „No, perché ho già dimenticato che cosa sono le ferie, mi ci troverei male” ha rilevato.

Putin sull’opposizione: „Mi piacerebbe incontrarli, ma loro non propongono nulla”

Vladimir Putin nel suo incontro con i giornalisti ha parlato anche dell’opposizione. In particolare ha detto di non essere meravigliato dal memorandum della “Lega degli elettori” che non riconosce i risultati delle presidenziali. “Non c’è niente di nuovo. Lo dicevano già prima delle elezioni. Non vale neppure la pena di parlarne”, ha detto rispondendo a una domanda. Come ha rilevato Putin, „dapprima avevano ammesso che il vostro umile servo (cioè Putin stesso – Ndr) ha raccolto più del 50%, mentre adesso si sono frugati nel naso ed hanno deciso che per loro questo era troppo”. (Nota: si

46

Page 47: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

tratta di una delle frasi di cattivo gusto amate da Putin. Già nel 2007 si era lagnato perché il governo „si fruga nel naso e non fa un c....”). Putin ha poi invitato l’opposizione a presentare un suo programma costruttivo per lo sviluppo del paese, dichiarando che solo in questo caso essa verrà considerata una forza politica reale. Putin ha sottolineato che non si è mai sottratto al dialogo con l’opposizione. A giudizio del presidente eletto, l’opposizione antisistema „diventerà una forza politica reale solo quando approfitterà delle riforme da noi proposte, si inserirà in questo sistema politico, sarà in grado di formulare non solo le proprie richieste, ma anche proposte per lo sviluppo del paese”. E, ha aggiunto Putin, „dimostreranno a una certa quantità di elettori nelle regioni o nel paese nel suo complesso, che le loro proposte sono attraenti e la gente vi crede. Allora essi diverranno una forza politica reale”. Per ora invece, secondo Putin, la reciproca interazione con questa opposizione consiste nel fatto che le vengono dati i permessi per lo svolgimento di comizi e manifestazioni. „Il presidente Medvedev si è incontrato con essi. Questa è già una forma di collaborazione. Noi siamo in costante contatto con loro”, ha detto il presidente eletto. Per quanto riguarda la cacciata degli oppositori sulla piazza Pushkin il 5 marzo, Vladimir Putin ritiene che la polizia si sia comportata in modo corretto e professionale. „Molto professionale”, ha risposto Putin alla domanda dei giornalisti su come giudichi le azioni della polizia. „Non hanno picchiato nessuno, non hanno fatto ricorso a „mezzi speciali” e li hanno respinti [gli oppositori] solo dopo che essi avevano incominciato a violare il limite loro imposto”.L’ancora capo del governo ha aggiunto che, grazie alle azioni della polizia, alcuni giornalisti sono riusciti a salvarsi dai dimostranti inferociti. “I partecipanti al comizio avevano incominciato a picchiarli. Uno dei giornalisti è caduto e poi è fuggito,

si sono lanciati a seguirlo e hanno cercato di picchiarlo. E un agente di polizia lo ha nascosto nella sua auto”, ha raccontato Putin. Evidentemente il premier pensava al caso di Aleksandr Borzenko. Questi ha raccontato che, con la città praticamente bloccata dalla polizia, le forze dell’ordine hanno potuto perdere il controllo su una colonna di nazionalisti alcuni dei quali lo hanno aggredito. L’agente lo ha salvato perché si trovava là casualmente. Tuttavia Putin ha sottolineato che la polizia è abbligata a esigere da tutti l’osservanza della legge. „I dimostranti hanno assunto su di sé determinati compiti (i servizi di sicurezza –ndr). Nei limiti della legislazione vigente è stato permesso loro tutto. Dopo che essi incominciarono a violare la legge, ed essi lo fecero in modo consapevole e pubblico, apertamente, la polizia è stata costretta a cominciare ad agire nel modo più adeguato”, ha spiegato il presidente eletto. Alla fine egli ha aggiunto che „una serie di dimostranti cerca appositamente che sia usata la forza contro di loro”. A proposito, rispondendo alla domanda se siano giustificate le previsiomi di numerosi esperti su una politica di „giro di vite” dopo il suo ritorno al Cremlino, Putin ha cercato di sottrarsi con un sorriso „Certamente, come si fa a stare senza giri di vite? Siate sempre sul chi vive!”.

Medvedev deve ripristinare l’orario invernale, e il governo deve abolire alpiù presto le „luci blu sulle auto dei VIP.

Putin ha lasciato intendere di non aver dimenticato le numerose promesse che aveva ditribuito a destra e a manca pr alcune settimane prima delle elzioni. Una di esse era il ripristino dell’orario invernale in Russia, abolito da Medvedev quest’anno. „Se Dmitrij Anatoljevich (Medvedev) lo ha fatto, adesso lo deve disfare”, ha dichiarato il capo del governo. Putin ha spiegato che l’abolizione del passaggio all’ora legale era stata presa „su

47

Page 48: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

richiesta dei lavoratori”. „Lo stesso Medvedev ha fatto come gli hanno chiesto. Adesso invece lo mettono in croce, gli domandano perché lo ha fatto”, ha rilevato Putin. A suo dire, la decisione di ripristinare il vecchio regime di cambiamento d’orario „può essere presa senza alcun problema dal governo della Russia insieme con Dmitrij Anatoljevich”. Un altro tema sensibile per la società: il premier ha promesso di ridurre la quantità delle „luci blu”, delle sirene e delle targhe speciali per le auto dei VIP ancora prima del suo insediamento ufficiale come presidente. Putin ga aggiunto che questo problema è già stato discusso con il presidente in carica Dmitrij Medvedev e che qyesti non è contrario. „È abbastanza complicato combattere con coloro che con soddisfazione usano questi privilegi, - ha aggiunto l’ancora capo del governo. – Essi approfittano di questo e poi spuntano come funghi”.

La sentenza su Khodorkovskij e Lebedev è legittima.

Vladimir Putin ritiene fondata la sentenza su Mikhail Khodorkovskij e Platon Lebedev. „Ci sono le decisioni del tribunale, e sono diventate ufficialmente esecutive”, ha detto durante la conversazione con i giornalisti. „E ci sono le procedure previste dalla legge che possono portare ad una liberazione. Se qualcuno desidera accedere alle vie per la realizzazione di queste possibilità, si accomodi”.Putin ha ricordato che anche il presidente in carica „ha dato la stessa indicazione”. La commissione per i diritti dell’uomo si sta occupando di questo problema ed il relativo documento è stato inviato alla procura, ha rilevato. „Amici miei, noi tutti parliamo di una certa componente politica di questo affare, ma abbiamo gli occhi, abbiamo le orecchie: avete letto la decisione della Corte europea?” – con queste parole Putin si è rivolto ai giornalisti. – Vi è scritto che la Corte

europea per i diritti dell’uomo non vede nell’affare Khodorkovskij un retroscena politico”. Il capo del governo ha chiesto di considerare quanti detenuti in Russia si trovano nei luoghi di privazione della libertà per aver commesso reati economici. „Ma l’opinione pubblica non si ricorda di neppure uno di essi”, ha detto il premier mostrando meraviglia.

Non si è discusso l’asilo politico per Assad.

La questione dell’asilo politico in Russia per Bashar Assad non è stata discussa, ha dichiarato Putin. „Non abbiamo neppur menzionato questa questione” – ha detto, rispondendo alla domanda se si possa pensare che l’attuale presidente siriano possa ottenere asili politico in Russia.

Battibecco del premier con una giornalista georgiana sulle truppe in Abkhazia e Sud-Ossezia.

Col presidente della Georgia Mikheil Saakashvili non è possibile dialogare, il dialogo sarà possibile con un nuovo governo. Lo ha dichiarato ancora Putin, rispondendo a una domanda dei giornalisti se cambierà la retorica russa verso la Georgia nei prossimi sei anni della sua presidenza. „Non so, quando ci saranno le elezioni in Georgia? Anche da questo dipendono molte cose”, ha detto Putin rispondendo a una giornalista georgiana. Essa a sua volta ha rilevato che nessun politico in Georgia è disposto a riconoscere l’indipendenza di Abkhazia e Sud-Ossezia. „E voi che cosa volete, che la Russia costringa la Georgia a riconoscere la Sud-Ossezia e l’Abkhazia con la forza?” – ha chiesto a sua volta Putin. „Ritirate le truppe dall’Abkhazia e dall’Ossezia”, ha insistito la giornalista. „E allora voi di nuovo arriverete con il vostro esercito, non è così?” le ha risposto il premier. „Voi lo avete già fatto una volta, se ciò non fosse avvenuto, vi sarebbe un’altra situazione”. Il premier e presidente eletto ha rivelato ai

48

Page 49: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

giornalisti che ancora prima del conflitto aveva invitato Saakashvili a „non spingere la situazione fino allo spargimento di sangue”. „Io gli ho detto molte volte: bisogna mettersi d’accordo con queste persone. Egli confermò che così avrebbe fatto. E che cosa ha fatto invece? Tutto il contrario”.Putin ha anche ricordato che la Russia aveva promesso di non ingerirsi nel conflitto in Adzharia ed ha mantenuto la sua promessa, mentre la Georgia non ha messo in pratica gli accordi che prevedevano la creazione in quella regione di un centro antiterroristico. „Come si può

mettersi d’accordo con simili persone”, ha continuato Putin stringedosi nelle spalle, „Saakashvili, dopo aver ascoltato le mie rivelazioni, ha negato tutto. Che poteva fare?” „Masticare la cravatta”, rispose uno dei giornalisti (ricordando una celebre scena del periodo della guerra russo-georgiana). „Ma al diavolo questa cravatta, lo dico senza ironia, a tutti può succedere”, ha continuato Putin come se avesse voluto intercedere per Saakashvili. „Noi abbiamo formulato ed espresso la nostra posizione. Spetta al popolo georgiano determinare chi sarà il presidente”, ha concluso Putin.

Giovanni Bensi è una delle voci più autorevoli tra i giornalisti che guardano ad est, classe 1938, laureatosi in lingua e letteratura russa all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia e all’Università “Lomonosov” di Mosca, dal 1964 è redattore del quotidiano “L’Italia” e collaboratore di diverse pubblicazioni.Dal 1972 è redattore e poi commentatore capo della redazione in lingua russa della radio americana “Radio Free Europe/Radio Liberty” prima a Monaco di Baviera e poi a Praga. Dal 1991 è corrispondente per la Russia e la CSI del quotidiano “Avvenire” di Milano. Attualmente è anche collaboratore di Nezavisimaja Gazeta. E’ un esperto di questioni religiose, soprattutto dell’Islam nei territori dell’ex URSS. Autore di numerosi saggi tra cui ricordiamo: La Cecenia e la polveriera del Caucaso (2005) e Oltre la Cecenia. Gli altri conflitti del Caucaso.

49

Page 50: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

50

Page 51: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

La Romania di Ceausescu e i giorni della rivoluzione romena

di Mauro Proni

Questo breve lavoro di ricerca, pur senza alcuna pretesa di esaustività nè tantomeno di valenza scientifica, vuole essere un contributo ad una delle rivoluzioni più recenti e, nel contempo, più dimenticate della recente storia europea. Il caso romeno rappresenta un unicum nel panorama dei paesi comunisti nella loro difficile transizione verso il libero mercato. La Romania, infatti, è stato l’unico paese d’oltrecortina che, nel contesto della disgregazione dei regimi comunisti sul finire degli anni ottanta, ha patito un rovesciamento violento del proprio regime, al contrario degli altri paesi del blocco sovietico che hanno conosciuto una transizione verso la democrazia in modo più o meno pacifico. La rivoluzione che imperversò in Romania sul finire del dicembre 1989, ben lungi dall’essere solo una serie di disordinate proteste di piazza, ebbe successo grazie alla concomitanza di alcuni fattori che portarono le prime e sparute manifestazioni di dissenso verso un epilogo sempre più drammatico e violento. L’analisi dei fatti che interessarono la Romania nella sua difficile transizione verso la democrazia sono stati oggetto di approfonditi studi da parte di storici e giornalisti, soprattutto francesi e americani, mentre in Italia non è tuttora facile trovare documentazione specifica sul caso romeno e, più in generale, sulla figura di Nicolae Ceausescu, il dittatore che condizionò la Romania, nel bene o nel male, per almeno un quarto di lustro. Conoscere e capire i fatti del dicembre 1989 è indispensabile per comprendere la realtà attuale di questo paese.

1989: il crollo del comunismo europeo

I primi episodi che segnarono l’inizio della disgregazione dei paesi del Patto di Varsavia consistono essenzialmente in due eventi: l’apertura dei confini di Sopron ed il discorso di Gorba ëv ač Berlino Est.

Procediamo con ordine. Nell’agosto del 1989 il governo di ungherese decise di aprire i cancelli della frontiera di Sopron, cittadina ungherese al confine con l’Austria, così consentendo a qualunque cittadino ungherese, ma non solo, di poter uscire dai confini magiari senza restrizioni e formalità burocratiche. Inutile dire che migliaia di persone, non solo ungheresi ma soprattutto tedeschi della RDT, si riversarono in Austria con tutti i mezzi a disposizione: a piedi, in bicicletta o a bordo di grigie Trabant

cariche di valigie ma anche di gioia e di speranza. L’apertura del confine di Sopron rappresentò una svolta epocale nella storia dell’Europa comunista e il primo segnale di apertura verso l’occidente, in senso non solo politico ma anche culturale, dopo quarant’anni di guerra fredda.

In Polonia gli episodi di protesta di Solidarnosc e l’avvio della Perstrojka nell’Unione Sovietica di Gorba ëvč già avevano minato la solidità del granitico blocco comunista ed avevano dato importanti segnali di cambiamento, accolti con favore, ma anche con evidente preoccupazione, da tutte le democrazie occidentali.

E veniamo al secondo episodio. Il 6 ottobre 1989 a Berlino, in occasione del quarantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Democratica

51

Page 52: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Tedesca, Michail Gorba ëvč , segretario generale del Partito Comunista Sovietico, tenne un discorso pubblico alla presenza del presidente Erich Honecker. Durante il suo discorso il presidente dell’URSS si rivolse al suo omologo tedesco con una frase che lasciò il segno e della quale si comprese l’importanza solo dopo i fatti accaduti in Romania: “la storia non dimentica chi non sa ascoltare le istanze del suo tempo”. Poche parole, dirette e stringate, che riassumono il significato degli eventi successivi che travolsero in primiis la Germania dell’Est e successivamente l’Europa d’oltrecortina. Honecker, uomo di vecchio stampo e fedele ai dogmi del comunismo di matrice stalinista, non parve cogliere l’invito del presidente russo a “farsi da parte” e di certo nessuno dell’establishment di partito si aspettava che l’anziano segretario potesse dare segnali di modernità. Furono le sommosse popolari di Lipsia nell’ottobre 1989 e l’esodo dei tedeschi orientali attraverso la frontiera di Sopron a mettere Honecker in seria difficoltà. Lungi dal cogliere l’opportunità politica di farsi artefice di una perestrojka alla tedesca, preferì chiedere aiuto militare a Mosca: ma non ci fu un altro ‘56 ungherese, non ci fu un’altro ‘68 cecoslovacco. Le manifestazioni di piazza crebbero in tutta la Germania democratica e lo stesso Honecker capì presto che questa volta nessuno sarebbe corso ad aiutarlo. L’appoggio di Mosca, militare e politico, non c’era più. Honecker si dimise dieci giorni dopo le proteste di Lipsia. Mancavano solo due mesi alla fucilazione di Ceausescu e della moglie Elena.

Le premesse della rivolta

La Romania, sul finire degli anni ottanta, era un paese che scontava una arretratezza infrastrutturale e tecnologica come pochi nel panorama della cosiddetta Europa “dell’est”. A Bucarest le file davanti ai negozi di alimentari per

accaparrarsi qualche fetta di carne non erano un’invenzione di qualche giornalista occidentale filoimperialista, ma la triste realtà quotidiana. La fame è sempre stata il motore delle grandi rivoluzioni. La rivoluzione francese del 1789, quella bolscevica del 1917, così come i recenti fatti che hanno portato alla caduta del regime di Mubarak in Egitto (cd.“la rivolta del pane”) furono e sono l’epilogo della esasperazione delle masse popolari nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, in contrapposizione ad un establishment di governo che viveva (e, in qualche caso, tuttora vive) in un iperuranio di agi e privilegi.

La storia insegna che una sistema di governo che non riesce a far fronte alle esigenze di base della popolazione, ovvero l’approvvigionamento delle risorse alimentari, è un sistema che non può durare a lungo. Per le stesse ragioni, così come i francesi esattamente duecento anni prima decapitarono i loro sovrani, i romeni duecento anni dopo fucilarono i loro tiranni. Dal punto di vista del retaggio culturale, Ceausescu non era un fine economista, ma solo un politico cresciuto nelle sagrestie di partito ed Elena, pur facendo sfoggio di svariate pubblicazioni in campo scientifico, non aveva nemmeno completato la scuola elementare. Negli ultimi anni di vita del regime l’insofferenza dei romeni verso la classe dirigente era arrivata ad un livello esplosivo; l’odio si era catalizzato non solo nei confronti del dittatore, ma anche della crocchia di parenti che il Conducator aveva collocato nei ruoli chiave della pubblica amministrazione, in primiis la moglie Elena, all’insegna del più bècero dei nepotismi.

La coppia presidenziale gestì la Romania per venticinque anni come fosse il proprio cortile di casa, facendo e disfando a piacimento la cosa pubblica con il massimo disprezzo e il minimo buon senso, convinti che la propaganda di

52

Page 53: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

regime bastasse per legittimare la loro autorità e nascondere la verità agli occhi della popolazione.

La politica economica

Le scelte in campo economico rappresentano uno dei tanti esempi di bizzarria e dell’incompetenza di Ceausescu. Il dittatore concentrò la sua azione di politica economica principalmente su due aspetti: l'industrializzazione forzata e il risanamento del debito pubblico attraverso l’azzeramento del debito con l’estero. Il primo obiettivo scatenò pesanti ripercussioni sul tessuto economico sociale. Si realizzò un’opera di trasformazione della classe contadina in proletariato urbano, favorendo l’abbandono delle campagne e la migrazione forzata di migliaia di persone verso le città. Tale scelta sconvolse profondamente l’economia del paese.

Nell'Unione Sovietica stalinista il processo di “devillaggizzazione” trovò il suo fondamento nell’intenzione programmatica di Stalin di eliminare i piccoli proprietari terrieri (i kulaki), che culturalmente erano stati sempre avversi ai programmi di collettivizzazione e al comunismo in generale. L'esperienza dei kulaki dell'Unione Sovietica fu parimenti drammatica. Migliaia vennero deportati nei gulag e altrettanti costretti ad abbandonare forzosamente le campagne per dirigersi verso le città ed essere impiegati come lavoratori nell'industria pesante.

Il Conducator si impose di copiare, alla sua maniera, le politiche staliniane. Non si dimentichi anche che, nel quadro dei paesi comunisti che gravitavano nell’orbita dell’URSS, le decisioni di politica economica erano rigidamente pianificate da Mosca e i paesi satelliti dovevano limitarsi alla loro messa in pratica. La Romania del XX secolo era

tuttavia un paese fondamentalmente agricolo. Per tale ragione, al Paese era stato assegnato da Mosca il ruolo di granaio dell'Unione Sovietica, al pari di Ucraina e Bielorussia. Il Conducator, tuttavia, non si mostrò disposto ad accettare passivamente il ruolo assegnato alla Romania, volendo avviare anche nel suo paese un progetto di rapida industrializzazione, sul modello stalinista. Secondo Ceausescu, attraverso la proletarizzazione dei contadini, si sarebbe fornita ingente forza lavoro all'industria romena, ancora in fase embrionale. Inoltre, concentrando più persone possibile nelle grandi città, si potevano meglio controllare le teste calde e il lavoro della Securitate sarebbe stato più facile. L’obiettivo aveva dunque un duplice scopo.

Il risultato di queste scelte politiche fu catastrofico. Non solo il progetto di industrializzazione forzata non ebbe il minimo successo, per la carenza interna di materie prime e l’atavica arretratezza tecnologica del paese, ma l'emigrazione disordinata dalle campagne fece altresì mancare la forza lavoro nelle campagne con immaginabili conseguenze in un paese che, piaccia o no, fondava la sua economia prevalentemente sull’agricoltura e sul lavoro manuale, visto che anche in agricoltura la meccanizzazione della produzione era totalmente assente.

Il risanamento del debito pubblico fu un altro degli obiettivi del Conducator. Purtroppo fu più un operazione di bandiera che un reale successo. Concentrando tutte le risorse finanziarie all’azzeramento del debito estero ceausescu riuscì solo a impoverire le casse dello stato ottenendo un risultato che, a giudizio dei moderni analisti finanziari, non rappresentava certo una priorità per il paese e comunque poteva essere gestito in un lasso di tempo più lungo ottenendo

53

Page 54: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

gli stessi risultati a costi sociali e economici nettamente inferiori.

Le politiche della famiglia e la questione demografica

Il mito della “nazione”, il populismo, il nazionalismo esasperato, non potevano non passare anche attraverso riforme per favorire la crescita crescita demografica, almeno secondo le intenzioni del compagno Nicolae. Secondo le stime del regime, la Romania dei primi anni sessanta era un paese a crescita demografica azzerata. Ciò allarmava non poco il Conducator, soprattutto in vista di un futuro di progressiva industrializzazione del paese. Bisognava preparare la Romania del futuro e per farlo occorrevano braccia giovani e forti.

L’adozione delle politiche di incremento demografico in Romania rappresentò uno sfacelo totale che causò migliaia di morti e altrettanti casi di abbandono di minori. Non abbiamo un dato numerico preciso delle vittime delle delle riforme sociali di Ceausescu, nei manicomi, negli ospedali, nelle case private, per fame e freddo o inadeguatezza delle strutture mediche. In questo senso non esisteva un istituto nazionale che tenesse conto di questi dati: avrebbe significato ammettere ufficialmente che il “sistema” non funzionava. Gli unici dati a disposizione sono quelli forniti dagli oppositori del regime, pubblicati peraltro dopo la fine della dittatura e quindi assai discordanti tra loro. Si stima che i morti nel trentennio del Conducator siano stati circa 65.000, ma c’è chi parla di addirittura di 1.200.000 vittime, dunque fornire un dato preciso rischia di essere un esercizio di pura fantasia.

I primi provvedimenti in materia sociale risalgono già al 1966. Dopo solo un anno dalla sua nomina a segretario del Partito Comunista Romeno, Ceausescu emanò il primo decreto per il sostegno alle nascite

che consisteva in pochi semplici punti: divieto di aborto; proibizione della contraccezione; erogazione di premi alle famiglie numerose; tassa sulle donne senza figli e limitazione dei casi di divorzio.

Il regime si spinse così avanti nel perseguimento dell’obiettivo di aumento demografico da negare anche l’esistenza del virus dell’AIDS, cosa che portò alla mancata adozione di precauzioni igieniche, con particolare riferimento alle trasfusioni di sangue, fenomeno che causò negli anni ottanta una delle più gravi catastrofi sanitarie dell’era moderna.

Con l’introduzione del reato di aborto, che prevedeva pene detentive assai pesanti, si realizzò la prima fase della politica di incremento demografico. Negli anni ottanta in Romania non era possibile trovare un ospedale pubblico che praticasse l’interruzione di gravidanza: presidi di polizia presso gli ospedali controllavano le cartelle cliniche dei pazienti con particolare riguardo alle giovani ragazze in età sospetta. Era altrettanto difficile trovare qualcuno disponibile a praticare l’aborto clandestino viste le severe pene detentive previste.

Le madri che facevano molti figli beneficiavano tuttavia di una serie di benefits commisurati al numero di pargoli che mettevano al mondo: si andava da una vacanza premio a spese dello stato, all’automobile, fino alla casa. Le donne che facevano più di dieci figli beneficiavano del titolo di “eroine” della Romania, una onorificenza sostanzialmente priva di significato pratico. Tutto ciò produsse gli effetti desiderati fin da subito. Il tasso di natalità aumentò rapidamente anche se, altrettanto rapidamente, le famiglie capirono che una vacanza al mare o una macchina nuova non aiutavano a sfamare

54

Page 55: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

la famiglia numerosa. Uno, due, tre, quattro figli potevano pesare rovinosamente sul bilancio domestico, almeno fino a quando i fanciulli non raggiungevano l’età per lavorare. La catastrofe sociale era dunque cominciata.

Presto le famiglie si resero conto che non potevano mantenere i nuovi nati e assai frequenti furono i casi di abbandono di minori, fenomeno costante fino alla fine del regime. I figli abbandonati venivano affidati a istituti statali. Si trattava più che altro di ricoveri dove i fanciulli venivano ospitati più che accuditi. Il personale, non adeguatamente preparato sotto l’aspetto sanitario, psicologico e socio-assistenziale, si limitava alla semplice assistenza sanitaria di base e talvolta nemmeno questo, per la carenza di farmaci e di moderne apparecchiature diagnostiche. Il risultato fu presto fatto.

Solo dopo il 1989 si venne a conoscenza degli orfanotrofi lager. Alcuni bambini erano storpi a causa di banali infezioni non curate, malformazioni trascurate, fratture non ingessate che avevano determinato la calcificazione scomposta delle ossa. Alcuni all’età di quattro anni si muovevano ancora a quattro zampe in quanto nessuno aveva insegnato loro a camminare in posizione eretta.

Solo dopo il 1989 gli orfanotrofi della vergogna venero chiusi, come segnale simbolico di cesura rispetto al regime precedente, anche se questo non risolse i problemi degli orfani, anzi li aggravò. Migliaia di bambini si trovarono per la strada senza una famiglia, un lavoro, un tetto, un’istruzione di base. Questi ragazzi ancora oggi sono chiamati “i figli di Ceausescu”, in quanto è al Conducator che si riconduce la loro paternità politica.

Divenne inevitabile per molti bambini rifugiarsi nei grandi centri abitati, soprattutto nelle periferie della capitale, dove le opportunità erano maggiori. Molti

di loro riuscirono a sopravvivere con l’accattonaggio e commettendo piccoli reati. Le fogne delle città erano, e in molti casi lo sono ancora, la loro casa: sotto le strade di Bucarest, con una coperta adagiata sulla superficie delle condutture dell’acqua calda.

Politica estera

La peculiarità della politica estera della Romania di Ceausecu si caratterizzò essenzialmente in una particolare apertura verso l'occidente, in senso non solo politico ma anche economico, nonché attraverso uno spiccato pacifismo di bandiera. Il ripudio della violenza come metodo di risoluzione dei conflitti interni e internazionali, fu il caposcaldo con il quale Ceausescu mirava a guadagnarsi la stima dei capi si stato stranieri, in sostanziale contrapposizione con Mosca, che invece stanziava per gli armamenti risorse finanziarie pari al 25% del suo PIL.

La visita del presidente americano Nixon nel 1969 si inquadra proprio nel clima di apertura verso le relazioni internazionali che la Romania conobbe sotto il Conducator. Nixon fu il primo presidente americano a mettere piede in un paese del blocco comunista. L'anno dopo Ceausescu ricambiò il favore recandosi per ben due volte in visita ufficiale a Washington. Le successive comparsate di Ceausescu in Inghilterra, Italia, Francia, Cina, Vietnam adempiono sempre allo stesso obiettivo politico: uscire dall'isolazionismo generalizzato dei paesi del blocco sovietico, costruire un modello di socialismo aperto all'occidente, guadagnarsi la simpatia dei capi di stato stranieri e un ruolo autonomo da Mosca, mirando a ritagliarsi quel ruolo di paladino della “pace tra i popoli” con lo scopo, come qualcuno ritenne, di ottenere quel Nobel per la Pace che tuttavia mai gli fu riconosciuto. Le visite di Ceausescu ed Elena e gli incontri con i capi di stato

55

Page 56: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

stranieri erano sempre accompagnate da uno stuolo di fotografi e operatori TV che immortalavano gli incontri. Una volta giunte in patria, tali immagini venivano diffuse attraverso telegiornali, documentari, il tutto dopo essere state abilmente montato dai tecnici televisivi romeni sotto la "regia" attenta della Securitate ed infarcito dai consueti toni trionfalistici degli speakers televisivi e dei giornalisti di regime, alterando il più delle volte la realtà e il senso delle parole. La politica estera che strizzava l’occhiolino all’occidente non era fine a se stessa ma assolveva ancora una volta alla funzione di corroborare il consenso interno.

I rapporti con le gerarchie militari

Un altro elemento di peculiarità della politica romena sotto Ceausescu riguarda il ruolo assegnato alle forze armate. In ogni regime che si rispetti il ruolo delle forze armate è fondamentale sia sul piano internazionale che interno, per il controllo degli eventuali focolai di rivolta. Gli ingenti investimenti militari dell'Unione Sovietica portarono la tecnologia militare a livelli di assoluta eccellenza. Purtroppo questa fu anche una delle pesanti eredità che Gorba ëvč si trovò ad affrontare all'inizio del suo mandato. L'enorme spesa pubblica per la difesa unitamente alla spesa per il pachidermico apparato statale stava soffocando l'economia sovietica, ferma al palo rispetto ai paesi occidentali, nel pieno della “rivoluzione informatica”.

All’opposto di colloca la Romania. Nonostante l'esercito romeno durante la seconda guerra mondiale fosse numericamente molto superiore perfino all’esercito degli Stati Uniti (si contavano truppe per 200.000 unità contro le 170.000 degli USA), la Romania di Ceausescu non destinò mai ingenti risorse economiche alle forze armate trascurando spesso le richieste di modernizzazione degli armamenti che provenivano dalle

alte sfere militari. Se a ciò si aggiunge che i soldati vennero spesso impiegati come forza lavoro non solo in occasione di calamità naturali, ma anche come muratori (ad esempio per l’edificazione del palazzo del popolo di Bucarest, l’attuale sede del parlamento romeno) si capisce in quale contesto si alimentò il malcontento delle gerarchie militari nei confronti del tiranno fino al punto che, durante le sommosse del 1989, larghe frange dell’esercito si schierarono con la popolazione così contribuendo in modo decisivo al successo della rivoluzione.

L’ultimo discorso. La fuga

Nicolae Ceausescu tenne il suo ultimo discorso a Bucarest il 22 dicembre 1989. I primi disordini a Timosoara non sembrarono preoccupare molto il Conducator che proprio pochi giorni prima era volato a Teheran, per la stipula di nuovi accordi con l’Iran in campo petrolifero. Tuttavia Ceausescu, adeguatamente informato dai suoi apparati di sicurezza, si rese conto ben presto che i disordini di Timisoara non erano solo proteste isolate, ma che il clima di insofferenza verso il regime stava dilagando in tutto il paese, inclusa la capitale. Il dittatore pensò alla più banale delle iniziative: farsi vedere in TV per placare le tensioni e sminuire l’importanza delle proteste. Incaricò quindi la Securitate di organizzare una manifestazione di regime a Bucarest davanti al palazzo presidenziale. Vennero mobilitate migliaia di persone per l’occasione, opportunamente convocate dagli apparati si sicurezza, come era loro solito, per fare la clacque al tiranno. Anche la televisione nazionale era stata allertata per trasmettere l'evento a reti unificate, ma qualcosa andò storto. Fonti non ufficiali affermano che la Securitate venne informata che il comizio di Ceausescu era stato annullato e che quindi i supporters non servivano più. Così migliaia di persone vennero invitate

56

Page 57: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

a tornare indietro. Nella piazza rimasero tuttavia altrettante persone. Non si trattava solo di cittadini romeni, ma soprattutto di russi, accorsi a Bucarest a migliaia. Semplici turisti o agenti dei servizi segreti sovietici mobilitati da Mosca? Non si sa con certezza ma è certo che mai come in quel giorno si registrò a Bucarest una tale affluenza di cittadini russi.

Affacciatosi alla finestra del palazzo presidenziale Ceausescu tenne un discorso che durò non più di un minuto e mezzo, cioè fino a quando i fischi cominciarono a prendere il sopravvento sulle parole dell’anziano dittatore. Nemmeno il tentativo della televisione di stato di coprire i fischi con gli applausi pre-registrati ebbe successo. Il Conducator, visibilmente imbarazzato, nel disperato tentativo di placare il chiasso con un gesto incerto del suo braccio, non riuscì più a proseguire. Un agente della Securitate lo invitò ad allontanarsi dal balcone. Le trasmissioni televisive vennero oscurate. Poco dopo un elicottero si alzò in volo dal tetto del palazzo. Fu l'ultima volta che il Conducator mise piede a Bucarest.

Le fonti raccontano versioni diverse di quelle ultime ore. Si racconta che Ceausescu salì a bordo dell'elicottero insieme con la moglie Elena, la guardia del corpo e due agenti della Securitate. L'elicottero avrebbe dovuto dirigersi verso una delle tante residenza presidenziali per consentire alla coppia di raccogliere i propri effetti personali e proseguire alla volta di un aeroporto dove, a bordo di un aereo civile, avrebbe dovuto varcare i confini nazionali per una destinazione imprecisata, si pensa in sudamerica.

Le cose tuttavia andarono diversamente. Pare che l'elicottero ebbe un guasto, probabilmente in seguito ad un sabotaggio, e fu costretto ad un atterraggio di fortuna in aperta

campagna, non lontano da Tirgoviste. Da lì i coniugi Ceausescu si sarebbero dati alla fuga a piedi, prima di essere raggiunti da una pattuglia dell'esercito romeno, che nel frattempo era passato dalla parte dei rivoltosi. Al di là dei connotati giallo-polizieschi della vicenda la sostanza è che il presidente Repubblica Socialista Romena, l’uomo che aveva comandato in Romania per quasi trenta anni, ora stava scappando per campi come un ladro qualunque, abbandonato anche dagli apparati dello stato che avrebbero dovuto essergli più fedeli.

Il processo

Il processo di Ceausescu e della moglie Elena si tenne a Tirgoviste, nella massima segretezza ed alla presenza di un improvvisato tribunale militare organizzato per telefono da Bucarest dal neonato Fronte Rivoluzionario Rumeno. La necessità di mantenere segreta la località di detenzione dei due tiranni e di accelerare le sorti degli eventi era data dal timore che un blitz dei reparti della Securitate ancora fedeli al presidente potesse mettere fine a tutto. Bisognava tagliare la testa al serpente che ancora si dimenava, solo in questo modo si poteva legittimare completamente la rivoluzione e chiudere con il passato.Non ci sono fonti certe attestanti l’esatto giorno della fucilazione dei due coniugi, ma opinione comune è che si tratti del giorno di Natale del 1989. La prigionia dei coniugi Ceausescu a Tirgoviste durò quindi tre giorni, dal 22 al 25 dicembre. I due tiranni vennero accusati di tre capi di imputazione: genocidio del popolo romeno, politica economica fallimentare, appropriazione indebita di proprietà pubbliche. Dopo nemmeno un ora di camera di consiglio il verdetto fu la condanna a morte per entrambi con esecuzione immediata. Il giudice ordinò ai militari presenti di condurre i condannati all’esterno dell’edifico per essere giustiziati. Qui vennero fucilati,

57

Page 58: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

avvolti nei loro cappotti di peltro, le mani legate dietro la schiena. Dopo l’esecuzione i corpi di Nicolae e Elena furono risposti all’interno di due bare, con la faccia verso il basso, coperti solo da un lenzuolo bianco. L’era del Conducator era finita.

I corpi dei coniugi Ceausescu riposano tuttora nel cimitero di Bucarest, in due tombe molto distanti l’una dall’altra. Sulla croce bianca della tomba del Conducator c’è la scritta “Nicolae Ceausescu, 1918-1989”. Qualche fiore qua e là, omaggio di un inguaribile nostalgico. L’attuale governo romeno si è sempre opposto alle reiterate richieste della figlia Zoia di trasferire i corpi dei genitori in una tomba di famiglia. Oggi in Romania è proibito mostrare in pubblico immagini del dittatore, inneggiare allo stesso a mezzo stampa, radio o tv. Il giorno di Natale di ogni anno, dal 1989, la televisione nazionale trasmette le immagini del processo e dell’esecuzione di Nicolae e Elena Ceausescu.

Conclusioni

La Romania di oggi è nata sulle ceneri di quella rivoluzione. Dove sono finiti i leaders politici del passato regime? Hanno cambiato la giacca e indossato vesti nuove: il comunismo “non fa più moda” ed allora ci si ricicla nei gangli del nuovo sistema di governo per dare una parvenza di discontinuità (o continuità?)

con il passato. Così i vecchi e grigi dirigenti di partito sono i nuovi dirigenti politici; gli ufficiali della Securitate sono i nuovi ufficiali dei servizi segreti. Tutto è cambiato perché non cambiasse nulla. Molte sono le ipotesi sulla rivoluzione romena, su chi fossero i suoi promotori e su chi ne ha cavalcato l’onda una volta che si era delineato il quadro. Non è fantasia l’ipotesi di chi sostiene che la rivoluzione sia stata organizzata dallo stesso establishment del partito comunista romeno, divenuto insofferente verso l’anziano dittatore che si rifiutava di farsi portavoce di una transizione democratica, ma che, chiuso nel palazzo, si ostinava a portare avanti il carretto dell’antistoria, preoccupato solo di poter così perdere il suo potere personale, costruito sul nepotismo e sulla sopraffazione. E oggi? Ceausescu come Gheddafi, l’eroe della rivoluzione, come lui stesso ama definirsi, assiste imperterrito all’avanzare delle truppe dei ribelli in tutto il paese, perde l’appoggio politico dei paesi occidentali “oleodipendenti”, vede passare dalla parte del nemico i suoi generali e i suoi ministri. Nonostante tutto ciò si ostina a credere in un ribaltamento delle sorti della guerra, si mostra sicuro di se mentre gioca a scacchi davanti ad una telecamera, mentre i ribelli avanzano costringendolo a passare gli ultimi giorni della sua vita in un tugurio di cemento armato in compagnia della sua pistola d’oro, incurante anch’egli della storia.

Mauro Proni, nato a Lodi nel 1975, si è laureato in giurisprudenza a Pavia nel 2000 con una tesi in diritto industriale. Nel 2003 ha frequentato un corso di comunicazione televisiva e multimediale a Torino. Nel 2006 ha iniziato a collaborare con il magazine online Viedellest. Fotoamatore, ha viaggiato intensamente in Europa e in oriente. Pubblica reportage di viaggio di tema storico e culturale sui paesi dell’ex blocco sovietico.

58

Page 59: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Mineriada: 13-15 giugno 1990. Realtà di un potere neocomunista.di Mihnea Berindei, Ariadna Combes, Anne PlancheCasa editrice Humanitas, Bucarest 1992

Traduzione di Clara Mitola

Il presente estratto appartiene ad un’inchiesta fatta “a caldo”, compiuta e pubblicata immediatamente dopo i fatti del giugno 1990, cioè dopo l’ondata di brutalità che insanguina Bucarest e compromette i sogni di democrazia reale che la Romania post comunista cerca con fatica di coltivare.Ho deciso di tradurre parte dell’introduzione di questo lavoro di ricerca storica non solo per rendere noti avvenimenti di cui non si sa poi molto nel nostro paese, ma anche perché ritengo che Pia a Universit ii sia una sorta di anello di congiunzione tra la Rivoluzioneț ăț del 1989 e la contemporaneità politica e soprattutto democratica che si osserva oggi in Romania. È una questione fortemente simbolica, ma allo stesso tempo reale perché se le cose fossero andate diversamente allora, forse oggi la democrazia romena avrebbe gambe più robuste. O forse no. È un’ipotesi, un simbolo per l’appunto, un ponte tra passato e presente, in un presente profondamente scosso dal desiderio di rinnovamento e trasparenza, se non direttamente, pulizia da scorie e distorsioni dure a morire.

A partire dai primi rivolgimenti drammatici che hanno avuto luogo nell’Europa dell’Est, due avvenimenti hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sulla Romania: la rivoluzione-colpo di stato del dicembre 1989 e la discesa dei minatori per le strade di Bucarest nei giorni del 14 e 15 giugno 1990.Il primo ha risvegliato un grande entusiasmo e ha dato il via ad un enorme movimento di solidarietà. Il secondo ha rappresentato uno shock. Quest’ultimo ha determinato la repulsione anche da parte dei più vivi sostenitori delle attitudini tolleranti rispetto alla “giovane democrazia” romena.A sei mesi dall’insurrezione di Natale, seguita con il cuore in gola da milioni di telespettatori, sui nostri schermi sono apparse di colpo le orde di minatori che si riversavano su Bucarest: linciaggi, distruzioni, immagini che arrivano da un altro tempo.È vero che da un certo momento in poi si era già fatta presente una certa incertezza rispetto all’autenticità della rivoluzione e delle opzioni democratiche del potere che pretendeva di essere la fonte della rivoluzione stessa. Ma in fondo, risultato di una rivoluzione spontanea o di un colpo di stato dei riformatori gorbacioviani, il Governo gode in modo continuativo della grande simpatia e fiducia guadagnate a dicembre. Le prime misure di carattere democratico avevano fatto buona impressione: l’abbrogazione delle leggi più repressive, il riconoscimento delle libertà principali tra cui quella di libera associazione, anche per i partiti esistenti prima della guerra, la proclamata “scomparsa” del partito comunista e delle sue strutture, soprattutto della Securitate.Dopo gli eventi di giugno, la reazione internazionale è immediata e quasi unanime. Tutti si sentono imbrogliati e ricordano di essere già stati tratti in inganno una volta, quando hanno tremato di fronte alle immagini della ”ecatombe” di Timi oara.ș

In ogni caso, anche per l’osservatore meno accorto, i fatti di giugno rappresentano una sorpresa solo parziale. Da una parte, sarebbe stato difficile presupporre che il potere in carica, che aveva appena ricevuto la conferma della propria legittimità con la schiacciante vittoria alle elezioni del 20 maggio, avrebbe avuto il coraggio di tali maniere e di

59

Page 60: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

manifestare una tale violenza. Dall’altra parte, è noto come questa crisi sia stata preceduta da molte alte crisi, latenti o violente, e questo in pratica già dai primi giorni della rivoluzione.I disordini sono montati insieme alla progressiva consapevolezza di quanto profonda fosse la manipolazione che ha accompagnato la presa del potere e la mistificazione attraverso cui i leader del Fronte di Salvezza Nazionale hanno cercato di dissimulare le loro reali intenzioni: le immagini del processo ai coniugi Ceau escu, l’esagerazione del numero delleș vittime della rivoluzione, il mistero intorno ai “terroristi”. La sensazione che si tratti di menzogne è rafforzata dal comportamento del FSN che, già dai primi conflitti di gennaio, ritorna all’uso di metodi ben noti: minacce fatte per lettera o telefonate anonime, lanciare accuse infamanti, sostenute dalla stampa legata al Fronte, contro gli oppositori e i partiti appena tornati alla vita politica. Durante la campagna elettorale, all’inizio di aprile, gli ostacoli posti sulla strada della libera espressioni si sono fatti più ardui e più numerosi, nella sfera individuale quanto in quella colletiva.Inoltre, a partire dagli ultimi giorni di gennaio, molte delle manifestazioni organizzate dalle opposizioni virano dalle posizioni iniziali, in risposta alle provocazioni sempre più evidenti e sono usate come pretesto per contromanifestazioni di ingiustificata violenza, attuate con la complicità delle autorità e delle forze dell’ordine. Le crisi di sviluppano in modo coerente rispetto ad uno scenario sempre più simile a quello che si avrà in giugno.28-29 gennaio: in risposta ad una manifestazione che ha riunito circa 100.000 persone, gli operai di molte fabbriche di Bucarest insieme ai minatori di Valea Jiului devastano le sedi dei partiti storici, brutalizzano chi si trova al loro interno, maltrattano tutti coloro che si permettono di protestare.18-19 febbraio: durante una grande manifestazione pacifica a Pia a Victoriei, un gruppo diț provocatori prende d’assalto la sede del Governo senza che le forze dell’ordine, presenti in gran numero, oppongano alcuna resistenza. Qualche ora più tardi, l’ordine è ristabilito con facilità e molta gente è arrestata. L’accaduto, come nel caso del 28 gennaio, è considerato dalle autorità un vero e proprio colpo di stato antidemocratico. Il giorno successivo, solo i minatori di Valea Jiului sono presenti all’appello del Governo; gli operai della capitale cominciano a non rispondere alle mobilitazioni. Armati di bastoni e di altre “armi” si impegnano in una delle più minacciose manifestazioni che abbia mai attraversato le strade della capitale.19-21 marzo: uno scenario identico è costruito sullo sfondo dei conflitti inter-etnici di Târgu-Mure , in Transilvania. I “contadini” romeni sono chiamati a rispondere alleș manifestazioni degli ungheresi che chiedono al Governo una regolamentazione dei loro diritti di minoranza. Fino all’intervento tardivo dell’esercito e della polizia, si registrano morti e feriti.In tutti e tre i casi, il potere ha usato strategie che ritorneranno come sfondo agli avvenimenti di metà giugno: preparare il terreno attraverso un’attività di propaganda che approfitta di opposizioni reali o provocate (operai/intellettuali; romeni/minoranze nazionali etc); l’uso di certi metodi che evidenziano la presenza e l’azione di un’organizzazione maestra nell’arte della provocazione, mobilitazione e manipolazioni, altrimenti detta, la ex Securitate. D’altra parte, i fatti di Târgu-Mure rappresentano unș pretesto perfetto per la costituzione del Servizio Romeno d’Informazione, all’interno del quale si raggruppa buona parte dei quadri della vecchia polizia politica. Quest’ultima torna così ad essere un organismo indipendente, dopo esser passata, a dicembre, sotto la supervisione dell’esercito. Per ciò che concerne la crisi di giugno, si vedrè come da questo nucleo nascerà la Jendarmeria, costituita soprattutto da unità che indossano la stessa divisa della Securitate.

60

Page 61: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Questa crisi mette in luce il conflitto, inizialmente difficile da vedere, e in seguito sempre più evidente, tra le due forze legittime che stanno alla base dei cambiamenti avvenuti in Romania: la legittimità di chi è uscito in strada nella folle speranza chiudere con la dittatura, e anche con i comunisti – parola d’ordine che ha animato i manifestanti fin dal primo momento, e la “legittimità” di coloro che, attraverso un colpo di stato non dichiarato, sono riusciti ad occupare i primi posti lasciati vacanti e ad autoproclamarsi rappresentanti di una rivoluzione di cui hanno saputo approfittare.Per i primi, la rivolta di dicembre è stata solo l’inizio della rivoluzione democratica alla cui realizzazione essi aspiravano. Il susseguirsi quasi ininterrotto delle manifestazioni, di cui siamo stati testimoni a Bucarest e nella maggior parte delle grandi città di tutto il paese, è il frutto dell’azioni di questa parte della popolazione, soprattutto dei giovani. I principali obiettivi dell’azione: conoscere la verità sui fatti di dicembre, sulla reale situazione della Securitate e, allo stesso tempo, opporsi rispetto alla tendenza manifestata dal FSN di monopolizzare il potere e di basarsi ancora sulla vecchia nomenclatura.Dopo la “lezione” del 29 gennaio, i partiti politici e soprattutto i due partiti storici, il Partito Contadino Nazionale cristiano-democratico (PNTcd) e il Partito Nazional Liberale (PNL), non organizzano più manifestazioni per strada. In compenso, la strada sarà occupata da leghe e associazioni studentesche, dai sindacati indipendenti e da altri movimenti, come il Gruppo Indipendente per la Democrazia (GID), la “Società Timi oara”, l’Associazione “15ș Novembre 1987”- Bra ov, etc. Anche l’esercito sarà presente attraverso le manifestazioniș organizzate a febbraio dal Comitato d’Azione per la Democratizzazione dell’Esercito (CADA). Questo movimento contestatario indipendente ritorna nelle posizioni assunte dal Gruppo per il Dialogo Sociale (GDS), costituitosi alla fine di dicembre per iniziativa di alcune personalità, vecchi oppositori, intellettuali di prestigio non compromessi col vecchio regime. Il settimanale pubblicato dal GDS, a partire dal mese di gennaio, 22, diventerà una delle principali tribune da cui il movimento renderà note le proprie posizioni. Le principali testate indipendenti, come anche le centinaia di pubblicazioni dello stesso tipo che appaiono in brave tempo in tutto il paese, rappresentano il catalizzatore degli elementi più dinamici delle opposizioni democratiche e questo a dispetto delle considerabili difficoltà materiali contro cui si scontrano e degli ostacoli posti dalle autorità nel loro processo di sviluppo e diffusione. I contestatari communque esitano ad impegnarsi fermamente nella lotta politica. L’11 marzo, la “Società Timi oara” pubblica il Proclama di Timi oara, un programma in trediciș ș punti che precisa gli obiettivi politici di tutti coloro che desiderano continuare la rivoluzione. Dopo una prima campagna di adesioni, il 26 aprile nasce l’Alleanza di Timi oara che raccoglie centinaia di migliaia, forse addirittura un milione di firme. In ogniș caso, per via della mancanza di esperienza, l’Alleanza non pensa di usare questo potenziale in uno scontro elettorale e non presenza alcun candidato alle Presidenziali o una lista per le elezioni legislative. Le cose staranno così anche per il movimento contestatario che si cristallizzerà in Pia a Universit ii, a Bucarest.ț ăț

Il Proclama di Timi oara è un documento di riferimento dei manifestanti che, a partire dalș 22 aprile, occuperanno per 53 giorni di fila questo luogo simbolico dove caddero le prime vittime dell’insurrezione della capitale, il 21 dicembre del 1989. I manifestanti insistono particolarmente sul “punto 8” del programma, che invoca il divieto per i vecchi attivisti comunisti e per tutti gli ex ufficiali della Securitate a candidarsi nelle liste elettorali per le successive tre legislature. Questo divieto è valido anche per le elezioni Presidenziali. La seconda richiesta dei manifestanti riguarda la fine del monopolio del potere sui mezzi di comunicazione audiovisivi, la presenza delle opposizioni, completa ed equilibrita, in

61

Page 62: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

televisione. Per richiamare l’attenzione sull’importanza vitale accordata a tali rivendicazioni, circa un centinaio di manifestanti entreranno in sciopero della fame, esattamente nel posto in cui si svolgono le manifestazioni.Le autorità non si decidono ad intraprendere un dialogo, a dispetto dei numerosi interventi compiuti in questo senso soprattutto da parte del GDS. In ogni caso, il potere manifesta pubblicamente e in più occasioni l’intenzione di creare un dialogo, per poi tirarsi indietro all’ultimo momento. È anche vero che le principali rivendicazioni dei manifestanti contenevano aspetti troppo sottili per le autorità. Da questa prospettiva, l’empasse era inevitabile. Quando, l’11 giugno, dopo le elezioni, le autorità accetteranno infine di ricevere una delegazione di scioperanti, sarà solo per fargli la vaga promessa di una televisione più indipendente, premessa considerata insufficiente dagli ultimi occupanti della piazza.In senso retrospettivo, l’importanza del fenomeno di Pia a Universit ii deriva dalla suaț ăț comprensione al di là del confronto col il potere. Questo posto, proclamato “prima zona libera dal neo-comunismo”, diventa una scuola per decine, centinaia di migliaia di persone di ogni età e condizione sociale, uomini che scoprono qui un’identità comune. È l’unico posto in Romania in cui c’è libertà reale, dove si parla senza paura – spesso per la prima volta – in pubblico, è un’agorà. Coloro che sono in Pia a Universit ii abitualmente creanoț ăț una confraternita con riti propri, con canti, slogan, tribune, con un proprio folklore. Quando, il 25 aprile, durante una seduta televisiva del Consiglio Provvisorio di Unità Nazionale (CPUN), Ion Iliescu apostrofa i manifestanti “golani21”, questi si approprieranno della definizione, trasformandola in un titolo onorifico e di riconoscimento. Sempre nello stesso periodo si aprirà il balcone della Facoltà di Geografia; diventerà la tribuna dalla quale parleranno centinaia di persone – scolari, studenti, operai, contadini, intellettuali – in loro nome o in nome della collettività e delle associazioni che rappresentano. Si tratta soprattutto dei cittadini di Bucarest, ma anche di uomini proveniente dal resto del paese, persino oltre frontiera, romeni della Basarabia o che tornano dall’esilio, stranieri simpatizzanti col movimento. Gli argomenti trattati portano tutti in filigrana la ricerca della verità. La verità su loro stessi e sugli altri, sul passato e sul presente. Sul presente soprattutto, per preparare il futuro. Si fa appello a coloro che la pensano nello stesso modo; sono chiamati a parlare noti oppositori del regime di Ceau escu (Doina Cornea, Gabriel Andreescu, Radu Filipescu…), membri del GDS (Anaș Blandiana, Petru Cre ia, Stelian T nase, Sorin Dimitrescu…), i leader dei nuovi movimentiț ă studenteschi (Marian Munteanu, Mihai Gheorghiu… ), quelli dell’Associazione degli Ex Detenuti Politici (Ticu Dumitrescu), del GID (Iulian Corn eanu, Andrei Apostol) e dellaăț “Società Timi oara” (George erban) e ancora molti altri.ș Ș

Pia a Universit ii è una scuola, ma anche il luogo in cui si formano numerosi movimentiț ăț che si cristallizzeranno e matureranno. L’esempio di Bucarest è contagioso: a Timi oara,ș Cluj e Ia i, a Constan a, Piatra Neam e in altre località sono organizzatee manifestazioniș ț ț dello stesso tipo per periodi di tempo più o meno lunghi.Questo movimento, sebbene abbia avuto un ruolo di mobilitazione reale per una parte della società, ha portato in sé, per sua stessa natura, il germe della propria estinzione. Le manifestazioni di Pia a Universit ii non sono riuscite a trasformarsi in un movimento diț ăț opposizione costruttiva, con una struttura e un programma propri. In queste condizioni, la sua scommessa è rimasta quella di concentrarsi su un’azione contestataria che rivendica ciò che è più difficile da ottenere nella lotta pacifica ingaggiata contro il potere: il ritiro dei vecchi attivisti dalla campagna elettorale e in generale dalla vita politica. In realtà, anche se queste rivendicazioni esprimevano in modo autentico ciò che era desiderio non solo dei

21 Golan è un aggettivo con diversi significati compresi tra perdigiorno, teppista o poveraccio.

62

Page 63: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

contestatari, ma anche di gran parte della società, erano cmounque impossibili da soddisfare se non passando ad una lotta politica. Detto in modo più diretto, era impossibile chiedere al FSN di intraprendere un dialogo – riconoscendo loro il ruolo di interlocutori legittimi – e nello stesso tempo chiedere alla sua leadership di riconoscersi semplicemente come non legittimità e ritirarsi dalla gara politica.Proprio prima del 20 maggio, i gruppi che avevano compreso l’esistenza di questo dilemma, e l’implicito empasse in cui si impantanava il movimento, cercarono una soluzione per metter fine all’occupazione di piazza. D’altra parte lo scoraggiamento è sempre più evidente nella qualità di chi prende la parola, i cui contenuti si ripetono spesso, e nella radicalizzazione, se non direttamente aggressività dei toni di alcuni oratori che hanno parlato dal balcone.Il 24 maggio, il GDS rende pubblica una dichiarazione rivolta ai manifestanti di Pia aț Universit ii, in cui si insiste sulla necessità di stabilire una piattaforma meglio strutturataăț e anche più politica per continuare a lottare contro il comunismo. “Nella situazione attuale, crediamo che queste forme di protesta /soprattutto lo sciopero della fame/ debbano essere sostituite da altre forme di opposizione, senza le quali non può esistere una società democratica”. Quattro delle principali organizzazioni presenti all’avvenimento – la Lega degli Studenti, l’Associazione degli Studenti di Architettura, l’Associazione “21 Dicembre” e il GID sottoscrivono questa posizione, invocando a loro volta il ritiro dalla piazza. Queste associazioni si ritireranno il giorno dopo. In Pia a Universit ii rimarranno soloț ăț “l’Associazione 16-21 Dicembre” e “l’Alleanza del popolo”, due delle meno organizzate, con una base sociale debole e con un programma molto più radicale, se non direttamente estremista.Immobili fino alla fine, restano coloro che fanno lo sciopero della fame – uomini entusiasti che assomigliano sotto certi punti di vista ai bambini perduti della rivoluzione; tuttavia, da ora in avanti questi ultimi non rappresenteranno più il movimento in cui si riconoscevano decine di migliaia di persone. Se Pia a Universit ii resiste in un certo modo, è più che altroț ăț come simbolo che come un movimento di opposizione reale. Questo significherà che, nel momento in cui il potere sceglie di intervenire in modo brutale, non lo fa per liberarsi di un movimento che potrebbe rappresentare un pericolo, ma proprio per eliminare quella componente simbolica. Ma soprattutto, l’azione del Governo sarà pretesto per colpire l’organizzazione delle opposizioni che, grazie all’esperienza della piazza, cominciano a strutturarsi meglio.Il presente lavoro è innanzitutto un’inchiesta, più dettagliata possibile, sugli avvenimenti del 13, 14 e 15 giugno, a Bucarest. È un tentativo di possibile ricostruzione del modo in cui si sono sviluppati, per esaminare il ruolo di ciascun partecipante, per distinguere in tali avvenimenti il vero dal falso. In questo modo si svelano molteplici livelli di complicità e responsabilità che concorrono a realizzare un’operazione preparata con cura e che nasconde, attraverso una gigantesca manovra di disinformazione, intossicazione e manipolazione, un vero e proprio complotto.

Clara Mitola, nata a Bari nel 1979, scrittrice e traduttrice, nel 2007 ha pubblicato il romanzo a puntato In a Silent Way per la fanzine on-line L’Aperitivo illustrato, collaborando allo stesso tempo con la pagina culturale del quotidiano BariSera, e con qualche casa editrice locale come editor. Laureata in lettere moderne presso l’Università di Bari. Prima di terminare la seconda laurea in lingue e letterature straniere, comincia a vivere tra Russia e Romania, fino a trasferirsi a Bucarest nel maggio del 2010. Ha collaborato con Questioni di frontiera scrivendo un reportage su Bucarest e, in modo più continuativo, collabora con la rivista Poesis Internazionale e con il blog Scrittori Precari, dove si occupa della rubrica di traduzione letteraria ContraSens di prosa breve e poesia romena, mentre si muove qua e là partecipando a festival poetici (festival internazionale della poesia di Genova 2010), incontri e tavole rotonde di varia natura. Attualmente vive a Bucarest ed è orgogliosa di appartenere a quella ristretta minoranza di individui che sfida l’abusata rotta est-ovest dei movimenti migratori.

63

Page 64: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

Pia a Universit ii, dove la Romania si specchiaț ățdalla rivoluzione del 1989 alla rivolta degli indignati del 2012

di Damiano Benzoni

Ole, ole, Ceau escu nu mai e!ș - Pia a Universit ii, a Bucarest, è il chilometro zero diț ăț un'intera nazione: la pietra miliare da cui si dipanano le strade della Romania e a partire dalla quale si contano e collocano le distanze. Il monumento al Chilometro Zero che si trova su un lato della piazza però porta con sé altri significati e ricordi. A partire da quel 21 dicembre 1989 che segnò la fine della dittatura comunista di Nicolae Ceau escu, unaș giornata della quale Pia a Universit ii fu uno dei palcoscenici principali. ț ăț

Sulla Rivoluzione del 1989 pende una serie interminabile di punti interrogativi affilatissimi; la coltre di nebbia che avvolge gli eventi della novena del 1989 in Romania è a tratti impenetrabile e sembra voler custodire i segreti più inconfessabili della tragica e confusa fine – o metamorfosi – del Partidul Comunist Român. Dopo la neve, la liberazione, la violenta purificazione, subito è tornato il fango. Sono troppe le impressioni discordanti per classificare la Rivoluzione come tale, troppi i sospetti che si sia trattato di un colpo di stato interno, di un cambio di facciata da parte del PCR per sostituire un leader e un nome ormai troppo compromessi per essere presentabili all'opinione interna e internazionale; per consegnare al malcontento della folla un osso su cui sfogarsi; per evolversi e adattarsi al nuovo clima internazionale determinato dalla fine della Cortina di Ferro. Evolversi per non morire.

Il clima degli ultimi giorni del 1989 a Bucarest è di confusione, di tensione e paura: un tutti contro tutti tra rivoluzionari spontanei, securi tiș ed esercito. Tante le vittime per errore, per confusione, per un grilletto tirato per paura; poche le certezze su cosa stia succedendo, su chi stia con chi o contro chi, sull'esistenza o meno dei cosiddetti "terroristi" evocati da chi aveva preso in mano la transizione. In questo clima avviene l'ascesa del Frontul S lvarii Na ionaleă ț (FSN) di Ion Iliescu, capace di imporsi come nuova guida del paese, inizialmente evitando accuratamente di pronunciare la parola "Rivoluzione" per poi – in un secondo momento – impadronirsi della Rivoluzione stessa e rivendersi come difensore e promotore della ribellione che aveva rovesciato Ceau escu. ș

Mai bine mort decât comunist!

Disfattosi in fretta e furia del dittatore, fucilato dopo un processo sommario il giorno di Natale, Iliescu divenne il principale architetto della Romania post – o neo – comunista. Iliescu era un personaggio sconosciuto ai più, membro di vertice del PCR fino al 1971, anno in cui uscì dalle grazie del Conduc toră e venne relegato nell'oscurità come dirigente di partito a livello locale. Il FSN non tenne fede alla promessa di guidare la transizione del paese fino alle prime elezioni libere e poi dissolversi e invece, forte del controllo sulla

televisione di stato, indisse le prime elezioni democratiche in maggio, sfruttando il poco tempo lasciato a disposizione delle altre forze politiche per organizzarsi. Iliescu si candidò come presidente alle stesse con una campagna improntata alla tensione etnica nei confronti della minoranza ungherese.

Come era avvenuto pochi mesi prima, nuovamente la nazione si strinse attorno a Pia a Universit ii. A partire da aprile laț ăț piazza divenne un presidio permanente sostenuto da intellettuali. La base delle proteste erano i punti della Declara ia de laț Timi oaraș , in particolare l'articolo otto che

64

Page 65: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

chiedeva che il nuovo governo venisse lustrato dai vecchi iscritti del PCR – oltre alla richiesta che il FSN rinunciasse al controllo della televisione per garantire maggiore pluralità. Le rivolte continuarono fino al giorno delle elezioni – che segnarono lo scontato trionfo di Iliescu – e si protrassero a lungo dopo la consultazione. Il nuovo presidente definì i manifestanti golani, fannulloni, e il nome divenne la bandiera delle proteste. Il cantautore Cristi Pa urc ne divenne il cantore, con il suoț ă Imnul Golanilor – "l'inno dei fannulloni" – che recitava: Mai bine haimana decât tr d tor, mai bine huligan decât dictator,ă ă mai bine golan decât activist, mai bine mort decât comunist ("Meglio vagabondo che traditore, meglio hooligan che dittatore, meglio fannullone che attivista, meglio morto che comunista"). Le stesse parole campeggiano oggi sulla lapide che gli è stata dedicata dopo la sua morte nel 2011. La lapide si trova a fianco di una pietra miliare che recita România – Km. 0 - Bucure ti -ș Pia a Universit ii - Libertate - Democra ieț ăț ț - Zona Liber de Neocomunismă .

La protesta dei golani durò due mesi, prima di essere soffocata con violenza dal nuovo regime tra il tredici e il quindici giugno: Iliescu chiamò a raccolta circa diecimila minatori della valle del Jiu, trasportati con dei treni speciali (apparentemente con la complicità dell'allora ministro dei Trasporti Traian B sescu) e incoraggiati da ună discorso del presidente in Pia a Victoriei. Leț redazioni di diversi giornali antigovernativi vennero attaccate e gli scontri tra i minatori e i manifestanti portarono, secondo stime ufficiali, a sette morti e oltre settecento feriti, anche se diverse associazioni dei familiari delle vittime sostennero che i decessi ammontassero a oltre un centinaio.

Pia a Universit ii, insomma, non è solo unaț ăț piazza per i romeni: è il luogo verso cui guarda un'intera nazione nei momenti in cui si sente messa in ginocchio. E il Chilometro Zero non è un semplice punto di riferimento geografico, ma un luogo che i

cittadini di Bucarest hanno parecchio a cuore. È il luogo dove provare a confrontarsi, a protestare, a dire quel che non va. È tornato ad esserlo questo gennaio, quando centinaia di persone si sono riversate nella piazza per diversi giorni per protestare contro le misure di austerità e chiedere le dimissioni del presidente B sescu. Molti dei manifestanti lascianoă trasparire come l'importanza della manifestazione risieda nel fatto di ritrovarsi in una piazza che per loro significa confronto, democrazia, lotta e impegno civile. Ivan, per esempio, è stato rivoluzionario nel 1989 e golan nel 1990, ha un megafono in mano, gli occhi lucidi e tanti anni sulla pelle. "Sono qui perché B sescu è un nuovo Ceau escu. Sono quiă ș perché la gente muore di fame, perché laggiù c'è una bambina di sei anni con dei calzoni corti con questo freddo perché non può comprarne di lunghi. Sono qui perché ho due figli che non hanno futuro", mi dice, mostrandomi la lapide di Cristi Pa urc .ț ă Carezza la foto del cantautore con l'indice, mentre mi dice con la voce rotta dalla commozione: "Ti faccio vedere una grande persona".

Le proteste sono iniziate di venerdì, il 13 gennaio. A far scattare la miccia sono state le dimissioni rassegnate tre giorni prima dal sottosegretario alla salute Raed Arafat, medico siriano-palestinese emigrato in Romania a sedici anni nel 1981 per compiere i propri studi. Nel 1991 a Târgu Mure Arafat poneva le basi di quello cheș sarebbe divenuto SMURD (Serviciul Mobil de Urgen Reanimare i Descarcerareță ș , "Servizio Mobile di Urgenza, Rianimazione ed Estricazione"), un servizio di pronto intervento che nel 1996 venne integrato al corpo dei pompieri romeno ed esteso così a tutta la nazione, fino a quel momento priva di un sistema di emergenza pre-ospedaliera. Proprio per difendere SMURD si è dimesso Arafat, accusato dal presidente B sescu diă essere un nemico della riforma sanitaria che secondo il medico avrebbe sacrificato il servizio di pronto intervento all'austerità

65

Page 66: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

finanziaria. La folla ha risposto riversandosi in piazza in un numero inaspettato per un paese normalmente indifferente come la Romania, dando l'impressione di un risveglio della società civile della capitale. I manifestanti acclamavano il nome di Arafat definendolo un român adev rată , un romeno vero. Ispirate da Bucarest, anche le piazze delle altre città di Romania si riempivano di persone e slogan di protesta.

B sescu, la pu c rie!ă ș ă

La protesta, ripetuta nei giorni successivi, ha presto assunto altri toni e ha adottato altre istanze. Il grido della piazza è presto diventato Jos B sescu!ă , "Abbasso B sescu!"ă o B sescu la pu c rie!ă ș ă , "B sescu ină galera!". La manifestazione in sostegno di SMURD si è trasformata in una protesta per chiedere le dimissioni del presidente B sescu e del primo ministro Emil Boc e ilă rinnovo di un'intera classe politica. Il terzo giorno, domenica 15 gennaio, la protesta è però degenerata in violenza anche a causa del contributo di alcuni hooligan delle curve delle squadre cittadine Dinamo, Steaua e Rapid e del Petrolul della vicina Ploie ti cheș hanno ingaggiato scontri con la polizia e vandalizzato la zona di Lipscani, il pittoresco centro storico e turistico della città, fino a raggiungere Pia a Unirii, teatroț degli scontri più duri.

Cariche della polizia, transenne sradicate, spranghe, sassi, molotov, lacrimogeni e getti d'acqua. Dieci membri delle forze dell'ordine e quarantacinque manifestanti feriti, oltre cinquecento fermati, quasi trecento dei quali per possesso di arma bianca e un lunedì di tensioni, con la minaccia della curva di tornare in piazza e con le dichiarazioni da parte dei leader delle principali tifoserie cittadine di aver agito non per protestare contro i politici, ma contro la recente e severa legge anti-ultrà. Nonostante le promesse dei tifosi il lunedì, quarto giorno di proteste, si è svolto senza particolari disordini, con cinquecento persone radunate in piazza a Bucarest e con

filtri di polizia negli angoli più sensibili della piazza per prevenire violenze come quella del giorno precedente. Il giorno successivo, in un tentativo di placare le proteste, il primo ministro Emil Boc restituisce ad Arafat l'incarico di sottosegretario, senza però riuscire a disinnescare la protesta, ormai concentrata su altre istanze, come ammesso dalle dichiarazioni dello stesso Arafat al momento del suo reintegro.

Suntem non-violen i ori nu maiț suntem?

Ziua a apteaȘ . Il settimo giorno – giovedì 19 gennaio – è forse il più torrido dell'intera protesta e comincia su un altro palcoscenico: l'Arcul de Triumf che torreggia a nord della città, dove l'Uniunea Social Liberală, la coalizione di minoranza, ha organizzato il suo Miting pentru Libertate con l'intenzione di farsi portavoce della piazza. Settemila persone presenti per ascoltare i discorsi altisonanti di Crin Antonescu e Victor Ponta, i leader dei due principali partiti dell'USL: parlano di dittatura di B sescu, definito l'ultimo leaderă comunista del paese, e promettono che il 2012 segnerà la fine del presidente e di Boc. Chiedono le dimissioni delle due maggiori cariche dello stato e che vengano indette elezioni anticipate. Eppure il numero di persone in piazza è diverso: sono molti meno i manifestanti di Pia a Universit ii, eț ăț sotto il Teatro Nazionale non sventolano – tra le mille bandiere – i vessilli dell'USL. Il Miting pentru Libertate sembra solo un tentativo di impadronirsi della manifestazione attraverso l'esposizione mediatica, un modo di legittimarsi agli occhi della piazza come l'alternativa di cui la Romania ha bisogno.

La sera stessa oltre un migliaio di persone si riversa nuovamente in Pia a Universit ii,ț ăț bloccata da un folto cordone della Jandarmeria, che blocca l'accesso nord della piazza arginando i manifestanti sul Bulevardul Nicolae B lcescu. La protesta,ă

66

Page 67: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

nonostante il blocco della circolazione da parte dei manifestanti, si svolge senza problemi fino alle undici di sera circa, quando un gruppo di dimostranti cerca di forzare il cordone di polizia e dirigersi verso Pia a Unirii, circa ottocento metri a sud diț Pia a Universit ii. Nuovi scontri con laț ăț polizia, nuovi feriti, nuovi fermi: partono le indagini su quindici manifestanti e cinque membri della Jandarmeria e inizia il rimpiattino di responsabilità e accuse che infiammerà la stampa nei giorni a seguire.

Mentre Antena Trei, l'emittente più critica nei confronti di B sescu, accusa la polizia diă aver utilizzato degli agenti provocatori per screditare la protesta e di aver reagito eccessivamente, il capo della Jandarmeria Aurel Moise dichiara ad Adev rulă : "Avremmo potuto intervenire in forza, ma non l'abbiamo fatto, ci siamo mossi quando i manifestanti in buona fede hanno lasciato la strada ed è stata invece eretta una barricata, ma alcune TV stanno cercando di screditarci". I rappresentanti dei gruppi di tifosi nel frattempo declinano ogni responsabilità degli ultrà sugli scontri. Evenimentul Zilei, uno dei quotidiani più fedeli a B sescu, sostiene che l'USL abbiaă pagato molti dei manifestanti dell'Arcul de Triumf per la loro presenza, pubblicando sul proprio sito un video che proverebbe questo fatto, ma la cui veridicità rimane dubbia e difficilmente confermabile. Il ministro per lo Sviluppo Regionale e il Turismo Elena Udrea, del Partidul Democrat-Liberal di B sescu e Boc,ă dichiara che le proteste sono legittime perché il PDL non è stato capace di comunicare con i cittadini e la società civile, ma sottolinea che "la soluzione non è, in ogni caso, sostituire Emil Boc con Victor Ponta". L'impressione è che parte dei media e la classe politica vogliano manipolare a loro modo la protesta, o per screditarla o per ricavarne legittimazione politica e voti in vista delle elezioni legislative del 30 novembre.

Românii sunt frumo iș

E la piazza, invece? Chi rappresenta? Cosa vuole? Sono tanti i movimenti e le idee che popolano Pia a Universit ii, troppi perț ăț riuscire a dare una definizione univoca. Basta guardare le bandiere: il tricolore romeno sulla banda gialla centrale riporta, di volta in volta, lo stemma del Regno di Romania, un buco (simbolo della Rivoluzione del 1989, quando si asportava dai vessilli il simbolo della Repubblica Socialista Romena), la scritta Salva i Ro iaţ ș Montană, il pugno che fu simbolo delle rivoluzioni colorate di fine anni '90 – Otpor in Serbia, Pora in Ucraina, Kmara in Georgia.

Ci sono professori che protestano contro i tagli all'educazione e ai loro salari, anziani che mostrano la loro pensione, sostenitori di re Mihai che chiedono un referendum per il ritorno alla monarchia costituzionale, ecologisti che protestano contro il lucroso contratto di sfruttamento minerario di Ro ia Montan , reduci della Rivoluzione eș ă della protesta dei golani come Ivan, sostenitori di Raed Arafat, tifosi che urlano contro la legge sugli ultrà, rom che chiedono maggior rappresentazione politica, riservisti militari, studenti, attivisti politici o semplice gente comune, convinta che non sia cambiato nulla da ventidue anni a questa parte e costretta a stringere la cinghia - nonostante già fatichi ad arrivare alla fine del mese - perché il governo deve ripagare i debiti contratti nei confronti delle istituzioni finanziarie mondiali.

Mihai e Daniel sono monarchici, sventolano la bandiera del vecchio regno di Romania, vorrebbero un referendum per riavere una monarchia costituzionale sul modello inglese e sognano che il vecchio re Mihai torni a governare il paese. Daniel vive a Firenze, mi parla in italiano perfetto e dice che è tornato a Bucarest apposta per le manifestazioni. Il suo amico Mihai è fiero di portare lo stesso nome del vecchio re e di

67

Page 68: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

non aver mai votato un presidente. Dice che sotto la monarchia la Romania ha avuto la libertà, l'indipendenza, la ricchezza e la sua massima espansione. Suo padre fu detenuto politico a inizio anni '50 per propaganda contro l'Unione Sovietica. Ana-Maria ha in mano un cartello con una poesia. Dice che ognuno ha la sua idea e che la soluzione è venire qua in Pia a Universit ii e dirla. Cheț ăț la Romania può fare meglio, che non è giusto che ragazzi, insegnanti e professionisti debbano lasciare il paese perché muoiono di fame. Che lei scende in piazza perché i romeni possano tornare a cantare e a ridere di felicità, possano comprarsi libri, possano studiare e avere i migliori professionisti romeni in patria, non le seconde scelte.

Ted ha in mano uno striscione illeggibile fatto su una tovaglia a fiori di tela cerata e una bandiera con il pugno che fu di Otpor, Pora e Kmara. Dice che spera che il modello sia quello di una rivoluzione colorata, e che è fondamentale che tutto si svolga senza violenze. Ha portato dei fiori per la Jandarmeria, dice che è l'unico modo per cambiare qualcosa. Cambiarlo come? "Non c'è nessuno di cui possiamo fidarci, ma l'importante è essere qua, dire che siamo scontenti e non stare in silenzio". Dragoș dice che c'è bisogno di cambiare, chi ha il potere ha grosse macchine, fa vacanze dorate, e nello stesso momento chiede ai cittadini di stringere la cinghia e alza del 15% il costo del pane. Dice che non ci sono soldi, che non vogliono migliaia di euro al mese, vogliono solo vivere dignitosamente e non vedersi continuamente tagliare gli stipendi. Mi indica il suo rappresentante, Mihai, portavoce di Mili ia Spiritualț ă. Mihai scende dal palchetto improvvisato, lascia il megafono e si mette a parlarmi. Dice che Pia a Universit ii è un postoț ăț importante per i romeni, che lui non ha soluzioni in mano, e che quello che conta, però, è che la gente sia qui, a dire la sua, a discutere, a cercare di creare un'alternativa che al momento non esiste alla classe politica.

Plou , ninge, noi vom învinge!ă

L'undicesimo giorno, mentre Emil Boc sacrifica alla piazza il ministro degli Esteri Teodor Baconschi – colpevole di aver lanciato una critica (nemmeno insultante come si è voluto far credere in realtà) ai manifestanti dalle pagine del suo blog – in piazza compare anche un militare. Si tratta di Gheorghe Alexandru, luogotenente ventisettenne della Settantunesima Flottiglia Câmpia Turzii, che sostiene di essersi unito alle proteste per rispetto verso la nazione e per far capire ai manifestanti che l'esercito non li ha lasciati soli. Una presenza che non ha mancato di dividere la piazza e l'opinione pubblica: l'ennesimo mezzo di strumentalizzazione o una vera iniziativa individuale del luogotenente? Questa è solo l'ennesima di mille contraddizioni che animano la piazza, a partire dalla consistenza della folla: che valore può avere una minoranza – per quanto attiva – in particolare quando le cifre crollano fisiologicamente dopo le prime due settimane di protesta? Che impatto può avere in una democrazia – per quanto imperfetta e corrotta come quella romena – un numero molto limitato di persone che si radunano per urlare slogan? O l'obbiettivo della manifestazione, più che far cadere veramente il governo di B sescu,ă è quello di essere lì, in piazza, a manifestare il proprio malcontento, il fatto di essere nemul umi iț ț ?

Nessuno in piazza sembra avere una soluzione, tranne i monarchici che auspicano il ritorno di re Mihai. Alcuni sperano che un leader possa uscire dalla piazza, qualcuno è ottimista, qualcuno realisticamente dice che serviranno ancora uno o due decenni per avere un vero cambiamento in Romania, qualcuno addirittura dubita che si possa mai migliorare, ma ritiene comunque importante scendere a protestare. Tutti concordano che un'alternativa vera al momento non esiste, eppure chiedono

68

Page 69: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

elezioni anticipate dichiarando che non saprebbero chi votare. B sescu in un certoă senso è solo un simbolo, l'obbiettivo della piazza è il rinnovamento dell'intera classe politica. Una classe politica che però, dal 1989 in poi, ha dimostrato la camaleontica abilità di cambiare pelle e di evolversi per sopravvivere in ogni situazione. Anni fa B sescu disse al suo rivale per le elezioniă Adrian N stase che la maledizione dellaă Romania era il fatto che i cittadini fossero costretti a scegliere tra due ex comunisti come loro. Il 25 gennaio il presidente si è rivolto alla nazione in un discorso di quarantacinque minuti, spiegando di comprendere chiaramente quale sia la situazione e che oltre alle persone scese in piazza ci sono milioni di scontenti che non sono usciti in strada. B sescu ha difeso ilă proprio operato sottolineando in più passaggi di dover far fronte a una situazione di crisi e all’impegno per modernizzare la nazione e concludendo che “i presidenti non possono dimettersi in tempo di crisi. Non prenderò in considerazione le dimissioni a meno che non diventi evidente che siano la soluzione”. Una frase, in particolare, è filtrata fino alla piazza: “Suntem acolo unde trebuie”, ovvero “siamo lì dove bisogna”. La risposta, piccata, è stata: “Sarebbe a dire in Pia a Universit ii?".ț ăț

Durante la dodicesima sera di proteste la neve comincia a coprire abbondantemente Bucarest e le temperature scendono drasticamente, raggiungendo anche i -18°C. Le proteste si indeboliscono, ma continuano, superano il mese, e trovano nuova forza grazie a una nuova motivazione: ACTA, l'accordo internazionale anti-pirateria contro il quale sono scese in piazza migliaia di persone in tutta Europa, a partire dalla Polonia. Dopo che le immagini degli scontri di Atene hanno riempito gli schermi televisivi, invece, in piazza compaiono anche bandiere greche e la minaccia: "se non si risolvono i problemi, la piazza diventerà come Atene".

Toat lumea tie ne conduce SIE!ă ș

A Cluj alle sei di sera si riunisce un capannello di persone, non più di trenta, di fronte alla statua di Mathias Corvinus. Bandiere di Ro ia Montan , bandiere dellaș ă Grecia, slogan di solidarietà con le proteste di Atene. La manifestazione dura una quarantina di minuti, una televisione locale li riprende. In poco tempo la folla si disperde da sola, senza che nemmeno un gendarme abbia interferito. A Bucarest i numeri sono più nutriti, ma il freddo ha colpito duramente la partecipazione, già vessata dai tentativi di strumentalizzazione dell'USL – che ha smesso di partecipare ai lavori del Parlamento – e dalle mosse di B sescu per disinnescarla. Il capolavoroă mediatico del presidente si compie il 6 febbraio, quando Emil Boc rassegna le proprie dimissioni dall'incarico di primo ministro e il governo viene sciolto e sostituito con un nuovo esecutivo che conserva alcuni nomi e ne liquida altri, Elena Udrea in testa – inciampata nelle lotte di potere del partito.

Al posto di Boc viene nominato Mihai R zvan Ungureanu, direttore del SIEă (Serviciul de Informa ii Externe alț României, i servizi segreti romeni). Negli ultimi anni del regime di Ceau escuș Ungureanu, che allora aveva dai diciassette ai ventuno anni, fece carriera nel Comitato Centrale dell'Uniunea Tineretului Comunist, l'unione dei giovani comunisti. Il passato legato al PCR e il fatto di essere stato direttore del SIE innescano subito l'accusa di essere un securista da parte della piazza. L'equazione fin troppo facile è "dirigente giovanile del PCR + direttore dei servizi segreti = Securitate". Poco importa che in quegli anni, tra il 1985 e il 1989, gli iscritti al PCR fossero poco meno di quattro milioni, circa un sesto della popolazione di allora: l'assioma secondo il quale la carriera politica giovanile di Ungureanu lo bolla come delatore equivale a mettere sotto accusa tutta una nazione, dai membri del

69

Page 70: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

PCR ai tanti componenti della zona grigia. La difficoltà di fare i conti con il totalitarismo risiede nel fatto stesso che, a meno di non essersi apertamente schierati in posizioni dissidenti – e spesso nemmeno se lo si è fatto – tutti sono complici. E, per quanto venga invocata continuamente in piazza, una vera resa dei conti o un dibattito intellettualmente onesto su cosa è stato il comunismo in Romania e sul vero significato della Rivoluzione sembra ancora un'ipotesi molto remota.

Nel frattempo B sescu ha guadagnatoă tempo per le elezioni legislative, nominando un esecutivo che – almeno per due mesi – è per legge intoccabile e dando alla piazza l'illusione di aver ottenuto una vittoria cruciale. Su Facebook gira una lista dei traguardi "ottenuti" dalla piazza: le dimissioni di Boc e la rimozione di Baconschi, il blocco della riforma sanitaria e il reintegro di Raed Arafat, la posticipazione della tassa sull'auto e la rinuncia all'accorpamento delle elezioni locali con le

legislative. Il messaggio si conclude dicendo: "Tutto questo in meno di un mese, grazie Pia a Universit ii". Un ingenuoț ăț ottimismo sembra pervadere la piazza, la sensazione – alimentata dalla condivisione di un'esperienza e dall'attenzione dei media – che il centro del mondo sia lì, l'illusione che essere una piccola massa significhi portare con sé le ragioni di tutto il popolo. Intanto, dietro i sipari di Palatul Cotroceni e Palatul Victoriei, rispettivamente palazzo presidenziale e sede del governo, si continuano a muovere i fili della politica e della campagna elettorale per le legislative di fine novembre con la stessa abilità con cui si mosse il FSN nei giorni del dicembre 1989. Sacrificato un governo alla folla, B sescu non sembra mollare nemmeno peră un attimo il timone del comando, cerca di regalare l'illusione al pubblico e distrarlo, mentre lontano dalla piazza si prepara per le future consultazioni elettorali, l'unico pericolo che potrebbe ostacolarlo realmente.

Damiano Benzoni è nato a Cantù (Como) il 25 maggio 1985. Laureato in Comunicazione Musicale alla Statale di Milano, è ora studente presso la Facoltà di Scienze Politiche del medesimo ateneo. Giornalista sportivo con particolare interesse per pallanuoto, rugby e per gli intrecci tra sport e politica, ha contribuito a fondare le testate online SportVintage e Pianeta Sport. Ha collaborato con la rivista “Rugby!” e scrive per la redazione locale di Lecco e Como de “Il Giorno”, ma ha pubblicato articoli anche per l’edizione online di “Limes” e per “Avvenire”. Da agosto 2011 a Bucarest, dove sta scrivendo una tesi di laurea sull’ingresso in Unione Europea della Romania e sulla transizione democratica del paese. Gioca a rugby come seconda o terza linea.

70

Page 71: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

A est di Bucarest, un'esegesi tragicomica della rivoluzione romena

di Silvia Biasutti

Corneliu Poremboiu, classe 1975, originario di Vaslui, cittadina romena prossima al confine con la Moldova, vince nel 2006 la Camera d’Or al Festival di Cannes con il suo film “A Est di Bucarest”. Il titolo originale della pellicola, “A fost sau n-a fost?” (trad. C’era o non c’era?), anticipa la linea di tensione che percorre questo piccolo capolavoro. Il primo movens del regista è quello di dipanare una matassa intricata per la storia contemporanea della Romania: la Rivoluzione del dicembre del 1989 si è accesa come esultazione popolare a seguito della fuga del dittatore Ceau escu oppure ha provocato la dipartita delş Conduc tor?ă

La trama del film rivela come il regista (e con lui una buona fetta della classe intellettuale romena), non si accontenti di accettare la dittatura comunista romena come il prodotto della “banalità del male”, per dirla con le parole della Arendt, o di interpretare la storia in base ad una teoria cospirativa. Il regista mette in scena due protagonisti, un pensionato che per sbarcare il lunario si traveste da Babbo Natale e un insegnante di storia con il vizio dell’alcool. I due vengono invitati sedici anni dopo la caduta del regime presso una piccola emittente televisiva romena di provincia a raccontare la loro testimonianza: dov’erano alle 12:08 del 22 dicembre 1989, quando il dittatore romeno lasciava Bucarest in elicottero in una disperata fuga?Le testimonianze dei due protagonisti si fanno via via più confuse e imprecise, arricchite da dettagli improbabili; alla trasmissione arrivano nel frattempo anche le telefonate degli spettatori, i quali destrutturano le versioni dei due ospiti, apportando nuove e controverse informazioni su quel 22 dicembre di cui nessuno riesce a dare una interpretazione plausibile. La scena della puntata televisiva, zoccolo duro del lungometraggio, diventa così un “teatro dell’assurdo”, a volte comico, a volte drammatico, che fa emergere volutamente la fotografia di un Paese che è ancora agli

albori di un processo di lettura critica dei fatti storici. Nonostante il film sia stato girato con una buona dose di improvvisazione, con inquadrature scarne e in low-fi, tiene banco con una sceneggiatura ricca di dialoghi di spessore, grazie alla quale il regista riesce a far affiorare emozioni, dubbi, rancori e ironie di un popolo dalla democrazia giovane. La narrazione per mezzo della “memoria retroattiva” di chi visse i giorni drammatici della caduta del regime, si lega all’interpretazione delle responsabilità, in un sistema dove classe politica, servizi segreti e tecnocrazia economica erano legati da un intreccio indissolubile. Le risposte mancate o tendenziose dell’intellighenzia romena nei confronti degli interrogativi della popolazione, le prove inquinate o distrutte di proposito, l’accesso condizionato agli archivi segreti di Stato, rendono la ricostruzione dei fatti un’impresa ardua.La pellicola mette in luce un sentimento cardine della Romania post-sovietica: lo smarrimento. In quei giorni tumultuosi del dicembre 1989 la popolazione percepiva con una certa angoscia il crollo dell’apparato statale, unico vero punto di riferimento dei romeni per quasi mezzo secolo. Negli anni a venire i documenti ufficiali, per lo più frutto della palingenesi sociale voluta durante il comunismo, venivano frammentati in diversi archivi ed

71

Page 72: Caporedattori centrali Merlini (Firenze), Filip Stefanovi Zheji ......Zheji Ballo (Tirana), Udo Mai (Berlino) Redazione scientifica Giovanni Bensi (Mosca) , Jasmina Tesanovic (Los

erano trasportati segretamente; le condanne politiche erano sommarie e grottesche, la Securitate continuava a perpetuare la sua sfera di influenza su tutti i piani della vita sociale. Questo ha evidentemente impedito un certo spirito solidaristico tra coloro che hanno il compito di ricostruire la Verità. Con il pesante fardello del passato la Romania continuerà a doversi confrontare, ma senza scordarsi di guardare avanti: il film si chiude con una telefonata in diretta di una giovane telespettatrice, che rivela: “fuori nevica, come una volta, siate felici per questa neve, perché domani sarà di nuovo tutto fango”.

Silvia Biasutti nasce a Udine nel 1987. E’ laureata in Turismo Culturale con una tesi sulla minoranza ungherese in Romania e in Sociologia del territorio con una tesi comparativa tra l’emigrazione storica dei friulani in Romania e l’attuale emigrazione dei Romeni in Friuli. Ha vissuto in Romania e in Moldova, dove ha insegnato italiano. Si occupa di fotografia, ha all’attivo numerose esposizioni ed un progetto fotografico sulla città di Chi in u,ş ă presentato in diverse città italiane e premiato dalla SAT e SUSAT di Trento. Ha svolto inoltre un periodo di ricerca presso il Centre for Spatial Sociology di Lubiana. Oltre che di Europa orientale, si occupa di processi partecipativi, di educazione interculturale e di turismo sostenibile. Il suo blog è: www.silviabiasutti.wordpress.com e il suo portfolio è: www.flickr.com/fri

72