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CAPITOLO PRIMO

1. Humberto

Humberto Vikingsson era diventato intagliatore didiamanti per nostalgia del ghiaccio.

Humberto era nato su un’isola di ghiaccio ai confinidel mondo, un paese in cui le distanze si calcolavano inore e non in chilometri, in cui i bambini usavano le fochecome cavalli e i morti venivano seppelliti senza cassasotto una lastra di ghiaccio perenne cosicché i nipoti pote-vano scoprire coi propri occhi da quale antenato avevanocopiato i tratti. Era un paese in cui montagne di ghiacciosi spostavano nel mare come nuvole, e le nuvole stavanofisse in cielo come montagne, trascinandosi dietro ombrelunghe quanto veli nuziali: un deserto di gelo cosí vasto ebianco che i primi esploratori ci piantarono pali coloratiper non perdersi.

Humberto era il secondo nato di una famiglia in cuiprima di cena si pregava tenendosi per mano intorno allatavola, con una madre che gli controllava la pulizia delleorecchie, una sorella che gli teneva pronto l’accappatoioquando usciva dalla tinozza, un fratellino che balbettavacosí lento da costringere a finirgli le parole, un nonno checapiva due giorni prima quando pioveva, un gatto che suo-nava il pianoforte passeggiando sulla tastiera, e un padreche ogni mattina si svegliava prima di tutti per respirarel’aria se andava bene: come erano dolci le storie quando araccontarle era il babbo: spegneva la luce per vedere laneve che scendeva nel buio, e narrava che l’aria, cosí

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solo per disegnare degli otto pattinando sui laghi, e in cuibisogna guardare a destra e a sinistra prima di attraversa-re, e si deve occupare il posto con un cappello per non far-selo rubare, una città in cui la gente usa i girasoli comeorologi (se hanno i petali chiusi sono le sette, se hanno ilgambo chino sono le undici, se hanno le foglie stecchitesono le quindici) e in cui i cani, contenti del collare, noncorrono perché rincorsi ma per farsi rincorrere. CosíHumberto si perse tra le troppe strade di quella città, cam-minando nel senso opposto a quello del traffico, correndoa passi lunghi come se il lastricato scottasse, con l’ansiad’una colomba che dopo l’alluvione non trova dove posar-si, finché raggiunse l’indirizzo raccomandato dal sindacodel suo paese, in un quartiere cosí recente da non averenumeri civici, affacciato su un fiume cosí largo che non sivedeva l’altra riva. Allora estrasse dalla tasca il fazzolettobagnato col ghiaccio di casa e lo strizzò per terra, ripen-sando a sua madre che gli cambiava le camicie prima chele sporcasse, a suo fratello che impiegava due ore a gon-fiare il palloncino perché rideva ogni volta prima di finiree a suo padre che gli aveva insegnato a riconoscere dalrumore l’istante in cui la neve diventa pioggia, e in quelmomento Humberto comprese che non solo per i pesci,ma anche per gli uomini l’aria può diventare soffocante,quando quell’aria si chiama distanza. Cosí, dal mattinodopo Humberto raddrizzò il crocifisso sghembo che ago-nizzava sulla parete e cominciò a cercarsi un mestiere, ma,come quando si stringe un sacco di castagne bucato sulfondo, dopo tre giorni di mietitura aveva affastellato soloun covone di ossequiosi rifiuti: da donne che si facevanooffrire da bere giocando col lobo delle sue orecchie, dabellimbusti che sedevano a tavola con la schiena drittaalzandosi di fronte alle signore come Humberto di fronte

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indispensabile agli uomini, è soffocante per i pesci, e chelo scorpione buttato nel fuoco si punge da solo per mori-re senza dolore, e che ci sono indios col bastoncino di tra-verso nel naso che comandano con un gesto magico laforma alle nuvole, e che quando lui e la mamma, la nottedel loro primo appuntamento, s’erano baciati all’aperto, ilfreddo gli aveva saldato insieme le labbra, costringendolia rimanere attaccati fino all’alba come due bicchieri in unbrindisi senza tempo. Non raccontava, suo padre: suonavaun’arpa che era la propria voce, la stessa con cui sette annidopo, un istante prima di morire, schermando la confiden-za con la mano, bisbigliò all’orecchio di Humberto: “Oradevi pensare tu alla famiglia: emigra in continente a cer-care lavoro”, poi, chiudendosi gli occhi con la propriamano per non vedere la morte, spirò. Cosí Humberto, lasera dopo, avvolse una scheggia di ghiaccio del giardinonel fazzoletto in cui aveva pianto il suo lutto di orfano, es’imbarcò.

Luce, luce, buio, luce: qualcuno dal traghetto per ilcontinente segnala con una torcia l’attracco al pontiledove Humberto aspetta.

Luce, buio, luce, buio: il saluto del faro della capitaleal traghetto di Humberto che attracca al continente dopotre giorni di navigazione.

Luce, luce, buio, luce: intervalli di sole dal finestrinodel treno che porta Humberto a sud: una locomotivaavvolta di fumo come una seppia in fuga.

Luce, buio, luce, buio: le palpebre di Humberto chebattono veloci per lo stupore di contemplare una stazionein cui una voce angelica comunica arrivi e partenze tra dueparentesi di campanelle, e poi una città in cui si camminasenza lasciare orme sulla neve, e in cui si usa il ghiaccio

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donne grasse invidiano le coppiette sui ponti, e a piangeree ridere insieme come quando si va in altalena, finchédopo una rapida soffiata di naso si riprendeva il buonu-more stupendo i compagni col proprio talento di scultoredi ghiaccio: “Se nasci nel marmo, sarà Michelangelo atirarti fuori” diceva con ghigno da caballero “e se vivi inun tronco puoi sperare in Geppetto, ma chi è prigionierodel ghiaccio deve rivolgersi a Humberto Vikingsson”,concludeva cominciando a intarsiare il cubetto con la tec-nica circolare della tigre quando si avvicina al caprettoassopito. Cosí, i giorni del suo espatrio trascorsero lenti edifficili da contare quanto mosche in volo, e le settimanes’ammucchiarono una sull’altra come nel gioco dellepulci, finché, un mattino d’aprile in cui i cespugli ansima-vano per il fermento delle api che traslocavano, nellapescheria giunse un damerino con la cravatta intonata coicalzini che camminava a scatti come avesse le pile dietrola schiena e respirava nei guanti per scaldarsi le mani: ilsuo nome era Patricio Cullerda (don Patricio Cullerda, peri mortali) e seminando una scia del dopobarba con cui dis-simulava il profumo delle proprie amanti sedette colmento appoggiato sul manico d’un bastone a studiareHumberto che intagliava un blocco di ghiaccio a forma diuovo che si schiude, poi, quando la sirena della pausainterruppe l’affioramento del pulcino, ravviandosi lesopracciglia con un pettine d’osso, gli chiese:

– Quella scultura, sapresti farla anche con qualcosa dipiù duro del ghiaccio, ragazzo?

– Certo, rispose Humberto, dipende solo quanto più duro.– Molto più duro, ribatté don Patricio. E lo condusse a

intagliare diamanti.Nei diciassette anni successivi Humberto divenne il

più grande intagliatore del paese, perché non scolpiva i

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al professore quando entrava, da marinai che lo avvicina-vano nelle taverne con motteggi che qualunque reazioneavrebbe trasformato in aggressioni, e da segretarie annoia-te che parlando al telefono si scarabocchiavano le maniattaccando cicche sotto la sedia.

Di quel nuovo mondo Humberto apprezzò solamente icubetti di zucchero che gli ricordavano il ghiaccio e i lam-padari di cristallo che parevano pioggia assiderata, perciòavrebbe voluto lavorare nella Confetteria della Contea onella Vetreria Statale, ma un impiego sopra il minimo sin-dacale lo trovò solo nella pescheria della darsena, dovearrivavano i merluzzi dei fiordi del nord, allibiti in cubi dighiaccio, per venire salati in bare di latta. Cosí si feceassumere come mozzo squamatore, e i suoi compagni dilavoro divennero il vecchio Milord, un duca decadutotenuto in piedi solo dalla camicia cosí sporca che non sipiegava, il piccolo N’koto Mugabi, un mulatto che dormi-va per strada su grate fumanti e pranzava frugando neicestini del parco, e il nano Casimyros, che s’infilava coto-ne sotto i talloni per sembrare più alto ma con un pugno intesta poteva sotterrare un marinaio fino alla cintura. “Ilprincipale” gli dissero quei tre, il primo giorno di salagio-ne “ha le suole nuove perché sta sempre coi piedi sul tavo-lo, e se fosse nato senza gambe non se ne sarebbe ancoraaccorto, mentre noi ricaviamo il sale per marinare i mer-luzzi dalle nostre stesse lacrime essiccate”. E cosí quellasera Humberto disegnò sul vetro della propria stanza colgrasso di baccalà le sbarre di una prigione, e da allora ognimattina si trovò ad essere destato dalla nostalgia prima chedalla sveglia, come il monaco prima dal precetto che dallacampana, o il neonato prima dalla fame che dal sole.Talvolta, poi, nelle pause del lavoro, cominciò a sorpren-dersi a guardare lontano, il mare, con gli occhi con cui le

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prima) e continuò per diciassette anni a risistemare ognimattina gli oggetti di casa, spostandoli decine di volte, fin-ché poi li rimetteva nella posizione iniziale, perchéHumberto cercava in ogni diamante il continente di ghiac-cio che aveva abbandonato da bambino, tanto che la gioiae lui erano ormai due rotaie che correvano parallele, cosívicine da fremere del medesimo treno, ma senza maiincontrarsi. Finché un giorno giunse Jezabel.

2. Ezechjel

Ezechjel aveva un cognome da museo, Louvre, e unpiccolo neo sulla guancia come una punzonatura dibiglietto d’entrata, ma soprattutto aveva un udito cosí fineda sentire i passi degli angeli e da indovinare dalle labbraquel che la gente diceva al di là dalle vetrine, e da distin-guere ad occhi chiusi il rumore degli aerei e il sospiro concui il profumo dei crisantemi s’annullava esalando. PerciòEzechjel crebbe circondato da concerti di suoni come unasignora elegante dagli sguardi dei proletari quando pas-seggia in piazza, finché, al suo diciottesimo compleanno,un dottore con un portasigarette d’oro e uno sguardo sup-ponente da cammello lo fece accomodare su una poltronacon nervature da foglia e gli spiegò che, per una patologiaereditaria che gli faceva da ponte con un parente d’oltreo-ceano, i suoi timpani si stavano spegnendo poco a poco,segretamente, come i gatti che vanno a morire lontano, eche il suo udito sarebbe scomparso entro sei mesi, unpezzo al giorno, segnalando la propria partenza con brevifischi, al modo di un aguzzino sadico che annuncia ognitortura prima di attuarla. Cosí, da quella sera Ezechjelsmise di scrivere poesie usando le parole ma solo note di

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diamanti dall’esterno ma seguiva la strada che portava alloro cuore fino a raggiungere il nocciolo invisibile checustodivano sotto la corazza, dove l’equilibrio dei cristal-li era solo un incontro di opposte vertigini: lui non ferivai diamanti, li completava, donando loro la forma che permillenni avevano sognato di assumere dormendo nelleminiere, ed era per questo che i bambini di tutta la nazio-ne giocavano a Humberto che scrive subito in bella copiala forma dei gioielli (gioielli che giungevano da ogniangolo del pianeta con nomi cosí complicati da attorci-gliare la lingua: gemme destinate ad ornare lo scrigno diqualche reliquia o l’ombelico d’una danzatrice orientaleancheggiante con le mani dietro la nuca, chissà) e poi gio-cavano a Humberto che paralizza i diamanti con l’occhioipnotico e poi li pugnala con un puntello di frassino comeun cuore di vampiro, e a Humberto il cui unico callo sullemani viene dallo scalpello e a cui le donne raccontanoquel che neppure si confidano tra loro, e a Humberto cheha fatto piantare gigli nelle bocche degli obici e ha ordi-nato di radere il bosco per costruire un campo da golf, e aHumberto che quando era uno spermatozoo fu il più velo-ce tra centomila e ti sa insegnare come fare l’amore sevuoi due gemelli, e a Humberto che afferra al volo le frec-ce, che lascia la mancia non in monete ma in banconote esa sparare tre colpi a un soldo in aria facendogli un solobuco. Cosí lo stemma di Humberto divenne il numero diun conto corrente con uno zero in più per ogni diamantescolpito, e la sua slitta da neve una Cadillac con bandieri-ne diplomatiche, ma lui continuò ad avere un occhio tristee uno allegro, uno buono e l’altro cattivo come i poliziot-ti negli interrogatori (con l’occhio destro contava le colon-nine di monete sui piattini della bilancia, mentre col sini-stro rimpiangeva l’orizzonte da cui era giunto millenni

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giorno sfogliava un libro di spartiti e quando faceva frul-lare le pagine ci vedeva delle figure, e la figura che lui civedeva era quella del suo cognome: la facciata del Louvre,perché Ezechjel pensava che quel che mancava all’umani-tà era proprio un museo dei suoni, che li custodisse primache l’aria li sopprimesse col veleno del silenzio, lenta-mente, come si inietta il curaro in un criceto. “Ma come sipossono conservare i suoni?” rimuginava Ezechjel ogninotte lasciando che La Via Lattea gli si specchiasse nellepupille: “Ecco, dopo un istante è già silenzio il calpestiodel lampionaio che passa fischiettando con la scala sullespalle, e gli sghignazzi dei perditempo seduti sui parafan-ghi delle auto parcheggiate, e l’urletto della fanciulla chesborsettò il palpeggiatore tentacolare, e lo scricchiolio trail pugno del barista e la mascella dell’ubriaco, e i bisbiglidei coniugi che davanti ai figli parlavano di debiti per allu-sioni, e gli strilli della zitella pagata per piangere ai fune-rali, e i dibattiti meteorologici degli incontri casuali perstrada”. Cosí pensava Ezechjel, cercando il modo di con-servare i suoni, con la mente affidata al senso d’orienta-mento dei pellicani migratori, finché una sera, contem-plando il geometrico disordine delle stelle, raggiunse ilnovembre dei pensieri, l’istante in cui ogni bambino scopreche le lucciole non scottano, e allora il suo primo pensierofu eureka, e il secondo fu eureka, e il terzo fu eureka, e poigridò eureka, e corse ad acquistare un terreno ondulatocome la tunica di una statua per costruirci sopra un magaz-zino con la forma di una cassa di violino, e, dopo averlicenziato il cameriere muto che lo accudiva da due anni,andò a recuperare dal buco della sua vecchia quercia labottiglia in cui aveva il nascosto suo urlo e la pose su unascansia della cantina, con sopra l’etichetta Reperto 1 (l’urlodel mio nome): e cosí quello fu il primo pezzo del Museo

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pentagramma, e si barricò nella propria stanza dietro unaserratura girata tre volte, a fare le prove del silenzio:abbassava il volume della radio fino a zittirla, per scopri-re come sarebbe stato rimpiangere la porta coi cardini usi-gnoli che cinguettavano ad ogni apertura, e non capire piùi gesti con cui i tenori mimavano i sentimenti, e doversi farscrivere le frasi su una lavagna per ordinare all’osteria, esentire le cannonate solo dal tremito sotto lo suole, escambiare ogni urlo per uno sbadiglio, e gettare le cartuc-ce nel camino per vedere solo le fiamme degli scoppi, enon poter ascoltare le confidenze per cui il cerchio degliavventori avvicinava le sedie al narratore, vedendo solo lesue labbra che si muovevano come le smorfie della bri-scola e il suo ventre scosso da una risata che non udiva.Cosí, dopo due settimane di quella solitudine da nonnache sferruzza, Ezechjel si levò dalla poltrona, prese unabottiglia vuota, ci urlò dentro il proprio nome, la tappò conun sughero, e poi corse a nasconderla nella quercia cavadel vivaio, per poterla ritrovare quando non avrebbe piùpotuto udire il proprio grido, come il cane che sotterral’osso in previsione dei tempi duri. E da quel pomeriggioEzechjel divenne un giocattolo che qualcuno ogni seraabbandonava su una seggiola davanti al tramonto, immo-bile a fumare una sigaretta senza far cadere la cenere,bloccato come una diligenza che aspetta il cambio deicavalli, in attesa dell’istante in cui la cenere sarebbe pre-cipitata al suolo, per controllare se sarebbe riuscito anco-ra a sentirla: un rintronato che masticava dodici volte ogniboccone per farsi durare il mezzo piatto di bollito e cheogni lunedí andava allo stagno per immergersi sott’acqua(l’unico mondo in cui tutti erano sordi come lui), uno sto-nato che non riusciva a ripetere due volte la stessa notaperché la dimenticava subito, un idiota che per tutto il

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fissando in duello telepatico il posto vuoto nell’ultimascansia del Museo, prega da sei anni, con la faccia nasco-sta tra le mani, di poter trovare quel suono, e ogni sera,sotto il cono della lampada a olio, passa in rassegna leduecento foto di donne cui durante tutti quegli anni ha pre-sentato il fucile del suo amore per l’ispezione, ma ognunagli trovò una macchia sulla giubba, proprio all’altezza delcuore, un difetto che non la fece innamorare di lui. E cosí,re, sol, fa, sol, do: una goccia dal soffitto sul pianoforteaperto, mentre Ezechjel, con l’animo trafitto come un por-taspilli, volta i fiammiferi a testa in giù per farli ardere fin-ché gli bruciano le dita, e pensa al suicidio infinito dellecascate, mentre sogna una fanciulla con cui passeggerà insilenzio per ore, lasciando che i loro cuori si parlino pertutto il tempo, perché Ezechjel è diventato cosí solo danon avere neppure nemici, e cosí triste che solo con unospecchietto davanti alle narici si capisce che è ancoravivo. Finché un giorno giunse Jezabel.

3. Kondor

Kondor vive da tre anni su un trespolo senza toccaremai terra. Ha gli occhi sulle tempie come gli squali, e fissail sole a palpebre spalancate. Non ha l’ombelico, perché ènato da un uovo, e sulle scapole ha due cicatrici di aliamputate. Kondor ha del proprio passato un conosceremisterioso, senza consapevolezza, fatto di memorieimprovvise: nei suoi sogni vede un laboratorio puzzolentecome il rutto di una mummia, e se stesso appena nato, e unChirurgo con occhietti da cinghiale che sibila a sua madre“l’esperimento è riuscito, ma nessuno dovrà mai sapereche Kondor esiste: mi devi promettere che non abbando-

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Louvre dei Suoni.Tutto ciò, quindici anni fa: ora il museo è una cattedra-

le larga sedici acri, affrescata con seimila pitture di tutti isuoni del mondo, e sette grandi acquerelli delle note musi-cali, e le stampe dei versi di tutti gli animali mitologici.Ora le bottiglie sulle scansie sono sei milioni, allineatecome la riga di indiani sulla collina prima dell’assalto, econtengono anche i versi muti dei pipistrelli e i suoni chesentono solo i cani: Ezechjel passeggia ogni giorno tra lescansie del suo museo col petto gonfio da dittatore alleparate militari, lento come quando non si vogliono spa-ventare gli uccellini, con l’eleganza d’un puma che fa laronda dietro le sbarre, anche se le sue orecchie sono ormaisorde quanto le lapidi dei reduci che ascoltano i raccontidelle vedove senza sentirli, ma ogni volta che accosta ipadiglioni a una delle bottiglie, se chiude gli occhi,Ezechjel lo risente, il bimbo del Reperto 112 che con lebraccia aperte faceva con la bocca il rumore di un aero-plano, e il vecchio del Reperto 13452 che metteva in tascaal nipote una caramella quando la mamma non guardava,e il mendicante del Reperto 1634872 che per una monetaraccontava com’era la vita prima del treno: ci vuole poco,pensa Ezechjel, a raddrizzare una vita: e ora sarebbe tuttoperfetto se... sarebbe bellissimo ma... ma c’è ancora unposto libero nell’ultima fila dell’ultima scansia del suoMuseo, una bottiglia vuota dopo il reperto 5999999(schiaffetto di vescovo alla cresima), un posto per il suonoche completerà la sua collezione, perché ancora un rumo-re manca al suo Louvre: la voce di una donna che pronun-ci il nome di Ezechjel con amore, che glielo gridi nellabocca mentre lo bacia, un urlo che gli scivoli nel cuorelento come un angelo, passando dalla gola. Cosí Ezechjel,nella sua biblioteca di libri che si polverizzano se li tocca,

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cicatrici al posto delle ali; e poi vede il Chirurgo che, unmese dopo, con un sorriso fino alle gengive lo presenta aldirettore del circo Wonderskij, bisbigliandogli “vedrai,Kondor: volteggiare tra i trapezi sarà come volare” e,chiudendosi il bavero del cappotto, si volta e sparisce persempre.

Il direttore del circo si chiamava Eduardo Salinas yRomero y Felipe y Castillo y Moreno y Duarte y Senderoy Contreras y Wonderskij. Per gli amici Wonder. E per labigliettaia passerotto, nonostante assomigliasse a unramarro. Wonderskij era un reduce di tutte le guerre, conun corpo cosí peloso che per fare l’orso a Carnevale glibastava svestirsi, e che lasciava duplicati del proprio cap-pello in ogni angolo del campo perché i suoi dipendentipensassero che era dovunque. Dicevano che sapesse rotea-re la testa come il periscopio di un sommergibile e chequando si avvicinava a un capannello di dipendenti cifosse sempre qualcuno che tossiva per avvisare gli altri dicambiare discorso, ma la prima volta che vide Kondor,Wonderskij, impugnando il manico della sua finta spadainguainata, gli rivolse solamente un endecasillabo giambi-co: “Il tuo alloggio è là, ragazzo” e gli indicò un carroz-zone con dentro un trespolo appeso al soffitto e un nido dipaglia ammucchiato in un angolo. E, da allora, Kondor siesibisce ogni sera nel Circo Wonderskij dopo il cane senzatesta, dopo l’uomo-quercia che suda linfa, dopo la donnaincinta da dieci anni che non partorisce mai, dopo il bam-bino col vino al posto del sangue, e dopo il nano zoppoche boxa col canguro: prima di ogni salto mortale, Kondorguarda il trapezio che gli oscilla davanti, col bianco degliocchi che diventa azzurro come di cielo, e lo palpa con losguardo quasi fosse un frutto, finché non lo vede più, e poi

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nerà mai l’isola”; poi Kondor vede un giardino di api cheannusano i fiori, e se stesso che con le sue giovani ali tentai primi decolli vigilato da sua madre che soffia sotto unapentola d’acqua portata a secchi dal fiume; poi vede unasiccità che quell’anno costrinse le pecore a brucare i fiorisui davanzali, e se stesso a volare al di là dello stretto perattingere da un pozzo abbandonato; e poi vede il Chirurgoche arriva sull’isola con un passo da bersagliere e un gior-nale sulla testa a sostituire l’ombrello, e grida a sua madre“la prossima volta che Kondor lascerà l’isola gli tagliere-mo le ali”; poi vede sua madre che lo prende sulle ginoc-chia e gli insegna a sbadigliare con la mano davanti, e ascrivere qui senza l’accento, e a far fare il salto mortalealla frittata sulla padella; poi vede un boato che fece sbat-tere i bicchieri l’uno contro l’altro sulla credenza, e lui esua madre che uscivano di casa per vedere il muso di unaereo conficcato nel campo di grano, e un aviatore colgiubbotto col collo di pelliccia che scende dalla carlingafumigante e fissando le ali di Kondor chiede “sono arriva-to in paradiso?”; poi vede sua madre che ascolta i raccon-ti del pilota con un’attenzione da allungare i padiglioni(l’aviatore narra di quella volta che era riuscito a fare l’a-more senza togliersi le mutande e a vincere una rissa senzaspiegazzarsi la camicia e di quando aveva livellato col tri-tolo un municipio all’altezza del suolo senza impolverarsigli stivali); poi Kondor vede il Chirurgo che scende trafe-lato dalla jeep ancora in corsa, scortato da due energume-ni con codini tartari che puntano un coltello alla gola del-l’aviatore bisbigliandogli: “parliamone”; poi vede se stes-so legato sul tavolo nel laboratorio del Chirurgo, dopo duegiorni di sonnifero da orso in letargo, svegliato dagli spil-loni dell’alba nelle pupille, sotto una lampada azzurracome un iride vista da vicino, che scopre di avere due

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lui, smettono di avanzare”.“C’è un muso di pesce spada che spunta dalla parete

del suo ufficio, come se quell’animale fosse rimasto impi-gliato nel muro mentre cercava di attraversarlo”.

“Chissà cosa vede, Mr. Johnatan quando fissa l’oriz-zonte, dove gli occhi umani vedono solo onde”.

La terra aveva ormai fatto trenta giri attorno al sole daquando Mr. Johnatan era sbarcato per la prima volta sul-l’isola del faro, e su di lui si raccontavano leggende piùbizzarre delle narrazioni dei naufraghi: i suoi modi di direerano divenuti proverbi, e davano sempre la colpa a luiquando in paese veniva rubato qualcosa, perché nessunoricordava che era stato lui era quel biondino ultimo a sini-stra della foto del ’16, che camminava scalzo perché abi-tava sopra il padrone di casa e gli era rimasta l’abitudinedi non fare rumore, e che disegnava il proprio babbo colcappello da sceriffo perché nei film western c’era semprequalcuno che partiva dicendo “ci vediamo” e poi invecenon si vedeva più, e proprio cosí aveva fatto suo padre unmattino d’autunno, bofonchiando: “Il cazzo era meglio selo usavo soltanto per pisciare”. Ma poi gli anni erano tra-scorsi, lievi come la danza delle alghe sui fondali, e ormaida ventuno mesi, di Mr. Johnatan giungevano in paese sol-tanto i rapporti che ogni settimana faceva pervenire allaCapitaneria di Porto, corredati talvolta con frasi fioritecome nelle miniature dei codici (“...di fronte al mare misento un idiota o un imperatore, dipende dai momenti, mase il mare fosse dolore vorrei soffrirne...”, “...gli oceanirisalgono a un’epoca cosí antica che le formule magichenon si dovevano ricordare ma inventare, e lo spazio fun-zionava solo in un verso, per avvicinare e non per allonta-nare, cosí tutti potevano essere sempre dovunque...”) o dabizzarre notazioni sui fenomeni naturali dell’Isola: sul

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si lancia a braccia spalancate ad abbracciare il niente,senza curarsi degli spettatori, perché quella è una questio-ne tra lui e il trapezio, e perché prima di Kondor volare eraun’utopia ma ora è diventato un sogno: Kondor ha porta-to con sé una piuma dall’isola della sua infanzia, come ilfiore che Eva contrabbandò uscendo dal Paradiso, e se l’ècucita nel costume da trapezista, chiusa in una fiala comeun’essenza preziosa o un neonato fasciato dentro un boz-zolo di bende. Kondor capisce tutti i dialetti degli uccellie conosce lo schiaffo primordiale per cui la Terra giraancora, e dice che un giorno farà un triplo salto oltre lenubi, e non scenderà più, e mentre lo dice il suo sguardos’attraversa di luce come una villa che si illumina mano amano che un candelabro viene condotto da una cameraall’altra, ma ogni notte Kondor guarda i mari della luna,trattenendo la nostalgia come si trattiene il fiato. Finchéun giorno giunse Jezabel.

4. Mr. Johnatan, il guardiano del Faro

“Il guardiano del faro è capace di leggere messaggisulla crosta della luna, e ha due occhi inguardabili come lafiamma ossidrica”.

“Mr. Johnatan ha bruciato la propria barca vent’anni faper non abbandonare più l’isola del Faro, e si accoppiacon le femmine dei trichechi, che sono più gustose delledonne”.

“L’unica bocca che ha mai baciato è quella della suaborraccia di rum, e non parla come gli umani, ma con frasiscritte in una nuvoletta sopra la testa come i fumetti ”.

“La luce del faro non viene da una lampada ma dal suosguardo trasfigurato, e onde della spiaggia, quando passa

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lupa di Romolo e Remo, compie una manovra riprodutti-va non autorizzata dalla Bibbia, mentre nel salone quattrouomini giocano a poker attorno a un tavolo: sono Lazzarus(che da quando gli hanno amputato le braccia non puòvotare per alzata di mano, gioca a poker tenendo le cartecon la bocca), Michael (che evidenzia la statura del suoalbero genealogico calcando la erre moscia mentre chiedeil cognac on the rocks), Ghunter (che ha le maniche trop-po lunghe come quelle di Cucciolo, e non gli crescono nébarba né capelli, ma al telefono lo scambiano per unomaccione), e Mr. Johnatan (che ha un asciugamano suuna spalla come il secondo di un pugile, e sull’altra spallaregge una scimmietta che gli cerca in testa i pidocchi):

LAZZARUS: Io punto mille.MICHAEL: Lascio. GHUNTER: Esco anch’io, ragazzi.MR. JOHNATAN: Rilancio: duemila.LAZZARUS: Poco, Mr. Johnatan: tremila.MR. JOHNATAN: Quattromila.LAZZARUS: Cinque!MR. JOHNATAN: Sei!

Lazzarus da bambino lanciava il peso più lontanodi tutti, e ogni marmocchio del quartiere regolava ilpasso col suo, finché un incidente gli rubò le brac-cia, ed è per questo che quando Mr. Johnatan glidice:

MR. JOHNATAN: Lo sai che non ho quella cifra.Lazzarus risponde:

LAZZARUS: Non voglio i tuoi soldi, Mr. Johnatan. (e allora cosa vuole?)

MR. JOHNATAN: E allora che vuoi?LAZZARUS: Voglio i tuoi sogni, Mr. Johnatan.

(i suoi sogni?)

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miracolo del legno che galleggiava seppur fosse piùpesante dell’acqua, sulle melodie che il vento arpeggiavatra gli scheletri delle balene sulla scogliera, sulle piccolecozze che crescevano alla radice delle grandi come nipotidi valchirie decise a imitarne la corazza, sulla voce azzur-ra con cui il mare chiamava i fiumi, e sui figli dei granchiche prendevano tutto dai genitori tranne le dimensioni, einfatti Mr. Johnatan aveva preso tutto da suo... zio, mentredalla madre (una cantante che per tre anni aveva allietatole prime linee ballando nuda dentro una gabbia e poiaveva trascorso il resto della vita a noleggiare per un’orala propria bellezza a platee di ubriachi) aveva ereditatosolo il passo lungo da tango e i denti capaci di masticare esorridere contemporaneamente. Jonathan aveva un nonnoanarchico e l’altro fascista, e veniva da una terra cosídesertica che ogni mattina bisognava scegliere tra bere elavarsi, ma non fu per sete d’acqua che trent’anni primaaveva deciso di trasferirsi su quello scoglio piantato tra ilmare e il nulla. Fu per una regina. Di picche.

Locanda Al cervo d’oro: salone fumoso, tende un po’cosí, nodi da marinaio ai muri, calze appese a un filodavanti al camino, un pianoforte che non ce la fa più,Candy (o Kitty, o Patty) lustra il bancone con lunghemanate tondeggianti bofonchiando che preferisce i pescirossi perché non bisogna innaffiarli e non pisciano suldivano. Sparse per la sala, bionde, brune, a metà prezzoper reduci e minorenni: Jennifer, tiepida di letto, si grattauna caviglia con l’altra, controllandosi la riga delle calze.Jeselle rossa popputa, orizzontale sulla poltrona, si fabucare le orecchie da una compagna, alzando i piedi quan-do passa la cameriera a spazzare. Junia, di sopra, con duestelline sui capezzoli, chinata a quattro zampe come la

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1.

C’è Humberto nel suo studio. Appeso al muro, uncalendario con dodici ottobri, perché ottobre è il mese incui Humberto salpò dalla sua terra. Sulla specchiera, lafoto di suo zio attore che quando provava faceva le voci ditutti i personaggi cosicché i vicini pensavano che di là dallaparete ci fosse sempre un ricevimento. Poi la foto di suononno preside che si era mangiato la Divina Commedia perdire solo cose importanti. Poi quella del cognato turco chesi divertiva a rubare le auto usandole finché c’era benzinae poi le abbandonava prendendo un tassí per tornare allasua stamberga col tetto da pagoda e le mura che si regge-vano a vicenda. Poi la foto del genero pianista di saloonpagato per continuare a suonare anche in mezzo alle risseschivando le bottiglie volanti. Poi quella del cugino bion-do che tornato dalla guerra non era più capace di attaccareil bue all’aratro e si spaventò a vedersi nudo davanti allospecchio. E poi altre cento fotografie del suo passato, infila come prosciutti agganciati in cantina.

Humberto è chiuso da tre giorni nel suo studio a leg-gere un libro intitolato Jezabel: lo ha trovato sullo zerbinodi casa quando ha aperto la porta per ritirare il latte, cosíha cominciato a leggerlo e non ha ancora smesso, perchéquel che ci ha trovato scritto era la sua stessa vita, tuttaintera, da quando era nato fino a quella mattina, in tutti iparticolari, compreso quel remoto mattino in cui da bimbosentí gemiti nella camera dei genitori e pensò che stessero

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MR. JOHNATAN: I miei sogni?LAZZARUS: Sí: se vinci, ti prendi i miei novemila. E,

se vinco io...(...se vince lui?)

LAZZARUS: ...rinuncerai a tutti tuoi sogni.Mr. Johnatan era stanco di lavare col tubo l’autodegli altri, di fingersi guida turistica coi gitantistranieri, di vendere ai mocciosi i temi già fatti persei soldi, di rubare i santini nelle chiese, di fare agara a chi esce ultimo dall’acqua ghiacciata otoglie la mano dal fuoco, per raggranellare duequattrini. Perciò rispose:

MR. JOHNATAN: D’accordo, Lazzarus.Silenzio da sala operatoria. Da stadio cileno.

MR. JOHNATAN: Io ho una...(cos’ha in mano?) Istanti a ritmo di crociera.

MR. JOHNATAN: ...scala di fiori, con Jack.(minchia!)

MR. JOHNATAN: E tu?Lazzarus tiene le carte sulle labbra per non farlevedere. Tiro alla fune di sguardi. Sorrisi sventolaticome mulete rosse. Poi cadono i sassolini dellasorte. Come quando lo schiavo sente per la primavolta quant’è il suo prezzo.

LAZZARUS: Scala di picche. Con...(con?)

LAZZARUS: ...con regina.(doppiaminchia!)

E fu cosí che Mr. Johnatan lasciò i suoi sogni sul tavo-lo verde, e si trasferí su quello scoglio azzurro piantato trail mare e il nulla, perché dal nulla non nascono rimpianti.Finché, un giorno, dal nulla e dall’azzurro, giunse Jezabel.

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deglutiscono solo quando non li guarda nessuno: sta sfo-gliando l’ultimo capitolo di Jezabel, e ci trova scritto pro-prio di se stesso che sta leggendo l’ultimo capitolo diJezabel, e nell’ultima riga del capitolo trova scritto:“Humberto si alza dalla poltrona con compostezza nippo-nica, ed esce da casa, diretto verso Piazza della Fontanadove incontrerà tre uomini che hanno ricevuto anche lorouna copia di Jezabel ”.

Che può fare un povero intagliatore di diamanti che haappena ricevuto un mandato di comparizione dal destino?Humberto si alza dalla poltrona palpando le lancette delsuo orologio da cieco senza vetro, ed esce di casa, direttoverso Piazza della Fontana: con compostezza nipponica,per rispettare il copione.

2.

Cosí passano dodici ore. Nel frattempo, nulla da segna-lare: i deputati hanno continuato a rubare senza sfilareborsellini (con la mano che quando saluta è già piena d’a-ria), le maestre a chiedere quante gocce ci sono in un litro(ma mentre vanno in macchina contano i pali della luce) ei contadini ad accarezzare le spighe, adagio, come capellidella terra. Ora c’è un cielo più nero di una scarpa lucida,e c’è il vento di città che infila sempre la prima via chetrova, e ci sono Humberto, Ezechjel, Kondor e Mr.Johnatan chiusi da dieci ore in una stanza d’albergo a cer-care di capirci qualcosa di tutta quella storia. Ognunostringe in mano una copia di Jezabel. Hanno affittato quel-la camera mezz’ora dopo essersi incontrati in Piazza dellaFontana, una piazza creata da dio dopo che aveva digeritobene: c’era una nonna che aveva posato il lavoro a maglia

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litigando ma poi capí che stavano facendo la pace a modoloro. E anche la volta che perse il portafoglio nel grano ediede fuoco al campo per trovarlo, e poi spense l’incendiocon la giacca battendo gli sterpi come si spolvera un tap-peto. E anche la volta che gli scambiarono l’elettrocardio-gramma con quello di un altro e per tre settimane visseogni giorno come fosse l’ultimo. Tutte storie che nonsapeva nessuno: segreti che aveva raccontato solo a sestesso, talvolta, in notti di neve, seduto al buio abbrac-ciando un vecchio tigrotto di stoppa. Ma non era tutto lí,perché nel secondo capitolo di quel libro Humberto avevatrovato scritti anche i suoi pensieri: tutti quelli che avevarimuginato nella sua vita: compreso quando si era chiestoquanto dovevano essersi amati i genitori di sua cugina pergenerarla cosí bella. E anche quando pensò che i puntinidelle coccinelle li avesse disegnati un angelo pittore, e chefosse colpa della luna se il suo pony non cresceva mai.Una stregoneria, pensò Humberto mentre continuava aleggere, come il vento che attraversa i vetri, o trovare ungiornale con la data di domani, o farsi una ferita che cica-trizza in tre secondi, oppure vedere una treccia di princi-pessa che cala da un balcone oltre le nubi. E cosíHumberto continuò a leggere Jezabel, stregato, fino all’al-ba. Cioè fino a un minuto fa, perché ora è l’aurora, e lestrade sono deserte come vene vuote: da lontano il rumo-re del fiume pare un urlo, e da vicino si capisce che lo è,mentre il sole, tutto testa come un polpo, decolla in cielocon un’indolenza da mongolfiera. I mariti nel sonno con-tinuano a sgridare le mogli, mentre le mogli sognano didanzare il valzer con uno sconosciuto che ha la voce delloro babbo, e i figli dormono con l’orecchio sul cuscinoper ascoltare i sogni delle piume. Humberto è ancora chiu-so nel suo studio, immobile come i mimi nelle vetrine che

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re al temporale. Humberto raccontò ripensando alla suaterra in cui anche i manichini nelle vetrine erano di ghiac-cio. Kondor narrò guardando dalla finestra i tassí cheobbedivano ai cenni di mano di donne senza diritto divoto, e vigili che bussavano sui tettucci delle auto in sostavietata, e una ragazzina con un modo di truccarsi che tra-diva la mano sapiente di una cugina, e un sorriso in cuis’intuiva un destino da puttana, ma con degli occhi cosíbelli che non avrebbe dovuto chiuderli mai. Mr. Johnatan,dal canto suo, parlò sdraiato a testa in giù, spaventatocome se avesse udito chiudere la porta a doppia mandata,mentre Ezechjel ascoltava impietrito, cosí confuso chenon ricordava neppure se la longitudine era quella vertica-le o quella orizzontale.

HUMBERTO: “È successo tre giorni fa. Avevo passa-to tutta la notte a fissare la luna irretita tra i rami a cande-labro della quercia per vedere se riuscivo a distinguere leimpronte degli astronauti, poi, all’alba, col barografo chesegnava 14 di minima e 28 di massima, e il pendolo chesegnava le 7 (dall’orologio in poi l’alba non è più l’iniziodella luce ma solo un numero tra le 6 e le 8) ho aperto laporta per ritirare il latte e sullo zerbino ho trovatoJezabel...”

KONDOR: “Mi trovavo nel tendone del circoWonderskij, appeso a un trapezio trenta metri sopra quel-la pista cosí vasta che non sta in un solo sguardo, a prova-re le mie curve da rondine, quando venne un fattorinofrancese (un sopravvissuto dalla Caienna che dopo tren-t’anni ancora abbassa la voce quando dice sissignore echina lo sguardo quando vede il cappotto gallonato deldomatore di leoni e si raziona da solo le sigarette usandouna bara come tavola da pranzo) a portarmi un pacco condentro uno strano libro...”

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per insegnare al nipotino che giallo e azzurro fanno verde,e c’era un moccioso con le stringhe slacciate che esultavaper il goal che aveva fatto con un barattolo, e c’era pureun ragazzino che si schermava con una mano la bocca perconfidare all’amico che prima del peccato originale anchei serpenti avevano le gambe e che in paradiso le bambinenon indossavano le mutande. Poi c’erano i marciapiedicon bocche d’aria che sollevavano le gonne delle fanciul-le, e infine c’era Humberto che arrivava trafelato nellapiazza e, fischiando con due dita in bocca, strillava aEzechjel, Kondor e Mr. Johnatan: “Ehi, voi tre!”. Allora ilmoccioso con le stringhe slacciate si voltava dando digomito all’amico e sghignazzava indicandoli col mento, ecosí Humberto bisbigliava: “Sarà meglio levarci dallastrada, che ne dite?”. Cosí attraversarono quella piazza divasi appesi a funi e sbucarono in una via con una statuacui era stata montata la testa sbagliata, poi in un vicolo dicancelli con la targhetta d’oro come prosciutti (un quartie-re cosí antico che la gente usciva ed entrava in fretta daiportoni per evitare i frammenti di cornicione che ognitanto precipitavano dai terrazzi) finché arrivarono in unrione di figli unici che giocavano lanciando la palla su perle scalinate e aspettavano che ritornasse scendendo i gra-dini, dove affittarono la stanza n° 13 di un ostello con tap-peti di prato vero e pareti da caveau blindato, e si feceroportare in camera un vino che si distingueva dall’acquasolo per il colore, poi ascoltarono l’allontanarsi dei passidel cameriere, il chiudersi di tre porte sempre più distanti,e infine il silenzio. Allora, guardando senza vederla la pol-vere di ieri nella mezz’aria della stanza, raccontarono cia-scuno come aveva ricevuto la propria copia di Jezabel,parlando angosciosamente, al modo di esuli da una cata-strofe planetaria: quattro agnellini raggrumati per resiste-

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