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CAPITOLO 4 - TECNICHE CRIOGENICHE E DEL VUOTO 4.0 Introduzione: necessità di tecnologie criogeniche Abbiamo visto nel Cap.2 che il rumore originato a livello microscopico dall'agitazione termica decresce al diminuire della temperatura termodinamica del sistema (esempi ne sono il rumore Johnson, il rumore di temperatura ed il rumore fotonico della radiazione termica). In questo capitolo tratteremo sinteticamente le tecniche sperimentali adottate per raffreddare i rivelatori o interi apparati sperimentali a temperature inferiori alla temperatura ambiente, in modo da ridurre il rumore. Anche altri parametri dei rivelatori dipendono drasticamente dalla temperatura termodinamica. In astrofisica è importante la 'corrente di buio' dei rivelatori a stato solido e dei fotomoltiplicatori: questa può essere ridotta drasticamente (di molti ordini di grandezza) raffreddando il rivelatore ad alcune decine di gradi sotto lo zero Celsius (vedi fig. 4.1 ). Le tecniche di raffreddamento a temperature molto più basse della temperatura ambiente (di solito a partire da 100 K) sono dette tecniche criogeniche. L' uso di tecniche criogeniche richiede anche l'uso di tecniche di vuoto, che tratteremo brevemente per completezza. Nel caso dei rivelatori di fotoni, l'esigenza di tecniche criogeniche può essere illustrata qualitativamente nel seguente modo. In fig.4.2 è riportata la dipendenza dell' energia dei fotoni (in eV, scala a sinistra) dalla lunghezza d'onda (in μ m). Le energie dei fotoni visibili (dell' ordine di qualche eV) sono sufficienti a provocare effetto fotoelettrico in alcuni metalli: ciascun fotone genera quindi un fotoelettrone che viene poi moltiplicato (fotomoltiplicatori) fino a produrre un impulso di corrente misurabile. Ad energie inferiori (lunghezze d'onda nell' infrarosso fino qualche μ m), le energie dei fotoni sono sufficienti a provocare transizioni da banda di valenza a banda di conduzione in cristalli semiconduttori (fotoconduzione intrinseca); ad energie ancora inferiori si riescono ad eccitare fotoconduzioni da impurezze (infrarosso fino a 200 μ m). Nella banda submillimetrica non esistono processi quantici analoghi utilizzabili efficientemente: si deve quindi ricorrere a rivelatori termici, in cui un grande numero di fotoni di bassa energia assorbiti dal rivelatore provoca una variazione di temperatura, che viene rivelata attraverso la variazione di una quantità termometrica: nel caso del bolometro la resistenza elettrica. Nella scala di destra di fig.4.2 è riportata la temperatura di 'rumore fononico' T * che si ricava imponendo kT * = h ν/ 100. Questa dà un'idea della temperatura alla quale il rumore termico del rivelatore non è più trascurabile rispetto all'energia dei fotoni da rivelare: ovviamente la relazione dettagliata dipende dalle caratteristiche del rivelatore e quindi quella riportata in grafico non va presa troppo alla lettera. Comunque è indicativa delle temperature alle quali si deve raffreddare un rivelatore per poter osservare efficientemente fotoni di lunghezza d'onda sempre più grande: il raffreddamento in azoto liquido (77 K) è richiesto per lunghezze d'onda superiori a qualche μ m; il raffreddamento in elio liquido (da 4.2 a 1 K) è richiesto per lunghezze d'onda di alcune decine di μ m. Le tecniche criogeniche non servono solo a diminuire il rumore dei rivelatori. In generale tutta la fisica dei sistemi freddi è estremamente interessante. A temperatura ambiente l'agitazione termica tende a mascherare gli effetti di interazione tra le particelle componenti la materia, soprattutto gli effetti quantistici. Superconduttività, superfluidità, ordinamento magnetico ed elettrico sono tutte manifestazioni macroscopiche di fenomeni quantistici, inosservabili a temperatura ambiente. C'è anche un grande numero di applicazioni pratiche, ad esempio la realizzazione di forti campi magnetici e' possibile grazie a magneti superconduttori, operanti a temperature di qualche grado Kelvin. Nel seguito daremo solo le nozioni che più sono attinenti all'uso dei sistemi da vuoto e criogenici in astrofisica sperimentale. Per approfondimenti si possono vedere i seguenti testi (dai quali è stata estratta la maggior parte del capitolo): White (1979), Conte (1970), Frossati (1991), Dusman (1962), Roth (1990).

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CAPITOLO 4 - TECNICHE CRIOGENICHE E DEL VUOTO

4.0 Introduzione: necessità di tecnologie criogeniche Abbiamo visto nel Cap.2 che il rumore originato a livello microscopico dall'agitazione termica decresce al diminuire della temperatura termodinamica del sistema (esempi ne sono il rumore Johnson, il rumore di temperatura ed il rumore fotonico della radiazione termica). In questo capitolo tratteremo sinteticamente le tecniche sperimentali adottate per raffreddare i rivelatori o interi apparati sperimentali a temperature inferiori alla temperatura ambiente, in modo da ridurre il rumore. Anche altri parametri dei rivelatori dipendono drasticamente dalla temperatura termodinamica. In astrofisica è importante la 'corrente di buio' dei rivelatori a stato solido e dei fotomoltiplicatori: questa può essere ridotta drasticamente (di molti ordini di grandezza) raffreddando il rivelatore ad alcune decine di gradi sotto lo zero Celsius (vedi fig. 4.1). Le tecniche di raffreddamento a temperature molto più basse della temperatura ambiente (di solito a partire da 100 K) sono dette tecniche criogeniche. L' uso di tecniche criogeniche richiede anche l'uso di tecniche di vuoto, che tratteremo brevemente per completezza. Nel caso dei rivelatori di fotoni, l'esigenza di tecniche criogeniche può essere illustrata qualitativamente nel seguente modo. In fig.4.2 è riportata la dipendenza dell' energia dei fotoni (in eV, scala a sinistra) dalla lunghezza d'onda (in µm). Le energie dei fotoni visibili (dell' ordine di qualche eV) sono sufficienti a provocare effetto fotoelettrico in alcuni metalli: ciascun fotone genera quindi un fotoelettrone che viene poi moltiplicato (fotomoltiplicatori) fino a produrre un impulso di corrente misurabile. Ad energie inferiori (lunghezze d'onda nell' infrarosso fino qualche µm), le energie dei fotoni sono sufficienti a provocare transizioni da banda di valenza a banda di conduzione in cristalli semiconduttori (fotoconduzione intrinseca); ad energie ancora inferiori si riescono ad eccitare fotoconduzioni da impurezze (infrarosso fino a ∼ 200 µm). Nella banda submillimetrica non esistono processi quantici analoghi utilizzabili efficientemente: si deve quindi ricorrere a rivelatori termici, in cui un grande numero di fotoni di bassa energia assorbiti dal rivelatore provoca una variazione di temperatura, che viene rivelata attraverso la variazione di una quantità termometrica: nel caso del bolometro la resistenza elettrica. Nella scala di destra di fig.4.2 è riportata la temperatura di 'rumore fononico' T* che si ricava imponendo kT* = hν/ 100. Questa dà un'idea della temperatura alla quale il rumore termico del rivelatore non è più trascurabile rispetto all'energia dei fotoni da rivelare: ovviamente la relazione dettagliata dipende dalle caratteristiche del rivelatore e quindi quella riportata in grafico non va presa troppo alla lettera. Comunque è indicativa delle temperature alle quali si deve raffreddare un rivelatore per poter osservare efficientemente fotoni di lunghezza d'onda sempre più grande: il raffreddamento in azoto liquido (77 K) è richiesto per lunghezze d'onda superiori a qualche µm; il raffreddamento in elio liquido (da 4.2 a ∼ 1 K) è richiesto per lunghezze d'onda di alcune decine di µm. Le tecniche criogeniche non servono solo a diminuire il rumore dei rivelatori. In generale tutta la fisica dei sistemi freddi è estremamente interessante. A temperatura ambiente l'agitazione termica tende a mascherare gli effetti di interazione tra le particelle componenti la materia, soprattutto gli effetti quantistici. Superconduttività, superfluidità, ordinamento magnetico ed elettrico sono tutte manifestazioni macroscopiche di fenomeni quantistici, inosservabili a temperatura ambiente. C'è anche un grande numero di applicazioni pratiche, ad esempio la realizzazione di forti campi magnetici e' possibile grazie a magneti superconduttori, operanti a temperature di qualche grado Kelvin. Nel seguito daremo solo le nozioni che più sono attinenti all'uso dei sistemi da vuoto e criogenici in astrofisica sperimentale. Per approfondimenti si possono vedere i seguenti testi (dai quali è stata estratta la maggior parte del capitolo): White (1979), Conte (1970), Frossati (1991), Dusman (1962), Roth (1990).

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Fig. 4.1: Corrente di buio di un fotodiodo in funzione della sua temperatura. Raffreddando il rivelatore a qualche decina di gradi sotto zero la si rende a tutti gli effetti trascurabile. Per il

raffreddamento si può usare una cella Peltier.

Fig. 4.2: Energia dei fotoni (scala a sinistra) in funzione della lunghezza d'onda, dall'Ultravioletto (UV) al visibile (V) e all' infrarosso (IR). Sulla scala a destra e' riportata la temperatura ottenuta

imponendo che l' energia termica nel rivelatore sia 1/100 dell' energia dei fotoni: questo dà un'idea della temperatura alla quale si deve raffreddare il rivelatore perché il rumore termico non sovrasti il segnale generato da un singolo fotone. Sono anche riportate tre temperature usate normalmente per

il raffreddamento dei rivelatori: 77K (ottenibile con azoto liquido), 4.2 K (ottenibile con elio liquido), 0.3 K (ottenibile con elio 3 liquido).

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Tabella 4.1: Principali liquidi criogenici

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Figura 4.3A : Dipendenza della temperatura del liquido dalla pressione del suo vapore per i liquidi criogenici più comunemente utilizzati: Elio 3, Elio 4, Idrogeno, Azoto, Ossigeno. I dati riportati

nelle curve sono il risultato di misure di precisione, riportate in tabella 4.2.

Figura 4.3B: Percentuale di elio liquido residuo dopo il pompaggio, che permette di abbassare la temperatura del bagno da 4.2 K a T. E' evidente lo scalino intorno a 2.2 K, dovuto alla transizione di

fase da liquido normale a superfluido. Tale transizione provoca un picco del calore specifico del liquido (da Conte, 1970).

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Tabella 4.2: Temperatura dei liquidi criogenici più utilizzati in funzione della pressione del vapore in equilibrio con il liquido

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4.1 Liquidi criogenici e criostati ad evaporazione Il metodo più semplice per ottenere temperature criogeniche è quello di mettere in contatto termico il sistema da raffreddare con un liquido (o un solido) con bassa temperatura di ebollizione (o sublimazione). Tale liquido o solido è detto criogeno. Il calore latente di evaporazione permette di mantenere la temperatura di ebollizione normale del liquido anche in presenza di ingresso di calore dall' ambiente esterno caldo, ovviamente consumando parte del liquido. I gas liquefatti (o liquidi criogenici) normalmente utilizzati in laboratorio sono elencati in tab.4.1. Di questi, i più usati sono azoto liquido (77 K) ed elio liquido (4.2 K). In fig.4.3A e tab.4.2 è riportata la dipendenza della temperatura del liquido dalla pressione dei suoi vapori per i liquidi criogenici più comunemente utilizzati. Temperature più basse di quella di ebollizione normale (ebollizione a pressione ambiente) possono essere raggiunte semplicemente riducendo la pressione del vapore in equilibrio con il liquido, pompando sul contenitore con una pompa da vuoto, come risulta da fig.4.3A. Il pompaggio sul bagno di liquido criogenico provoca un notevole consumo addizionale di liquido. In pratica, parte del liquido evapora per raffreddare il resto. Si suppone che la capacità termica del contenitore e dell'esperimento in contatto termico con il bagno siano trascurabili rispetto alla capacità termica del liquido stesso. Questo è spesso ben verificato a temperature criogeniche, dato l'andamento fortemente decrescente della capacità termica dei metalli all'abbassarsi della temperatura. Si può allora scrivere la seguente relazione per l' evaporazione di una massa dm di liquido, provocata dal pompaggio:

L(T) dm = m C(T) dT

dove L(T) è il calore latente di evaporazione alla temperatura T e C(T) il calore specifico del liquido. Il processo di pompaggio ridurrà la quantità di liquido presente nel contenitore (da mo a m) e la sua temperatura (da To a T). Si dovrà quindi integrare la precedente relazione ottenendo

log

m

mo

= ⌠ T ⌡ To

C(T)

L(T) dT

La percentuale di liquido utilizzabile alla fine del pompaggio nel caso dell'elio liquido è graficata in funzione della temperatura finale T in fig.4.3B. A causa della bassa temperatura e del basso calore latente di evaporazione è abbastanza chiaro che non si può tenere l'elio liquido in un normale contenitore: evaporerebbe tutto all'istante, a causa dell' ingresso termico dall'ambiente. Un criostato (o dewar) è un contenitore capace di mantenere per lungo tempo un apparato sperimentale a temperatura inferiore alla temperatura ambiente. I criostati ad evaporazione sono contenitori termicamente isolati dall'ambiente caldo, contenenti una quantità di criogeno sufficiente a garantire, prima dell'esaurimento, una durata del processo di evaporazione maggiore della durata dell'esperimento. Per un efficiente utilizzo del criogeno, si dovranno ridurre al massimo gli ingressi termici conduttivi, convettivi e radiativi tra ambiente esterno e liquido criogenico. . La relazione tra durata del criogeno t, volume di criogeno V ed ingresso termico Q è

. Q = L V

t

(4.1)

. dove Q è l'ingresso termico (in Watt), L il calore latente di evaporazione (di solito in Joules per litro), V è il volume totale di liquido (in litri) e t la durata (in secondi). Per ottenere una lunga durata del criogeno si dovrà evidentemente ridurre l'ingresso termico nelle sue tre forme: convettivo, conduttivo e radiativo. Il sistema più semplice per fare ciò è quello di usare un vaso di Dewar, o dewar: un contenitore in vetro a doppia parete, mostrato in fig.4.4A, con le pareti argentate (simile ad un thermos). Lo spazio tra parete interna ed esterna e' evacuato, in

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modo da ridurre la convezione; l'argentatura delle pareti riflette via la radiazione termica a temperatura ambiente, e l'uso del vetro, buon isolante termico, permette di minimzzare la conduzione. Per evitare l'ingresso termico della colonna di gas che sovrasta il liquido, ed anche per recuperare l' elio che evapora, si deve chiudere la parte superiore del dewar con una flangia connessa ad un serbatoio per elio. Il difetto dei dewar di vetro, utilizzati largamente dalla fine dell' 800 fino a pochi anni fa, è la loro fragilità e la loro permeabilità all'elio, che rende necessario rivuotare periodicamente l' intercapedine sotto vuoto. Oggi si usano più comunemente dewar in metallo (acciaio inox) o vetronite, che hanno una robustezza decisamente superiore al vetro, con un ingresso termico leggermente superiore. Lo schema tipico di un criostato metallico è mostrato in fig.4.4B. Riportiamo qui di seguito le formule che permettono di calcolare l'ingresso termico totale. L'ingresso per conduzione per una sbarra di lunghezza L e sezione costante S con temperature estreme T1 e T2 è dato da

. Q = k S

L

(T2 - T1) (4.2)

dove k è la conduttività del materiale costituente la sbarra. In generale k è una funzione della temperatura k = k(T) e si deve usare la forma integrale

. Q = S

L

⌠ T2 ⌡ T1

k(T) dT (4.3)

In fig.(4.5) si riportano le curve di conducibilità termica k(T) per buoni e cattivi conduttori. Sono anche disponibili tabelle della conducibilità termica media

_ k T2 ÷T1

= 1

T2 - T1

⌠ T2 ⌡ T1

k(T) dT (4.4)

per intervalli di temperatura utili in pratica (vedi tab.4.3). L'ingresso termico per irraggiamento da una superficie calda verso una superficie fredda può essere calcolato in generale usando le equazioni del trasporto della brillanza viste nel paragrafo 1.3. Per una superficie di area A con emissività ε = ε(λ, T) la potenza emessa su una semisfera è

. Q = εA σT4 (4.5).

Consideriamo due superfici, S1 a temperatura T1 circondata da S2 a T2 > T1. La potenza scambiata tra le due è data dalla formula

. Q

= F12 σA1 (T24 - T1

4) (4.6)

dove F12 è un fattore di forma dipendente dalla geometria del sistema: per superfici concentriche

F12 =

ε1 ε2

ε2 + A1

A2

(1 - ε2) ε1

(4.7);

se le due superfici sono molto vicine tra loro A1 ≅ A2 e quindi

F12 = ε1 ε2

ε1 + ε2 - ε2 ε1

(4.8)

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Fig. 4.4 : In A è mostrato un tipico vaso di Dewar, o dewar in vetro, per il contenimento di azoto liquido. Le pareti sono argentate internamente in modo da ridurre lo scambio termico radiativo;

nell'intercapedine tra parete esterna e parete interna e' realizzato un buon vuoto per ridurre lo scambio termico convettivo. In B sono mostrati dei criostati metallici (acciaio inox e rame), più

robusti e di facile uso, a doppia camera: una esterna per l' azoto liquido, che ha il principale scopo di ridurre l'ingresso termico radiativo, l'altra, interna, per l'elio liquido. Al di sotto della camera

dell'elio liquido è disponibile lo spazio per l'apparato sperimentale. Il fondo della camera per elio liquido è di solito in rame per facilitare il contatto termico tra l'esperimento ed il liquido.

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Fig. 4.5A: Conducibilità termica di buoni conduttori del calore (da Frossati, 1991)

Fig. 4.5B: Conducibilità termica di cattivi conduttori del calore (da Frossati, 1991)

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Tabella 4.3: Conducibilità termiche medie (eq. 4.4) per i materiali più usati in criogenia

Tabella 4.4: Emissività tipiche per i materiali e le temperature più usate in criogenia

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Per il disegno dei criostati questa approssimazione è di solito soddisfacente. Per superfici con emissività molto basse ed uguali si ha

F12 ≅ ε

2

(4.9)

In tab.4.4 si riportano le emissività di differenti materiali a varie temperature utili in pratica. L'ingresso termico convettivo in W/m2 è dato dalla formula

. Q = K ao p (T2 - T1) (4.10)

dove K vale approssimativamente 2.1, 4.4 e 1.2 rispettivamente per elio, idrogeno ed aria; ao è un coefficiente di accomodamento simile a F12 che compare nella (4.5), p è la pressione in pascal e T1 e T2 sono le temperature delle due superfici. Con una pompa a diffusione si riescono a raggiungere nell' intercapedine pressioni dell' ordine di 10-5 mmHg, perfettamente adeguate a rendere questo ingresso termico trascurabile. Inoltre eventuali residui di aria nell' intercapedine solidificheranno sulla parete interna a contatto con l'elio liquido, creando così un ottimo vuoto di isolamento. Questo effetto può essere amplificato usando una piccola pompa ad adsorbimento nell'intercapedine (vedi più avanti in questo paragrafo). Si deve invece evitare accuratamente di lasciare nell'intercapedine anche minimi residui di elio, che rimarrebbe gassoso anche in presenza di una parete fredda, mantenendo quindi un elevato scambio termico tra il contenitore esterno e quello interno. Riportiamo qui di seguito un tipico calcolo di ingressi termici per un semplice dewar di metallo. Consideriamo un dewar per elio liquido, costituito da due contenitori cilindrici concentrici uniti da un tubo (collo del dewar) come in fig.4.6A. Supponiamo che il contenitore per l'elio liquido sia di acciaio inox, con diametro 20 cm e lungo 1 m (V = 31.4 litri); supponiamo che il contenitore esterno sia anch' esso in acciaio inox. Il fondo del contenitore interno e' costituito da una flangia di rame saldata al cilindro d' acciaio. Si usa il rame per avere la massima conducibilità termica tra l'esperimento da raffreddare, di solito montato nell' intercapedine sotto vuoto, ed il liquido criogenico. Per il collo useremo un tubo in acciaio inox a parete sottile (ad es. 12 mm di diametro e 200 µm di spessore, con una lunghezza di 30 cm). L' ingresso termico per conduzione si calcola immediatamente avendo a disposizione la conducibilità media nell' intervallo di temperatura desiderato: per l'acciaio inox con T1 = 4.2K e T2 = 300 K si ha [k] = 10.3 W/m/K e si ottiene subito dalla (4.3) l'ingresso termico per conduzione dQ/dt ≅ 80 mW. Questo da solo è del tutto accettabile perché corrisponde ad una evaporazione di 0.2 litri di elio liquido per ora. Va notato che questo tubetto a parete sottile supporta il peso dell' intero contenitore dell' elio liquido e dell'apparato sperimentale. Se il criostato deve rimanere in posizione verticale non ci sono problemi, perché un tubetto di questo genere è straordinariamente resistente a sforzi lungo le direttrici del cilindro. Se invece si deve inclinare o deve subire accelerazioni trasversali, la resistenza è decisamente inferiore, e si devono sicuramente predisporre altri supporti che assic urino la necessaria rigidezza meccanica. In ogni caso il collo del dewar è di solito la parte più fragile. Calcoliamo ora l'ingresso termico radiativo. Se le pareti del contenitore dell' elio vedono direttamente le pareti a temperatura ambiente, si applicano la (4.5) e la (4.7) con A = 0.63 m2, ε1 = 0.2, ε2 = 0.2, T2 = 300 K, T1 = 4.2 K. Si ottiene F12∼ 7 ×10-2, e dQ/dt ≅ 20 W. Questo ingresso termico e' evidentemente troppo alto: ammesso di riuscire a riempire di elio liquido il contenitore, si avrebbe una evaporazione di 50 litri l'ora. L'ingresso radiativo può essere drasticamente ridotto inserendo tra il contenitore esterno e quello freddo uno schermo intermedio (di rame, o di materiale ad alta conducibilità termica) mantenuto ad una temperatura dell' ordine di 100 K (fig.4.6 B e C). Una buona soluzione consiste nell' ancorare lo schermo ad un secondo contenitore, contenente azoto liquido, che lo manterrà per lungo tempo a 77 K grazie al suo elevato calore latente di evaporazione. Il contenitore dell' elio non vedrà più il contenitore esterno, ma solo lo schermo a 77 K.

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Fig. 4.6: Esempio di dimensionamento di dewar per elio liquido. In A è mostrata la configurazione più semplice. Risulta però che in questo caso l'ingresso termico radiativo è troppo elevato. In B si inserisce uno schermo di radiazione raffreddato da un bagno di azoto liquido, che consente di ridurre drasticamente l'ingresso termico radiativo. In C lo schermo di radiazione è raffreddato da una serpentina in cui scorrono i vapori di elio liquido, permettendo di ottenere lo stesso risultato del caso B con un dewar molto più leggero e senza bisogno di azoto liquido. Grazie alla dipendenza della potenza scambiata da T4, la potenza radiativa assorbita sarà drasticamente inferiore. Riutilizzando le (4.5) e (4.7) ma stavolta con T2 = 77 K e ε2 caratteristica del rame, si ottiene F12 = 0.016 e dQ/dt ≅ 0.02 W, che diventa decisamente accettabile, producendo una evaporazione di soli 50 cm3/h. L' ingresso termico dall' ambiente verrà assorbito dal serbatoio di azoto liquido: tale ingresso si calcola ancora dalle (4.5) e (4.7) con T2 = 300 K e T1 = 77 K. Si ottiene quindi F12 = 0.019 e dQ/dt ≅ 5.5 W che è accettabile per il bagno di azoto liquido, producendo una evaporazione di 120 cm3/h.

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Nel caso fosse possibile ridurre gli altri ingressi termici (conduttivi) ad un livello molto inferiore a quello radiativo ora calcolato, si potrebbe ridurre ulteriormente quest'ultimo usando la tecnica della super-insulation. Questa consiste nell' inserire nell' intercapedine un certo numero di strati di mylar alluminato intercalati da fogli di alluminio ancorati al collo del dewar. Per motivi di peso o di vibrazioni dovute all'evaporazione dell' azoto liquido potrebbe essere necessario eliminare il bagno di azoto. Questo si può fare, se si fanno scorrere i vapori di elio appena evaporato (e quindi molto freddo) in una serpentina di rame avvolta intorno allo schermo intermedio. Lo schermo si raffredderà riscaldando i vapori di elio, che in ogni caso sarebbero andati persi nell'ambiente esterno (fig.4.6C). Molti rivelatori traggono vantaggio da temperature di operazione inferiori ad 1 K (temperatura minima raggiungibile pompando su un bagno di 4He. Queste possono essere ottenute con vari metodi. Il più semplice è l'evaporazione di 3He: riducendo la pressione dei vapori di 3He si può ridurre la temperatura del liquido a 0.28 K (vedi fig.4.3). Un criostato ad evaporazione di elio 3 deve essere particolarmente curato. Infatti il calore latente di evaporazione dell' elio 3 è minore di quello dell'elio 4 (un fattore ∼ 2.6) ed il costo dell'elio 3 è alcuni ordini di grandezza maggiore di quello dell'elio 4. Si costruiscono quindi degli evaporatori molto più piccoli e meglio isolati. Mentre nel caso dell'elio 4 si possono tollerare decine di mW di ingresso termico, nel caso dell' elio 3 si cerca di ridurre gli ingressi termici a livello delle decine di µW, in modo da poter utilizzare una piccola quantità di gas per un lungo tempo di operazione. Il pompaggio avviene per mezzo di una pompa criogenica ad adsorbimento. Questa è semplicemente una cella riempita di carbone attivo e mantenuta a bassa temperatura ( ∼€ 5 K). In queste condizioni una molecola di gas che si trovi nella cella ha una altissima probabilità di venire intrappolata in un grano di carbone, data l'altissima porosità dei grani (il rapporto superficie/volume è circa 700 m2/cm3), e quindi la pressione del gas presente nell' ambiente viene ridotta cospicuamente ed efficientemente (vedi fig.4.7A). Connettendo la pompa criogenica all'evaporatore dell'elio 3 si può raggiungere una pressione limite dell'ordine di 10-3 mm Hg: questa corrisponde ad una temperatura del liquido di ∼ 0.28 K. Se si scalda la criopompa ad una temperatura superiore a 10 K, l'energia termica diventa sufficiente per staccare le molecole dai grani, ed il gas viene rilasciato. Il sistema è completamente sigillato e funziona a ciclo chiuso alternando fasi operative a fasi di riciclo. Uno schema di questo tipo di refrigeratore è mostrato in fig.4.7B (Torre e Chanin 1985, Duband et al. 1990). Il funzionamento e' il seguente: il gas elio 3 è contenuto ne l circuito ad una pressione dell' ordine del centinaio di atmosfere. 1) In una prima fase l' interruttore termico della pompa criogenica è aperto, e la pompa, riscaldata a più di 20 K, desorbe il gas. L'interruttore termico dell'evaporatore è chiuso e l'evaporatore, a contatto con il bagno principale di elio 4 superfluido, si porta ad una temperatura inferiore alla temperatura critica per l'elio 3. L'elio 3 quindi condensa nell' evaporatore, che è il punto più freddo del sistema. 2) A condensazione terminata gran parte dell' elio 3 è in fase liquida nell' evaporatore. A questo punto si apre l'interruttore termico dell'evaporatore, si smette di riscaldare la pompa criogenica, e si chiude l'interruttore termico della pompa. Questa si raffredda e comincia ad adsorbire i vapori di elio 3, realizzando il pompaggio necessario a raggiungere la temperatura di equilibrio, intorno a 0.28 K. 3) Questa si mantiene finché tutto l'elio 3 non è evaporato ed adsorbito nella pompa criogenica. A questo punto si ricomincia il ciclo dal punto 1) Ovviamente il problema pratico consiste nello sviluppo di una coppia di efficienti ed affidabili interruttori termici e nella massimizzazione della efficienza di condensazione, in modo che la fase 3) sia lunga rispetto alle fasi 1) e 2). Ci si può aspettare una durata della fase 3) dell'ordine di alcuni giorni, con un tempo di riciclo dell'ordine dell'ora. Esistono altri schemi di refrigeratori ad elio-3 che permettono un funzionamento a ciclo continuo dell'evaporatore (vedi White, 1979, pag.201).

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Fig. 4.7A: Schema di funzionamento di una pompa criogenica ad adsorbimento: è costituita da granelli di carbone estremamente porosi, con un enorme rapporto superficie / volume, raffreddati a temperature criogeniche. Uno di questi è schematizzato in figura. La molecola di gas che entra nel

grano rimbalza molte volte nei pori interni del grano perdendo energia finché non resta aderente alle pareti grazie alle forze di coesione. Se si innalza la temperatura dei grani l'energia termica diventa

maggiore di quella di coesione e le molecole vengono rilasciate (desorbimento) (da Frossati, 1991).

Fig. 4.7B: Schema di refrigeratore a elio-3. E' costituito da un evaporatore (E) nel quale si raccoglie il liquido criogenico, un condensatore raffreddato a 2 K (C) sul quale avviene la condensazione, ed una criopompa (CP) che può essere scaldata dal riscaldatore (R) o raffreddata connettendola ad un termostato a 2 K attraverso l'interruttore termico TS1. Un altro interruttore termico (TS2) permette il preraffreddamento dell'evaporatore. Il termostato a 2 K è ottenuto pompando su un bagno di elio

liquido (non mostrato in figura). Il ciclo di funzionamento è spiegato nel testo.

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Vediamo adesso quantitativamente come sia possibile calcolare il potere refrigerante di un criostato ad evaporazione, cioè l'ingresso termico accettabile dal refrigeratore ad una data temperatura. La pressione di vapore P di un liquido ad una data temperatura T può essere calcolata dall'equazione di Clausius - Clapeyron (per una derivazione vedi ad es. Zemansky, pg. 316):

dP

dT

= L

T (VV - VL)

(4.11)

dove L è il calore latente di evaporazione, VV e VL sono i volumi occupati dal vapore e dal liquido rispettivamente. Di solito il volume occupato dal liquido e' trascurabile rispetto a quello occupato dal gas. Si può risolvere la (4.11) se si considera l' elio a bassa pressione come un gas perfetto: si otterrà allora

dP

dT

≅ L

T VV

≅ PL

RT2

(4.12)

che può essere integrata supponendo L costante a basse temperature, ottenendo

P ∝ e-[L/ RT] (4.13)

Si nota subito che la pressione di vapore decresce esponenzialmente con la temperatura (dando luogo alle curve di fig.4.3), ed è quindi molto difficile raggiungere le temperature più basse, a causa della pressione infinitesima che si dovrebbe riuscire a creare. Inoltre, sempre a causa della rapida diminuzione della pressione con la temperatura, anche il potere refrigerante risulta rapidamente decrescente al diminuire della temperatura. Questo si può vedere schematizzando il criostato come una cella riempita da n moli di liquido e soggetta ad un ingresso termico costante dQ/dt. Supponiamo inoltre che il processo di evaporazione consista nella rimozione di dn/dt moli di liquido per secondo, a pressione quasi costante ed in modo reversibile. Si può allora scrivere per il sistema

δQ = dU + P dV ≅ d(U+PV) = dH = T dS (4.14) dove U è l'energia interna, H l'entalpia e S l'entropia (tutte molari). Essendo la variazione di entalpia pari alla differenza tra entalpia del vapore ed entalpia del liquido, per evaporare n moli di liquido è necessaria una quantità di calore

∆Q = n (HV - HL)

e quindi, se dn/dt moli sono evaporate ogni secondo,

. Q

= . n

(HV-HL) (4.15).

I valori dell'entalpia molare dell' elio 3 e dell' elio 4 sono riportati in fig.4.8. Sia HV che HL diminuiscono sensibilmente al diminuire della temperatura. Per l'elio 3 la differenza di entalpia si stabilizza intorno a circa 25 J/mol a 0.3 K. Per contro, a parità di sistema di pompaggio, dn/dt diminuisce al diminuire della temperatura, perché per la (4.13) diminuisce moltissimo la pressione. E' quindi evidente che il potere frigorifero dQ/dt di un refrigeratore ad evaporazione diminuisce molto rapidamente all' abbassarsi della temperatura, e che la temperatura limite ottenibile sara' fissata appunto dall'ingresso termico sul refrigeratore. Si possono fare due esempi che danno un'idea degli ordini di grandezza in gioco. Consideriamo un refrigeratore ad elio 3 che debba raffreddare un rivelatore a 0.28 K come in fig.4.7B. La differenza di entalpia a questa temperatura vale HV - HL ≅ 25.7 J/mol. Si può pensare di usare un refrigeratore autocontenuto del tipo descritto in precedenza, consistente in evaporatore e criopompa, connessi tramite un tubetto a parete sottile che garantisca l' isolamento termico. Un sistema di pompaggio così fatto permette di ottenere una pressione limite dell' ordine del millitorr, con una portata (ampiamente dipendente dalla geometria del tubo di connessione) di circa 50 l/s.

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Fig. 4.8: Entalpia molare dell' 4He (a sinistra) Entalpia molare dell' 3He (a destra)

Fig. 4.9A: Emissione termica dell'atmosfera terrestre a quote differenti (G=4 Km, A=12 Km, B=40 Km) confrontata con l'emissione termica degli specchi di un telescopio a diverse temperature (300

K, 40 K, 3 K). Andando nello spazio (> 400 Km) si riduce o annulla l'emissione termica dell'atmosfera terrestre, ma si deve contemporaneamente raffreddare lo specchio del telescopio se si

vuole sfruttare appieno il vantaggio.

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Fig. 4.9B: Spettri del rumore fotonico della radiazione emessa termicamente da specchi con diverse temperature (100 K, 40 K, 3 K). Per sfruttare appieno la sensibilità dei migliori rivelatori infrarossi

(rumore inferiore a 10^-17 W/\sqrtHz, linea tratteggiata) si deve raffreddare lo specchio del telescopio a temperature criogeniche. Si assume che la banda di sensibilità sia larga 1/10 della lunghezza d' onda. E' riportato anche il rumore fotonico di alcuni fondi di radiazione di origine

astrofisica (ineliminabili: CMB = fondo a microonde, IS = polvere interstellare, ZE polvere interplanetaria, ZS scattering di luce solare da parte della polvere interplanetaria).

Si ottiene quindi un dn/dt ≅ 50 l/s ×10-3 Torr ≅ 2.9 ×10-6 mol/s. Il potere frigorifero sarà quindi dell' ordine di dQ/dt = dn/dt (HV - HL) ≅ 75 µW. Supponiamo ora di volere raggiungere una temperatura di 200 mK. Qui HV-HL è simile ( ∼ 24 J/mol), ma la pressione e' di soli 0.012 milliTorr. Si dovrà quindi usare una pompa di grande portata a bassa pressione. Tale pressione non è facilmente raggiungibile con una pompa criogenica. Una grossa pompa booster a olio può avere una velocità di 1000 l/s a 1.5 ×10-5 torr, ma la difficoltà consiste nell'approntare un tubo di pompaggio di impedenza sufficientemente ridotta e con basso ingresso termico conduttivo. Inoltre tutto il circuito di pompaggio deve essere sigillato per permettere di recuperare l' 3He. Risolti questi problemi si otterrà la temperatura voluta, con un dn/dt ≅ 103l/s ×1.2 ×10-5 torr ≅ 7 ×10-7 mol/s. Il potere

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frigorifero sarà quindi dell' ordine di dQ/dt = dn/dt (HV - HL) ≅ 17 µW, di un fattore 4 inferiore al precedente, e al prezzo di una enorme complicazione dell' apparato rispetto al caso del semplice refrigeratore autocontenuto. Con questo tipo di ingressi termici si possono ottenere durate dell'evaporazione di alcuni di giorni prima dell'esaurimento dell'elio 3: basta pensare che il calore latente di evaporazione è dell'ordine di 1 J/ml, ed una quantità ragionevole di elio 3 è 0.5 moli (che corrispondono a circa 60 ml di liquido). Usando la 4.11 si ottiene una durata di 11 giorni in presenza di un ingresso termico di 100 µW. 4.3 Criostati ad evaporazione per astrofisica spaziale Negli ultimi anni è stato possibile effettuare misure astrofisiche dallo spazio. Nel caso dell'astronomia infrarossa è essenziale poter utilizzare osservatori spaziali, in modo da poter evitare l'emissione dell'atmosfera. Ma per sfruttare a fondo il vantaggio del ridottissimo background radiativo nello spazio, si deve anche raffreddare l'apparato ottico che si trova tra la sorgente ed il rivelatore, in modo da eliminarne l'emissione termica e le sue fluttuazioni. In fig.4.9A sono confrontate le emissioni termiche dell'atmosfera terrestre, degli specchi di un telescopio a varie temperature, e di alcune radiazioni diffuse di origine astrofisica. E' evidente che, a seconda della lunghezza d'onda, si deve raffreddare lo specchio a temperature criogeniche per poter effettuare le osservazioni. Inoltre raffreddando lo specchio si diminuisce anche il livello delle fluttuazioni di potenza radiativa emessa (fig.4.9B), rendendo così possibile l'uso di rivelatori con rumore intrinseco molto basso. Si è sviluppata così la cosiddetta 'criogenia spaziale', che ha permesso di portare in orbita alcuni satelliti con rivelatori e telescopi freddi: IRAS (lanciato nel 1983), COBE (lanciato nel 1990) e ISO (lancio previsto nel 1995). Per criostati spaziali ad evaporazione si adottano le seguenti precauzioni: 1) Si ancora il contenitore con supporti a bassa conducibilità termica. I materiali più utilizzati sono l'acciaio inox e la vetronite. La riduzione degli spessori, essenziale per una bassa conducibilità termica, comporta una riduzione di resistenza meccanica. A volte si utilizzano dei supporti supplementari, che sopportano le forti sollecitazioni presenti durante il lancio (dell' ordine di 30 g), e vengono poi eliminati in orbita, quando l' esperimento lavora in assenza di gravità. 2) il criogeno evaporato è fatto passare attraverso scambiatori di calore che permettono un efficiente raffreddamento degli schermi intermedi, che riducono drasticamente l' ingresso termico per radiazione. Si utilizzano anche schermi intermedi passivi di mylar alluminato (superinsulation) per lo stesso scopo. Un primo problema e' il peso del criogeno. Qui l'elio è decisamente favorito, essendo la sua densità circa 0.125 Kg/litro. Tuttavia, a seconda dell'ingresso termico e della durata della missione, la quantità di liquido necessaria può essere notevole. L'ingresso termico dipenderà soprattutto dalle esigenze di raffreddamento: se si deve raffreddare il solo rivelatore, che e' di dimensioni ridotte, si può contenere l'ingresso termico sul bagno di elio liquido entro pochi mW ; al contrario, se si deve raffreddare l'intero telescopio, l'ingresso termico totale sul bagno di elio liquido sale decisamente. E' questo il caso di IRAS, il satellite lanciato nel 1983 dedicato alla prima survey del cielo nell'infrarosso tra 12 e 100 µm, che conteneva un telescopio da 60 cm di diametro, e di ISO, un vero e proprio osservatorio infrarosso spaziale che verrà lanciato nel 1995, con un telescopio simile a quello di IRAS. Nel primo caso il criostato conteneva circa 600 litri di elio liquido, e la durata è stata di circa 300 giorni: un consumo medio di circa 2 litri al giorno, corrispondenti ad un ingresso termico di circa

. Q

= 2.6 J/cm3 2000 cm3

24 ·3600 s = 60 mW

Per ISO (Infrared satellite observatory) è stato costruito un criostato di circa 2000 litri, con una durata superiore a 2 anni. In ogni caso, un criostato di queste dimensioni comporta notevolissimi

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problemi di costo, e la tecnologia attuale non permetterebbe la durata di missioni più lunghe con criostati molto più grandi. Il progetto più ambizioso è SIRTF della NASA, con un telescopio da circa 1 m ed un criostato da 6000 litri. In fig.4.10 sono disegnati i satelliti IRAS e SIRTF. Una delle caratteristiche che rende l' elio liquido così idoneo all'utilizzo come criogeno nello spazio è la superfluidità. L'elio 4 transisce a una fase superfluida a (T < 2.17 K, p < 37.8 mm Hg): sotto tale temperatura l' elio è ben descritto da una miscela di atomi normali, con viscosità normale, e di atomi superfluidi, senza viscosità e con energia ed entropia del punto di zero. La capacità degli atomi superfluidi di muoversi senza attrito attraverso gli atomi normali rende conto della straordinaria conducibilità termica dell' elio superfluido. Se un temporaneo riscaldamento di una parte del liquido creasse un deficit di atomi superfluidi, subito si avrebbe una diffusione di atomi superfluidi dal resto del liquido verso quella zona: si tratta quindi più di un trasporto di materia che di calore, che comunque assicura una eccezionale uniformità di temperatura. Lo stesso modello rende conto dell' effetto fontana che si osserva quando un tubo immerso in elio liquido viene riscaldato localmente: l' afflusso di atomi di superfluido verso la zona riscaldata crea un aumento del livello del liquido nel recipiente caldo, che può produrre una scenografica fontana di elio liquido. Si crea cioè una vera e propria forza, detta forza termomeccanica, capace di contrastare la forza di gravità. Grazie alla superfluidità l'elio liquido produce un film che assicura una completa copertura ed un omogeneo raffreddamento delle pareti del contenitore, nonostante il fatto che la maggior parte del liquido non abbia una fissa posizione nel contenitore. La superfluidità dell' elio liquido permette di risolvere anche un secondo grosso problema, che è quello della separazione delle fasi in assenza di gravità. A terra non ci sono problemi: il liquido riempie il fondo del contenitore, e l'evaporazione avviene alla superficie superiore libera del liquido; i vapori vengono convogliati verso l'ambiente esterno o pompati via se si vogliono ottenere temperature inferiori a 4.2 K. Nello spazio esiste una pompa efficientissima, che è il vuoto cosmico: ma mettendo semplicemente in connessione il recipiente con lo spazio esterno si corre il rischio di vuotarlo velocemente di tutto il liquido, che non ha una posizione predeterminata all' interno del recipiente. Il successo delle missioni IRAS e COBE, dal punto di vista criogenico, è stato possibile grazie allo sviluppo di un separatore di fase per l'elio liquido, il Porous Plug, che permette di pompare sull'elio liquido senza pericolo di estrarlo dal recipiente. Il porous plug è costituito da un setto di materiale poroso (metallo sinterizzato o sfere di vetro) che separa il recipiente dallo spazio esterno. Il diametro dei pori è piuttosto critico: in IRAS e COBE è stato utilizzato acciaio sinterizzato con un diametro efficace dei pori di 3.8 µm. In questi pori può passare solo la componente superfluida dell'elio liquido, non la componente normale. Se si mantiene la temperatura del lato esterno del setto più bassa di quella del lato interno, la forza termomeccanica (la stessa responsabile dell' effetto fontana) si oppone all'uscita del liquido, e mantiene la superficie di separazione liquido - gas all' interno del setto, realizzando così un separatore di fasi. Si noti che siccome l'evaporazione avviene vicino alla superficie esterna del setto, questa è naturalmente la parte più fredda, e le condizioni di funzionamento del porous plug si mantengono da sole: è quindi un componente passivo, che non richiede servoregolazioni ed ha quindi una ottima affidabilità. I limiti del porous plug sono i seguenti: 1) lavora solo tra 1.4 e 2.1 K con elio superfluido; in alcuni laboratori si stanno studiando sistemi di separazione di fase per liquidi normali, ma senza grandi successi per ora. 2) il diametro dei pori e' critico: troppo larghi fanno passare il liquido normale, impedendo la separazione di fase; troppo piccoli aumentano la forza termomeccanica e peggiorano la conducibilità termica, impedendo di raffreddare efficacemente la parte esterna del setto più di quella interna. 3) se per caso il gradiente di temperatura sul porous plug si inverte, ha luogo una catastrofe, perché le forze termomeccaniche si invertono e pompano via efficientemente tutto il liquido dal contenitore.

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Fig. 4.10: Schemi dei satelliti criogenici IRAS (A e B), e SIRTF (C). Nel primo caso il dewar per

elio era da 600 litri, ed ha permesso circa 300 giorni di operazione. Nel secondo caso (ancora in fase di progetto) il dewar conterrà 4000 litri, per 6 anni di operazione.

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Temperature inferiori ad 1 K sono di difficile attuazione nello spazio. Abbiamo visto il caso dell'evaporazione di elio 3: si può arrivare a 0.28 K pompandoci, ma non è superfluido. Il contenimento in assenza di gravità può essere ottenuto per capillarità riempiendo l'evaporatore con materiali spugnosi come cotone o metallo sinterizzato; il primo test di questo sistema nello spazio è previsto entro pochi anni (satellite giapponese IRTS). La demagnetizzazione adiabatica di un sale paramagnetico permette di arrivare a 10 mK: richiede però un controllo molto complicato ed un campo magnetico piuttosto intenso; è la via con cui si vuole operare per il satellite SIRTF. Refrigeratori a diluizione di elio 3 in elio 4 permettono di arrivare a 10 mK, ma sono anche essi decisamente complicati. Ovviamente, il raffreddamento di grandi telescopi non può essere effettuato con elio liquido: se per un telescopio con primario da 60 cm (IRAS e ISO) sono necessari 600 litri per ogni anno di operazione, per un telescopio della classe 4-5 metri la quantità di elio necessaria e' decisamente intollerabile. Una soluzione possibile è il rifornimento di elio liquido con una missione apposita ogni anno, ma in ogni caso il criostato (e quindi il satellite) sarebbe enorme. Si sta però sviluppando una differente filosofia di progetto, che prevede il raffreddamento radiativo dello specchio a temperature dell'ordine di 100 K, ed il raffreddamento del sistema di rivelatori con refrigeratori meccanici, che utilizzano l' effetto Joule-Thomson. Un sistema di questo genere ha una durata limitata solo dalla affidabilità del sistema meccanico del refrigeratore. Attualmente questi oggetti sono ancora in fase di sviluppo: sono stati costruiti refrigeratori a singolo stadio a ciclo di Stirling per ottenere 80 K in alcune missioni che utilizzano rivelatori nell'IR termico per remote sensing, e c'è un grosso sforzo finanzia to dall' ESA per costruire refrigeratori a 2 stadi Stirling / Joule-Thomson. Vediamo come funziona il principio del raffreddamento radiativo. Consideriamo la schematizzazione più semplice, che è quella di un cilindro contenente il telescopio all'interno. Una volta in orbita, la sua temperatura sarà determinata dall' equilibrio della radiazione assorbita dal sole e di quella reirraggiata da lui stesso. La temperatura raggiunta in condizioni di equilibrio dipende soprattutto dal tipo di materiale che costituisce il rivestimento del satellite. Siccome lo spettro della radiazione solare ha il massimo di emissione nel visibile, mentre l' emissione termica di corpi a qualche centinaio di gradi K ha il massimo di emissione nell'infrarosso, si dovrà utilizzare un materiale con alta riflettività nel visibile ed alta emissività nell'infrarosso. Una buona soluzione è costituita da Teflon argentato, con il teflon all'esterno e l'argentatura all'interno. Il teflon è infatti trasparente nel visibile, mentre l'argentatura è altamente riflettente: ne consegue una emissività media per lo spettro solare εv≅ 8 %. D'altra parte nell' infrarosso termico l'emissività del teflon è εIR≅ 70 %: se ne conclude che un rivestimento di questo genere assorbe abbastanza difficilmente la radiazione visibile, mentre emette efficientemente la radiazione infrarossa. La temperatura di equilibrio si calcola semplicemente imponendo

εv W\odot Aabs = εIR σT4 Aem

dove W\odot è il flusso di radiazione solare ( ∼ 1400 W/m2) ed Aabs l'area efficace di raccolta: Aabs = ∫-π/2

π/2 dA cos θ = ∫-π/2π/2 h r dθcos θ = 2 r h; l'area emittente è tutta la superficie del cilindro

(la bocca aperta è simile a un corpo nero) cioe' Aem = 2 πr h + 2 πr2 per cui il rapporto Aabs / Aem vale al massimo 1/π . Il risultato è che la temperatura di equilibrio vale

T =

εv

εIR

Aabs

Aem

W\odot

σ

0.25

≅ 170 K

Si noti che è essenziale un basso rapporto tra le due emissività: se ad esempio avessimo utilizzato un semplice rivestimento dorato o argentato, avremmo ottenuto una emissività infrarossa simile a quella visibile, e quindi una temperatura di equilibrio intorno a 290 K, la stessa che si ha a terra. La situazione può essere enormemente migliorata utilizzando un certo numero di schermi intermedi. Il progetto del satellite EDISON prevede di raffreddare a circa 40 K uno specchio di circa 10 m di

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diametro. In assenza di criogeno per raffreddare lo specchio, il raffreddamento dei rivelatori è affidato ad una sistema meccanico (criogeneratore). 4.4 Temperature inferiori a 0.3 K Esistono sostanzialmente tre metodi per raggiungere temperature inferiori a 0.3 K:

1) Refrigeratori a diluizione 2) Raffreddamento di Pomeranchuk 3) Demagnetizzazione adiabatica

Daremo qui solo brevi cenni al funzionamento dei tre sistemi. Per maggiori particolari si veda Lounasmaa (1974) e Betts (1989). Il refrigeratore a diluzione utilizza una miscela 3He-4He. Il diagramma di fase del sistema 3He-4He è mostrato in fig.4.11: è evidente una biforcazione a temperature inferiori a 0.85 K: al di sotto di tale temperatura le due fasi si separano. Nel refrigeratore a diluizione si rimuove quindi 3He dalla miscela (diluzione), ottenendo la separazione delle fasi e percorrendo il diagramma di fase fino a temperature del sistema dell' ordine di 10 mK. Questo processo e' simile al pompaggio sul bagno di 3He, solo che invece che avvenire nel vuoto questo avviene in un ambiente di 4He. Il principio del refrigeratore a diluzione fu introdotto da H. London (1951) e realizzato nella forma presente da London, Clarke e Mendoza (1962). Uno schema di refrigeratore a diluizione è visibile in fig.4.12. Il potere frigorifero di un refrigeratore a diluzione decresce velocemente al diminuire della temperatura. Con un ingresso termico inferiore a 0.1 µW si possono raggiungere 2 mK. Il metodo di raffreddamento di Pomeranchuk (1950) consiste nel preraffreddare dell' 3He liquido fino a 315 mK (temperatura alla quale l'entropia del liquido è uguale a quella del solido) e poi comprimere il liquido finché non si raggiunge la curva di fusione. A causa della pendenza negativa del diagramma P-T dell' 3He al di sotto di 315 mK, un aumento di pressione corrisponde ad una diminuzione di temperatura. A temperature inferiori a 50 mK il potere frigorifero di questo sistema diventa maggiore di quello del refrigeratore a diluzione, ed a 2 mK è circa 2 ordini di grandezza superiore. Al di sotto di 1 mK l' 3He solido si ordina ed il potere frigorifero diminuisce. Il metodo di demagnetizzazione adiabatica consiste nella riduzione di entropia di un sistema di momenti magnetici (elettronici o nucleari). L'entropia del sistema può essere ridotta applicando un campo magnetico (e quindi ordinando il sistema). L'ordine di grandezza del campo magnetico è dato da µB ≅ kT. Durante l'applicazione del campo magnetico il calore generato dovrà essere dissipato attraverso un conveniente interruttore termico, chiuso verso un termostato freddo (un bagno di elio liquido ad esempio), in modo da mantenere costante la temperatura del sistema in questa fase. L' interruttore termico verrà poi aperto, isolando il sistema. Se si rimuove il campo magnetico adiabaticamente, la temperatura del sistema diminuirà. Infatti l'entropia è funzione solo del rapporto B/T: se il campo viene diminuito adiabaticamente fino ad un valore minimo (dell'ordine del campo interno) l'entropia deve rimanere costante, e quindi la temperatura dovrà diminuire dello stesso fattore di cui si è ridotto il campo magnetico. La temperatura minima ottenibile con questo sistema è dell'ordine del mK se si usano momenti magnetici elettronici (che si ordinano spontaneamente al di sotto del mK) e del nK se si usano momenti magnetici nucleari. Come materiale si usano alcuni composti di terre rare, conosciuti come paramagneti di Van-Vleck. In questi il campo visto dal nucleo e' aumentato rispetto al campo applicato esternamente. L' aumento è notevole, da 5 a 100 volte; inoltre l' entropia nucleare diminuisce più velocemente che nei metalli normali, e quindi sono necessari valori inferiori del campo magnetico iniziale per raggiungere la stessa temperatura finale. Il campo magnetico iniziale necessario è dell'ordine di 10 Tesla. Questo viene ottenuto normalmente con elettromagneti ad avvolgimenti superconduttori, in modo da minimizzare l'energia necessaria. Non necessitando di elio 3, ma solo di elio 4 per il raffreddamento iniziale e per i magneti superconduttori, questo metodo è particolarmente indicato per sistemi spaziali. Un refrigeratore a demagnetizzazione adiabatica proposto per il satellite SIRTF

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Fig. 4.11: Diagramma di fase della miscela 4He-3He (Temperatura in funzione della concentrazione di 3He). Al di sopra di 0.85 K il liquido è normale o superfluido a seconda che sia a destra o sinistra della curva l. Al di sotto di 0.85 K il liquido si separa in una fase ricca di 3He ed una fase povera di

3He. Il raffreddamento viene ottenuto trasferendo con continuità atomi dalla fase ricca alla fase povera (analogamente al passaggio di atomi di 3He dal liquido al vapore nel criostato ad

evaporazione).

Fig. 4.12: Schema di un refrigeratore a diluizione.Nella mixing chamber la fase ricca di 3 He si

trova sopra a quella povera (essendo più leggera). Il passaggio di atomi di 3He attraverso la superficie di separazione tra le due fasi viene ottenuto pompando sullo still, una cameretta riscaldata

a circa 0.7 K per ottenere un notevole flusso di 3He. Il pompaggio avviene attraverso una pompa sigillata, e l' elio 3 viene reimmesso nel refrigeratore preraffreddandolo ad 1 K e poi attraverso

successivi scambiatori di calore fino alla mixing chamber.

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e usato in prototipo su pallone stratosferico (esperimento MAX) è riportato in fig.4.12B (da Timbie et al. 1990). 4.5 Termometria a basse temperature Termometri che misurino direttamente la temperatura termodinamica di un sistema sono in genere difficili da realizzare, e vengono realizzati di solito in laboratori specializzati. Elenchiamo qui alcuni metodi primari di misura della temperatura. a) Termometro a gas. Per una certa quantità di gas ideale in un volume costante si ha T/Tr = P/Pr dove Tr e' una temperatura di riferimento (ad esempio il punto triplo dell' acqua a 273.16 K, mentre Pr è la corrispondente pressione del gas). I termometri a gas sono utilizzati per temperature comprese tra 1.5 K e 800 K. A basse temperature (avvicinandosi cioè alla temperatura di liquefazione) il gas si allontana dalla idealità, e si devono apportare correzioni sempre più importanti alla formula precedente. Il gas più conveniente è l'elio, che ha la più bassa temperatura di liquefazione. b) Termometro a radiazione . E' un calorimetro che misura la potenza irraggiata da un corpo nero alla temperatura da misurare (stessa tecnologia usata nell' esperienza di Quinn e Martin, paragrafo 1.7.1). A causa della dipendenza dalla quarta potenza della temperatura, la sua sensibilità crolla velocemente a basse temperature. c) Termometria di rumore . Sfrutta il rumore Johnson generato in una impedenza Z = Re Z(ω) + j Im Z(ω), pari a ⟨∆V2 ⟩ = 2 k T Re[Z(ω)] ∆ω/ π: purtroppo anche questa quantità è una funzione crescente della temperatura. Ad esempio se si volesse misurare una temperatura dell' ordine di 1 K con una risoluzione di 1 mK, usando una resistenza dell'ordine di 1 MΩ si dovrebbe misurare un rumore di 7.4 µV con una sensibilità di pochi nV ed una banda di 1 MHz. A questi livelli di sensibilità è estremamente difficile evitare contaminazione del segnale da parte di altre sorgenti di interferenza elettromagnetica. A differenza dei precedenti, i termometri pratici hanno una dipendenza del parametro termometrico dalla temperatura funzione di molti parametri ignoti, ad esempio del particolare materiale usato. Vengono calibrati per confronto con termometri primari, e forniscono una misura approssimata della temperatura termodinamica. L'intervallo di temperatura di funzionamento di vari termometri (primari e pratici) è mostrato in fig.4.13. d) Termometri a Resistenza. Le resistenze possono essere misurate con grande precisione, e a seconda del materiale si possono avere andamenti crescenti (metalli) o decrescenti (semiconduttori) con la temperatura. In fig.4.14 si riporta la dipendenza dalla temperatura di alcuni di questi termometri. I termometri a bassa resistenza sono più difficili da leggere, ma molto riproducibili (es. film di platino). I termometri a carbone sono economici ma non molto riproduc ibili, mentre quelli al Ge sono ben riproducibili, relativamente facili da leggere ma costosi. Uno schema di un termometro al Ge è riportato in fig.4.15. I problemi maggiori per questo tipo di termometri sono di autoriscaldamento: la corrente necessaria a leggere la resistenza deve essere mantenuta decisamente bassa se si vuole che il riscaldamento per effetto Joule sia trascurabile, specialmente per i termometri ad alta resistenza. Va quindi ottimizzato il contatto termico tra il termometro ed il sistema: la corretta realizzazione di questo contatto è fondamentale per l'accuratezza delle misure. In fig.4.16 sono riportati i risultati delle letture di resistenza di una resistenza Speer montata con sistemi meccanici diversi sul sistema da misurare. L'effetto di autoriscaldamento è decisamente importante a basse temperature, dove perfino immergendo il termometro in elio liquido, si ha una importante resistenza termica (resistenza di Kapitza) che vincola la potenza dissipabile nel termometro: ad esempio inferiore a 10-12 W intorno a 1 K. Inoltre, oltre alla potenza dissipata per la lettura, anche la radiofrequenza presente nel laboratorio può raggiungere il termometro attraverso i fili di lettura scaldandolo.

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Fig. 4.12B: Refrigeratore a demagnetizzazione adiabatica per il raffreddamento a 100 mK di rivelatori bolometrici (per il satellite SIRTF). A destra schema dell'interruttore termico. Questo permette di effettuare la magnetizzazione a temperatura costante quando è chiuso (connettendo

termicamente il sale paramagnetico al bagno di elio liquido a 1.85 K mentre si fa salire la corrente nell'avvolgimento), e la demagnetizzazione adiabatica quando è aperto (realizzando l'isolamento termico mentre si riduce la corrente nell'avvolgimento superconduttore). Da Timbie et al. 1990.

Fig. 4.13: Intervallo di funzionamento di diversi termometri usati in criogenia

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Figura 4.14: Andamento della resistenza in funzione della temperatura per differenti materiali (metalli e semiconduttori)

Fig. 4.15: Termometro a resistenza al germanio (dal catalogo Lake Shore Cryotronics).

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Fig. 4.16: Misure di resistenza in funzione della temperatura per un termometro Speer montato in modi diversi (e quindi con contatti termici differenti verso il criogeno): è evidente l'effetto

dell'autoriscaldamento nel caso 3, dovuto ad una maggiore resistenza di contatto.

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Fig. 4.17: Letture a 2 e a 4 fili di un termometro a resistenza. Nel circuito A si fanno entrare nel criostato solo 2 fili, ciascuno con resistenza r. I generatori di tensione rappresentano le differenze di

potenziale (FEM) che si creano nelle saldature tra metalli diversi a diverse temperature (termocoppie, effetto Seebeck). Se si alimenta il circuito con una corrente costante i, la tensione

letta sul voltmetro e' DV = Ri + 2ri + \D (FEM), dove la differenza tra le FEM nasce dal fatto che il cablaggio dei due fili non sarà perfettamente simmetrico. La correzione alla lettura può essere

notevole e difficilmente quantificabile. Nel circuito B si fanno entrare nel criostato 4 fili, due per far scorrere la corrente e due per leggere la differenza di potenziale. Grazie all' alta impedenza di ingresso del voltmetro la corrente che scorre nel circuito di lettura e' minuscola, e le cadute di

potenziale ai capi dei fili di lettura della tensione trascurabili. La lettura sul Voltmetro e' quindi DV = Ri + \D(FEM). Per eliminare le differenze di potenziale Seebeck si alimenta il circuito con una

corrente alternata a frequenza f, (circuito C) e si legge l'ampiezza della differenza di potenziale con un lock-in: questo si comporta come un filtro passa banda intorno a f, e quindi elimina

efficientemente le FEM (che sono a frequenza 0) e riduce anche gli errori di misura dovuti al rumore.

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Per questo motivo si devono inserire opportuni filtri passa basso su tutti i fili che entrano nel criostato, che vanno schermati. Per una resistenza di ∼ 1 MΩ il vincolo precedente sulla potenza implica che si dovrà leggere una tensione minore di 1 mV ai capi della resistenza, con una precisione di 10 µV se si vuole una precisione di misura dell'1% sulla resistenza. Evidentemente tensioni così piccole sono molto difficili da misurare accuratamente in corrente continua. Infatti, a parte i problemi di rumore da interferenza elettromagnetica, tutte le giunzioni tra fili di materiali diversi a temperature diverse generano differenze di potenziale spurie (vedi termocoppie) anch'esse dipendenti dalla temperatura, che possono essere molto maggiori della debole differenza di potenziale generata dalla corrente di misura. Queste sono parzialmente cancellate dal metodo di lettura a 4 fili (fig.4.17). Infatti i quattro collegamenti utilizzati non sono mai esattamente identici e si hanno quindi differenze di potenziale residue. Se si usa per la lettura una corrente alternata a bassa frequenza, si può usare un amplificatore lock- in per separare con certezza la tensione di misura (alternata) da quelle spurie (continue). Un altro problema delle resistenze è la loro dipendenza dal campo magnetico, che è di solito notevole, impedendone l'uso ad esempio nei refrigeratori a demagentizzazione adiabatica. e) Termocoppie. Se si connettono due conduttori di metalli diversi tra loro ad ambedue le estremità (fig.4.18), con temperature delle giunzioni T1 e T2, con T1≠ T2, si ha un flusso di corrente nel circuito così costruito (effetto Seebeck). Se si interrompe uno dei due fili e si inserisce un voltmetro, si legge una differenza di potenziale, che e' determinata univocamente dalle due temperature e dai due tipi di metallo. Inversamente, se si fa scorrere una corrente nel circuito, si crea una differenza di temperatura tra le due giunzioni (effetto Peltier). Questo effetto viene sfruttato nelle celle Peltier, componenti elettronici che permettono di raffreddare sistemi a temperature di molte decine di gradi sotto lo zero Celsius. L'effetto Seebeck è da lungo tempo sfruttato per la misura della temperatura. Il circuito sopra descritto è detto termocoppia. Una delle due giunzioni viene mantenuta ad una temperatura nota (ad esempio il punto triplo dell' acqua), mentre l'altra giunzione è posta in contatto con il sistema di cui si vuole misurare la temperatura. Le coppie di metalli più usate sono riportate in tab.4.5. La differenza di potenziale che si ottiene è data dalla relazione

∆V = ⌠ T2 ⌡ T1

αa,b (T) dT (4.16);

αa,b è il coefficiente di Seebeck: questo è riportato in fig.4.19 per alcune coppie di metalli usate in criogenia, fino a temperature dell'ordine del mK. Come si vede la variazione di differenza di potenziale per unità di temperatura, cioè la sensibilità della termocoppia, è di solito piuttosto bassa, e si devono misurare in continua tensioni inferiori al mV con sensibilità migliori del µV. Il circuito di lettura deve avere una impedenza di ingresso abbastanza elevata ( > 10 kΩ) per evitare errori di lettura, ed una notevole reiezione di modo comune per eliminare disturbi a radiofrequenza ed alla frequenza di rete (la termocoppia non e' schermata, evidentemente). Esistono circuiti integrati che permettono di compensare la dipendenza non lineare della tensione dalla temperatura (ottenendo una uscita lineare con la temperatura) ed anche di correggere la lettura per la temperatura della giunzione di riferimento (AD594 e AD595) almeno nell' intervallo di temperature di uso industriale. f) Termometria a tensione di vapore. Le tensioni di vapore di liquidi criogenici come O2, N2, H2, 4He, 3He sono fortemente dipendenti dalla temperatura, e particolarmente interessanti come caratteristiche termometriche in quanto gli stessi liquidi sono di solito utilizzati per raffreddare il sistema. In fig.4.3 e tab.4.2 sono riportati i dati di interesse in criogenia: misurando la pressione dei vapori si può quindi stimare la temperatura del liquido. Questa misura non è comunque facile, in quanto di solito è in atto un pompaggio, e quindi è presente un gradiente di pressione tra la superficie libera del liquido ed il punto in cui si misura la pressione.

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Fig. 4.18: Circuito di utilizzo di termocoppie. Una giunzione tra due fili di metalli diversi (A e B) è in contatto termico con la temperatura di misurare (T_1) mentre una analoga giunzione è in contatto

termico con una temperatura di riferimento (T_2). Un voltmetro legge la differenza di potenziale elettrotermica generata nel circuito, che e' una funzione univoca (non lineare) della differenza di

temperatura e dei materiali A e B.

Fig. 4.19 e Tabella 4.5: Coefficiente di Seebeck a(T,A,B) per alcune termocoppie usate a temperature criogeniche.

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Inoltre il sistema è di solito connesso al liquido criogenico attraverso una resistenza termica, per cui si ha un corrispondente gradiente di temperatura tra il liquido criogenico ed il sistema sperimentale. Stimare accuratamente o minimizzare questi due effetti è di solito decisamente complicato. g) Termometria Magnetica. Si fa uso della suscettività paramagnetica di alcune sostanze. Particolarmente conveniente è il CMN (Cerium Magnesium Nitrate) perché il Ce ha una temperatura di ordinamento elettronico paramagnetico molto bassa (2 mK). La suscettività a basse temperature segue in teoria la legge di Curie

χ = C

T

C = No J(J+1) µo B2 g2

3k (4.17)

ed è quindi particolarmente sensibile a basse temperature. Questo potrebbe essere un termometro assoluto, ma in pratica la legge seguita è quella di Curie-Weiss

χ = C

T - ΘW

dove ΘW dipende da quantità non immediatamente determinabili, ma può essere minimizzata cambiando opportunamente la forma del sistema (ad esempio usando una contenitore cilindrico con diametro uguale all'altezza pieno di polvere di CMN finemente tritata). La suscettività viene misurata inserendo il campione in un trasformatore e modificando così la mutua induzione tra primario e secondario (ponte di Hartshorn). h) Polarizzazione di una sorgente radioattiva. La polarizzazione dei raggi γ emessi da una sorgente radioattiva dipende dal grado di allineamento dei nuclei, che a sua volta dipende dalla temperatura termodinamica della sorgente. Questo metodo, che richiede tecniche nucleari sofisticate, e' utile a temperature inferiori ai 100 mK. 4.6 Tecniche del Vuoto Il fine delle tecniche di vuoto consiste nell' approssimare il più possibile l'assenza di particelle in un contenitore. Un contenitore è detto sotto vuoto quando la pressione al suo interno è inferiore alla pressione atmosferica. Le applicazioni pratiche delle tecniche di vuoto sono innumerevoli. In pratica nessun laboratorio fisico potrebbe lavorare senza l'ausilio di pompe e sistemi da vuoto. In campo industriale le applicazioni vanno dalle lampadine all'inscatolamento alimentare, alla essiccazione, ai componenti elettronici (tubi a raggi catodici, valvole, fotomoltiplicatori....). Esistono molte unità di misura della pressione (Forza per unità di superficie). Nel sistema internazionale 1 Pascal = 1 Newton / 1 m2. Altre unità sono il Bar (pari a 105 Pa), l'Atmosfera (pari al peso esercitato da una colonna di 760 mm di mercurio, e quindi a 101325 Pa), il Torr, o mm di mercurio pari a 1/760 dell' atmosfera (e quindi a 133.322 Pa). Nei paesi anglosassoni si usa il PSI (pound per square inch) pari a 6895 Pa. Si divide il livello di vuoto in tre intervalli: basso vuoto (da pressione atmosferica a 10-2 Torr), alto vuoto (da 10-2 Torr a 10-6), ultravuoto (sotto 10-6 Torr). Dal punto di vista fisico questa distinzione rispecchia tre diverse condizioni di lavoro. Nel caso del basso vuoto il numero di molecole ancora presenti nel volume del contenitore è maggiore del numero di molecole assorbite sulla superficie. Nel caso dell'alto vuoto invece il cammino libero medio delle molecole è dell'ordine o maggiore delle dimensioni del contenitore, e la maggior parte delle molecole è localizzata sulle superfici. Nel caso dell' ultravuoto il flusso di molecole verso le superfici è così basso che è richiesto un tempo molto lungo perché la superficie inizialmente pulita si rivesta di uno strato monomolecolare. Questo significa che si possono fare esperimenti su superfici pulite per un tempo ragionevole. Il sistema da vuoto più semplice è costituito dal contenitore da evacuare, da un tubo di interconnessione (detto anche linea da vuoto) e da una pompa da vuoto.

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Fig. 4.20: Tensioni di vapore di solidi e liquidi comunemente utilizzati nei sistemi da vuoto (da Frossati, 1991).

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Per poter raggiungere un alto vuoto sia il contenitore che il gas presente inizialmente devono essere puliti. Infatti la pressione di vapore per sublimazione del materiale del contenitore limita il massimo vuoto raggiungibile pompando. Se poi sulla superficie sono presenti impurità (l'acqua è comunemente la cosa peggiore, a causa della sua alta tensione di vapore e della sua presenza abbondante nell'aria), il raggiungimento del vuoto limite viene enormemente rallentato. Per tutte le sostanze è vero che la pressione di vapore diminuisce al diminuire della temperatura. In fig.4.20 sono riportate le pressioni di vapore di alcuni liquidi e solidi comunemente usati. Il tipo di moto del gas che viene rimosso da un contenitore dipende dalla pressione. Nel caso del basso vuoto il flusso di gas è determinato dalle collisioni tra molecole (flusso viscoso): se una pompa rimuove le molecole da una certa zona immediatamente la zona sarà riempita da altre molecole che seguiranno le prime. Il diametro del tubo di pompaggio in questo caso non è essenziale, perché la mancanza delle prime molecole evacuate dalla pompa favorirà l'arrivo delle successive. Quando la pressione è così ridotta che il cammino libero medio delle molecole diventa grande, maggiore delle dimensioni del contenitore e dei tubi, le molecole hanno pochissime interazioni tra loro, ed il moto è completamente probabilistico. Per questo il diametro del tubo di pompaggio e dell'ingresso della pompa da alto vuoto devono essere i più ampi possibili, per ottenere una buona probabilità che le molecole entrino nella pompa e possano essere rimosse. Questo regime è detto di flusso molecolare. Nel caso di flusso viscoso la legge di Poiseuille fornisce la relazione tra flusso di massa dm/dt in un tubo circolare e caduta di pressione ∆p ai capi del tubo: per un tubo di diametro D, lunghezza L ed un gas di viscosità µ (in unità di massa) e densità (ρ) si ha

. m =

π ρ

128 µ

D4

L ∆p (4.18).

Il gas è normalmente sufficientemente rarefatto e isotermo da poter utilizzare la relazione (ρ) = p M / ℜ T dove M è il peso molecolare del gas. Si ottiene allora

. m

= π _

p M

128 µℜ T

D4

L ∆p (4.19).

Nel caso di flusso molecolare l' equazione analoga alla 4.19 si ottiene dalla teoria cinetica dei gas:

. m =

πM

18 ℜ T 1/2

D3

L ∆p (4.20)

In ogni caso è evidente la necessità di massimizzare il diametro del tubo. Normalmente si preferisce utilizzare, al posto del flusso di massa, il throughput

Q = p . V =

. m ℜ T

M

(4.21)

che e' espresso in Torr- litri/s o Pa m3/s o unità simili. Dal punto di vista dimensionale il throughput è una potenza (1000 Pa l/s = 1 W = 750 Torr l/s). La conduttanza della linea di interconnessione è definita come

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C = Q

∆p

= . m

∆ρ

(4.22)

e le sue dimensioni sono litri/s o m3/h o simili. Si tratta quindi di una misura dell'abilità del tubo di far passare un dato volume di gas in un dato tempo. Dalle (4.19) e (4.20) si ha subito per flusso viscoso

C = π _

p

128 µ

D4

L (4.23).

e per flusso molecolare

C =

πℜ T

18 M

1/2

D3

L (4.24).

L' uso della conduttanza è utile nell'analisi di sistemi da vuoto complessi, in analogia con l'uso della conduttanza elettrica nei circuiti elettrici (in questo ambito il throughput è analogo alla corrente elettrica e la pompa da vuoto al generatore). Nel caso di tubi in serie, la caduta di pressione agli estremi sarà la somma delle cadute di pressione ai capi di ciascun tubo: ∆p = ∆p1 + ∆p2 + ∆p3 + .... da cui, se indichiamo con C la conduttanza totale, usando la definizione (4.24) si ha subito

Q

C

= Q

1

C1

+ 1

C2

+ 1

C3

+...

→ 1

Co

= ∑ 1

Ci

(4.25).

Invece, nel caso di tubi connessi in parallelo, il throughput totale sarà la somma dei throughput, per cui

C ∆p = ∆p (C1 + C2 + C3 + ...) → Co = ∑ Ci (4.26).

La capacità di una pompa di evacuare un dato volume in un dato tempo è data dalla velocità S della pompa, definita come

Sp = Q

pi

(4.27)

dove Q è il throughput della pompa (legato alla sua potenza), e pi è la pressione all'entrata della pompa. La velocità di pompaggio del sistema pompa + linea di interconnessione è data da

Ss =

1

Sp

+ 1

C

-1

(4.28)

essendo la pompa e la linea connesse in serie. Vogliamo ora studiare il tempo di evacuazione e la pressione limite ottenibili per un sistema del tipo illustrato in fig.4.21. Si aggiunge una perdita rispetto al sistema da vuoto più elementare, perché nella realtà perdite reali o virtuali sono sempre presenti. Le prime sono dovute di solito ad una imperfetta tenuta delle guarnizioni tra i diversi componenti del sistema da vuoto. Le seconde sono dovute al gas intrappolato in sacche del sistema o a degassamento dalle pareti del contenitore: quest'ultimo contributo non è eliminabile completamente e fissa la pressione limite in un sistema da vuoto ben progettato e realizzato. Il degassamento è semplicemente la restituzione del gas adsorbito sulla superficie o all'interno delle pareti del contenitore. Sia dm/dt il flusso di massa attraverso la

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pompa e dmi /dt il flusso di massa in ingresso dalla perdita. L'equazione di conservazione della massa si scriverà

. m i -

. m = V

d ρ

dt =

V

RT dp

dt

(4.29)

dove R = ℜ/M è la costante del gas utilizzato. Quindi, introducendo il throughput della perdita Qi = dmi /dt RT e la velocità di pompaggio del sistema Ss data dalla (4.28) si ottiene l'equazione differenziale generale per l'andamento della pressione in funzione del tempo:

dp

dt

= Qi

V

- Ss p

V

(4.30)

questa equazione è per ora completamente generale ed indipendente dal regime di flusso e dal tipo di sistema da vuoto. Ricordiamo che in generale Ss e Qi sono funzioni della pressione. Si può risolvere analiticamente la (4.30) in alcuni casi particolari importanti. Consideriamo prima il caso di moto viscoso e perdite trascurabili (Q i = 0). All' inizio del pompaggio di solito la velocità di pompaggio è limitata dalla conduttanza della linea, piuttosto che dalla velocità di pompaggio della pompa: avremo quindi Ss ≅ C. Inoltre per moto viscoso la conduttanza della linea da vuoto C è proporzionale alla pressione media nella linea (vedi equazione 4.23) e quindi avremo Ss(p) ≅ C(p) = C(p1) (p+pi)/(p1+pi) dove p è la pressione nel recipiente, p1 è la pressione iniziale nel recipiente, pi è la pressione all'ingresso della pompa. Assumiamo quest'ultima costante, e di solito molto minore della pressione nel recipiente. Potremo quindi sostituire nella (4.30) Ss ≅ C(p1) p / p1, ottenendo

dp

dt

= - C(p1)

Vp1

p2 (4.31)

La (4.31) è facilmente risolvibile, e si può ricavare il tempo necessario per raggiungere la pressione p2 (che deve essere molto maggiore della pressione all' ingresso della pompa):

t = V

C(p1)

p1

p2

-1

(4.32).

Un caso tipico è il seguente: supponiamo di voler vuotare un contenitore di 10 litri raggiungendo una pressione limite di 10-3 atmosfere, utilizzando una pompa rotativa media, con portata di 40 m3/h = 11 l/s. Dalla 4.32 si ottiene subito il tempo necessario, che risulta essere circa 3 ore. Se le perdite non sono trascurabili si ottiene la pressione limite finale pf direttamente dalla (4.30) imponendo dp/dt = 0: si ottiene

pf =

p1 Qi

C(p1)

1/2

(4.33)

Si può anche integrare la (4.30) nel caso di perdita costante Qi per trovare il tempo necessario per raggiungere (sempre in regime viscoso) la pressione p2 :

tp = V p1

2 C(p1) pf

ln

(p2 + pf)(p1-pf)

(p1 + pf)(p2-pf)

(4.34)

Il caso di flusso viscoso è illustrato in fig.4.22. A pressioni più basse (flusso molecolare) sia la conduttanza della linea da vuoto che la velocità della pompa rimangono costanti per un ampio intervallo di pressioni, e quindi Ss è costante.

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Fig. 4.21: Schema di sistema da vuoto composto da un contenitore a pressione p, un tubo di interconnessione ed una pompa. E' presente anche una perdita (reale o virtuale). Questo schema è

usato per la derivazione delle equazioni per il tempo di svuotamento

Fig. 4.22: Relazione tra pressione iniziale (p_1), pressione finale (p_2), tempo richiesto per arrivare alla pressione finale (t_p), volume del contenitore da svuotare (V) e conduttanza del sistema alla

pressione iniziale C(p_1). p_u e' la pressione limite del sistema, che dipende dall'entità delle perdite.

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In questo caso, e sempre supponendo Qi costante, la pressione limite si ricava ancora dalla (4.30) con dp/dt = 0: si ottiene

pf =

Qi

Ss

(4.35)

mentre il tempo per raggiungere p2 è dato da

tp = V

Ss

ln p1 - pf

p2 - pf

(4.36).

Di solito nei sistemi ad alto vuoto è il degassamento che controlla la pressione limite raggiungibile (vedi 4.35). Il tasso di degassamento diminuisce all' aumentare del tempo in cui il sistema rimane sotto vuoto. Questo fatto può essere espresso attraverso la relazione empirica

Qi(t) = q1 A

t1

t

n

dove A è la superficie del contenitore e q1 è il degassamento specifico, cioè il degassamento per unità di superficie dopo un tempo t1, e l'esponente n varia da 0.5 (per diffusione di idrogeno o altri gas attraverso le guarnizioni da vuoto) a 1 per degassamento di vapor d'acqua o altri gas dalle pareti del contenitore. Il valore di q1 dipende molto dal tipo di materiale utilizzato per il contenitore, ma soprattutto dalla qualità della lavorazione. I migliori risultati si ottengono con materiali lucidi (tipicamente acciaio inox) e fatti degassare preliminarmente tenendoli sotto vuoto in un forno (backing out). Le connessioni tra i vari elementi di un sistema da vuoto sono effettuate per mezzo di guarnizioni che possono essere di vario genere a seconda del tipo di vuoto da ottenere. Per basso e alto vuoto ed operazione a temperatura ambiente si utilizzano delle guarnizioni in elastomero (gomma, etilenpropilene, silicone...) dette O-ring, che vengono compresse in apposite sedi (o cave, vedi fig.4.23A). La sede dell'O-ring deve essere calibrata per funzionamento ottimale: un volume troppo elevato non garantirebbe una buona compressione della guarnizione e quindi una buona tenuta, mentre un volume troppo piccolo provocherebbe l'estrusione dell'O-ring. L'intervallo di temperature di funzionamento degli O-ring dipende dal materiale usato e dal livello di permeabilità ai diversi gas tollerabile. Ad esempio gli O-ring in butile lavorano fino a temperature di -60oC, ma sono parzialmente permeabili all'elio. Gli O-ring in Viton sono invece poco permeabili e resistenti all'attacco chimico ma lavorano solo fino a -20oC. Per strumenti operanti in ultravuoto si utilizzano guarnizioni metalliche (gasket, vedi fig. 4.23B). Per strumenti operanti a temperature criogeniche, si utilizzano guarnizioni metalliche in metalli duttili, di solito indio (vedi fig.4.23C). 4.7 Pompe da Vuoto Elenchiamo qui di seguito le pompe più utilizzate nei sistemi da vuoto, suddivise in categorie con differente vuoto limite. • Pompe da basso vuoto (roughing pumps): da 105 Pa a 100 Pa:

Pompe rotative Pompe ad assorbimento Pompa di Venturi Pompe Booster

• Pompe da alto vuoto: da 100 Pa a 10-5 Pa: Pompe a diffusione a olio Trappole criogeniche Criopompe meccaniche Pompa turbomolecolare

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Fig. 4.23: Guarnizioni comunemente usate nei sistemi da vuoto. In A sono mostrati due possibili montaggi delle guarnizioni tipo O-ring (semplice e doppia con intercapedine). In B è mostrato il

montaggio di un gasket in rame. In C è mostrato il montaggio di una guarnizione in indio per uso a temperature criogeniche.

Fig. 4.24: Intervalli di pressione di funzionamento per differenti tipi di pompe da vuoto

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• Pompe da ultravuoto (sotto 10-5 Pa): Pompa a sublimazione di titanio Pompa Ionica Pompa a Getter non evaporabile

In fig. 4.24 sono confrontati gli intervalli di funzionamento delle pompe sopra elencate. Nel normale lavoro criogenico sono utili soprattutto la pompa rotativa e la pompa a diffusione o la turbomolecolare, che illustreremo quindi in dettaglio. a) Pompa rotativa. E' illustrata in fig.4.25. Un cilindro interno eccentrico e' fatto ruotare all' interno di un vano cilindrico. Il gas entra nello spazio tra i due cilindri attraverso un pistone forato, viene compresso durante la rotazione del cilindro interno e spinto verso la valvola di sfogo che si apre verso l'ambiente esterno al di sopra di una pressione di soglia che impedisce all' aria esterna di entrare nella pompa. Lo spazio tra i due cilindri e' sigillato e lubrificato da un sottile strato di olio a bassa tensione di vapore: parte di quest'olio viene scaricato durante ciascun ciclo insieme al gas attraverso la valvola. Per questo motivo al di là della valvola e' presente un separatore gas/olio che riporta l'olio nel suo serbatoio e ne reimmette una quantita' equivalente nello spazio tra i cilindri. La pompa viene raffreddata con acqua. Simile alla rotativa a pistone e' la rotativa a palette mobili, in cui la tenuta mobile è effettuata da due palette spinte contro il cilindro esterno da molle. Questo tipo di rotativa, illustrata in fig. 4.26, e di uso più comune attualmente, e con raffreddamento ad aria. Le pompe rotative a singolo stadio possono raggiungere una pressione limite di 10-2 Torr; al di sotto di questa pressione la velocita' di pompaggio si riduce drasticamente. Si possono raggiungere 10-3 Torr usando pompe a due stadi. La guarnizione finale in queste pompe e' realizzata per mezzo di un film d' olio sulle palette o sul cilindro (vedi fig.4.26). E' quindi la pressione di vapore dell' olio che limita il vuoto raggiungibile con queste pompe. Se l' olio viene contaminato con acqua o altre impurezze, la pressione limite aumenta notevolmente. Quando la pompa viene usata a bassa pressione, tende a rilasciare vapori d'olio verso la camera da vuotare. Questi devono essere intercettati per mezzo di trappole (vedi più avanti). Velocità di pompaggio tipiche delle pompe rotative a palette vanno da 5 a 200 m3/h. b) Pompa a diffusione . E' utilizzata di solito per raggiungere pressioni dell' ordine di 10-7 Torr, e va utilizzata dopo aver prevuotato il contenitore con una pompa rotativa fino a circa 0.01 Torr. In fig.4.27 e' mostrato un tipico banco da vuoto completo di pompa rotativa, pompa a diffusione e trappola criogenica. Il funzionamento della pompa a diffusione è basato sul trascinamento delle molecole del gas da vuotare da parte di un getto di vapore di olio diretto verso l'uscita della pompa. La pompa, nella versione a singolo stadio, e' illustrata in fig.4.28A. Un bagno di olio e' contenuto sul fondo della pompa. Un fornello situato immediatamente sotto lo vaporizza; il vapore e' incanalato nel camino e fatto fuoriuscire ad alta pressione dai getti montati in cima al camino ed orientati verso il basso. Qui le pesanti e veloci molecole d'olio incontrano le molecole del gas da pompare, e le urtano fornendo loro un notevole momento verso il basso, comprimendole quindi verso l'uscita dalla pompa a diffusione. Questa e' connessa alla pompa meccanica di prevuoto, che provvede a estrarre le molecole dal sistema. Le molecole di olio condensano sulla parete esterna, che e' raffreddata con acqua corrente o con aria, e gocciolano sul fondo della pompa, dove il fornello le rivaporizza per un nuovo ciclo. Le pompe moderne hanno usualmente piu' stadi (cioe' molti ugelli con getti di vapori d'olio a diverse quote) come illustrato in fig.4.28B. Inoltre e' presente a volte un getto verso l' uscita (eiettore) che aiuta a spingere verso l'uscita le molecole, aumentando anche la pressione di uscita della diffusione e quindi permettendo alla pompa di prevuoto di operare con maggiore efficienza. Per una bassa pressione limite della pompa l' olio deve essere a bassissima tensione di vapore. Si utilizzano oli siliconici o da idrocarbur i, con tensione di vapore a temperatura ambiente dell' ordine di 10-8 Torr.

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Fig. 4.25: Pompa rotativa a pistone a singolo stadio.I e' il cilindro interno eccentrico ruotante, E il cilindro esterno, P il pistone attraverso il quale il gas entra nello spazio tra i due cilindri, V la

valvola di sfogo del gas, S il separatore olio/gas. Nei 4 pannelli inferiori e' illustrato il movimento del cilindro eccentrico e la conseguente compressione del gas.

Fig. 4.26: Pompa rotativa a palette mobili (A), schema di funzionamento (B), dettaglio della lubrificazione delle palette che realizza anche la tenuta da vuoto dinamica (C).

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Fig. 4.27:Tipico banco da vuoto completo.

Fig. 4.28: Pompe a diffusione a singolo stadio (A) e multistadio (B).

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Fig. 4.29A: Schermo freddo (A) raffreddato con circolazione di acqua all'interno.

Fig. 4.29B: Trappola ad azoto liquido (B).

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Fig. 4.30: A: Schema di pompa turbomolecolare (è illustrato uno solo dei 10 o 20 stadi rotore-statore). B: Principio di funzionamento della pompa turbomolecolare (trasferimento di impulso

dalla paletta alla molecola).

Tutte le pompe a diffusione presentano il fenomeno del backstreaming, ovvero retroflusso di una piccola quantità di vapori d'olio verso la cavità da vuotare. Addirittura quando la pompa a diffusione opera in regime molecolare i vapori d'olio della pompa rotativa possono anche essi retrodiffondere verso lo spazio da vuotare attraversando la diffusione. Di solito si utilizza uno schermo (come mostrato in fig.4.29A) nella linea di pompaggio raffreddato per mezzo di acqua corrente; ancor più efficiente e' la cosiddetta trappola ad azoto liquido (vedi fig. 4.29B). Questi sistemi intercettano ogni tipo di olio condensandolo sulle pareti fredde. Una pompa a diffusione in operazione non deve mai essere connessa ad una pressione più alta di 1Pa, o peggio a pressione ambiente. In tal caso l' olio si ossiderebbe o addirittura comincerebbe a bruciare, compromettendo irreparabilmente la capacità di pompaggio. Inoltre anche la pressione di uscita (mantenuta dalla pompa di prevuoto) non può superare una soglia minima altrimenti i vapori d'olio diffonderanno in grande quantità nel contenitore da vuotare.

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La velocità di pompaggio tipica delle pompe a diffusione e' dell' ordine delle migliaia di litri al secondo, ed è costante sotto 0.1 Pa. La pompa di prevuoto va selezionata in modo oculato: in pratica il throughput della pompa rotativa deve essere uguale a quello della diffusione, ad una pressione di uscita dalla diffusione (e quindi di ingresso alla rotativa) ben inferiore alla massima pressione di uscita ammissibile per la diffusione. Come esempio consideriamo una tipica diffusione con pressione di ingresso di 0.1 Pa, velocità di 2000 l/s, e pressione di uscita massima di 50 Pa. Dall' uguaglianza dei throughput si ha subito Srot pin, rot = Sdiff pin, diff e quindi si ricava Srot ∼ 15 m3/h. Per mantenere la pressione di uscita della diffusione pari a metà della massima si userà una pompa rotativa da 30 m3/h. c) Pompa Turbomolecolare . E' una pompa meccanica utile per ottenere alto vuoto senza alcuna contaminazione da oli o altre molecole pesanti. Il funzionamento e' basato sulla rotazione veloce di una turbina (rotore, fig.4.30A) che con le sue pale imprime alle molecole un momento verso l'uscita della pompa (fig.4.30B). La pompa è composta normalmente di un certo numero (da 10 a 40) di rotori e statori. Gli angoli di attacco delle pale del rotore di ingresso sono ottimizzati per ottenere un massimo accesso alla pompa, mentre quelle del rotore di uscita sono ottimizzati per la massima compressione del gas. La velocità di pompaggio e' direttamente proporzionale alla velocità di rotazione: per questo i rotori ruotano a circa 50000 giri al minuto. Il rapporto di compressione (rapporto tra pressione all' ingresso e pressione all' uscita) di una turbomolecolare e' funzione del tipo di gas, perché dipende dal rapporto tra la velocità della lama (unica) e la velocità termica della molecola, che e' maggiore per molecole leggere e minore per molecole pesanti. Per l' idrogeno il rapporto di compressione e' dell' ordine di 103, mentre per molecole pesanti (oli provenienti dalla rotativa ad esempio) il rapporto di compressione può arrivare a 1015. La pressione limite e' dell' ordine di 10-8 Torr ed il gas residuo e' sostanzialmente idrogeno, che viene prodotto per rottura delle molecole di olio della pompa rotativa negli urti contro le pale. 4.8 Strumenti per la misura del vuoto In fig.4.31 e' riportato l'intervallo di funzionamento di diversi strumenti di misura della pressione. Descriveremo nel seguito solo quelli di uso piu' comune nella pratica criogenica. a) Vacuometro di Mc Leod. E' illustrato in fig.4.32. Il livello del mercurio nei tubi verticali viene fatto salire sollevando la riserva, ed un volume di gas Vo a pressione p (la pressione da misurare) e' intrappolato nel bulbo B. Se si innalza ancora la riserva, il mercurio si innalza nei due capillari C (chiuso) e D (aperto verso il sistema da vuoto). Ma in C la pressione e' piu' alta che in D, e conseguentemente il livello sara' inferiore. La differenza di livello ∆h corrisponde ad una differenza di pressione ρg ∆h (numericamente uguale a ∆h in mm se si usano i Torr come unita' di misura della pressione). Questa e' dovuta alla compressione isoterma subita dal gas inizialmente presente nel bulbo B successivamente compresso nel capillare C. Per la legge dei gas perfetti si ha

p Vo = (p + ρg ∆h) Vc dove Vc e' il volume del capillare C. Si puo' quindi ricavare la pressione

p =

Vc

Vo - Vc ρg ∆h .

Il vacuometro di McLeod ha due caratteristiche principali: 1) e' un vacuometro primario, nel senso che non ha bisogno di calibrazione e la lettura e' indipendente dal gas sotto misura (a patto che sia non condensabile); 2) ha una alta precisione, da ± 3 ×10-4 Torr intorno a 0.1 Torr a ± 2 ×10-7 Torr intorno a 10-6 Torr. Gli svantaggi sono due: il vacuometro e' molto fragile per costruzione, e puo' operare solo ad intermittenza (non puo' essere usato per un monitoraggio continuo della pressione, perche' per ogni lettura si deve abbassare e rialzare la riserva di mercurio).

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Fig. 4.31: Intervalli di pressione di funzionamento di differenti vacuometri.

Fig. 4.32: Principio di funzionamento del vacuometro Mc Leod.

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b) Vacuometro di Bourdon. E' semplice ed affidabile ed ha un intervallo di funzionamento da parecchi MPa a 100 o 10 Pa (basso vuoto), ma a basse pressioni e' decisamente poco sensibile. Lo strumento ed il principio di funzionamento sono illustrati in fig.4.33. Il vacuometro e' costituito da un tubo di metallo flessibile a sezione ellittica e ripiegato ad arco, il cui interno e' connesso al contenitore del quale si vuole misurare la pressione. Quando il contenitore viene evacuato la differenza di pressione tra l'interno e l'esterno del tubo di Bourdon causa una curvatura del tubo, in prima approssimazione proporzionale alla differenza tra pressione interna ed esterna (atmosferica). Un sistema di ingranaggi amplifica il movimento facendo ruotare l' ago indicatore proporzionalmente alla flessione del tubo. c) Vacuometro a capacità (trasduttore di pressione). E' utilizzabile per basso vuoto (da 107 Pa a circa 100 Pa). Sfrutta la flessione di una membrana separatrice tra una zona a pressione ambiente (o a pressione costante) e una zona connessa col vuoto da misurare. La membrana costituisce una delle due armature di un condensatore del quale si misura la capacità inserendolo in un circuito risonante: una variazione di pressione provoca quindi una variazione di capacità e quindi una variazione della frequenza di risonanza che viene agevolmente misurata. Questo manometro e' abbastanza accurato (circa l' 1 % del fondo scala) e a risposta rapida ( ∼ 10-3 s). La precisione e' limitata dalla dipendenza della capacità dalla temperatura. d) Termocoppia e Vacuometro di Pirani. E' uno strumento semplice e robusto ma non molto preciso, utilizzabile per basso vuoto fino a 10 Pa. Il principio di funzionamento e' illustrato in fig.4.35: si tratta di un filo conduttore percorso da corrente all' interno del contenitore sotto vuoto. La temperatura a cui si porta il filo dipende dalla pressione presente nell' ambiente, almeno nell' intervallo di pressioni in cui gli urti con le molecole del gas sono la principale causa di perdita di calore del filo. La temperatura sarà quindi crescente (in modo non lineare) al diminuire della pressione. La temperatura del filo viene letta grazie ad una termocoppia in contatto termico con il filo. Il Vacuometro di Pirani e' simile: qui si legge la variazione di temperatura del filo misurando la variazione di resistenza. Il filo e' parte di un ponte di Wheatstone che permette di effettuare la misura: nel ramo opposto e' posto un filo del tutto simile, mantenuto a temperatura e pressione costante (fig.4.36). La pressione limite misurabile e' dell' ordine di 0.1 Pa. e) Vacuometro a ionizzazione . E' un vacuometro per alto vuoto. In una cella connessa con il vuoto da misurare e' montato un filamento di tungsteno che per effetto termoionico emette una corrente ie di elettroni, accelerati verso una griglia o un anodo. Gli elettroni, che acquistano una energia eV nel percorso incontrano le molecole del gas e le ionizzano. Gli ioni positivi vengono attirati da un elettrodo collettore. La corrente di collettore e' evidentemente proporzionale alla quantita' di molecole presenti: ic = S ie p, per cui misurando le correnti di collettore e di elettroni (dalla griglia) si puo' ricavare la pressione. La minima pressione misurabile da questo vacuometro e' dell' ordine di 10-8 Torr: al di sotto di questa pressione gli elettroni che collidono con la griglia producono raggi X: questi producono elettroni per effetto fotoelettrico sul collettore, contribuendo in modo spurio alla corrente di collettore ic. Il vacuometro a ionizzazione e' mostrato in fig.4.37. f) Vacuometro a catodo freddo. Anche questo e' un vacuometro per alto vuoto. E' composto da una cella (fig.4.38) con due catodi negativi ed un anodo positivo, immersi in un campo magnetico uniforme generato da un magnete permanente. Gli elettroni emessi dai catodi spiraleggiano nella regione tra i due catodi: il loro cammino prima di arrivare all' anodo è molto più lungo (anche 100 volte) di que llo diretto. Anche una piccola corrente elettronica può quindi generare una considerevole ionizzazione nel gas. Gli ioni positivi sono raccolti dai catodi. La corrente netta (elettronica meno ionica) da' una misura della pressione nella cella. Il vacuometro non funziona per pressioni troppo alte ( ∼ 1 Pa) o troppo basse ( ∼ 10-6 Pa) perché in ambedue i casi non si innesca la scarica nel gas).

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Fig. 4.33: Principio di funzionamento del vacuometro di Bourdon.

Fig. 4.35: Schema del vacuometro a termocoppia.

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Fig. 4.36: Schema del vacuometro Pirani.

Fig. 4.37: Vacuometro a ionizzazione.

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Fig. 4.38: Vacuometro a catodo freddo.

Riferimenti capitolo 4.

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