Capitolo 1 Z La politica nell’antichità greca e romana

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Capitolo 1 Z La politica nell’antichità greca e romana Sommario Z 1. Atene e la nascita della politica come scienza. - 2. Le critiche alla de- mocrazia e il logos tripolitikós.- 3. Dall’eroe alla giustizia. - 4. Legge e natura nei Tragici e sofisti. - 5. Platone. - 6. Aristotele. - 7. Il pensiero politico nell’antica Roma 1. Atene e la nascita della politica come scienza Il pensiero politico della civiltà occidentale nasce nell’antica Grecia nel periodo com- preso tra il VII e il VI secolo a.C., quando l’organizzazione della città-stato (la polis) si sostituisce progressivamente alle forme tradizionali, regali e sacrali di esercizio del- la sovranità. È un passaggio in virtù del quale il potere abbandona i palazzi aristocratici in cui era stato esercitato per secoli per trasferirsi nello spazio pubblico per eccellenza, l’agorà, la piazza che vede i cittadini protagonisti della vita politica. Tale passaggio si verifica per la prima volta ad Atene, che resterà il riferimento idea- le di organizzazione democratica, intesa come partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni comuni, nonché alla scelta dei titolari delle cariche di governo. I Sofisti Il modello della democrazia ateniese cui i pensatori politici dei secoli successivi fanno costan- temente riferimento è quello stabilito dalle riforme di Clistene, sul finire del VI secolo a.C., proseguite poi da Pericle alla metà di quello successivo. Secondo tale organizzazione, la sovranità politica si incarna nell’Assemblea (ecclesia) che ri- unisce tutti i cittadini «di pieno diritto», cioè i cittadini maggiorenni, maschi e di condizione libera. Nell’ecclesia – supremo organo legislativo e di governo – tutti possono prendere la pa- rola e le decisioni di interesse pubblico vengono sempre prese a maggioranza. Un consiglio ristretto, cioè il Consiglio dei Cinquecento (bulé), è invece incaricato di affron- tare le questioni di carattere più strettamente amministrativo. Molte delle principali cariche di governo vengono assegnate per sorteggio. Il modello ateniese istituisce quindi una democrazia diretta e partecipativa all’interno della quale assumono un ruolo fondamentale il confronto delle opinioni e la discussione pubblica. Edizioni Simone - Vol. 33/5 • Compendio di Storia delle Dottrine politiche

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Capitolo1ZLapoliticanell’antichitàgrecaeromana

Sommario Z 1.Ateneelanascitadellapoliticacomescienza.-2.Lecriticheallade-mocraziaeil logos tripolitikós.-3.Dall’eroeallagiustizia.-4.LeggeenaturaneiTragiciesofisti.-5.Platone.-6.Aristotele.-7.Ilpensieropoliticonell’anticaRoma

1.Ateneelanascitadellapoliticacomescienza

Il pensiero politico della civiltà occidentale nasce nell’antica Grecia nel periodo com-preso tra il VII e il VI secolo a.C., quando l’organizzazione della città-stato (la polis) si sostituisce progressivamente alle forme tradizionali, regali e sacrali di esercizio del-la sovranità.È un passaggio in virtù del quale il potere abbandona i palazzi aristocratici in cui era stato esercitato per secoli per trasferirsi nello spazio pubblico per eccellenza, l’agorà, la piazza che vede i cittadini protagonisti della vita politica.Tale passaggio si verifica per la prima volta ad Atene, che resterà il riferimento idea-le di organizzazione democratica, intesa come partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni comuni, nonché alla scelta dei titolari delle cariche di governo.

I SofistiIl modello della democrazia ateniese cui i pensatori politici dei secoli successivi fanno costan-temente riferimento è quello stabilito dalle riforme di Clistene, sul finire del VI secolo a.C., proseguite poi da Pericle alla metà di quello successivo.Secondo tale organizzazione, la sovranità politica si incarna nell’Assemblea (ecclesia) che ri-unisce tutti i cittadini «di pieno diritto», cioè i cittadini maggiorenni, maschi e di condizione libera. Nell’ecclesia – supremo organo legislativo e di governo – tutti possono prendere la pa-rola e le decisioni di interesse pubblico vengono sempre prese a maggioranza.Un consiglio ristretto, cioè il Consiglio dei Cinquecento (bulé), è invece incaricato di affron-tare le questioni di carattere più strettamente amministrativo.Molte delle principali cariche di governo vengono assegnate per sorteggio.Il modello ateniese istituisce quindi una democrazia diretta e partecipativa all’interno della quale assumono un ruolo fondamentale il confronto delle opinioni e la discussione pubblica.

Edizioni Simone - Vol. 33/5 • Compendio di Storia delle Dottrine politiche

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2.Lecriticheallademocraziaeil logos tripolitikós

A) Lecontraddizionidellademocraziaateniese

La fortuna «teorica» del modello ateniese – testimoniata dai numerosi richiami dei pensatori dei secoli successivi – contrasta curiosamente con le critiche alla democra-zia presenti in larga misura nei pensatori politici dell’antichità.Si tratta di un paradosso solo apparente: la società e, in primis, quella ateniese, infat-ti, era comunque fondata sui privilegi degli aristocratici e dei proprietari terrieri, al-meno dal punto di vista economico.L’apertura della sfera politica (con la conseguente affermazione del principio della isonomia, in base al quale tutti i cittadini sono soggetti alle medesime leggi, pur essen-do in aperto contrasto con tali premesse ideologiche) non cambia questo stato di cose.La democrazia in Atene, infatti, si esercita solo all’interno di una ristretta élite di uo-mini liberi, restandone esclusi gli schiavi, le donne e i meteci (gli stranieri cui era con-cesso l’esercizio di attività commerciali e artigianali).Lo storico Tucidide, narrando lo sterminio dei Melii da parte degli ateniesi durante le guerre del Peloponneso (431-404 a.C.), ricordava che, al di là dell’organizzazione formale dello Stato, a go-vernare i rapporti tra gli uomini è sempre la legge della forza.Nello scritto anonimo La costituzione degli ateniesi, il cui autore si inserisce nella corrente di pen-siero aristocratica e oligarchica, la democrazia è addirittura presentata come il regime che porta la «canaglia» al governo della città, consentendole di prevaricare sia i possidenti sia le città vicine.Una concezione non diversa sarà espressa in maniera molto più compiuta da Platone nella Re-pubblica (vedi infra).

B) Illogos tripolitikos elafortunadellademocraziaateniese

Sin dai primordi, una delle principali questioni dei politologi è stata quella relativa alla migliore tra le forme di governo (o «il giusto ordine politico»).È, infatti, già nelle «Storie» di Erodoto che trova la sua prima formulazione la tripar-tizione delle forme di governo che, sebbene variamente articolata, accompagna la ri-flessione politica dall’antichità ai giorni nostri (il logos tripolitikos):— il governo di uno (monarchia),— il governo di pochi (oligarchia),— il governo di molti (democrazia).La storia che Erodoto racconta si svolge in Persia, all’indomani dell’uccisione di un mago che ave-va usurpato il trono del re legittimo. L’autore riporta le diverse opinioni che si confrontano all’inter-no del Consiglio dei Sette circa il nuovo assetto da dare allo stato.Otane, il primo a intervenire, celebra i vantaggi del governo del popolo, che si presenta come il migliore in quanto riduce i rischi della prepotenza, viene esercitato a turno e sottoposto all’appro-vazione dell’assemblea.Un secondo sostiene invece le ragioni del governo dei pochi, che egli chiama aristocrazia, in quanto si configura come il governo dei migliori (in greco áristoi).L’ultimo che interviene è Dario che sostiene le ragioni della monarchia, il governo di uno solo, purché quest’uno sia il migliore tra gli uomini della collettività. Affidare il potere ad un solo indivi-

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duo è, contrariamente a quanto affermato dagli altri interlocutori, l’unico modo per impedire divi-sioni all’interno del governo e facilitare il processo decisionale.

Ci sono altri due elementi che spingono a considerare in qualche modo «postuma» la fortuna della democrazia ateniese:— innanzitutto, le opere politiche di maggiore importanza dell’età classica – la Re-

pubblica, il Politico e Le Leggi, di Platone; la Politica di Aristotele – sono tutte «schierate» a sostegno del governo delle élites (dunque del governo oligarchico);

— in secondo luogo, e non a caso, tali opere nascono in un momento storico che vede la democrazia ateniese sconfitta dall’oligarchica Sparta al termine delle guerre del Peloponneso.

Il già ricordato Tucidide, che quei conflitti ci ha tramandato, annovera tra le cause della sconfitta di Atene proprio il suo sistema politico che, basato sul sorteggio del-le cariche pubbliche e sulla possibilità per tutti di accedere al governo, aveva con-sentito ad alcuni demagoghi, sostenitori di iniziative non ben ponderate, di ottene-re il consenso popolare, trascinando, così, la città alla rovina.

3.Dall’eroeallagiustizia

A) Levirtùdeglieroiomerici

I modelli di virtù presenti nella Grecia antica vengono espressi per la prima volta da Ome-ro. L’Iliade e l’Odissea, infatti, costituiscono due strumenti privilegiati per l’educazio-ne dei giovani e presentano una didattica etica basata sulla nobiltà d’animo e sulla vir-tù universale dei singoli protagonisti, a prescindere dalla loro «appartenenza» politica.I due poemi descrivono, però, anche un sistema di valori complesso e fragile.La morale eroica, fondata sulla forza fisica, astuzia e onore, risulta inconciliabile con il concetto di razionalità del diritto e dello Stato.Una prima risposta alla contrapposizione tra la forza del singolo eroe e la virtù razionale si trova nel lento e graduale affermarsi dell’idea di giustizia.Themis (giustizia) incarna un ordine, una regola comune sia al macrocosmo che al microcosmo ed esprime un ordine giuridico che è nello stesso tempo divino e religioso.Questa visione, ancora mitologica, viene progressivamente sostituita da una concezione della giustizia come dike: ragione oggettiva, sapere consolidato nella memoria collettiva (cioè comu-ne a tutti gli esseri umani) in grado di risolvere i conflitti attraverso un compromesso tra posizio-ni contrastanti.La laicizzazione dell’idea di giustizia si accompagna al sorgere dell’idea di colpa individuale. Non dovendo più farsi carico dei destini di tutta la sua stirpe, il singolo individuo è responsabi-le solo di sé e delle sue azioni, venendo così meno la concezione dello «ftonos ton téon» in base alla quale, spesso, i figli nella vita terrena scontavano la colpa degli antenati.

B) L’idealedi«giustizia»daEsiodoaSolone

Un definitivo abbandono della morale eroica si trova in Esiodo. Il sistema di valori proposto nelle Opere e i giorni, esalta la funzione etica delle attività produttive, forma

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una sorta di epos del mondo contadino e trova nell’idea di giustizia la caratteristica principale dell’essere umano.La necessità di far venir meno la concezione della «giustizia» fondata sull’«ordine divino» si af-ferma decisamente con Eschilo. Il carattere paradossale dell’idea di giustizia divina è rappresen-tato nell’Orestea, un ciclo di tragedie che narra del ritorno in patria di Agamennone e si conclude con l’istituzione di un tribunale umano – l’aeropago – che lascia prevalere la saggezza giuridi-co-politica della città sulla «giustizia divina».Lo scopo di Eschilo è quello di magnificare le istituzioni politiche di Atene e mostrare come esse, pur essendo di natura laica, avessero origine divina.

L’idea di Eschilo si conferma nell’ordinamento politico della città di Atene proposto da uno dei sette sapienti: Solone, arconte nell’anno 594 a.C.Lo statista, noto per le sue coraggiose scelte legislative democratiche, rappresenta l’alfiere della cosiddetta eunomia (buon governo), in cui la legge (nomos) di Atene viene definita «buona» (eu) perché, pur presentandosi come legge umana, è somi-gliante a quella naturale o divina.Lo scopo dell’ordinamento di Solone è la concordia cioè conciliare gli interessi e le posizioni contrastanti tra le classi sociali evitando in tal modo la guerra civile e le continue lotte tra aristocrazia e popolo (demos).Solone, dunque, oscilla tra un mantenimento dello status quo e una serie di riforme che tutela-no gli strati più bassi della comunità: liberazione della terra, abolizione della schiavitù e abolizio-ne delle ipoteche per debiti.Il governo di Solone spinge i membri della città a riconoscere la supremazia impersonale di una legge ed evidenzia il problema della pluralità delle forme di governo e quello della scelta del-la forma ottimale per governare una città.

4.LeggeenaturaneiTragiciesofisti

La dimensione autonoma della legge umana e il suo conflitto con la legge divina è alla base di due correnti di pensiero elaborate dai Tragici e dai Sofisti:— nella tragedia Antigone di Sofocle la legge della città prevale su quella dettata da-

gli dei e dai costumi di un popolo (legge non scritta);— nella sofistica la legge umana si identifica con l’utile del più forte. Il presupposto

di tale concezione è quello del relativismo assoluto. I Díssoi Logói, un’opera in cui sono proposte in relazione al medesimo tema argomentazioni contrastanti, mostra-no che la verità come principio assoluto non esiste e che ogni punto di vista può es-sere ritenuto vero se sostenuto da una adeguata argomentazione. Secondo i sofisti (Gorgia, Protagora, Ippia, Crizia) l’arte politica scade a mera «arte del persua-dere», per la formazione del consenso e la perorazione dell’interesse personale.

La riflessione di Tucidide porta a compimento il processo di laicizzazione della leg-ge. Le vicende politiche della città vengono, infatti, ricondotte a cause ben definite e interpretate come il prodotto di una necessità logica e storica. Non il caso (tyche), ma

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la volontà di potenza e la conquista dell’utile sono il motore principale dell’azione politica.Posizione differente assume Senofonte il quale, nella Ciropedia (scritta per l’educazione del Prin-cipe Persiano Ciro il Giovane), propone una visione che è al contempo autoritaria e irenica del-la politica: il governante deve essere paragonato a un padre di famiglia, allo stesso modo in cui il grande re persiano Ciro lo fu con i suoi sudditi. Solo in veste di dominatore assoluto il sovra-no può dedicare tutte le sue forze alla realizzazione del bene pubblico, manifestando così an-che la propria magnanimità e la propria benevolenza verso i propri sudditi.

5.Platone

Le principali linee di sviluppo della politica greca, associate alla visione della crisi della polis, vengono mirabilmente sintetizzate nella filosofia di Platone (428-347 a.C.).La riflessione di Platone spazia in tutti i campi filosofici dalla politica all’estetica, alla metafisica e alla morale. Il suo scopo è quello di opporsi al relativismo dei Sofisti ri-pristinando la misura della giustizia su basi certe.Lo strumento in grado di raggiungere questo scopo è la filosofia che si oggettiva nel-la conoscenza dell’Essere e nella contemplazione delle idee, ovvero di valori saldi e universali che fungono da modelli tanto per la conoscenza, quanto per l’agire mora-le e il giudizio estetico sulla realtà.

Alla base della teoria politica di Platone si identificano due assunti:— la filosofia è l’arte principale e guida la politica. La condotta politica trova i suoi

principi nella metafisica, nella contemplazione dell’idea immutabile e unitaria rap-presentata dal Sommo Bene;

— la politica è in sé solo una disciplina tecnica, un’ancella della filosofia, ovvero un’arte che applica nella realtà i risultati dei saperi più nobili.

Caratteri fondamentali della filosofia platonica: la dottrina delle ideeIl cuore della filosofia platonica è la celebre dottrina delle idee. Le idee rappresentano un fon-damento oggettivo per la scienza e per la vita politica.I presupposti della teoria platonica sono:a) l’intenzione di portare alla luce l’ordine universale sul quale dovrà fondarsi sia la vita

politica che quella filosofica;b) questo ordine può essere conquistato tramite la conoscenza interiore di ciascun individuo

nel senso specifico di «reminiscenza» (anàmnesis), cioè di ricordo dei contenuti univer-sali presenti nell’animo. La nostra anima, prima di «essere calata» nel corpo, ha già con-templato le essenze eterne della realtà, definite «idee» (dal greco éidos, che significa con-temporaneamente «visione», «forma», «modello»).

Discesa successivamente nel corpo, e divenutane prigioniera, l’anima le ha temporaneamente dimenticate, ma non perdute e così recuperare le idee innate attraverso la reminiscenza, un pro-cedimento maieutico che è contemporaneamente logico, etico e psicologico.Oggetto della vera conoscenza, secondo Platone, non è dunque ciò che può essere conosciu-to attraverso i sensi, la realtà sensibile mutevole e imperfetta, ma solo le idee.

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Mentre il termine «idea» designa nel linguaggio corrente una rappresentazione o un prodotto concettuale della nostra mente, Platone intende l’insieme delle idee come entità supreme im-mutabili e perfette che esistono in una dimensione diversa dalla nostra, definita metaforica-mente «Iperuranio» (in greco, letteralmente, «oltre il cielo»).Lo scopo della filosofia, cioè della scienza più alta tra le scienze, è quindi la contemplazione di tale dimensione superiore che coincide con l’idea del Bene.

A) La Repubblica

I due presupposti della filosofia politica di Platone vengono coerentemente sviluppati nella Repubblica, dialogo composto fra il 389 a.C.-369 a.C. e nel quale in un immagi-nario contraddittorio con i sofisti, il filosofo ateniese, espone la sua teoria di giustizia.La «politica» deve vagliare i suoi effetti alla luce delle conduzione politica di una cit-tà: tanto più il governo di una città è giusto, tanto più la giustizia sarà chiara ed evi-dente ai cittadini.Quindi in Platone la definizione della giustizia coincide con la definizione della for-ma migliore di governo di una città: una repubblica di tipo social-comunista in cui lo Stato costituisce un uomo in grande in cui le varie parti del corpo sono rappresen-tate dalle singole classi. Tale dottrina viene esposta attraverso Socrate, che costituisce il personaggio principale dei «dialoghi» platonici.Così come un essere umano è sano quando desiderio, aggressività e ragione sono in armonia tra loro, allo stesso modo un governo della città è giusto quando esiste una armonia tra le tre diver-se classi rappresentate da:

— chi produce e soddisfa i bisogni dei singoli (desiderio = commercianti etc.);— chi preserva l’unità della città da attacchi esterni (aggressività = militari);— chi governa (ragione = filosofi).

I governanti (cioè i filosofi e i guerrieri) non sono eletti su base popolare, ma scelti tra i custodi, sottoposti, al contrario delle altre classi, ad una educazione collettiva rigida in comunione di beni e di donne: essi cioè, al fine di impedire che le loro cariche si trasferiscano di padre in figlio, sono privati di ogni forma di proprietà individuale compreso il matrimonio.La città deve dunque essere guidata da un ceto cui appartengono le due ultime classi e che ven-gono «scelti», generazione dopo generazione, tra gli «aristoi», cioè tra i migliori guardiani-filo-sofi, senza nessuna influenza derivante da parentele o appartenenza.

L’analogia tra istituzione politica e struttura dell’essere umano consente anche di giu-dicare le altre forme di governo.

Tali forme per Platone sono:

— la democrazia, dominata dal desiderio di possesso e di appagamento collettivo dei biso-gni individuali;

— la tirannide, che porta il singolo a prevalere sugli altri grazie alla propria aggressività;— la timocrazia (governo in base al censo), che sceglie per governare chi è più ricco e non

chi è più capace;— l’oligarchia viene istituita quando i «migliori» si lasciano sedurre e corrompere dal fascino

dei beni terreni e diventano preda dei loro desideri, dimenticando di perseguire il bene col-lettivo.

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Queste quattro forme si reiterano nel corso della storia portando dalla oligarchia alla timocrazia, alla democrazia e, infine, alla tirannide.Il governo propugnato da Platone retto dai guardiani-filosofi è, invece, razionale per-ché è stabilito in funzione di un possesso esclusivo e reale dell’idea del vero, che per Platone coincide con l’idea del bene di cui sono portatori in massimo grado «gli ari-stoi», cioè i migliori.Il processo di acquisizione della verità è rappresentato da Platone nel mito della ca-verna. Solo i filosofi sono in grado di liberarsi dalle catene che tengono prigionieri tut-ti gli uomini, condannati a prendere per vere non le cose, ma le ombre delle cose pro-iettate sul fondo di una caverna.Solo il filosofo riesce a liberarsi dalle catene e a volgere le spalle alla caverna, guar-dare dapprima le cose riflesse nell’acqua di uno stagno e, poi, illuminate direttamen-te dalla luce del sole e, infine, il sole stesso. Una volta ritornato nella caverna il filo-sofo vorrà comunicare ai suoi compagni la vera realtà esteriore, ma questi ultimi, or-mai assuefatti all’oscurità della caverna, non gli crederanno, lo allontaneranno e lo iso-leranno.Il mito della caverna, che costituisce uno dei momenti fondanti della filosofia occiden-tale, è al contempo una metafora della vita di Platone (esposta nella celebre Lettera VII) e del percorso che la ragione deve compiere per liberarsi dagli errori in cui cade il mondo dei sensi.

B) Il Politico ele Leggi

Il modello sostanzialmente utopico proposto da Platone subisce una profonda revi-sione nei dialoghi successivi.Nella Repubblica il tema della legge non trova spazio: se il governo della città è gui-dato dalla ragione non è necessario stabilire un sistema di norme in quanto nella città regnerà sempre armonia e equilibro tra le diverse componenti sociali. Anche nel Po-litico Platone insiste su questo punto arrivando a sostenere che non si devono legare le mani a coloro i quali, esperti nelle tecniche di governo, sono essi stessi «leggi vi-venti».Una svolta radicale avviene nelle Leggi (nomoi), l’ultimo e sofferto dialogo in cui Pla-tone tenta di trovare una forma di governo che abbia elementi sia della monarchia persiana che della democrazia ateniese.Le leggi sono utili a colmare la fragilità strutturale di un ordinamento politico.Per questo le Leggi trattano di un modello politico, non perfetto, ma di secondo grado (in quanto riflesso dell’idea di giustizia), all’interno del quale Platone riconosce esplicitamente la necessità di contemperare il principio di autorità con quello della libertà.Diviene, così, decisivo riflettere su problemi come la partecipazione e il consenso; così come è necessario che un governo scenda a patti con il sistema consolidato di valori all’interno del qua-le si trova ad operare. Così Platone arriva ad accettare ciò che nella Repubblica aveva escluso per gli appartenenti alle classi al potere: i concetti di famiglia e proprietà privata.

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La fortuna filosoficaIl pensiero politico di Platone ha influenzato il pensiero dei pensatori di tutti i tempi.Particolare effetto ebbe su Tommaso Moro ed Erasmo, sul genere letterario utopico (es.: Cit-tà del Sole di Campanella) e su Vico e Marx.Persino Hegel ne subiva l’influenza nella formulazione del concetto di «eticità immediata» del-la pólis.Le idee contenute nella Repubblica ispirate dalla forma di governo di Sparta, anche se di ten-denza social comunista, sono state mutuate da filosofi di tutte le correnti ideologiche e piega-te ai loro fini.Così Stenzel ne trae un modello di educazione di ordine politico, così come Hildebrand ne vede una prefigurazione dello «Stato Socialista», e Popper che considera la «Repubblica» «un pericolo per le società aperte».Numerosi altri filosofi (Strauss, Heidegger e Arent), infine, considerano i modelli platonici fon-ti di ispirazione inesauribili sulle quali è d’obbligo riflettere (Ingravalle).

6.Aristotele

Aristotele (384-322 a.C.) fu allievo di Platone e precettore di Alessandro Magno.Anche per il pensatore di Stagira, come per Platone, la politica è l’ambito spaziale all’interno del quale si espande il concetto di giustizia.La politica, dunque, rappresenta una scienza applicata che muove dall’analisi della vita associata: questa, (al contrario delle scienze teoretiche o conoscitive che teorizza-no ciò che è eterno e immutabile) presuppone la «prassi» che stimola l’agire umano verso il piacere, l’onore, la virtù e la felicità.

Nella «politica» due sono i punti sui quali la filosofia di Aristotele e quella di Platone divergono:— Aristotele non mira alla ricerca di un governo assoluto valido per sempre e dovun-

que, ma ricerca la forma ottimale da applicare a ogni singola città;— per il filosofo di Stagira non esiste un modello assoluto e ottimale di «Stato», ma

differenti opzioni politiche per realizzare la migliore forma di convivenza in cia-scuna compagine umana (eu zen).

A) L’Etica Nicomachea

Nell’Etica Nicomachea Aristotele analizza il concetto di «etica» e in particolare, il concetto di giustizia.Sul piano etico, Aristotele si pone in maniera antitetica rispetto all’idea astratta di Platone secondo cui è il «sommo bene» che determina le azioni umane.Il sommo bene, secondo Aristotele risiede nella volontà individuale, appartiene alla logica dell’azione, non è «piantato» in cielo (nell’Iperuranio), ma si trova nel cuore degli uomini.In questo senso, Aristotele concepisce un’etica fondata sulla coscienza dell’indivi-duo. Pertanto, il sommo bene non costituisce l’oggetto di fredda conoscenza intellet-tuale per cui chi conosce il bene non può non operare il bene.

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Per operare il bene occorre che l’uomo «senta» la validità del bene nella sua coscienza e cioè in quanto produce l’eudaimonia, cioè la felicità (Socrate). L’idea del bene, dunque, si sviluppa attraverso il sentimento e si traduce in azione rappresentando la condizione essenziale per il rag-giungimento della felicità: solo chi opera il bene è felice (eudemonismo etico).

I tre gradi della felicitàIn relazione alla felicità Aristotele distingue tre gradi:1. l’apolausticos bios, ossia la vita del godimento, quella che garantisce una felicità primitiva

e fallace;2. il politicos bios, ossia la vita di relazione (che per i Greci coincide con la vita politica), in gra-

do di garantire una forma più alta di felicità rispetto al godimento materiale e il cui vertice è rappresentato dalla filia, l’amicizia;

3. il teoreticos bios, riservato a pochi eletti, capace di assicurare la forma più alta di felicità. Attraverso la conoscenza l’uomo è in grado di essere realmente felice.

La vita vissuta secondo ragione è propria solo dei saggi, cioè di coloro che sono capaci di di-staccarsi dai beni terreni.

In base ai tre gradi di felicità, la virtù si fonda sul criterio della «medietà»: la virtù, cioè, sta nel «giusto mezzo», fra due estremi, l’eccesso e il difetto.Dal punto di vista politico i due estremi sono l’eccessiva ricchezza di pochi e la mise-ria della massa.In tal modo Aristotele giunge alla distinzione fra virtù etiche e virtù dianoetiche. Le prime sono quelle per cui il giusto mezzo si raggiunge tramite l’esercizio della pru-denza, le seconde attraverso la conoscenza.Dall’equilibrio di tali virtù emerge il concetto di giustizia intesa come virtù che guida il comportamento del singolo uomo che per sua natura è considerato un’animale politico.Tuttavia, il concetto di giustizia non si esaurisce solo nel singolo individuo ma riguar-da anche i rapporti intersoggettivi (virtus ad alterum) e può intendersi sia come legit-timità sia come uguaglianza nell’ambito della pólis.Aristotele accoglie il primo significato, ossia giustizia come conformità alle leggi, dal momento che le leggi mirano sempre all’utilità comune. La giustizia, pertanto, pre-cede tutte le virtù e costituisce la più importante fra esse.

B) LaPolitica

La tesi secondo la quale la giustizia non riflette un’idea astratta e immutabile, ma le diverse possibilità in cui può concretizzarsi lo sviluppo della ragione, viene trattata nella Politica.Questo scritto può essere analizzato seguendo quattro tematiche di fondo:— l’analisi della koinomia, cioè della vita associata. Una comunità è il prodotto or-

ganico di una stratificazione umana e di una rete complessa di relazioni sociali. Il potere politico, cioè la sfera pubblica della vita associata, deve perciò differen-

ziarsi dalla sfera privata, che Aristotele identifica nella oikos (la famiglia) sede in cui i rapporti parentali non rispondono al concetto del «do ut des» (cioè di tipo eco-nomico-retributivo), ma sono dettati dall’amore reciproco dei suoi componenti;

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— l’analisi del potere pubblico come comando su individui liberi ed eguali. La città ha radici pluralistiche che devono essere rispettate. La sfera privata della famiglia e della proprietà devono essere garantite. Il legame politico per eccellenza diviene filía (amicizia), intesa come principio di armonia e concordia tra i singoli cittadini;

— la definizione delle forme di governo viene classificata in base al numero dei de-tentori del potere e in rapporto alla sfera del loro interesse (pubblico e privato). Alle tre forme di governo «sane», monarchia, aristocrazia, politeia, Aristotele fa corri-spondere tre forme di governo «degenerate»: tirannide, oligarchia, demagogia. Queste forme di governo non si susseguono con regolarità, ma sono il risultato di progressivi rivolgimenti, spesso anche improvvisi (rivoluzioni, colpi di Stato etc.);

— il tema della «costituzione ottimale», definita in termini di stabilità, durata e, quin-di, in rapporto a un ideale di vita perfettibile e a un sistema di valori riconosciuto come migliore. La partecipazione effettiva e l’efficacia all’interno di questo oriz-zonte determina la costituzione migliore, cioè la più adatta forma di governo in ri-ferimento a un determinato momento storico.

Altro elemento significativo della riflessione politica aristotelica è la necessità di stu-diare, come avviene nella Costituzione degli ateniesi, il processo storico di ogni sin-golo Stato che porta alla successiva formazione della «costituzione» che ne rispecchia i valori fondanti.

7. Ilpensieropoliticonell’anticaRoma

A) Lagiuridizzazionedellapolitica

Già nel 509 a.C. Roma, cacciando Tarquinio il Superbo, passa dalla monarchia a una forma di repubblica oligarchica retta prevalentemente dal senato.Il senato raccoglie i capi della nobiltà e rappresenta il vertice della carriera istituzio-nale dei patrizi che (in contrapposizione ai plebei) appartenevano alla classe (equites) dei cavalieri e che godevano nell’Urbe di una serie di privilegi giuridici ed economici.

Le forme di autorità esercitate dal senato erano sostanzialmente due:— auctoritas: una funzione di guida e orientamento del popolo sulla base della sto-

ria e della tradizione, garantite principalmente dalla saggezza e dall’autorevolezza dei suoi componenti;

— potestas: il potere politico vero e proprio che regola la vita quotidiana.

Il senato, perciò, costituisce un insostituibile guida nella fase repubblicana, mentre in età imperiale conservò solo una presenza formale nel diverso assetto istituzionale di Roma.Il contributo della civiltà romana alla storia della politica deriva dalla sua originale e efficiente organizzazione giuridica, che ha costituito, nelle diverse epoche storiche, un insuperato modello di ordinamento giuridico.

Z15La politica nell’antichità greca e romana

Il diritto romano, in particolare, operò la distinzione tra ius pubblicum e ius privatum. Il primo riguarda l’organizzazione della città intera, il secondo abbraccia un’insieme di norme attraverso le quali gli individui regolano i loro rapporti privati.Lo ius pubblicum concerne la sfera della lex, valida per tutti i sudditi.Lo ius privatum riguarda la sfera dei singoli che non interferiscono con l’ordine pubblico.L’insieme delle norme prodotte nel corso dei secoli nel diritto romano, le cui basi sono marcata-mente filosofiche, vengono successivamente ordinate e selezionate nel Digesto (533) per volon-tà dell’imperatore Giustiniano, che raccoglie e sintetizza il pensiero dei migliori e più noti giuristi dell’epoca classica, e che diverrà il testo base dei principali istituti giuridici moderni, nonché stru-mento per la formazione di molti intellettuali nell’epoca medioevale e moderna utilizzato in tutte le università dell’europa continentale che su di essa fonderanno il sistema di «civil law».

La codificazione di GiustinianoGiustiniano, come i suoi predecessori, volle predisporre una legislazione conforme alle esi-genze dei suoi tempi e, tuttavia, così aderente alla tradizione romana da presentarsi come il co-ronamento e il completamento dell’opera della giurisprudenza classica.La grandiosa opera di compilazione – il cui risultato fu il Corpus Iuris Civilis – ebbe inizio con una raccolta di leggi progettata da Giustiniano e dal suo ministro Triboniano.Nel 528 Giustiniano nominò una commissione con il compito di compilare un nuovo codice, che condensasse la sapienza giuridica antica e offrisse una solida base normativa all’impero. L’opera fu compiuta in brevissimo tempo e il codice venne pubblicato il 7 aprile del 529.Nel 530 Giustiniano ordinò una compilazione dei digesta o pandectae: brani degli scritti dei giureconsulti romani muniti di ius respondendi e necessari per la comprensione dell’ordina-mento giuridico romano.Giustiniano ordinò inoltre la stesura di un trattato elementare di diritto ad uso scolastico da sostituire alle Istituzioni di Gaio. Mentre il primo codice di Giustiniano non è giunto fino a noi, possiamo disporre del Novus Iustinianus codex repetitae praelectionis, che rappresenta una riforma del primo codice e, promulgato nel novembre del 534, e diviso in dodici libri, a loro volta suddivisi in rubriche.Giustiniano non si limitò solo alla pubblicazione di compilazioni giuridiche, ma emanò nume-rose fonti autonome di diritto: fondamentali furono quelle che disciplinavano le successioni legittime e i matrimoni.

B) Losviluppodelleideepolitiche(leggeepotere)

Le basi filosofiche del diritto romano possono essere fatte risalire allo storico di origi-ne greca Polibio (200-118 a.C.) autore di «Storiae» che descrive gli eventi politici dell’Urbe dal 264 al 146 a.C. – nel quale esporre, rifacendosi a canoni aristotelici, le vicende della coesistenza di diverse forme di governo che caratterizzarono la vita del-la respublica.Il merito fondamentale del consigliere di Scipione l’Africano consiste nell’aver com-preso che:1. la storia è lo strumento migliore per comprendere l’attività politica;2. la costituzione di una città non può essere ricondotta a un modello ideale (monar-

chia, aristocrazia, repubblica), né a una sua degenerazione (tirannide, oligarchia,

16Z Capitolo1

demagogia), ma può costituire una forma di governo mista che sintetizza diver-se forme di governo (1);

3. il trapasso da una forma all’altra di costituzione corrisponde quasi ad un naturale ciclo di degenerazione delle forme politiche consolidatasi nel tempo, che spingono alla scelta di un’altro sistema di governo che coinvolge una diversa base politica.

Tuttavia, la più compiuta espressione di pensiero politico romano è certamente quella elaborata da Marco Tullio Cicerone (106 a.C. - 43 d.C.) autore tra l’altro della «Re-spublica», i cui maggiori contributi sono:— l’impegno politico come complemento alla mera saggezza contemplativa stra-

tificata nel corso dei secoli;— la giuridicizzazione della politica.

Il diritto, in particolare, viene inteso come sintesi di iustum (giustizia) e iussum (le-galità): cioè riflesso dell’idea di giustizia e oggetto di comando positivo.A differenza di quanto sosteneva Aristotele, lo spazio della vita pubblica non è rego-lato dalla philìa ma dal diritto, che è fondamentalmente coercizione e, dunque, pote-re effettivo di chi governa.

Legge e potere, i due volti del diritto, scandiscono il ritmo della vita politica e le sue gerarchie:— la legge, che rappresenta ciò che deve essere applicato;— il potere, che è lo strumento per l’applicazione concreta della legge.

La sfera del diritto riflette una legge suprema, la legge di natura che è diretta incarna-zione della giustizia.Ma la giustizia nella Respublica ha un forte valore pragmatico ed è definita come fedeltà ai patti.Come per Polibio, anche per Cicerone il diritto e la sua autorità hanno radici storiche che si con-centrano principalmente nella consuetudine (usus), negli usi e nelle tradizioni del senato, il cui operato risulta necessario a limitare le possibili degenerazioni insite in una forma di governo solo di carattere assembleare.Entrambi i pensatori attingono a piene mani dalla cultura giuridica della Grecia che, pur essendo stata conquistata militarmente da Roma, l’ha successivamente «riconquistata» con la sua «civil-tà e cultura delle istituzioni politiche».Anche le successive correnti filosofiche e politiche, affermatesi come l’Epicureismo e lo Stoicismo affermatesi a Roma, traggono le loro origini e la loro forza dall’«homus» della cultura ellenica.

(1) Si pensi, ad esempio, alla Roma repubblicana in cui erano previste cariche pubbliche temporanee (due con-soli che duravano in carica un anno) o eccezionali (dux, per fronteggiare situazioni di guerra, che durava in ca-rica sei mesi) vicine alla monarchia, altre vicine all’aristocrazia (senato), altre, infine, di carattere democratico (assemblee popolari) comprendendo, così, in un solo ordinamento tutte le forme di governo.

Z37Gli albori della politica moderna dall’Umanesimo a Guicciardini

ma celeste, se intellettuali, sarà angelo, e si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spi-rito solo con Dio…»

3. Ilconcettodi«politica»nell’Umanesimo

L’avvento delle Signorie, che seguirono ai Comuni, contribuisce allo sviluppo dell’Umanesimo per almeno due ragioni:— le Signorie, organismi territoriali più estesi di quelli comunali, erano dotati di un

più ampio apparato burocratico-amministrativo e diplomatico, nonché di «corti» in cui ferveva un dibattito culturale e politico, cui facevano riferimento artisti, pen-satori, letterati e personalità di rilievo che stimolarono la crescita del sapere e la nascita di scuole e accademie istituite presso le singole corti;

— il processo di formazione dei Comuni e delle Signorie favorì l’ascesa dei ceti bor-ghesi e commerciali, anche se non riuscì a trovare una idonea giustificazione di tipo etico-politico, filosofico-morale al loro accresciuto potere.

È appunto dal mondo antico che l’Italia umanistica delle Signorie trarrà gli spunti e gli esempi più significativi relative alle virtù civili, di gloria militare, di eroismo personale, di autocontrollo delle passioni, di raffinato gusto estetico che le serviranno per legittimare la propria originale identità e, così, discostarsi dal pensiero del Medioevo.Gli intellettuali umanisti, spesso al servizio di una corte signorile, sono artisti e pensatori eruditi che studiano in maniera filologica i testi antichi, al fine di stabilirne l’autenticità, la provenienza, la storicità (così, ad esempio, Lorenzo Valla dimostrò che la Donazione di Costantino fu un «falso» medievale dell’VIII sec. elaborato artatamente per giustificare le pretese temporali del papato).

Il modello dell’intellettuale impegnato, che si preoccupa dell’interesse e del benes-sere della città favorendo il dispiegarsi della libertà è il momento centrale del pensie-ro e dell’attività di Coluccio Salutati (1331-1406) e Leonardo Bruni (1370-1444). Entrambi si sforzarono di ricercare una forma di ordinamento che potesse porsi come alternativa, ed eventualmente resistere, allo strapotere principesco.Firenze, in particolare, si trasforma in una fucina in cui emerge la concezione demo-cratica dell’uomo fondata sulla virtù del singolo di agire oltre l’interesse individuale e a vantaggio della comunità.La ritrovata atmosfera di armonia politico-ideologica che domina le concezioni de-gli umanisti pone, però, due ordini di problemi che si aggravano quando, agli inizi del XVI sec. si profilano, anche nella stessa Firenze, tendenze politiche autoritarie:— la scissione tra pubblico e privato. Gli ideali dell’umanesimo, validi nella vita

privata, sono messi in discussione nel momento in cui vengono traslati nella vita pubblica fiorentina;

— l’alternativa tra «Bruto» e «Cesare», cioè il contrasto irrisolto tra chi va contro le leggi di un ordine costituito per garantire gli ideali della repubblica, e chi, anche se in veste di tiranno, si fa garante della sola prosperità dello Stato.

38Z Capitolo3

A quest’ultimo problema è dedicato il De tyramno (1400) di Coluccio Salutati. Seb-bene la tirannide sia una forma di governo inammissibile, è tuttavia necessario valu-tarne la «legittimità» anche in base al «consenso» tributato dal popolo al tiranno. Ce-sare, ad esempio, viene chiamato legittimamente ai vertici delle cariche pubbliche dell’antica Roma e, anche se vi eccede nella sua permanenza (ricoprendo per molti anni consecutivi il consolato che era una carica «annuale» e «duale»), non può esse-re, secondo tale corrente di pensiero, considerato un tiranno.Questa è la via che porterà i due più grandi pensatori dell’epoca, Machiavelli e Guic-ciardini, a confrontarsi su due questioni fondamentali della scienza politica:— il rapporto del «principe» con i sudditi e con la «repubblica» o il «principato».— il rapporto tra definizione della vita politica ideale e la contingenza delle vicende

storiche di ogni singolo Paese.

4.L’UmanesimogiuridicodiAndreaAlciato(1492-1550)

Giurista italiano di Alzate (Milano), studiò diritto presso le Università di Pavia e Bologna e si laureò nel 1516 a Ferrara. Insegnò ad Avignone, Pavia, Bologna, Bourges e Ferrara.A lui si deve il merito di aver inaugurato una nuova fase dello studio del diritto, che segnò il momento ufficiale dell’ingresso delle correnti umanistiche nella scienza giu-ridica (umanesimo giuridico).Dalla ricostruzione del diritto romano secondo un metodo (storico e comparativo) che, dal luogo ove lo applicò (Bourges) è stato poi definito «francese», si profilò il pro-blema di stabilire la natura della legge, considerata diretta emanazione della «volon-tà dell’imperatore», al quale il popolo avrebbe delegato ab immemorabili il potere di legiferare.L’imperium del princeps sul proprio territorio, infatti, per il giurista milanese non trae origine da un’investitura divina, bensì dal consolidato consenso del popolo.A differenza del tiranno, il principe «giusto» vede limitati i propri poteri da una serie di vincoli di diritto naturale, di equità, di ius gentium e dall’obbligo di rispettare i pat-ti con i propri sudditi, nonché quelli con l’autorità imperiale considerata originaria e prevalente rispetto ai poteri dei regnanti territoriali.

5.L’EuropadelCinquecento:l’albadello«Statomoderno»

A) Laicizzazionedellostatoe«ragiondiStato»

Già nel Trecento la possibile forma politica di Stato destinata a prevalere in Europa era costituita dallo Stato nazionale.La legittimità del potere, in questa fase, può derivare, però, ancora da una investitu-ra dinastico-divina anche se «laicizzata» in quanto l’autorità dei sovrani era ormai «sciolta» dalla precedente dipendenza nei confronti dell’autorità ecclesiastica.

Z39Gli albori della politica moderna dall’Umanesimo a Guicciardini

A ogni motivo di tipo morale, religioso, ma anche giuridico, in quest’epoca viene sem-pre anteposto l’interesse dinastico a conservare il potere, denominato dagli scrittori del Cinquecento e del Seicento «ragion di Stato».

B) LoStatomoderno

La formazione dello Stato rappresenta un processo fondamentale per la storia dell’Eu-ropa moderna caratterizzata da una diversa organizzazione del potere, che da spazio all’affermarsi di contrastanti interessi di classe ove la funzione mediatrice tra le stes-se viene esercitata normalmente dagli intellettuali, siano essi giuristi, uomini politici o filosofi politici.Proprio nell’Europa di quegli anni, passando attraverso aspre lotte di potere e religio-se, si definirono i contorni delle istituzioni e si precisarono i concetti e le formule po-litiche che sono alla base dell’attuale civiltà giuridico-politica europea.Le organizzazioni statali del Medioevo avevano molto poco a che fare con la conce-zione dello «Stato» che si andrà affermando solo nei secoli seguenti.Il processo che condusse alla formazione dei vari ordinamenti politici presentò note-voli differenze nei diversi Paesi europei, in primis Spagna, Francia e Inghilterra.

Le premesse dello Stato moderno vanno ricercate in specifiche circostanze storiche:

— da un lato, la concezione universalistica della Respublica Christiana, che implicava l’ob-bligo di riconoscere il primato della sfera spirituale su quella temporale, fu affermata con tale forza dal Papa (e messa in pratica con la lotta per le investiture negli anni tra il 1057 ed il 1122) da provocare una definitiva, insanabile rottura dei rapporti del Papato con l’im-peratore e, dunque, dell’unità politico-religiosa dell’Occidente;

— dall’altro, tale rottura sancì definitivamente l’autonomia della politica dalla religione, e consentì alla figura del singolo principe di affrancarsi dal potere tanto del Papa, quanto dell’Imperatore (si ebbe, così, il tramonto dei «due soli» citati nel De Monarchia di Dante).

6.NiccolòMachiavelli(1469-1531)

Con Machiavelli inizia una nuova epoca del pensiero politico che tende a staccarsi dalla tradizionale indagine speculativa, etica e religiosa per concentrarsi su metodiche effettuali e principi originali autonomi (iuxta propria principia).Nato a Firenze nel 1469, Niccolò Machiavelli ricopre la carica di Segretario della Repubblica fio-rentina per quattordici anni, dal 1498 al 1512, data in cui è costretto ad abbandonare il suo inca-rico a causa del ritorno in città della famiglia dei Medici e dell’instaurazione di un nuovo regime si-gnorile a lui ostile. Da quel momento egli sarà esiliato per sempre da Firenze e non eserciterà mai più quegli incarichi diplomatici e di governo che sentiva come propria autentica vocazione.Proprio agli anni dell’esilio risalgono le sue opere più importanti, i Discorsi sopra la prima Decade di Tito Livio (1513-1519 ca.) e il Principe (1513).

40Z Capitolo3

A) Ildistaccotraeticaepolitica

Il segretario fiorentino nell’analizzare la mutevolezza dell’animo umano si rende con-to che libertà e necessità, virtù e fortuna, politica e morale, passioni e ragioni, sono sempre in contraddizione e non possono essere in alcun modo «composti» in una de-finitiva e universale sintesi conciliativa (BARBATO); dalla verità effettuale non può nascere nessuna «scienza politica» in quanto qualsiasi «scienza» deve essere fondata su leggi immutabili.Istinti, sentimenti e ragione nella natura umana sono mutevoli e, quindi, non riducibi-li in schemi universalistici quando si tratta soprattutto dell’«agire politico».La politica, dunque, non è una scienza, ma una tecnica utilizzata per regolare e com-porre i conflitti individuali e sociali. Machiavelli, dunque, nega categoricamente qual-siasi forma di connubio tra etica e politica, e riconosce l’importanza o l’indipenden-za della «politica» in quanto determina il destino dell’uomo.

Dalla propria esperienza politica e personale, così come dalla lettura degli autori clas-sici da cui si distacca ideologicamente, Machiavelli matura alcune convinzioni fon-damentali che esaltano il suo realismo politico e che influenzeranno tutti i suoi suc-cessivi studi di scienza politica:— la natura fondamentalmente malvagia dell’uomo (pessimismo antropologico);— la sostanziale immutabilità di tale natura;— l’inconciliabilità tra politica ed etica, in ragione dell’insanabile scissione dell’es-

sere con il dover essere;— il concetto di «virtù» del principe in antitesi con quello tradizionale;— il rapporto dinamico e imprevedibile tra libertà e fortuna in quanto le vicende

umane per metà dipendono dall’una e metà dall’altra.

Nel Principe si legge infatti che «è necessario a chi dispone una repubblica e ordina leggi in quella presupporre tutti gli uomini rei, e che usano la malvagità dell’animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione»; e ancora, nei Discorsi, che «gli uomini nacquero vissero e morirono sempre con un medesimo ordine».Tali convinzioni inducono Machiavelli a negare nella politica sia l’esistenza di rego-le generali perennemente valide, sia l’importanza dello studio del passato al fine di trarre insegnamenti validi per orientare la condotta politica del presente.Le opere di Machiavelli offrono non solo spunti di riflessione sulla «teoria politica», ma costituiscono anche veri e propri manuali pratici per l’uomo di governo, cui sug-geriscono i più idonei comportamenti da tenere e degli errori da evitare per guidare gli Stati.

B) IlPrincipe,loStatoeilrealismopolitico

Il Principe è opera caratterizzata da un «brutale e schietto realismo politico», il cui tema principale può essere individuato nella costruzione dello Stato.

Z41Gli albori della politica moderna dall’Umanesimo a Guicciardini

Fanno da «sfondo» dell’opera (ispirato all’esempio dei crudeli delitti del Valentino, pseudomino utilizzato per identificare Cesare Borgia) – così come avviene anche per i Discorsi (caratterizza-ti, al contrario, da un approccio più idealistico) – le vicende politiche dell’Italia del tempo.Dopo la pace di Lodi (1454) gli Stati italiani avevano vissuto un periodo di relativa stabilità inter-na e di concordia nelle relazioni reciproche.A partire dal 1492 tuttavia, cioè dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, principale artefice della politica dell’equilibrio, la situazione cambia radicalmente. La discesa di Carlo VIII nella penisola, nel 1494, mostrò da un lato la fragilità dei piccoli Stati italiani di fronte alle potenze straniere, dall’al-tro aprì per la penisola un periodo di radicale subalternità alla Francia e alla Spagna che termine-rà solo alla metà del secolo successivo.L’opera di Machiavelli nasce dunque dalla amara contemplazione della «ruina» d’Italia e dal con-seguente desiderio di elaborare un progetto politico in grado di porvi rimedio.

Per Machiavelli che si contrappone all’utopismo imperante (Il Principe fu scritto nel 1513, l’Utopia nel 1516) tre sono i paradigmi sui quali poggiare le fondamento del-lo Stato:— la disponibilità di milizie proprie e non mercenarie;— la tutela della religione, considerata non tanto nella sua dimensione spirituale

quanto piuttosto per la sua tendenza a rendere la «popolazione» ubbidiente e uni-ta. A questo proposito, la preferenza di Machiavelli va alla religione pagana, che più del cristianesimo celebra valori più «sentiti» dall’individuo come l’eroismo, la dedizione alla patria, l’attivismo;

— il terzo deriva da una qualità del principe, e cioè dalla capacità di pensare e vive-re la politica in una dimensione totalmente autonoma rispetto alla morale per un «efficace e duraturo governo del paese».

La famosa massima «il fine giustifica i mezzi» va intesa all’interno di quest’ultima con-siderazione. Se il fine della politica e dell’uomo di governo è la saldezza dello Stato, allora tutti i suoi comportamenti vanno valutati in relazione al raggiungimento di tale fine senza tener conto dei valori trascendenti, morali o religiosi in base ad una sempli-ce considerazione: «se il fine è buono anche i mezzi utilizzati per raggiungerlo lo sono».In ciò risiede il realismo politico di Machiavelli, che costituisce il tratto originale ca-ratterizzante della sua opera e del suo pensiero che solleverà nel pensiero che segue (cd. Machiavellismo – v. infra) polemiche infinite che ancora oggi sono di grande attualità.

C) IlconfrontotraVirtùeFortuna

Altro aspetto originale della dottrina politica di Machiavelli riguarda il rapporto tra Virtù (che deriva dal latino vir, cioè uomo e che esprime, così, il concetto di astuzia e risolutezza dell’individuo) e Fortuna (che in latino significa «sorte»), tema ampia-mente dibattuto nel Quattrocento.Innanzitutto, entrambi i concetti vanno intesi in senso «laico».La fortuna è, dunque, l’insieme degli elementi e dei fatti imprevedibili – capricciosi e mutevoli – che l’uomo si trova ad affrontare e ai quali è chiamato a dare una risposta facendo ricorso alle sue qualità virili.

42Z Capitolo3

La virtù consiste, come detto, nella capacità di far fronte con prontezza alle diverse «occasioni» che la fortuna propone, scegliendo il comportamento più adatto al rag-giungimento dei propri fini, compreso quello di dichiarare guerra, senza lasciarsi con-dizionare da considerazioni diverse da quelle strettamente politiche.

Il tema della guerra su cui è incentrato il suo dialogo «Dell’arte della guerra» (in sette libri) è per il pensatore fiorentino fondamentale perché traduce «le energie civili (del principe) nella virtù della guerra» e diventa così «epifania» (rappresentazione) della tragicità della politica e della vita umana (Barbato).

Un’apparente contraddizione interna alla dottrina politica di Machiavelli riguarda la questione relativa alla migliore forma di governo, se, cioè, sia preferibile la repub-blica o il principato.Anche in questo caso il diplomatico toscano procede seguendo un rigoroso realismo politico, slegato da schemi etici prefissati e pronto ad adattarsi a contesti sociali e po-litici diversi che dipendono dalla necessità del momento storico.Se, infatti, nei Discorsi egli sembra preferire il regime repubblicano (in specie della Roma repubblicana fondato sulla libertà e sui buoni costumi), la forma di governo ce-lebrata nel Principe è, naturalmente, il principato.In realtà, ciò che interessa a Machiavelli, ciò che egli considera urgente per porre fine alla «rovina» d’Italia, è la creazione di uno Stato, di un’organizzazione politicamente e militarmente forte, guidata con fermezza. La forma istituzionale di tale Stato sem-bra essere indifferente proprio in considerazione del pragmatismo che connota il pen-siero politico dell’illustre politologo.

7.FrancescoGuicciardini(1483-1540)

A) Intellettualeecostituzionalistaante-litteram

Francesco Guicciardini rientra in una categoria di intellettuali sempre più diffusa tra Quattro e Cinquecento, quella dell’intellettuale funzionario.A differenza di quella di Machiavelli, la carriera politica di Guicciardini è segnata dal successo in quanto riveste importanti incarichi presso la Repubblica fiorentina, poi presso i Medici e, infine, presso il Papa.La visione politica del pensatore spazia tra due poli: la crisi (politica o bellica) che de-vasta gli Stati e l’ordine che viene imposto da chi governa e che «anestetizza» le con-vulsioni sociali e le crisi (in particolare liberare l’Italia dall’invasione dei barbari e la penisola dalla tirannia dei preti).Guicciardini è, quindi, un «tecnico» che non teorizza nessuna forma di Stato «perfet-ta», ma mette a disposizione la sua competenza per garantire funzionalità ed efficien-za alla gestione della cosa pubblica.

Z43Gli albori della politica moderna dall’Umanesimo a Guicciardini

In quest’ottica, egli può essere considerato un costituzionalista, essendo la sua atten-zione rivolta specialmente all’analisi:— delle competenze delle varie istituzioni;— del loro reciproco rapporto e bilanciamento;— dalla valorizzazione dell’esperienza degli «ottimati», cioè dei migliori chiamati a

governare un Paese.

Dati questi elementi alcuni studiosi hanno definito la teoria politica di Guicciardini un vero e proprio disegno di «ingegneria costituzionale».Dopo il 1494, cacciata la potente famiglia dei Medici, a Firenze viene istituita una Repubblica, il cui organo principale è il Consiglio Maggiore.Rispetto alla situazione passata il Consiglio è composto da un’ampia parte della popolazione che comprende, oltre le famiglie di antica nobiltà, tradizionalmente demandate al governo della città, anche numerosi esponenti degli emergenti ceti borghesi e commerciali.I primi anni della Repubblica sono, quindi, caratterizzati da forti tensioni tra le diverse fazioni presen-ti in Consiglio: l’aristocrazia tradizionale, infatti, si opponeva alle aperture «democratiche» proposte dai nuovi ceti. Il conflitto è reso ancora più aspro dal fatto che al Consiglio era demandato il delica-to compito di eleggere tutte le magistrature cittadine, ovvero le cariche titolari del potere esecutivo.Per far fronte a questa situazione nel 1502 una moderata riforma istituzionale istituisce la carica di Gonfaloniere a vita, suprema magistratura stabilita per assicurare una certa stabilità al gover-no che le leggi sulla rotazione delle cariche mettevano costantemente in discussione.

È dalla riflessione sulle realtà del suo tempo che nasce il pensiero politico di Guicciar-dini che, scagliandosi contro «ambizioni» e «mollizie»della classe al potere, mira a ela-borare un congegno di governo che nel rispetto del «particulare» sia in grado di com-porre i conflitti sociali, al fine di evitare che la lotta per il potere si trasformi in un evento distruttivo dell’ordine sociale e politico.

B) Obiettivipoliticiedequilibriotraipoteri

La conservazione dell’ordine costituito può essere raggiunta soltanto attraverso:— la creazione di un equilibrio tra i poteri che dia «ordine» alla repubblica;— la scrupolosa definizione delle competenze di ciascun organo di governo;— la sovranità della legge sugli interessi dei singoli, dal momento che, come l’au-

tore afferma nel suo Discorso di Logrogno, «né è altro la libertà che uno prevale-re la legge e ordini pubblici allo appetito delli uomini particulari»;

— la liberazione sia dai «barbari» invasori del territorio nazionale che dalla tiran-nia dei principi.

La peculiarità introdotta dal pensiero di Guicciardini è la presenza di un terzo organo, accanto al Consiglio maggiore e al Gonfolaniere, in grado di svolgere funzioni di rac-cordo tra i due: il Senato, composto da uomini particolarmente maturi ed esperti nell’ar-te del governo.

44Z Capitolo3

Guicciardini loda l’assetto repubblicano di Firenze – il «vivere popolare», cioè la democrazia – ma intende tale democrazia soprattutto come libertà da forme di governo dispotiche, libertà che deve essere garantita a tutti i cittadini.Tuttavia, in merito alla partecipazione effettiva all’attività di governo, Guicciardini resta ancorato alla tradizionale visione oligarchica del «governo dei migliori». Per governare infatti occorrono capacità, competenza ed esperienza, per cui l’autore può sostenere che «le città benché siano li-bere, se sono ben ordinate, sono sostenute dal consiglio e dalla virtù di pochi».

In conclusione, la dottrina politica di Guicciardini anticipa quelle forme di separazio-ne e bilanciamento dei poteri che saranno rielaborate in seguito con anche maggio-re chiarezza (Montesquieu) e che troveranno compiuta espressione nelle costituzioni democratiche successive alla rivoluzione francese.

Capitolo7ZL’esaltazionedell’individuoe la nascita dello Statomoderno

Sommario Z 1.LoStatomoderno,laborghesiaeilcontrattualismo.-2.Lateoriadel-lasovranitàinThomasHobbes.-3.IlcontrattoliberalediJohnLocke.-4.BaruchSpinoza.

1.LoStatomoderno,laborghesiaeilcontrattualismo

A partire dalla fine della guerra dei trent’anni (Pace di Westfalia, 1648) protagonista assoluta della scena politica europea diviene un unico soggetto: lo Stato inteso in sen-so moderno come entità sovrana, «autonoma e superiorem non recognoscens».Lo Stato, dunque, è impegnato in uno sforzo di centralizzazione e razionalizzazione, sconosciuto ai secoli precedenti, teso ad acquisire progressivamente il monopolio del-la politica a scapito della pluralità di soggetti territoriali divenuti con il feudalesimo protagonisti del medioevo e della prima età moderna: in primis la Chiesa e l’Impero.Per quanto impegnato nel recupero di alcune prerogative sovrane – come la centraliz-zazione dei poteri, la tutela dell’ordine pubblico, la monopolizzazione della guerra — lo Stato si base sempre sull’ordine naturale tradizionale di derivazione divina.Il fondamento teocratico del potere terreno nell’età moderna, comunque, non mette mai in discussione l’alleanza tra trono e altare.In linea con questa concezione lo Stato moderno deve considerarsi razionale quanto al suo eser-cizio e ai suoi fini (che coincidono con la potenza e il benessere dello Stato stesso), ma profon-damente tradizionale quanto alla sua origine.La persistenza del concetto di «ordine naturale» legittima inoltre, sul piano della struttura socia-le, disuguaglianze e gerarchie che determinano la supremazia dei ceti privilegiati, cioè il clero e l’aristocrazia.In tale clima, l’opera riformatrice dello Stato, non può che essere prudente ed estremamente mo-derata fino al momento del rovesciamento radicale portato dalle idee illuministiche e dalla rivolu-zione francese.

Tuttavia, se a livello istituzionale il soggetto politico di riferimento in questi secoli è lo Stato, sul piano sociale va delineandosi con sempre maggiore chiarezza un secon-do protagonista, che finirà con il diventare l’interlocutore principale dello Stato, e cioè la borghesia.

Edizioni Simone - Vol. 33/5 • Compendio di Storia delle Dottrine politiche

72Z Capitolo7

Questa classe emergente, infatti, per la sua presenza attiva nell’economia del paese, si fa portavoce di esigenze nuove come la tutela della libertà del singolo e, soprattutto, l’intangibilità delle sue proprietà, spesso gravate, durante il medioevo e gli esordi dell’età moderna, da corvèe a servitù pubbliche, nonché obblighi di conferimento di beni, denaro e derrate alla corona che ne svilivano il contenuto.La dottrina politica di questi anni, a cavallo tra l’assolutismo e la rivoluzione, si con-centra, dunque, sulla difficile conciliazione tra le esigenze di centralizzazione del po-tere statale e tutela degli interessi delle nascenti borghesie presenti sulla scena econo-mica e sociale europea.

A) Ilsoggettoborghese

La dinamica politico-filosofica che si instaura tra l’individuo e lo Stato in questi seco-li potrebbe essere definita di attrazione e repulsione: da un lato, infatti, il nuovo «bor-ghese» ha bisogno dello Stato al fine di vedere politicamente riconosciuti una serie di nuovi diritti da cui il suo ceto è escluso; dall’altro, ha la necessità di difendersi dallo Stato, al fine di mantenere autonomo sia l’ambito della libertà privata, sia un proprio spazio nella società, per poter esercitare le proprie libertà.Tale complessa dinamica trova la sua espressione dottrinale nella teoria del patto, e in quelle, ad essa legate, della sovranità, della rappresentanza e dei limiti del potere.

B) Ilpatto

Al fine di garantire la sicurezza e l’ordine auspicati dalla borghesia, si afferma la dot-trina del razionalismo filosofico moderno che tende a ricondurre la politica a un am-bito terreno, sottratto, cioè, all’ordine divino, e costruito dall’uomo per il raggiungi-mento dei propri fini.Per tale motivo, anche se con implicazioni diverse, per Hobbes e Locke, per Rousse-au e Kant, lo Stato nasce da un patto (o da un contratto) tra gli individui, che si asso-ciano al fine di «uscire» dallo stato di natura ed «entrare» in una dimensione politi-ca. Ciò perché nello stato di natura alcuni diritti «naturali» non sono tutelati (come in Hobbes e Spinoza) o non lo sono in maniera adeguata (come in Locke e Rousseau). Tali diritti, dunque, all’interno della dimensione statuale, da semplici e non delineati diritti naturali, si trasformano in diritti civili e politici.

C) Lasovranitàelarappresentanza

Il concetto di sovranità, carattere peculiare dello Stato, in questi secoli, finisce con l’identificarsi con le istituzioni statuali.Il leame Stato-Sovranità è riconosciuto da molti filosofi, sebbene ciascuno, pur par-tendo dalla medesima premessa, giunga a esiti diversi: in Hobbes essa conduce all’as-solutismo, in Locke al liberalismo, in Rousseau e in Spinoza alla democrazia e in Kant allo Stato costituzionale di diritto.

Z73L’esaltazione dell’individuo e la nascita dello Stato moderno

Tali esiti dipendono dal diverso grado di «energia politica» che viene concessa ai go-vernanti una volta riconosciuto l’esercizio esclusivo della sovranità allo Stato.Sorge, infine, il problema della rappresentanza politica attraverso la quale i sudditi partecipano alla vita delle istituzioni.

2.LateoriadellasovranitàinThomasHobbes

Thomas Hobbes (1588-1679), oltre a essere stato un importante filosofo, storico, scien-ziato e cultore della classicità, è stato riconosciuto come il padre della filosofia poli-tica moderna per la fermezza con la quale egli prende le distanze dal modo classico di pensare la socialità e la politicità dell’uomo, così come era stato tramandato nella Politica di Aristotele.Mentre nella visione aristotelica la tendenza degli uomini a organizzarsi in rapporti di convivenza gerarchicamente ordinata rappresenta un processo naturale e spontaneo, nella visione hobbesiana la nascita della «società politica» è il frutto di un accordo «artificiale» dettato dalla paura e necessità dei singoli.La presa di distanza di Hobbes da Aristotele parte dalla considerazione dell’inesistenza di ragio-ni «naturali» in forza delle quali alcuni uomini siano, per così dire, destinati a comandare e altri a obbedire. Hobbes sa bene, e lo ricorda nel Leviatano, che Aristotele, nel primo libro della Politi-ca, ha sostenuto che vi sono uomini più saggi, predestinati dalla natura a comandare, e altri meno dotati, fatti per ubbidire. L’uomo non presenta, da questo punto di vista, le caratteristiche di certe ordinate società di insetti, come le api e le formiche, le quali sottostanno per naturale pre-disposizione a un ordine gerarchico preciso, essendo portato per sua natura a una costante com-petizione con gli altri e a essere gratificato quando si dimostra superiore ai propri simili.

La destrutturazione della socialità naturale di Aristotele rappresenta in effetti il «ne-gativo» delle due tesi principali di Hobbes, tra loro strettamente connesse:— la naturale eguaglianza tra gli uomini (che impedisce loro di accettare sponta-

neamente rapporti gerarchici) e che degenera in «diseguaglianza»;— la spontanea conflittualità e insocevolezza degli individui (che impedisce loro

di convivere pacificamente a meno che non vi siano costretti da istituzioni «artifi-ciali» dotate di potere coercitivo): questo aspetto rimanda a Machiavelli il cui pun-to di partenza deriva proprio dalla constatazione dell’«egoismo e della smania di potere del principe» e della «voglia di sicurezza» del popolo.

Il clima storico politico dei tempi di HobbesHobbes costituisce un pilastro nella storia delle dottrine politiche soprattutto in virtù del suo Leviatano, pubblicato nel 1651 ma composto negli anni precedenti a Parigi, dove l’autore era stato costretto a rifugiarsi in seguito alla pubblicazione di un’altra sua opera, del 1640, gli Ele-ments of Law, Natural and Politics.Hobbes vive in prima persona gli anni drammatici della rivoluzione inglese che porteranno, nel gennaio del 1649, alla decapitazione del re Carlo I Stuart, accusato di aver tradito l’ordi-namento fondamentale del regno e di essere, così, venuto meno alla sua missione divina.

74Z Capitolo7

In realtà, il conflitto tra le forze parlamentari, sostenitrici del costituzionalismo tradizionale inglese, e quelle monarchiche, schierate per l’assolutismo degli Stuart, è responsabile di alcu-ne delle pagine più violente della storia inglese; il clima di conflitto permanente, di costante mi-naccia alla vita e agli averi in cui gli inglesi vissero negli anni tra il 1641 e il 1660, anno della temporanea restaurazione degli Stuart, contribuì non poco a determinare le convinzioni di Hob-bes circa la natura feroce degli uomini e del conseguente comportamento aggressivo «spon-taneo» degli individui, in assenza di un potere costituito che ne freni gli istinti di sopraffazione.

A) Lateoriadell’uguaglianza

Hobbes dimostra, con argomenti semplici ma efficaci, che nello stato di natura gli uo-mini sono eguali e che quindi non è plausibile né legittimo «spacciare» come natura-le un qualsiasi rapporto gerarchico tra di essi.

Esempi dall’argomentazione hobbesiana:

— quanto alla forza fisica, gli uomini possono anche differire, ma si tratta di differenze non dirimenti perché, infine, anche il più debole ha abbastanza forza per uccidere, magari con l’astuzia o a tradimento, il più forte;

— quanto alle facoltà mentali, la prudenza si acquista con l’esperienza, che ovviamente è alla portata di tutti.

I sostenitori della ineguaglianza dovrebbero spiegare perché, se gli uomini sono ineguali quanto alle facoltà dello spirito, accade che ognuno ritiene intimamente di essere più sag-gio degli altri: «non c’è segno più grande di egual distribuzione di qualcosa, del fatto che ogni uomo è contento della propria parte».

Gli uomini, dunque, «sono e si pensano eguali», nel senso che anche le disuguaglian-ze che pur sussistono nella realtà non alterano questo fondamentale status di parità, e quindi, non potrebbero mai giustificare qualsiasi naturale e spontanea sottomissione degli uni agli altri.

B) Laconflittualità:homohominislupus

L’uguaglianza, tuttavia, non è la sola condizione che caratterizza lo stato di natura. Ad essa si affianca una spontanea conflittualità.

Le linee di ragionamento che spingono Hobbes a sostenere tale tesi sono due:

— in primo luogo, gli individui che si trovassero a vivere in uno «stato di natura» entrerebbe-ro in conflitto per diffidenza: non potendo nessuno essere certo di non venir aggredito e uc-ciso dagli altri, ciascuno dovrebbe a sua volta aggredire e uccidere in anticipo onde evita-re di fare la stessa fine;

— in secondo luogo, gli uomini entrano in conflitto perché animati da quella passione che Hob-bes chiama la gloria: la maggior soddisfazione, il piacere più ambito, gli uomini lo provano nel compararsi con gli altri e scoprirsi superiori a loro; ma se ognuno aspira alla superiori-tà, il confronto non potrà che trasformarsi in conflitto.

Hobbes teorizza, inoltre, anche una visione della necessità del conflitto di taglio più propria-mente giuridico: se si ammette che ogni uomo ha per natura diritto ad autoconservarsi e di usare tutti i mezzi atti a tale scopo, allora ne consegue che, non essendoci nello stato di natu-

Z75L’esaltazione dell’individuo e la nascita dello Stato moderno

ra una legge comune condivisa, ognuno è il solo giudice di ciò che è necessario alla propria autoconservazione.Si può dire, perciò, che finché non vige una legge comune, ognuno ha diritto a tutto; ma, poiché tutti hanno diritto a tutto, questi diritti entrano necessariamente in conflitto, e la conse-guenza è che gli uomini si ritrovano a vivere in uno stato permanente di conflitto dove nessun diritto è riconosciuto e garantito.

La radice più profonda del conflitto, sta proprio nel riconoscimento della fondamen-tale eguaglianza tra gli uomini che della teoria hobbesiana costituisce l’assunto di partenza: poiché gli uomini sono eguali, nessuno accetterà «naturalmente» di sotto-mettersi a un altro. E quindi il conflitto potrà nascere in ogni momento, finché gli in-dividui non avranno trovato il modo di istituire, riconoscere e affidarsi a un potere superiore comune cui obbedire.Lo stato prepolitico, o stato di natura, caratterizzato dalla mancanza di un potere su-periore comune, non può essere pertanto che uno stato di guerra di tutti contro tut-ti (stato che Hobbes indica con l’espressione latina homo homini lupus).In quanto conflittuale, lo stato di natura apporta pericolo, insicurezza e morte da cui gli individui desiderano uscire: ciò spiega una delle note ed eloquenti espressioni di Hobbes: nello stato di natura, «la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, bru-tale e breve».

C) Leleggidinatura

Sono le regole di condotta seguite da tutti e che assicurano la pacifica convivenza.La legge di natura, infatti, è «una regola generale, scoperta dalla ragione, che vieta a un uomo di fare ciò che è lesivo della sua vita»: perché qualsiasi torto nei confronti degli altri, scatenerebbe la guerra e, dunque, metterebbe a repentaglio l’autoconservazione.Nello stato di natura i comandi non sono veramente vincolanti nei confronti dei singoli.In assenza di un potere superiore, infatti, nessuno può avere garanzie del fatto che gli altri non gli faranno torto, non lo aggrediranno, non gli sottrarranno le sue cose, non lo uccideranno, non gli man-cheranno di parola: in sostanza, nessun uomo può razionalmente attenersi senza sospetto a ciò che la legge di natura gli prescrive. Anzi, per ragioni di razionale prudenza, ciascuno deve essere sem-pre pronto ad attaccare per primo, a non mantenere la parola data, a fare agli altri quei torti che deve temere da essi. Questo è l’unico comportamento razionale in una situazione dove non esiste alcun ordine pubblico e dove ognuno deve pensare in primo luogo a salvaguardare se stesso.

D) IlLeviatano

Per liberarsi da questa situazione, gli individui hanno davanti a sé una sola via d’usci-ta: stringere tra loro un patto in forza del quale ciascuno rinuncia a tutti i diritti di cui è titolare nello stato di natura e li trasferisce a un sovrano, sotto l’imperio del quale tutti potranno vivere sicuri.

La formula di questo contratto sono da Hobbes cosi esposte: «Io autorizzo e cedo il mio dirit-to di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizio-

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ne, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la mol-titudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la gene-razione di quel grande Leviatano o piuttosto di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa».

Attraverso tale «patto», quindi, gli individui istituiscono un potere sovrano, in modo da poter vivere in un ordinamento di pace e di giustizia; la legge naturale viene sosti-tuita dalla legge che il sovrano riterrà opportuno emanare.Il potere che gli individui, spogliandosi del diritto a governare se stessi, hanno confe-rito, al sovrano, rappresenta un potere assoluto in quanto, per poter esercitare le pro-prie funzioni, tale potere non può essere soggetto ai limiti di altri poteri.Tale potere trascende anche le leggi di natura sostituite dalle leggi positive, «poste» dal sovrano e in quanto tali vincolanti solo per i sudditi; il sovrano per Hobbes è a le-gibus solutus, ovvero dispensato dall’obbligo di obbedienza alle leggi (è proprio da questa espressione che deriva il termine italiano «assoluto»).Lo Stato, dunque, per il filosofo inglese prende la forma immaginifica del «Leviatano» una creatura marina biblica con il viso femminile e ricoperto di «squame» (rappresenta-ti dai cittadini che ad esso si attaccano per vincere le paure della sopraffazione degli altri individui) che governa i sudditi e mette ordine in caso di bellum omnium contra omnes.

La libertà dei sudditi in HobbesNonostante il carattere assoluto del potere sovrano, la teoria di Hobbes conserva per i sudditi un residuo margine di «giusta libertà». Per Hobbes, come per i teorici della cosiddetta libertà negativa, libertà significa essenzialmente assenza di impedimenti, e quindi vi è sempre liber-tà finché l’individuo può disporre di spazi d’azione nei quali muoversi a piacimento senza es-serne impedito: la libertà dei sudditi, dunque, si esplica in tutte quelle azioni che il sovrano omette di regolare, come per esempio «la libertà di comprare, di vendere e di fare altri contrat-ti l’uno con l’altro, di scegliere la propria dimora, il proprio cibo, il proprio modo di vita, di istruire i figli nel modo che pensano sia idoneo e di fare altre cose simili».

3. IlcontrattoliberalediJohnLocke

John Locke (1632-1704) (1) affronta i due temi centrali della scienza politica del ‘600 e sistematizza:la dottrina dei diritti naturali a quello del patto sociale, costruendo, però, una teoria dello Stato opposta a quella hobbesiana.Locke, infatti, può essere considerato infatti il fondatore del contrattualismo libera-le, in cui un ruolo centrale svolgono il tema dei diritti naturali e quello dei limiti che da tali diritti impongono al potere costituito, in particolare l’intangibilità del diritto di proprietà, il cui carattere «sacro e inviolabile» costituisce un punto fermo del li-beralismo ottocentesco.

(1) Studioso britannico nato per i suoi Escay on the Law of Nature, rimase a lungo inediti, fece parte del mon-do politico londinese finché non fuggì, accusato di cospirazione, in Francia e poi in Olanda ove scrisse i famo-si due trattati del governo e il saggio sull’intelletto umano (1690) nonché versetti scritti sulla tolleranza religiosa.

Z77L’esaltazione dell’individuo e la nascita dello Stato moderno

Ciò spiega la fortuna dei testi sulla politica di Locke in Inghilterra, in Francia (ove ha ispirato Mon-tesquieu che ha sviluppato il principio della separazione dei poteri) e negli Stati Uniti ove i suoi te-sti hanno contribuito in alcuna parte a fondare la «dottrina dei diritti dell’uomo».

A) Lostatodinatura

Nei due Trattati sul governo civile (1690) il filosofo nazionalista britannico si dedica, come tutti i contrattualisti, alla ricostruzione teorica del cammino che ha condotto l’uo-mo dall’originario stato di natura alla dimensione politica.Come Hobbes, anche Locke sostiene che lo stato originario è caratterizzato da una sostanziale uguaglianza tra gli individui.

Tale tesi risponde, tra l’altro, a un’esigenza polemica nei confronti di Robert Filmer, che nella sua opera «Il Patriarca o il potere naturale dei re», aveva sostenuto l’identità tra il potere monar-chico e il potere – di derivazione biblica – attribuito appunto al patriarca sulla propria famiglia.La tesi di Filmer costituiva un tentativo di edificare la legittimazione del potere assoluto degli Stuart basandosi sul fondamento delle Sacre Scritture.

Per Locke, come per Hobbes, non vi sono rapporti di subordinazione o di soggezione per natura e il potere monarchico non deriva né da quello divino né è assimilabile a quello paterno. Se Locke condivide col suo illustre predecessore il punto di partenza dell’eguaglianza originaria, ben diversa è la concezione che egli sviluppa sullo «stato di natura».Poiché gli uomini sono eguali e indipendenti, la ragione di ognuno afferma il precet-to secondo il quale «nessuno deve ledere gli altri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi» in netta antitesi con la legge di natura hobbesiana.La legge di natura è, come in Hobbes, la regola: «la pace e la sopravvivenza di tutto il genere umano»; dove però Locke si discosta dall’autore del Leviatano, è nella tesi per cui «la legge di na-tura è per tutti vincolante» in quanto obbliga l’individuo in modo pieno, e non solo in foro interno, come invece aveva sostenuto Hobbes.

La legge di natura in Locke è vincolante perché, anche nello stato di natura, esisto-no modi per punire i trasgressori: anche in assenza di un potere costituito che deter-mini e applichi le sanzioni, infatti, ognuno davanti alla comunità cui appartiene può punire coloro che attentanto alla legge, violando, cioè, le norme dettate dalla ragione e dalla giustizia.L’uscita dallo stato di natura attraverso il patto che dà vita allo Stato non si giustifi-ca quindi, per Locke, con l’esigenza di istituire un potere coercitivo che obblighi i singoli individui a rispettare le leggi.Tale esigenza si giustifica invece con la necessità di tutelare gli uomini dalle potenzia-lità distruttive dello «stato di guerra» che può scatenarsi da un momento all’altro poi-ché gli uomini, oltre che dalla ragione, sono spesso guidati dall’istinto e dalle passio-ni, che li pongono in conflitto tra loro.Ruolo dello Stato non è, dunque quello dell’oppressore, ma quello di un giudice im-parziale in grado di dirimere pacificamente le controversie tra i sudditi.

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Stato di natura e stato di guerra in LockeNella concezione di Locke è necessario distinguere tra stato di natura e stato di guerra.Lo stato di guerra è caratterizzato da inimicizia, malvagità, violenza e reciproco sterminio e può essere sia il risultato della degenerazione dello stato pacifico di natura, sia l’interruzione che si verifica dentro lo stato civile, quando qualcuno vuole sottometterne un altro con la forza.Lo stato di natura, invece, è uno stato di pace, benevolenza, assistenza e difesa reciproca, quando gli uomini vivono insieme secondo ragione, senza un sovrano, col potere di giudicar-si tra loro. Tuttavia, c’è sempre il rischio che lo stato di natura possa degenerare nello stato di guerra che può anche durare ininterrottamente. Per evitare ciò gli uomini devono associarsi tra loro e istituire un potere sovrano – lo Stato – e un giudice comune in grado di risolvere le controversie in modo imparziale.

B) Laproprietà

Lo Stato civile ha un’altra fondamentale funzione in Locke: la tutela del diritto di proprietà del singolo.Per Locke la proprietà rientra tra i diritti «naturali» dell’uomo, tra i diritti cioè che precedono la formazione della società politica. Anzi, l’importanza storica del liberali-smo di Locke sta proprio nell’aver stabilito uno stretto legame tra proprietà priva-ta e libertà individuale.Questo punto di vista è così «centrale» nell’ideologia di Locke che talvolta il filoso-fo denomina «proprietà» tutti quei beni che lo Stato deve assicurare all’uomo: vita, li-bertà e averi.

Su questo punto la teoria lockiana della proprietà si distingue tanto da quella di Hobbes quanto da quella di Grozio e Pufendorf.Per Hobbes la proprietà viene solo dopo l’istituzione dello Stato (nello stato di natura tutti han-no diritto a tutto); è lo Stato che decide cosa l’individuo possa considerare come sua proprie-tà privata, e nessuno se ne deve lamentare.Per Grozio e Pufendorf la proprietà è possibile anche prima dello Stato, ma a condizione che vi sia il tacito consenso degli altri uomini.Per Locke invece la proprietà privata precede lo Stato, e l’individuo la acquisisce legittimamen-te «facendo tutto da solo», cioè senza bisogno di passare per il consenso dei suoi simili.

Ma come si legittima nello stato di natura, caratterizzato da una fondamentale ugua-glianza, l’appropriazione privata di un bene che, per definizione, appartiene a tutti, cioè la terra?Sul punto l’argomentazione di Locke parte da un assunto di fondo che esalta il fatto-re umano: benché la terra sia comune a tutti gli uomini, ciascuno è proprietario della sua persona. E se l’uomo è proprietario della sua persona, è anche proprietario del pro-prio lavoro e di ciò che con esso produce.Il diritto all’appropriazione privata non è, però, illimitato. Ognuno può appropriarsi dei frutti del-la natura, tanto quanto può consumare; sarebbe contrario alla legge di natura, invece, raccogliere frutta o pescare pesce sottraendolo alla potenziale raccolta da parte di altri, per lasciarlo marcire.Lo stesso discorso vale per la proprietà della terra: «Quanto terreno un uomo zappa, semina, mi-gliora e coltiva, e di quanto può usare il prodotto, tanto è di proprietà sua.

Z79L’esaltazione dell’individuo e la nascita dello Stato moderno

Valore della produttività e valore delle risorseCon una brillante anticipazione del pensiero economico successivo, Locke introduce la nozio-ne di valore-lavoro e l’idea che la produttività individuale contribuisca, di per sé, al benesse-re comune (idea che sarà sviluppata con la teoria della «mano invisibile» da Adam Smith, pa-dre del liberismo moderno, nel suo La ricchezza delle nazioni del 1776).Chi lavora la terra, infatti, ne incrementa la produttività e quindi contribuisce all’accrescimen-to dei beni che l’umanità ha a sua disposizione. Perciò, chi si appropria della terra e ne fa un uso produttivo deve considerarsi un benemerito dell’umanità.Si può però porre ancora un’altra questione: perché il diritto all’appropriazione privata che viene dal lavoro prevale sull’originario diritto di proprietà in comune?La risposta di Locke è molto interessante: il valore dei beni è dato molto più dal lavoro che non dalla materia prima, e, quindi, chi ha impiegato il suo lavoro ha molto più diritto su un bene rispetto al proprietario della materia prima.

C) L’accumulazioneeifondamentidelliberismo

Lo stato di natura teorizzato da Locke si configura, a ben vedere, come una comunità di «coltivatori diretti», piccoli proprietari terrieri.Il tempo nel quale vive Locke è, al contrario, una realtà segnata da profonde differen-ze patrimoniali e sociali, dove la distribuzione della proprietà e della ricchezza sono tutt’altro che eque.Come si giustifica allora questa evidente differenza tra stato di natura e stato civile e, soprattutto, si tratta di una differenza legittima?La risposta per Locke è legata all’introduzione del denaro come intermediario di scambio. Finché non c’era il denaro, i beni non potevano essere più di tanto accumu-lati, dal momento che la maggior parte di essi erano deperibili. Il denaro, invece, crea le premesse di un’accumulazione illimitata: diventa possibile, per esempio, compra-re, grazie all’accumulazione, grandi estensioni di terra e poi venderne i prodotti.La legittimità di questa evidente disuguaglianza poggia sul fatto che gli uomini hanno concluso un tacito accordo circa l’uso del denaro, accordo dimostrato dal fatto che tutti accettano il denaro e lo scambiano anche se l’accettazione del denaro equivale all’accettazione del principio dell’ac-cumulazione illimitata.

È proprio in virtù della giustificazione teorica della appropriazione privata delle ri-sorse naturali e del capitalismo inteso come accumulazione illimitata e fine a se stes-sa che Locke è considerato il padre del pensiero liberale.

D)Lamonarchiacostituzionale

L’intento fondamentale per cui gli uomini si assoggettano a un governo, è la salva-guardia della loro proprietà.Ciò avviene non solo attribuendo allo Stato il ruolo di giudice imparziale, ma anche il compito di stabilire regole di condotta comuni (funzione legislativa), al fine di creare condizioni di sicurezza, benessere e prosperità dei consociati. La funzione legislativa incontra alcuni limiti invalicabili: il rispetto delle leggi di natura; il rispetto dei di-ritti inviolabili degli individui, primi fra tutti il diritto alla vita e il diritto di proprietà.

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Le diverse funzioni dello Stato, inoltre devono articolarsi in modo da impedire la pre-valenza dell’una sull’altra.La distinzione tra potere legislativo e esecutivo consente al primo di riunirsi, solo periodicamente e non in permanenza, per legiferare, mentre il secondo deve assicurare costantemente e coatti-vamente l’obbedienza dei cittadini alle leggi. Chi dispone della coazione non dispone della legge, e ad essa è anzi vincolato; chi legifera, in compenso, non ha alcun potere diretto di coazione. Il legislativo è il potere supremo, ma la coazione spetta a quello esecutivo, subordinato al primo.

Il modello di riferimento di Locke è la monarchia costituzionale inglese quale risulta dalla Gloriosa rivoluzione del 1688-89, i cui principi fondamentali sono contenuti nel Bill of Rights del 1689. In tale sistema il supremo organo di governo è il King in Parliament, ovvero il re all’in-terno del Parlamento (Camera dei Comuni), col quale condivide la responsabilità legislativa, mentre il potere giudiziario è affidato alla camera dei Lords e ai giudici.

E) Ildirittodiresistenza

In linea con la sua concezione del carattere non assoluto del potere sovrano, Locke teo-rizza, a differenza di Hobbes, il principio del diritto di resistenza da parte dei sudditi.Il diritto di resistenza si fonda sulla legge naturale, che è superiore alla stessa legge positiva.Tale diritto, tuttavia, non prevede forme di rivoluzione violenta, se non in ultima istan-za. Mancando un giudice superiore cui appellarsi nei confronti di un legislativo che lo voglia rendere schiavo, il popolo ha diritto di appellarsi al cielo, ovvero a una legge superiore alla legge positiva che lo autorizza a rovesciare quel governo che venga meno al suo mandato.La teoria del diritto di resistenza, però, incorre in alcune contraddizioni che più tardi Kant metterà meglio in risalto: non essendoci un giudice superiore in grado di dirime-re le controversie tra popolo e sovrano, col diritto di resistenza si può correre il rischio di ricadere nello stato di natura, né più né meno di quanto accade nel caso dell’eser-cizio del potere dispotico.

4.BaruchSpinoza(2)

Le premesse da cui parte l’analisi politica di Spinoza sono le stesse di Hobbes: anche per il filosofo olandese, infatti, la costruzione dello Stato deriva dalla necessità di por-re fine alla condizione di incertezza e precarietà della vita umana che caratterizza l’ori-ginario stato di natura.Le conclusioni, tuttavia, rispetto ad Hobbes sono radicalmente diverse.

(2) Olandese di famiglia ebraica, Baruch Spinoza (1632-1677) fu espulso dalla comunità israelitica di Amster-dam, dove viveva, nel 1652 in seguito all’accusa di eresia mossagli per la sua interpretazione eterodossa del-le Sacre Scritture. Per tutta la vita egli si guadagnò da vivere come levigatore di lenti per microscopi.Le opere che interessano la storia delle dottrine politiche sono il Trattato teologico-politico, pubblicato nel 1670, e il Trattato politico, rimasto incompiuto al momento della morte dell’autore.

Z81L’esaltazione dell’individuo e la nascita dello Stato moderno

A) Statodinatura,saggezzaumanaepattosociale

Lo stato di natura in Spinoza è uno stato in cui il diritto di ognuno si estende fin dove arriva la sua potenza. Ciascun individuo ha cioè pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, e in particolare a conservare se stesso e a perseguire il proprio utile nella mi-sura che la sua «potenza» gli consente.Tale concezione nasce all’interno di una visione generale, spiccatamente panteistica, secondo la quale Dio e la natura coincidono (secondo la celebre formula spinoziana «Deus sive natura»).Così come la potenza di Dio può dispiegarsi in piena libertà, altrettanto può fare la potenza della natu-ra, all’interno della quale è compreso l’uomo con il suo «carico» inscindibile di razionalità e passioni.

Si legge nel Trattato teologico-politico: «per diritto e istituto di natura io non intendo se non le regole di natura di ciascun individuo, secondo le quali noi concepiamo che ciascuna cosa è naturalmente determinata ad esistere ed operare in un certo modo: per esempio, i pesci sono determinati dalla natura a nuotare, e quelli grossi a mangiare i più piccoli; e perciò i pesci per supremo diritto naturale dispongono dell’acqua, e i grossi mangiano i più piccoli.È certo infatti che la natura ha diritto a tutto ciò che essa può, cioè che il diritto della natura si estende fino là dove si estende la potenza di essa: perché la potenza della natura è la poten-za stessa di Dio».

L’esempio dei pesci spiega la condizione umana nello stato naturale. Anche tra gli uo-mini, infatti, vige la regola che «il grosso mangia il più piccolo». In questo senso, la visione della stato naturale di Spinoza appare addirittura una radicalizzazione del homo homini lupus di Hobbes.Infatti, se gli uomini fossero tutti saggi, e vivessero tutti unicamente sotto la guida del-la ragione, ognuno eserciterebbe il suo diritto senza recare alcun danno agli altri.La saggezza, però, non è la condizione normale degli uomini: per lo più essi sono soggetti agli affetti e alle passioni, che spingono ciascuno a ricercare il proprio utile anche se questo dovesse recare danno agli altri. Anzi, in questa ricerca dell’utile cia-scuno non esita a ingannare e tradire pur di raggiungere il proprio scopo.Se gli individui permanessero nello stato di natura, essi sarebbero condannati a vivere in mezzo alle inimicizie e agli odi, a danneggiarsi gli uni con gli altri, a non poter godere di una vita tranquil-la e sicura, alla quale comunque tutti aspirano.

Ne deriva che, se gli uomini vogliono raggiungere il loro utile e la loro sicurezza, de-vono «venir fuori» dallo «stato naturale», rinunciare al diritto su tutto e cederlo alla collettività, stringendo con gli altri un patto sociale. Col patto gli individui rinuncia-no al loro diritto di natura e lo cedono alla collettività dando, così, vita ad una comu-nità politica denominata «Stato».

B) FunzionieorganizzazionedelloStato:lademocrazia

Lo Stato nasce, per Spinoza, con due compiti fondamentali: imporre le leggi e punire i trasgressori in quanto la minaccia della sanzione è la modalità più sicura per convin-cere i singoli ad astenersi dal danneggiare ingiustamente gli altri, trasgredendo la legge.

82Z Capitolo7

Ma come dev’essere organizzato lo Stato?La risposta di Spinoza segna una decisa inversione di tendenza rispetto a Hobbes. Men-tre quest’ultimo prediligeva, infatti, la forma monarchica, Spinoza sostiene invece che la miglior forma di governo è quella democratica. Nella democrazia, infatti, il diritto di cui ognuno godeva nello stato di natura non viene trasferito a un individuo partico-lare (il sovrano), ma ripartito tra tutti coloro che hanno sottoscritto il patto sociale.

L’ordinamento democratico è quello che maggiormente rispetta la libertà che la natura ha concesso a ognuno: in esso infatti «nessuno trasferisce ad altri il proprio naturale diritto in modo così definitivo da non essere poi più consultato; ma lo deferisce alla maggior parte dell’intera società, di cui è membro, e per questo motivo tutti continuano ad essere uguali come erano nel precedente stato di natura».Così formulata, la teoria di Spinoza fa coincidere la sovranità con quella che Rousseau, un secolo più tardi, richiamandosi esplicitamente al filosofo olandese, chiamerà la volontà gene-rale, cioè la volontà espressa dall’insieme degli individui che hanno sottoscritto il patto.

La contrapposizione tra assolutismo e democrazia, che caratterizza le dottrine di Hob-bes e Spinoza, si giustifica anche con le differenti realtà politiche in cui i due filosofi erano calati.Hobbes, come già sappiamo, vive la guerra civile inglese convincendosi della neces-sità di un ritorno del «potere forte» degli Stuart, mentre Spinoza vive e opera in quel-la Repubblica delle Province Unite che, ottenuta l’indipendenza dalla Spagna, si af-fermò anche a livello internazionale, grazie al protagonismo dei ceti mercantili, l’in-dipendenza dalla Chiesa e un sistema di governo relativamente rappresentativo e aper-to per i suoi tempi.

C) Revocabilitàdelpattosocialeelibertàdipensiero

Vi è anche un ulteriore aspetto per il quale la concezione di Spinoza si distingue da quella di Hobbes.Nella prospettiva spinoziana, infatti, il patto sociale, una volta sottoscritto, non è ir-revocabile. Gli uomini che lo hanno sottoscritto, lo hanno fatto per meglio garantire il proprio utile individuale; ma se la società non riesce a realizzare l’utilità comune che è il fondamento del patto, esso non ha più alcun motivo di esistere, e dunque tale accordo può anche essere cancellato e riscritto.Proprio perché la ragion d’essere del patto è la comune utilità, l’autorità sovrana che col patto viene istituita non ha potere assoluto sui sudditi: nessuno individuo, aderen-do al «patto sociale», si spoglia dei suoi diritti al punto da rinunciare a ciò che carat-terizza la sua natura di uomo. Per cui è ragionevole ammettere che ciascuno si riservi quei diritti che, di conseguenza, dipendono dalla sua volontà e non da quella di altri.La rinuncia ai diritti naturali, insomma, non può essere né totale né illimitata per-ché in contrasto con la «sacralità» di quei diritti cui l’uomo non può rinunciare senza cessare di essere tale.

Z83L’esaltazione dell’individuo e la nascita dello Stato moderno

Il primo di questi diritti inalienabili è per Spinoza la libertà di pensiero (e non la pro-prietà come affermava Locke).Lo Stato può vietare determinati modi di agire; ma non può e non deve far nulla contro la libertà di pensiero, di parola e di insegnamento (salvo nel caso estremo in cui queste costituissero un pericolo immediato per l’esistenza dello Stato stesso).Ogni cittadino ha diritto al libero esercizio della sua ragione, anche nel caso in cui dovesse servirsene per criticare le norme emanate dallo Stato; ciò che allo Stato deve interessare è il comportamento del cittadino, non le sue idee che sono intangibili.Quella di Spinoza è dunque una versione del modello contrattualista che pone l’accento sulla va-lorizzazione della forma di governo democratica e l’irrevocabile affermazione di diritti cui gli individui non potrebbero rinunciare neanche se lo volessero, perché in contrasto con la stessa na-tura umana.

Il diritto come pratica socialeLe teorie tradizionali sul fondamento dell’ordinamento giuridico del diritto cristallizzate nel tem-po si caratterizzano per una neutrale operazione conoscitiva sulla realtà giuridica che il legi-slatore, in primis, impone ai sudditi.Da ciò deriva il carattere meramente descrittivo dell’interpretazione giuridica che si limita a de-scrivere l’oggetto, e, in tal modo, il diritto, secondo Weber, si caratterizza per una sua estra-neità alla vita e ai suoi accadimenti concreti che rappresentano, invece, il «diritto vivente».Tuttavia, partendo dalla concezione di Alf Ross del diritto come «pratica sociale» o momen-to o espressione della cultura giuridica e delle ideologie normative di un determinato Paese, l’indagine del giurista si dirige verso una concezione «statica» e amorfa del diritto.Manca del tutto in tale approccio un confronto con una realtà metagiuridica che ha come fine il bene comune o interessi collettivi o volontà generale e che spinge l’interprete a valutare il di-ritto come «dover essere», frutto cioè dell’interazione tra l’agire umano e la volontà collettiva che è la più genuina espressione della comunità sovrana titolare del potere d’imperio.Secondo questa logica, le relazioni di potere e gli schemi comportamentali (es.: le prassi co-stituzionali) devono riflettere i valori e la solidarietà di norme socialmente condivise che non è più mera descrizione del diritto, ma si risolve in una stimolante proposizione di nuovi modelli d’agire di natura pratica e non teorica che si rifanno al contesto sociale globale.In questa prospettiva si può anche leggere in senso positivo la teoria di Carl Schmitt del dirit-to inteso come regola o decisione che deve discendere da un ordinamento ideale e condivi-so che esprime, con metodo persuasivo, una verità generale.La sovranità, dunque, lascia spazio all’indagine sociologica cui aspira per dar vita al «di-ritto vivente» (Ehrlich).Occorre, dunque, abbandonare qualsiasi dottrina meramente formale del diritto e ricorrendo al principio dell’effettività, aprirsi agli orientamenti politici e culturali condivisi, nonché alle di-namiche concrete dei fatti normativi al fine di mirare al conseguimento di regole giuste ed eque come fattore fondamentale di dialogo nella corretta interazione tra cittadini e Stato.Il benessere collettivo, espressione più genuina della sovranità del popolo, deve essere sem-pre considerato prioritario dinanzi a interessi di parte o di politicanti che tendono alla afferma-zione di «poteri personali» o di «casta», dimenticando che in tutti gli ordinamenti democratici la sovranità appartiene solo ed esclusivamente al popolo.

Capitolo15ZLoStatosocialeelacrisidelnuovosecolo

Sommario Z 1.LoStatosociale(WelfareState).-2.CriticaecrisidelloStatosocia-le.-3.SinistraedestradavantiallacrisidelloStatosociale.-4.Rawls,Dworkin,Nozick,Rothbard,Giddens.

1.LoStatosociale(WelfareState)

La riflessione politica del secondo dopoguerra si concentra su un problema di fondo: la connessione tra Stato sociale e cittadinanza, che implica l’affermarsi del princi-pio della necessità e dell’universalità delle prestazioni sociali indispensabili che de-vono essere erogate dallo Stato (sanità, scuola etc.) e il formarsi, su questa base, del-la cittadinanza come «valore democratico» dello «Stato sociale».A questo fenomeno sono collegati altri due:— il progressivo espandersi dei compiti dello Stato, la cui azione coinvolge l’inte-

ra vita dei cittadini senza, però, assumere l’entità, lo spirito e la pressione dello Stato totalitario;

— la possibilità di estendere la propria visione politica oltre i limiti del potere as-soluto dello Stato e la tutela dei diritti «intangibili» degli individui che, a prescin-dere dalla loro cittadinanza, condividono le stesse garanzie in relazione ad essi.

La formazione dello Stato sociale è connessa con un ampliamento dello «Stato di di-ritto» che nasce dalla Costituzione la quale riconosce a tutti gli individui i diritti di uguaglianza e libertà che, però, senza i correttivi e le regole imposte dallo «Stato so-ciale», non possono trovare effettiva applicazione.Le Costituzioni assumono, così, le dimensioni di veri e propri «contenitori» di program-mi per governare lo Stato e disciplinano la complessa rete di rapporti tra Stato e cittadini.Così, per quanto i caratteri dello Stato sociale (che esalta il terzo principio enunciato dalla rivoluzione francese: la fraternità, che oggi viene chiamata solidarietà) siano da rintracciarsi già nella politica di Bismarck (seconda metà dell’Ottocento), le costitu-zioni del ’900 sanciscono un insieme di misure che fanno parte delle politiche sociali.Si tratta dunque di un modello che tende a superare i limiti formalistici dello Stato con lo scopo di realizzare una «Great Society», sull’esempio di quella americana di Kennedy e Johnson (principio presente anche nella politica sociale del centro-sinistra italiano degli anni ’70 -’80).

Edizioni Simone - Vol. 33/5 • Compendio di Storia delle Dottrine politiche

216Z Capitolo15

A) Cittadinanzaeclassisociali

Il paradigma di questa concezione si riscontra nel sistema britannico degli anni Cin-quanta, epoca caratterizzata da un modello di politica «consociativa», a tutela dei di-ritti intangibili dell’uomo, che accomuna conservatori e progressisti.Esponente di spicco di questa concezione è T.H. Marshall (1893-1981) secondo il quale il compito fondamentale dello Stato è il riconoscimento generalizzato di tutti i principi e le norme sottesi ai diritti sociali.Ciò comporta una modifica del concetto di «cittadinanza», non solo in senso giuridi-co, ma in un significato più ampio che tende all’equiparazione dello status di tutti gli esseri umani (in ossequio soprattutto al principio di uguaglianza di fronte alla legge). In età contemporanea, infatti, scompare il concetto di status come causa genetica di disuguaglianze, anche se si è ancora lontani dalla condizione di un concetto di citta-dinanza universale completamente paritaria.La cittadinanza viene distinta in tre dimensioni: civile, politica e sociale.A ciascuna corrispondono specifici diritti fondamentali: dalla libertà di pensiero e di parola all’in-sieme dei diritti civili.Anche per quanto riguarda i diritti politici, Marshall postula una radicale estensione, mentre per i diritti sociali auspica la fondazione di istituzioni statali nuove come il sistema scolastico e i ser-vizi sociali per assicurare il benessere collettivo.Il pensiero di Marshall, comunque, non prevede una società senza classi o una generica forma di socialismo, bensì una società che legittima, nel rispetto dei diritti umani, le differenze di classe.

A questi temi si collegano quelli relativi alla «centralità» della dimensione sociale dello Stato, collegata al sorgere di una società «opulenta», con la conseguente cresci-ta del ceto medio e dei problemi legati all’integrazione tra le classi come alternativa al superamento degli antagonismi della lotta di classe (J.K. Galbraith).Sulla dimensione negativa del concetto di classe insiste, invece, Ralf Dahrendorf (1929-2009) che nota come anche nella società attuale, fatta di «arrivisti e falsi pro-feti», non si possa fare a meno di elogiare una serie di intellettuali (da Erasmo a Moro, fino ai recenti Aron, Popper e Berlin) che non si fanno «comprare» dal sistema esclu-dendo dal loro pensiero ogni forma di servilismo, dogmatismo e opportunismo per ob-bedire solo alla ragione, dignità e libertà e che consentono, a chi li rispetta, di cam-minare a «testa alta» e con la «schiena dritta».Dopo un serrato confronto con le teorie di Marx e un’analisi della società industriale (un genere di cui il «capitalismo» è solo una specie), Dahrendorf definisce la socie-tà attuale considerandola «post-capitalistica».In polemica con i teorici dell’integrazione, il pensatore rivaluta la necessità del conflit-to di classe, considerato come motore dialettico dello sviluppo sociale. Ciò, in partico-lare, presuppone una concezione dello Stato inteso come protagonista della vita eco-nomica di una nazione e non come semplice arbitro nei contrasti tra capitale e lavoro.Questa visione, implicita nelle teorie keynesiane degli anni Trenta, caratterizza le scel-te di politica economica degli Stati occidentali.

Z217 Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo

B) Lecriticheliberalieconservatrici

Tutte queste teorie confermano la teoria di Daniel Bell (1919-2011) secondo cui la po-litica del secondo dopoguerra è segnata dalla fine delle ideologie e dall’abbandono del marxismo a favore delle istanze liberaldemocratiche e rivaluta l’individualismo me-todologico del singolo e le sue opinioni motivanti dinnanzi al «sistema».La riqualificazione del liberalismo emerge nella riflessione di Friederich August von Hayek (1899-1992) che, ignorando gli eventi del 1929, anticipa le critiche di stampo neoliberale mosse allo Stato sociale e propugna una politica liberista ispirata al laissez faire come garanzia di fronte al proliferare di nuove ideologie e totalitarismi (1).La giustizia sociale per il filosofo viennese, noto avversario di Keynes, deve essere considerata un miraggio e deve essere sostituita da una complessiva riforma della liberaldemocrazia che deve ripristinare la sovranità del diritto e le regole spontanee che governano il mercato.Lo «Stato sociale» rappresenta un blocco al dinamismo della società e il momento iniziale di una burocratizzazione ipertrofica. La concezione di Hayek si regge sul presupposto della superiorità del mercato su ogni altra forma di meccanismo sociale. Se è vero che la casualità delle regole del mercato genera disuguaglianza, è anche vero che proprio il fatto che le sue regole non siano predeterminate rende possibile che la disuguaglianza non colpisca un insieme determinato di per-sone. Proprio perché non risponde a una intenzione, ma a una dinamica impersonale, la disugua-glianza, generata dal mercato, non è ingiusta.

Il pensiero di von Hayek riassume tutte le forme di neoconservatorismo del Nove-cento (e anche quella di Augusto Del Noce), cioè di quelle linee di pensiero che ve-dono nello Stato sociale il frutto del dissolvimento di valori etici della libertà econo-mica, criticando dalle fondamenta il pensiero socialista, malato di «costruttivismo» che consiste nell’autorizzata pianificazione dell’attività economica e sociale dello Stato.L’alternativa non è però la proposta di un nuovo insieme di valori, ma una riflessione sul concetto di autorità ancorata a presupposti metafisici o, più in generale, sostan-ziali.Centrale in queste linee di pensiero fortemente neo-conservatrici è il rischio che lo Stato sociale possa dare spazio a quel dispotismo della maggioranza teorizzato da Tocqueville.Dal punto di vista politico von Hayek sostiene la cd. «demarchia» cioè una forma di governo affidato a due assemblee, una legislativa e l’altra governativa, che regolino l’ordinamento.Più genericamente si parla, cioè, del tramonto del senso di responsabilità (Riesmann), del livellamento conformistico dei comportamenti individuali (Schelsky), dell’affer-marsi della tecnocrazia (Freyer, Heidegger), fino a giungere a un gruppo di teorie re-lative alla decomposizione dello Stato (Fohrsthoff, Gehlen).

(1) Grave difetto dello Stato sociale è il fatto che il suo operato subordina l’individuo a un insieme di norme astratte (e fortemente connotate sul piano etico e politico) sulle quali non è mai possibile raggiungere un accor-do unanime. Ogni teoria della pianificazione e del bene comune per von Hayek cela in realtà un insieme di in-teressi particolari e tende a conseguire e conservare posizioni di privilegio.

218Z Capitolo15

C) Lecritichedisinistradeglianni’60

Negli anni che seguono la fine della guerra il boom economico allontanò ancora di più l’Europa dal socialismo: nacquero diverse forme sociali, formate prevalentemente dal «ceto medio» che non si identificarono con le istanze del socialismo.Sebbene la questione sociale fosse rimasta ancora «viva», il persistere delle disugua-glianze venne risolto attraverso un patto sociale tra Stato e cittadini.Si affermò, così, una forma di economia mista (disciplinata dalla Costituzione Re-pubblicana agli artt. 41-54) nella quale coesistono imprenditori pubblici (nelle indu-strie di base) e privati (nelle industrie satelliti), che rappresentano un compromesso tra capitalismo e teorie socialiste, sostenute anche (ma non solo) da partiti di sinistra che in alcuni Stati (Italia, Francia) costituiscono forze di opposizione, che come tali, non contribuirono attivamente a determinare il corso politico, economico e sociale dello Stato.

L’idea «socialista» perde adepti nei Paesi occidentali in seguito al degenerare della «dittatura del proletariato» dell’Unione Sovietica, dove permase una forma di totalitarismo sancita dalla re-pressione della rivolta ungherese del 1956.La cd. «dittatura del proletariato» che non è mai riuscita a conseguire integralmente il «proget-to comunista» mette in luce il disagio globale (di destra e sinistra) della società bellica. Tale disa-gio si riscontra in Jean Paul Sartre (1905-1980).Sebbene il marxismo venga assunto da Sartre in una fase iniziale del suo pensiero come esem-pio di rivoluzione permanente a livello politico le sue posizioni sono critiche nei confronti del «presunto» comunismo, sia di stampo sovietico, sia di quello del partito comunista francese.In una direzione diversa agiscono le critiche di O. Kirchheimer che, ispirandosi alle teorie della Scuola di Francoforte, sottolinea come il vero fattore di integrazione nella società contemporanea sia il consumo e considera il lavoro non come espressione di un valore ma come condizione che lo allontana da qualsiasi forma di struttura collettiva (Stato, cittadinanza, sindacato).

D)L’Italia

La politica italiana degli anni Sessanta è fortemente influenzata dalle teorie socialiste che si affermano nel movimento operaio.Si tratta di teorie che non si arrestano alla sola critica del mondo capitalistico, ma ten-dono a mostrare in positivo come, nel quadro delle società capitalistiche, il movimento operaio abbia sempre assunto una funzione dinamica tesa a rallentare lo scoppio del-le contraddizioni dell’età borghese preconizzate da Marx, grazie a una accorta politi-ca sociale e di tutela di lavoratori (v., ad esempio, lo «Statuto dei lavoratori» del ’70).

E) LaGermania(lafilosofiadelfuturodiBloch)

Particolarmente importante è la componente utopistica del marxismo, che si sviluppa nella filosofia tedesca e fa capo al pensatore, di origine ebraica, Ernst Bloch (1885-1977) concentrato a individuare la matrice teologica della carica rivoluzionaria im-plicita nel marxismo considerato una filosofia rivolta al futuro che, invece di contem-plare il mondo, cerca di trasformarlo.

Z219 Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo

Nella società attuale sono presenti le condizioni che esprimono una concezione otti-mistica del futuro, in contrapposizione al momento attuale che ricerca la sola verità per cui l’individuo deve imparare a sperare (così fu per Eraclito, nell’eros platonico e nella «potenza» insita nella materia di Aristotele).Questo, in sintesi, è ciò che Bloch definisce «Principio di speranza» asserendo che dove c’è speranza, c’è religione.Su questo stesso fronte, ma critico nei confronti di Bloch, si muove Hans Jonas (1903-1993) che, nel corso della riflessione sullo sviluppo tecnico e sul principio di respon-sabilità collettiva, tenta di rivalutare la storicità concreta dell’essere umano in alter-nativa all’utopia di Bloch.

F) LaFranciaeilterzomondo

Una svolta per la cultura marxista è l’avvento dello strutturalismo e il confronto con la psicanalisi.Una sintesi di questi orientamenti è data da Luis Althusser (1918-1990) il quale pun-ta su una rifondazione del materialismo storico inteso come concezione scientifica, che si afferma dopo la cesura epistemologica operata da Marx nei confronti dell’uma-nesimo e dell’hegelismo.Per il filosofo di origine algerina la principale distinzione non è tra «scienza borghese» e «scienza proletaria», ma tra scienza e ideologia: l’ideologia marxista, per Althus-ser, è antiumanistica (il capitale e non l’uomo, è il vero protagonista del marxismo).Il rifiuto di un’interpretazione umanista del marxismo privilegia l’indagine di certe di-namiche sociali indipendenti dai soggetti che le incarnano e, dunque, dei rapporti di sfruttamento, di produzione etc. (che costituivano il nocciolo della riflessione matura di Marx) e che sono le «strutture» che muovono il mondo (questo, in sintesi, è lo spi-rito dello Strutturalismo).Un ultimo gruppo di critiche allo Stato sociale riguarda il cosiddetto Terzo mondo sfruttato dai Paesi «democratici» e «capitalisti» sulla base dei concetti di sviluppo e sottosviluppo, dipendenza e scambio ineguale (soprattutto nei Paesi monoculturali, come Cuba, concentrata nella prevalente produzione di canna da zucchero).

G)Lageopolitica,leorganizzazioniinterregionali,regionalieilproblemadellaguerra

La condizione politica del dopoguerra (1945) segna la fine della moderna concezione del diritto internazionale considerato come «interazione» paritaria tra Stati sovrani.Questa concezione è già presente in Kelsen, ma l’avvento della guerra fredda e il con-seguente ordine mondiale bipolare (cd. mondo diviso in due blocchi) nel pensiero del maestro viennese inaugura un nuovo tipo di rapporti di equilibrio tra macrosfere di in-fluenza determinate da un punto di vista politico e geografico.Questa contrapposizione stimola, tra l’altro, la formazione di un organismo sovrana-zionale europeo (Le Comunità europee oggi sostituite dall’«Unione europea») e di altre organizzazioni regionali mondiali che aggregano diversi soggetti politici limitro-

220Z Capitolo15

fi per favorire, in primis, gli scambi per poi aprirsi all’integrazione politica (esempio: il MERCOSUR nell’America latina).Si tratta di concezioni derivanti dall’idea di «federalismo europeo» che si rifà a Lui-gi Einaudi (1874-1961) che si concentrano maggiormente sul problema della crisi dello Stato sovrano, al quale viene sostituita una visione della società come sistema complesso, multinazionale e globale.Queste concezioni vengono ulteriormente consolidate dalla riflessone di Jean Mon-net che propone la formazione su scala continentale di istituzioni che, inizialmente prive di valore politico, presentano però una forte connotazione tecnica e controllano, con l’adozione di una politica economica comune degli Stati membri, alcuni settori strategici (esempio: siderurgia, sviluppo delle centrali atomiche etc.) più rilevanti nel contesto «europeo».In questo periodo, oltre al tramonto del colonialismo si deve segnalare un radicale mutamento del-la concezione della guerra.Prerogativa di una sola nazione dominante (gli USA), la guerra si sgancia da motivazioni reali e as-sume diversi significati e ruoli, come guerra di contenimento, guerra preventiva, azione di polizia in-ternazionale nei confronti di un nuovo nemico globale: il comunismo sovietico, cinese e cubano.La riflessione sulla geopolitica, che trova il suo capostipite in Schmitt, diviene con Raymond Aron (1905-1983) motivo di comprensione storica delle radici culturali dell’Europa, dell’avvento dei to-talitarismi e dell’affermazione del modello pluralistico-costituzionale rappresentato, in primis, dagli USA.La formulazione di un’«etica della saggezza» improntata alla moderazione e alla prudenza con-duce Aron alla concezione secondo la quale «la pace è impossibile, ma la guerra è improbabile».La guerra, cioè, è uno strumento della politica considerata l’unica via per limitare la distruzione re-ciproca che potrebbe scaturire dallo scoppio di una guerra atomica totale.

L’apocalisse nucleare che avrebbe potuto coinvolgere, in primis Usa, URSS e Cina co-munista, ha condizionato le riflessioni filosofiche-politiche della seconda metà del Nove-cento e in particolare quella di Gunther Anders (1902-1992) che vede nella «minaccia atomica» lo strumento per l’aprirsi di un territorio sconosciuto della nostra esistenza.L’uomo, liberatosi dalle potenze arcane e delle suggestioni mitologiche, fa oggi l’espe-rienza di sentirsi onnipotente, considerando sé stesso il «creatore» o «distruttore» del mondo. Ma alla potenza positiva della creazione si sostituisce la potestas annihilatio-nis (il potere dell’annichilazione) che si concentra nelle mani di coloro che posseggo-no i mezzi potenzialmente in grado di scatenare una guerra atomica, biologica e chi-mica.

A queste riflessioni si accompagnano altri importanti fattori e correnti di pensiero che condizionano l’esistenza dell’uomo attuale:— il sorgere dell’ecologismo, del pacifismo e dei movimenti antinucleari, che si ac-

compagna alla politica del disarmo progressivo delle grandi potenze atomiche all’insegna del principio universalmente riconosciuto della coesistenza pacifica;

— la formulazione della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’ONU nel 1948, in cui si condanna severamente la guerra atomica e si rivalu-tano i diritti (con la dichiarazione United for peace) del singolo dinnanzi allo Stato;

Z221 Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo

— un rinnovamento dei principi della Chiesa cattolica (Concilio Vaticano II) che in-crementa la sua funzione sociale abbandonando la sua «neutralità politica» e in-tervenendo fattivamente nel processo di «decolonizzazione dei Paesi del terzo mon-do».

2.CriticaecrisidelloStatosociale

Gli anni Sessanta, stagione di grandi esperienze politiche, non possono essere consi-derati un periodo «di pace».Pur attenuandosi la tensione politica e militare tra Est e Ovest è stato inevitabile il sor-gere di nuove contraddizioni, sia all’interno dei singoli Stati, sia all’interno dei gran-di blocchi geopolitici.In questi anni matura la situazione politica che aprirà successivamente il nuovo mil-lennio.

A) Decolonizzazioneeimperialismo

Uno dei fenomeni più significativi della politica internazionale è rappresentata dalla decolonizzazione, promossa dal movimento dei Paesi non allineati capeggiati dalla ex Jugoslavia del defunto presidente Tito, che prende vita nella Conferenza interna-zionale di Bandung.Tra il 1945 e il 1983 questo processo causa lo scoppio di numerose guerre civili.

Le più importanti varianti teoriche che si diffondono nei Paesi del terzo mondo sono:— la teoria della négritude del senegalese L.S. Senghor;— quella del panafricanismo del ghanese K. Nkrumah;— la dottrina della non violenza di M.K. Gandhi.

Queste concezioni non possono essere ridotte alla mera riscoperta di tradizioni ance-strali, ma si contrappongono alla crescente «occidentalizzazione» del mondo rispon-dendo al «nuovo» con la valorizzazione di elementi tradizionali all’interno di proget-ti politici di sviluppo le cui caratteristiche, senza correttivi adeguati, si dimostrano inattuabili nei Paesi del Terzo Mondo.Si noti che quello che viene definito «Terzo Mondo» riguarda un insieme diversificato di territori in cui le situazioni politiche, economiche e sociali sono eterogenee e nei confronti delle quali non può essere adottata una soluzione politica unitaria per la riuscita della cooperazione internazio-nale e lo sviluppo.

Momenti topici di quest’epoca possono essere considerati:1) La decolonizzazione in Africa. Una delle più significative contraddizioni interne

alla politica nei Paesi del Terzo Mondo è relativa alla impossibilità di esportazio-ne tout court del sistema di valori occidentale in alcuni Paesi arretrati come quel-li dell’Africa Nera.

222Z Capitolo15

Indicativo in questo senso è il pensiero di F. Fanon, che propone una teoria della liberazione dei colonizzatori attraverso la violenza, compresa la liberazione, dagli stereotipi propri dell’im-magine dei popoli colonizzati, in favore della restaurazione di una presunta autenticità tri-bale africana.

Ispirandosi alla dialettica «servo e padrone» di Hegel, Fanon ritiene che le colonie sono do-minate da una radicale asimmetria, che trova il suo apice nei concetti di razzismo e apar-theid in Sudafrica e in Zimbawe (ex Rodesia del Sud).

Il sistema coloniale viene meno una volta che si afferma a livello planetario il principio di uguaglianza, per cui il colonizzato comprende che la sua vita e i suoi diritti non possono es-sere diversi di quella di chi lo colonizza.

L’irruzione nella storia della parità di diritti naturali tra dominatori e dominati innesca il pro-cesso di decolonizzazione che smaschera la fallace tendenza di processo graduale di am-modernamento orchestrato dalle potenze colonizzatrici, mettendo in luce la prosecuzione in forme diverse di un rapporto di dominio degli Stati occidentali nei territori delle ex-colonie.

La soggettività dei dominati è la spinta delle aspirazioni nazionali che fungono da «Starter» della lotta per l’indipendenza.

2) L’ascesa della Cina. La funzione delle masse rurali, e più in generale della mas-sa popolare, accomuna anche la visione della decolonizzazione che maturano in estremo oriente.

Di stampo marxista, tali teorie possono essere sintetizzate con l’immagine della campagna che accerchia la città, secondo la riflessione del dirigente comunista ci-nese Lin Piao (1907-1971) e di Mao Zedong (1893-1976).

L’intervento attivo delle masse, la «rivoluzione culturale» e una graduale tenden-za alla «tecnicizzazione dell’amministrazione» rappresentavano i caratteri fondan-ti della Repubblica Popolare Cinese, nata nel 1949.

Dal punto di vista politico il pensiero di Mao, leader storico della Cina Comunista, presenta tre caratteristiche:

1) il primato del politico; 2) la linea della massa; 3) la centralità delle zone di campagna nel processo rivoluzionario.

Questi elementi portano alla realizzazione del marxismo in una società che ver-sava in una condizione molto diversa da quella ipotizzata da Marx. Centrali sono in questo senso anche la funzione del singolo individuo della rivoluzione e l’uso dell’inchiesta sulle trasformazioni che intervengono nella struttura sociale ci-nese.

3) La decolonizzazione come momento di affermazione dei diritti intangibili dei popoli. L’esperienza cinese indica una linea di tendenza che tende a valorizzare il concetto di popolo che precorre il processo di decolonizzazione di alcuni paesi del Medioriente (es. l’Egitto di Gamal Abdel Nasser) o del Sudamerica (es. il populi-smo giustizialista di J.D. Peron in Argentina), o ancora dell’estremo oriente (il Vietnam di Ho Chi Minh) in cui il consenso del popolo (comunque raggiunto) rap-presenta un momento fondamentale della vita politica.

Z223 Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo

A questi movimenti si affiancano anche quelle concezioni filo-marxiste che considerano la de-colonizzazione come il prodotto di una guerra di popolo, come nel caso della «guerra di guerriglia» condotta da Ernesto «Che» Guevara. La sua visione politica (sintetizzata nell’espressione«patria o morte») dimostra sul campo la possibilità che le forze popolari pos-sano sconfiggere gli eserciti regolari (più attrezzati, ma meno motivati al combattimento) e che la rivoluzione può essere portata a termine anche quando non siano ancora mature le condi-zioni. Il «teatro» di scontro rivoluzionario in America Latina è definito fochismo e abbraccia quell’insieme di dottrine che verranno successivamente applicate in molte esperienze di guer-riglia nel Sudamerica.

B) Larivoluzioneinoccidente

1) Il Sessantotto. I conflitti del Terzo mondo, e in particolare quello del Vietnam av-venuto fra il 1964 e 1969 (conclusasi con una clamorosa disfatta dell’imbattuto esercito degli Stati Uniti) condizionano la situazione politica dell’occidente non solo per la crescente quantità dei movimenti pacifisti sorti dapprima in USA e poi nel resto del mondo occidentale contro la guerra di oppressione perpetrata nel Viet-Nam, ma anche perché i conflitti scoppiati nelle diverse parti del mondo radicaliz-zano la contrapposizione tra mondo capitalista e mondo comunista.

In questa nuova dimensione globale si spiega il fenomeno complesso del Sessantotto. Al di là delle diverse chiavi interpretative di questa esperienza cruciale per l’età contempora-

nea, infatti, i movimenti che nascono alla fine degli anni Sessanta hanno come punto in co-mune la critica al bipolarismo USA-URSS, e, come conseguenza, la messa in discussione della concettualità della politica e in particolare dei concetti di potere e di soggetto.

Questi sono i tratti rintracciabili nella rivolta studentesca, nella ripresa delle lotte operaie, nel-la critica alla società del benessere e al modello della produzione di massa.

I presupposti filosofici e culturali che accompagnano questi fenomeni sono riscontrabili non solo nell’ortodossia marxista, che torna nuovamente di attualità per il suo potenziale critico, ma anche nelle teorie critiche della Scuola di Francoforte (e in particolare quelle di Marcu-se), oltre che allo sviluppo della psicanalisi, intesa come strumento per reagire alla repres-sione della sessualità e al ruolo conservatore del «costume» della società borghese.

L’analisi di Marcuse (vedi ante), soprattutto nella celebre opera L’uomo a una dimensione, critica la tendenza totalitaria della società capitalistica che fagocita la libertà e i desideri indi-viduali a favore di una presunta superiorità della tecnocrazia.

2) Foucault. Su un piano parallelo, anche se diverso, si pone il pensiero del francese Michel Foucault (1926-1984). Nel clima di crescente diffusione dello struttura-lismo, (vedi ante) Foucault focalizza la sua attenzione sui processi di «soggettiva-zione del soggetto». La soggettività non è una funzione naturale, per così dire in-nata del soggetto, ma il risultato di dinamiche che si evidenziano in rapporti di sa-pere e di potere determinati.

Nella Storia della follia, ad esempio Foucault mostra come la ragione, per costruire la propria identità, avesse avuto bisogno di costruire anche il suo altro da sé: il pazzo, che, al contra-rio, in età contemporanea viene considerato un «malato di mente», entità «dissociata» costrui-ta dal dispositivo di oggettivazione della scienza medica.

Questa «archeologia delle scienze umane» mette a nudo l’impianto antiumanistico del pen-siero di Foucault che, tuttavia, non perde di vista la questione del soggetto. Anzi, l’esperien-

224Z Capitolo15

za del Sessantotto mostra come ogni aspetto della vita quotidiana abbia la sua valenza poli-tica, essendo, cioè, riconducibile a rapporti con le strutture di potere.

Foucault afferma l’esistenza di un mezzo indissolubile tra forme del sapere e diagramma del potere che solleva l’esigenza di operare un’anatomia della politica, che metta in luce come quest’ultima non sia riducibile alla dialettica marxista tra struttura e sovrastruttura, ma una microfisica del potere che mostri come gli autentici luoghi dell’esercizio del potere si sottraggano alla sfera pubblica della cultura, ma vadano rintracciati nelle istituzioni tecniche (fabbriche, caserme, scuole, ospedali, prigioni, etc.) e nei saperi che sono loro connessi.

Dalla stretta relazione tra forme di sapere e rapporti di potere deriva la regressione dei con-cetti di sovranità e consenso in quelli di dominazione e assoggettamento, mentre l’obiet-tivo della conquista del potere diviene resistenza all’antagonista che delle «relazioni di pote-re» è membro ineliminabile.

Foucault, infine, concepisce negli ultimi anni della sua riflessione il concetto di biopolitica che met-te a nudo la suddivisione tra governanti e governati, proponendo una visione della cittadinanza come «corpo della popolazione», nei confronti della quale la politica esercita una funzione di re-golazione il cui fine ultimo è di «lasciar vivere o lasciar morire il corpo stesso» (v. cap. seguente).

3) Il femminismo. Il pensiero di Foucault sulla dimensione politica del quotidiano rap-presenta una prospettiva feconda per lo sviluppo di movimenti a tutela delle minoran-ze e dei soggetti biologicamente più deboli, e, su tutti, del movimento femminista.

La dominazione di genere viene vista come lo sfondo delle grandi «narrazioni fi-losofico-politiche», dei rapporti sociali e interpersonali, che devono essere messi in discussione nella misura in cui pretendono di stabilire, una volta per tutte, i con-fini e i limiti della politica.

La critica femminista apre un confronto tra uguaglianza e differenza. Il compimento dell’idea moderna di uguaglianza, infatti, deve essere cercato nella legittimazione di una differenza che non può essere assorbita da un modello che pone una visione esclusivamente maschilista.

In questa direzione sono significative le riflessioni di Betty Friedan, di Simone de Bouvoir e, in anni recenti, di Luce Irigaray, che accusa Freud di aver rimosso «l’assassinio della don-na-madre dalla scena del parricidio fondatore della civiltà».

Il pensiero «al femminile» della differenza deve essere contrapposto a quello essenzialmen-te maschile della identità.

Più in generale gli sviluppi del pensiero femminista hanno dato un forte impulso ai gender studies, che mostrano il forte l’impatto della cultura femminista in tutti i campi del sapere.

4) I movimenti afro-americani. Sempre dal Sessantotto, e a partire da una riflessio-ne sull’uguaglianza come pensiero della differenza, prendono le mosse le prote-ste afroamericane dei «neri» in America.

Dopo l’assassinio di Martin Luther King (1968) le rivolte dei neri d’America di-lagano a macchia d’olio e anche la pratica della protesta non violenta, da lui teo-rizzata, viene duramente repressa dalla istituzioni pubbliche americane.

Per M.L. King la restituzione dei diritti fondamentali agli afroamericani non costi-tuisce la conseguenza spontanea del processo di integrazione, ma la risultante di un più profondo mivimento (a diversi livelli) di ricostruzione dell’intera società.

Più radicali sono figure come quello di Malcolm X e di M. Gervey, che arrivano a stabilire una interrelazione tra capitalismo e razzismo da una parte, e socialismo, superiorità razziale dei neri e restaurazione islamica dall’altra.

Z225 Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo

L’idea della conquista di un potere autonomo da parte degli afroamericani (black power) coin-cide infine con la formazione del Partito della Pantera Nera, che degenera successivamen-te in movimenti terroristici alcuni dei quali probabilmente «provocati» ed «enfatizzati» dagli stessi sistemi capitalisti.

C) Dirittoallosviluppoindividualeecollettivo

Il «diritto allo sviluppo» costituisce un nuovo «diritto individuale» recentemente ri-feribile agli esseri umani considerati nella loro individualità nel rispetto del princi-pio di non discriminazione.La Dichiarazione sul diritto allo sviluppo del 1986 emanata, nell’ambito della politica delle Na-zioni Unite, attribuisce ad esso una dimensione anche collettiva: l’art. 1, infatti, riconosce il di-ritto allo sviluppo come «diritto inalienabile dell’uomo in virtù del quale … tutti i popoli hanno il di-ritto di partecipare e di contribuire ad uno sviluppo economico, sociale, culturale e politico» (par. 1), [ed afferma che il suo godimento] «presuppone altresì la piena realizzazione del diritto dei popoli all’autodeterminazione, che comprende … l’esercizio del loro diritto inalienabile alla pie-na sovranità su ogni loro ricchezza e risorsa naturale» (par. 2); [ancora, il successivo art. 2, par. 2 pone in capo a tutti gli esseri umani] la responsabilità dello sviluppo su un piano sia individua-le, sia collettivo.

L’affermazione di «avanzati» e «intangibili» principi, però, non deve indurre a ritene-re che il diritto allo sviluppo sia un diritto collettivo tout court, la cui titolarità è pie-namente riconosciuta a tutti i popoli, ma la sua dimensione collettiva va più corretta-mente circoscritta al fatto che i popoli sono allo stesso tempo:— beneficiari dello sviluppo, nella misura in cui il «diritto allo sviluppo», garantito

al singolo individuo attraverso la promozione dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali, possa generare ricadute positive sull’intera collettività e non fa-vorisce solo le classi al potere;

— attori dello sviluppo, essendo titolari del diritto di disporre delle proprie ricchez-ze e risorse naturali corollario del più ampio diritto all’autodeterminazione.

Anche il problema dell’ambiente affonda le radici nel passato. Non è solo Rousseau a identi-ficare per primo la «stato di natura» definendolo l’ambiente ove vive l’uomo che non necessi-ta della madiazione di niente e di nessuno, in quanto consente a ciascuno di vivere di pesca e di caccia senza affannarsi in accumulazioni di nessun genere.Anche Marx vede nell’accumulazione capitalistica una forma di distruzione della «natura» che il comunismo deve ristabilire.Così Heiddeger critica lo Stato, colpevole, principalmente della creazione di grandi infrastrut-ture, esercitando una forma di violenza alla natura e all’ambiente.La critica dell’ideologia della crescita, che coincide con la messa in evidenza delle debolezze dello Stato sociale si trasforma in critica alle idee di sviluppo e di progresso, in dibattito sul rap-porto tra uomo e natura, nella definizione delle strategie per tutelare l’ecosistema di fronte alla spregiudicata manipolazione tecnica e aggressione ecologica della terra soprattutto da parte dei Paesi industrializzati.Tutti questi temi sono legati alla definizione dei limiti dello sviluppo economico e tecnolo-gico, alla riflessione sulla catastrofe ecologica alla quale va senza indugi posto un argine pri-ma che da essa daranno conseguenze negative e irriversibili per il pianeta.

226Z Capitolo15

Secondo B. Commoner, all’attuale età dello «spreco» seguirà un’età di crescita zero.L’uomo, dunque, è allo stesso tempo protagonista e vittima delle «violenze ambientali» de-nunciate anche dalla scienza e dalla religione (in primis, buddismo e induismo). Oggi, pertan-to, nelle varie legislazioni nazionali e Convenzioni internazionali il «diritto all’ambiente» e «alla difesa del territorio» rientra tra i diritti primari, insopprimibili, naturali, imprescrittibili a tutela dell’individuo e della comunità planetaria.

3.SinistraedestradavantiallacrisidelloStatosociale

A) Caratterigenerali

Nel 1973 si assiste a una grave crisi petrolifera che pone fine all’espansione econo-mica dell’epoca post-bellica (1946-1973).Prende, così, il via una fase di incertezza economica, politica e sociale che, come det-to, trova nel Sessantotto uno dei suoi momenti topici.L’istituzione che va in crisi per prima è quella dello Stato assistenziale, vittima delle contraddizioni nate dall’accumulazione propria del capitalismo e le sue istanze di le-gittimazione filosofica, economica e ideologica.Secondo l’economista J. O’Connor tale contraddizione culmina nell’affermarsi nel-le masse popolari di una nuova consapevolezza dei propri diritti e, soprattutto, del di-ritto alla sopravvivenza materiale che si unisce alla rivendicazione dei diritti delle donne e delle categorie più deboli, e alle lotte delle minoranze e dei vari gruppi di op-posizione.Diviene così improcrastinabile l’adozione di nuove politiche sociali che mirano a una più equa redistribuzione della ricchezza e della spesa pubblica.L’aumento della pressione fiscale non è, infatti, sufficiente a risollevare, da sola, la situazione economica di un Paese, per cui ritorna di attualità una prospettiva di orga-nizzazione di tipo socialista dello Stato.

B) L’Italia

La discussione marxista sullo Stato interessa in particolare l’Italia, teatro di una forte conflittualità sociale caratterizzata da un forte aumento del terrorismo di matrice non chiara, che vede i cd. «poteri deviati dello Stato» vestire poco credibilmente i panni sia della sinistra che della destra extraparlamentare.Sul piano politico, la situazione italiana assiste a una irreversibile spaccatura tra il par-tito comunista e la sinistra extraparlamentare, tra «Eurocomunismo» sostenuto da En-rico Berlinguer e le posizioni più intransigenti dei gruppi del «Manifesto» e di «Lotta Continua» e altre formazioni extraparlamentari.Sul fronte della critica al marxismo si assiste alla discussione sulla valenza politica delle teorie di Marx da parte di Norberto Bobbio (1909-2004) vicino al normativismo di Kelsen. Come Bobbio, anche Mario Tronti (1931) sostiene la separazione tra la sfera della politica e quella dello sviluppo del mondo operaio.

Z227 Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo

In alternativa a questa concezione si pone la riflessione di Antonio Negri che indivi-dua nel «farsi Stato della classe operaia», un processo che costituisce il filo rosso del-la politica del Novecento e anche il motivo dominante della crisi dello Stato contem-poraneo.La crisi di quest’ultimo deve essere evidenziata attraverso un’enfatizzazione dell’an-tagonismo proletario che, ponendosi come entità autonoma, tenta di gettare le basi per una nuova rivoluzione di stampo marxista.

Superamento del principio di rappresentanza politica e «invenzioni» del «governo tecnico»

Alla fine del 2011 in Italia, i maggiori partiti di destra e di sinistra hanno «inventato» un’anoma-la forma di governo non rappresentativo che fosse in grado di imporre alla nazione, per risa-nare il bilancio pubblico, una serie di sacrifici e di scelte politiche «impopolari» (che avrebbe-ro ridimensionato il consenso e i voti di un governo politico che li avesse adottati) per traghet-tare il Paese nel periodo di crisi e poi riconsegnarlo all’elettorato alla scadenza naturale delle Camere (primavera 2013).È così è sorto dal nulla il salvifico, quanto impopolare, «Governo Monti».Il triennio del Governo Berlusconi IV (2008-2011) ha portato avanti una politica disorganica e confusa che, complice anche la grave crisi mondiale dell’economia, ha trascinato l’Italia nel ba-ratro sia a livello interno che internazionale.Così, il capo del governo in carica, prima di arrivare al «voto di sfiducia» ha «passato la mano», con la complicità di parte delle minoranze, ed ha favorito la nascita di un «governo tecnico» guidato da Mario Monti e affidato a Ministri potenzialmente dotati di capacità ade-guate e di conclamate competenze specialistiche per governare il Paese.

A prescindere da ogni considerazione di merito sulla legittimità «costituzionale» di un governo tecnico, tale governo «atipico» (già in passato sperimentato col governo Dini) suscita diver-se perplessità:

— sia perché non rappresenta il popolo, ma è l’espressione di un non chiaro compromesso tra le forze politiche che, dovendo ricorrere all’adozione di misure impopolari, per non per-dere una parte del proprio elettorato, demandano «a terzi» la responsabilità di scelte poli-tiche inevitabilmente dolorose, ma necessarie;

— sia perché un siffatto governo, voluto fortemente dal Capo dello Stato e da lui «sponsoriz-zato» (anche preceduto da una inaspettata nomina a Monti a senatore a vita), può riporta-re l’Italia a una forma di parlamentarismo dualistico. Tale forma di governo, tipico della mo-narchia costituzionale pura, ammette la possibilità che il Presidente della Repubblica pos-sa imporre (e non suggerire) la nomina del primo ministro assumendo in tal modo la veste di organo politico (che mal si concilia con il nostro sistema parlamentare che prevede una figura presidenziale «neutrale» in considerazione anche del fatto che allo stesso Capo del-lo Stato è riconosciuto il potere di sciogliere le Camere).

Se tale situazione di «emergenza» dovesse trasformarsi in prassi consolidata, per l’accumulo di poteri determinatosi nelle mani del Capo dello Stato, si instaurerebbe un super-presiden-zialismo (espediente pericoloso), che potrebbe aprire le porte anche a forme più o meno la-tenti di dittatura.

C) Lematricineoconservatricieneoliberistedelmondoanglosassone

Con la caduta dell’«impero sovietico» il dibattito sulla «politica» si allontana dalla ri-flessione sul marxismo e si riscontra nella cultura mondiale e occidentale l’affermar-si di dottrine economiche e politiche di matrice neoconservatrici e neoliberiste.

228Z Capitolo15

Proprio la crisi economica nei principali Paesi del mondo consente ai «liberisti» di mettere in luce le insufficienze del Welfare State e di proporre soluzioni diverse e al-ternative.La spirale dell’ingovernabilità che mina le basi dello Stato sociale, e che viene riscontrata da Cro-zier, Huntington e Watanuki nel rapporto sulla governabilità delle democrazie alla commissio-ne trilaterale (1975), può essere evitata attraverso un ridimensionamento dei compiti dello Stato sociale, una contrazione della sua azione entro i suoi limiti strutturali e tramite un nuovo impulso all’economia di mercato attraverso l’introduzione di criteri di differenziazione sociale e di un pro-gressivo decentramento politico-amministrativo.

Queste teorie si accompagnano al monetarismo di Friedman e Phelps, che mette in evidenza il carattere utopico dello Stato sociale e, attraverso la proposta di una poli-tica economica orientata a una regolazione verticistica da parte dello Stato dei flussi monetari, giunge a teorizzare alcune pratiche come quella della privatizzazione del-le istituzioni pubbliche (sanità, scuola, gestione delle opere pubbliche) e quella della deregulation, che influenzano la politica di Ronald Reagan (in USA) e di Margareth Thatcher (in Gran Bretagna).Da un altro punto di vista la politica delle potenze occidentali è caratterizzata da una ripresa del costituzionalismo che evidenzia i limiti dell’esercizio di ogni forma di po-tere (Friedrich), anche di quello democratico, e che nella pratica si risolve in un cal-colo razionale delle aspettative di ogni singolo individuo, nonché delle modalità di ag-gregazione delle scelte individuali di base (Buchanan, Tullock).

D)LaGermaniaela«complessitàsociale»diN.Luhmann

Le teorie neoliberiste si avvalgono dei risultati della sociologia contemporanea per descrivere il rapporto tra Stato e individuo organizzato sulla base di interessi comuni.Questo modello, detto neocorporativismo (Lehmbruch, Winkler, Schmitter), si af-fianca alla teoria di Niklas Luhmann (1927-1998) che considera (Scienza della socie-tà: 1990) l’intera società come «sistema» il cui funzionamento è assicurato da quat-tro fattori fondanti (mezzi comunicativi): il sapere scientifico (verità); l’apparato burocratico-amministrativo (potere); l’economia (il denaro); la riproduzione (ces-sione).Aspetto centrale del pensiero di Luhmann è la «complessità sociale», che mette in di-scussione i concetti cardine della politica moderna (Stato, sovranità) attraverso l’as-solutizzazione delle dinamiche interne a ogni sistema sociale che mettono in luce la capacità di autorganizzarsi e di auto-poiesi (cioè di produzione interna degli elemen-ti che lo compongono) non riconducibile a nessuna dimensione soggettiv individuale.Questa «processualità» immanente ai sistemi sociali, fonte di una ipertrofica burocra-tizzazione degli apparati sociali e di partito, può essere limitata attraverso l’esercizio delle procedure formalizzate del sistema politico (voto elettorale, procedimento am-ministrativo e giudiziario), con cui l’individuo rappresenta parte attiva ed elemento di stabilità del sistema politico.

Z229 Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo

4.Rawls,Dworkin,Nozick,Rothbard,Giddens

A) Rawls:contrattualismo,giustiziasocialeecollaborazioneglobale

All’inizio degli anni Sessanta si registra negli Stati Uniti una nuova dottrina politica, inaugurata da «Una teoria della giustizia» di stampo kantiano del pensatore statuni-tense John Rawls (1922-2002), tesa a consentire la convivenza pluralistica di diffe-renti ideologie, nel rispetto, però, dei diritti fondamentali che costituiscono la strut-tura di base di ogni società democratica.In questa opera Rawls tenta un recupero della tradizione contrattualistica che emer-ge in situazioni di crisi generale per riformulare, in termini più attuali, un nuovo «pat-to sociale».Contro le teorie utilitaristiche che hanno spesso reso «non governabili» gli Stati, Rawls oppone una sintesi tra i concetti fondamentali del liberismo e le critiche rivolte dal so-cialismo che sfociano nel trionfo della socialdemocrazia nella quale convivono sia gli interventi pubblici dell’economia (tipici del socialismo) che la diseguaglianza sociale ge-nerata dalla leggi del mercato (tipiche del capitalismo).La teoria del contrattualismo viene riconfigurata tenendo conto delle teorie relative alle scelte pubbliche e alle decisioni razionali dei governanti.Il contrattualismo, infatti, rappresenta una scelta razionale perché solo una «condotta politica», garantita da fattori di razionalità, può risolvere il problema della giustizia sociale che mira alla creazione di uno Stato giusto.La sua teoria, infatti, più che legittimare il potere politico, si pone come baluardo dell’equità per costruire una società più giusta.

L’accordo originario tra gli individui (contratto) è indice di una radicale simmetria, scandita da due principi:— il primo riguarda i diritti fondamentali garantiti dalla tradizione liberale e si con-

centra sulla proclamazione del primato delle «libertà» sull’uguaglianza;— il secondo principio è il perseguimento del fine della giustizia sociale, che si rag-

giunge, nei Paesi capitalisti, con una politica fiscale orientata a criteri di progres-sività e proporzionalità in grado di realizzare equi interventi redistributivi di red-dito e ricchezza al fine di mitigare le inevitabili disuguaglianze sociali derivanti dalla sfrenata libertà economica che esaspera il concetto di iniziativa privata ar-ricchendo alcune classi sociali e impoverendone altre.

In conclusione nella visione di Rawls l’eguale distribuzione dei diritti di libertà por-ta automaticamente all’eguaglianza e alla moralità collettiva in una società in cui il concetto di «giusto» prevale su quello di «benessere».Viene, così, superato, in nome dell’equità e della giustizia distributiva, il concetto di appartenenza ad una determinata classe giungendo, con l’affermazione del princi-pio generale di cooperazione globale, cioè di tutti (a prescindere dalle diseguaglian-ze sociali e reddituali), a beneficio sia della società che dei singoli.

230Z Capitolo15

Nella sua opera del 1999, The law of peoples, infine, estende la sua teoria della giusti-zia anche all’ordinamento internazionale che deriverebbe dall’incontro, a livello pla-netario, tra i popoli ragionevoli in grado di rispettare i principi naturali e l’equità nei rapporti tra i singoli Stati.

B) Dworkineilneogiusnaturalismo

La riflessione di Rawls dà impulso a un nuovo dibattito sui diritti che viene portato avanti da Ronald Dworkin (1931), che si rifà alla teoria giusnaturalistica e che esal-ta i diritti individuali preesistenti alla codificazione e derivanti dalla recta ratio.

Il «diritto» per Dworkin si divide in tre macrocategorie a seconda se sia basata su:— obiettivi;— diritti;— doveri.

Questa teoria si propone di conciliare la teoria dei diritti fondamentali con le istanze inviolabili e assistenzialistiche dello Stato sociale.Anche in questo caso assume notevole importanza il problema della redistribuzione del carico fiscale che permette il finanziamento e l’ampliamento dei compiti dello Sta-to, che culmina in una proposta di tassazione progressiva sul reddito per finanziare sussidi sociali, sanitari e disoccupazione.

C) Nozick(teoria dello Stato minimo)

Uno dei critici più aspri e reazionari della teoria di Rawls, Robert Nozick ebreo rus-so nato a Brooklybn (1938-2002) docente dell’università di Harward, che nel suo sag-gio Anarchia, Stato e Utopia, pur ammirando il vigore della teoria della giustizia, op-pone una prospettiva liberale dello Stato minimo (unica forma di Stato moralmente legittimo e tollerabile) fondato sulle leggi mercato, libera iniziativa privata e merito-crazia, teso a limitare l’eccessiva ingerenza dello Stato-persona (governo, Pubblica amministrazione, etc.) sullo Stato-comunità.Prioritaria appare, dunque, la meritocrazia (di stampo calvinista) contrapposta al po-tenziale appiattimento dello Stato sociale prefigurato dagli esiti neoliberisti di Fried-mann, di cui si è già detto.Nozick prende le mosse dalla teoria della proprietà di Locke, considerata come la uni-ca fonte valida dei diritti, per arrivare a sostenere che solo il libero scambio è in gra-do di realizzare la vera giustizia redistributiva.Lo Stato sociale, per Nozick, implica lo scivolamento da una concezione della libertà come proprietà su se stessi (questa l’idea di Locke) a una concezione della «libertà come proprietà su altri» tanto che paragona le funzioni dello «Stato minimo» a quel-le di un «guardino notturno».Contro tale presunta «violenza» esercitata dallo «Stato sociale», contrapponendo «for-za contro forza», Nozick riabilita il capitalismo nella sua «purezza» e qualifica la sua

Z231 Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo

teoria come «liberista», proponendo una forma di associazionismo e di mutua pro-tezione tra gli individui per superare gli «inconvenienti interni e esterni» derivanti da chi è titolare del potere dell’uso della forza.Il docente statunitense si arrocca su tali posizioni neoliberaliste estreme dal momento che pren-de atto delle lacerazioni strutturali presenti nella trama della cooperazione sociale che, anche nei Paesi più evoluti, non è stata mai attuata completamente (si pensi al problema dell’assisten-za sanitaria ancora parzialmente irrisolto in un Paese pur progredito come gli USA motore dell’espansione economica mondiale).

D) IllibertarismodiMurrayNewtonRothbard

Il filosofo statunitense di origine ebraica rappresenta il massimo difensore della visio-ne libertaria che, sulla scia di Locke, si batte per eliminare ogni forma di violenza che parte proprio dalla violenza istituzionalizzata che lo Stato opera direttamente sui cit-tadini.In tal modo lo Stato nega ai singoli i «diritti naturali»: così «istituzionalizza» l’omici-dio di massa definendolo «guerra», la schiavitù ricorrendo alla coscrizione dei mili-tari, la rapina con la pressione fiscale supportata dal consenso collettivo estorto anche attraverso l’uso dei media.Appoggiano l’uso surrettizio di questi mezzi fraudolenti una classe di «intellettuali di corte» che giustificano il potere statuale mistificandolo come «benessere sociale» e di-menticando l’esitenza di una legge naturale che ci fa capire, con l’ausilio della ragio-ne, ciò che è meglio per l’uomo in un dato momento storico: ciò perché ciascun indi-viduo è posto dalla natura in condizione di pensare, valutare, agire, imparare e svi-luppare le proprie capacità.L’intereferenza forzata e violenta dello Stato è, dunque, da considerarsi anti-umana e anti-sociale.

E) LaterzaviadiAnthonyGiddens:welfarepositivoenuovasocialdemocrazia

Giddens distingue la socialdemocrazia classica, caratterizzata dal welfare state gene-ralista (che protegge i cittadini «dalla culla alla tomba»), dalla cd. «terza via» (rispet-to al liberalismo e alla socialdemocrazia) la quale si caratterizza per alcune importan-ti novità che si possono così riassumere:— democrazia cosmopolita: sia le identità nazionali che quelle etniche sono artifi-

ciali perché nessun individuo può considerarsi biologicamente un «purosangue», a causa delle mescolanze genetiche derivanti dall’immigrazione, che di solito si di-mostra vantaggiosa per il Paese ospite (nazionalismo cosmopolita) che vede, così, incrementata la sua forza lavoro;

— governo mondiale: sia il rischio ecologico che la riduzione dell’ineguaglianza mondiale non possono essere risolti a livello locale; nell’età dell’informazione «il territorio non è più così importante per gli stati-nazione come in passato, le cono-scenze individuali e le capacità competitive contano molto di più delle risorse na-turali»;

232Z Capitolo15

— comunità, tale «formazione sociale» non si deve intendere come recupero di for-me perdute di solidarietà locale, ma come forma di associazione di volontariato, imprenditorialità sociale, banca del tempo, progetti di microcredito, organizzazio-ne non governativa, ed altri gruppi. Ulteriori forme importanti di cosmopolitismo provengono, infine, dal basso (Greenpeace, Amnesty International etc.).

Esiste, dunque, nell’immaginario collettivo, uno spazio globale depoliticizzato che, secondo l’Autore, «richiede regolamentazione, nonché l’introduzione di nuo-vi «diritti e obblighi»;

— welfare positivo: dove «welfare» assume connotazioni negative (mirato essenzial-mente al sostentamento dei poveri, come negli Stati Uniti), causando inique le di-visioni sociali; i programmi contro la povertà vanno sostituiti con diverse forme solidali fondate sulla comunità: «Chiesa, famiglia e amici» sono le fonti principa-li della solidarietà sociale per cui lo Stato dovrebbe intervenire soltanto quando queste istituzioni non arrivano ad adempiere pienamente i propri obblighi».

Fondamentale è l’investimento pubblico nell’istruzione, che costituisce l’occasio-ne per redistribuire possibilità di crescita intellettiva ed economica, nonché la pro-tezione della famiglia soprattutto favorendo l’inserimento delle donne nei nuovi luoghi e tipi di di lavoro come, ad esempio, il telelavoro.

Quanto detto introduce il tema della «sostituzione» del welfare state da parte della wel-fare society: gli organismi del «terzo settore» sono dunque, chiamati a svolgere un ruo-lo piu’ importante come fornitori di servizi di welfare positivo al di sopra degli ambi-ti nazionali, anche se vi sono tuttavia ambiti nei quali i movimenti sociali, le ONG (or-ganizzazioni non governative) ed anche i mercati non possono sostituirsi al governo.La denominazione «terza via» non va confusa con altre «terze vie» del passato (come nel caso del «fascismo» che si poneva come «terza via» prendendo le distanze sia dal liberalismo che dal socialismo), giacché quella proposta da Giddens è definita «ter-za» in quanto «nuova» rispetto alla socialdemocrazia classica e al neoliberismo.Il welfare state della socialdemocrazia classica, secondo l’Autore, «oggi crea quasi tanti problemi quanti ne risolve». Inoltre, la separazione socialismo-capitalismo assu-me molto meno rilievo rispetto ai contrasti libertario-autoritario e moderno-tradizio-nalista.

Capitolo16ZAttuali«sfide»dellapo-liticacontemporanea

Sommario Z 1.Quadrogenerale.-2.Laglobalizzazioneeilnuovoscenariomondiale.-3.Dopol’11settembre.-4.Lepossibilisoluzioniattuali.-5.Biopoli-tica:lanuova«questionesociale»trafenomenomigratorioeneo-schia-vismo.-6.Lapoliticadell’imperotrapresenteefuturo.-7.Ilpuntosulpassato,presenteefuturodell’ecologismosociale.

1.Quadrogenerale

A) Generalità

La società del benessere si trasforma, sul finire degli anni Settanta, in una rete di con-flittualità o, secondo la definizione conservatrice di Urlich Beck (1944), in una «so-cietà del rischio».Sul piano internazionale le politiche finanziarie e monetarie attuate in USA generano una situazione economica mondiale instabile che assegna una progressiva preminenza del ruolo della moneta più forte (il dollaro) che si trasforma in principale strumen-to di pagamento internazionale e la conseguente crescita dei generali capitali finan-ziari che determinano la competitività (ma anche una nuova linea politica a livello multinazionale, prima che nazionale).I risultati del processo di decolonizzazione portano, inoltre, all’affermarsi di una vi-sione multinazionale e delocalizzata della ricerca di mercati ove il minor costo dei fattori produttivi garantisca più alti profitti.Questo processo irreversibile inizia già alla fine degli anni Ottanta quando, dopo la caduta del muro di Berlino, prende il via il processo di smantellamento del socialismo reale a partire dalla Jugoslavia e via via, fino alla frantumazione dell’URSS in una moltitudine di repubbliche indipendenti che hanno perso la forza di costituire, accanto alla Cina, un «unitario blocco» che si contrappone agli Stati Uniti.Il decennio che porta dalla fine degli anni Settanta alla caduta del muro è molto denso di riflessioni politiche, tutte consapevoli del fatto che uno sviluppo indiscriminato dell’economia capitalistica guidata da una sola «superpotenza» porterebbe a una situa-zione che Francis Fukuyama non ha esitato a definire «fine della storia», cioè a una uniformazione ed omologazione delle tendenze politiche e sociali del pianeta, tutte indirizzate sul modello del capitalismo U.S.A., alla spasmodica ricerca del profitto, esasperando, così, le contraddizioni già presenti nella società contemporanea.

Edizioni Simone - Vol. 33/5 • Compendio di Storia delle Dottrine politiche

234Z Capitolo16

Proprio per questo motivo la filosofia politica contemporanea viene posta di fronte a nuove realtà e sfide di cui si dirà a breve.

B) Ildibattitofilosofico-politico

La crisi generalizzata che investe il pianeta si pone alla base della rinascita della filo-sofia politica che si spinge ben oltre il recinto delle istituzioni accademiche nelle quali per molto tempo era stata confinata.Il dibattito che ha per oggetto i temi relativi ai rapporti tra politica e società contem-poranea, dal punto di vista metodologico non può prescindere dalla consolidata di-versità tra filosofia analitica, filosofica e continentale.

Analitici e continentalisti tra filosofia e scienzaNel Novecento si sono delineati due orientamenti filosofici che, pur condividendo l’idea che il linguaggio sia il tema primario della filosofia, si sono sviluppati lungo percorsi teoretici diversi, fino a determinare un contrasto, ritenuto da molti insanabile, tra due modi di fare e di essere, di concepire la filosofia.Questi due orientamenti prendono comunemente il nome di «filosofia analitica» e «filosofia continentale».La ricostruzione delle tesi che hanno contraddistinto la filosofia «analitica» e quella «conti-nentale» investe la discussione su alcuni «argomenti-chiave» comuni a entrambe le prospet-tive, tra i quali: il problema del significato, il problema della tradizione, il metodo che con-traddistingue la filosofia dalla scienza.Gli esponenti di questi due orientamenti costituiscono altrettanti punti di riferimento della fi-losofia del Novecento: per il movimento analitico, Frege, Wittgenstein, Carnap e Quine; mentre, per quanto riguarda la filosofia continentale, Heidegger e Gadamer.Nel suo complesso, la distinzione tra le due correnti può essere ricondotta a una differenza di «stile» nell’esercizio del filosofare in quanto la filosofia analitica è basata su un’analisi scien-tifica e razionale che si concentra sui dettagli, mentre la filosofia continentale studia preva-lentemente i grandi concetti nella loro totalità (ad es. il senso della vita) e dei rapporti in-terpersonali (il rapporto con l’Altro, il ruolo dell’Uomo nella società) assicurando un atteg-giamento più scettico riguardo ai problemi relativi alle capacità conoscitive della scienza.

C) Germania:lacriticaallastrumentalizzazionedellacomunicazionedimassa

Il dibattito tedesco è esaltato dalle teorie dell’agire comunicativo di Jürgen Habermas (1929) e di Karl Otto Apel (1922) che, sebbene con accenti diversi, sviluppano una vera e propria teoria discorsiva della ragione e della politica attraverso il linguaggio e l’agire comunicativo che consente di rifondare la razionalità nei suoi aspetti filo-sofici, etici e politici partendo da un trascentalismo linguistico e sociale che connota sia le scienze empirico-analitiche, che storico-ermeneutiche che critica riflessiva come le scienze sociali.Comune a entrambi gli autori è la critica all’agire strumentale della tecnica di co-municazione di massa e la presa di coscienza dell’esistenza di una crisi di legittimi-tà della società e degli ordinamenti democratici.Ma la «pragmatica» trascendentale di Appel è dominata dall’esigenza di pervenire a una scoperta ultima della verità e, di conseguenza, dell’etica come risultante di un

Z235 Attuali «sfide» della politica contemporanea

agire fondato che deve aprirsi ad una macroetica planetaria che deve estendersi a tutti gli ordinamenti in un dialogo ampio, libero e non coatto.

Per il filosofo di Düsseldorf, dunque, la comunicazione comporta il ricorso a norme immuta-bili e universali che costituiscono le «quattro pretese universali di verità» che rappresenta-no l’etica del discorso e che sono:

— la comprensione dell’argomentazione;— la verità generale del discorso;— la sincerità e la persuasività di ciò che si argomenta;— la giustezza (e correttezza) delle ragioni argomentative.

Colui che «argomenta» deve misurarsi con due tipi di comunità:

— la «comunità reale» di cui fa attualmente parte;— la «comunità ideale» composta da coloro che sono in grado di comprendere i suoi argo-

menti che è illimitata sia nello spazio che nel tempo.

Apel si ispira al principio aristotelico di non contraddizione per individuare una norma prima-ria in grado di definire la natura etica di un’azione.Nel caso di Habermas, invece, l’accento viene posto sulla natura dinamica delle relazioni so-ciali, a partire dalla comunicazione linguistica, condotta con un’originaria intenzione di entrare in reciproco accordo tra i soggetti.Tale intenzione trae origine dal mondo della vita, la quale non è ancora sottoposta a una razio-nalizzazione concettuale e a una istituzionalizzazione della società che si riflette nella formazio-ne di sistemi e sottosistemi sociali. Questa contrapposizione tra fatti e norme (mondo della vita e istituzioni) mette in evidenza anche la relazione che Habermas stabilisce tra diritto e morale.

La condizione fondamentale per la vita della democrazia è la sua nuova e strutturale apertura al vaglio critico della società civile, che attualmente viene fortemente con-dizionata dallo sviluppo dei media detentori del potere comunicativo e che invece deve basarsi su una ricerca scientifica senza fini politici specifici e, soprattutto, senza alcuna forma di oppressione.Un’altra direzione significativa del dibattito tedesco, che oscilla tra la posizione di Apel e di Habermas è quella della riabilitazione della filosofia pratica (Riedel, Ritter, Ilting), che si pone come obiettivo quello di riflettere sulla dimensione etica della politica a partire da una ripresa dell’etica classica e in particolare dei concetti di prudenza e saggezza (phronesis) come alternativa alla crisi di valori e al proliferare dello scetti-cismo e del relativismo.

D)StatiUniti

Negli USA è concentrato sul dibattito sulle teorie di Rawls sui concetti di giustizia, legittimità e consenso.Il lavoro di M. J. Sandel, inaugura anche poi la riflessione sul comunitarismo che contrappone alle astrattezze della visione rawlsiana del soggetto (che Sandel interpreta come «soggetto mini-mo»), una concezione dell’individuo come risultante di una rete di credenze, appartenenze, fina-lità, legami comunitari.Si tratta di una concezione che mette in luce il carattere dinamico della soggettività e della sua continua autointerpretazione della realtà come alternativa alla conservazione dello status quo.

236Z Capitolo16

La conseguenza è una enfatizzazione del soggetto in sé considerato come prezioso ed esclusi-vo titolare di una ragione critica che precede la politica e ne orienta gli sviluppi. Ne consegue la riflessione sul nascere di una nuova religione civile fondata su questi assunti (come nel caso di R. Taylor).

Si rende allora necessario rivedere la teoria della giustizia di Rawls sotto almeno tre profili fondamentali:— radicamento dell’io e sua appartenenza a un contesto;— problema della tolleranza;— questione delle minoranze e della non esclusione di esse dallo spazio democratico.

Questi tre problemi sono affrontati da Richard Rorty (1931-2007) ormai consape-vole, anche sulla scorta del pensiero di Nietzsche e di Heidegger, che è vano rivolger-si a una sola immagine dell’io fondata filosoficamente.A quella di Rorty, che può essere definita come una forma di liberalismo borghese postmoderno, si oppone il paradigma del pensiero americano-repubblicano il quale, più orientato all’osservazione della prassi politica, trova le sue istanze fonda-mentali in concetti come virtù, partecipazione e libertà, intese come assenza di do-minio e nel patriottismo costituzionale, inteso come adesione dei cittadini all’insie-me di valori universalmente riconosciuti nella civiltà occidentale.

E) Francia(destrutturazioneedecostruzionismo)

La «destrutturazione» di ogni forma di identità stabile del soggetto, così come il pensiero della differenza, del differimento, dello scarto a partire dal quale si forma la ragione occidentale, sono il principale momento della riflessione filosofica francese.La presa d’atto della «crisi» della ragione unita alla crisi della politica, è al centro della definizione della condizione postmoderna da parte del filosofo di Versailles Jean-François Lyotard (1924-1998).Mentre il «moderno» si concentra sulle «grandi narrazioni» derivanti da «giochi linguistici» fina-lizzati ad una pluralità di scopi imposti dalla convivenza umana da cui scaturiscono «metaraccon-ti» che perdono ogni giorno di credibilità, il postmoderno si impone sia per abattere il moderno e la sua volontà progettuale che per combattere ogni tentativo di totalizzazione e accentuare, così, l’elemento spirituale e «inventivo» della libertà (Reale-Antiseri).

Secondo Lyotard l’effetto di lungo periodo del capitalismo è quello di rendere impos-sibile una rappresentazione del mondo come immagine coerente dotata di una uni-voca identità.Questa impossibilità viene posta anche al centro delle discussioni politiche e filosofiche del Novecento, interpretate come grandi e sovrabbondanti récits (cioè racconti, narrazioni), prive di fondamento unitario e riflesso, o piuttosto di particolari giochi linguistici, la cui unica regola è quella della efficacia tecnica di convincimento e della sua performatività.La fine dell’epoca delle «grandi narrazioni» comporta la fine dei loro presupposti: l’immagine cartesiana dell’unità dell’io è sostituita da una concezione dell’io come entità frammentaria e

Z237 Attuali «sfide» della politica contemporanea

plurale; la concezione della società come totalità organica è sostituita da una atomizzazione del sociale costituita da una «rete elastica di giochi linguistici». Esempio concreto di questa frantuma-zione sono i grandi drammi del XX secolo, e in particolare la Shoah, determinata dal primato della rappresentazione e dalla ossessione dell’unità degli ebrei.

In questo stesso contesto si colloca la riflessione dell’algerino Jacques Derrida (1930-2004) nota come decostruzionismo.Punto di partenza del «decostruzionismo» è per Heidegger la critica all’«essere» che da Parme-nide e Nietzsche non è stato mai riferito alle condizioni storiche del tempo in cui viene studiato, ma sempre legato a concetti metafisici universali che formano gerarchie concettuali che, in-vece, per effetto dell’esistenzialismo, vanno «rovesciate», «distrutte» o «decostruite».Per Derrida tale «decostruzione» deve partire dal linguaggio dei testi, a cominciare da quelli filo-sofici nei quali la valenza di «indizi» e «spie testuali» (come parole, richiami e fasi) ci fanno scopri-re una nuova e differente «gerarchia» di concetti e di significati che fanno venir meno le certezze assolute su cui si basa l’indagine metafisica: per il decostruzionismo, dunque la metafisica è morta!Il decostruzionismo applicato alla politica, travolgendo le gerarchie concettuali tradizionali dalle regole giuridiche, creano premesse nuove con cui ogni ordinamento, specialmente se «de-mocratico» copre gli occhi sulle «incostrazioni» storiche derivanti dal «credo politico» e ribaltando, così, principi, interessi e regole tradizionali che da secoli calpestano i singoli e i loro diritti naturali.

Caratteri del «decostruzionismo», dunque, sono:— la critica al logocentrismo che non è più da considerarsi, cioè, assoluto e infallibile;— la decostruzione (cioè la scomposizione «storico-critica») della storia e in parti-

colare della storia dell’ontologia è, cioè, dell’attitudine propria della metafisica occidentale di fondare la molteplicità degli enti sull’unità dell’essere.

Sul piano politico questi presupposti portano a una concezione votata all’apertura all’altro, alla legittimazione delle differenze, alla tolleranza sociale e religiosa e alla fondazione di una teoria del cosmopolitismo sganciato dalla idea tradizionale di di «Stato» e «sovranità» la quale deve essere sostituita da una politica dell’ospitalità.Il tema della «differenza» è sviluppato, infine, da Gilles Deleuze (1925-1995) e Felix Guattari (1930-1992) che sviluppano una concezione della filosofia come arte di inventare e libera creazione di concetti. Da qui una concezione della politica orien-tata al pluralismo e alla destrutturazione degli ordinamenti politici imposti dalla «storia» e della funzione di controllo da loro effettuata in favore di una concezione del nomadismo come riflesso dell’impossibilità di sistematizzare i diversi territori del sapere e dell’agire.

2.Laglobalizzazioneeilnuovoscenariomondiale

La crisi dei «modelli classici» di fare filosofia politica trova conferma nella discussio-ne sull’ordine politico, economico e sociale che accompagna il mondo nel nuovo millennio e che si è soliti definire globalizzazione.

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Con questo termine si intende un fenomeno complesso caratterizzato dalla:— fine del bipolarismo tra capitalismo e comunismo che finisce per «consegnare in toto»

il mondo alla maggiore superpotenza mondiale, gli U.S.A., e alle multinazionali;— deregulation, che liberalizza la circolazione mondiale dei capitali, favorisce la fi-

nanziarizzazione dell’economia e la delocalizzazione produttiva con la conse-guenza che molte industrie dei Paesi più progrediti, a causa dell’alto costo della manodopera, sono costrette a chiudere, mettendo così in crisi la classe dei lavora-tori di tali Paesi.

La «geografia politica» così, viene trasformata in un orizzonte uniforme di produ-zione di merci e smaltimento di scorie, mentre dal punto di vista sociale la più ampia apertura delle frontiere tra gli Stati provoca nuovi movimenti migratori e una conse-guente omologazione culturale globale.I processi di globalizzazione sono contraddittori e multidimensionali, oltre che effettivamente percepibili, nella misura in cui il mondo appare più unificato che mai. Le «entità statali» non sono più gli unici protagonisti della vita politica, che ora è regolata da organismi sopranazionali (Nazio-ni Unite, Unione europea, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale etc.). Di conseguen-za, anche l’economia delle nazioni rappresenta un orizzonte di sempre più difficile definizione.

Dal punto di vista politico si consolida una terza via tra socialdemocrazia e liberali-smo, viene gradatamente meno la rete assistenziale dello Stato sociale e, dal punto di vista ideologico, il pluralismo («sole» della democrazia) si trasforma nella uniformi-tà del pensiero unico.Un tema di capitale importanza nell’epoca della globalizzazione è quello del lavoro. La caduta dello Stato sociale provoca un aumento della disoccupazione strutturale, la diffusione di lavori atipici, la flessibilità occupazionale, la deterritorializzazione e la smaterializzazione di numerosi processi produttivi.Il dibattito sul multiculturalismo assume un ruolo centrale e per i pensatori che si collocano entro i margini della tradizione liberale (Taylor, Kymlicka), i quali, pur ponendosi il problema della coesistenza di diversi gruppi all’interno di un unico oriz-zonte sociale, osservano che i processi di integrazione non tengono nel dovuto conto della «dinamica», dei processi di identità e di cultura e delle «contraddizioni» deri-vanti dalla continua contaminazione culturale.La fine del bipolarismo e la formazione di un sistema internazionale è poi fonte di una radicale conflittualità che si esplicita nelle numerose guerre etniche (ex Jugoslavia), territoriali (ex URSS, guerra in Cecenia) e motivate da contrasti religiosi (Medioriente).Emerge il discutibile e unilaterale concetto di «guerra giusta» e diviene sempre più difficile, a livel-lo internazionale, discernere l’intervento umanitario dall’intervento di polizia e di «guerra preventiva».

Restano comunque aperte le alternative tra la progressiva omologazione della cultura e il diritto a legittimare una particolare identità etnica, culturale, nazionale e, dunque, politica. Tanto che S.P. Huddington, in Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996), ha messo in discussione la possibilità di separare la definizione dei confini geopolitici da quelli dello sviluppo di una determinata civiltà.

Z239 Attuali «sfide» della politica contemporanea

In merito alla concezione degli effetti complessivi della globalizzazione si registra infine la dialettica tra due posizioni:— la prima incarnata nel pensiero di D. J. Elazar opta per una soluzione costituziona-

le ai problemi della globalizzazione e arriva a ipotizzare una confederazione tra Stati sottomessi a organismi sovrastatali, o poststatuali, come l’Unione europea etc.;

— l’altra, fortemente critica (e impersonata da M. Hardt e A. Negri) definisce la globalizzazione in termini imperialistici e la considera come il prodotto dell’esten-sione dell’economia capitalistica a tutto il pianeta. L’alternativa di tale dottrina è una politica della moltitudine che libera l’«impero» dal comando capitalistico e riorganizzi le forze sociali in nuove e più democratiche forme di cooperazione e integrazione fra gli Stati.

3.Dopol’11settembre

L’attentato alle «torri gemelle» di New York, portato a termine l’11 settembre del 2001 segna una netta «cesura» nella vita politica internazionale e inaugura una stagio-ne di guerre globali che investono la comunità internazionale governate da dinamiche molto diverse da quelle del Novecento.Si tratta di uno stravolgimento delle categorie della politica mondiale (amico o nemi-co) che è tuttora in atto, ma i cui effetti possono già essere messi, anche se solo par-zialmente, a fuoco.

A) IldialogoHabermas-Derridaeloscontrotrale«teologie»politiche

Una delle più feconde reazioni agli attentati dell’11 settembre è rappresentata dal dialogo tra Jürgen Habermas (Gommersbach 1929) e Derrida, pubblicato in «Filo-sofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida» (2003).Habermas parla dell’11 settembre come momento in cui ha luogo il primo evento storico-mondiale del nuovo millennio, condizionato dalla politica unilaterale degli Stati Uniti e dall’accrescersi del fondamentalismo islamico, espresso in una forma di terrorismo «globale» che genera «impotenza» a chi lo combatte perché rivolto a un nemico che con i metodi tradizionali non può essere sconfitto.Per la soluzione di tale conflitto si deve riorganizzare la scena mondiale puntando su una riabilitazione della democrazia come comunicazione razionale, rispetto alla quale il terrorismo non è che una deformazione.Derrida definisce la strategia degli attentati come «atto immunitario», cioè come una forma di «suicidio» mediante il quale la potenza americana combatte ciò che ha creato avendo fornito essa stessa gli strumenti tecnici per portare a termine l’attacco terroristico (addestramento ai piloti e formazione militare dei terroristi).Da qui Derrida desume che le conseguenze di questo atto autoimmunitario non sono ancora pienamente dispiegate e che il peggio potrebbe ancora venire ritorcendosi proprio verso chi lo ha provocato.

240Z Capitolo16

Dal punto di vista dello «scontro ideologico» tra civiltà, cultura e religione, Derrida sostiene che l’11 settembre rappresenta l’apice di uno scontro tra due teologie poli-tiche sorte da uno stesso ceppo abramico.Tale scontro, enfatizzato dai media occidentali che surrettiziamente identificano l’isla-mico con il terrorista, creando «esemplari» figure negative del mondo islamico.Questa distorsione mediatica dovrebbe essere evitata soprattutto dell’opea delle orga-nizzazioni internazionali, unici soggetti capaci di rendere presente una democrazia «a venire» in grado di esprimere una «tensione ideale» tra «presente» e «futuro» che miri alla pace e alla giustizia delle Nazioni.

B) Iproblemidellapoliticaattuale

La situazione che si crea dopo l’11 settembre apre una diversa «fenomenologia» dei problemi della politica attuale chiamata a sciogliere i seguenti nodi:— definizione del ruolo della religione che non può essere considerata «strumento

politico» e base per la proliferazione di «fondamentalismi eversivi»;— la funzione degli organismi sovrastatali, in un momento in cui, dopo la dichiara-

zione di guerra degli USA all’Iraq, l’ONU, contraria a tale intervento, non è stata in grado di impedirne l’attuazione, perdendo di credibilità ed entrando, così, in crisi di credibilità;

— la definizione del concetto di guerra globale: una guerra, cioè, che non ha confini, ma che si dispiega su scala mondiale e si pone come conflitto tra «visioni del mon-do», «scale di valori», «istanze culturali»;

— la regressione dello Stato sociale, che tutela e protegge la cittadinanza, a Stato penale, incentrato sul controllo e la «repressione» delle diverse devianze.

4.Lepossibilisoluzioniattuali

I tentativi di soluzione dei primi anni duemila mirano a controllare le dinamiche e tensioni mondiali e a ipotizzare la costruzione di un ordine politico alternativo in grado di tener loro testa.

Tra le tesi più significative di questi ultimi anni possono essere annoverate:— le ipotesi conservatrici, che derivano dal «realismo politico» che connota la poli-

tica USA e che accentuando la funzione politica della guerra preventiva, mirano a estendere su scala mondiale i valori del liberismo americano e quelli della destra protestante.

Sostenitore di questa ipotesi è il gruppo dei neo-conservatori americani (Wolfowitz, Perle, Kagan, Bush);

— le riprese del progetto moderno che mira a proteggere il mondo dalla «impoten-za della potenza» (Badie) per favorire l’instaurazione di una governance globa-le fondata sulla pace mondiale e sulla cooperazione in grado di riabilitare la

Z241 Attuali «sfide» della politica contemporanea

contraddittoria funzione equilibratice dell’ONU e, così, di assicurare un ripristino della legalità anche su scala transnazionale. Sostengono questa ipotesi pensatori come O. Höffe, A. Sen e M. Nussbaum;

— l’orizzonte della biopolitica (Foucault, Agamben, Esposito) (vedi par. seguente). Prende le mosse dal pensiero di Foucault e tende a svincolare l’orizzonte della politica dall’orizzonte giuridico del rapporto tra individuo e Stato per riproporre una micro-fisica del potere in termini foucaultiani: (cioè di benessere e felicità globale) in quan-to il «Potere» non va studiato solo su opere teoriche ma soprattutto nelle «stanze oscure» di chi lo detiene e che lo esercita nelle singole scelte politiche del quotidiano.

Per raggiungere tali «obiettivi criptati» il «Potere» si serve dell’uso spregiudicato e fuorviante dei media (detto, appunto, «quarto potere») per cui vanno attenta-mente analizzati i rapporti tra forme di sapere e rapporti di potere nell’ottica della possibile connivenza per il dominio delle menti.

A questo punto la lotta politica di chi resiste al potere si trasforma nella vigilante resistenza alla diffusione surrettizia di qualsiasi forma di sapere (dal notiziario a tutte le altre manifestazioni ed espressioni dei media) per lasciare libero il fruitore dei media di non uniformarsi passivamente al «sapere» imposto dalla videocrazia (e altre forme mediatiche). Il singolo, cioè nell’affermare la sua identità, deve contrastare tale forma di dominio per tentare di destabilizzare i meccanismi di potere che, per come sono strutturati, non gli lasciano alcuna possibilità di autoaf-facciarsi non solo sulla via della libertà di pensiero, ma anche di agire liberamen-te per vivere a pieno la propria individualità.

Il rapporto tra politica e vita, così, ha assunto una dimensione importante e fon-dante: i conflitti politici interessano la sua vita economica del singolo che le «questioni sociali vitali» (aborto, fecondazione assistita, omosessualità).

Il nesso politica-vita-società assume un carattere liberatorio nella misura in cui rende possibile una produzione di norme che parta dalla vita concreta e non sovra-sti l’individuo affinché conservi la sua identità.

5.Biopolitica:lanuova«questionesociale»trafenomenomigratorioeneo-schiavismo

A) Crescitae«felicità»deisudditi

Questa dottrina teorizzata da Foucault era inizialmente già nota come Polizeiwissen-schaft (stato di polizia) affermatasi già nel XVIII secolo in Austria.Con essa lo Stato, per accrescere il suo peso e la sua potenza militare ed economica, cercava di «acquisire» il maggior numero di sudditi possibile facendo il miglior uso della sua forza sia per mantenere l’ordine, che per offrire ad essi le migliori condizio-ni di vita e convivenza in vista del raggiungimento della «felicità comune» e, per raggiungere tali scopi, stimolava la crescita del clima collaborativo della forza-lavoro e, quindi, la produzione nazionale.

242Z Capitolo16

La Polizeiwissenschaf prevedeva l’adozione di una serie di misure che portassero alla crescita «canalizzata» della ricchezza dei singoli per assicurare un maggiore vantaggio collettivo dello Stato.Ciò perché lo Stato-persona si rende conto che la popolazione è una risorsa fonda-mentale: considerazione che in passato aveva un grande valore diplomatico-militare in quanto accresceva il numero dei sudditi soldati da addestrare per essere meglio in grado di affrontare le conquiste territoriali e l’espansione coloniale.Successivamente tale legame si è polarizzato sul binomio popolazione e ricchezza per accrescere il benessere soprattutto delle classi detentrici delle leve economiche.L’individuo costituisce un importante fattore produttivo, la forza lavoro: ciò accresce l’interesse dei «poteri costituiti» verso la risorsa umana che, attraverso una «mirata» politica sanitaria e sociale, va mantenuta in «efficienza» per consentirle di «produrre» di più e nelle migliori condizioni possibili (Santoro).

B) Flussimigratorieneo-schiavismo

In quest’ottica si comprendono le attuali finalità della regolamentazione dei «flussi migratori» che consentono allo Stato ospitante di accrescere il suo potenziale produt-tivo anche con l’ausilio (e lo sfruttamento) degli immigrati che versano quasi sempre in condizioni di sudditanza sia giuridica (perché non godono degli stessi diritti dei cittadini) che economica (percepiscono salari più bassi e le somme così risparmiate retribuiscono meglio gli altri fattori produttivi: in primis capitale e capacità impren-ditoriale), facilitando, così, l’accumulazione capitalistica.Questo processo è stato in molti Paesi, compresa l’Italia e gli Stati dell’Unione europea, accompagnato da un programma politico che più che mirare all’«integrazione», tal-volta porta alla criminalizzazione dei migranti.Questa politica ha generato, soprattutto con le destre al potere, una normativa che, sfruttando o limitando l’ingresso «regolare» per motivi di lavoro, ha creato una con-dizione giuridica, psicologica e sociale di inferiorità per tutti i migranti clandestini la cui presenza illegale sul territorio ne criminalizza lo status.A questa situazione ha fatto da controaltare la lentezza e le eccessive burocratizzazio-ni — supportate da una xenofobia manifesta di molti cittadini — per l’accesso alla cittadinanza anche per i migranti già integrati nella società e regolarmente muniti di permesso di soggiorno.Ecco perché è indispensabile (ma nessuna organizzazione internazionale fino ad oggi se ne è fatto seriamente carico) che siano rese trasparenti e più agili le normative nazionali per l’accesso alla cittadinanza al fine di raggiungere l’abolizione di una inaccettabile e costituzionalmente illegittima situazione di discriminazione tra cittadi-ni e immigrati che, di fatto, perpetua le condizioni di schiavitù abolita ufficialmente a livello internazionale già ai tempi del congresso di Vienna (1815).La regolamentazione dell’immigrazione, dunque, fa da «rubinetto» per l’ingresso di forza lavo-ro e crea problemi di politica economica per le numerose implicazioni giuridiche, economiche e sociali derivanti e costituendo una delle principali questioni sociali.

Z243 Attuali «sfide» della politica contemporanea

Tale problema va risolto a livello internazionale urgentemente, soprattutto nei Paesi ad economia «matura» ove le condizioni di welfare globale aggravano il gap tra cittadini e migranti capovolgen-do le premesse ideologiche della Polizeiwissenschaft (felicità di tutti i sudditi per il mantenimento della coesione sociale) e di «biopolitica» affermatesi già dai tempi di Maria Teresa d’Asburgo nel regno Austro-Ungarico (XXVIII secolo).

Grazie alla «biopolitica» e alla conseguente migrazione (che sono lo strumento più agile e conveniente per l’accumulazione umana) gli Stati più forti possono, mani-polando a loro piacimento i flussi di forza-lavoro, accrescere/decrescere a loro piaci-mento lo sfruttamento delle risorse umane a fini produttivi.Nasce così la visione del neo-schiavismo che ha caratterizzato lo sviluppo economico degli ultimi due secoli e che ha spostato l’attenzione della politica nazionale alla pro-gettazione dell’espansione della forza della coesione sociale nell’ottica di favorire la maggioranza autoctona che detiene le «leve» del potere creando una classe «ufficia-le» di schiavi, composta prevalentemente da emigrati che, pur contribuendo al benes-sere economico del Paese, versano in una condizione giuridica palesemente discrimi-natoria rispetto ai cittadini in quanto non fruiscono dei diritti civici, in primis il diritto al voto.

6.Lapoliticadell’imperotrapresenteefuturo

A) Concettodi«impero»

L’«impero» costituito dalle multinazionali e dall’oligopolio delle grandi potenze mondiali (NEGRI) ha creato un governo del mondo di particolare complessità che ha profondamente modificato i concetti di Stato e di sovranità, cancellando il Welfare State e, con esso, mettendo in pericolo i diritti e le libertà degli individui.Il nuovo governo del pianeta, come afferma J. Attali (Domani, chi governerà il mon-do?, 2012), non ha punti di riferimento, né identità statuale, né edifici identificabili come «palazzi di potere» (1), ma soprattutto non ha coscienza di sé e delle proprie devastanti e irreversibili potenzialità, avendo abbandonato ogni speculazione filosofi-ca basata sui principi essenziali della convivenza civile e della forma di Stato.L’«impero» si condensa in una serie di «poteri» diffusi e non conoscibili che hanno un solo fine comune: accumulare ricchezza a vantaggio di pochi e a spese di tutti, at-tuando una politica dissennata che finisce per cancellare il welfare state nei Paesi ricchi e rendere ancora più insostenibili le già precarie condizioni di vita dei Paesi più poveri.

B) Iprotagonisti

Al vertice dell’«impero» figurano, accanto alle multinazionali, le grandi potenze economiche: in primis gli Stati Uniti, poi l’Unione europea, la Cina, la Russia, il

(1) Non sarà concesso, dunque, ai posteri un nuovo «abbattimento» della «Bastiglia» che oggi costituisce «il palazzo che non è visibile» tanto che i vari G7, G8 … G20 cercano «rifugi» nascosti e sempre diversi per «sfug-gire» agli «strali» della «contestazione globale».

244Z Capitolo16

Giappone, a cui si vanno aggiungendo il Brasile e altri Stati «emergenti» caratterizza-ti da un forte tasso di sviluppo (Corea del Sud, India etc.).Il «cuore» di questa «anomala» forma di governo mondiale è, comunque, rappresentato dagli Stati Uniti che si pongono in affianco o, talvolta, al di sopra delle Nazioni Unite, e si sono autoproclamati «paladini della sicurezza, della pace e dell’ordine mondiale».Accanto agli Stati più forti cercano di far sentire la loro voce (a livello globale) nume-rose organizzazioni internazionali (locali e sovranazionali, con finalità generali, fi-lantropiche o particolari): la principale a fini universali è senza dubbio l’ONU che, al momento, appare non più in grado di perseguire quei fini universalistici che inizialmen-te si era proposta, perché altre istituzioni internazionali – Banca Mondiale, FMI, BIRS (Banca per la ricostruzione e lo sviluppo) etc. – hanno creato una propria autonoma governance senza passare più per il vaglio né del Consiglio di Sicurezza né dell’As-semblea Generale delle Nazioni Unite, ponendosi, anzi, spesso in concorrenza con essi.Attualmente numerose convenzioni internazionali stipulate direttamente da singo-li Stati si sono sostituite all’attività delle istituzioni sovranazionali, privandole sia della loro leadership ideale, sia, soprattutto, del loro controllo istituzionale sull’ap-plicazione di accordi già raggiunti. Così gli Stati trattano direttamente della distruzio-ne degli arsenali nucleari, dell’uso delle armi batteriologiche etc.Secondo molti commentatori, dunque, il mondo di oggi è dominato in maniera cre-scente da poteri «incogniti e oscuri» che perseguono «fini malefici» per impadronir-si del governo del pianeta al di sopra della volontà degli Stati e delle organizzazioni internazionali e a scapito dei diritti e delle libertà dei singoli.Ciò trova conferma nel fatto che la globalizzazione ha creato, a livello planetario, un’anarchia di potere che non consente ad alcuna forza politica di far valere una trasparente volontà di pace, sicurezza, solidarietà e giustizia nel mondo.Una situazione che appare foriera di un futuro «privo di regole», che certo non potrà produrre alcunché di positivo per l’umanità!Il marcato disequilibrio politico-economico e l’anarchia dei poteri provocano le at-tuali minacce allo sviluppo democratico che pesano sul presente e sul futuro dell’inte-ra umanità. Il rischio è che il caos che domina il mondo potrebbe portare fatalmente a una richiesta collettiva di ordine di tipo totalitario per allontanare tali minacce.

C) Leideologieambientaliste

Un ruolo importante sarà quello giocato dalla crescente ideologia ambientalista che si va affermando alla luce degli effetti dell’incontrollata industrializzazione sulle con-dizioni di salute del pianeta destinate a breve a manifestarsi in maniera sempre più evidente e irreversibile, rivelandosi ben più gravi di quelli provocate da uno tsunami o da analoghe catastrofi.Il quadro politico-economico e ambientale del mondo attuale necessita urgentemente di una decisa inversione di rotta della politica mondiale che peraltro è teoricamente ancora possibile, potendo le attuali competenze tecnologiche e le risorse finanziarie interrompere l’ormai incombente «disastro ambientale».

Z245 Attuali «sfide» della politica contemporanea

Una tale «svolta» potrebbe favorire, in ogni area del globo, condizioni sociali «soste-nibili», nel rispetto dei diritti e delle libertà dei singoli, che il pensiero politico am-bientalista attuale ha posto come fondamenta indispensabile per la sopravvivenza di tutta l’umanità.

7. Ilpuntosulpassato,presenteefuturodell’ecologismosociale

A) Glisviluppidelladisciplina

Al politologo l’ecologia non interessa come «scienza pura», ma come corrente etico-politica che vede «Dio» proiettato nel mondo (Deus, sive natura: Spinoza) e che porta all’affermarsi di una nuova filosofia: l’«ecosofia» (Arne Næss), cioè la «saggez-za ecologica» che si collega ad una «ecologia profonda» ispirata alla rivalutazione delle «culture» arcaiche che nella natura colgono le «radici ultime» comuni a tutti gli esseri viventi.Oggi i cultori dell’ecosofia si denominano «verdi» noti per il motto «non siamo né di destra né di sinistra» … siamo avanti!A partire dalle «stragi ecologiche» di Hiroshima e Nagasaki (1945) e di altri gravi esperimenti nucleari avvenuti successivamente, l’ecologia, grazie all’opera di Rachel Carson (contro il pesticidio) e di Barry Commoner (battutosi per spiegare all’opi-nione pubblica i rischi della radioattività) fa numerosi passi avanti, ma si afferma con vigore con l’ecomarxismo di O’ Connor che affianca ai «rapporti di produzione» anche lo studio delle «condizioni (ecologiche) di produzione» (che determinano le relazioni tra economia e ambiente) a tutela dell’Habitat in cui vive l’uomo.L’austro-americano Fritjof Capra (maggior ecologista contemporaneo) nel volume «Tao della fisica» (1975) si fa precursore e paladino dello sfruttamento prioritario delle «energie rinnovabili» (solare, eolica e marina) per la salvaguardia della salute del mondo schierandosi contro il nucleare (energia non rinnovabile) e allo stesso tempo considerato unanimemente il «fondatore» di una nuova mentalità collettiva ecologista.

B) Lapresenzadei«Verdi»comemovimentopolitico

Questo movimento, nato in Germania (patria del panteismo filosofico di Goethe e Humboldt e dell’idealismo soggettivo estetico di Shelling) e riscoperto nello spirito «dionisiaco» di Nietzsche trova le sue più illustri origini.Fu nel ’68 che l’ideologia dei verdi iniziò a prendere piede come «movimento rivolu-zionario» e antisistema (scaduto talvolta anche in atteggiamenti «fondamentalisti») di matrice anti-americana e anti-capitalista.Successivamente i verdi hanno costituito l’«avanguardia» del federalismo europeo per poi affermarsi come nuovo e importante movimento politico-ecologico in tutto il mondo (LIVORSI).

246Z Capitolo16

Oggi la «questione ambientale», che mette a nudo tutti i rischi irreversibili di una disordinata espansione industriale senza precedenti, resta ineludibilmente aperta ed è all’ordine del giorno in tutte le «agende» di produzione e sviluppo dei singoli Stati e delle organizzazioni internazionali, essendo divenuta oggetto sia della «mentalità collettiva del mondo» che dei «programmi politici» dei Paesi che vogliono salvare il pianeta da una sicura e irreversibile catastrofe ambientale.