Capitalismo senza lavoro - Sociologia

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Capitalismo senza lavoro

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L’organizzazione mondiale del lavoro consente alle imprese transnazioneali di fare profitti risparmiando sui costi. Muovendosi adeguatamente nello scenario transnazionale si può risparmiare: è sufficiente portare le sedi dove il lavoro costa meno e lo Stato è meno esoso.

La tendenza capitalistica al profitto si è legittimata in quanto portatrice di benessere diffuso. L’impresa che fa profitti crea occupazione e finanzia lo Stato, due cose che concorrono al benessere.

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Ulrich Beck affronta la questione di un possibile capitalismo senza lavoro nel suo libro "Che cos’è la globalizzazione - Rischi e prospettive della società planetaria" (Beck 1997).

La globalizzazione spacca la popolazione mondiale tra:

ricchi globalizzati, che superano lo spazio e non hanno tempo

poveri localizzati, che sono incatenati al loro posto e devono ammazzare il tempo, con il quale non sanno che fare

Tra questi vincenti e questi perdenti della globalizzazione non esisterà in futuro né unità, né dipendenza e quindi cessa la secolare dialettica servo-padrone ed il conseguente vincolo di solidarietà verso i poveri.

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Due critiche sono possibili alla tesi di Bauman:

non si può escludere a priori la formazione di una “solidarietà cosmopolitica”, magari con meno forza rispetto alla secolare solidarietà europea, ma pur sempre attivabile;

non si può neanche affermare con sicurezza che la produzione culturale di “vite possibili”, la quale comprende ricchi e poveri, permetta di escludere interi gruppi.

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Bauman quindi esclude un possibile punto di contatto tra ricchi e poveri globali e questo ci porta alla domanda essenziale:

Si arriverà ad un capitalismo senza lavoro?

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Tutto sembra profetizzarlo. La produttività cresce in maniera tale da fare sempre più a meno di lavoro. Per mantenere gli attuali livelli occupazionali le imprese devono espandersi. Il capitalismo si sbarazza del lavoro, la disoccupazione ormai riguarda tutti ed annienta la democrazia come forma di vita.

Il rimedio della flessibilità del lavoro salariato, ha solo nascosto e ritardato la verità: la disoccupazione cresce. E non solo essa, cresce anche la nuova opacità del lavoro a tempo parziale e le forme non assicurate di lavoro, nonché il lavoro irregolare

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Si va verso una società in cui poche persone, dotate di grande professionalità, guadagneranno altissimi stipendi, a dispetto della spiccata tendenza generale alla riduzione dei posti di lavoro ed alla conseguente povertà globale, che accentuerà ulteriormente la piramide della ridistribuzione della ricchezza tra ricchi e poveri.

Un altro aspetto consequenziale è altrettanto degno di nota. Si rompe in questo modo la secolare alleanza tra capitalismo, Stato sociale e democrazia. La democrazia è sempre stata una democrazia del lavoro, perché solo chi ha un posto sicuro ed una casa gode dei diritti civili e politici. I cittadini privi di lavoro smettono di rendere la democrazia viva e forte, mettendola in balia di nuovi e vecchi regimi totalitari.

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Un paradiso fiscale è uno Stato che garantisce un prelievo in termini di tasse basso o addirittura nullo che rende conveniente stabilire in questi Paesi la sede di un'impresa (come ad esempio le società offshore), oppure regole particolarmente rigide sul segreto bancario, che consentono di compiere transazioni coperte.

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Il paradiso fiscale fa gola sia alle aziende multinazionali e di più modeste dimensioni con lo scopo di pagare il minor numero d'imposte, sia a organizzazioni criminali.

Gli Stati si trovano di fronte al costante dilemma della repressione dei paradisi fiscali. Le cifre in gioco sono enormi. La loro totale eliminazione porterebbe non soltanto un danno alle organizzazioni criminali ma anche alle imprese che svolgono attività perfettamente legali. Numerose imprese dovrebbero pagare più tasse e la minore disponibilità di capitali sicuramente inciderebbe sullo sviluppo economico, non solo dell'impresa stessa, ma dello stato in cui opera.