Capitalismo Molecolare

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Il capitalismo molecolare Luigi Grosso

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Corso di economia aziendale ed organizzazione aziendale Prof. Pierluigi Rippa

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Il capitalismo molecolare

Luigi Grosso

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CONOSCERE L’IMPRESA Ciclo di seminari 2014

Corso di economia aziendale ed organizzazione aziendale Prof. Pierluigi Rippa

Ciclo di seminari finalizzato a sensibilizzare gli studenti universitari ad avvicinarsi al mondo del lavoro

L’organizzazione di un cantiere: caratteristiche e peculiarità gestionali

31/03/2014

Le risorse e le competenze organizzative nella strategia aziendale

14/04/2014

Dal capitalismo molecolare alla learning organization 05/05/2014

CONOSCERE L’IMPRESA 2014 2

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Le discriminanti dello sviluppo italiano

La competitività dello sviluppo italiano è stata fino ad oggi garantita principalmente da tre fattori socio culturali, da tre discriminanti dello sviluppo:

•  da una diffusissima cultura dell’autoimprenditorialità, dal coinvolgimento di milioni di

piccoli e piccolissimi imprenditori (artigiani o terziari, emersi o sommersi, di nicchia avanzata o di copertura di comparti tradizionali);

•  dalla forza dei localismi produttivi e dei distretti industriali il cui vero motore è stata la coesione sociale, l’ identità che queste realtà hanno saputo, magari in modo un po’ campanilistico, esprimere;

•  ed infine da una fortissima capacità di fare concertazione e coalizione tra le parti

(imprese, sindaci, banca locale, associazioni di categoria, camere di commercio, centri servizi).

Sono queste le risorse che ha portato a descrivere il capitalismo italiano come un capitalismo molecolare, un capitalismo di piccole imprese in rete tra di loro, territorialmente e socialmente diffuso, con modello distrettuale. specialmente in certe aree del Paese:

•  nel nord Italia lungo tutto l’asse pedemontano che passa da Biella, Varese, Como,

Lecco, Bergamo, Brescia fino al Vicentino e alla Marca Trevigiana:

•  lungo l’asse della via Emilia per proseguire lungo la dorsale adriatica;

•  al sud con una distribuzione dei distretti produttivi a macchia di leopardo.

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10 Gruppi multinazionali ( Fiat; Ferrovie Stato S.p.a; Telecom; ecc)

4.000 medie imprese ( Ferrero; Brembo;

Squinzi; Marcegaglia; ecc)

4.225.950 di Piccole Medie Imprese CAPITALISMO MOLECOLARE

( comprese le artigiane) * L’ITALIA è la seconda nazione in EUROPA, dopo la Germania per numero di imprese manifatturiere Abbigliamento Automazione meccanica Arredo casa Alimentare Agroindustriale Ittico Altro

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L'anomalia del modello italiano nello scenario internazionale Il nostro modello di sviluppo rappresenta una anomalia anche nello stesso contesto Europeo, dove contrariamente a quanto solitamente si pensa, convivono diversi modelli di capitalismo:

✔ un capitalismo anglosassone - City di Londra, fondamentalmente finanziario; ✔ un capitalismo tedesco (renano) - grandi banche, grandi imprese e grande sindacato; ✔ un capitalismo anseatico, tra Fiandre, Svezia e Finlandia, grande innovazione tecnologica, grandi investimenti, grandi reti e anche grande qualità della vita; ✔ un capitalismo francese, basato sulla centralità dello Stato; ✔ il nuovo capitalismo dei paesi dell' Est ex comunisti parte dell'Unione Europea. La nostra economia nazionale non ha le basi per riprodurre i grandi modelli europei: non ha la grande industria, le grandi banche, i grandi apparati militari che supportano la ricerca di base.

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Il capitalismo dei piccoli: definizione di microimprese, piccole e medie imprese

MICROIMPRESA: Dipendenti: meno di 10 Fatturato annuale: inferiore o pari a 2 milioni di Euro Totale di bilancio: inferiore o pari a 2 milioni di Euro PICCOLA IMPRESA Dipendenti: tra 10 e 49 Fatturato annuale: minore o pari a 10 milioni di Euro Totale di bilancio: 10 milioni MEDIA IMPRESA Dipendenti: compresi tra 50 e 249 Fatturato annuale: minore o pari a 50 milioni di Euro Totale di bilancio: max 43 milioni di Euro

Con decisione dell’8 maggio 2003, la Commissione Europea ha adottato una nuova definizione di imprese di dimensioni ridottissime (microimprese) e piccole e medie (PMI): decisione utilizzata dal 1° gennaio 2005

In Italia MICRO + PICCOLE + MEDIE =

99,7% delle imprese

78% degli addetti

68% del valore aggiunto

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93%

6%0,20%

1%

Micro Piccole Medie Grandi

DISTRIBUZIONE DELLE IMPRESE FRA CATEGORIE

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30% 39%

17%

13%

Micro Piccole Medie Grandi

OCCUPAZIONE NELLE IMPRESE FRA CATEGORIE

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Imprese per numero di addetti (v.a.; incidenza% delle microimprese; differenze con la media nazionale) – dati regionali

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SVILUPPO DELL’OCCUPAZIONE

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Piccolo è un dato di fatto

•  Nate con la ricostruzione post bellica hanno raggiunto il massimo sviluppo a

cavallo degli anni 70. Sino agli anni ’80, la piccola dimensione di impresa, e in particolare l’alta diffusione di imprese artigiane, sono state considerate, dagli economisti, dalle istituzioni, come residui di un economia tradizionale, destinate con il tempo a scomparire di fronte allo sviluppo della grande impresa fordista.

•  Per tutti questi anni si è in sostanza pensato che la quota delle imprese artigiane sul totale delle imprese fosse un indice di ritardo dell’economia di una nazione.

•  Tutte le politiche istituzionali, volte a promuovere lo sviluppo economico,

erano indirizzate alla grande dimensione di impresa: lo sviluppo dei centri industriali del Nord, i tentativi della ex Cassa del Mezzogiorno di creare poli industriali al Sud, lo sviluppo delle grandi infrastrutture, tutto il sistema di welfare e di protezione sociale incentrato sul lavoro dipendente, normato e garantito (la cassa integrazione, il sistema previdenziale, ecc.).

•  Ancora oggi gran parte della normativa previdenziale e di regolazione della attività di impresa è di stampo fordista, pensata cioè per la grande impresa (normative sul lavoro, sulla sicurezza, sulla fiscalità, ecc.).

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L’autoimprenditorialità come valore sociale

•  In Italia la piccola dimensione di impresa non identifica una categoria particolare, ma una condizione tipica del produrre, del lavorare, del vivere. Una condizione, cioè, che riguarda la maggior parte delle persone che sono, a vario titolo, coinvolte in attività produttive.

•  La maggior parte di queste imprese, piccole o grandi che siano, hanno dietro una famiglia. Se ne deduce che circa venti milioni di persone vivono del “fare impresa”.

•  Questi dati ci dicono che le imprese sono un grande laboratorio di

integrazione, appartenenza e mobilità sociale. A tale proposito basterebbe citare i crescenti numeri di imprese dirette da donne o avviate da immigrati extracomunitari.

•  Il “fare impresa” è un bacino di importanti virtù civiche che non creano solo ricchezza, ma anche valori socialmente condivisi.

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Solo a partire dagli anni ’80, la piccola dimensione d’impresa ha cessato di rappresentare, nell’immaginario collettivo, il residuo di modi di pre-moderni di produrre e di competere. E questo è dovuto: ü  da un lato alla crisi del modello fordista fondato sulla grande dimensione d’impresa;

ü  dall’altro all’inaspettato successo competitivo della piccola dimensione di impresa che, con la crescita delle economie distrettuali, le forti percentuali di esportazione, la qualità delle produzioni del made in Italy, hanno saputo conquistarsi il ruolo di asse portante dell’economia italiana. I fattori che hanno dato competitiva alla piccola dimensione di impresa sono stati diversi: ✔  vi è senz’altro il coraggio e l’intelligenza imprenditoriale dei soggetti

✔  vi sono i vantaggi della flessibilità consentita dalla piccola dimensione, che con la crisi del fordismo hanno assunto una nuova centralità ✔  vi è poi la capacità di avere creato appartenenze economiche, nel senso che l’artigiano, il piccolo imprenditore, da sempre, ha imparato a sentirsi parte di un sistema più vasto: passando dalle corporazioni di mestiere, alle associazioni di rappresentanza, alle filiere di subfornitura, ai distretti industriali.

I fattori di successo del modello della piccola impresa

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Fordismo - Postfordismo anni ‘70

•  Capitalismo delle piramidi

•  P r o d u z i o n e c o n c e n t r a t a d i m e r c i standardizzate all’interno di una struttura tayolrizzata

•  Produzione di massa di beni omogenei;

•  Uniformità e standardizzazione;

•  Garanti scorte di riserva e magazzino;

•  Test della qualità eseguito ex-post;

•  Produzione guidata dall’offerta;

•  La conoscenza è solida e si accumula nel perimetro proprietario

•  Capitalismo delle reti

•  Decentramento e flessibilizzazione del processo produttivo;

•  Produzione in piccola serie;

•  Produzione flessibile e in piccola serie

•  Just in time, nessuna scorta;

•  Parte integrante del processo produttivo;

•  Produzione guidata dalla domanda;

•  La conoscenza è liquida e si propaga tra i nodi della rete

Con il termine postfordismo, si può denominare la transizione da un sistema socio-economico caratterizzato dal lavoro dipendente svolto in grandi strutture organizzative (industrie, banche, pubblica amministrazione), ad un sistema socio-economico segnato dal dal primato del lavoro indipendente e/o svolto in piccole strutture organizzative (nella piccola impresa come nel sommerso, nell’artigianato come nel terziario avanzato),

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La capacità di fare rete

Tre sono i modelli di impresa a rete emergenti negli anni ‘80

•  la catena di subfornitura, organizzata dalla grande impresa che progetta i nuovi prodotti, li produce solo in parte (secondo logiche di just in time) e cura la commercializzazione e l’export (modello giapponese)

•  il distretto industriale, che emerge attraverso l’addensarsi di molte filiere fornitore-cliente nello stesso territorio, in modo da usare le economie di prossimità e quelle della specializzazione territoriale in un certo settore (modello italiano)

•  l’impresa estesa (extended enterprise), che risulta dallo “snellimento” della grande impresa attraverso operazioni di focalizzazione su un core business e di outsourcing verso fornitori esterni (modello americano)

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L’economia del distretto industriale: le molecole fanno condensa

Nel distretto industriale le imprese hanno imparato a: •  lavorare a rete, collegando fornitori e clienti di piccola scala, grazie ai legami e alle

esperienze comuni. Le piccole imprese sono riuscite ad operare in modo moderno e competitivo perché

hanno trovato il modo di partecipare a reti più grandi, evitando di rimanere isolate. Nei fatti è stata l’organizzazione distrettuale, a consentire alle imprese artigiane di raggiungere gli altissimi livelli di specializzazione su determinati segmenti di produzione.

Una piccola impresa che produceva in un distretto ceramico o del mobile riusciva a specializzarsi in modo spinto in un prodotto o in un servizio, proprio perché i volumi di produzione su cui poteva contare, erano quelli dell’intero distretto.

Se avesse operato fuori dal distretto la minore densità dei possibili clienti avrebbe ridotto di molto le sue possibilità di specializzarsi.

•  utilizzare l’ambiente locale come fonte di conoscenza, di lavoro qualificato, di servizi specializzati, di cultura imprenditoriale, di capitale sociale.

L’efficienza di un territorio, delle sue infrastrutture, dei suoi servizi, delle sue stesse

relazioni sociali (la fiducia tra gli attori, le competenze disponibili a livello locale), nei sistemi distrettuali è diventato un importantissimo fattore di produzione, alla stessa stregua del capitale e del lavoro.

Il territorio è l’ambiente strategico dove l’impresa selezione le risorse che le servono per competere sia interne che esterne al ciclo produttivo.

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Al di fuori dei cancelli delle imprese entrano in gioco i fattori territoriali della competitività: La coesione dell’ambiente sociale: condivisione di valori (lavoro, famiglia,risparmio), scarsa conflittualità sociale, professionalità lavoratori diffusa nel sistema locale, mobilità sociale, attitudine al rischio, ecc. L’efficienza delle reti infrastrutturali locali che collegano i diversi segmenti di quella che è una filiera produttiva territorializzata in cui si produce just in time e dove spesso le infrastrutture stradali possono essere considerate le linee di montaggio dei prodotti. L’efficienza della logistica (porti, interporti, aeroporti, fiere) tutti quegli snodi che collegano il territorio locale alle reti internazionali ormai globalizzate. Tema questo caldissimo dove ogni territorio vuole la propria fiera ed il proprio aeroporto, quelle autonomie funzionali che servono per collegare il locale con il globale. L’efficienza del sistema finanziario, che deve essere capace di accompagnare il processo di finanziarizzazione delle imprese: dalle nuove forme del credito, all’accompagnamento sui mercati borsistici: da Basilea 2 al project financing per realizzare le infrastrutture necessarie al territorio. L’efficienza dei sistemi che producono i saperi. Scuole professionali, università, laboratori di prove e certificazione, terziario locale in grado di fornire tutte quelle funzioni (ricerca, design,marketing, ecc.) che le aziende di piccole dimensioni devono necessariamente, acquisire all’esterno. Infine, l’efficienza della pubblica amministrazione, sia intesa come macchina amministrativo burocratica, per tutto ciò che concerne i permessi, le autorizzazioni, le normative, i vincoli ambientali, gli incentivi, le aree attrezzate, ma anche per ciò che concerne strategie di accompagnamento dei sistemi produttivi locali sui mercati internazionali.

I fattori territoriali della competitività

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Gli attori del distretto : Gli imprenditori “mediocri”

Solitamente quando si parla dello sviluppo di microimpresa, dei distretti, si parla sempre di uno sviluppo spontaneo, non governato, perfino caotico e disordinato. In parte è vero, in particolare se pensiamo alla distesa di capannoni nel nord est.

Ma se ben guardiamo, è anche vero lo sviluppo dei nostri sistemi produttivi locali è stato

supportato, e per certi versi governato, da una sorta di patto informale che vedeva il ruolo fondamentale di 4 o 5 attori del territorio:

La regola delle 3 C

•  Campanile ….il Parroco

•  Comune ….il Sindaco

•  Capitale…..la Banca

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La globalizzazione è la fine del modello distrettuale?

Questa la situazione fino a poco tempo fa, fino a quando si è cominciato a parlare di globalizzazione. Globalizzazione che nei fatti ha evidenziato tutti i limiti delle varie forme di capitalismo che il nostro Paese ha saputo esprimere (o non ha saputo esprimere compiutamente): ✔  da una parte, la crisi della grande impresa, che non ha saputo affrontare la lunga deriva del modello fordista strutturandosi in modo da competere sul piano multinazionale. ✔  dall’altra, la crisi del nostro “capitalismo molecolare”, che oggi è terrorizzato dai “cinesi”, ma anche dalle regole che arrivano dalla globalizzazione come “Basilea 2” e che oggi è accusato di “nanismo” e di incapacità di affrontare l’innovazione e l’apertura dei mercati.

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La crisi del modello del capitalismo molecolare

Nel dibattito sulle prospettive del sistema economico italiano prevale oggi una visione “declinista” che sottolinea le debolezze strutturali del nostro capitalismo di territorio, fondato sui distretti industriali e la piccola dimensione di impresa. Tra i principali fattori di debolezza del nostro sistema produttivo, sono citati: ü  il nanismo imprenditoriale e la mancanza grandi gruppi industriali capaci di

competere a livello internazionale; ü  la specializzazione manifatturiera nei settori tradizionali tipici del made in

italy, che sono ad alta intensità di manodopera e quindi vulnerabili rispetto alla concorrenza asiatica;

ü  la mancanza di innovazione dovuta alla carenza di investimenti in ricerca e

sviluppo nelle imprese; ü  i ritardi nel processo di internazionalizzazione delle imprese; ü  l’inefficienza del sistema Paese (burocrazia, carenze infrastrutturali, alti

costi energetici, livelli di tassazione, super Euro, ecc.)

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Dal locale al globale

Nell’evoluzione delle analisi degli ultimi anni si sono introdotte alcune

sensibili modificazioni nell’apparato concettuale tipico dei distretti e dei sistemi locali:

•  la categoria della gerarchizzazione con la nascita ed il

consolidamento delle imprese leaders

•  la categoria delle “reti lunghe”, la cosiddetta deterritorializzazione del distretto

•  la definizione e individuazione dei “metadistretti”, nei quali si inserisce come fattore distintivo non solo la produzione manifatturiera, ma soprattutto la produzione di conoscenza.

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Le tre sfide

La sfida delle reti: la piccola dimensione non è necessariamente in limite, anzi può essere un vantaggio (flessibilità). Alla piccola dimensione si può far fronte lavorando in filiera (anche in reti di livello sovranazionale)

La sfida della materializzazione: anche la natura tradizionale dei settori tipici delle produzioni distrettuali non è necessariamente un limite, si può rimediare con la creazione di significati, esperienze, identità e attenzione che valorizzano e innovano il prodotto (moda, design, stili di vita, servizi al cliente, flessibilità). La manifattura standard ha margini decrescenti (la fanno già i cinesi). Oggi bisogna vendere idee e mettere le produzioni al loro seguito.

L’esaurimento delle risorse locali (gratuite): il vero limite dei nostri sistemi di piccola impresa è che sono cresciuti per propagazione utilizzando (gratuitamente) il capitale sociale (intellettuale relazionale) dei territori (oggi questo non basta più)

IL VERO LIMITE E’ LA PROPAGAZIONE SENZA INVESTIMENTO

•  scarso investimento in capitale intellettuale •  scarso investimento in capitale relazionale

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Come stanno reagendo i distretti alla globalizzazione?

•  Qualche distretto “collassa” •  Qualcuno cerca di replicare le relazioni in altre aree geografiche (Veneto e Romania) •  Le imprese leader investono fortemente in altri paesi o si concentrano sull’outsourcing. •  Qualche distretto può trarre vantaggi dalla apertura di nuovi mercati. •  Nei fatti non esiste una crisi del modello distrettuale in quanto tale. Esiste una situazione di

obbiettiva difficoltà di alcuni settori tradizionali e ad alta densità di manodopera (come può essere il tessile calzaturiero) che sono particolarmente esposti alla concorrenza asimmetrica asiatica.

•  Il modello distrettuale in tanti altri settori continua a funzionare discretamente, non solo per le sinergie tra le imprese delle filiere ma anche, come “incubatore” di aziende leader capaci di conquistare un ruolo di leadership sui mercati internazionali.

•  I dati della fondazione Edison sui distretti industriali segnalavano una alta tenuta nell'internazionalizzazione a prescindere dalla specializzazioni produttive. Se guardiamo al territorio ci accorgiamo che le crisi e le eccellenze tagliano in orizzontale il tessuto produttivo.

•  Ci sono imprese nei settori del calzaturiero, del mobile, del tessile che l'hanno fatta che competono brillantemente sui mercati internazionali e altre che sono lì ferme e immobili sul territorio alla ricerca di un mercato domestico che non c'è più.

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Lo Scenario: l’evoluzione dei sistemi produttivi locali

A ben guardare, in questi ultimi anni le economie locali di piccola e media impresa,hanno subito parecchie trasformazioni e anche parecchi traumi. Banalizzando, si può dire che, all’interno dei sistemi produttivi locali, è avvenuto un processo di esplosione e selezione, che si è manifestato in diversi modi: ✔ c’è stata un’emersione di molte medie imprese che partendo dai distretti e dai sistemi produttivi

locali si sono internazionalizzate, globalizzate, sono diventate le cosiddette “multinazionali tascabili”, che vanno per il mondo, pur mantenendo un radicamento locale (la tana del lupo);

✔ c’è stata una fortissima selezione delle imprese di subfornitura su criteri di qualità (selezione

che ha colpito, in particolare, le imprese artigiane); le piccole imprese di subfornitura si sono dovute adeguare ad una domanda dei loro committenti che si è fatta sempre più complessa:

✔ c’è stata la creazione di relazioni produttive che non sono più circoscritte nell’ambito territoriale

locale o di distretto, ma ormai sono distribuite a livello planetario; ✔ c’è stata una differenziazione dei prodotti e dei servizi offerti in funzione delle nuove domande

di mercato (sempre meno i distretti si identificano con un singolo prodotto, c’è stato un duplice processo di differenziazione e specializzazione delle produzioni su nicchie ad elevata sostenibilità economica);

✔ c’è stata poi un’apertura in entrata attraverso gli investimenti realizzati da imprese esterne e

gruppi multinazionali. Spesso i distretti sono diventati territori dove le multinazionali vengono a fare shopping di imprese.

Nei nostri sistemi locali si è venuta a disegnare una nuova e più complessa divisione del lavoro e

del rischio tra l’impresa ed il territorio.

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La globalizzazione e l’economia dei flussi hanno ridisegnato la stessa struttura dei sistemi produttivi, che non è più interpretabile attraverso le categorie della committenza e della subfornitura. Nei nostri distretti oggi troviamo una maggiore complessità di attori economici: ✔ poche grandi imprese globali, le transnazionali;

✔ tante medie imprese che fanno investimenti diretti all’estero;

✔ una moltitudine di medie e piccole imprese che fanno export; ✔ imprese virtuali, anche artigiane, che fanno il general contractor;

✔ microimprese subfornitrici che operano anche su reti internazionali

✔ microimprese e le tante forme lavoro autonomo che operano nel ciclo dei servizi e della

consulenza. La catena di produzione del valore è diventata quindi più complessa e si è allargata sul territorio. E’ diventata una ragnatela di produzione del valore, che in ogni contesto va analizzata ed interpretata perchè ogni contesto locale ha le sue specificità. Ma vediamo l’aspetto che più ci interessa, i processi evolutivi del capitalismo molecolare, cosa avviene nelle nostre economie locali. La globalizzazione, ha modificato il ruolo degli attori che fino ad oggi sono stati i protagonisti dello sviluppo distrettuale.

La ragnatela di produzione del valore

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1. L’emersione delle imprese leader ed il “capitalismo a grappolo”

Gli imprenditori mediocri non sono più tali, chi ce l’ha fatta è cresciuto ed ora è una media impresa aperta alla competizione sui mercati internazionali, ben oltre quindi lo spazio del distretto o del mercato locale. Sono questi imprenditori che hanno fatto esplodere il distretto verso l’alto, facendo globalizzazione a medio e lungo raggio, ampliando la rete delle relazioni produttive al di fuori del contesto locale. Qui troviamo le tante imprese leader emerse dai nostri distretti che oggi vanno per il mondo, (multinazionali tascabili come le chiama Merloni) pur mantenendo un radicamento locale: Luxottica, Della Valle, Brembo, Geox, ecc. L’elenco è fortunatamente lungo, nel rapporto annuale di Mediobanca- Unioncamere si contano 3.925 medie imprese italiane che vanno per il Mondo pur mantenendo un forte radicamento nei distretti e nei settori storici del capitalismo manifatturiero italiano Una recente ricerca della fondazione Edison descrive il capitalismo italiano come un “capitalismo a grappolo” 3.925 medie imprese globalizzate che attraverso le reti di subfornitura aggregano 140.000 piccole imprese. Medie imprese che acquistano fuori dalle mura, (cioè dai piccoli), l'81% dei prodotti e dei servizi di cui ha bisogno.

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Le medie imprese che si globalizzano

D u e m i l a d i q u e s t e i m p r e s e s i concentrano in 11 province da Torino a Vicenza, passando per Milano, Brescia, Bergamo, lungo la Via Emilia arrivando sino alla dorsale adriatica.

Secondo i dati Mediobanca, ogni media

impresa è servita mediamente da 244 fornitori che altro non sono che quelle piccole imprese e quel pulviscolo di art igianato che agganciandosi alle filiere produttive alimentano i distretti e le piattaforme produttive del made in Italy.

Se per produrre è centrale il radicamento

territoriale, (tenendo insieme sul territorio la subfornitura di qualità e l’economia dei serv iz i ) , per commercializzare si va nel mondo: l’87% delle medie imprese ha clienti nei mercati esteri. I mercati di sbocco sono principalmente quelli dell’Unione Europea a 25 con particolare primazia del mercato tedesco e della nuova Europa ad Est.

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Il riposizionamento competitivo della media impresa

Schematizzando, si può dire che queste medie imprese leader hanno adottato, in materia di subfornitura, una strategia selettiva che opera a tre livelli (non necessariamente alternativi):

•  il primo corrisponde all’orientamento a de-localizzare alcune fasi della

filiera produttiva, (hanno trovato i subfornitori in Cina o in Romania) a dimostrare che sono aumentati i gradi di libertà dei committenti nella scelta della localizzazione dei subfornitori;

•  il secondo livello si riferisce alla re-internalizzazione di alcune fasi del ciclo produttivo, come emerge dalle strategie di integrazione verticale messe in atto da alcune imprese-leader, in particolare attraverso la creazione di gruppi di impresa (comprano i loro subfornitori)

•  il terzo livello investe la qualità delle relazioni con i subfornitori: l'impresa che presidia il mercato finale è portata a selezionare e riqualificare la rete dei subfornitori cui fa ricorso, a promuoverne le competenze e la capacità di partecipare attivamente ai progetti innovativi, a sviluppare rapporti collaborativi stabili e di qualità. Oggi la subfornitura non è più “mordi e fuggi” (gratuita) si investe in capitale intellettuale e relazionale.

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Le strategie di riposizionamento competitivo delle imprese di subfornitura

L’alleanza tra imprese consente alle imprese di subfornitura di adottare strategie di riposizionamento competitivo (non necessariamente alternative):

•  Condividere la strategia del committente che sta costruendo la propria catena transnazionale del valore e che ha bisogno di alleati, proprio per superare lo start-up iniziale.

•  Ridefinire il proprio ruolo all’interno del sistema di subfornitura: –  La specializzazione/internazionalizzazione della subfornitura (il

subfornitore globale) –  L’assunzione del ruolo di subfornitore-guida (il piccolo leader di filiera)

•  Integrarsi a valle, magari avvalendosi per le forniture degli altri terzisti locali, e interfacciarsi direttamente con il mercato: –  Strategie su mercati di nicchia –  Terziarizzazione commerciale (converter – impresa virtuale) –  Cooperazione orizzontale (consorzi di vendita, commercializzazione,

innovazione ecc.)

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L’innovazione nella piccola impresa

Non è del tutto vero che nella piccola impresa non c’è innovazione. Oggi gran parte del tempo di lavoro di un piccolo imprenditore (anche artigiano) è dedicato a gestire e rafforzare quelli che sono i fattori immateriali di produzione: l’organizzazione, la finanza, la commercializzazione, la logistica, la sicurezza, l’ambiente, la progettazione, i marchi, la certificazione, l’immagine,la comunicazione.

Sempre più la microimpresa è impegnata ad acquisire e produrre linguaggi complessi

e sempre più tali linguaggi rappresentano le discriminanti per il successo della sua attività.

Le piccole imprese di oggi fanno già integralmente parte dell’economia moderna e

globalizzata. E questa modernità nel tessuto delle nostre microimprese la troviamo: •  nel riferimento a mercati e a reti di produzione sempre più ampi, non più solo di

dimensione locale; •  nell’uso di risorse tecnologiche, organizzative, gestionali sempre più complesse; •  nella crescente formalizzazione delle relazioni produttive e dei relativi codici di

scambio; •  nella progressiva smaterializzazione delle produzioni e nell’integrazione con i sevizi.

Quando la rete produttiva comincia ad essere una rete di processo estesa, magari a livello internazionale, c’è bisogno di sviluppare connettori artificiali che rendano efficace la comunicazione tra imprese, tra i diversi segmenti della produzione, e questo ha costretto molte imprese artigiane a sviluppare linguaggi, codici, competenze, che diventano parte preponderante della produzione.

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La capacità di fare produzioni complesse

Il potenziale innovativo del sistema produttivo italiano di piccola impresa non è nell’innovazione tecnologica in senso stretto, ma piuttosto nelle capacità di fare produzioni complesse che hanno un elevato grado di originalità perché si sviluppano in modo differente, in funzione del contesto sociale, culturale, territoriale.

Produzioni complesse che si fondano sull’utilizzo: •  di conoscenze applicative, cioè la capacità di interpretare I bisogni del

mercato e proporre soluzioni origianali; •  di conoscenze organizzative, cioè la capacità flessibilità e adattabilità ai

mercati •  di conoscenze connettive, cioè la capacità di muoversi in filiere, distretti,

reti di cooperazione, di pescare le competenze dove ci sono, quando servono, di sviluppare reti di collaborazione a “geometria variabile” che si creano e si disfano in funzione delle domande e degli andamenti dei mercati.

Non è la tecnologia che disegna la scena in cui si sviluppano le conoscenze

applicative, organizzative, connettive, ma è vero, semmai, il contrario: sono queste ultime a dare forma alle strategie aziendali e a chiamare in causa l’innovazione tecnologica ogni volta che serve e nella misura in cui serve.

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Internazionalizzazione

•  Lo stesso tema dell’internazionalizzazione, non è più solo un problema di accompagnare le imprese all’estero, un problema di esportazione, o di IDE; è un problema di territorio.

•  Anche l’artigiano che non esporta o che non fa investimenti all’estero, viene

condizionato nei suoi prodotti, nei suoi metodi di produzione, nei suoi prezzi, dai competitori internazionali.

•  Q u e l l e c h e u n a v o l t a e r a n o l e p o l i t i c h e a s o s t e g n o dell’internazionalizzazione, devono oggi diventare politiche a sostegno della competitività transnazionale di un intero territorio: questo perché ormai non è più possibile fare una distinzione tra mercato esterno e mercato domestico.

•  L'economia dei flussi ha senso in quanto connette le economie dei luoghi. A mutare è il ruolo economico del territorio e la sua capacità attrattiva nel senso che l ’economia dei flussi premia le differenze, e dunque le varietà locali, che sono in grado di portare un valore aggiunto alle reti globali. Quello che conta nella nuova economia è l’offerta che il territorio è in grado di proporre in termini di conoscenze, reti, e qualità ambientale.

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LA GLOBALIZZAZIONE NON RAPPRESENTA LA FINE DELLO SVILUPPO LOCALE

Per stare nella globalizzazione è vero che le imprese devono imparare ad usare i nuovi codici di comunicazione, devono certificarsi, collegarsi ad internet, sapere l’inglese, ma è altrettanto vero che i territori: ✔ devono avere la capacità di dotarsi di competenze distintive difficilmente banalizzabili e riproducibili capaci di produrre valore aggiunto nelle reti globali; ✔ devono avere la capacità di dotarsi di tutti quei nodi che oggi sono necessari per connettere il locale con il globale. In sostanza, se nei distretti il rapporto tra imprese e territorio è stato in passato un rapporto di identificazione (il territorio, veniva identificato sulla base del tipo di produzione: il distretto delle scarpe, il distretto delle cucine, ecc) oggi il rapporto tra imprese e territorio è sempre più un rapporto di scambio. Le imprese rimangono insediate su un territorio, o fanno nuovi investimenti su un territorio, se trovano convenienti i servizi offerti e le conoscenze accessibili attraverso il contesto locale, chiaramente: ✔ i servizi e le competenze devono avere un carattere distintivo, se i servizi sono standardizzati e le conoscenze codificate tutti i nodi della rete globale sono potenzialmente equivalenti, per cui si previlegiano i nodi a minor costo del lavoro;

✔ servizi e competenze significa anche qualità della vita e clima culturale quindi infrastrutture, istruzione, ricerca, tranquillità sociale, qualità ambientale, adeguati servizi di carattere metropolitano;

✔ fondamentale è poi la dotazione di autonomie funzionali in grado di connettere il locale con il globale: aereoporti, poli fieristici, interporti, autostrade, i nodi della logistica, Università e istituzioni sovralocali in grado di dialogare con l’Europa e il mondo,

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Chiaramente se l’analisi della catena del valore disegna una realtà ormai in buona parte deterritorializzata, ciò che rimane a dare identità territoriale al sistema è ancora una volta il ruolo strategico assunto dal soggetto pubblico, dal sistema delle rappresentanze, dalle autonomie funzionali.. Sono ancora questi i soggetti che hanno il compito di ricostruire dal basso i fattori contestuali del vantaggio competitivo. La definizione delle nuove strategie distrettuali si gioca sul ruolo di questi attori, un ruolo che come abbiamo visto nei nostri distretti già esiste, ma che va modernizzato e che si basa: ✔ sulla loro capacità di interpretare le trasformazioni nel tessuto produttivo, non tutti i territori hanno lo stesso posizionamento rispetto all’economia dei flussi. ✔ sulla loro capacità di porsi in un rinnovato quadro negoziale, imparando a negoziare ad esempio con i big players (la grande banca, la grande fiera, la grande multiutilies dei servizi, i grandi progetti di infrastrutture, l'università, le agenzie di brevetto, ecc.) ✔ sulla loro capacità di creare connessioni che oggi sono principalmente di carattere extralocale. Il territorio non è più solo un luogo ove si fa società locale, ma anche uno spazio ove la nuova economia compete per controllare l’ultimo chilometro tra il locale e il globale offrendo merci e servizi sempre più personalizzati. Abbiamo appena imparato a fare rete corta di territorio (patto di distretto, patto territoriale) ora dobbiamo imparare ad accompagnare il territorio nel suo fare lunga di globalizzazione.

Chi è che garantisce le dotazioni ambientali che rendono competitivo il territorio?

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Grazie per l’attenzione